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Educazione alla legalità

Pedagogia
Università degli Studi di Genova
12 pag.

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EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’

EDUCARE ALLA LEGALITA’, UN CAMMINO DA CONTINUARE CON CORAGGIO

Parlare di legalità e di educazione alla legalità costringe a pensarci e a ripensarci. I


contributi proposti nel presente volume sono piste di lavoro ed imput per un’adeguata
riflessione. Sia i curatori sia gli autori sono consapevoli che una società aperta corre dei
rischi, ma che un’altrettanta società chiusa ne azzarderebbe di più.
L’azzardo, quando gestito in modo vigile, si trasforma in un occasione di crescita e
sviluppo. Tutti gli operatori coinvolti nei settori della giustizia, della sicurezza e degli
interventi socio educativi devono prendere atto della necessità di passare dalle parole ai
fatti concreti. Un ulteriore concetto importante è quello inerente alla legalità, convivenza
civile e soddisfazione di vivere, qui ed ora, non si imparano studiandoli sui libri ma
attraverso esperienze di vita quotidiana.
Vivere nella legalità e per la legalità indipendentemente dalle funzioni svolte da ognuno di
noi ci consente di esistere in un contesto ecologicamente ben vissuto e ben attrezzato.
La legalità, l’intercultura, la responsabilità e l’inclusione diventano elementi fondamentali
per la messa in costruzione di una società al plurale dove tutti possono concorrere a
creare condizioni di vita dignitose per sé stessi e per gli altri.

La legalità non significa solamente rispetto delle regole, ma un sentimento di crescita


vissuta e partecipata, per lasciare spazi di sviluppo a tutti, anche a chi si trova in
condizioni di disagio.
Per raggiungere questo obiettivo occorre coerenza ottenibile mediante un programma di
pedagogia della legalità per il quale sia possibile coniugare il valore della triade: istruzione
– formazione – educazione.

Partono da lontano le difficoltà che hanno contraddistinto lo sviluppo della cultura


occidentale che ha dovuto percorrere un lungo cammino verso la legalità, cioè verso forme
di vita associata in cui fosse riconosciuta, in modo certo, l’esistenza di un principio
superiore, riconosciuto da tutti e a cui tutti si debbono uniformare. La cultura occidentale
affonda le proprie radici nella cultura greco-romana ed è proprio nella cultura greca che
troviamo raccontato il passaggio dalla legge del ghenos, caratterizzata dalla vendetta e dai
delitti di sangue, all’istituzione di un tribunale destinato a far rispettare la legge ponendosi
al di sopra delle parti contendenti.
L’Atene del V Secolo, considerata a lungo modello di democrazia e legalità, mostra i suoi
limiti quando si impone agli abitanti dell’isola di Melo in base alla legge del più forte. Ci si
accorge quindi facilmente che il raggiungimento di una forma di legalità, di autorità
costituita non è di per sé una garanzia di giustizia.

Vi sono anche delle radici romane del concetto di legalità. Nelle fasi più antiche della storia
di Roma la religione e il diritto non sono distinti e vengono anche considerati concetti
equivalenti.
La trasmissione dei valori era di competenza della famiglia, in quanto la religione si
occupava esclusivamente del rapporto uomo-dei.
Tra le pietre miliari, che costituiscono le radici della cultura occidentale, dobbiamo
ricordare l’apporto del mondo ebraico che riconosceva nella storia della propria legge 3
tappe essenziali:
1. La legge naturale. Fin dalle origini l’uomo è posto di fronte alla necessità
dell’obbedienza alla legge di Dio, che ha come conseguenza la conquista nel
Paradiso.

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2. La legge antica. Il popolo del Vecchio Testamento viene posto di fronte a una
legge positiva, rivelata da Dio stesso, la Torah di Mosè. Essa regola la vita degli
uomini in tutti i campi: prescrizioni morali, giuridiche e culturali che assommano
le istituzioni temporali di un popolo in particolare, Israele, legato a Dio. La Torah
di Israele si distingue in modo netto dagli altri codici e appare come un
insegnamento dato in modo imperativo da Dio stesso.
3. La nuova legge. Già nel Vecchio Testamento è attestato che la legge avrebbe
subito un profondo cambiamento: non si trattava più soltanto di una legge
esterna all’uomo, scolpita sulla pietra, ma essa sarà scritta in fondo ai cuori.
Questa sarà la predicazione di Gesù, che non contraddice Mosè, ma lo spiega,
lo continua, ne perfeziona gli insegnamenti.

Con il concetto di educazione alla legalità si vuole intendere l’atto di prevenzione e non di
soccorso di chi si trova in situazioni di fragilità, vulnerabilità e di marginalità e che ha diritto
ad essere sostenuto ed aiutato a raggiungere stili di vita dignitosi.

LEGALITA’ E LEGAMI FAMILIARI

Educazione alla legalità in famiglia assume il senso di un progetto più ampio nei confronti
dei figli che riguarda sia il loro divenire umanamente uomini e donne, sia il loro senso
etico-politico per la comunità. Una pedagogia delle relazioni genitori-figli è chiamata a
sviluppare una epistemologia della legalità, che abbia presente la percezione che viene
offerta ai figli rispetto al senso della legalità, la quotidiana coerenza nel concreto vivere e il
rendere esplicito ai figli il proprio ethos di riferimento.

