Paolo Inghilleri
Capitolo 1 - Star male, depressione, attacchi di
panico
1. Un mondo nuovo
Il libro si apre con varie situazioni che il professore ha vissuto. Racconta queste
storie poiché è presente un filo comune tra tutti questi esempi, cioè la presenza di
un mondo nuovo caratterizzato da continua informazione nuova, che si aggiunge
alla precedente (nuovi dati, nuove idee, video su YouTube eccetera).
Il noto antropologo Arjun Appadurai parla della fine del concetto di "individualità",
cioè dell'idea di individuo come entità stabile e isolata, tipica della società
occidentale. L’individuo, così come teorizzato e immaginato non esisterebbe più,
ed è necessaria una nuova concettualizzazione. Appadurai scrive del passaggio da
individuals a dividuals, ovvero scrive del risultato di un continuo lavoro di
separazione e ricombinazione delle parti dell’individuo in cristallizzazioni
momentanee. Ciò può comportare un passaggio di questo meccanismo nella
società.
Essendo, noi stessi, immersi in un mondo sempre più complesso, in cui siamo
continuamente sottoposti a nuovi stimoli e possibilità, sorgono due domande
fondamentali. Questo processo porta maggiore libertà e opportunità, oppure
diventa una costrizione, e in definitiva, quindi, si tramuta in una perdita di libertà?
E, d’altra parte, questa molteplicità di opportunità, complessità ma anche
frammentazione dell’Io, non rischia di farci perdere la sicurezza di essere legati ad
un mondo che ci sostiene? Cioè, il pericolo potrebbe essere quello di perdere le
garanzie di provenire da una storia, avere dei legami affettivi, e cioè porterebbe allo
star male psicologicamente.
2. Saper scegliere
Negli ultimi anni si è sempre più discusso sul rapporto tra felicità e possibilità di
scegliere la propria vita, anche in riferimento alla ricchezza economica. Non si è
ancora definito con chiarezza che cosa si intenda per felicità, ma le culture di
stampo orientale (chiamate dalla psicologia sociale “individualistiche”, es. Stati
Uniti) affermano che, per essere felici, bisogna raggiungere l’indipendenza
individuale, autorealizzazione, successo e libertà di scelta, di conseguenza la
mancanza di questi elementi porta alla sofferenza. Anche il concetto di libertà si
presta ad interpretazioni diverse: Isaiah Berlin distingua tra libertà negativa e libertà
positiva. La prima deve essere intesa come “libertà da” e consiste nella possibilità
di esercitare il proprio volere senza condizionamenti esterni. Il concetto di libertà
positiva, quindi “libertà di”, descrive la possibilità di orientare il proprio
comportamento e la propria volontà verso uno scopo: è la libertà di
autodeterminarsi. Se pensiamo alla nostra vita quotidiana, qual è il nostro margine
di libertà da e libertà di? Siamo davvero in grado di scegliere? Chiaramente questa
libertà di azione non può essere totale, il fatto stesso di vivere in una realtà sociale,
con altre persone che hanno a loro volta bisogni e desideri, implica una
mediazione; possiamo chiederci quanto vogliamo davvero vivere questi vincoli?
Sarebbe diverso se noi scegliessimo di essere meno “liberi” in funzione di un
nostro scopo (es. vivere una vita con quella persona o avere un lavoro che ci piace
e ci dà senso), o se seguissimo solo la routine o scopi lontani dalle nostre passioni
e dai nostri desideri. Secondo Barry Schwartz, al fine di essere veramente liberi di
autodeterminarsi in modo positivo, abbiamo bisogno di confini, regole che non ci
lascino “liberi da” tutto quello che ci circonda, e quindi soli con le nostre scelte.
Quindi per raggiungere una reale autonomia è necessaria una dimensione di
“dipendenza” (interessante guardare su YouTube TEDx di Schwartz ad
Amsterdam).
