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Influenza, potere e comunicazione multimodale

Influenzare gli altri vuol dire indirizzare le loro decisioni e quindi il corso delle loro azioni. Possiamo farlo
per motivi altruistici, come quando consigliamo a nostro figlio di non bere se vuole tornare a casa tutto
intero, o per motivi egoistici, come quando vogliamo indurre qualcuno a fare qualcosa di vantaggioso per
noi.
A volte si cerca di influenzare l’altro per acquistare potere (politici in campagna elettorale). Ma se il
potere è un fine dell’influenzare, può essere anche un mezzo. Per influenzare gli altri bisogno mostrarsi
forti, autorevoli, credibili: mostrare di avere potere.
Attraverso diversi tipi di comunicazione siamo in grado di creare diverse armi di influenzamento.
La persuasione è un classico esempio di comunicazione volta a influenzare. Ma in realta ogni nostra
frase, gesto, sguarda mira a far fare qualcosa all’altro.
La nostra comunicazione è multimodale; non comunichiamo solo attraverso le parole, ma con tutto il
corpo.
Scopi, azioni e conoscenze
Lo scopo è uno stato regolatore non presente nella realtà per realizzare il quale un sistema si mette in
moto.
In tutti i sistemi è lo scopo che dà origine all’azione. L’azione è dunque finalizzata al raggiungimento di
uno scopo. Il rapporto azioni-scopi ha una struttura gerarchica: in genere, una sola azione non basta a
raggiungere uno scopo, il sistema deve pianificare e mettere in atto una struttura di azione, un “piano”,
in cui ogni azione mira ad uno scopo, ma questo a sua volta è finalizzato ad uno scopo ultieriore, un
sovrascop, e così via finché tutte le azioni, gli scopi e i sovrascopi convergono verso un unico finale, la
“meta” del piano.
Sono scopi anche: l’istinto animale, la finalità di un’istituzione umana, le pulsioni inconsce, i bisogni, i
doveri che si impone un individuo.
Gli scopi possone essere generati “dall’alto” (lo scopo di salvare vite umane mi porta ad iscrivermi a
medicina) o “dal basso” (uno scopo dormiente: passo d’avanti ad una pasticceria e mi vene voglia di una
pasta). Il primo parte dagli ideali, il secondo è più “opportunistico”.
La pubblicità, ad esempio, ti fa sapere che esiste una possibilità di raggiungere uno scopo e ti crea un
“bisogno”.
La scelta
a volte un sistema ha due o più scopi che non può realizzare contemporaneamente (fare la dieta e
mangiare tanta pasta asciutta, non pagare il pizzo e essere sicuro che non mi brucino il negozio). Per
decidere, il sistema, fa un bilancio fra scopi per capire quale è più appetibile o più realizzabile.
L’azione, la conoscenza e il mondo
Un sistema persegue i sui scopi utilizzando risorse interne e d esterne.
Per gli umani, le risorse interne sono conoscenza e capacità d’azione: sapere e saper fare.
Le capacità d’azione sono le azioni che il sistema sa compiere. Le conoscenze sono rappresentazioni
interne di stati del mondo sia interni che esterni al sistema. Di una sedia abbiamo l’immagine visiva
dell’oggetto con quattro gambe e uno schienale, e abbiamo memoria motoria delle azioni muscoplari
nesessarie per sederci, ma anche informazioni concettuali: che è un oggetto d’arredamento, che serve
per sedercisi.
Le conoscenze sono necessarie per decidere quali scopi porsi, quali azioni compiere, per verificare prima
se sono soddisfatte le condizioni per raggiungere lo scopo, e poi se è raggiunto.
Da soli acquisiamo conoscenze e le immagazziniamo nella memoria in cui costruiscono una rate
collegandosi attraverso legami logici come tempo, spazio, cause, effetto, mezzo, scopo. Questi ultimi ci
permmettono di creare inferenze, cioè conoscenze create autonomamente collegando le vecchie e le
nuove. Infine riceviamo conoscenze dagli altri attraverso la comunicazione.
Il nostro repertorio sia di azioni che di conoscenze si arricchisce durante lo sviluppo.
La possibilità di raggiungere uno scopo dipende anche da risorse esterne al sistema, cioè dalle
condizioni del mondo. Tuttavia il sistema può aggirare o risolvere i problemi posti da condizioni
sfavorevoli del mondo . Ma vi è un’altra risorsa esterna fondamentale: gli altri.
Potere
Che cos’è il potere di un singolo sistema? Chiamiamo potere-di la probabilità che un sistema ha di
raggiungere i suoi scopi; quindi il sistema ha il potere-di rispetto al suo scopo S se ha ne suo repertorio
l’azione appropriata per raggiungere S, e se sono soddisfatte le condizioni del mondo perche S si realizzi.
Così l’apprendimento è in grado di aumentare il potere-di, perche aumentando il repertorio di azioni e
cnoscenze aumenta la possibilità di raggiungere scopi.
Questa nozione discede dalla mancanza di potere. Robinson Crusoe non può sfamarsi se sull’isaloa
non ci sono noci di cocco, o se lui non sa arrampicarsi sulle palme. Ma se sull’isola ci fosse anche
Venerdi, conoscitore di palme e ottimo arrampicatore, avrebbe maggior potere-di Robinson. Una prima
nozione sociale di potere è il confronto tra poteri fra più sistemi. Dalla mancanza di potere di un sistema
può nascere la dipendenza da altri e la socialità (Robinson è dipendente da Venedì).
Dalla dipendeza nasce un nuovo potere sociale: il potere-su. Poicè Venerdì ha “il coltello dalla parte del
manico”, ha il potere di negoziare, cioè di pretendere che Robinson, in cambio del suo aiuto, faccia
qualcosa per lui; questo da a Venerdi il potere di influenzare gli scopi di Robinson.
La differenza tra potere su e potere di influenzare è questa: Il potere di B su A è il potere di fare o non
fare azioni che servono ad A, mentre il potere di B di influenzare Aè il fatto che, per ottenere da B ciò
che gli serve, A deve fare ciò che vuole B.
Relazioni e interazioni sociali
Possiamo definire territorio il luogo fisico o mentale che contiene risorse utili al perseguimento di scopi
di uno o più sistemi.
Quando in un territorio coesistono due o più sistemi che devono o possono attingere dalla risorse cje vi
sono contenute, si instaurano realzioni fra scopi, e l’azione di uno può interferire con gli scopi dell’altro.
Vi è conflitto fra scopi quando il raggiungimento di uno scopo implica la frustrazione dello scopo
dell’altro: i conflitto fra i loro scopi implica concorrenza fra i due sistemi, e dalla concorrenza nasce
competizione. Per competere possono ricorrere all’aggressione, cioè azioni che possonom
compromettre gli scopi dell’altro e provocargli un danno.
Ma dalla mancanza di potere può nascere anche un’interazione positiva: l’adozione. Definiamo adozione
di scopi il fatto che un sistema persegua uno scopo dell’altro come se fosse il suo, cioè aiuta l’altro a
raggiungerlo. l’adozione è un meccanismo di moltiplicazione delle risorse e capacità dei sistemi.
Ve ne sono vari tipi: alcuni interessati, perché si adotto lo scopo dell’altro mirando a scopi propri; altri
disinteressati, perché adottati per il bene dell’altro (affetto, altruismo). Chi finge di stare alle regole
sociali ma lavore sempre e solo per i propri scopi è detto cheater (imbroglia nel gioco della vita).
Decidiamo i rapporti con gli altri in base all’immagine che abbiamo di loro.
Valutazione
Una valutazione è una credenza su quanto un oggetto, un evento o una persona ha il potere-di
necessario a realizzare uno scopo. Le valutazioni possonmo essere negative o positivi.
Noi umani concepiamo valutazioni su qualsiasi cosa o persona, e in ogni momento della nostra vita,
perché valutare ci serve in ogni fase della pianificazione: capire quali sono le azioni più adeguate e le
condizioni più favorevoli. Con le nostre valutazioni ci costruiamo un’immagine dell’altro.
Immagine e autoimmagine
L’immagine è l’inseme di ceredenze valutative e non che un sistema ha su un’altr, ed è funzionale
all’adozione. Tipi di adozione diversi determinano valutazioni diverse: valuterò chi devo assumere nell
amia azienda diversamente da chi voglio come amico. Essere valutati positivamente in generale diventa
uno scopo importante, lo scopo della buona immagine, che può regolare il nostro comportamento e
il nostro modo di essere in tutti i momenti della nostra vita.
Riceve adozione aumenta il nostro potere dandoci moggiori probabilità di raggiungere i nostri scopi.
Oltre a valutare altri, valutiamo anche noi stessi. l’autoimmagine è l’insieme di credenze valutative e
non che abbiamo di noi stessi, ed è funzionale a vari scopi: conoscere se stesso per scegliere gli scopi
che può perseguire più efficacemente; avere un senso del proprio valore e amarsi di più. Per questo
abbiamo anche lo scopo dell’autoimmagine positiva: l’autostima.
Competizione e gerarchia
Chi ha più potere-di fra due o più sistemi viene solitamente più ammirato, gettonato, ricercato,
considerato più degno di adozione.
Per questo le persone cercano di esibire le proprie capacità e di mostrare come siano superiori a quelle di
altri.
Questa è la base per costruire gerarchie di poteri. Avere posizioni alte nella gerarchia significa poter
competere per le posizioni superiori; alla fine lo stabilirsi della gerarchia pone fine al conflitto.
Le emozioni
L’emozione ha la funzione di monitorare lo stato di raggiungimento degli scopi fondamentali. Ogni volta
che il sistema sente che uno scopo di alto valore adattivo è probabile che sia raggiunto a causa di un
evento percepito , si innesca uno stato soggettivo complesso che comprende:
1. aspetti cognitivi: credenze, immagini, aspettative, valutazioni (mi vergono per una valutazione
negativa di me stesso);
2. sentimenti soggettivi: piacevoli per sicuri o probabili raggiungimenti di scopi (felicità, speranza),
sppiacevoli per sicure o probabili compromissioni (rabbia o paura);
3. reazioni fisiologiche: aumento del battito cardiaco, sudorazione, ecc)
4. reazioni espressive: rossore, pallore, tensione muscolare, ecc)
5. attivazione di scopi specifici da perseguire con alta priorità e urgenza (la paura scatena la
fuga, la rabbia l’aggressione, ecc).
Le emozioni sono dunque fortemente connesse agli scopi perché:
a) sono funzionali a monitorare l’ottenimento: la paura sorveglia gli scopi della sopravvivenza, del
benessere fisico, la rabbia lo scopo della giustizia, la pena quello dell’altruismo,ecc;
b) attivano scopi, cioè hanno un alto potere motivazionale;
c) diventano scopi esse stesse, chi prova un’emozione piacevole vuole riprovarla.
Scoprire quali emozioni sono più spesso provate in determinati contesti ci permette di capire quali scopi
sono in ballo in quelle occasioni (se in un ragazzino c’è una particolare frequenza di vergona, si può
sospettare una situazione di bullismo che mette in discussione il suo scopo di immagine).
La teoria sequenziale dei bisogni di Abraham Maslow ipotizza che gli scopi degli umani vadano da
quelli fisici (fame, sete, sesso) a quelli più immateriali (autorealizzazione), e questi non possano essere
perseguiti finché i precedenti non sono soddisfatti.
Ma l’idea non è poi così convincente: che dire del senza dimora che preferisce stare per strada al freddo
pur di non rinunciare all asua dignitià di uomo libero?
Vi è un piccolo numero di scopi che tutti abbiamo in ogni momento della nostra vita perche sono
funzionali agli scopi biologici della sopravvivenza e della riproduzione. Lo scopo della sopravvivenza
risvegliato dalla paura che lo sorveglia è sempre li, anche se latente, e regola la mia azione.