La legalità è una presenza percepibile come un atmosfera che abita la famiglia. La legalità
è un esperienza che si respira nel contesto familiare di origine, è uno dei codici che guida
e orienta il modo di essere delle figure genitoriali, è soprattutto un comportamento, un
modo di vivere che agisce in modo implicito. La prima educazione, in tal senso, passa
proprio attraverso l’atmosfera di legalità che viene generata nella famiglia, non solo come
conformità alle leggi, ma in risposta al sentirsi appartenenti alla propria comunità e alle sue
leggi fondamentali. La famiglia ha il compito fondamentale di creare e far respirare ai figli
un atmosfera di legalità.
La legalità, inoltre, è strettamente connessa alle relazioni primarie, alla regolazione
emotiva, al tipo di comunicazione familiare, agli stili educativi genitoriali, alle norme
intrinseche ed estrinseche di riferimento.
Nella pratica quotidiana è possibile dare alcune indicazioni operative sia ai genitori che
agli operatori professionali.
La prima indicazione riguarda le regole familiari, come comunicarle e come farle rispettare.
Le regole devono essere poche, chiare e valide per tutti i membri. Devono essere
comunicate apertamente e con amorevolezza. Nel comunicare dei no, degli stop, è
importante non sovracaricare la comunicazione con eccessiva ansia e nervosismo.
L’autorevolezza e l’empatia sono lo strumento principale che il genitore può utilizzare per
far rispettare le norme. A seconda del ciclo di vita della famiglia (infanzia, fanciullezza,
adolescenza) sarà importante lasciare uno spazio di revisione delle norme, attraverso il
dialogo. Quando i figli iniziano a mettere in discussione le regole, iniziano anche a
esprimere la loro intenzionalità nel differenziarsi per poter esprimere la propria unicità.
Anche in questo caso diventa fondamentale il dialogo. La democrazia si impara in famiglia,
proprio attraverso delle esperienze di reciproca partecipazione all’impostazione delle
norme fondamentali.

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Educare al senso critico e politico: la partecipazione di tutti i membri della famiglia alla
costruzione delle regole familiari è un primo passo anche verso la possibilità di discutere
in famiglia dei temi della legalità.
È importante che i genitori prestino attenzione ai seguenti aspetti:
- Coerenza interna tra verbalizzazione e comportamenti
- Utilizzo della normatività domestica in senso poliziesco e militaresco, ma attraverso
una co-costruzione di significato rispetto alle norme
- Attenzione ai discorsi che spontaneamente vengono fatti in casa e che potrebbero
essere svalutativi delle istituzioni
- Non utilizzare le forze di polizia come spauricchio per far rispettare le regole
- Dedicare del tempo al gioco simbolico rispetto al tema della legalità
- Riappropriarsi del ruolo fondamentale della famiglia come mediatore tra individuo e
società
- La primissima educazione alla legalità inizia in famiglia: sentirsi pienamente
partecipi di questa dimensione come cura dei figli.

CONFINE TRA LEGALITA’ E ILLEGALITA’ NEL QUOTIDIANO E NELLA SCUOLA

Nel caso delle mafie si possono considerare:


- Le pratiche educative che presiedono ai processi di affiliazione alle organizzazioni
criminali; si può studiare come viene curata, programmata la crescita di piccoli
criminali (e se si può curare la crescita della cultura mafiosa si può curare la
crescita della cultura della legalità)
- Le marginalità sociali, le nuove povertà che, in qualche caso, possono offrire una
platea di disperati senza altra opportunità se non quella, apparentemente facile,
dell’illegalità
- I rapporti tra pedagogia nera e sviluppo di condotte criminali perché chi è stato
ferito, umiliato, maltrattato, violentato, ha finito per imparare esclusivamente il
linguaggio della violenza.
Un primo settore d’intervento sarà quello di riconoscere le radici, le modalità di approccio e
di penetrazione della cultura mafiosa nelle coscienze e nelle vite dei singoli e
contestualmente ipotizzare, progettare, creare o ricreare altre opportunità, se non
maggiormente seducenti almeno sufficientemente in grado di integrare la quotidianità del
vivere con la dignità e il rispetto umano di sé e dell’altro.

Indifferenza, pensiero ambiguo e cittadinanza attiva


Il tema di cui stiamo analizzando le radici e le metastasi è quello dei confini tra legalità e
illegalità nel quotidiano, in particolare quello della mentalità mafiosa.
Qui il problema è quello dei confini a volte assai fragili tra legalità e illegalità nella vita di
tutti i giorni, in famiglia, a scuola, nel lavoro; e non tanto quello delle forme conclamate ma
quel pensiero sottile, ambiguo e ambivalente nei confronti delle regole della vita sociale,
nei confronti della legalità quando questa contrasti o incida negativamente sui propri
interessi. Ed è proprio questo pensiero ambiguo che favorisce la rispettabilità del pensiero
mafioso.
Uno dei primi elementi di contesto è esattamente quel pensiero pseudomafioso che rende
accettabile e umanamente comprensibile il ricorso a scorciatoie più o meno lecite,
favoritismi, raccomandazioni, piccole e grandi illegalità.
Non si vuole sostenere che poiché i cittadini non prestano particolare attenzione alla
pervasività dell’infiltrazione mafiosa nella loro quotidianità e ancor meno si fanno parte
attiva contro di essa, e addirittura, qualche volta la giustificano allora la penetrazione alla
criminalità organizzata deve essere considerata il frutto della loro assenza di impegno e di