Linda Pola (giovane ricercatrice della Statale) sostiene che c’è il rischio infinite
possibilità rendano l’essere umano finito, nel senso di meno libero. La società
attuale ci spinge a pensare che libertà individuale e indipendenza siano valori
fondamentali, senza considerare come questo implichi una dimensione di non
condivisione e quindi una difficoltà a cogliere gli aspetti positivi della cooperazione
tra persone. Alcuni sostengono che, per la maggior parte di noi, scegliere è
diventata la questione più importante del nostro tempo. L’obbligo di scegliere
diventa la più fondamentale delle libertà umane. Per Schwartz più possibilità di
scelta hanno le persone, maggiori sono la loro libertà e autonomia, e più libertà e
autonomia hanno le persone, maggiore è il loro benessere psicologico. Questo
processo, in apparenza positivo, può nascondere un grande pericolo: questa
libertà di scelta può anche trasformarsi in tirannia; se la cultura non fornisce una
guida, un limite, la persona può sentirsi paralizzata di fronte a tante scelte. Le
regole dei genitori, le norme sociali, le proibizioni alle quali, anche da adulti,
dobbiamo sottostare, hanno la funzione di farci sentire non solo vincolati, ma
anche, e soprattutto, sostenuti, protetti e rassicurati.
Più opzioni si hanno, più è facile cadere nel meccanismo del rimpianto, il quale
impedisce di provare soddisfazione anche verso una scelta che porta a risultati
positivi.
In altri casi il dividualismo positivo. (Il professore fa l’esempio del Corpo dei Vigili
del fuoco durante l’attacco alle Torri Gemelle). Nel caso del dividualismo positivo la
persona perde, in parte, la propria individualità; è come se sospendesse i propri
legami profondi e, per uno scopo condiviso, divenisse parte di un gruppo, si
legasse ai valori e agli obiettivi di quel gruppo, che la portano addirittura a non
curarsi della propria sopravvivenza individuale. In questa forma di dividuazione, la
persona non viene totalmente espropriata del proprio diritto di agire come Io
cosciente, ma è comunque spinta dalla situazione sociale verso comportamenti in
parte contrari alla propria individualità biologica e psicologica. Siamo quindi di
fronte a un processo di dividualizzazione positiva dal punto di vista sociale. In altri
casi si dividualizzazione socializzata e positiva, la perdita di sé come individuo a
favore di un bene comune deriva da un’iniziale scelta individuale fortemente
autodeterminata: la persona sceglie di diventare divido con lo scopo di esprimere
un valore in cui crede.
C’è la possibilità che per uno scopo comune si collabori con gli altri e con i
membri di gruppi che non sono quello a cui si appartiene, trascurando
psicologicamente, temporaneamente e in modo reversibile, le motivazioni e gli
scopi puramente personali. Questa dividualizzazione socializzata e positiva ci
porta a spogliarci momentaneamente della nostra individualità e ad agire per un
bene comune e uno scopo condivido, per poi tornare a essere singole persone
con il nostro specifico mondo psichico, i nostri desideri, i nostri obiettivi personali
(il mondo in cui la maggior parte popolazione italiana ha affrontato il periodo di
chiusura e di obblighi legati alla fase della pandemia, rappresenta un buon
esempio di questo meccanismo psicosociale). In generale, siamo di fronte al fatto
che esiste una linea sottile tra quanto possiamo davvero scegliere nella nostra
quotidianità e quanto siamo invece vincolati a scegliere come membri di una
società con le sue regole e i suoi obblighi. La modalità di questo processo, il fatto
di sentirci più o meno liberi, è un elemento fondamentale che ci porta verso il
benessere o il malessere psichico.
Kaes parla di garanti psichici e garanti sociali, ovvero di elementi che stanno alla
base della formazione della mente e dello sviluppo della persona. La cultura e la
società, fin dai primi giorni di vita del bambino, attivano processi mentali: son
funzioni fondamentali (es. linguaggio, empatia ecc.) che hanno una base biologica:
corrispondo a specifiche aree cerebrali, sono frutto dell’evoluzione, ma devono
essere attivate. Quindi il bambino, giorno dopo giorno, interiorizza inconsciamente
una serie di relazioni intersoggettive, per prima quella con i genitori.