Gli scopi che tutti abbiamo solo almeno i seguenti:
1. metaregolazione: emozioni che sorvegliano un metascopo di monitorare continuamento lo stato dei
nostri scopi, segnalandone il raggiungimento o la compromissione (piacere e dispiacere, gioia e tristezza,
ecc)
2. prevenzione di danni: emozioni della sopravvivenza (paura, ansia, preoccupazione, ecc)
3. apprendimento: acquisizione ed elaborazione delle conoscenze e capacità d’azione; emozioni
cognitive e dell’apprendimento (sorpresa, curiosità, entusiasmo, divertimento, ecc)
4. ottenere adozione da altri: avere relazioni positive con gli alti (amore, tenerezza, tristezza,
solitudine, ecc)
5. adottare gli scopi degli altri: scopi dell’altruismo (simpatia, pena, ecc)
6. potere: scopo di avere potere sulle risrse dell’ambiente, acquisire e mantenere un territorio per se,
avere più potere di altri e più potere su altri (emulazione, invidia,gelosia).
7. equità e reciprocazione: resiprocazione dell’adozione ricevuta e ritorsione dell’aggressione subita
(rabbia, vendetta, senso di colpa, pena, gratitudine,ecc).
8. immagine: scopo della stima o della buona immagine (orgoglio, gratificazione, vergogna, imbarazzo,
ecc)
9. autoimmagine: scopo dell’autostima (orgoglio, soddisfazione, vergogna)
10. immagine dell’altro: scopo di farsi un’immagine dell’altro per decidere che relazione instaurare
(stima, ammirazione, disprezzo)
Farsi un quadro di tutti gli scopi che gli umani hanno è importate per capire su quali far leva (marketing,
pubblicità, propaganda).
La comunicazione
Siamo in presenza di un processo comunicativo quando un sistema ha lo scopo di far si che un’altro
sistema venga ad assumere una credenza, e per raggiungere tale scopo produce un segnale che è
collegato alla credenza, che quindi è il significato del segnale.
Diversi comportamenti possono costituire un segnale: l’azione di un oggetto, un organismo o un gruppo
(spia della benzina, un gesto, una frase, la marcia di una folla); un oggetto, una parte o un aspetto di un
oggetto, prodotto da un’azione o utilizzato durante un’azione (una statua, le occhiaie, like sui social);
anche una non-azione (silenzio dopo una domanda).
Il segnale può essere prodotto in varie modalità (parole, gesti, sguardi, espressioni, ecc) e percepito in
varie modalità sensoriali (5 sensi, sonar,ecc)
I segnali possono essere prodotti e recepiti in contemporaneamente anche in più di una modalità
(parlare, gesticolare, intonazioni, espressioni).
L’atto comunicativo
l’unità della comunicazione è l’atto comunicativo, cioè un’azione prodotta con il linguaggio o con il corpo
che ha lo scopo di comunicare una determinata credenza semplice o complessa. Tale azione produce un
segnale che comprende un performativo e un contenuto proposizionale.
Il performativo è lo scopo specifico del mittente (avvisare, domandare, promettere,approvare, ecc)
il contenuto proposizionale è l’oggetto di quell’avviso, domanda, promessa, ecc.
Muovere su e giù le dita della mano a palmo basso sifgnifica: “io ti chiedo (performativo) di venire qui
(contenuto proposizionale)”.
Spesso sono ditribuiti in una sequenza di parole che formano una frase. Gli innumerevoli performativi
possibili si possono raggruppare in tipi di scopi comunicativi:1. richieste (espressi in genere da frasi
imperative), in cui il mittente ha lo scopo che il destinatario compia un’azione;
2. domande (frasi interrogative) con lo scopo che il destinatario compia l’azione di far avere una
credenza al mittente;
3. informazioni (frasi dichiarative) con lo scopo che il destinatario creda alla credenza menzionata dal
mittente;
4. espressioni di desiderio (“magari..” o “volesse il cielo che..”) con lo scopo di chiedere a un’entità
terza di far accadere qualcosa.
La comunicazione indiretta
Una frase spesso ha un significato indiretto, cioè il suo scopo è mezzo per un sovrascopo diverso: uno
scopo differente da quello letterale. Una domanda può avere un sovrascopo di richiesta, una valutazione
sottointendere un rimprovero.
Molti sovrascopi sono usati talmente tanto che ormai sono “idiomizzati”. Spesso però un segnale o una
frase non ha sempre lo stesso sovrascopo, bensì può avrne diversi a seconda del contesto: ha un
spovrascopo “creativo” e il destinatario deve combinare le credenze espresse esplicitamente da quel
segnale con altre tratte dal contesto e dalle conoscenze condivse fra mittente e destinatario.
Dalla frase al discorso, nelle parole e nei segnali del corpo
Un discorso o un testo scritto è governato da una gerarchia di scopi: una sequenza di atti comunicativi
con più sovrascopi tutti subordinati alla meta del discorso.
Le mete possono essere di diverso tipo: descrittivo, narrativo, espositivo, argomentativo.
La conversazione invece è una serie di frasi o discorsi che adottano l’uno lo scopo dell’altro: una
domanda è una frase interrogativa che chiede all’interlocutore un’informazione e la risposta è una frase
informativa che adotta lo scopo della domanda , fornendo l’informazione richiesta.
La multimodalità
La comunicazione è multimodale: così come per le parole, è possibile individuare lessici anche per i
sistemi di comunicazione dei gesti, dello sguardo, del contatto fisico, ecc.
Si può partire da una tipologia generale dei significati. I significati che qualsiasi atto comunicativo
esprime sono di tre tipi: informazioni sul mondo (stati o eventi che riguardano persone, organismi,
oggetti, e i loro tempi e luoghi), informazioni sull’identità del mittente (età, genere, origini, es.
occhi a mandorla, accento); informazioni sulla mente del mittente (credenze, scopi, emozioni
rispetto a ciò di cui sta parlando). Una volta individuati i sottotipi di questa tipologia, ci si chiede se quel
particolare significato possa essere comunicato nel sistema di comunicazione dei gesti o dello sguardo.
Per analizzare i segnali si cercano i “parametri formazionali”.
Qualsiasi gesto è costruito con una certa “configurazione della mano” (mano aperta, pugno chiuso; ecc),
è prodotto in un certo “luogo” (sulla tempia, sulla fronta, davanti al mittente) con un certo
“orientamento” del palmo (verso di se, vesro il destinatario, in su, ecc) e un certo movimento (curvo, in
linea retta).
Infine le norme d’uso ci dicono quali parti del corpo possiamo toccare di un conoscente e quali di un
amico, e in quali situzioni.
Fra i gesti ci sono i deittici, che indicano qualcosa o qualcuno a cui il mittente si riferisce, e gli iconici,
che rappresentano oggetti, eventi, azioni, imitandoli con la forma e il movimento delle mani.
Si definiscono gesti codificati i “gesti simbolici” (corna, ok, mano a tulipano) e sono depositati nell
amemoria a lungo termine.
Annotare in un frammento video i segnali attribuendo a ciascuno il suo significato, sia letterale che
indiretto, permette di vedere come questi si combinano e come insieme contribuiscono a un messaggio
complesso.
L’inganno
L’inganno è un’azione comunicativa o non comunicativa (dire una bugia o nascondere l’amante
nell’armadio) o anche una non-azione (non dire al partner di avere l’HIV) che ha lo scopo di far credere
all’altro qualcosa di diverso da ciò che noi crediamo vero. Ingannare è un atto aggressivo che viola il
diritto dell’altro. Solo in rari casi in cui la conoscenza è fonte di dolore o confunsione, ingannare può
essere un atto adottivo. L’inganno è un mezzo per influenzare gli altri: sapere è potere.
L’influenzamento sociale
Si definisce influenzamento il fatto che un sistema A faccia aumentare o diminuire le probabilità che un
sistema B persegua uno scopo: influenzare gli altri è influenzare i loro scopi. l’influenzamento può essere
altruistico o egoistico.
Modi di influenzare
Si influenzano gli altri modificando l’assetto dei loro scopi o delle loro conoscenze.
Si modifica l’assetto degli scopi di una persona con la seduzione: se ti faccio innamorare di me farai
quello che voglio (dimagrire). La seduzione può riattivare scopi latenti.
Altri modi di influenzare consistono nel far prendere coscienza all’altro dei suoi scopi: direttamente come
i giornali femminili degli anni settanta (donna non è un oggetto); o indirettamente facendo riconoscere
all’altro le condizioni di realizzazione di uno scopo o le proprie capacità. Il primo è il meccanismo della
tentazione, del “cogliere l’occasione” (saldi= non mi serve ma costa poco); il secondo è il talento del
talent scout (valorizzo il temperamento drammatico di uno studente per fargli venire voglia di fare
l’attore).
Influenza diretta e aggancio di scopi
Vi sono rari casi di influenza diretta, ad esempio se ignetto a una persona una sostanza che la induece
ad essere più remissiva; spesso gli umani influenzano attraverso l’”aggancio” degli scopi: se la mamma
raccomanda al figlio: “quando uscite il sabato sera, almeno uno di voi non beva”, lei aggancia lo scopo di
non bere allo scopo del figlio di non andare a fracassarsi con la macchina, c’è una realzione causa-
effetto. Ma in certi casi non c’è una relazione causa-effetto (corso tango e bibbia).
Possiamo distinguere due strade diverse all’aggancio degli scopi: influenzamento per convinzione o per
induzione. Nella convinzione lo fa perché lo pensa davvero; nell’induzione, invece, è indotto a perseguire
lo scopo dell’influenzatore che ha il potere di influenzarlo. Vi sono due modi di indurre gli scopi:
coercizione (minaccia) e allettamento (promessa). Il commerciante paga il pizzo al camorrista perché
non bruci il suo negozio; l’industriale può far appoggiare una legge a lui favorevole promettendogli una
mazzetta.
Influenzamento comunicativo e non comunicativo
Chi influenza può farlo a carte scoperte o no. Nell’influenzamento comunicativo A intende influenzare B
ma vuole anche farli sapere che intende influenzarlo (interruzioni pubblicitarie). Di contro, quando
CocaCola, durante le proiezioni di un film, proietta le immagini della bevante ad alta velocità, gli
spettatori le percepiscono inconsiamente e all’intervallo hanno voglia di bere CocaCola, questo è un
influenzamento a carte coperte (percezione subliminale).
Questo è un caso di manipolazione attraverso l’inganno.
La persuasione è un caso di influenzamento comunicativo: A ha fatto pensare con grande certezza che il
suo scopo serve anche a B.
Influenzamento ed emozioni
Le emozioni costituiscono una potente arma persuasiva (Ilaria Cucchie che mostra il volto tumefatto di
suo fratello, i “ministri della paura” reali o inventati dalla satira. In questo caso l’influenzatore aggancia il
suo scopo allo scopo dell’influenzando di non provare più emozioni negative come indignazione o paura.
Simmetricamente, il seduttore e l’adulatore influenzano facendo provare emozioni positive.