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responsabilità. Si vuole invece segnalare come fra gli antidoti allo sviluppo della mafia e
della cultura mafiosa si ponga l’idea e la pratica della cittadinanza attiva, ovvero di un
atteggiamento che presuppone una vigilanza attenta, un pensiero consapevole, una
coscienza critica, una conoscenza profonda e una sperimentazione attiva dei principi della
legalità e della democrazia, ovvero un clima in cui la democrazia cresce, si alimenta, si
sviluppa, è contagiosa e lascia poco spazio ai semi della criminalità. La pratica della
cittadinanza attiva si pone come educazione a evitare il rischio e come misura rieducativa.
La cittadinanza attiva diventa così un presidio costante di democrazia e di legalità, da
considerare come il migliore esempio di educazione civica e, insieme, come il più efficace
strumento di contrasto alla criminalità.
I nostri vaccini-antidoti contro la mafia, contro la criminalità organizzata, sono i nostri valori
di libertà, democrazia, sicurezza, solidarietà, sia i presidi di legalità, non solo le forze
dell’ordine, gli insegnanti, ma anche le buone prassi quotidiane, lo spirito civico, la
cittadinanza attiva che presuppongono l’assunzione di impegni e di responsabilità e,
ancora prima, una solida formazione culturale, una matura consapevolezza dei propri diritti
di cittadinanza e l’esercizio della legalità nel quotidiano, nella scuola, nel lavoro, nelle
pratiche educative in famiglia, nei rapporti amicali, nelle relazioni con l’altro e con le
istituzioni, nell’ambito di quelli che sono i nostri ruoli, pubblici e privati.
Speso si mostra indifferenza verso il fenomeno mafioso perché lo si percepisce come un
qualcosa che non ci riguarda per: collocazione geografica, per la spettacolarizzazione con
cui il tema viene trattato e quindi come un qualcosa che non appartiene ai comuni cittadini
e per la sua lontananza culturale perché la cultura mafiosa si alimenta di omertà,
sopraffazione, di violenza, di sfruttamento che non sembrano essere i nostri valori di
riferimento. Ma le cose non stanno esattamente così. Dovremmo imparare a
problematizzare queste convinzioni e a riconoscere la necessità di assumerle come
questioni che ci riguardano.
I confini tra legalità e illegalità nel quotidiano sembrano a volte un po' troppo aperti. Il
confine è una zona di transito regolato da norme, ma proprio per questo è anche uno
spazio di passaggio, si può andare al di la di esso, sperimentare, mettere e mettersi alla
prova e valutare. Il confine non è necessariamente una porta infernale, si può configurare
come un occasione di sviluppo, di apprendimento su di se e sul mondo. Nel caso di cui
parliamo l’attraversamento del confine deve possedere il carattere della reversibilità,
ovvero si deve poter tornare indietro. I supporti educativi, familiari, scolastici devono poter
consentire di ritornare indietro.
Il compito che ci si affida non è soltanto quello di denunciare l’indifferenza, il pensiero
ambiguo ma è soprattutto quello di fornire spunti e indicazioni per affermare la cultura
della legalità. E questa si può costruire solo facendone esperienza diretta in contesti reali
e significativi, a partire dalla scuola e dalle famiglie, e poi nelle istituzioni, attraverso la
forza persuasiva dell’esempio e della testimonianza.

FIDUCIA E RELAZIONE D’AIUTO TRA POLIZIA E CITTADINI

La legalità della quale si ha l’ambizione di trattare è quella che si incontra nei percorsi di
vita delle persone e negli spazi dove le stesse si incrociano; si tratta di spazi materiali e
mentali dove non mancano ostacoli e tra questi la paura svolge certamente un ruolo
fondamentale.
Gli spazi urbani risultano sempre più turbolenti e il contatto con le differenze culturali
contribuisce a generare, se vissuto nella prospettiva errata, una sensazione di rischio
continuo. Il rischio è rappresentato da forme di ansia e aggressività che aleggiano nella
vita delle nostre città e che possono trasformarsi in un continuum, formato in successione
da: pregiudizio, isolamento, ostilità e violenza.

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La strada da percorrere si snoda nel labirinto delle relazioni umane, è una strada che non
si può affrontare da soli senza attingere alle fondamentali risorse della solidarietà e della
collaborazione. L’antidoto ideale alla paura è la fiducia. La fiducia che è importante per la
diffusione della cultura della legalità è un intreccio tra quella espressa nei rapporti
interpersonali e la cosiddetta fiducia sistemica, che si ripropone in un sistema o
organizzazione che ha guadagnato nel tempo un patrimonio di affidabilità.
Il senso civico è profondamente legato alla fiducia di trovare uno Stato che sia, prima che
fonte della nostra cittadinanza, prodotto di una relazione con i cittadini e tra gli stessi.
Chi rappresenta lo Stato non può non avere un compito primario nella formazione del
cittadino. Il funzionario, dalla scuola alla Polizia, incarna nella rappresentazione del
cittadino il mondo del civismo e della giustizia e conseguentemente i suoi atteggiamenti e
comportamenti sono fondamentali per avviare la promozione educativa della cittadinanza.