Successivamente i rapporti sociali si estendono e avviene l’interiorizzazione di altri
fondamentali elementi intersoggettivi, come i valori di una comunità, gli ideali
comuni, le credenze ecc. tutti questi elementi vanno a costruire la cultura
interiorizzata o intrasomatica; Kaes li definisce “garanti psichici”: elementi
connessi alla cultura, società a cui apparteniamo che diventano parte del nostro
Sè personale e ci garantiscono che esistiamo psichicamente e che siamo
all’intento di un mondo sociale che dà sicurezza e protezione. I garanti psichici
svolgono una funzione importantissima: sono i pilastri della possibilità di pensare e
di usare la mente secondo un ordine che è sia cognitivo sia affettivo, ci dicono
quindi come leggere il mondo attraverso specifiche categorie, ci dicono cos’è
buono e cattivo e cosa sono le cose; allo stesso tempo sollecitano anche affetti ed
emozioni. Quindi i garanti contribuiscono a costruire i processi psichici individuali
assicurando una continuità della realtà psichica che dà senso e identità alla
persona. Una volta formati, i garanti, sono attivi inconsciamente (in grado quindi di
fornire ordine, senso e coesione anche quando siamo in momentanea confusione).
Il fondamento dei processi psichici sono queste relazioni consce e inconsce, sono
i legami con le persone e tra le generazioni che ci danno forza e ci strutturano.
In alcuni casi questo non basta per farci stare bene, entrano in campo altri fattori.
Lo storico Yuval Noah Harari evidenzia come dalla comparsa dei primi gruppi
umani la mente e i comportamenti individuali nascano, funzionino e si organizzino
in quanto sono in relazione con i gruppi sociali e di potere con la cultura materiale
e immateriale con cui si vive. Per Harari, i comportamenti sociali dipendono da - e
trovano significato in - questi elementi esterni alla psiche perché esistono dei
“garanti sociali”. I garanti sociali sono le istituzioni (famiglia, governo), le strutture
sociali (edifici in cui abitiamo, mezzi di trasporto), strutture di assistenza, oggetti
della vita quotidiana. Il professore cita due esempi: il primo è del Corriere della
Sera, che riporta la notizia di un’intera famiglia italiana costretta a vivere in un’auto,
l’uomo, 39 anni, ha perso casa a causa del fallimenti dell’azienda nella quale
lavorava, e fosse costretto vivere sulla strada con la compagna e i tre figli; il
secondo esempio, sul quotidiano La Stampa, riporta l’inferno del campo profughi
di Lesbo, in Grecia, in cui succede di tutto: gira droga, ci sono minori non
accompagnati, donne che subiscono violenze, prostituzione anche minorile.
Possiamo immaginare che in questi due casi i garanti psichici di cui abbiamo
parlato non possano funzionare. Una situazione priva di garanzie sociali
fondamentali come la casa e il lavoro, non permette l’attivazione di relazioni
ottimali tra genitori e figli, non permette quindi il funzionamento dei garanti psichici.
Nel caso del secondo esempio, le persone sono espropriate dalle garanzie sociali,
e anche per loro il rischio di attivazione dei “garanti psichici” è fortissimo. Quindi,
se tutti noi abbiamo biologicamente a disposizione una grande potenzialità
psichica, è il mondo esterno, la società a permettere o a impedire la piena
espressone di quella potenzialità. I bambini che devono abbandonare la scuola; un
bambino separato per la legge da uno o da entrambi i genitori; donne che non
sono protette dalla legge nei loto diritti: il lungo elenco di casi in cui l’assenza delle
prerogative e di garanzie sociali può bloccare lo sviluppo psicologico, potrebbe
continuare. Si tratta di casi in cui l’assoggettamento blocca la soggettivazione,
cioè l’espressione del Sé. Si tratta di un meccanismo pieno di implicazioni a diversi
livelli.
