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CAPITOLO 8

Le teorie criminologiche
8.1 Teoria delle aree criminali
Secondo questa teoria, è l’ambiente l’elemento fondamentale per la genesi di un comportamento
criminale; ed è da questa dimensione che risulta funzionale partire, iniziando, in termini operativi,
dall’indagine di determinate zone, nelle quali la percentuale di criminalità è superiore ed evidente,
ma, nonostante l’avvicendamento degli abitanti, rimane persistente: questi ambiti vengono
denominati aree criminali. Queste sono rappresentate, in massima parte, da quartieri degradati,
dove alta risulta essere la domanda di assistenza economica e sociale, e dove le dimore sono
eccezionalmente gremite, a detrimento, evidentemente, delle condizioni generali di salubrità,
nonché di igiene. Nelle aree in questione, è, inoltre, maggiore la presenza di minoranze etniche e
di soggetti emarginati dalla società. Chi abita queste aree ha poche possibilità e facoltà di scelta,
poiché l’unico modo di andare avanti è quello di adattarsi. Questi soggetti rappresentano per la
società un fattore degradante, ed è per tale motivo che vengono respinti dal mondo evoluto; la
società li ghettizza, negando qualsiasi forma di riscatto o risocializzazione; ed ecco, allora, che
l’unica forma di sostentamento, diventa l’attività criminale generalizzata, con il compimento di
fatti previsti dalla legge come reato, con particolare riferimento ai furti, o alle rapine.

Laddove risulti maggiore il processo di industrializzazione, e quindi il controllo istituzionale,


minore sarà la densità criminale.

Al contrario, in Paesi dove regna l’oppressione e le condizioni socio-economiche sono instabili, le


aree criminali assumono proporzioni smisurate e diventano ingovernabili; quando a tali fattori si
sommano odi razziali, scontento economico e mancato riconoscimento dell’autorità di governo,
prendono il sopravvento associazioni o bande criminali che dettano le loro leggi, spingendo, in
taluni casi, la popolazione ad azioni di guerriglia o a vere e proprie guerre.

8.2 Teoria della patologia sociale


Secondo questa teoria, la società risulta essere un insieme di parti tra loro integrate e in
equilibrio.
è Talcot Parsons, teorico di origine americana e appartenente al c.d. Strutturalismo a porre le
basi di uno studio più incisivo della società, rappresentando, inoltre, che la socializzazione è
strettamente legata al meccanismo di ruoli e di apprendimento.

Il ruolo viene inteso come un insieme di aspettative e di comportamento, legate a posizioni sociali
occupate da figure come i genitori, gli operatori amministrativi, e così via.

Parsons, vede la società, quindi, come un aggregato di ruoli, conferendone, poi, alle istituzioni la
metabolizzazione e l’apprendimento. I comportamenti devianti, secondo la visione del teorico
americano, altro non esprimerebbero se non una patologia di carattere sociale dovuta a una
deficienza di apprendimento dei ruoli. Se la devianza viene considerata come patologia
individuale, secondo Parsons, si è in presenza di patologie mentali, che tendono a distorcere la
percezione della realtà sociale, retta da un equilibrio. I critici hanno ritenuto questa teoria
apparentemente conservatrice, poiché mancante di un’analisi efficace, nonché permeata di
contraddizioni e conflitti. La teoria è da ritenersi, comunque, interessante poiché, sotto l’ottica dei
ruoli e delle conseguenti aspettative, è in grado di offrire singolari spunti di riflessione per ciò che
attiene la dimensione della strutturazione sociale.

Teoria dei conflitti culturali


Il punto di partenza di questa teoria è rintracciabile in quella che viene definita come perdita di
potere dei comuni sistemi di controllo sociale: quando un individuo si trova al centro di sistemi
culturali disuguali, è possibile che questi creino una sorta di instabilità del singolo, spingendolo a
una condotta deviante. Il problema riguarderebbe, pertanto, quella generale mancata
integrazione, da parte degli individui, causata dalla necessità di dover vivere in uno spazio sociale
connotato da valori e dinamiche ambientali estremamente differenti e, soventemente, in contrasto
con i propri; pertanto, questi soggetti percepiscono una crisi di valori etici che, un tempo, dava
loro la possibilità di potere mettere a punto, e regolare, la propria condotta. Il vivere secondo due
sistemi culturali diversi si tradurrebbe, per il soggetto, in una situazione di incertezza, di disagio,
di insicurezza, esponendolo a un serio rischio di disadattamento che può portarlo a
comportamenti criminali, che avranno la duplice funzione di estinguere entrambi i sistemi di
valori, rimpiazzandoli con la propria cultura di carattere deviante. Quando sarà la società a
rigettare e discriminare l’ospite estraneo, unitamente alla sua originaria cultura, allora, i conflitti
culturali, denominati secondari, diverranno particolarmente difficili.

Teoria delle associazioni differenziali


Secondo questa teoria, attraverso l’interazione con altri individui, e quindi, mediante il processo
comunicativo, verbale e non, è possibile, per Sutherland, apprendere il comportamento criminale. Il
meccanismo di apprendimento del crimine si attiva, in particolar modo, all’interno di un micro-
gruppo, connotato da relazioni interpersonali. Nelle associazioni differenziali, i normali mezzi di
comunicazione (mass-media), che non hanno la peculiarità di essere mezzi di relazioni
interpersonali, ma impersonali, sembrano, a tal fine, meno efficienti. Secondo questa teoria,
l’apprendimento del crimine comporta, altresì, l’apprendimento di tutte le tecniche connesse alla
commissione del crimine, incluse quelle relative ai comportamenti dell’autore.
Il soggetto, successivamente, orienterà la sua condotta in base alle interpretazioni apprese,
favorevoli o sfavorevoli, ed inerenti la codicistica legale. Quando all’interno del gruppo dove vive,
le caratterizzazioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle
sfavorevoli, secondo Sutherland, un soggetto diviene criminale. Un individuo, pertanto, diviene un
criminale, non solo perché è stato in contatto con modelli criminali, ma anche a causa di un
isolamento dai modelli che criminali non sono. Dovranno, altresì, essere tenuti in considerazione
ulteriori elementi quali l’intensità, la frequenza, la durata.

Teoria dell’identificazione differenziata


La teoria delle associazioni differenziali venne rielaborata − nel 1960 − da Glaser, il quale, sulla
base della teoria dei ruoli, convertì la teoria dell’associazione differenziale in quella denominata
dell’identificazione differenziata. Glaser, nella sua rielaborazione, sosteneva che ai fini
dell’apprendimento della criminalità risulta fondamentale l’identificazione con modelli criminali,
più che l’associazione con tali modelli.

L’elemento fondamentale per la criminogenesi è, quindi, il meccanismo di identificazione,


quale processo psichico; attraverso quest’ultimo, si tende, in maniera inconscia, a somigliare a
certi modelli, selezionati come ideale del proprio Io.

Durante tale processo, l’individuo fa, conseguentemente, come propri, anche i valori normativi ed
etici associati a tale schema ideale introiettato. L’identificazione non richiede un contatto
interpersonale, poiché può avvenire anche verso modelli immaginari o reali, con i quali non si è
stati in relazione diretta. L’identificazione con soggetti criminali può avvenire in diversi modi: a) a
seguito di partecipazioni dirette ad associazioni di delinquenti; b) mediante una stima positiva dei
ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media; c) a seguito di una reazione negativa a energie
che si oppongono alla criminalità. In ultima analisi, la teoria di Glaser consente, in tal modo, di fare
chiarezza sulle c.d. azioni criminali commesse da parte di soggetti che sono comunemente inseriti
in insiemi sociali non criminali.
Teorie sottoculturali
Intorno al 1955, Choen enunciò la teoria delle sottoculture devianti, derivante dagli aspri
conflitti tra classi superiori e classi inferiori della società. Il fulcro della teoria è identificabile
nell’aspirazione, da parte degli individui appartenenti alla classe proletaria, di raggiungere le
medesime mete culturali degli individui della classe sociale superiore. La base di partenza dei
primi è sicuramente quella di uno svantaggio. Choen era convinto che tale aspirazione si
traducesse in una reazione negativistica, in direzione di quei valori che non possono raggiungere;
pertanto, il negativismo innescherebbe meccanismi di reazione, connotati da atti criminali, quali il
teppismo, gli atti vandalici, o il generale distruttivismo. Choen ritiene trattasi di una specie di
formazione reattiva, e non un conflitto reale verso la cultura che domina.

Teoria dell’anomia secondo Merton e Durkheim


L’analisi del comportamento di soggetti che si trovano in differenti posizioni rispetto alla
pressione culturale indifferenziata, rappresenta per Merton, che appartiene al c.d.
movimento Strutturalista, un fondamentale punto di partenza per la spiegazione del
crimine.
Il meccanismo di adattamento a tali pressioni sarebbe produttivo, o meno, di comportamenti
devianti.

Alla base dell’attività criminale, pertanto, è rintracciabile una disuguaglianza tra mete culturali
accettate e mezzi per guadagnarle; ciò porterebbe l’individuo ad una condizione di anomia. Il
concetto di anomia mertoniano è quindi differente da quello di Durkheim.

Il soggetto che è sottoposto alla pressione culturale per il raggiungimento delle mete, quali il
denaro, il successo, il potere, e così via, in mancanza di mezzi per raggiungerle, può, secondo
Merton, porre in essere i seguenti comportamenti: 1. conformismo, consistente nell’utilizzo di
mezzi leciti che non danno, comunque, la possibilità di raggiungere le aspirate mete; 2.
l’innovazione, che si connota, invece, per l’uso indiscriminato di mezzi, totalmente illegali per
raggiungere le mete; 3. il ritualismo, secondo il quale, si assiste a una concentrazione nel seguire in
modo rituale i mezzi, senza aver cura degli obiettivi; 4. la rinunzia, che si attua attraverso una
sorta di rifugio psicologico nelle sostanze stupefacenti o nell’alcol; 5. la ribellione, costituita da una
vera e propria condanna ideologica dei mezzi e delle mete.

Secondo la visione del sociologo francese Durkheim, il crimine, invece, è un fattore sociale la cui
interpretazione è da riferirsi alla società, e, pertanto, dimora al di fuori dalla coscienza dei
soggetti.
L’emigrazione persistente di un gran numero di persone dalle campagne alle aree urbane, a
seguito dei vistosi processi di industrializzazione, ha portato gli individui a transitare verso un
nuovo sistema culturale, non più come quello rurale, basato su un sistema collettivo,
redistributivo, tradizionalista, bensì, verso quello fondato su una solidarietà urbana, razionale,
individualista, nonché industriale. Secondo Durkheim, tale transito porta i soggetti, soventemente,
alla mancanza di norme, all’inadeguatezza o all’incertezza delle stesse (anomia). Il meccanismo
anomico, subito dai soggetti che si trovano nel nucleo caratterizzato da spinte sociali e culturali
contrastanti, favorirebbe, in tali contingenze, il crimine. L’attualità di questa teoria è palese,
poiché spiegherebbe il transito dalla solidarietà organica a quella tipicamente meccanica, ancora
presente in alcuni spazi geografici.