Il ruolo della Polizia di Stato


La formazione del cittadino avviene in uno spazio educativo ampio, costituito da tutti i
mondi del quotidiano che rispecchiano la complessità della convivenza, dove devono
operare le reti sociali, che si dipanano dalla scuola verso le altre realtà associative e
istituzionali.
La società impaurita esprime una forte richiesta di sicurezza. L’individuo non può avere
sicurezza reale senza una visione che si estenda agli interessi altrui e alla coesione della
comunità. Non può esservi sicurezza senza coesione sociale. In questa prospettiva si è
trasformata anche la missione delle Forze dell’ordine, che pur mantenendo un ruolo
tradizionalmente difensivo, hanno seguito un percorso culturale che permette oggi di
riflettere sulla loro funzione educativa.
L’attività della Polizia e le relative culture organizzative hanno seguito negli anni
un’evoluzione di progressivo avvicinamento ai cittadini. Permane la funzione di baluardo
contro il crimine, ma il ruolo della Polizia assume una prospettiva più complessa; si
diffonde l’idea di una Polizia vicina ai bisogni della comunità che rende il cittadino
partecipe delle scelte in materia di sicurezza. Le strategie della Polizia assumono quindi
un carattere più preventivo, attraverso uno sforzo educativo.
L’attività preventiva non si limita semplicemente a ridurre le occasioni di reato
intervenendo sulle situazioni a rischio (prevenzione situazionale) ma si estende alla
dimensione sociale, intervenendo sulle cause dei comportamenti illegali (prevenzione
sociale); in particolare si sviluppa l’ambito della Polizia orientata alla soluzione dei
problemi e quindi con alta propensione ad attività di mediazione, che richiede spesso
interazione con altre agenzie del territorio. La mediazione e l’ascolto sono strumenti
essenziali per la sicurezza partecipata che si caratterizza per relazioni reciproche e più
dinamiche tra cittadini e professionisti della sicurezza. A una Polizia che va verso il
cittadino, per averne la fiducia e non essere percepita come organo punitivo e ostile, si
aggiunge una comunità che partecipa alla costruzione della legalità.
Tra i compiti della comunità e della scuola c’è quello di dare senso alla regole. Le regole
costruite dal mondo adulto e la necessità di condividere i propri spazi con i coetanei
rappresentano sfide interculturali che possono generare frustrazioni in assenza di
riferimenti che diano i necessari orientamenti per navigare nel mondo. L’impegno
educativo teso a tali obiettivi deve produrre la massima estensione; la comunità dovrebbe
evitare zone grigie che lascino la scuola in solitudine nel realizzare una missione che non
può prescindere dal contributo del territorio. Tra le risorse istituzionali che possono fornire
un importante contributo troviamo la Polizia di Stato. Le scuole chiedono in modo costante
il contributo degli operatori della sicurezza per affrontare temi di grande attualità educativa,
quali bullismo, cyberbullismo e comportamento stradale. L’autorevolezza del ruolo e la
fiducia sono certamente strumenti che possono garantire un buon avvio della relazione

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con i giovani, inoltre, in prospettiva preventiva, la collaborazione tra enti e professionalità
produce maggiore autorevolezza a favore di tutti coloro che devono concorrere alla
trasmissione del senso civico.
La dimensione sociale del lavoro di polizia implica un ampio patrimonio parzialmente
sommerso di competenze, tra cui quella di sapersi approcciare ai giovani.

LA PEDAGOGIA COME USCITA DALLA SUBCULTURA MAFIOSA, LA CULTURA E


LA CONOSCENZA COME ANTIDOTI ALLA PEDAGOGIA MAFIOSA

Le mafie sono un insieme di organizzazioni criminali che agiscono all’interno di un sistema


di rapporti, svolgono violente attività illegali ma anche fortemente legali finalizzate
all’arricchimento, all’acquisizione e alla gestione di posizioni di potere, si avvalgono di un
codice culturale e godono di una certa posizione sociale.
In Italia troviamo 4 organizzazioni criminali: Camorra (Campania), Sacra Corona Unita
(Puglia), Cosa Nostra (Sicilia) e ‘Ndrangheta (Calabria); che possiedono differenze ma
anche similitudini. Le differenze sono orientate sulla struttura gerarchica e sulla signoria
territoriale.
Le mafie educano attraverso una pedagogia mafiosa che si avvale della pedagogia nera.
La pedagogia nera è quello stile educativo che legittima l’uso della violenza e delle
punizioni che assumono un ruolo fondamentale di strumento educativo; essa onda le
proprie basi su 3 principi fondamentali:
1. I genitori e gli adulti vanno rispettati a priori
2. L’obbedienza fortifica
3. La severità e la freddezza nell’educare rappresentano una buona preparazione alla
vita.
La pedagogia nera considera i bambini piccoli uomini da formare, ed è basata sul
presupposto che l’infanzia abbia in se qualcosa di sbagliato che deve essere corretto
prima che diventi troppo tardi. I principi di tale pedagogia possono causare sofferenze e
creare danni psicologici, contribuendo allo sviluppo di adulti emotivamente instabili in
grado solo di sottostare alle regole del più forte per paura di un abbandono e della
solitudine e le violenze messe in atto creano nei bambini una mancanza di dignità e di
rispetto da parte degli adulti, negando loro ogni diritto attraverso la giustificazione
dell’immaturità.
Questo stile educativo è alla base dell’educazione e della pedagogia mafiosa che
caratterizzano l’intera esistenza dei suoi membri, ma la pedagogia, all’interno delle
organizzazioni criminali, cosa costruisce?
Nel mondo delle organizzazioni criminali, questo percorso di formazione che porta alla
costruzione di un consenso mafioso si può considerare, a livello pedagogico, più una
discrescita piuttosto che una crescita, nel senso che tutti gli esseri umani intraprendono un
percorso di crescita dove l’educazione, generalmente, è dialogo, scambio e ascolto; ma
nei bambini o ragazzi di mafia la crescita è priva di tutto ciò, non esiste un dialogo
educativo in quanto le mafie promuovono un certo tipo di crescita per poter diventare un
certo tipo di uomo o donna avente una personalità coerente al mondo mafioso.
La pedagogia mafiosa attraverso la essa in atto della pedagogia nera, plasma i membri a
comportarsi in modo adeguato per permettere all’organizzazione criminale una sua
continuità e una sua sopravvivenza fornendo regole e valori indispensabile perché ciò
avvenga: l’onore e l’omertà sono due regole fondamentali della mafie.
Si può affermare che anche se le mafie sono inserite all’interno della storia e della società
del nostro Paese, possiedono una cultura propria, valori e regole proprie e i loro membri
vivono in un mondo differente da tutti coloro che non appartengono a quelle società
criminali.