Quando poi l’influenzamento è a carte scoperte, possiamo parlare di manipolazione emotiva. L’adulazione
è un esempio (mostrare ammirazione solo per ricevere favori)
Il discorso persuasivo : le parole e il corpo
La persuasione
La persuasione è un caso particolare di influenzamento sociale. Fra i vari modi di influenzare, la
persuasione è un influenzamento comunicativo, cioè A non solo intende influenzare B, ma gli fa sapere
che intende influenzarlo (se così non è parliamo di persuasione occulta), in cui infine B persegue lo
scopo di A per libera scelta. La persuasione è attuata attraverso l’aggancio di scopi. Ad esempio, il
candidato A cerca di persuadere gli elettori B a votare per lui dicendo che se sarà eletto diminuirà le
tasse (che è uno scopo di B). Talo scopo deve essere di particolare valore per A, poiché tra più scopi,
decide in base all’importanza che essi assumono per lui. È necessario che B si convinca che c’è un
rapporto mezzo-scopo fra il perseguire SA e l’ottenere SB. Per convincere B, il persuasore può servirsi di
tre strategie: logos, ethos e phatos. Da un lato userà il logos, cioè l’insieme di argomentazioni
razionali che aumentano il grado di credibilità dell’esistenza di un rapporto mezzo-scopo fra SA e SB; la
credibilità di una certa conoscenza dipende anche dalla fonte da cui l’abbiamo appresa: l’affidabilità di
chi ce la comunica, ossia l’ethos. Tale affidabilità implica che la fonte sia da un lato competente e
dall’altro benevolente. Infine, A potrà agganciarlo a scopi legati alle emozioni, le quali hanno un alto
potere motivante: da qui l’efficacia del pathos.
Far volere e far credere
Far provare forti emozioni è un modo per convivere un persuadendo. Le emozioni sono um meccanismo
di monitoraggio degli scopi adattivi, che innescano una forte reazione cognitiva e fisiologica ogniqualvolta
siano in ballo scopi come l’immagine e l’autoimmagine, la libertà, il non soffrire, il provare piacere o
amore.
Se il persuasore riesce ad agganciare questi scopi, il gioco è fatto. Se pensiamo ad alcuni nomi di partiti
o a leggi (Popolo della Libertà, decreto Salva Italia, Decreto Dignità, ecc) è chiaro che la presenza di
emozioni positive o negative, fa prevalere scopi come votare quel partito o quella legge (parlare alla
pancia della gente).
Ma la nostra attivazione degli scopi è regolata anche dal ragionamento; facciamo alcuni calcoli per
decidere quali scopi perseguire, e per attivarli vogliamo buone ragioni.
Ci sono due strada attraverso cui arriviamo ad essere fortemente convinti diqualcosa. Da un lato ci
basiamo sul nostro ragionamento: controlliamo se quella determinata azione serva davvero ai nostri
scopi, se cisono le condizioni per compierli e se le condizioni del contesto permettono che lo scopo sia
raggiunto, insomma le “buone ragioni”, che il persuadendo potrà usare come argomentazioni (logos).
Un’altra ragione che ci porta a credere a ciò che ci viene detto: chi ce lo dice. Se la fonte è affidabile
sospendiamo tutte le operazioni di controllo e ci fidiamo.
Ma posso fidarmi solo se attribuisco due proprietà, che non possono essere disgiunte l’una dall’altra,
benevolenza e competenza.
Il persuasore dovrà dare di sé un’immagine di persona degna di fiducia: questa è la strada dell’ethos.
Logos, ethos e pathos in un dibattito elettorale
In ogni discorso persuasivo si può fare appello a tutte e tre le strategie (vedi discorso tra Berluscioni e
Occhetto).
Nel discorso, Occhetto fa inferire che lui è una persona onesta, al contrario di Berlusconi che fa due
affermazioni contraddittorie (golpe bianco), perciò una delle due deve essere falsa. Lui è serio e
cavalleresco perché non ha commentato la vicenda riguardante le accuse fatte a Berlusconi di avere
qualche rapporto con la mafia. Mira al fatto che Berlusconi non sia imparziale.
Occhetto mira all’induzione di valutazioni da parte degli elettori: negative per l’avversario e positive su sé
stesso. L’arma più usata è l’ethos, poiché dimostra benevolenza e competenza.
(vedi discorso di Salvini)
Ethos e autopresentazioni: verbale e corporea, diretta e
indiretta
Il lavoro persuasivo nel discorso parlato non si serve solo di parole ma sfrutta anche la multimodalità
della comunicazione.
(vedi discorso di Occhetto)
Mette in evidenza il suo comportamento leale nei confronti dell’avversario (accuse al fratello di
Berlusconi). Lui non ha approfittato dell’occasione per infierire come “un avvoltoio”. Inoltre, attraverso
diverse intonazioni e gestualità, mettè in risalto a) il carattere accusatorio del discroso nei confronti di
berlusconi, b) attraverso l’enfatizzazione (pause, accenti su determinate lettere), che dice cose
importanti, c) che prova disgusto (gesti di allontanamento con la mano e gesti con le labbra), d) che lui
non è meschino.
Da questo discorso politico possiamo dedurre che, spesso le informazioni valutative sono comu
nicate indirettamente
Gesti e sguardi persuasivi
Gesti e discorso persuasivo
Esistono gesti o sguardi persuasivi?
Con i gesti si può promettere, esortare, incitare, proibire, approvare, supplicare, e meglio della parola
possoni indicare oggetti. Esprimere emozioni, come rabbia, rimpianto, eccitazione, indignazione.
Anche allo sguardo vengono attribuite le capacità di regolare un discorso e di esprimere stati cognitivi
come la concentrazione, intenzioni comunicative come la minaccia, emozioni come la sorpresa.
Kendon individua funzioni persuasive nell’utilizzo dell’”anello” (pollice e indice chiusi a cerchio) che porta
il significato di “precisare”.
Streeck ci fa notare quanto sia stato controproducente il gesto troppo insistente del politico americano
Howard Dean di scuotere l’indice, dando un’idea di supreriorità.
Potenzialmente rilevanti nel discorso persuasivo sono i “gesti di precisione”. Calbris analizza la “piramide”,
le “pinze” e il “quandro” (si inquadra la situazione). Nella piramide si indica un concetto ben preciso.
Simili alle pinze è la “presa di posizione” usata da Barack Obama, dove pollice e indice si toccano sui
polpastrelli, stando a significare “sto portando un’argomentazione efficace” o “io sono preciso ed
efficace”. Anche con il “becco” (piramide rovesciata) il parlante richiede l’attenzione dell’interlocutore
indicando una classe ristretta di oggetti o concetti: presentare l’immagine del parlante come lucido,
sistematico, che dritto al punto.
Ipotesi di lavoro
Per dire che un gesto è persuasivo, ci basiamo sulla nostra definizione di persuasione: definiamo
persuasivi gesti che in un discorso hanno lo scopo dipersuadere, attraverso gli “ingredienti mentali” tipici
della persuasione.
Vedi cap. precedente.
Corpus e analisi
Analisi di due discorsi persuasivi tratti da due dibattiti tenuti in Italia prima delle elezioni del marzo 1994
e del marzo 2006. (Occhetto e Romano Prodi)
Vedi discorso pag. 60-61-64 con tabella.
Risultati. Gli ingredienti della persuasività
In base all’analisi del corpus possiamo affermare che in realtà non esistono gesti persuasivi. Al massimo
gesti veicolanti come “io vi incito a...”, ma non esistono gesti che significhino “io ti voglio convincere a...”.
Si può dire invece che sono gesti con forza persuasiva tutti quelli che esprimono significati connessi alla
comunicazione di logo, ethos e pathos: gesti che contengono i seguenti ingredienti mentali.
1. Certezza. Persuadere implica convincere, far credere con un alto grado di certezza che uno scopo è
perseguibili rispetto ad altri. Per farlo dobbiamo mostrarci sicuri. Saranno persuasivi i gesti che esprimono
certezza, come l’”anello”, usato spesso da Mussolini.
2. Importanza. Se sostengo che una cosa è importante, realizzarla diventerà uno scopo di alto valore:
gesti performativi che richiedono attenzione come il finger bounch (mano con dita unite a palmo in su,
che su e giù scandendo le sillabe), che significa “enfatizzo”, “è importante ciò che sto dicendo”.
3. Valutazione. Esprimere una valutazione positiva su un oggetto o un evento significa comunicare che
è un mezzo utile per un certo scopo: diventa uno scopo da perseguire; la mamma convince il bimbo a
mangiare un alimento attraverso il gesto dell’indice che punta, come avvitandosi, sulla guancia, che
significa “mhm, buono”.
4. Benevolenza. Vista l’importanza dell’ethos, è rilevante la valutazione del persuasore. Gesti che fanno
capire che è disinteressato, generoso, nobile, come la mano sul cuore.
5. Competenza. È più facile essere persuasi da una fonte autorevole, esperta. Per questo sono
persuasivi i gesti che danno l’impressione di efficienza e di intelligenza. Berlusconi ruota due volte la
mano verso destra con movimento fluido e morbido: significa tralasciare gli aspetti troppo tecnici per il
pubblico facendo inferire la sua disinvoltura nel parlare di cose difficili, e quindi la sua competenza.
6. Pathos. Esprimere le proprie emozioni è un modo per farle provare agli altri. Prodi dice: “non posso
far finta di agire in un paese diverso da quello che è”; e il movimento del suo braccio, breve, scattoso,
energico e veloce mostra un’attivazione emotiva, esprimendo l’orgoglio di essere italiano.
Alcuni gesti possono avere più di un significato. Ad esempio, un gesto deittico come quello di Occhetto
che indica Berlusconi di per sé significa solo “mi riferisco a lui”, ma grazie all’energia e all anon fluidità del
movimento, diventa un gesto di accusa o di rinfaccio (significato indiretto).
Risultati. La densità di apporto persuasivo
All’interno di ogni gesto è possibile individuare più ingredienti diversi. Vedi pag. 67-68-69.
Sguardi persuasivi?
L’apporto persuasivo degli sguardi dipende dal loro significato. Ad esempio nell’intervista di Ségolène
Royal (si parla di un dirigente che ha fatto fallire la sua azienda e non subisce sufficienti sanzioni),
parlando guarda l’intervistatrice con uno sguardo fisso che significa: “sono servera, non ti permetto di
distogliere lo sguardo”, un informazione sulla propria personalità (ethos competenza); inoltre questo
sguardo fa inferire che lei lotta contro le ingiustizie (benevolenza); poi guarda l’intervistatrice di traverso
con le palpebre socchiuse che esprimono rabbia e indignazione: emozione che vuole indurre anche nell
pubblico (pathos). Nel secondo esempio mette in atto una sorta di parodia seria nei confronti di Sarkozy
(costringe i disoccupati a scegliere fra due lavori, pena il ritiro di sussidio di disoccupazione),
comunicando una valutazione negativa dell’avversario (pathos).
Segnali di dominanza
Il dibattito politico
Un dibattito è un tipo di situazione comunicativa in cui più persone interloquiscono a turno, di fronte a
un pubblico, fornendo informazioni fattuali e/o esprimendo le loro opinioni o valutazioni sui fatti.
Un dibattito politico è un tipo di interazione a scopo persuasivo: persuasione multilaterale, in cui due o
più aspiranti persuasori , esponenti di forze politiche diverse, con una gestione dei turni guidata da un
moderatore. Parlano in pubblico con lo scopo di persuadere, si ha dunque una “persuasione
competitiva”. Ognuno deve tener conto delle argomentazione dell’altro dando vita ad un confronto.
Bisogna mettere in campo le proprie armi di logos, ethos e pathos: fornire argomentazioni più convinceti,
evocare sentimenti più efficaci, dare una migliore immagine di sé. È una competizione dove si piìuò
guadagnare o perdere potere.
Buono, bravo e forte
Qui stiamo parlando di persuasione politica, quindi i requisiti per apparire un buon politico non si limitano
solo nella compotenza e nell’onestà: se “si fa mettere i piedi in testa” la sua lotta politica non andra a
buon fine.
Per questo viene richiesto un requsito in più: la dominanza.
Quindi nei suoi atti persuasivi dovrà mostrare di essere buono, bravo e forte.
Poteri e dominanza
Per definire il concetto di dominanza possiamo confrontarlo con due nozioni introdotte dalla sociologia: le
nozioni di potere e status. Il potere è definito come la capicità di influenzare o controllare altre
persone o gruppi. Per status si intende una posizione gerarchica in un gruppo o in una organizzazione,
determinata da caratteristiche innate (genere o appartenenza entnica) o apprese e acquisite
attivamente (capacità lavorative).