Teoria dell’immunità differenziale


Nel saggio Lo stereotipo del criminale, Chapman rappresenta che la criminalità nota non è
collegata all’effettiva commissione dei reati. Secondo l’autore, esisterebbe una discriminazione dei
soggetti in base all’appartenenza alla classe sociale, al potere, alla visibilità sociale.
Il soggetto appartenente a una fascia debole della società, deculturalizzata, povera, godrebbe,
pertanto, di una generalizzata e inferiore immunità ai meccanismi di selezione della
rappresentazione sociale e del controllo istituzionale. Lo strumento per eccellenza rilevatore, di
tale differenza, è la statistica giudiziaria, che mostrerebbe una maggiore inclinazione al crimine da
parte di classi certamente svantaggiate.

Teoria del numero oscuro


Di particolare attualità è la teoria del numero oscuro, formulata da Sutherland, a cavallo tra
gli anni ’40 e ’50.
è importante sottolineare che le indagini criminologiche compiute in quel periodo monitoravano i
crimini commessi da classi svantaggiate o povere, eludendo, al contrario, quelli perpetrati dai
colletti bianchi, cioè da coloro cheoccupavano, nella società, posizioni di rilievo. è bene notare che
l’attenzione dei ricercatori e dell’opinione pubblica statunitense – nel dopoguerra – fosse
unicamente orientata all’approfondimento dello street crime (crimine da strada).
Gli studi di Sutherland mostrarono, nel tempo, che la teoria del numero oscuro e dell’indice di
occultamento relativo al rapporto tra reati conosciuti e reati commessi, dovesse abbracciare, non
una parte della società deviante, ma la maggioranza totale; da ciò l’opportunità di indirizzare, in
altro modo, gli studi sul crimine, introducendo, altresì, nuovissimi parametri. Procedendo con la
vecchia impostazione, le azioni criminali immesse nelle statistiche ufficiali, secondo Sutherland,
sarebbero solamente quelle effettivamente scoperte e denunciate all’Autorità Giudiziaria, ma che
fornirebbero, però, una quantificazione non completa e non rispondente al dato reale; le
statistiche ufficiali non contemplerebbero, pertanto, i crimini commessi dai colletti bianchi,
poiché, non sarebbero denunciati alla giustizia e non passerebbero al vaglio dell’opinione
pubblica. Particolare impulso, nell’ambito della teoria del numero oscuro, venne data
all’atteggiamento della vittima, al suo ruolo, alla sua propensione alla denuncia, e ciò con
particolare riferimento alla stessa natura dei crimini subìti.

Teoria dell’etichettamento
La teoria dell’etichettamento valuta il crimine come meccanismo di etichettamento sociale.

Tale meccanismo, che può pervenire, come ultimo stadio, alla costruzione del sé deviante, è
determinato da un intervento selettivo della società sullo stesso deviante.

Il percorso della devianza del soggetto è frutto di una progressiva costruzione in base
all’azione della società.

Lemert, ad esempio, opera una distinzione in due fasi: a) devianza primaria, che rappresenta la
fase vera e propria della commissione del crimine; b) devianza secondaria, corrispondente alla
fase di identificazione sociale. Lo status di criminale è, quindi, il risultato finale di un processo di
interazione tra l’aspetto psico-sociale dell’azione deviantee del suo attore, e l’effetto socio-
psicologico della reazione sociale. Il deviante, secondo Becker, è un individuo, cui questa etichetta
è stata attribuita con esito positivo. Il suo indirizzo primario di ricerca è costituito dalle carriere
devianti, quali arresti ed etichettamenti sociali e pubblici, come elementi che spingono verso una
nuova identità. L’importanza del processo di etichettamento ha anche l’obiettivo di analizzare
le possibilità di reversibilità di una carriera deviante. Per gli studiosi dell’etichettamento,
il crimine è frutto di un sviluppo unidirezionale, come costruzionismo del crimine. Secondo tale
visione, l’uomo, apparirebbe scosso da ragioni esterne multifattoriali, evidenziandosi, così, una
riduzione dell’importanza della capacità di selezione e pianificazione volontaria della mente
incidente, in ultima analisi, sul comportamento sociale. L’individuo, secondo gli studiosi
dell’etichettamento, penetrerebbe, pertanto, nei meccanismi di selezione sociale, solamente come
mero oggetto di selezione.
Teoria della disorganizzazione sociale
La disorganizzazione sociale, secondo i sociologi polacchi Thomas e Znaniecki, rappresenta
il punto di partenza di attività criminose. La loro teoria prende spunto dai fenomeni socio-
culturali connessi all’immigrazione dei contadini polacchi negli Stati Uniti. L’entrata in nuovo
Paese, secondo i due studiosi, innescherebbe inevitabili fratture e conflitti culturali, nonché
disorientamento generalizzato. Il rapporto disarmonico tra culture differenti e i disagi che
vengono a crearsi hanno la peculiarità di produrre, pertanto, disagi e tensioni, responsabili, in
ultima analisi, di fenomeni e/o comportamenti criminali, in particolar modo se una delle due
culture appartiene ad uno strato socio-economico di minore rilevanza. Questa teoria fonda i
propri postulati sulle trasformazioni sociali derivanti dalla rivoluzione industriale nel tessuto
della dimensione sociale.

Il processo di industrializzazione, e in particolar modo le fenomenologie sociali strettamente


collegate, quali l’emigrazione, la conseguente urbanizzazione, la caduta della antecedente
struttura a carattere agricolo, condurrebbero a pesanti fenomenologie di cambiamento e
instabilità, elementi, questi, che determinerebbero un mancato equilibrio di componenti, sui quali
si fondava la precedente strutturazione dei sistemi di controllo sociale.

A ciò, va aggiunta la trasformazione economica, quella degli status, la repentina miscellanea di


popoli, valori, culture, costumi, abitudini, che conducono a una significativa perdita di azione delle
istituzioni indirizzate al controllo sociale.

In ogni tempo, comunque, qualsiasi mutazione dell’assetto sociale ha innescato un gran numero di
conflitti a causa dell’instabilità sociale e della perdita di riferimento a un aggregato di norme,
tendente a regolare numerosi aspetti della vita sociale; sistema inadeguato, oggi, tenuto conto
delle trasformate condizioni sociali, e dei nuovi rapporti formatisi.

Secondo la teoria della disorganizzazione sociale, l’esponenziale aumento di criminalità


appare strettamente collegato e dipendente dal processo di industrializzazione, dalla neo-
organizzazione sociale e dal rapido succedersi di conflitti e da trasformate regole di condotta: una
dimensione di drammaticità e instabilità rintracciabile in Paesi degradati, laddove, pallidi sono i
tentativi di industrializzazione, e a cui sono legati lotte e rivolte sociali e/o politiche.

Da non trascurare l’impatto del singolo individuo in una società connotata da disorganizzazione,
da instabilità, da trasformazioni immediate: il soggetto perde la possibilità di autogoverno, di
regolazione rispetto a norme di comportamento precedenti; non riconosce più quei valori e quegli
ideali costituenti l’impalcatura della sua vita e della sua condotta, spingendosi verso un sistema
disorganizzato ed incidente sulla sua condotta.

Altro problema affrontato dagli studiosi riguarda l’esistenza, nella società, di


contraddizioni normative: una società è disorganizzata poichè non educa i propri adepti agli
aggregati normativi fondamentali, spingendoli, senza rendersene conto, a comportamenti
devianti, e ciò poiché sono le norme stesse a risultare contrastanti. Questo stato di cose
condurrebbe, sia i soggetti singoli, che le associazioni di individui, a tenere in maggiore
considerazione le influenze provenienti dai loro ambienti ed i loro interessi, invece di perseguire il
benessere generale.

Teoria delle aree naturali della criminalità

Secondo questa teoria, la criminalità sarebbe maggiormente presente in particolari aree,


laddove è alta l’immigrazione e dove maggiore è la disorganizzazione sociale.
Tali fenomenologie vennero osservate da numerosi sociologi, tra cui Burgess, Park, Shaw,
McKenzie. Secondo tale impostazione, pertanto, l’ambiente delle città che presenterebbe tali
caratteristiche si presterebbe a divenire motore criminogenetico. La teoria, nel tempo, subì forti
critiche, poiché gli studi successivi mostrarono, con evidenza, che tutte le aree urbane, al loro
interno, erano connotate, in misura, più o meno eguale, da fattori che potevano innescare
comportamenti criminali. Inoltre, in aree a bassa incidenza migratoria, la qualità dei reati
compiuti era assolutamente differente, sia sulla base delle caratteristiche degli autori, che su
quella delle modalità operative.

Teoria delle tecniche di neutralizzazione

La valorizzazione dell’uomo come costruttore del proprio ambiente e del proprio mondo, e
come unico responsabile della propria devianza, fu il fondamento della teorizzazione di
David Matza (1969).

Secondo quest’ultimo, non può eludersi, comunque, in tale contesto, l’influenza della società che,
attraverso i meccanismi sanzionatori ed etichettanti, punta a razionalizzare la devianza del
soggetto. A questo, però, secondo il teorico, è demandata la funzione di reazione o rinnegamento
del marchio di deviante impresso dalla società; pertanto, il soggetto potrà operare la scelta di
aderire all’etichetta o rimodulare, in maniera totale, la propria identità, offrendo ai consociati
un’immagine totalmente diversa di sé.

Matza ritenne, comunque, che anche i peggiori criminali subissero l’influenza delle regole
sociali e riuscissero a porre in essere i comportamenti criminali, grazie alla loro capacità di
neutralizzare la morale e le regole sociali, nonché il senso di colpa. Ciò avverrebbe tramite
l’applicazione, ante delictum, di specifiche tecniche, quali il disconoscimento della propria
responsabilità, il definire minimo il danno provocato, la negazione della parte offesa, la condanna
di soggetti che condannano, il rifarsi a ideali più eminenti.

Teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin

La teoria delle opportunità differenziali risulta particolarmente influenzata dalla


teorizzazione del Sutherland.

Cloward e Ohlin, nell’esplicazione di tale teoria, accostarono sia la teoria dell’anomia di Merton
che la teoria delle associazioni differenziali dello stesso Sutherland. Fulcro fondamentale della
teoria sarebbe la posizione che nello spazio sociale occupa ciascun individuo, con particolare
riferimento alle opportunità legittime e a quelle illegittime.

I due teorici concordano nel ritenere che esista un’unica meta (o obiettivo) identificata nel
successo economico e non un insieme di mete da raggiungere. Tale obiettivo può essere raggiunto
sia mediante le opportunità legittime che quelle illegittime. Bisogna tenere conto, però, che gli
individui si trovano a operare in sistemi di opportunità differenziali, che condizionano le loro
preferenze ed i loro comportamenti; pertanto, condizioni economico-sociali sfavorevoli si
traducono in una restrizione delle opportunità di affermazione e di promozione sociale. La diversa
presenza di opportunità illegittime in una definita area urbana determinerebbe la formazione di
tre tipologie differenti di sottoculture denominate rispettivamente come:
1. criminale (giovani inclini a furti e rapine);
2. conflittuale (giovani inclini a danneggiamenti e vandalismo);
3. astensionistica (caratterizzata da alcolismo, tossicomania, partecipazione a gruppi di tendenza
eversiva).

Teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di Burgess e Akers

Sulla fine degli anni ’60, Burgess e Akers, riformulando la teoria di Sutherland, introdussero
come elemento fondamentale il c.d. stimolo rafforzatore. Secondo gli autori, il comportamento
criminale è acquisito secondo i principi del comportamento operante e l’apprendimento si verifica
sia in situazioni non-sociali, che sono rafforzanti o discriminative, sia nell’interazione sociale in cui
il comportamento di altre persone è rafforzatore o discriminativo nei confronti di quello
criminale.

La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato sostiene che un contesto non-sociale può
rinsaldare una determinata scelta, e, dunque, può sviluppare la nozione, secondo la quale il
crimine è acquisito solo attraverso l’interazione sociale. In accordo con Glaser, Burgess e Akers
individuano l’importanza nel meccanismo di apprendimento, anche dei gruppi di riferimento che
non sono direttamente in contatto con il soggetto, ma filtrati dai normali mezzi di comunicazione,
oltre a quelli primari e agli altri con i quali si è intrinsecamente associati.

L’integrazione psico-ambientale

La criminogenesi è stata individuata, dalle varie teorie criminologiche, sia nelle


caratteristiche dei singoli individui, che nei fattori sociali. Negli anni ‘50 e‘60 si tentò di
considerare, congiuntamente, l’individuo ed il suo contesto sociale: questo tentativo caratterizzava
la dimensione dell’integrazione individuo/ambiente. Se l’ambiente veniva ritenuto quale fattore
criminogeno, l’obiettivo era quello di giungere alla spiegazione del perché non tutti gli individui
reagivano allo stesso modo ai fattori criminogeni legati al loro ambiente e alle loro condizioni
socio-economiche; analogamente, altro quesito riguardava la circostanza per la quale soggetti con
uguali caratteristiche abnormi di personalità non divenissero tutti delinquenti.

Il problema fondamentale, pertanto, era quello di capire tale difformità di comportamento. Le


riposte giungevano dalle varie discipline, e ognuna di esse elaborava teorie, cercando, al
contempo, di individuare elementi psicologici, sociologici, psichiatrici, che giustificassero tali
difformità di condotta. Rimaneva, comunque, il quesito in ordine alla condotta normale, posta in
essere da soggetti multiproblematici.

Importante, inoltre, era comprendere quanto il fattore individuale e quanto quello sociale
potessero incidere nella condotta criminosa.

Gli studi sul comportamento umano e la verità sulla psicologia

La psicologia cognitiva, divenuta successivamente un movimento soprannominato


cognitivismo, è una branca della psicologia sperimentale che studia il comportamento e la
vita mentale.

Il cognitivismo fonda la sua teoria a partire da un modello della mente umana come elaboratore di
informazioni provenienti dagli organi sensoriali. Il fine della psicologia cognitiva è quello di
coniugare lo studio del comportamento e delle capacità cognitive umane con la riproduzione di
questi mediante sistemi artificiali. Per ottenere questo risultato, la psicologia cognitiva è
sostanzialmente interdisciplinare, poiché si avvale dei metodi, degli apparati teorici e dei dati
empirici di numerose discipline diverse tra le quali la psicologia, la linguistica, le neuroscienze, le
scienze sociali, la biologia, l’intelligenza artificiale e l’informatica, la matematica, la filosofia e la
fisica. La psicologia cognitiva nasce verso la fine degli anni ‘50, fondamentalmente come reazione
polemica nei confronti della scuola che da anni, soprattutto in America, dominava il panorama
culturale; ecco che, allora, il comportamentismo fu il vero e proprio punto di partenza per lo
sviluppo delle scienze cognitive, in quanto gettò le basi per una psicologia fondata empiricamente.
Entrambe le discipline, infatti, si basano su una scientificità di tipo naturalistico, nel comune
tentativo di assimilare lo studio della mente umana alle scienze fisiche. Dal punto di vista
dell’epistemologia, la psicologia cognitiva assume la posizione ontologica del realismo critico,
secondo la quale viene accettata l’esistenza di una realtà esterna strutturata, ma, allo stesso
tempo, viene rifiutata la possibilità di conoscerla completamente. è proprio da questa premessa
teorica che si genera la diatriba con il movimento comportamentista: l’oggetto di studio non è più
(soltanto) il comportamento umano, bensì gli stati o processi mentali fino ad allora considerati una
dimensione insondabile e non conoscibile scientificamente. Tale presa di posizione nei confronti
dello studio dell’attività psichica si traduce, praticamente, nell’accettazione dell’analisi
introspettiva come metodo conoscitivo, e nell’affermarsi della concezione di comportamento
umano come risultato di un processo articolato e variamente strutturato di elaborazione delle
informazioni. In questo senso, il cognitivismo fa proprie le scoperte derivate dalla cibernetica e
dagli studi sull’intelligenza artificiale, al fine di comprendere gli algoritmi che sostanziano
l’attività mentale.

Nel corso del tempo, si sono evidenziati diversi approcci allo studio del crimine
che hanno ipotizzato le origini del comportamento criminale localizzate nella psiche ell’individuo,
nel suo patrimonio genetico, nell’ambiente sociale, nelle psicopatologie o, ancora, nelle diverse
modalità di attribuzione di significato alla realtà o nella capacità di adattamento alle norme.
Talune scuole criminologiche si sono attestate su posizioni critiche, ponendo in discussione il
rapporto stesso tra individuo e un sistema normativo che è culturalmente e socialmente
determinato e, come tale, non necessariamente accettabile da tutti. Evidentemente, la scelta
teorica del criminologo risulta fortemente influenzata dal suo stesso rapporto ideologico con il
sistema sociale. Posizioni consensuali e integrate degli studiosi saranno maggiormente legate a
una visione del crimine in termini di disfunzionalità e anomalia (ricercata in aree psicologiche,
psicopatologiche e sociologiche). Posizioni maggiormente conflittuali, invece, orienteranno
probabilmente lo studioso su valutazioni attinenti ai rapporti di potere tra gruppi sociali,
ricercando la spiegazione del crimine nelle dinamiche di reazione sociale, di etichettamento, di
esclusione, di stigmatizzazione.

In realtà, soventemente, le teorizzazioni mostrano semplificazioni ed esasperazioni


concettuali che non corrispondono alla realtà. Il concetto stesso di causa, applicato al
comportamento umano, necessita di estrema cautela, proprio in ragione degli infiniti
fattori che influenzano l’agire dell’uomo, posti su piani genetici, biologici, psicologici,
sociali e talvolta fortuiti, mediati e organizzati, tra l’altro, dalla variabile primaria indotta
dalla razionalità e dalla libertà di scelta. La ricerca di una causa specifica dovrà, quindi,
essere intesa come maggiore o minore peso di una variabile all’interno di una dinamica
complessa o, meglio ancora, come un fattore di possibile ingerenza. Un ulteriore
elemento da considerare è quello relativo alla grande diversità che intercorre spesso tra i
vari crimini. Taluni comportamenti criminali sembrano, infatti, essere maggiormente
influenzati dalle variabili biologiche e psicologiche (es. i crimini violenti), mentre altri
appaiono maggiormente correlati a dinamiche sociali.
La predisposizione al crimine

La teoria della predisposizione al crimine, già all’inizio del ‘900, aveva iniziato il suo
complesso percorso di validazione scientifica, e la genetica, che si presentò come disciplina
in grado, non solo di spiegare l’origine delle differenze individuali, ma anche di predirne la
perpetuazione nel corso delle generazioni, apparve, in quel periodo, come la scienza più
idonea per raggiungere tale obiettivo. Era, comunque, logico che le leggi della genetica
esercitassero particolare fascino per chi tentava di leggere, in termini biologici, la
complessa struttura della società.
Già all’inizio degli anni ‘20, dopo l’identificazione della natura genetica di alcune gravi malattie,
come l’emofilia e la distrofia muscolare, e del riconoscimento dell’ereditarietà di alcune
caratteristiche biologiche minori, si iniziò a ipotizzare la possibile ereditarietà di malattie mentali
e di anomalie comportamentali. Le prime osservazioni di concentrazioni familiari di casi di
criminalità fecero dedurre, tanto rapidamente quanto erroneamente, che le predisposizioni alla
delinquenza, all’alcolismo, al furto, alla prostituzione e, persino, alla tendenza a vivere in povertà,
fossero genericamente determinate.
L’inquadramento del problema della devianza sociale in un contesto generico rafforzava il
convincimento che, non solo le disuguaglianze sociali fossero attribuibili esclusivamente a
differenze di merito e di capacità individuali, ma che esse dipendessero da caratteristiche
biologiche ereditabili. L’ipotesi genetica spiegava, inoltre, la concentrazione in gruppi
relativamente ristretti sia dei comportamenti socialmente desiderabili, che di quelli delittuosi e lo
stabilirsi di gerarchie e stratificazioni sociali destinate a perpetuarsi nelle generazioni, appunto,
per ragioni genetiche. Conoscenze elementari dei principi della genetica, mescolate a pochi
concetti di eugenica e al solido quanto errato convincimento della ereditarietà biologica della
criminalità portarono, nel 1907, alla emanazione della prima legge sulla sterilizzazione coatta di
persone con caratteristiche comportamentali indesiderabili.
Successivamente, analoghi provvedimenti vennero adottati estesamente in Germania, in contrasto
con le leggi vigenti, ben prima dell’ascesa di Hitler al potere. Per oltre vent’anni, vennero effettuati
interventi di sterilizzazione coatta su minorati psichici e persone asociali, fino a quando, nel 1933,
venne approvata la legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie, alla
cui stesura collaborarono i genetisti con Verschuer, Fisher e Lenz.
Seguirono, oltre 300.000 interventi di sterilizzazione di persone giudicate indegne di riprodursi,
da speciali Tribunali per la Sanità ereditaria.
Successivamente, si passò alla somministrazione di quella che Hitler definiva una morte
misericordiosa a oltre 70.000 disabili. Risulta da un’indagine governativa che, tra il 1935 e il 1975,
vennero sterilizzate in Svezia circa 63.000 persone, soltanto metà delle quali consenziente. La
genetica del dopoguerra si rivolse a due importanti obiettivi: da un lato, la ricerca delle cause
materiali dell’ereditarietà biologica, dall’altro lo studio
della genetica di popolazione per comprendere i meccanismi dell’evoluzione. I risultati
di queste indagini costituiscono ormai capitoli fondamentali della storia delle scienze
biologiche. Una volta dimostrato che il DNA è la base materiale dell’eredità biologica,
averne compreso la struttura, il codice genetico e le caratteristiche funzionali, e aver
trovato il modo per manipolarlo in laboratorio, all’inizio degli anni ‘80, si aprì la fase
che ha portato all’attuale conoscenza dell’intera successione dei nucleotidi nel DNA di
diversi organismi, incluso l’uomo.
La disponibilità di nuovi metodi, basati sull’analisi del DNA, risvegliò, altresì, l’interesse per lo
studio dell’ereditarietà dei comportamenti.
Molto più serie e numerose furono le indagini per scoprire le basi genetiche di alcune patologie
psichiatriche che potevano attivare meccanismi criminogenetici. Dopo oltre un ventennio di
ricerche, i risultati sono abbastanza diversi da quelli attesi: non sono stati identificati geni per la
schizofrenia o per la depressione, né sono state trovate mutazioni associate in modo
inequivocabile e causale a tali patologie, per cui si ritiene che, in tali malattie, venga ereditata una
predisposizione, i cui effetti possono manifestarsi con diversa intensità fino al livello clinico,
verosimilmente a seconda dell’esperienza di vita individuale e forse del contributo di altri geni
minori.