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Da tutto ciò si può comprendere come sia estremamente difficile uscire da questi schemi
culturali. È difficile uscirne ma non impossibile ed è proprio per questo che è importante
parlare di cultura e conoscenza. Attraverso quest’ultima, la cultura può diventare un imput
per sganciarsi dal mondo mafioso in quanto consente di aprire la propria mente a visioni
differenti del mondo e di comprendere che esistono altre realtà in cui vivere. La cultura
può divenire un antidoto alla pedagogia mafiosa. Lo studio è fondamentale e il relazionarsi
con la cultura e con altri mondi aiuta a mutare interiormente una persona e a far
comprendere che forse il mondo non è tutto come lo si conosce ma è anche altro; altri
valori, altra cultura, altra società. In altre parole, lo studio può permettere di aprire la mente
ad altri valori, ad altri stili di vita e ad altri mondi.

IMMIGRAZIONE COME FATTORE DI VULNERABILITA’ E DI DEVIANZA

Le motivazioni per cui una persona decide di emigrare possiamo ritrovarle, da un lato,
nell’aspetto economico-lavorativo o nel ricongiungimento familiare, dall’altro vediamo che i
fattori sono strettamente personali. Pensare di lasciare la propria famiglia, cambiare
completamente ambiente, rete di relazioni personali e amicali, lingua e abitudini, risulta un
grande atto di forza interiore e di coraggio. Le difficoltà che il migrante deve affrontare al
suo arrivo nel nuovo paese sono molteplici e complesse, da qui emerge il quesito relativo
al suo inserimento, per esempio, quali possono essere le modalità attraverso cui potrà
creare nuove relazioni di fiducia con gli abitanti del paese ospitante. Per il migrante tale
fattore è solo uno dei problemi: altre difficoltà riguardano l’apprendimento di una nuova
lingua e soprattutto di una nuova cultura. A tutto ciò si aggiunge l’assenza di riferimenti,
poiché la rete di relazioni familiari e amicali è ormai lontana. Al migrante viene quindi
richiesto un grande sforzo di adattamento: questa è una fase molto rischiosa, perché è qui
che l’illegalità e la devianza possono trovare terreno fertile per poterlo attirare a sé.

Se il migrante è un minore, la nostra analisi si arricchisce di altri aspetti complicati: è


necessario tenere in considerazione da una parte le difficoltà del processo migratorio,
dall’altra non possiamo dimenticare le vulnerabilità legate all’infanzia e all’adolescenza.
Nella scheda Unicef è illustrato che ci sono numerose difficoltà poiché molte famiglie
soffrono di deprivazione economica e materiale. Inoltre, senza rete familiare o amicale, è
molto difficile trovare tutte le risorse razionali, emozionali e affettive per essere un buon
genitore. Tali lacune di ripercuotono sull’educazione e sulla crescita dei figli che spesso
così si trovano da soli, in un altro Paese, senza un adulto di riferimento o con un genitore
che è a sua volta vulnerabile. Il minore migrante patisce ancora di più le carenze di cura e
attenzione rispetto ai propri coetanei italiani perché deve relazionarsi con una comunità
culturale diversa dalla propria, ma che spesso conosce bene e che lo attrae, che però non
riesce ad integrarlo fino in fondo. La situazione è più difficile per i figli di seconda
generazione, che sono nati e cresciuti in Italia e non appartengono più alla cultura dei loro
genitori, ma dalla comunità ospitante sono continuamente definiti come stranieri.
Nella situazione oggettiva di abbandono dei minori migranti non accompagnati e degli
adolescenti carenti delle cure familiari e genitoriali, i ragazzi chiedono attenzione e cura. I
loro grandi bisogni sono i seguenti: identità, appartenenza, protezione, sostegno, rispetto
da parte degli altri, ricchezza e benessere. Purtroppo una risposta concreta a tali esigenze
sembra arrivare dalla strada più semplice, a volta anche l’unica che si trova, quella della
devianza. Per un adolescente entrare a far parte di un gruppo, che probabilmente
scoprirà solo in seguito essere deviante, significa infatti soddisfare i propri bisogni.

Per dare un senso ai nostri interventi professionali, dobbiamo ripartire dall’educazione, in


particolare dall’educazione alla legalità e l’educazione interculturale. Il legame fra

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educazione alla legalità ed educazione interculturale è molto forte infatti l’educazione
interculturale non può avvenire se non coniugandola con l’educazione alla legalità e al
rispetto dei limiti. L’obiettivo ultimo è quello di far crescere l’uomo nella vita con gli altri,
diventando responsabile, maturo, consapevole, rispettando le regole, valorizzando le
diversità in particolare quelle multiculturali, trovando vie di comunicazione e confronto
interculturale.