La dominanza può essere considerata una combinazione di potere e status: capacità di influenzare o
controllare gli altri che può essere determinata da fattori situazionali o da tratti personalità, come il
carisma (es del ragazzo a calcetto).
Abbiamo quattro nozioni di potere, una individuale e tre sociali: potere- di, potere da confronto di potere,
potere di influenzare e potere-su.
Corrispondono a quattro costrutti della psicologia o della sociologia:
1. il potere-di è la fonte del senso di autoefficienza di una persona;
2. il potere da confronto di potere è l’avere più o meno potere-di rispetto a un’altra persona;
3. il potere di influenzare è la capacità di influenzare e controllare le azioni di altre persone;
4. il potere-su è ciò che i sociologi chiamano status: una posizione riconosciuta (gerarchica ufficiale da
uno stipendio più alto), che da a un individuo il potere di influenzare altri.
Definiamo dominanza il fatto che una persona abbia più potere-di rispetto a un’altra riguardo a un
particolare scopo o classe di scopi. Se la posizione è riconosciuta ufficialmente e istituzionalmente
(campione dei pesi medi), allora ho acquisito uno status superiore al tuo. Lo status è il riconoscimento
istituzionalizzato della dominanza.
La rappresentazione cognitiva delle relazioni di potere
Per l’uomo è importante la rappresentazione cognitiva dei rapporti di potere.
Sapere che io sono più forte dell’altro è una buona base per decidere di mettersi in competizione, visto
che la probabilità di vittoria è alta. Ma questa è anche la ragione per cui esiste il bluff: l’importante non è
quanto io sia forte, ma quanto tu credi che io sia forte (es di farfalla con occhi sulle ali). Un principio
fondamentale relativo alla comunicazione della domaninza è quindi: l’immagine di potere è già potere.
Mostrare i muscoli
Definiamo segnale di dominanza qualsiasi segnale, verbale o corporeo, diretto o indiretto, con cui in
un interazione un agente A comunica all’avversario B, o ad altri partecipanti: “io ho più potere di te”.
Questo messaggio può essere trasmesso in vari modi: un professore che alza la voce per dominare gli
alunni o un professore che parla talmente a bassa voce da costringere gli alunni a fare silenzio.
Ci sono diverse “strategie di dominanza”, cioè una serie di comportamenti che direttamente o
indirettamente veicolano uno specifico “messaggio di dominanza”.
Vedi pag. 81-82-83
Le strategie di dominanza
Le strategie di dominanza si distinguono in due tipi: esplicite e sottili.
Queste sono quelle espliciti.
1. Aggressività, con i suoi sottotipi:
imperiosità, valutatività, invasione e violazione di norme.
2. Sfida.
Queste sono quelle sottili.
Vittimismo, permalosità, sussiego, disinvoltura, noncuranza, assertività e forza tranquilla.
Aggressività. Il messaggio che manda questa stretegia è: io sono più forte te, e se tu non fai ciò che
voglio, io ti punirò, perché ho il potere di farlo. Si divide in quattro modi: l’imperiosità, la valutatività
(ergersi a giudice), l’invasione e la violazione di norme.
a) Imperiosità. Una strategia molto diretta: “io ti do ordini” perché posso permettermi di farlo. I segnali
portatori di questo messaggio sono:
1. atti comunicativi imperativi, verbali e non
2. parole deontiche come dovere, potere, necessariamente, ecc.
Es. Gesto olofrastico di De Magistris di alzare la mano destra, con il palmo verso Castelli per dirgli di fare
silenzio. Oppure l’esempio di La Russa che dice “devo parlare”.
b) Valutatività. Ergersi a giudice: io posso giudicarti, quindi ho ptere su di te.
Es. La Russa che definisce fetenzia le intercetazioni telefoniche nei confronti del premier.
Un altro modo per ergersi a giudice è la severità.
c) Invasione. Invadere il territorio dell’altro acusticamente, spazialmente o temporalmente. Come ad
esempio la gestione dei turni aggressiva (tempo): interrompe, si sovrappone al turno dell’altro, ignorando
i richiami del moderatore.
d) Violazione delle norme. Trasgredire sfacciatamente una norma condivisa: io sono al dis sopra della
norma.
Es. La Russa che concede alla conduttrice di fargli la domanda invertendo i ruoli ospite-moderatore.
Un’altro esempio è il gesto delle corna di Berlusconi nella foto di gruppo al Parlamento europeo (luogo
serio gesto che counica una sprezzo delle norme: sono al di sopra della legge).
Sfida
Un altro modo per espiremere dominanza è la sfida. È un atto comunicativo con cui A comunica a B: “tu
pensi di avere più potere di me, ma anche se attualmente lo hai, io ho le capacità di superarti per avere
più potere di te”, non sottomissione.
Segnali tipici sono il busto retto , portamento d’orgoglio, il mento alzato e lo sguardo di sfida.
Es. Nel porecesso “Mani pulite”, Cirino Pomicino, durante l’interrogatorio da parte di Di Pietro, mantiene il
mento alzato e una sguardo di sfida.
Vittimismo
Tra le stretegie di dominanza “sottili” ne abbiamo una piuttosto efficace, il vittimismo. Vuol dire che gli
altri ti hanno fatto un torto, hanno violato i tuoi diritti e per questo sei in diritto di rivalerti.
Es La Russa che chiede: “Perchè non mi lasciate finire di parlare? (come se qualcuno gli negasse il diritto
di parola) Un minuto di fila devo parlare.” Contemporaneamente muove su e giù le mani giunte, come se
pregasse qualcosa e apre le braccia per mostrare disperazione.
Permalosità
Essere permaloso significa avere una bassa soglia di offendibilità. Sentisi offesi significa sentirsi attaccanti
nell’immagine di se stessi. E siccome l’immagine è l’insieme di credenze, la nostra immagine è quanto
potere gli altri ci attribuiscono. Se vali di più l’offesa è più grave.
Es. La Russa che si scandalizza per essere stato definito “gasato”. O Casini.
Sussiego
Opposta alla strategia del vittimismo, vuol far capire che è superiore all’avversario senza vantarsi, in
modo implicito. “Io sono superiore a lui, ma a tal punto che non mi devo neanche preoccupare di
comunicarlo in maniera esplicita”. È tipico un comportamento saccente e didattico nei confronti
dell’avversario. Viene valorizzato da gesti come l’”anello”, sta seduto in modo rilassato, palpebre
semichiuse, rilassamento: io sono superiore, non mi preoccupo di te perché sei inferiore.
Disinvoltura
Un altro modo di comunicare superiorità è mostrarsi disinvolto, a proprio agio; questo
comunica: “sono a mio agio, non dipendo da te, non hai potere si di me” e fa inferire
superiorità in maniera indiretta, esprimendo una non-inferiorità.
Noncuranza
Una strategia di dominanza molto crudele è la noncuranza: comportarsi come se l’altro non esistesse o
non fosse lì. L’abbiamo visto nell’esmpio di Scalfari nei confronti di Castelli, che non guarda neanche in
faccia. “non sei nessuno, non esisti, non ti considero.
Assertività e forza tranqilla
L’assertività è un modo particolare di comunicare. È orientata all’affermazione di sé, alla difesa dei propri
diritti ma anche al rispetto per l’altro. La persona assertiva è certa di riuscire senza dover aggredire
l’altro, la fiducia in se stessa le da una “forza tranquilla” (calma e bassa intensità di tono).
Il carisma del leader
Un leader è una persona che ha una particolare capacità di influenzare gli altri, oltre a proporre degli
scopi, fornisce degli impulsi efficaci a perseguirli; così “gli altri” diventano suoi seguaci.
Da un certo punto di vista la capacità di essere un leader è una forma di dominanza: il leader ha più
potere degli altri, perché si presume che sia più abile in certi campi, cioè gli da potere su altri e potere di
influenzarli.
Fra le teorie della leadership, alcune mettono l’accento sul fatto che il leader adatta la sua leadership al
contesto, altre affermano che l’attitudie ad essere leader sia un aspetto della personalita, forse innato. È
questo il caso del carisma.
Il carisma
Il concetto di carisma è stato introdotto nei primi del 900 da Max Weber (1922),
secondo cui, in una nazione, in tempi di crisi, nasce la necessità di un “capo carismatico”. Per Weber il
carisma è una qualità straordinaria, che induce altri a riconoscerlo come leader, sino a tributargli un
culto. Il carisma è una “grazie” un dono divino.
Anche una persona che non sia un leader può avere carisma: un cantante, un attore, un insegnante; ma
qui cercheremo di capire in che cosa consiste il carisma di leader politico.
Qualcosa dentro che traspare fuori
Il carisma è una serie di caratteristiche interne di una persona che, quando si manifestano
esternamente, suscitano negli altri alcune emozioni positive che li inducono a perseguire scopi non per
costrizione ma volontariamente.
Per studiare il carisma prenderemo in esame le caratteristiche interne e i tratti e comportamenti: parole,
voce, gesti, posture, che li manifestano.
I tratti esterni del carisma
Possiamo distinguere due modi di manifestarsi del carisma: carisma della mente e carisma del corpo. Il
carisma della mente sono lle idee creative e affascinanti di una persona, o i sentimenti espressi dalle sue
prole o azioni (musica, arte idee), mentre il carisma del corpo sono il suo aspetto fisico e la sua
voce(camminata, tono).
In un leader queste caratteristiche possono combinarsi.
Le qualità del leader
La carismicità di una persona può essere descritta, e quindi anche misurata, in termini di un certo
numero di dimensioni del carisma, e che particolari combinazioni di esse formino tipi peculiari di carisma.
In un certo senso il carisma è un grado estremo della persuasione.
Le caratteristiche interne di leader carismatico corrispondono infatti ad aspetti del discorso persuasivo:
logos, ethos e pathos. Ma da chi si propone come leader ci si aspetta una caratteristica in più: la
dominanza.
Misurare il carisma
La nostra ipotesi è dunque che un leader carismaticoo sappia usare al meglio le strategie persuasive di
logo, ethos e pathos. Per verificare questa ipotesi è stato condotto uno studio qualitativo volto a misurare
il carisma di vari leader a partire dalle descrizioni dei soggetti. A partecipati italiani e francesi è stato
posto un questionario che chiedeva: 1. di elencare nomi di leader politici e altri noti personaggi pubblici;
2. di generare aggettivi che descrivessero le qualità di una persona che consideravano carismatica e non.
Se ne sono ricavati due elenchi di aggettivi e in ciascun elenco 47 positivi e 21 negativi. Gli elenchi si
possono raggruppare attorno al pathos e alle tre dimensioni dell ethos (benevolenza, competenza e
dominanza). In aggiunta si è individuata un’elteriore dimensione: “effetti di induzione emotiva” (le
emozioni che induce nei seguaci.
1. Pathos: cioè “intelligenza emotiva”. Il leadr carismatico ha gradi capacità di provare emozioni e di
trasmetterle negli altri. Le caratteristiche descritte sono: entusiasta, appasionato, empatico.
(Berlusconi simpatico a prima vista, Conte e l’esultanza del gol).
2. Benevolenza: Il suo essere onesto, giusto e affidabile: cura degli interessi altrui. Altri due
importanti aspetti sono la socievolezza e la inclusività: “simili” a se stesso, “insieme” a lui.
3. Competenza: possiede numerose abilità fisiche e mentali. Può essere forte e abile negli sport, ma
specialmente ha notevoli doti intellettuali, come visionarietà, creatività, intelligenza strategica e
grandi capacità comunicative (Mussolini mentre va a cavallo, mentre si mostra a petto nudo, Obama
che riesce a far smettere di piangere un bambino.