Il comportamento criminale violento


L’approccio psichiatrico/psicologico al comportamento criminale assunse, nel passato, due forme,
spesso collegate tra loro. Lo psicologo tentò di stabilire dei programmi riabilitativi; mentre lo
psichiatra conduceva esperimenti con una sempre più vasta gamma di droghe psicotrope, infatti,
un gran numero di prigionieri fu in effetti utilizzato come cavia inconsapevole della psichiatria, per
testare quelle droghe; i detenuti negli anni ‘30 e ‘40, invece, furono usati quali cavie inconsapevoli
dell’elettroshock e degli esperimenti per la psicochirurgia. Comunque, nel 1974, dopo uno studio
altamente controverso condotto del tutto erroneamente, come si scoprì in seguito, venne
determinato che nessun grande programma poteva fornire le prove della propria efficacia
nella riabilitazione del criminale. Di conseguenza, lo psicologo si allontanò più o meno
furtivamente dalle celle per mancanza di sovvenzioni, mentre lo psichiatra iniziò a diminuire
l’impiego droghe, in modo sempre più crescente. Oggi, malgrado le ricerche psichiatriche per
l’individuazione delle fonti genetiche e neurologiche del comportamento criminale (approdate a
nulla), la riabilitazione di un criminale viene, tuttora, comunemente considerata un’utopia.
Essere violenti significa far uso della forza (fisica, verbale, psicologica) per esprimere i propri
sentimenti e per raggiungere i propri obiettivi attraverso la sopraffazione temporanea o
permanente dell’interlocutore. Spesso si riscontra, nell’autore di una azione violenta, un substrato
di aggressività. Non esiste, però, una correlazione lineare tra aggressività e comportamento
violento. L’aggressività, entro certi limiti, è una normale reazione dell’organismo, che si trasmette
in parte geneticamente e in parte viene indotta dall’ambiente, attraverso meccanismi di
apprendimento psicologico e sociale. L’aggressività ha, soprattutto, una funzione di conservazione
della specie in quasi tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo. I principali fattori responsabili della
maggiore o minore pulsione aggressiva negli esseri umani possono essere: a) alcuni specifici tratti
di personalità (il temperamento); b) una bassa tolleranza alle frustrazioni; c) psicopatologie (come
depressioni, psicosi, disturbi di personalità); d) aspetti neurofisiologici ed endocrini; e) l’uso di
droghe e farmaci psicoattivi (specie alcool e cocaina); aspetti socioambientali (es. deprivazione); f )
aspetti culturali (quali appartenenza a subculture devianti, cultura violenta nella famiglia, gruppi
di riferimento violenti, ecc.).
Il processo di socializzazione umano ha, però, progressivamente introdotto dei meccanismi di
canalizzazione delle spinte aggressive in modalità condivise e accettate, e, generalmente, non-
violente, regolate da leggi codificate e consuetudinarie. Gli individui riescono a contrastare la
propria aggressività attraverso un processo di pensiero (più o meno complesso) che si basa
sull’anticipazione mentale degli effetti del proprio comportamento, e sulla significazione della
propria azione. In tale fase, vengono valutate le conseguenze negative e i vantaggi collegati a una
possibile azione violenta. Quando l’esito di tale percorso pone nella mente del potenziale autore di
un crimine una serie di significati favorevoli al cosiddetto passaggio all’atto, il comportamento
criminale viene, allora, progettato e, se le circostanze contestuali sono favorevoli, eseguito.
Se l’esito del percorso di significazione conduce, viceversa, l’individuo a una valutazione negativa
(rispetto all’esecuzione del crimine), possono manifestarsi forme di canalizzazione e scarico della
pulsione aggressiva attraverso modalità legali (il classico pugno sul muro o più frequentemente il
semplice alzare la voce).
In realtà, la produzione di idee criminali, talora molto violente, avviene, di frequente, anche nella
mente di individui che non hanno commesso, e non commetteranno, mai, alcun crimine. In queste
persone, le regole morali, la compassione della vittima, la paura della sanzione penale e sociale
impediscono l’esecuzione dei crimini (ma non sempre l’immaginazione).
Nei cosiddetti criminali, invece, per vari motivi, tale forma di ostacolo diviene inefficace, e le
pulsioni aggressive si materializzano attraverso un’azione violenta. La differenza tra un uomo
violento e uno non-violento è così dovuta solo in parte all’indole (più o meno aggressiva), ed è
invece fortemente connessa all’efficacia dei sistemi mentali di inibizione e canalizzazione
dell’aggressività. Anche il crimine violento, quindi, non è un irrefrenabile impulso animalesco, ma
un’azione, in parte razionale, diretta a uno scopo, condotta da un individuo ai danni di
altri individui (o dell’ambiente).

La logica che conduce l’individuo alla violenza può essere, ovviamente, fortemente viziata dalla
presenza di una dimensione psicopatologica, ma essa è da considerarsi, comunque, una
produzione del pensiero umano.

In tale ottica, il comportamento criminale può essere spiegato utilizzando le normali regole che
valgono per il comportamento umano (normale e patologico). L’uomo, orienta, infatti, le proprie
azioni (comprese quelle criminali), attraverso un processo di significazione della realtà esterna,
attribuendo significato alle sue percezioni e fornendo quelle risposte comportamentali che ritiene
adatte alle sue esigenze personali.

Questo processo di significazione è inizializzato e influenzato da aspetti pulsionali e motivazionali


preesistenti (siano essi neurofisiologici, farmacologici, psicologici, psicologico- sociali, sociologici,
e psicopatologici), ma ciò non basta a provocare direttamente il crimine.

Il ruolo della psichiatria forense

La psichiatria forense è una disciplina che collega il diritto alla medicina.

Il suo ruolo varia non solo in virtù degli ordinamenti di ciascun paese, ma anche in relazione
al tempo e alle spinte etico-sociali.

In particolare, appare interessante il diverso ruolo che assume lo psichiatra forense


nell’ordinamento giudiziario italiano e in quello statunitense. Nel nostro Paese, egli opera, sia nel
processo che nella fase della esecuzione della pena, anche con funzioni diagnostiche incidenti sul
giudizio di colpevolezza; negli USA, invece, fornisce solo consulenze in merito alla presunta
malattia mentale, senza alcuna possibilità di influenzare le scelte del giudice.

La psichiatria forense è stata definita come l’applicazione della psicopatologia, della semiologia e
della diagnostica psichiatrica ai problemi via via suscitati dai protagonisti del processo penale,
civile e canonico, in riferimento a norme e disposizioni contenute nei rispettivi codici e in leggi
complementari.

Da questa definizione si può agevolmente comprendere che questa disciplina esalta e specifica il
rapporto che intercorre fra la medicina e il diritto, rapporto alcune volte misconosciuto, ed altre
volte esasperato, che varia da Stato a Stato e di tempo in tempo. In particolare, appare quanto mai
interessante procedere a un confronto fra la disciplina come concepita in Italia e come intesa nel
più importante stato di common law, ossia gli Stati Uniti.

Storicamente, negli stati di civil law e almeno fino al secolo XVII, la medicina non si occupò delle
malattie mentali che, per ragioni di opportunismo o di voluta ignoranza e di paura, venivano
eziologicamente spiegate in termini di possessione diabolica, eretismo, peccato. Dunque, il pazzo
che commetteva un reato non era considerato malato, bensì indemoniato.

Solo nel 1800, grazie alla Scuola francese, nelle persone di Esquirol, Georet, Marc, Leuret, si
introdusse nella pratica forense la nozione di monomania come causa che escludeva la punibilità e
si affermò, più in generale, un nuovo concetto di follia intesa come malattia dell’anima, curabile
con la terapia morale, purchè istituzionalizzata.

Di contro, in Italia, la psichiatria, conformandosi alla più rigida impostazione oraganicista, propose
una diversa interpretazione del problema riconducendolo nell’alveo della biologia, della
neurologia, dell’anatomia e finendo per definire le malattie mentali come affezioni del cervello,
acquisite o congenite, primitive o secondarie.

Con l’affermarsi della psichiatria scientifica, il rapporto fra quest’ultima e il diritto appare mutare
in maniera sostanziale.

In particolare, la psichiatria forense, con l’emanazione del codice Rocco e con la fine delle grandi
discussioni teoretiche sull’imputabilità, assunse un ruolo sempre più evidente di strumento
tecnico di garanzia della corretta applicazione delle previsioni codicistiche in materia di capacità
di intendere e di volere.

Ma la vera esaltazione del ruolo dell’operatore psichiatrico, e dunque della stessa psichiatria
forense, avviene con le previsioni del nuovo codice di procedura penale, in cui egli calca la scena,
tanto nella fase dibattimentale del processo, con l’intervento peritale, quanto, in seguito, nella fase
della esecuzione della pena, con finalità terapeutiche e rieducative.

Ma, se nella fase di trattamento del reo, l’obiettivo è quello di recuperarlo attraverso modificazioni
oggettive delle condizioni di vita, che favoriscano una nuova capacità di socializzazione ed evitino
la ricaduta nei delitti, nella fase processuale, il fine è quello di diagnosticare la capacità di
intendere e di volere dell’agente e, dunque, di formulare un giudizio circa la sua imputabilità.

Inoltre, in virtù del combinato disposto degli artt. 88 e 222 c.p., il soggetto riconosciuto non
imputabile, dopo essere stato prosciolto, non viene abbandonato al proprio destino, ma viene
ricoverato in un ospedale psichiatrico o presso case di cura e custodia, ovvero in istituti o sezioni
per infermi di mente, dove sarà approntata una terapia adeguata diretta al recupero e alla
risocializzazione dello stesso.

In tale contesto, appare opportuno distinguere alcune cause che, secondo il dettato codicistico e la
letteratura in argomento, escludono o diminuiscono l’imputabilità: 1) cause fisiologiche: l’età
(minore di anni 14 e minore degli anni 18 se nel momento che ha commesso il fatto non aveva la
capacità di intendere e di volere); 2) cause morbose: a) infermità; b) sordomutismo; c) cronica
intossicazione da alcool e/o stupefacenti.