L’IMMAGINARIO MAFIOSO TRA GLI STUDENTI LIGURI

Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie ha avviato nel 2009 un percorso di
ricerca sulle rappresentazioni della mafia e dell’antimafia tra gli studenti delle scuole
superiori di alcune regioni d’Italia. L’indagine sulla percezione del fenomeno mafioso nelle
scuole svolge per Libera una funzione di ricerca-azione e ha una forte valenza mobilitante:
da un lato, consente all’associazione di esplorare e conoscere l’immagine della mafia tra i
giovani; dall’altro, rappresenta un utile strumento di sensibilizzazione che apre a nuove
domande e curiosità e spinge i ragazzi a interrogarsi su un fenomeno apparentemente
lontano da loro e, quindi, a impegnarsi per contrastarlo.
L’obiettivo della ricerca era, da un lato, capire se e in che misura l’esposizione dei ragazzi
ai mezzi di informazione e alle attività scolastiche antimafia influenzi le conoscenze e le
rappresentazioni del fenomeno mafioso; dall’altro, esplorare l’immaginario mafioso dei più
giovani, per evidenziare quanto le rappresentazioni siano più o meno stereotipate e
condizionate da mitologie ed eroismi della mafia e dell’antimafia. La rilevazione è stata
effettuata tramite la somministrazione di un questionario autocompilato online: a ciascuno
studente è stato chiesto prima di tutto di scrivere una narrazione su un fatto di mafia e poi
di rispondere a un questionario strutturato.
La metà degli studenti intervistati afferma che “la mafia in Liguria è un fenomeno presente
e la sua presenza è sempre più preoccupante”.
Nel questionario della Liguria è stata inserita una domanda sul condizionamento della
mafia sulla propria vita quotidiana: tenendo conto che si tratta di una regione in cui sono
da poco la cittadinanza inizia a essere consapevole delle infiltrazioni mafiose sul proprio
territorio, appare sorprendente che solo il 27% degli studenti intervistati ritiene che la mafia
non condizioni la propria vita quotidiana perché lontana o perché non riguarda la vita delle
persone per bene.
Come principale indicatore di conoscenza della mafia è stato utilizzato un indice costruito
sulla base della conoscenza dei personaggi della mafia e dell’antimafia rilevata nel
questionario. Nel questionario è stato chiesto agli studenti di indicare per ogni personaggio
se abbia lottato o se sia stato parte della mafia: tra i personaggi di mafia più conosciuti
troviamo Al Capone e Totò Riina; tra chi combatte la mafia, i più conosciuti sono Falcone e
Borsellino.
Un altro indicatore molto importante è quello relativo alla conoscenza del fatto di mafia
identificato come rilevante a livello regionale. Quando si passa da un piano generale
all’esperienza diretta più vicina ia ragazzi, si percepisce come nei territori analizzati sia
ancora carente la consapevolezza dellla penetrazione mafiosa anche sul proprio territorio.
Solo il 20% degli studenti intervistati in Liguria conosce il caso dello scioglimento
dell’amministrazione comunale di Bordighera.
È stata predisposta una batteria di domande tese a rilevare la partecipazione effettiva
degli studenti alle iniziative antimafia. Più di un terzo degli studenti ha partecipato a
iniziative antimafia attraverso assemblee studentesche, convegni e incontri con i familiari
delle vittime.
Uno dei risultati più rilevanti della ricerca di libera riguarda l’influenza dell’informazione,
dell’educazione e della partecipazione antimafia sulla conoscenza e consapevolezza del

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fenomeno mafioso: gli studenti che si informano di più tramite i mezzi di comunicazione e
che discutono di mafia in classe dimostrano di conoscere meglio i personaggi mafiosi e i
protagonisti dell’antimafia, ma anche il caso del Comune di Bordighera.
Al tempo stesso, i ragazzi che hanno un’elevata conoscenza sulla mafia partecipano
maggiormente alle iniziative e alle attività antimafia. Possiamo affermare, quindi, che
mentre il mondo dei media insiste maggiormente sui personaggi mafiosi, l’educazione e la
partecipazione antimafia consentono di conoscere meglio l’altra faccia della medaglia,
ovvero il fronte di chi combatte quotidianamente contro il potere mafioso.
Per quanto riguarda le fonti d’informazione, più della metà degli studenti ricevono notizie
sulla mafia prevalentemente dai telegiornali e approfondimenti televisivi; il restante dai
social network, da fiction e cinema.
Alla fine del questionario gli studenti hanno avuto la possibilità di esprimere liberamente le
proprie opinioni sulla ricerca. Molti commenti sono positivi e mettono in luce la
caratteristica di ricerca-intervento che l’indagine di Libera riveste. Ci sono però alcuni
commenti negativi: da un lato sullo strumento del questionario a risposte chiuse che non
consente di esprimere liberamente le proprie idee; dall’altro sull’utilità di iniziative di tipo
culturale per il contrasto al fenomeno mafioso.
L’indagine svolta in Liguria conferma come incrementare il lavoro della scuola
coinvolgendo attivamente gli studenti, le istituzioni e il mondo dell’associazionismo
contribuisca a contrastare quegli atteggiamenti di rassegnazione e indifferenza che
favoriscono la sopravvivenza del fenomeno mafioso.