4. Dominanza: provoca gli altri leader, non si sottomette.
5. Induzione emotiva: induce emozioni nei seguaci (attraente, affascinante, seducente) che
sono contagiati dal suo entusiasmo (maschio alpha).
In base a questo studio è stata messa a punto la scala MASCharp per valutare le percezioni del carisma.
È stata usata in vari studi sulla voce carismatica.
I tratti esterni del carisma. La voce carismatica
Per capire perché la voce di alcuni leader appare carismatica, sono stati sfruttati casi in cui la voce della
stessa persona ha subito un cambiamento drastico (Umberto Bossi pre e post ictus). Sono stati analizzati
due discorsi di Bossi nello stesso contesto. In entrambi i discorsi sono stati analizzati da francesi che non
parlano la lingua italiana: un’asserzione, un’incitazione e una domanda retorica.
Si sono riscontrati cambiamenti significativi a livello delle diverse dimensioni. Vedi pag 103-104.
Acuto e grave, lento e veloce
Un altro studio (D’Errico et al, 2013) ha indagato l’effeto del tono e delle pause sulla percezione dei
carisma di Hollande e de Magistris. Con la scala MARSCharp: i discorsi di Hollande da italiani, quelli di de
Magistris da francesi. Sia negli italiani che nei francesi, le pause brevi inducono giudizi di carisma
Proattivo-Seduttivo. Ma gli italiani tendono a fidarsi e ad attribuire un carisma Calmo-Benevolente a un
parlante che fa pause brevi ma usa un tono normale o alto, mentre i francesi preferiscono pause lunghe
con tono normale o basso. Risulta una differenza culturale nella percezione del tipo di carisma. Con
piccole differenze, apprezzano entrabi un leader Proattivo-Seduttivo. Voce acuta e pause lunghe evocano
una personalità estroversa e magari esibizionista, voce grave con pause lunghe evoca una personalità più
introversa e riflessiva.
Tratti esterni. Il discorso di Mussolini
Per analizzare il discorso di un leader carismatico è stata condotta un’analisi testuale dei discorsi di
Mussolini.
Parole
Il lessico mussoliniano è caratterizzato da due aspetti: “belparolismo” e “forzutismo”. Da un lato l’uso di
parole che menzionano o evocano emozioni positive, dall’altro un tendenza ad utilizzare l’iperbole,
l’esagerazione.
Le parole che evocano valutazioni positive utilizzano una strategia di logos: desiderabilità degli scopi che
propone. Le parole che evocano emozioni positive utilizzano la strategia del Pathos. Quelle che proiettano
un’immagine di forza utilizzano la dominanza dell’Ethos, evocando grande certezza dell’oratore
infondendo sicurezza nell’uditorio: induzione emotiva.
Belparolismo
Mussolini una spesso “parole calde”, quelle che menzionano belle emozioni, cose belle, come: “civiltà
umana”, “eroi”, “sublime”, “fieri”, che in buona parte utilizzano il pathos, cioè l’appello alle emozioni.
Forzutismo
Altre parole che contribuiscono a dare un’immagine forte, potente e dominante sono quelle che
riguardano lati gradi di intensità e entità o qualità. Morfologicamente, avverbi con il suffisso “-issim”:
“tormentatissima Europa”, “fascistissima Milano”. Spesso le parole indicano il grado estremo di qualcosa:
“moltitudine immensa”, “piramidale ignoranza”. Tutto grande, alto, multiplo, esagerato, per dare un’idea
diretta o indiretta di tanti, forti, potenti, di Mussolini e del suo grupppo.
Il forzutismo ha anche l’effetto di alzare il grado di certezza delle affermazioni, insieme alle “parole di
certezza” (promessa, come sempre). Contribuisce anche a dare un’immagine di competenza: uno che
sa le cose in modo indubitabile e categorico. Questo da anche un’idea di Dominanza. Infine, il forzutismo
induce sicurezza dell’uditorio: un’emozione positiva e proattiva (pathos).
Atti linguistici
Lo stile comunicativo di un oratore si può caratterizzare anche per la particolare frequenza di certi tipi di
atti linguistici.
1. Incitazioni. È tipico della persuasione: chiede all’uditorio di di compiere un’azione facendogli capire
quanto è importante incoraggiandolo.
2. Ordini e richieste di impegno. Chiede al popolo un impegno e da per scontato che lo facia.
Mussolini utilizza il meccanismo della “dissonanza cognitiva”: se tu fai quello che ti dico, alla fine ti
convincerai che è giusto farlo (ti autopersuadi).
3. Domande retoriche. Farmi una domanda retorica implica che voglio una risposta, ma poiché è
retorica, vuoi che risponda come vuoi tu. Lasci a me tutta la respondabilità di averlo detto.
4. Minacce. Sono tipicamente rivolte a “loro”, gli altri, i rivali, l’outgroup. Nelle minacce è tipico il
linguaggio della dominanza e l’utilizzo delle parole deontiche: “il mondo deve sapere”, “non avrà poi a
dolersi”. In altri casi usa una strategia “bastone e carota”, alternando minaccia e promessa.
5. Atti di discredito. La valutazione negativa dell’outgroup, screditare il nemico. Un tipico atto
comunicativo è l’insulto (residui).
Un altro modo di screditare è l’uso di parodie di cosa gli altri pensano dell’Italia.
6. Espressioni di affetti. Mussolini come anche atti linguistici positivi. Esprime il suo affetto verso la
folla che lo ascolta.
7. Espressioni di empatia. È una qualità essenziale di leader, espressione della sua benevolenza. Un
leader efficace deve comunicarla: “io sono conte”, “io sono come te”.
8. Lodi. Elogia l’uditorio. La lode è un atto di seduzione che cattura l’ammirazione dei seguaci.
La creatività del duce
Un aspetto della compentenza del leader carismatico è la cratività: idee innovative, visionarietà, pensiero
diverso. Il linguaggio di Mussolini è pieno di neologismi e figure retoriche (residui, residuati,
paciafondaio). Utilizza anche metafore “morte” e metafore “cretive” (la campana suonerà a martello,
ruota della storia)
Un’altra figura retorica è l’ossimoro: “pace armata”, “amore armato e severo”; o ancore l’uso di iperboli
come, “il calvario della guerra”.
Con il suo parlare creativo, lancia un metamessaggio: “io sono una persona che non si piega alle
convenzioni ma piega il mondo al suo volere” (competenza dell’ethos e dominanza).
Gli ingredienti del carisma di Mussolini
Possiamo riassumere la nostra visione: il carisma è un insieme di caratteristiche interne di un leader che
vengono manifestate da aspetti del suo comportamento comunicativo. I diversi tipi di carisma
(Autoritario-Minaccioso, Calmo-Benevolente e Proattivo-Seduttivo) altro non sono che combinazioni
diquesti ingredienti.
In Mussolini, l’ingrediente più abbondante è la Dominanza. Contribuisce a un carisma imperioso e
giudicante, quindi Autoritario-Minaccioso. Indirettamente pone sempre ordini e divieti.
Le sue espressioni di empatia, portano ingredienti di Benevolenza, di inclusività, che mirano a cementare
l’unità del “noi” nel confronto con il “loro”.
La retorica e il belparolismo suscitano emozioni estetiche e a evocare nobili scopi, il forzutismo e le
espressioni di Certezza infondono l’emozione positiva della sicurezza, il lessico creativo contribuisce
all’immagine di Competenza e collabora al Pathos, suscitando divertimento o ammirazione.
Le persone e i leader carismatici hanno tipi di carisma differenti, a seconda dei loro tratti carismatici
interni, ma anche dei tratti esterni che li esprimono, e delle loro combinazioni.
Ingredienti e tipi di carisma
La voce di Mussolini
Mussolini fa un uso retorico di vari aspetti della voce: pause, tempo, articolazione, accenti. Fa molte
pause retoriche che hanno uno scopo comunicativo: creare suspense, aspettativa, sorpresa, evocare
l’idea di importanza e solennità. Spesso sono strumento di Dominanza: costringe a prestare attenzione e
aumenta la dipendenza dell’uditoriodall’oratore. Mussolini fa spesso uso di iperarticolazione: parla lento e
scandisce le parole. Questa Chiarezza del duce (maestro di scuola) introduce un ingrediente di
Competenza e Inclusività: vuole essere capito da tutti.
In altri casi, la sua lentezza assume una sfumatura di Minaccia: se ti do tempo per capire bene il mio
messaggio, non hai scuse per fraintenderlo o eluderlo. Anche l’accento sillabico può mostrare minaccia e
aggressività.
Parlando della guerra in Spagna, sulla parola pàsserèmo, accenta la prima e la terza sillaba come segno
di aggressività; “mo” la pronuncia con intonazione ascendente, quasi fosse una promessa/minaccia,
confermata dallo squotere dell’indice. Un altro modo di Mussolini di comunicare aggressività è l’utilizzo
delle “r”: “vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare”.
Ricorda iconicamente il ruggiuto di un leone.
I gesti e il corpo
Mani sui fianchi, il busto eretto e il mento sollevato è la postura universale di orgoglio spesso utilizzata da
Mussolini. Tra i gesti di minaccia abbiamo: lo scuotere dell’indice destro e lo scuotere il pugno in aria.
Gli aspetti di dominanza sono presenti anche negli aspetti erotici e maschilisti della sua comunicazione,
da frasi come: “spezzeremo le reni alla Grecia”. Mussolini si mostra a petto nudo durante le battaglie del
grano e nelle evoluzioni della neve; si mostra più bravo di tutti in tutti i campi per giustificare il suo
potere sugli altri. Queste esibizioni hanno effetto di Pathos e genera l’ammirazione.
Gli ingredienti del carisma nella comunicazione multimodale di
Mussolini
Sono stati analizzati i primi due minuti del discorso a Napoli il 28 ottebre 1931.
Mussolini dice: “io sono il vostro càpo!”: contiene ingredienti di dominanza, di imperiosità, che implica il
sentirsi superiore e in diritto di comandare. Lo si può notare anche dalle altre modalità: la prosodia, con
l’accento sulla sillaba “ca” di “capo”, dando enfasi attribuisce al messaggio importanza ed energia; la
testa eretta e il mento in fuori esprimono orgoglio e superiorità; il gesto della mano destra a coppa che
batte energicamente segnalando l’indiscutibilità di quanto detto porta un ingredinte carismatico di
categoricità. Questi ingredienti contribuiscono a un tipo di carisma Autoritario-Minaccioso.
In altri passaggi (vedi tabella pag. 120-121), con la domanda retorica, mostra la sua dominanza
mascherata, esprimendo un carisma Benevolente-Autoritario con un atteggiamento paternalistico.
Il sorriso asimmetrico di ridicolizzazione esprime il discredito degli avversari, redendo complici i seguaci, e
configura un carisma Proattivo-Seduttivo.
Un carisma variegato
Sono stati indiviuati 17 ingredienti carismatici che si possono raggruppare attorno a Dominanza,
Competenza, Pathos e Benevolenza e che combinati danno luogo a quattro tipi di carisma: Autoritario-
Minaccioso, Benevolente-Autoritario, Proattivo-Seduttivo e Benevolente.
Gli ingredienti che rappresentano gli aspetti di dominanza della comjnicazione del duce sono:
Imperiosità. La esprime multimodalmente: “non vogliamo egemonie in Europa” e scuote l0undice con
tutta lamano destra, a palmo in avanti, come proibizione; con classica postura.
Minaccia. Sopracciglia agrottate e il tipico broncio; “r” iperarticolata e raddoppiata, frasi ipotetiche con
l’utilizzo del “se”.
Categoricità. Movimenti scattosi o gesto di precisione dell’anello; prosodicamente iperarticolazione.