Particolare rilievo rivestono ai fini della psichiatria forense le infermità che possono essere
definite come diagnosi di stato o sindromica più estesa di quella di malattia. Esse possono essere:
1) malattie mentali o psicosi dovute a motivi organici, a malattie somatiche, a processi
psicopatologici su base non funzionale (schizofrenia, psicosi maniaco- depressiva) con alterazioni
psichiche di tipo quantitativo; 2) malattie psichiche non somatiche e prive di base organica
comportanti disturbi della personalità. In questo contesto, solo le reazioni abnormi, intese come
interruzione di continuità con il precedente stile di vita del soggetto (che devono presentarsi, cioè,
come atti di sproporzione evidente del rapporto causa-effetto riferito all’evento), possono
associarsi a una possibile compromissione dello stato di coscienza e a una possibile presenza di
disturbi dispercettivi o idee di riferimento che, oltre ad essere di durata relativamente breve,
hanno valore di malattia e potrebbero configurare un vizio parziale o totale di mente.
La macchina della verità (o poligrafo)

Nella nostra lingua si chiama macchina della verità, in inglese e americano, lie detector;
un’altra definizione comune ad entrambe le lingue, più utilizzata dai tecnici e dagli
specialisti, è poligrafo (in inglese/americano polygraph).

Sostanzialmente, è un dispositivo elettrico, molto simile a quello dell’elettrocardiogramma o


dell’elettroencefalogramma, che, mediante un circuito piuttosto semplice, rileva le variazioni di
certi parametri psicofisiologici, come la pressione del sangue, la respirazione (toracica e
addominale), la conduttanza cutanea (ovvero la sudorazione del palmo delle mani) e produce, per
ciascuno di essi, un tracciato.

Per lo più, viene utilizzata nell’ambito giudiziario, soprattutto in America, molto più che in Italia e
in Europa.

Una legislazione molto precisa (e differenziata Stato per Stato) indica campi e regole di
applicazione di questo tipo di interrogatorio come strumento di indagine di un crimine. Il dibattito
tra detrattori e sostenitori dello strumento e delle sue procedure, è molto vivace.

È stato anche formalizzato un protocollo di utilizzo della macchina che comprende processi
tecnici, ma, soprattutto, fasi precise, secondo cui l’esaminatore deve procedere; fasi la cui mancata
applicazione implica il venir meno delle garanzie di una corretta rilevazione (detection) della
verità (o della menzogna). Le fasi, sinteticamente, sono:

- pretest, cioè un’intervista informale che l’esaminatore destina all’esaminato; essa si basa su una
serie di domande neutre preliminari, al fine di calibrare la macchina

sui parametri psicofisici dell’esaminato. Questa fase può durare, a discrezione dell’esaminatore,
circa 1 ora;

- design questions, dove l’esaminatore, alla luce della fase di pretest, definisce le domande rilevanti
per l’indagine;

- in-test, che segna l’inizio dell’esame; l’esaminatore pone circa dieci domande delle quali solo 3 o
4 sono rilevanti per l’indagine; le altre domande sono domande di controllo, molto generali, per
verificare lo stato di normalità dell’esaminato, quello che, in linea di principio, dovrebbe
corrispondere alla verità;

- post-test, durante il quale l’esaminatore analizza i dati delle risposte fisiologiche e determina se
la persona ha detto la verità oppure ha mentito.

Così come per il tracciato cardiaco, si costituisce un tracciato come normale. Le differenze rilevate
dallo stato definito come normale devono essere spiegate, analogamente a quanto, nelle patologie
cardiache, certi tipi di alterazione del tracciato vengono considerate segno di precise alterazioni
patologiche.

Il poligrafo rileva, quindi, alcuni parametri fisiologici: respirazione toracica, respirazione


addominale, conduttanza cutanea, pressione sanguigna.

Questi stessi parametri, vengono alterati da varie situazioni: guidare nel traffico, ad esempio, è
causa di un aumento dell’accelerazione cardiaca e respiratoria (e questo spiega i nostri
comportamenti patologici quando siamo alla guida).
Nel caso della macchina della verità, vengono poste due ulteriori relazioni: quella tra normalità e
verità, e quella fra scostamento dalla normalità e menzogna; lo scostamento dalla normalità,
secondo questi quattro parametri, è considerato un valido indicatore della presenza di una
menzogna.

Secondo le ricerche di Daniel Langleben, docente dell’Università della Pennsylvania, dire bugie, per
il cervello, è una gran fatica. Infatti, ci sono una gran quantità di aree cerebrali diverse che si
mettono all’opera quando i soggetti dell’esperimento si trovano a dire una bugia, rispetto alle aree
cerebrali implicate in una risposta veritiera.

Ecco, in sintesi, il protocollo dell’esperimento: un gruppo di 18 volontari è stato sottoposto al


seguente test: è stata loro fornita una serie di oggetti da nascondere in tasca; poi sono state loro
mostrate immagini, alcune delle quali riproducevano gli oggetti in loro possesso; infine, è stato
chiesto loro di mentire alle domande dell’intervistatore circa il possesso, o meno, di quell’oggetto.
Per eseguire l’interrogatorio, ogni volontario è stato fatto accomodare all’interno
dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica, uno strumento che ha permesso di osservare
cosa accadeva nel suo cervello. Le immagini prodotte dalla risonanza hanno mostrato
un’intensificazione dell’attività cerebrale, nel momento in cui il soggetto ha iniziato a mentire, ma,
solo in zone ben localizzate del cervello: il giro del cingolo e il giro frontale. Il primo, coinvolto
nell’inibizione della risposta e nel monitoraggio degli errori, il secondo che pare rivestire un ruolo
critico nell’attenzione.

Da questo, gli sperimentatori che riportano l’esperimento, deducono che: il nostro cervello è
sempre pronto per dire la verità, mentre, per mentire, deve organizzarsi, attivarsi ed agire, in una
sorta di lavoro extra non previsto.

Attorno a queste ipotesi, si possono fare molte considerazioni, ma, badando a non tirare in campo
tutte le questioni filosofiche sulla verità e la menzogna, né le differenze tra verità soggettiva e
verità condivisa, passando per il sottile confine tra fantasia e menzogna, è opportuno individuare
due elementi:

a) il fondamento ideologico di questa relazione tra normalità psico-fisiologica (e quindi, per


estensione, psichica) e verità, è costituito da un’attribuzione di valore che proviene da una
tradizione etica e religiosa molto precisa (da San Paolo a Sant’Agostino al rito della confessione);

b) la promozione scientifica di tale valore, passa, nel caso della macchina della verità, attraverso la
costituzione di un’altra relazione: quella che viene posta tra l’istinto (inteso come lo stato più
puro, biologico) dell’uomo e il suo essere sincero e veritiero, anzitutto, con se stesso (e pensiamo
anche all’atteggiamento psicoanalitico), prima che con gli altri.

Sembra, invece, che il valore positivo che viene attribuito alla verità abbia un significato non tanto
psichico o individuale, quanto sociale o socio-evoluzionistico, e che, quindi, appartenga e debba
restare di pertinenza dell’etica, più che della neurologia o della psicofisiologia.

In una società, è importante che ciascuno si possa fidare dell’altro e la società si evolve solo se
ciascuno può contare su questo. Pertanto, la verità è una condizione del vivere sociale e, come tale,
va garantita e sancita, senza coperture ideologiche o pseudoscientifiche, ma in tutta la sua
pragmatica utilità.

Al di là delle motivazioni ideologiche sul fondamento scientifico di questo tipo di studi


sperimentali e all’obiettivo di rilevare in modo inequivocabile la presenza di una bugia
analizzando il processo mentale che la bugia richiede, troveremo probabilmente due differenti
operazioni, laddove la risposta vera e sincera ne prevede una sola: se a un soggetto viene chiesto,
ad esempio, il nome, e lo stesso deve per qualche motivo mentire, potrebbe avere un leggero
ritardo nella risposta, dovuto al fatto che è abituato a rispondere, ad esempio, Marco; il soggetto,
pertanto, recupera l’operazione più facilmente disponibile (Marco, appunto), ma interviene un
processo di controllo superiore che gli impedisce di dirlo, per una serie di altre considerazioni;
deve recuperare nella memoria un altro nome disponibile da fornire come risposta
all’interlocutore e dirlo: il processo è più elaborato e dovrebbe richiedere, quindi, più tempo, una
frazione di secondo, un istante, ma sufficiente ad un orecchio allenato (o ad una macchina molto
sensibile) a dare perlomeno un allarme (se non un’indubitabile rilevazione). Se si pensa, però, agli
attori, e a come sanno essere più convincenti delle persone reali, stanno essi mentendo? No,
assolutamente. Dicono la verità utilizzando una tecnica che pare ancora più complessa, ma
probabilmente non lo è: credono alla storia che si sono costruiti o che qualcuno ha costruito per
loro, ci credono in ogni più piccolo dettaglio, e con tutto il loro essere. E agiscono, parlano e
pensano secondo questa narrazione, forse come i bambini, quando ci raccontano delle loro storie,
e di loro stessi dentro le loro storie.

Raccontarsi una storia, convincente o meno, non importa, l’elemento fondamentale è crederci;
scriverla e riscriverla nella nostra mente: è questa complessa configurazione tenuta insieme dalla
narrazione (dalle sue implicazioni, dalle contestualizzazioni di cui è capace) ciò che va
naturalmente a costruire la nostra verità; e se il narratore è abile (e se la racconta ad arte) non c’è
macchina della verità che tenga.

Quando una persona dice una bugia, utilizza parti del cervello diverse da quando dice la verità, e
questi cambiamenti cerebrali possono essere misurati con la tecnica della risonanza magnetica
funzionale (FMRI). Lo sostiene uno studio presentato dalla Radiological Society of North America.
I risultati suggeriscono che, un giorno, la FMRI potrebbe essere usata come macchina della verità,
con risultati più precisi del poligrafo.

Misurando con la FMRI l’attività delle aree cerebrali associate alle bugie, sostiene Scott H. Faro
della Temple University, si potrà determinare se il soggetto sta dicendo la verità.

A tal fine, è stato compiuto un esperimento con undici volontari. A sei di essi è stato chiesto di
sparare con una pistola giocattolo, mentre agli altri cinque, no. Tutti, però, dovevano affermare di
non aver sparato. I ricercatori hanno esaminato i singoli individui con la FMRI, e,
contemporaneamente, con il normale poligrafo che viene usato come macchina della verità. Il
poligrafo misura tre risposte fisiologiche: il respiro, la pressione del sangue e la capacità della pelle
di condurre elettricità, che aumenta con la sudorazione. In tutti i casi, sia il poligrafo sia la FMRI
sono riusciti a distinguere le risposte veritiere da quelle false. Durante le bugie, la FMRI ha mostrato
l’attivazione di diverse aree cerebrali nel lobo frontale (mediale inferiore e pre-centrale), temporale
(ippocampo e temporale medio) e limbico (cingolato anteriore e posteriore). Nel caso delle
risposte vere, la FMRI ha invece mostrato attivazione nel lobo frontale (inferiore e mediale),
temporale (inferiore) e nel giro cingolato. Nel complesso, quando un soggetto diceva una bugia, si
attivavano più aree cerebrali, rispetto a quando diceva la verità.