I genitori, la famiglia, le leggi dello Stato, sono tutte fonti di vincoli cui noi
rispondiamo con un margine più o meno ampio di scelta e autodeterminazione. Il
risultato di questo incontro, che talora diventa scontro, tra legge e desiderio è la
qualità dell’esperienza soggettiva, il nostro sentirci bene o male, appagati o
frustrati, ansiosi o annoiati. Tutta la psicologia ha affrontato questo argomento: la
psicoanalisi lo ha fatto indagando la relazione con il padre e parlando del
cosiddetto disagio della civiltà, generato dal fatto stesso di appartenere a una
cultura e di essere membri di una società; il comportamentismo lo ha fatto
sottolineando l’effetto di premi e punizioni e dei rinforzi positivi o negativi sul
nostro comportamento, che ne risulta di conseguenza vincolato; il cognitivismo
affrontando il tema delle euristiche, ovvero delle strategie cognitive cui siamo
obbligati o cui ricorriamo liberamente per risolvere problemi e risparmiare energia
psichica; la cosiddetta psicologia positiva, di cui l’esponente è Martin Seligman,
studiando i modi per raggiungere i valori e le virtù cosi come sono definiti e imposti
dalla società cui si appartiene, senza per altro rinunciare a perseguire il benessere
soggettivo.
Domanda fondamentale, che sta alla base dello star bene o dello star male
psicologicamente: qual è il margine di questo doversi adeguare e dover subire le
regole della società e della cultura per ottenere in cambio non solo sicurezza e
protezione, ma anche il sentimento cosi strutturante di appartenere a una famiglia,
a un gruppo, e di far parte di una continuità sia biologica sia di valori e di idee?
Paul Farmer, medico canadese, parla di inevitabile violenza strutturale: ciascuno di
noi, in qualunque società, subisce - ma vi contribuisce anche, per lo più
inconsciamente - una dinamica di potere per cui alcuni individui costringono altri
individui in un gioco di costrizioni reciproche di ampiezza variabile; si tratta di quel
particolare tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto, che non ha
bisogno di una persona specifica per essere compiuta, che è prodotta
dall’organizzazione sociale stessa, dalle sue disuguaglianze più o meno profonde,
ma inevitabili, che portata all’eccesso si traduce in patologie, miseria, mortalità
infantile, abusi sessuali.
Molto è stato scritto e studiato, specie dopo la Seconda Guerra Mondiale, per
cercare di analizzare alcuni comportamenti attuati dai militari, dalle SS, ma anche
da parte della popolazione tedesca e di altri Paesi europei. Su questa linea,
l’esperimento di Stanley Milgram è quello più famoso. Nel 1961 organizzò una
serie di studi, all’università di Yale, su più di mille soggetti volontari. Si trattava di
un esperimento sull’obbedienza all’autorità. A queste persone (chiamate
“insegnanti”), tutti cittadini normali come potremmo esserlo noi, fu chiesto di
somministrare in laboratorio, nel caso fossero state date risposte sbagliate,
scariche elettriche (che in verità erano finte) ad altre persone (chiamate “allievi”)
che in realtà erano collaboratori di Milgram; i complici sbagliavano volutamente e
fingevano di provare dolore in relazione all’intensità della carica conseguentemente
ricevuta. L’insegnante infatti aveva punire l’allievo con una scarica elettrica di
intensità crescente, agendo su una serie di interruttori a cui era associata una
tensione elettrica che andava dai 15 ai 450 volt. Quindi l’attore simulava un dolore
crescente. Il risultato fu sorprendente e al contempo terribile: il 65% dei soggetti
accettò di portare a termine l’esperimento nel caso in cui non sentisse o non
vedesse la vittima. La percentuale restava alta anche quando il soggetto vedeva la
sofferenza dell’attore e udiva i suoi lamenti (40%), o, addirittura, era costretto
dall’autorità a spingere fisicamente il braccio della vittima sulla piastra elettrica
(30%). La conclusione di MIlgram fu che, in certe condizioni, una persona normale
e sana può commettere azioni sulla spinta dell’influenza del contesto sociale; i
soggetti obbedivano per rispetto all’autorità, alla scienza. Accanto a questi fattori,
emersero dalla ricerca altri fattori più personali, quali buona educazione, rispetto
dell’impegno preso, vergogna a tirarsi indietro. Molti soggetti misero in atto
meccanismi di adattamento per superare il conflitto tra obbedienza e ribellione agli
ordini, per esempio concentrandosi su aspetti tecnici, distogliendo così
l’attenzione dalle conseguenze finali. Al termine dell’esperimento fu necessario
fornire un sostegno psicologico ai partecipanti, traumatizzati dal fatto di poter
arrivare a comportamenti di questo tipo.