Valutatività. Atteggiamento giudicante espresso da parole deontiche o che comunicano valutazioni
positive o negative, e dal frequente annuire (segno di approvazione, a volte delle sue stesse parole).
Discredito. Stigmatizza ciò che di negativo hanno fatto “gli altri” al suo popolo; li insulta con facce
arrabbiate e sorrisi di scherno, e ne fa la parodia.
Dominanza Mascherata. Le domande retoriche che fanno credere alla gente di essere libera,
configurando così un atteggiamento paternalistico. Si può definire finta benevolenza.
Il totale di degli ingredienti di carisma Autoritario-Minaccioso e Mascherato è il 38.75%.
Gli aspetti che danno luogo al carisma Proattivo-Seduttivo si possono ragruppare in tre dimensioni:
comunicatività, sicurezza di sè e pathos.
Chiarezza. Gesti deittici e iconici e l’uso di metafore, forse dati anche dal suo passato di maestro.
Certezza. Induce sicurezza nell’uditorio, è espresso dai suoi movimenti decisi, dai gesti di
precisione e dall’iperarticolazione fonetica.
Creatività. Presente nei neologismi e nelle figure retoriche.
Narcisismo. Esprime l’amore di sé stesso. È funzionale ad espremere Dominanza con frasi che
rassicurano i seguaci; lunche pause retoriche, annuire con il capo e frasi di autoelogio.
Ottimismo. Frasi ottimistiche, posture di orgoglio e voce squillante.
Il pathos è presente in ingredienti di di ricezione e produzione: capacità di provare (o mostrare di
provare) emozioni e di indurle in altri.
Emotività. Esibita nei “crescendo” della voce, nella drammaticità della “mano ad artiglio” e nei suoi
gesti di “afferramento”.
Induzione emotiva. Lunghe pause e contorni ascendenti che creano suspense.
Questi ingredienti costituiscono il carisma Proattivo-Seduttivo con un totoale del 36,88%.
Gli ultimi sono ingredienti di Benevolenza.
Lode. Per compiacere l’uditorio lo elogia e lo adula, e spesso annuisce alla folla per mostrare
approvazione.
Inclusività. “io sono con voi” spingendosi dal balcone verso la folla, con il sorriso. Vuole comunicare
similarità con i seguaci.
Empatia. Espressioni verbali che menzionano le sofferenze dei seguaci; sopracciglie oblique di tristezza,
voce dolce e un sorriso di tenerezza.
Complicità. Chiede e offre complicità ai seguaci spingendosi dal balcone e con domande retoriche.
Il totale di ingredienti di Benevolenza sono il 24,38%.
La macchina del fango
Gettare fango sugli altri è un modo infallibile per far perdere loro potere. Abbiamo visto che spesso basta
dare l’immagine di avere potere per finire con l’averne. Allo stesso modo dare dell’altro un’immagine
negativa è il miglior modo per eroderne il potere. Attaccare la sua immagine significa attarne il potere
persuasivo.
Il discredito
Screditare significa rovinare l’immagine dell’altro. “Sporcare” l’immagine di una persona è un attacco
aggressivo.
Possiamo definire così il discredito: vi è discredito di una Vittima (V) quando un evento anche fotuito o
un atto deliberato di un Agente screditante (AS) fa si che un Agente valutante (AV) valuti
negativamente una prprietà o un’azione di V, con l’effetto di peggiorare l’immagine che AV di V.
Un caso prototipico di discredito è quando AS accusa pubblicamente V di un’azione, o lo critica per una
sua caratteristica, allo scopo di far avere un’immagine negativa di V ad AV.
1. Non è necessario che ci sia un atto deliberato da AS volto a provocare una valutazione negativa di V
da parte di AV. Può trattarsi di un avento fortuito. In certi casi è l’evento stesso a paralre (es. Il
centenario che saltò dalla finestra e scomparve, o i calzini turchesi di Raimondo Mesiano).
2. Non è necessario che la valutazione sia negativa per AS o per V; è sufficiente che lo sia per AV.
3. Non è necessario che l’evento sia reale (calunnia).
Tra gli atti di discredito deliberati ne abbiamo tre: la critica, l’accusa e l’insulto.
Con la critica AS afferma che una proprità, un’azione o un’azione comunicativa che sia stata compiuta o
caratterizzi V, è sbagliata, insensata o moralmente riprovevole.
L’accusa presuppone che sia stata compiuta un’azione sbagliata o riprovevole, e afferna che è stato V a
compierla.
L’insulto è un’atto informativo della forma “tu sei un X” (es. sporco negro). AS categorizza V come
appartenente a una categoria degradante rispetto a quella in cui V pretendere di appartenere. Vuole
comunicare a V la sua intenzione di offenderlo.
Critiche, accuse e insulti non sono sempre atti di discredito: lo sono soltanto se sono indirizzati o solo a
un pubblico o sia al pubblico che alla vittima.
Si può screditare anche con l’insinuazione. Anche atti comunictivi corporei possono gettare discredito:
sguardo sprezzante o risolino ironico. Adirittura può screditare un’amissione, ovvero una non-azione (non
salutarti mai).
Discredito nei dibattiti politici
Vedi pag. 133-134-135-136
Le dimenzioni del discredito: competenza, benevolenza,
dominanza
Il discredito nei dibattiti politici, sia verbale che multimodale, si appunta in genere su tre criteri:
competenza, dominanza e benevolenza. Alle prime due si danno valutazioni negative di incapacità, alla
terza di dannosità.
Dal punto di vista della compentenza lo si può giudicare ignorante o stupido; quanto alla dominanza,
debole o insignificante; e quanto alla benevolenza, disonesto, immorale, ingannevole.
Difetti di competenza : ignoranza
Giudicare il rivale in base alla sua poca competenza.
Es. Castelli dice a de Magistris: “Ha imparato a fare il politico in tre giorni non sa di cosa parla”.
Dà dell’incompetente in maniera ironica e iperbolica, ma piuttosto diretta.
O ad esempio il gesto di Brunetta di coprirsi la faccia con le mani, che comunica disperazione.
Difetti di competenza: stupidità
Il discredito è lanciato sul parlante dall’antagonista, attraverso “commenti” facciali o gestuali, quindi per
via corporea diretta.
Un commento è un atto comunicativo che da un informaziono su qualcuno o qualcosa in modo
aggiuntivo, non richiesto. Può essere di due tipi: interpretativo se ha la funzione di aiutare il
Destinatario a comprendere un atto comunicativo (commento Promessi Sposi); valutativo quando
esprime un opinione valutativa su qualcosa o qualcuno. I commenti corporei possono essere prodotti
anche mentre sta parlando un altro (dibattiti televisivi commenti con gesti, sguardi o posture)
Es De Magistris che fa un ampio sorriso o gesti con la mano per dire “Sei matto?”; oppure Salvini che
alza gli occhi al cielo (noioso, ottuso)
Difetti di dominanza: impotenza
Una prima valutazione negativa che si può concepire su un leader politico riguarda la sua debolezza,
impotenza: la sua incapacità di farsi valere.
Es. La Russa che interrompe sempre Di pietro o le palpebre chiuse e le sopracciglia alzate. Comunicando:
Di Pietro è un poveraccio, non fa paura a nessuno. Ancora, Grillo che da del “morto che cammina a
Bersani.
Difetti di dominanza: ridicolo
Ridicolizzare una persona è il modo migliore per umiliarla e le attribuisce una mancanza di potere.
Difetti di dominanza: irrilevanza
Non esisti proprio: qualunque cosa tu faccia, gli altri neanche ti vedono.
Es. Travaglio chiama “signora” la sottosegretaria Alberti Casellati.
Un’altra mossa è quella di azzerare l’individualità dell’avversario. Es “un altro replicante”.
Un’altra è fingere di non ricordare il nome o storpiarlo di proposito.
Quanto ai segnali corporei, quello più si avvicina all’irrilevanza è il parlare di lui senza neanche
guardarlo.
Difetti di dominanza: arroganza
Un altro difetto che si piò mettere in risalto è la pericolosità del rivale: viene criticato per la sua eccessiva
dominanza (dittatoriale). Un esempio è la parodia fatta da Crozza nei confronti di Renzi, dove simula gli
atteggiamenti di Mussolini. Di fatti questa strategie sono più utilizzate da giornalisti o da attori di satira.
Difetti di benevolenza: immoralità
L’accusa di immoralità è un ovvio caso di discredito sul piano della benevolenza.
Es. D’Alema fa la morale sulla casa a Scajola, mentre lui vivieva in una casa popolare pagando 1/10 del
suo valore (anche se alla fine l’ha lasciata).
In questo caso Sallusti mira a sminuire una critica morale nei suoi confronti o del proprio partito
ritorcendola al Mittente.
Difetti di benevolenza: disonestà
Una pesante accusa (rivelatasi calunnia) di disonestà è quella lanciata da Letizia Moratti a Giuliano
Pisapia, accusandolo di essere responsabile del furto di un furgone usato poi per rapire e pestare un
ragazzo.
In questo caso, essendosi infine rivelata una falsa accusa, la mossa ha avuto un effetto boomerang.
Difetti di benevolenza: inganno
L’ultima valutazione negativa centrale al criterio della benevolenza è quella relativa alla sincerità: l’accusa
di mentire.
Discredito e multimodalità
Hanno voluto analizzare il ruolo delle differenze individuali nella persuasività del messaggio screditante.
Un obbiettivo interessante era quello di verificare se il discredito comunicato anche attraverso i gesti
possa giocare un ruolo additivo.
Uno studio ha messo in evidenza che accompagnare il discorso screditante con una gestiualità parallela,
non fa che alzare i toni; se il messaggio screditante verbale è ad esempio basato sull’inconsistenza
dell’avversario, rinforzarlo con la comunicazione in altre modalità, farò ottenre l’effetto opposto. Al
contrario, se il discredito è sulla lealtà, associare a parole i gesti non fa che aumentare il gradimento del
politico screditante.
Dimmi come discrediti e ti dirò chi sei
Cercare di ottenere approvazione screditanto l’avversario non è sempre una mossa vincente (effetto
boomerang).
Il bersaglio del discredito e il mezzo utilizzato per screditarlo vanno messi in relazione alla dominanza
sociale.
La dominanza sociale è un costrutto relativo alle relazioni intergruppi in cui viene in diversa misura
postulata l’adesio e l’approvazione delle disugaglianze sociali e della gerarchizzazione della società.
Ciò che emerge da questi studi è che le tre componenti utilizzate per studiare gli effetti delle diverse
tipologie di discredito, cioè la componente cognitiva rappresentata dalla percezione del
personaggio politico, quella emotiva dalle emozioni positive suscitate dal politico, e quella
conativa corrispondente al comportamento di voto potenziale, sembrano seguire una direzione
univoca se si considera l’orientamento della dominanza sociale.
La persona di bassa dominanza cosidera più forte e competente un politico quando scredita l’avversario
sull’onestà, la persona di alta dominanza preferisce il bersaglio della competenza.
Questi studi dimostrano come il discredito sia una dell emisure in cui viene valutato non tanto l’avversario
che si sta screditando ma proprio chi scredita.
È come se ci fosse un principio di coerenza: se screditi l’avversario riguardo una caratteristica, vuol dire
che per te quella caratteristica è importante; e allora confrontadomi con te , se anche per me quella
caratteristica è importante, voterò per te.
Il colore del fango che si lancia sugli avversari rispecchia i propri valore: dimmi su cosa discrediti e ti dirò
chi sei.
Comunicazione cattiva
Le ferite dell’odio
L’insulto, il turpiloquio, la denigrazione feroce sono diventate più una regola che l’eccezione.
Le critiche e le accuse attaccano i comportamenti dell’avversario, mentre l’insulto lo attacca come
persona.