Poiché le risposte fisiologiche possono variare da individuo a individuo e, in alcuni casi, essere
regolate, il poligrafo non viene considerato uno strumento del tutto affidabile per individuare una
bugia. Secondo Faro, tuttavia, è ancora troppo presto per affermare se la FMRI possa essere
ingannata nello stesso modo.
Evoluzione storica del concetto di malattia mentale
La riforma sanitaria relativa all’assistenza psichiatrica venne approvata il 13 maggio 1978,
dopo un lungo dibattito alla Camera e al Senato; si tratta della legge 180, successivamente
integrata dalla legge 833, dello stesso anno, riguardante la costituzione del Piano Sanitario
Nazionale.

Con tale normativa, si abbandonava un sistema coercitivo, di contenzione, basato su terapie


meramente mediche e di correzione proprie degli ambienti manicomiali, per giungere a un nuovo
sistema, improntato al riconoscimento della dignità della malattia e, quindi, della dignità
dell’individuo malato; il tutto chiaramente sorretto da un cambiamento di intervento terapeutico
basato su una nuova rete di strutture e di servizi a carattere dipartimentale.

Il discorso sulla salute mentale, in Italia, è particolarmente problematico, poiché il suo carattere
non è solo di natura medico-clinica ma anche sociale, assistenziale e politico. è, infatti, un tema
scottante che rientra nelle problematiche affrontate dal Welfare State, e anche per questo,
soggetto a continue discussioni. Come affermano M. Tansella e G. De Girolamo: i disturbi mentali
costituiscono un importante problema di sanità pubblica per vari motivi: essi presentano
un’elevata frequenza nella popolazione generale, in tutte le classi di età: sono associati a
significativi livelli di menomazione del funzionamento psicosociale (cioè di difficoltà nella attività
della vita quotidiana, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari, ecc..); sono all’origine di
elevati costi sia sociali che economici. Il malato di mente, in tempi non lontani, era soggetto
all’isolamento e alla discriminazione. La patologia era uno stigma, aveva quindi un significato
meramente spregiativo che si poneva in antitesi con gli stereotipi relativi alla cosiddetta
normalità, considerata tale dalla cultura di riferimento. Con la nuova legge, nonostante
inadempienze e ritardi amministrativi e a volte carenze strutturali, si è riusciti, comunque, a dare
voce all’individuo, alla sua dignità, intesa come valore intrinseco della persona, valore che non si
traduce come mera funzionalità, come atti, ma come essere.

In ritardo di circa 70 anni rispetto alla Francia − che già nel 1838 aveva varato la legge sugli
alienati − l’Italia data la sua prima normativa sulla salute mentale solo nel 1904. È la legge n. 36 del
14 febbraio, che consta di soli undici articoli che prevedono le norme di ammissione e di
dimissione dall’istituto manicomiale, regolamentano il lavoro dei direttori e impartiscono le
regole amministrative da seguire. L’art. 1, comma primo di tale legge definisce i malati di mente
come persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o a
gli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente
custodite e curate fuorché nei manicomi. L’azione più importante era finalizzata, non alla cura
basata sulla ricerca delle motivazioni dei disagi provati e al successivo intervento terapeutico,
quanto, piuttosto, all’isolamento dell’individuo dalla società: rinchiudere uomini e donne che non
agivano quotidianamente secondo le regole dominanti nella cultura e nella società di riferimento
era fattore essenziale affinché la società stessa mantenesse il proprio equilibrio.

Ma isolare in strutture carcerarie, perché tali erano gli istituti manicomiali, non equivaleva
a risolvere il problema, anzi, dal momento che la tranquillità sociale era considerata
l’elemento più importante (così come importante era vivere in una società sana, di buoni
principi e profondamente religiosa), nei manicomi, molto spesso, venivano rinchiusi anche
quegli individui che, semplicemente, non vivevano secondo le regole culturali dominanti di
quella data società.

Ovviamente, il malato non guariva ma,piuttosto, sprofondava, sempre più, nei deliri della
sua mente.
Di particolare importanza, l’art.10 riguardante la gestione dei cadaveri degli alienati, che
prevedeva l’uso dei corpi e anche dei malati da parte degli uomini di scienza. In particolare,
l’articolo recita: nelle città che sono sedi di facoltà medico-chirurgiche, gli ospedali sono tenuti a
fornire il locale e a lasciare a disposizione i malati e i cadaveri occorrenti per i diversi
insegnamenti. Tale articolo riguardava, anche, i manicomi pubblici e privati.

Nel secondo dopoguerra, la necessità di una normativa si ripresenta in maniera pressante. Come
scriveva il deputato Ceravolo nella sua proposta di legge alla Camera dei Deputati il 17 novembre
del 1953: “bisognava appellarsi a criteri di umanità e giustizia perché sostituisce il concetto della
custodia di chi è colpito da un male guaribile, il concetto di cura, e redime l’infermo dalla ingiusta
qualifica di delinquente potenziale”.

Dopo diverse proposte di legge, il 18 marzo 1968 fu varata la legge n. 431. è probabilmente
il primo vero tentativo di restituire dignità e dimensione umana all’individuo.

Ciò che fino a questo momento era considerato aberrante, mostruoso e disumano, ciò che aveva
alimentato a dismisura le paure della comunità, ciò che aveva portato ad azioni e comportamenti
deliranti perché basati sulla non conoscenza, adesso conquista una categoria di riferimento e una
definizione ben precisa: malattia mentale.

Questo restituisce, apparentemente, all’individuo, la sua vita. Il malato deve essere considerato
come tale, non più come un criminale, e la sua patologia va curata e prevenuta. Di importanza
fondamentale, testimone di una reale volontà di cambiamento, è l’art. 11 che, di fatto, abroga l’art.
604 n. 2 della legge 36/104, che prevedeva l’obbligo della registrazione del malato nel casellario
giudiziario. L’iscrizione in questo casellario era come la marchiatura a fuoco, in Francia, dove
secondo il Codice Penale del 1810, si applicava sulla spalla la lettera P a coloro i quali erano
condannati ai lavori forzati a tempo, così come nel 1893, in Inghilterra, si tatuavano i delinquenti
tra le gambe o nello spazio interdigitale dei piedi. In questo modo, gli individui, anche una volta
tornati in libertà, o comunque reintegrati, avrebbero avuto per sempre, indelebilmente, il segno
dell’infamia. Ancora, con la legge n. 431 non si affronta il tema dei manicomi. La legge 180 è da
poco preceduta da un referendum abrogativo della legge 36 del 1904. Con questa normativa, si
apre una nuova era per la psichiatria, perché uno dei punti cardini è il trattamento sanitario
volontario.

La concezione dell’individuo malato è totalmente altra rispetto alle precedenti: l’intervento


terapeutico non è finalizzato a diminuire la sua pericolosità sociale ma a curarlo, a migliorare la
convivenza con se stesso e, quindi, con gli altri. Anche la definizione stessa della patologia cambia:
da pazzia a disagio mentale. Si restituisce dignità anche attraverso le definizioni, le parole. Se
l’insanità mentale era legata a concetti di possessione o di devianza, il disagio mentale esprime la
difficoltà di vivere da parte di un essere umano, ed è necessario, quindi, riequilibrare la sua salute.

E questo è un punto focale: il concetto di salute. In psichiatria, la salute è la condizione di assenza


della malattia, malattia che si rivela negando la salute. Ma come si definisce la malattia? E
soprattutto come si stabilisce il confine tra normale e patologico? Come afferma M. Augè, la
malattia è un paradosso, in quanto si presenta come fattore meramente individuale, poiché si
sperimenta sulla propria persona e, nello stesso tempo, è il più sociale degli eventi, perché le
categorie per definirla sono sociali, appartengono a quegli schemi di riferimento, a quelle norme
che ogni data società umana si dà e nelle quali si riconosce. Ogni anormalità costituisce il segno di
qualcosa che è già avvenuto o che sta per accadere: qualcosa che non tocca soltanto il soggetto
individuale ma, direttamente o indirettamente, coinvolge rapporti d’interesse comunitario (V.
Lanternari, 1994).
In antropologia, il concetto di salute non si costituisce a partire dalla sua contrapposizione con la
malattia, ma è strettamente legato all’ambito culturale di riferimento. Come afferma U. Fabietti:
“l’analisi di tale dominio (concetto di salute) rivela le numerose connessioni e la densità di
significati sociali e culturali che investono il corpo umano, sia laddove esso venga interpretato in
una dimensione strettamente biologica, sia laddove gli eventi che lo riguardano diventino il fulcro
per un’elaborata riflessione sulla costituzione della persona e sulle relazioni che la legano
all’ordine sociale (2001)”. Anche la malattia mentale, come il concetto più generale di malattia, va
inteso in rapporto alla propria cultura, quindi, solo individuando le coordinate culturali di
riferimento, e identificando il posto e il ruolo che ciascun individuo ricopre e svolge in una
determinata società si può comprendere la malattia.

Essa, quindi, deve essere interpretata, determinata di significato e questo può essere sia di natura
eziologica che sociale o anche entrambe. Comunque sia, è una manifestazione del sé che si
esprime attraverso un suo proprio linguaggio e suoi propri rituali che, ovviamente cambiano, a
seconda del tipo di società: vi sono quelle in cui l’individuo è pensato come un insieme di elementi
caldi e freddi in equilibrio e armonia e, quindi, la malattia si insinua negli interstizi di questi
elementi, nel punto esatto in cui si avvicinano e corrono paralleli, e concorre a destabilizzare
questa armonia, per cui, la cura è finalizzata al ripristino delle proporzioni degli elementi; vi sono
altre società in cui l’individuo è considerato come agito da un principio spirituale (anima) e,
quindi, la malattia può essere il furto o la compromissione di tale essenza vitale; o, ancora, società
in cui l’individuo è rappresentato come articolazione di una res extensa e di una (separata) res
cogitans, e quindi la malattia sarà affezione di ciascuno di questi domini, malattia del corpo o della
psiche (F. Vacchiano).

è chiaro che ogni cultura, nel momento in cui si dà delle norme di riferimento concepisce e
sviluppa anche le devianze da tali norme. Ad esempio, presso i Wolof del Senegal, la malattia
mentale risulta essere una punizione per non aver rispettato alcuni aspetti di un determinato
rituale, mettendo, quindi, in evidenza tutta quella serie di obblighi morali e pragmatici nei
confronti dei defunti; presso i Wirràrika del Messico, l’insanità mentale può essere frutto di un
anatema scagliato da uno sciamano verso il quale magari non si è portato rispetto; ancora, presso
le culture animiste, la pazzia è frutto di una contaminazione di uno spirito maligno che abita
luoghi proibiti come foreste, paludi, e così via. Per cui, le azioni insane dell’individuo saranno
determinate da questa possessione, così come accadeva durante il Medioevo quando
l’Inquisizione accomunava gli eretici ai pazzi: “non tutte le persone accusate di stregoneria erano
inferme di mente, ma, quasi tutti gli infermi di mente erano considerati streghe, maghi, posseduti
da incantesimi” (G. Zilboorg, H. Henry).

Ippocrate, nel V secolo a.c., considerava la follia una malattia del cervello, mentre per il
Cristianesimo era espressione della possessione da parte del demonio e pertanto punibile con le
più crudeli torture.