Più recentemente, l’influenza del vincolo sociale sui nostri comportamenti e sulla
nostra libertà è stata approfondita facendo riferimento alle dinamiche tra
soggettivazione e assoggettamento. Lo sbilanciamento di questi processi può
comportare l’insorgere di disturbi psichici in età sia infantile che adolescenziale e
adulta. In alcuni casi i vincoli sono eccessivi; in altri il processo è opposto:
avevamo visto, con Kaes, come i garanti psichici si attivino soltanto se vi sono
condizioni sociali che lo permettano. Tali funzioni poggiano su informazioni
culturali, sociali, politiche, religiose concrete (come famiglia, figura materna o
paterna, scuola ecc) che devono essere presenti e funzionanti nella realtà
quotidiana. Abbiamo definito queste istituzioni “garanti sociali”: il loro buon
funzionamento permette la presenza e l’attivazione dei garanti psichici, quindi di
regolare lo sviluppo del Sé. Al contrario, se le figure e le istituzioni sociali e culturali
sono in crisi o mancanti (es. mancanza della fiera paterna), quest’attivazione non
ha luogo e può nascere quindi il disagio psichico, o addirittura, nel caso di assenza
grave dei garanti sociali, la patologia psichiatrica.
Già nell’ultima parte del Novecento, filosofi e pensatori come Derrida, avevano
parlato della cosiddetta “disseminazione del soggetto”, per cui la storia e la
società procedono senza finalità e non è possibile trovarvi un senso e
un’intenzionalità delle persone e dei gruppi. Percepiamo che nei processi
contemporanei c’è un senso, una direzione, ma noi non siamo in grado di
controllarli. Ci sono mescolamenti di culture, meccanismi transnazionali e forze
istituzionali cosi grandi e potenti, come le multinazionali della società di Internet,
che si muovono attraverso meccanismi nuovi e profondi, in cui lo spazio della
mente e il desiderio del singolo non sembrano trovare posto né la possibilità di
autodeterminarsi. Molte persone vivono, più o meno consciamente, un sentimento
di espropriazione e alienazione del Sé che porta a una fragilità dell’indennità, a
un’insicurezza, a un’ansia sottile che diventa un vero e proprio malessere psichico.
A questo proposito è molto interessante l’analisi di Kaes, quando definisce una
tipologia delle origine e delle caratteristiche del malessere nel mondo
contemporaneo. Secondo lo psicoanalista, il disordine del mondo porta
innanzitutto a una cultura del controllo che, a sua volta, produce violenza: violenza
incontrollata, che si realizza attraverso l’ampliamento delle forme di controllo
sociale da parte delle istituzioni. Nasce poi la cultura dell’illimitato: superare i limiti,
drogarsi di lavoro o di sostanze, ricercare situazioni di pericolo o di sfida, come
fanno alcuni adolescenti. La cultura dell’urgenza comporta invece il fatto che
l’orizzonte temporale si restringe al presente: è difficile fare progetti. C’è poi una
cultura della malinconia, ovvero l’idea che il futuro sia precario, incerto, lontano dai
bei tempi andati e dalle loro sicurezze: un mondo, quello delle generazioni
precedenti, con più opportunità. Una cultura, quella attuale, senza garanti:
scompaiono e sono assenti le figure che rispondono alle nostre domande, ai nostri
interrogativi su chi siamo e quale sarà il nostro furto, e ciò sembra avvenire a
diversi livelli: la famiglia, lo Stato, la politica, le istituzioni. È indiscutibile che la
cultura occidentale, ed europea in particolare, corra i rischi di cui parla Kaes e
forse non è un caso che diversi psicologi statunitensi, per esempio Jeanne
Nakamura, sottolineino il pericolo dell’attuale mancanza di mentori, cioè di figure
capaci di guidare le persone, e i giovani in particolare, verso scelte consapevoli,
costituendo punti di riferimento precisi. Si tratta di “maestri”, che possono essere
persone realmente conosciute, incontrate nella vita quotidiana: un genitore ecc; in
altri casi, il mentore è un personaggio storico, del mondo dell’arte o della
letteratura, o una figura pubblica che personifica valori e mete, come sono stati e
sono tuttora (es. Martin Luther King, Maria Teresa di Calcutta ecc.). I mentori
rappresentano una guida importante, che aiuta la persona a costruire un ordine
psichico e un insieme di significati coerente e utile per una vita dotata di senso.