Comunicazione aggressiva
Quando siamo in conflitto con un’altra persona spesso abbiamo scopi aggressivi nei suoi confronti, ovvero
ci viene voglia di danneggiarla, di compromettere i suoi scopi. Questa aggressività può esprimersi in
coportamenti comunicavitivi verbali o corporei. Possiamo fare del male con frasi, discorsi, singole parole,
gesti, sguardi, posture.
Comunicare disprezzo, odio, freisce l’altro in cioò che ha di più intimo e vitale: la sua immagine.
Dal punto di vista degli eventi scatenanti, alcune di queste frasi sono indotte dall’odio, da disprezze o da
altre emozioni, quindi anche il tipo di intenzione è diverso.
Dal punto di vista della struttura linguistica, maledizioni, imprecazioni e insulti sono atti comunicativi
completi, comprensivi di un performativo (l’intenzione del parlante) e di un contenuto proposizionale. Le
brutte parole invece sono singoli termini che esprimono solo una parte dell’atto comunicativo (“merda”,
“idiota”); tutte presentano significati tabuizzati.
Maledizioni
Una maledizione è un atto comunicativo con cuoi un Mittente M comunica a un Bersaglio B che vuole
che gli accada un evento particolaremente negativo. Si può esprimere in due modi:
1. Un atto comunicativo imperativo con il quale M richiede a B di compiere un atto per lui stesso
negativo, come: “Vai all’inferno”, “Vaffanculo”.
2. Un atto comunicativo di tipo ottativo: un’espressione di desiderio con cui M, pur rivolgendosi a B, fa
appello a un’Entità terza (divinità, fato, fortuna) a cui M attribuisce il potere di far avvenire o meno
eventi, affinché faccia accadere qualcosa di negativo a B: “Che ti venga un colpo”.
La maledizione ottativa può essere anche ellittica del verbo maledire: “Maledetto” che significa: desidero
che tu sia maledetto.
Le maledizioni sono rivolte direttamente al Bersaglio con il sovrascopo di comunicargli: “Non voglio avere
più alcuna relazione sociale con te”.
Gli atti compiuti da B ai danni di M possono suscitare tre stati mentali: rabbia, desiderio di vendetta,
odio.
Imprecazioni
Un’imprecazione è in un certo senso una maledizione ottativa o un insulto il cui B è un oggetto
inanimato, oppure un’Entità terza, che si ritiene responsabile dell’accaduto: faccio appello a un’Entità
terza affinchè B possa essere maledetto (“maledizione!”).
Possono essere causate da rabbia, che non sempre si prova per un’ingiustizia, a volte anche solo per una
semplice frustrazione, ma non portano necessariamente a odio e desiderio di vendetta.
Nell’imprecazione il Destinatario della richiesta non è B stesso, ma l’entità terza che M considera
responsabile del danno ricevuto.
Le imprecazioni si usano anche quando si è sorpresi e si vuole esprimere il proprio stato d’animo con
intensità.
La differenzapiù importate fra maledizione e imprecazione sta nel loro status comunicativo. La
maledizione è necessariamente un atto comunicativo mentre l’imprecazione può essere solo l’espressione
di un’emozione (sfogare la rabbia), senza volerla necesarriamente comunicarla ad altri.
Turpiloquio: le brutte parole
Le brutte parole non sono atti comunicativi completi, ma solo parole singole o frammenti di atti
comunicativi, che:
a) menzionano parti del corpo o azioni connesse a funzioni fisiologiche o ad altre aree semantica
soggette a tabù linguistico;
b) sono tratte in genere da un registro sociolinguistico basso (“fottere” al posto di “avere rapporti”);
c) evidenziano gli elementi degni di valutazione negativa e oggetto di emozioni negative (disgusto,
disprezzo, odio, rabbia)
Le brutte parole hanno lo scopo di aggiungere enfasi, ma anche di esprimere o comuncare rabbia
generata da un evento sforutnato: in tal caso funziona come un’imprecazione o una maledizione.
L’insulto
L’insulto è un atto comunicativo completo:
1. con l’intenzione cosciente di offendere: una persona, un gruppo, un oggetto;
2. che persegue questo scopo attribuendo al Bersaglio una proprietà negativa tale da includerlo in una
categoria degradante;
3. che mira a rovinare l’immagine del Bersaglio, nel caso di una persona, anche la sua autoimmagine.
Ci sentiamo offesi quando pensiamo che una persona con cui ci interessa avere una relazione positiva ha
di noi un’immagine peggiore di quella che vogliamo mostrare a lei e ad altri. Molte volte ci offnediamo
anche se l’altro no aveva intenzione di farlo; altre volte è proprio la sua intenzione ad offendere.
Quando insulta, M attacca il cuore della sua identità, comunica che lo considera appartenente a una
categoria degradante.
Nello scenario dell’insulto possiamo distinguere tre personaggi; il Mittente, il Bersaglio e l’eventuale
Pubblico. Quando l’attribuzione di una proprietà negativa è comunicata solo al Pubblico, si tratta di
accusa, calunnia o pettegolezzo, ma non di insulto.
Un insulto non è un atto imperativo o ottativo, ma un fatto informativo che menziona una valutazione
molto negativa del B e la comunica esplicitamente a lui e/o al Pubblico. È una comunicazione di
disistima, disprezzo, mancanza di rispetto.
Nell’insulto M ha lo scopo deliberato di comunicare il proprio disgusto o disprezzo.
Dunque nell’insultare M:
1. ha lo scopo di offendere B
2. ha lo scopo di comunicare che intende offendere B, e che non teme le sue ritorisioni, il che è offensivo
in sé perché diminuisce la sua immagine di potere.
3. ha lo scopo di diminuire anche l’autoimmagine di B. Tutto ciò è ancor apiù offensivo se inferto davanti
ad altri. Vedi tab. pag. 166.
Insulti verbali e corporei, diretti e indiretti
Insulti verbali diretti
L’insulto in italiano può prendere le seguenti forme linguistiche:
1. una frase informativa del tipo “Tu sei cretino”, dove “cretino” è un aggettivo che menziona una
proprietà negativa.
2. una frase informativa del tipo “Tu sei un cretino”, dove “cretino” è un aggettivo sostantivato (usato
con funzione di nome). Equivale a inserire il soggetto in una categoria (categoria dei cretini).
3. il nome della categoria degradante usato come vocativo, cioò un atto linguistico come “Ehi tu,
cretino”, usato per rivolgersi al Bersaglio.
Il caso 1 è un insulto relativamente leggero, perché si attribuisce al bersaglio una prprietà negativa non
necessariamente permanente. Nel 2 si attribuisce B ad una categoria degradante. Il caso 3 è il più
grave, perché usa la categoria come se fosse un nome proprio di B.
A volte la categoria creata implica un salto semantico: similitudine e metafore (sei cretina come una
capra – sei una capra).
Insulti indiretti
Negli insutli indiretti possiamo distinguere un’indirettezza sintattica da una pragmatica. Si ha indirettezza
sinatattica la proprietà negativa e/o la categoria degradante sono nascoste dalle pieghe della sintassi.
Quando l’insulto non è formulato con un vocativo, la proprietà negativa deve essere asserita, non solo
presupposta, e quindi menzionata nella frase principale.
Es. Di maio demolisce le balle di Renzi.
Il fatto che Renzi dica balle non è asserito esplicitamente, ma menzionato implicitamente.
L’insulto è indiretto quando le proprietà negative sono presupposte in struttura frasali secondiarie.
Si ha indirettezza pragmatica quando in un insulto la valutazione negativa non è esplicitata dal significato
letterale della frase o del segnale corporeo, ma devono essere colte per via inferenziale prendendo in
considerazione le conoscenze contestuali o culturali condivise fra Mittente, Bersaglio e Pubblico.
Es. Ormai hai ventun anni: è tempo che tu sappia di chi sei figlio! (A fijo de na mignotta!)
Cosa fareste se vi trovaste da soli in macchina con la Boldrini? (Grillo).
Insultiui corporei
Si può insultare con sguardi, espressioni facciali, gesti, posture, persino senza fare nulla. Non accettare
un’offerta, non salutare, non rispondere.
Fra i movimenti delle mani, si può insultare sia con gesti codificati, che con gesti iconici creati
estemporaneamente imitando forme o azioni (gesto delle corna, sventolare la mano vicino la fronte,
soffiarsi il naso con la bandiera dell’UE).
Si può insultare con lo sguardo, un sopracciglio alzto che sprime scetticismo, con il viso, un espressione
di disgusto, uno sputo in faccia, un sorriso ironico, una postura stravaccata. Anche gli insulti corporei
possono essere indiretti: come la pantomima di disperazione di Brunetta.

Ironia e ridicolo: screrditare prendendo in giro


Ridere di qualcuno è un modo molto efficace per farlo senite inferiore, e così eroderne la tracotanza.
Ridere e far ridere dell’altro è una forma sofisticata di discredito. Che rapporti ci sono fra il ridere, la
ridicolizzazione, lo humor e l’ironia?
Ridere
La risata è l’espressione emotiva scatenata dal rapido avvicendarsi di due emozioni: la sorpresa, che si
prova per l’improvvisa violazione di aspettative, e il sollievo, cioè il piacere per il non verificarsi di un
evento temuto.
La sorpresa scatena un’immediata ricerca di nuove conoscenze che ci spieghino come mai ciò che ci
aspettavamo non si è verificato, e cosa dobbiamo aspettarci d’ora in poi. Se le nuove conoscenze ci
spiegano la violazione, la sorpresa è superata; e se si scopre che l’evento non implica alcun danno, allora
si prova sollievo. Questa è la risata: una reazione fisiologica di sollievo della tensione che può essere
suscitata da eventi diversi, dal solletico, alla vittoria, fino allo humour e al prendere in giro gli altri.
Lo humour e la risata
Fra le decine di teorie sullo humour se ne possono individuare tre gruppi che spiegano il rapporto fra il
ridere e lo humour:
1. teorie dell’inconguità, che spiegano la causa scatenante dello humour: violazione di un’aspettativa
cognitiva, che però non è negativa e perciò scatena la risata;
2. teorie del sollievo, rappresentate dai lavori di Freud sul comico e sullo humour, secondo cui ridiamo
quando l’energia derivante da impulsi sessuali o aggressivi si scarica d’improvviso provoncando uno stato
emozionale positivo;
3. teorie della superiorità, che si concentrano sul ridere di qualcuno. Per Hobbes è una “gloria
improvvisa” causata da un senso di superiorità. Per Bergson ridere dell’altro si trasforma in una punizione
sociale.
Solo insieme, queste teorie ci raccontano tutta la storia: ridiamo quando, dopo la sorpresa provocata
dalla violazione di un’aspettativa, la tensione si scioglie nel sollievo perché ciò che abbiamo saputo o visto
accadere non è pericoloso, e questo ci da piacere e ci fa sentire superiori all’accaduto. Quando l’evento
inaspettato è un difetto dell’altro, allora ridere del suo difetto pìè ridere di lui, deriderlo, ridicolizzarlo,
prenderlo in giro.
Possiamo definire lo humour come un atto comunicativo che menziona una credenza insapettata ma non
minacciosa allo scopo di creare la sorpresa e il sollievo che danno origine alla risata. La risata ti
seppellisce.
La ridicolizzazione
La ridicolizzazione è l’atto di rimarcare una caratteristica di un oggetoo, evento o persona cui si
attribuisce una valutazione negativa di mancanza di potere. Tanto più l’oggetto ha pretese di superiorità
tanto più grave sarà l’impotenza. Il contrasto fra pretesa superiorità ed effettiva impotenza provoca
nell’osservatore il riso: è ridicolo.
Quindi la ridicolizzazione mira a screditare una persona evidenziandone una o più caratteristiche che
suscitano il riso. Questo atto può avere come effetto/scopo un senso di superiorità.