Nel Medioevo, invece, l’insano di mente era largamente accettato dalla comunità, ne era parte
integrante e costituente; la follia era il lato oscuro della quotidianità, era il male nel bene e
l’esistenza tragica degli individui, che oscillava tra la vita e la morte, conviveva con questa
immagine inquietante e familiare. In un momento storico così fortemente impregnato di religione,
il folle rappresentava la vacuità dell’esistenza umana, la caducità delle speranze, il confine sottile
tra la luce e le tenebre, e proprio per questo, l’insano di mente era custode segreto di un sapere
oscuro, altro, di una dimensione parallela a quella della realtà quotidiana, che aveva in seno le
verità. è a partire dall’età moderna, che la pazzia comincia ad essere considerata una malattia,
ma una malattia morale piuttosto che mentale: la considerazione della follia come crimine e non
come malattia, determina la prevalenza della concezione etica su quella giuridica e condanna al
silenzio e alla vergogna tutte quelle forme di alterità che, nel Medioevo e nel Rinascimento,
avevano trovato la loro rappresentazione nel mondo fantastico e miracoloso.

Il malato di mente comincia ad essere relegato in ambienti ben definiti, gli ex lebbrosari: emblema
di queste nuove locazioni è l’Hôpital General di Parigi, fondato nel 1656, che Foucault definisce il
terzo stato della repressione. Questa struttura è del tutto autonoma ed ha diritto di vita o di morte
sull’esistenza dei suoi ospiti. Da qui, comincia la storia dell’internamento, del maltrattamento,
della deprivazione totale. è ovvio pensare che in queste strutture era presente un’umanità molto
varia: da veri malati a criminali a dissidenti politici; ma anche individui dalla sessualità incerta o
dediti a costumi sessuali licenziosi. La follia, in questo periodo, veniva a rappresentare la diversità,
la devianza, ciò che era contro natura, e si potrebbe affermare, contro cultura; era associata al
mostruoso, all’aberrante, al corrotto e al marcio. Nel tardo XVIII sec., si comincia ad operare una
distinzione, si libera la follia dalla collusione con altre forme di devianza, ma viene ulteriormente
isolata. Sul finire del XIX sec., diventa vera e propria malattia. Chiaramente, nel corso del tempo,
anche gli interventi terapeutici sono cambiati e sono proprio questi che ci danno la misura delle
umiliazioni e le torture subìte dai degenti. Possiamo parlare, ad esempio, della terapia dell’acqua,
tanto usata in Francia nei primi anni del ‘800. Esquirol, medico e responsabile del manicomio
Charenton, dal 1826 al 1833, prescriveva vari tipi di bagni a seconda della gravità delle patologie:
potevano essere bagni tiepidi, bagni di immersione freddi o ancora bagni a sorpresa, per cui, ad
esempio, si prendeva un malato e lo si gettava di forza nelle acque di un fiume anche in pieno
inverno. Ma c’erano anche docce praticate inserendo il tubo nel retto a diverse profondità. La
terapia dell’acqua era legittimata dalla credenza che a seconda della temperatura, l’acqua potesse
cambiare la circolazione del sangue e, quindi, il modo in cui questo affluisce alla testa, da cui
dipendono le patologie. Oltre a questi interventi, molto usato era il salasso (in realtà se facciamo
un discorso più ampio, il salasso, a quei tempi, era considerato la panacea per tutti i mali, perché,
per qualsiasi tipo di malattia, si interveniva prima in questo modo), praticato anche attraverso
l’uso di sanguisughe poste sugli organi genitali. Veniva praticata, anche la flebotomia, consistente
nell’immersione dei piedi in acqua bollente con l’aggiunta di acido muriatico, purganti ecc.

Ciò, in quanto sopravviveva la concezione arcaica della malattia come punizione di una cattiva
condotta, come forma esplicita di una quotidianità vissuta non seguendo le regole della comunità;
quindi, era necessario il rito purificatore attraverso la fuoriuscita di quei liquidi del corpo che
avevano corrotto l’anima (e la testa). Usata era, anche, l’elettricità galvanica o magnetica, per lo
più posta, sempre, sulla zona anale o testicolare, ma come afferma V. Andreoli, illustre psichiatra
contemporaneo: “la forma più spettacolare ed efficace però, era quella del ferro rovente applicato
sulla nuca o sull’occipite” (1991). C’erano fustigazioni con fasci di ortica o fruste di pelle. Ancor più
drammatica, se possibile, è la sorte a cui erano destinate le donne, trattandosi di vere e proprie
sevizie: si va dalla clitoridectomia alla cauterizzazione, ma venivano praticate anche l’ovariectomia
e la dilatazione cruenta del collo dell’utero. Charcot, psicanalista, per curare l’isteria, utilizzava una
cintura che, per mezzo di una vite a pressione, comprimeva la regione ovarica di sinistra. Questi
interventi non sono dissimili dalle sevizie che le donne tutt’oggi subiscono in vari paesi del
mondo.

Nella prima metà del ‘900 fa la sua comparsa l’elettroshock. è singolare la situazione da cui ha poi
origine questa idea. è il 1937, il dott. U. Cerletti, allora direttore della Clinica di Neuropatologia e
Psichiatria di Roma, assiste, visitando il mattatoio di Roma, all’applicazione di corrente elettrica
sulla testa dei maiali. Con questa tecnica applicata agli uomini, il paziente giunge al coma e
all’arresto delle funzioni vitali: il cuore e il respiro si fermano almeno per un pò di tempo; la
rinascita è condotta con tecniche di rianimazione e, nel giro di alcuni minuti, il folle cammina,
rinato, nella sua stanza (V. Andreoli, 1991). Non dimentichiamo, inoltre, gli interventi invasivi
quali la lobotomia che riduceva nell’individuo, da un lato, la patologia, ma, con essa, anche la sue
capacità critiche e relazionali.
Alla luce di tutto questo, ci rendiamo conto come con la legge 180 ci sia stata una vera svolta
epocale.

L’art 1, comma 1, afferma: “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”. E il


comma 2: “nei casi di cui per legge, e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato,
possono essere, invece, disposti dall’autorità sanitaria nel rispetto della dignità della
persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto
possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura”.

Già da questo primo articolo si evince la restituita dignità al malato come individuo e la
restituzione del rispetto dei suoi diritti fondamentali quali, ad esempio, la libertà di scelta.

L’art. 34 comma 4 della legge 833 del 1978, articolo che riguarda i casi in cui invece si possa
ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio, afferma che: “questo può svolgersi in condizioni di
degenza ospedaliera, solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi
terapeutici, se gli stessi non vengano accertati dall’infermo, e se non vi siano le circostanze che
consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.

Secondo la normativa attuale, la degenza in ospedale ha una durata massima di una settimana
rinnovabile, e ha inizio con la proposta del medico curante, rivolta al sindaco che, nella sua qualità
di autorità sanitaria, ne dispone il provvedimento. Da notare che il sindaco − come si affretta a
specificare anche l’art. 33, comma 3 della legge 833/78 − interviene in virtù della sua autorità
sanitaria e non anche di pubblica sicurezza come invece era previsto per la legge 36 del 1904 e
dall’art.1 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. La proposta del medico, prima di giungere al
Sindaco, deve essere convalidata da un medico dell’unità sanitaria locale che deve motivare tale
convalida, in relazione all’art. 34, comma 4 della legge 833/78.

La nuova normativa sulle patologie psichiche ha una visione completamente diversa:


abolendo le strutture manicomiali, come nuovo territorio della psichiatria, utilizza tutta una serie
di istituzioni che possano essere alternative e interdipendenti tra di loro. In questo modo, si
intende realizzare una fitta rete di servizi, il cui scopo non sia quello di internare ma ricercare,
continuamente, soluzioni riabilitative per quegli individui che soffrono di disagio mentale.

Di fondamentale importanza è anche il confronto con chi soffre: concentrarsi sulle storie di
vita, sull’ambiente in cui si è vissuto, sugli stimoli ricevuti e sulle esperienze avute, aiuta a
comprendere.

Se è vero che con la legge 180 c’è stata una reale svolta epocale nella considerazione del disagio
mentale, pur tuttavia, questa normativa non è esente da critiche. La gestione del problema
psichiatrico da parte delle singole regioni non sempre ha dato risposte soddisfacenti, e ciò per
tutta una serie di motivazioni, non ultima proprio dal punto di vista operativo, il passaggio da una
normativa a un’altra. In realtà, i punti su cui si dibatte da tempo, sono sia di natura tecnica che
socio-sanitaria. Non sempre gli ex-manicomi, ad esempio, sono stati smantellati; più spesso, c’è
stata una riconversione poiché è stato impossibile creare strutture alternative e, parallelamente,
vi è stata la proliferazione di case di cura private che, molto spesso, salgono agli onori delle
cronache (nere) perché veri e propri lager; per quanto riguarda i Dipartimenti di Salute mentale,
da più parti, si lamenta la poca specializzazione del personale che dovrebbe essere sottoposto a
continua formazione; inoltre, c’è la gestione della malattia a livello sociale: la famiglia e i cittadini
Rilevanza dei disturbi mentali ai fini dellaresponsabilità

Si pone, quindi, il problema di valutare il rapporto fra lo stato psicopatologico ed il


comportamento criminale, cui corrisponde un criterio o metodo di accertamento della
responsabilità. Schreiber ha individuato tre diversi metodi di valutazione della
responsabilità penale:

1) il metodo psicologico normativo, che consiste nel valutare l’esistenza di malattie o disturbi
psichici e valutarne l’incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Circa i fattori
psicopatologici, non sempre la legge li definisce, mentre si limita a far riferimento
a concetti molto generali, che poi sono interpretati estensivamente. Per quanto attiene la capacità
di intendere e volere, nella maggior parte dei sistemi penali, che seguono tale metodo valutativo (e
sono quello danese, francese, olandese, austriaco, irlandese portoghese, svizzero, tedesco, greco e
il nostro), è sufficiente che manchi anche solo una di esse perché il soggetto non sia considerato
punibile. Come rileva Pulitanò, il primo metodo, quello misto, è fatto proprio dal nostro codice
penale. In base a tale metodo, quindi, non occorre solo individuare lo stato patologico, ma, anche,
la verifica normativo-giurisprudenziale della rispondenza di tale stato a una condizione di
infermità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere o
entrambe;

2) il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da determinate


malattie mentali, senza valutarne la loro incidenza sulla capacità di intendere e di volere
(Norvegia e Svezia seguono questo metodo). Ne consegue, ed è l’esempio svedese, che il malato
mentale venuto a contatto con la giustizia penale non può essere sottoposto a sanzioni penali
punitive, ma deve essere sottoposto a misure di trattamento psichiatrico;

3) il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici, ma valuta solo se, al
momento del fatto, sussisteva la capacità di intendere e di volere. Tale metodo non è seguito in
nessuno dei paesi europei (almeno di quelli membri dell’U.E.) e fa capolino solo in quelli in cui
l’elemento psicopatologico, interpretato in modo estensivo, conduce a effetti distortivi e ad abusi
contrari al senso di giustizia. Occorre, anche, chiarire che esiste un legame tra il criterio utilizzato
per definire il disturbo psichico e il criterio per rilevare il rapporto tra disturbo e imputabilità:
quanto più è allargato il criterio diagnostico, più è vincolante il rapporto tra malattia
mentale e comportamento.