Il profondo legame psicologico tra le persone e i beni comuni vale anche per la
seconda categoria, quella che comprende tutti quei beni che sono il risultato
dell’azione o della creazione collettiva, quindi non puramente naturali ma anche
artificiali, frutto dell’agire degli esseri viventi. Aspetti materiali e dinamiche
relazionali e affettive si intersecano con i beni comuni. Quindi, i beni comuni
nascono e assumono significato grazie all’azione umana e, di conseguenza, il lato
soggettivo e relazionale diventa importante quanto quello economico. Negli ultimi
anni si è sviluppato un dibattito intorno a questo concetto. Elinor Ostrom, studiosa
di scienza politica, ha dimostrato che molte comunità sono in grado di evitare la
perdita di beni comuni in assenza di interventi pubblici, e tantomeno privati, e ha
studiato le modalità con cui ciò si realizza. I fattori principali sarebbero la
partecipazione diretta delle comunità al monitoraggio dell’uso dei beni, il fatto che
una norma possa fondarsi sulla sorveglianza volontaria dei membri di una
comunità, l’importanza della gradualità delle sanzioni ai trasgressori, l’efficacia
della comunicazione faccia a faccia, l’assenza di cambiamenti tecnici o sociali
troppo rapidi. I beni comuni, in quest’ottica, costituiscono una vera e propria forma
capitale, un capitale sociale, cioè un sistema di relazioni attraverso il quale è
possibile trasmettere informazioni e risorse cognitive, permettendo alle persone di
raggiungere i loro obiettivi in modo più semplice, veloce e meno costoso. Per
Ostrom, il capitale sociale si basa su relazioni sociali caratterizzate da fiducia,
confidenza, comprensione reciproca, condivisione di valori e atteggiamenti capaci
di unire i membri di una comunità, rendendo possibili azioni cooperative. La forza e
l’importanza dei beni comuni si fondando su proprio su queste basi psicologiche e
antropologiche. Indipendentemente dal fatto di essere una proprietà pubblica o
privata, ma solo in quanto capaci di innescare scambi relazionali, di seguire i
desideri e le motivazioni della popolazione e soddisfare i suoi bisogni, i beni
comuni sono artefatti cognitivi che possono dare senso, appartenenza,
attaccamento, benessere.
La mancanza di beni comuni può far star molto male, comporta vere e proprie
patologie mentali. L’OMS sottolinea implicitamente questo meccanismo. La salute
mentale e molti disturbi mentali comuni sono ampiamente influenzati dagli
ambienti sociali, economici e fisici in cui le persone vivono; le disuguaglianze
sociali sono associate ad un aumentato rischio di molti disturbi mentali comuni; di
conseguenza, agire per migliorare le condizioni della vita quotidiana prima della
nascita, durante la prima infanzia ecc. offre l’opportunità per migliorare la salute
mentale della popolazione e ridurre il rischio di disturbi mentali.
Rispetto al nostro ragionamento, cioè al tema delle possibili cause del disagio
psichico e delle nostre possibili crisi, possiamo e dobbiamo porci una domanda:
nella situazione attuale è possibile che sia in corso un attacco ai beni comuni,
specie a quelli ambientali, o un loro deterioramento, e che ciò, sul piano
psicologico, comporti un senso di Persia, smarrimento, o addirittura di sofferenza?
Un numero sempre maggiore di persone è preoccupato per il futuro del pianeta.