IL RIUTILIZZO DEI BENI CONFISCATI ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

La svolta legislativa sull’argomento è rappresentata dalla Legge 13 Settembre 1982 n. 646


nota come “legge Rognoni-La Torre”.
Fondamentale innovazione introdotta da tale legge è l’introduzione, accanto alle misure di
prevenzione personali, di quelle a carattere patrimoniale. Si prevede infatti il sequestro e la
confisca dei beni dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza, rinvenuti nella
disponibilità diretta o indiretta dell’indiziato di appartenere a una associazione di tipo
mafioso.
La legge 109 del 1996 prevede il riutilizzo sociale dei beni sottratti tramite la confisca alla
criminalità.
Il riutilizzo a fini istituzionali o sociali dei beni confiscati alla criminalità da un lato ha in sé
un valore simbolico estremamente forte e, dall’altro, rappresenta una concreta opportunità
di creare lavoro e sviluppo.
Se non siamo in grado di rigenerare e valorizzare un bene confiscato il rischio è che quella
collettività continui a preferire una gestione mafiosa a discapito di quella legalitaria dello
stato.

L’EDUCVAZIONE ALLA LEGALITA’ COME ANTITODO ALLE MAFIE

Si ritiene che, soprattutto per i minori che hanno compiuto reati e che quindi hanno una
certa prossimità o maggiore facilità a entrare nel circuito penale, sia necessario un
intervento immediato, condotto da persone che risultino per loro autorevoli, in grado di
proporre una diversa ottica con la quale considerare il mondo, che a molti di loro risulta
avverso. La tempestività dell’attivazione di un intervento educativo peraltro risponde alla
considerazione in base alla quale il reato compiuto da un minore va considerato
soprattutto come richiesta di aiuto.
Le proposte di educazione alla legalità devono comportare un coinvolgimento più ampio,
in grado di comprendere anche le famiglie, proponendo una metodologia di tipo sistemico,

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nella considerazione dell’imprescindibilità della valenza educativa familiare. È quanto
l’esperienza di SPEM tende a proporre ai minori che frequentano le attività svolte
all’interno del servizio, offrendo loro la possibilità di mettersi in gioco in modo utile.
SPEM è un Servizio minorile che, progettato per rispondere alle esigenze dei minori
segnalati dal Centro di prima accoglienza e dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni a
partire dal 2006 sviluppa una forte rete tra l’area penale e quella civile perché è qui che
spesso si incrociano le problematiche dei “Minori difficili”. Questo progetto rappresenta
una risposta operativa al fenomeno della devianza minorile e assume connotati di
rilevanza pubblica, essendo interesse primario dell’intera collettività che a ogni suo
membro sia data la possibilità di inserirsi adeguatamente e sentirsi parte del tessuto
sociale.
SPEM, Servizio di progettazione educativa minori a rischio di recidiva, attiva una rete di
sostegno immediato ai minori ai primi reati, anche infra quattordicenni e pertanto non
imputabili, italiani e stranieri. I ragazzi presi in carico da SPEM sono minori denunciati,
arrestati o fermati e condotti nel Centro di prima accoglienza, all’uscita del quale non
vengono però presi in carico da alcun servizio.
I progetti individuali di presa in carico in risposta ai bisogni educativi, formativi, di
socializzazione e di sostegno sono sempre costruito in modo condiviso con le istituzioni.
Gli obiettivi di SPEM sono i seguenti.
A breve termine:
- Raccogliere un sintomo di disagio prima che si aggravi la situazione del minore con
i conseguenti effetti personali, familiari e sociali
- Rispondere ai bisogni dei ragazzi e responsabilizzarli in contesti di normalità
- Sostenere le famiglie che si trovano smarrite di fronte all’ingresso dei figli nel
sistema penale
- Fornire alla Procura per i minori e al Tribunale per i minorenni informazioni
riguardanti le caratteristiche del minore preso in carico, il livello di adesione al
percorso educativo e le esigenze emerse.

A medio termine:
- Osservazione, trattamento, sostegno dei minori presi in carico
- Implementazione/attivazione di reti tra le risorse del territorio
- Attivazione di un lavoro educativo con il minore e la famiglia

A lungo termine:
- Prevenzione del rischio di reiterazione di reati
- Aumentare la sicurezza dei cittadini
- Razionalizzare l’utilizzo delle risorse territoriali esistenti con una ricaduta positiva
sui servizi.
SPEM attiva una rete di sostegno immediato per minori imputabili, italiani e stranieri, ai
primi reati, nel periodo che intercorre tra l’evento reato e la prima udienza, attraverso le
seguenti azioni:
- Segnalazione
- Avvio relazione
- Inizio presa in carico
- Avvio dei percorsi educativi individualizzati
- Verifiche in itinere.

I punti di forza del progetto sono:

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- Stretta collaborazione tra l’ente gestore, i Servizi minorili della giustizia e l’ente
locale
- Tempestività della presa in carico, che avviene entro pochissimi giorni dalla
segnalazione, nel periodo tra la commissione del reato e la prima udienza, la quale
può essere fissata anche molti mesi dopo
- Presa in carico ad alta densità, la cui durata media è di 4 mesi, tempo stimato come
utile per la definizione del progetto individualizzato che contempla già
l’accompagnamento del minore verso un altro servizio. Il monte ore settimanale,
dedicato espressamente a ogni singolo minore oscilla tra le 6 alle 12 ore
settimanali, alle quali possono essere aggiunte ore di attività collettive
- Passaggio tra gli enti partner, in tempi brevi, delle osservazioni pregresse e di
quelle raccolte durante la presa in carico del minore.