La ridicolizzazione è un atto comunicativo in cui:
1. Il M, di fronte a un P, rimarca una caratteristica di una V attribuendovi una valutazione negativa di
mancanza di potere, che contrasta con ogni eventuale pretesa di superiorità di V, ma non è minacciosa
né per M né per V, suscitando così il riso.
2. M sollecita deliberatamente P a ridere di V. Se M e P ridono insieme di V:
3. Si sentono superiori a V e non ne sono minacciati.
4. Si rafforza il legame sociale fra M e P, si sentono simili e V è visto come diverso.
5. V senta attaccata la sua immagine e la sua autoimmagine, sente vergogna, umiliazione, e si sente
diversa, rifiutata, emarginata.
La ridicolizzazione svolge una funzione di “aggressione moralistica”: attacco all’immagine della Vittima.
Per questo è molto presente tra gli adolescenti, nel bullismo, nella satira: è un modo di erodere l’altro.
L’ironia
L’ironia è un atto comunicativo retorico, cioè il significato letterale è diverso dal significato indiretto,
quello realmente inteso dal Mittente, che può essere recuperato dal Destinatario solo per via inferenziale:
il Mittente comunica qualcosa che non ritiene vero, ma al tempo stesso vuole che il Destinatario capisca
che non è vero. M comunica un significato X, ma attraverso questo ha in realtà lo scopo di comunicare
un altro significato Y, che è contrastato o opposto al significato X, e in questo caso si parla di ironia
“antifrastica”.
Se quello letterale è negativo quello ironico è positivo e viceversa. (“Bravo, complimenti!”)
Si può fare ironia anche con messaggi non verbali. Se mi dici una cosa che sapevo gia posso sgranare gli
occhi per recitare ironicamente che sono sorpreso.
l’ironia è un atto comunicativo retorico e spesso ha lo scopo di suscitare il riso (divertire, sdrammatizzare,
alleggerire). Altre volte è finalizzato a ridicolizzare. In ogni caso è necessario che i suoi Destinatari e/o le
Vittime capiscano che l’atto è ironico. Due passaggi sono necessari alla comprensione: 1. l’”allertamento”
dell’ironia, cioè capire che l’atto comunicativo non deve essere interpretato letteralmente; 2. la
comprensione del significato inteso dal Mittente.
Capire che sei ironico
A volte sono ironico ma non m’importa che l’altro lo sappia: è un’ironia che faccio per me stesso. Ma la
maggior parte delle volte vogliamo far capire la nostra intenzione. In questi casi produciamo , prima,
l’allertamento dell’ironia, che segnala al Destinatario che quello che stiamo compiendo non deve essere
interpretato letteralmente.
L’atto di allertamento può essere metacomunicativo o paracomunicativo. Nel primo caso è un
segnale specifico che ha come oggetto l’atto ironico: frasi come “sto scherzando” o “sono ironico”, o
segnali facciali. La strategia paracomunicativa non comunica sull’atto comunicativo ma accanto ad
esso: comunicando qualcosa di totalmente contraddittorio. In certi casi basta che l’atto ironico sia
espresso in presenza di un evento che “parla da solo”: ad esempio: piove a dirotto e dici: “Bella giornata,
vero?”. In altri casi bastano gesti facciali che mirano ad esagerare l’atto comunicativo. L’esagerazione è
una delle strategie di allertamento paracomunicativo più usate.
Ironia verbale
In certi casi il Mittente non fa uso splicitamente del riso o del sorriso, ma cerca di suscitarlo nel pubblico.
(vedi pag 186).
Parole e risate
Lo scopo di ridicolizzare è esplicitato da un atto comunicativo verbale, mentre la risata semplicemente
metacomunica tale scopo. (vedi pag 187).
Ridere soltanto
In altri casi, già il permettersi di ridere, è di per sé una ridicolizzazione. (vedi pag. 188)
Sorrisi e parole
A volte anche il sorriso è solo di accompagnamento a una ridicolizzazione verbale.
In molti casi basta un sorriso di sufficienza per ridicolizzare un avversario. (vedi pag. 188-189)
La bocca che non ride
A volte i partecipanti a un dibattito, dopo un’affermazione che prende in giro l’avevrsario,
metacomunicano il desiderio di ridere di lui con particolari movimenti della bocca: roteare la lingua nella
guancia, stringere le labbra. (vedi pag 189)
Guardarsi intorno
Un segnale tipico di ridicolizzazione è il fatto che il Mittente, durante o dopo la frase di ridicolizzazione e
l’evnetuale riso o sorriso, si guarda intorno per cercare approvazione (complicità).
Imitazione e parodia
A volte la ridicolizzazione non è espressa da specifici segnali, ma da aspetti particolari, fra cui la presenza
dell’esagerazione e dell’imitazione parodistica.
L’esagerazione è un tipico segnale paracomunicativo di preallertamento dell’ironia. (vedi pag 190)
Ironia e ridicolo nel processo “Mani pulite”
La parodia
Il potere della satira
La strage di Chalie Hebdo ci dimostra quanto gravi possano essere gli effetti della ridicolizzazione.
Il riso ha anche una funzone di critica morale e politica che si esprime nella satira, nella caricatura, nella
parodia.
Che cos’è la parodia?
La parodia è un atto comunicativo verbale o multimodale che produce un’imitazione distorta di aluni
tratti o comportamenti di una persona o di un altro atto comunicativo volta ad evidenziarne i difetti fino a
suscitare il riso, per questo la parodia può essere usata come atto di discredito.
Quali siano lo scopo e il sovrascopo della parodia non è sempre chiaro: rendere evidente quanto c’è di
ridicolo in un comportamento per criticare la persona (bullismo); o posso farlo per scopi educetivi come
quando un’insegnante di lingua straniera ripete, ridicolizzandola, una pronuncia sbagliata.
Questa “aggressione moralistica” è anche lo scopo della satira di costume, e delle parodie politiche.
Nella parodia, il Parodista P imita una Vittima V riproducendone i tratti e/o i comportamenti, ma in modo
distorto, ad esempio esagerato o fuorviante, che ne mette in luce i difetti. Per questo deve individuare gli
aspetti caratterizzanti dei tratti fisici o dei comportamenti di V.
La chiave di tutto è l’allusione. Alludere significa far capire all’altro che ci riferiamo ad una certa cosa, ma
senza nominarla esplicitamente, e che vogliamo che lui capisca a cosa ci riferiamo, basandoci sulle nostre
e sue conoscenze condivise. In questo caso si comunica indirettamente.
Nell’allusione sia verbale che corpore P non può menzionare il referente in modo chiaro, ma vi può far
riferimento lanciando indizi che permetto a D di catturare l’allusione.
La parodia dei politici è un atto di discredito tramite ridicolizzazione, in cui possiamo individuare quattro
caratteri distintivi:
1. somiglianza con la Vittima;
2. allusione;
3. distorsione della somiglianza, finalizzata a esagerare gli aspetti ridicoli della Vittima e suscitare il riso;
4. induzione inferenziale di valutazioni negative degli aspetti ridicoli evidenziati.
Politici all aberlina. Un’analisi qualitativa
Il 3 febbraio 2012 a Roma scende tanta neve. Max Paiella, riferendosi alla gaffe del comune sulla
quantità di neve prevista, si mostra nei panni di Alemanno, con il Colosseo e fiocchi di neve sullo sfondo.
Vestito da centurione con un foglio nella mano sinistra e una pala nella destra.
Le allusioni presenti in questa scena.
1. Il Colosseo con i fiocchi di neve identifica l’episodio della neve a Roma.
2. Il vestito da centurione allude agli operatori turistici: un lavoro non molto prestigioso che getta su
Alemanno una valutazione negativa.
3. La pala nella mano destra allude agli attrezzi distribuiti alla cittadinanza: l’immagine del ragazzo
lasciato solo dalla Protezione civile. Il tutto induce inferenze di incapacità.
4. Il foglio di carta allude al bollettino della Protezione civile sui centimetri attesi; il che ricorda
l’ignoranza meteorologica di Alemanno.
Parodia superficiale e profonda
Spesso la parodia è un’imitazione “profonda”: il parodista individua un aspetto ridicolo “sotteraneo” della
Vittima, unos trato profondo della sua personalità e imitia i tratti o comportamenti in cui si potrebbe
manifestare. Ci sono due modi per “distorcere” l’imitazione della Vittima: distorcerne l’apparenza esterna
o l’essenza sottostante; il risultato sono due diversi tipi di parodia che chiamiamo “superficiale” e
“profonda”.
Per produrre una parodia superficiale basterebbe ripetere la stessa parola molte volte o fare un gesto più
soesso del solito. Crozza fa anche parodie più “profonde”, ad esempio quando imita Brunetta vestito da
guerrigliero (ricategorizzazione), alludendo al suo carattere aggressivo. (vedi altri es. a pag 213)
Come si fa una parodia?
a) Individuare un difetto del Bersaglio da fare oggetto di ridicolo.
b) Comunicare l’identità del Bersaglio (imitando il modo di vestire, i tratti morfologici, il comportamento).
c) Comunicare l’evento che ne ha fatto emergere il difetto essenziale (scenografia).
d) Comunicare lo specifico difetto. Nella parodia superficiale è sufficiente imitare un tratto morfologico
(difetto fisico). Ma per i difetti morali è spesso necessaria la ricategorizzazione. Questa si può servire di
stereotipi (cameriere = persona sottomessa).
e) Comunicare gli aspetti umoristici del difetto attribuito al Bersaglio e della sua categorizzazione o
ricategorizzazione.
Tutto il corpo dell’attore, ma anche la scenografia, la musica, i personaggi di contorno sono rilevanti per
comunicare gli aspetti appena visti della parodia.
La parodia politica e i suoi effetti persuasivi
L’umorismo ha il potere di persuadere attraverso la cosiddetta “via periferica”.
La caratteristica cruciale del percorso periferico verso la persuasione è che lo stimolo viene elaborato in
una forma base , suscitando solo semplici inferenze, al contrario del persorso centrale che elabora i
messaggi in modo più dettagliato.
Analizzando il cosiddetto just a joke effect, dimostrano che l’umorismo può promuovere il processo
periferico di persuasione poiché provoca distrazione dalle parti critiche del messaggio (effetto stordente)
(Nabi, Moyer-Gusè e Byrne)
Al contrario, Baumgartner, Morris e Wealth rivelano un effetto priming da parte della satira.
Holber e collaboratori distinguono due tipi di satira, una oraziana e una giovenaliana. La satira
oraziana può essere considerata una commedia, una forma leggera di satira rispetto a quella
giovenaliana, che può essere più acida, selvaggia. La parodia oraziana è considerata più divertente da
persone con scarsa competenza politica, al contrario della giovenaliana.
La parodia come priming morale e affettivo
L’emozione possono essere considerate come una prima valutazione della parodia, e quelle negative
possono essere una sorta di allerta in senso “morale”: indignazione, disprezzo nei confronti di un politico
screditato. Possono avere un ruolo cruciale nella persuasione aumentando la convinzione morale e
rafforzando la rigidità del giudizio. (vedi esperimento pag 220-221)
Si è visto dunque che la parodia inn generale suscita più emozioni negative rispetto a quelle positive e
che i due tipi di parodia le suscitano in modi diversi. La parodia superficiale suscita principalmente
emozioni positive e un just a joke effect grazie alla sua focalizzazione sugli effetti comici, la parodia
profonda suscita principalmente emozioni negative come tristezza, amarezza, ed emozioni morali come
indignazione e disprezzo.
La parodia quindi in casi particolari esercita un diverso priming affettivo che si riverbera anche sulla
valutazione del personaggio rendendolo meno divertente e di riflesso più negativo e astuto.

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