Nonostante il maggior sforzo critico dei magistrati, ancora oggi, il legame tra disturbo psichico e
comportamento criminoso, soprattutto per quanto attiene i reati di violenza, resta in piedi. Anche
se non esiste più il meccanicismo per il quale il malato di mente è solo per questo prosciolto, si
cerca il legame di causalità tra lo stato patologico e l’atto criminoso, come se questo fosse sintomo
della malattia, del disturbo.

In realtà non sembra che si possa affermare che il reato sia sintomo della malattia, e ciò anche nei
casi più gravi ed efferati.

La valutazione dei problemi connessi con l’imputabilità e la responsabilità penale a livello dei casi
individuali, nel campo delle scienze di tipo clinico, come sono la psicologia e la psichiatria, hanno
evidenziato come i periti non sono scientificamente qualificati per fornitore pareri, se non veri e
propri giudizi, in merito a questioni morali e filosofiche, come la responsabilità o l’imputabilità
penale. Giustamente, Canepa, fà notare che il parere del perito è trasformato, dal magistrato, in un
giudizio morale sulla responsabilità, e, quindi, sulla libertà del soggetto che deve essere giudicato;
ma il perito non ha la competenza per esprimersi sulla responsabilità e sull’imputabilità; da qui, la
richiesta di revisione di tali concetti in seno al codice penale. Per Canepa, il perito dovrebbe
limitarsi alla comprensione clinico-fenomenologica dell’atto criminoso ed elaborare un
programma di trattamento finalizzato alla risocializzazione.

Relazione tra disturbi mentali e pericolosità

Nella versione originale del codice Rocco, nei confronti dei prosciolti per vizio di mente, vigeva la
presunzione di pericolosità, e, di conseguenza, l’obbligo di assegnazione all’O.P.G. (Ospedale
Psichiatrico Giudiziario), per un tempo predefinito nel minimo, ma non nel massimo, in funzione
della gravità del reato e non della malattia.

L’ avvenuta guarigione prima dello scadere del termine della misura, così come la concreta e reale
non pericolosità del soggetto, non avevano alcuna rilevanza. Analogo regime vigeva per i
seminfermi, con l’ulteriore incongruenza che la misura si aggiungeva alla pena diminuita. Ciò sulla
base di una duplice presunzione: accertata infatti la incapacità di intendere e di volere del oggetto
conseguente ad una sua infermità psichica, viene presunta dal legislatore la di lui pericolosità
sociale; a sua volta, però, la norma, presume, pure, che l’infermità cui è collegata la pericolosità,
individuata rispetto al momento della commissione del fatto, perduri fino a quando si procede
all’applicazione della misura di sicurezza.

La conseguenza, inaccettabile sul piano costituzionale, è che può subìre la misura di sicurezza un
soggetto che, nel lasso di tempo intercorso tra i due momenti predetti, sia guarito dallo stato di
alterazione mentale, senza che però ciò valga a differenziarlo, sul piano giuridico, da chi è ancora
infermo.

Solo la legge 663/1986, abrogando ogni fattispecie di pericolosità presunta, ha risolto


definitivamente il problema del binomio pericolosità sociale-infermità mentale, consentendo, così, di
considerare quest’ultima, non più come una causa speciale di pericolosità, ma come un qualsiasi
fattore che, interagendo con gli altri, può esercitare un’efficacia criminogena; si può, quindi,
escludere l’applicazione della misura, non solo quando l’infermità è venuta meno o è migliorata, ma,
anche quando, pur essendo questa immutata rispetto all’epoca della commissione dei fatti, risulti
comunque improbabile che il soggetto ponga nuovamente in essere comportamenti lesivi degli
interessi della collettività: in altri termini, si può affermare, che anche la pericolosità sociale
dell’infermo di mente deve accertarsi, non soltanto sulla base di emergenze di natura medico-
psichiatrica, ma sulla base di tutti quei criteri di valutazione di cui all’ art. 133 c.p.; quindi, il giudice
è legittimato a prendere in esame qualsiasi elemento utile a detto accertamento, compreso
l’ambiente in cui il soggetto liberato verrebbe a vivere e operare, e la presenza ed efficienza o meno
di presidi territoriali socio-sanitari ai fini della continuità nell’assistenza psichiatrica; da ciò,
consegue che detto accertamento è compito esclusivo del giudice, che non può abdicarvi a favore di
altri soggetti, quali il perito, né rinunciarvi, pur dovendo tener conto dei dati relativi alle condizioni
mentali e comportamentali in cui si trova il soggetto interessato, eventualmente indicati dal perito.

La conseguenza dell’attuale disciplina è che, nei confronti dell’autore di reato, anche gravissimo,
che sia stato prosciolto per vizio totale e che non venga riconosciuto pericoloso, non è previsto
nessun provvedimento ed egli sfugge a qualsiasi terapia o cura appropriata.

La mancanza di alternative intermedie tra l’internamento in istituto e la rimessione in libertà, senza


possibilità di imporre alcuna forma di controllo o di aiuto agli infermi di mente, investe di una
grossa responsabilità il giudice e lo psichiatra forense, chiamato a esprimere un giudizio di
pericolosità, che si traduce, o in una profonda limitazione della libertà personale, o in una totale
rinuncia alla difesa sociale. Unica soluzione intermedia che può aprirsi per il malato di mente
giudicato socialmente pericoloso è la possibilità che, in sede di accertamento della pericolosità prima
dell’esecuzione in concreto della misura o successivamente in sede di riesame della pericolosità, il
magistrato di sorveglianza dichiari non venuta meno, ma attenuata, la sua pericolosità sociale e
disponga la conversione della misura manicomiale in quella della libertà vigilata, meno lesiva della
libertà personale.

Inoltre, persiste la difficoltà di conciliare il dubbio e lo scetticismo sulle capacità predittive


della psichiatria, che come tutte le scienze che hanno per loro oggetto l’uomo, non è una
scienza esatta, con la necessità, da parte del diritto, di risposte certe.

L’ampliamento del ruolo e della responsabilità del perito psichiatra, porta, quest’ultimo, ad
esprimersi sulla pericolosità sociale, fino ad essere chiamato, tenuto conto dell’ampia delega operata
abitualmente dai magistrati in favore dei tecnici chiamati a esprimere il loro parere, a operare un
giudizio che, secondo l’opinione dominante, non è da considerarsi di competenza medica e ad
assumersi una responsabilità che non gli compete, tra i due opposti rischi di sconfinare in una
sovrastima della pericolosità sociale o di agevolare i simulatori che, se giudicati imputabili, e non
pericolosi, non subiranno alcuna sanzione. Meglio sarebbe, secondo tali autori, che allo psichiatra
fossero riservate considerazioni tecniche su elementi quali le caratteristiche individuali della
malattia, l’eventuale miglioramento o guarigione della stessa, le indicazioni terapeutiche, la
prognosi legata al tipo di interventi; elementi che poi il giudice utilizzerà per effettuare (egli stesso)
il giudizio di pericolosità, non delegabile ad altri, avvalendosi anche di tutti quei dati per la cui
valutazione non è necessaria una competenza di tipo medico, quali la gravità del reato, l’allarme
sociale, i fattori situazionali, i precedenti penali, e così via.

Altri autori, poi, ammettono la competenza predittiva del perito psichiatra, ma, solo se congiunta
alla formulazione di un programma terapeutico. Il binomio prognositerapia, dimostratosi valido in
ogni settore della medicina, conserverebbe la sua validità anche in psichiatria forense, coinvolgendo
nei progetti terapeutici i servizi psichiatrici civili territoriali, che sono, oggi, abilitati ad occuparsi
anche dei malati di mente in detenzione, siano essi imputati o condannati. Naturalmente, ciò che i
critici della capacità predittiva della psichiatria contestano non è la necessità di formulare
predizioni nella quotidianità del vivere, bensì, il fatto di gabellare per scientifiche, prognosi che non
sarebbero più sicure di quelle basate sul senso comune. Resta però il fatto che, se si deve ammettere
che, al folle residua, pur sempre, uno spazio di libertà, sappiamo anche che ogni disturbo mentale
comporta una riduzione di questa area. Inoltre, le dinamiche dei disturbi mentali sono note alla
psichiatria, e le reazioni dei soggetti che ne sono affetti sono più rigide di quelle delle persone sane,
più frequentemente stereotipate e più agevoli ad essere previste. Nonostante ciò, non sono possibili
certezze, perché il malato non è guidato, nella propria condotta, soltanto dalle dinamiche
psicopatologiche, che, seppur rilevanti, non eliminano la sua libertà di scelta.

Le predizioni psichiatriche sono, pertanto, possibili, ma contengono un margine ineliminabile di


errore, che impedisce di farle assurgere a dignità di certezze scientifiche.
Posto però che il diritto penale vigente deve poter disporre, per il suo corretto funzionamento, così
come dei giudizi di colpevolezza, anche di quelli di pericolosità sociale del reo malato di mente, la
psichiatria può fornire al giudice ulteriori elementi di valutazione, ma la responsabilità ultima del
giudizio di pericolosità è pur sempre del giudice, nella veste di peritus peritorum, non potendo
attribuirsi al perito la funzione di arbitro del conflitto fra la sicurezza sociale e la libertà individuale.
In conclusione, ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale del soggetto affetto da malattia di
mente, occorre tener presente che nulla consente di affermare con certezza che in determinate
circostanze di tempo e di luogo, o sotto determinate spinte emotive o psicologiche, il malato di
mente possa, o meno, porre in essere azioni delittuose che non sarebbero compiute, nelle stesse
condizioni, da una persona sana; ma, anche che in materia di prognosi comportamentale, non può
negarsi che l’esistenza di una malattia mentale o di disturbi alla sfera neuro-psichica, costituisce un
elemento tale da pesare in modo rilevante. Sotto tale profilo, il giudice dovrà attendersi,
dall’indagine tecnica, specifiche indicazioni circa l’attualità della malattia, il livello di intensità con
cui essa si presenta, la possibilità di attuare, in ambiente diverso dallo stato di libertà, adeguate
terapie con ragionevole previsione di efficacia, la compatibilità della condizione morbosa del
soggetto con l’inserimento in un ambiente (sociale e familiare) di cui siano state preventivamente
valutate la natura e le caratteristiche di recettività, gli elementi di danno che possono derivare al
malato dalla privazione della libertà, nonché gli elementi che possono determinare il soggetto alla
perpetrazione di nuovi reati. Acquisiti tali elementi di valutazione tecnica, il giudice dovrà
esprimere, sulla base di questi, ed utilizzando i criteri di cui agli artt. 203 e 133 c.p., il giudizio circa
l’esistenza, la permanenza, l’attenuazione o il venir meno della pericolosità, pur tenendo presente
che, in tali casi, l’infermità psichica, in quanto condizionante l’attuazione stessa della prognosi di
pericolosità, è l’elemento di maggior peso ai fini di quest’ultima.

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