In risposta agli obiettivi specifici del progetto forniamo, sulla base dei primi 36 percorsi
educativi che è stato possibile attivare durante i primi 4 anni di servizio, alcuni
parametri di valutazione dei risultati, che riteniamo significativi:
- Adesione al progetto: 100%: tutti i minori segnalati sono stati agganciati dal servizio
SPEM e tutti hanno in seguito aderito al progetto. Questo dato è particolarmente
rilevante poiché l’adesione al percorso SPEM rimane una libera scelta del minore e
della famiglia, non essendovi obblighi istituzionali
- Abbandono del progetto: 0%: nessun minore ha interrotto il progetto prima della
conclusione
- Recidiva durante il periodo della presa in carico: 0%: nessun minore ha commesso
reato nel periodo nel quale era in carico al servizio SPEM
- Recidiva negli anni seguenti la presa in carico: 13%: 5 casi su 36 sono stati
risegnalati all’autorità giudiziaria e possono quindi considerarsi recidivi.

L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’ DI SANT EGIDIO CON GLI IMMIGRATI

Un’analisi approfondita dei dati, unita a una riflessione ampia e attenta sul fenomeno
migratorio degli ultimi due decenni, mostra come il binomio immigrazione-criminalità sia il
frutto di un atteggiamento diffuso, in Italia ma anche in tutta Europa, che considera
l’accoglienza allo straniero non un valore comune e condiviso, sul quale investire in
politiche, cultura, progetti, ma al massimo una specializzazione di alcuni settori
particolarmente attenti e sensibili del Paese.
Lavorare per l’integrazione significa dotare quanti sono entrati a far parte della nostra
società degli strumenti adeguati ed efficaci per affrontare quella che è ormai una grande
questione umana del nostro tempo. E se di prospettiva umana si tratta quale migliore
strumento può essere messo a disposizione di una lingua che possa consentire a uomini e
donne di culture diverse di comunicare e incontrarsi?
La scuola di lingua e cultura italiana ha avuto i suoi inizi a Roma nel 1982, diffondendosi
be presto in altre città italiane ed europee. A Genova i primi corsi hanno preso avvio nel
1986, in un contesto molto diverso dall’attuale. Allora le lezioni erano frequentate
soprattutto da donne capoverdiane o eritree, spesso lavoratrici domestiche. Oggi la scuola
di italiano della comunità di Sant’Egidio di Genova ha due sedi, nel centro storico e nel
quartiere di Sampierdarena, 15 classi di livelli diversi, sia per adulti che per ragazzi. Gli
attestati che vengono consegnati prevedono una valutazione delle competenze raggiunte
nella comprensione, nella conversazione e nella produzione scritta e orale, insieme a un
giudizio complessivo.
La scelta fatta dagli inizi fino a oggi, nella vita e nel lavoro sociale delle scuole di lingua
italiana a Sant’Egidio, è stata quella di considerare il bisogno di comunicare, quindi di

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interagire con gli altri e di rompere l’isolamento, come un bisogno primario, così come
sono bisogni vitali il mangiare e la casa. La convivenza serve a ognuno per vivere così
come l’aria e il pane.
Se da un lato l’apprendimento della lingua è la via maestra per rompere l’isolamento, è
altrettanto vero che imparare l’italiano è percepito anche come la chiave di accesso per
entrare realmente nella società in cui si vive. Per questo motivo grande attenzione è
riservata non solo al metodo e ai contenuti curriculari, ma anche al contesto in cui si
apprende l’italiano, in modo da rendere la scuola un ambito di apprendimento linguistico
ma soprattutto di formazione alla cittadinanza.
In questi anni si è diffuso un clima di pessimismo e paura in cui generalizzare e
stereotipare negativamente la figura di chi è diverso da sé sono azioni che si consolidano
come regola. In questo clima diffuso l’esperienza delle scuole d’italiano di Sant’Egidio ha
mostrato, in modo stabile, una realtà che apre a prospettive e visioni diverse, cioè un
modello concreto e capace di costruire l’integrazione e la convivenza, costituendo
innanzitutto un argine alla diffusione della paura e della violenza nella nostra società.

VOLONTARIATO E LEGALITA’

L’educazione alla legalità dal 1993 si avvale della formazione istituzionale (scuola,
università) ma e soprattutto di quella che possiamo definire informale, e cioè senza
certificati, obblighi di frequenza ecc, che si attua con la partecipazione attiva sul territorio,
organizzata da enti associativi singoli o in rete tra loro.
Pertanto vengono promosse tutte le iniziative che portano studenti di ogni ordine e grado
fuori dalla scuola, nel senso che essi devono misurarsi con la vita pubblica, conoscere e
vivere i vantaggi dell’associazione, dedicarsi ad attività di volontariato. Da qui l’importanza
di costruire una vasta rete di relazioni con altre scuole, con le associazioni che
contrastano ogni forma di negazione di diritti umani, che svolgono attività di volontariato,
che testimoniano il valore dell’impegno civile e sociale e della solidarietà.
Il volontariato, dunque, è soggetto riconosciuto del sistema educativo e formativo ufficiale
in grado di condurre lo studente in un percorso educativo di applicazione della solidarietà
in obiettivi concreti strutturando valori sociali importanti.
Concludiamo con l’auspicio che la nuove riforma sia in grado davvero di dare visibilità e
forza a quanto pubblicato sul sito del Governo al momento della sua proposta: “Esiste un
Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità
della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale,
dell’associazionismo no-profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Lo chiamano terzo
settore ma in realtà è il primo.

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