Un articolo pubblicato nel 2019 su Environmental Health Perspectives dimostra,
con dati provenienti da sedici Paesi, l’alta correlazione tra depressione, rischio di
suicidio, ansia da un lato, e inquinamento dall’altro. Che la causa sia l’azione delle
sostanze chimiche presenti nell’aria sul sistema nervoso centrale o invece la
situazione di vira e le esperienze soggettive di coloro che vivono in zone con un
cosi alto inquinamento non è chiaro, ma il dato è comunque molto indicativo e
preoccupante. Una ricerca effettuata in Groenlandia nel 2019, mostra che il 90%
degli abitanti reputa che il cambiamento climatico stia avvenendo e che ciò renda
più ansiosi e depressi. In quel Paese, la popolazione inuit usa il termine
uggianaqtuq per descrivere la sensazione spiacevole e dolorosa associata al fatto
di vedere un amico che si comporta in modo strano, oppure di provare nostalgia di
casa pur vivendo nel proprio Paese. Da qualche tempo questa parola sta a
significare la triste sensazione che l’ambiente sia diventato diverso e, in un certo
senso, nemico. Già nel 2005 il filosofo australiano Glenn Albrecht aveva coniato il
termine solastalgia per descrivere il dolore causato dall’assistere a cambiamenti
climatici violenti. Questo concetto indica il sentimento di nostalgia che si prova per
un luogo nonostante si continui a viverci. La psicoanalista inglese Anouchka
Grose, nel 2019, ha introdotto il termine economical grief, cioè sofferenza o lutto
ecologico, e l’idea di un particolare tipo di disturbo da stress post-traumatico
associato all’attuale situazione del pianeta. Questi e molti altri dati ci suggeriscono
l’esistenza di un’ulteriore causa di disagio e di patologia psichici che potrebbero
aumentare in modo massiccio nel prossimo futuro.
12. Un caso particolare: che cosa succede quando perdiamo la nostra casa
“Casa” è un concetto che appartiene a tutta l’umanità. Non si tratta solo di un
elemento materiale o territoriale, ma è qualcosa di più profondo, che riguarda noi
stessi, l’identità personale ma anche quella della nostra famiglia. La casa deve
essere quindi considerata un fondamentale contenitore di momenti della nostra
vita, esperienze, relazioni, storia; è in un certo senso un luogo psichico. Ogni
famiglia possiede una sua storia e questa è strettamente legata alla casa; questo
artefatto, con i suoi oggetti, fornisce continuità, senso, e rappresenta una guida
sicura dal punto di vista sia cognitivo sia affettivo. Mi dice in modo automatico chi
sono, che ruolo ho; suggerisce emozioni e relazioni con gli altri membri della
famiglia e anche con chi vive attorno.
Se la casa è all’origine di tutti questi processi così importanti, è evidente che la sua
perdita comporta una situazione impegnativa dal punto di vista psicologico, che in
alcuni casi diventa un vero e proprio trauma. Renos Papadopoulos, psicologo
statunitense che lavora in Inghilterra, ha studiato a lungo la situazione psicologica
dei rifugiati. Tratto comune è la nascita di uno “sconcerto, un senso di irrealtà e di
una lacuna inesplicabile, perché la gente perde qualcosa che, innanzitutto, non era
consapevole di possedere”. Questo sconcerto, che ha a che fare con il
“disorientamento nostalgico” può produrre diversi tipi di reazione. Si tratta di un
disturbo simile alla cosiddetta ansia esistenziale, con un senso terribile di perdita e
un sentimento di sfiducia nella propria esistenza. La mancanza della casa, con le
sue funzioni organizzative e concentrici porta a una frammentazione più o meno
grave dell’Io. Nei casi estremi, come in quelli di molti rifugianti, avviene, in accorto
con la tesi di Papadopoulos, una disintegrazione a tre livelli: della persona (non mi
riconosco e non mi stimo più), della famiglia (chi sono io per loro e chi sono loro
per me?) E del contesto culturale, sociale, economico e politico (si perdono i
riferimenti e le sicurezze della cultura a cui si appartiene). Quando una persona
perde la casa, essa perde in parte la sua identità, ed è messa alla prova
psicologicamente con diversi livelli di gravità e sofferenza psichica: è questo un
altro possibile fattore dello star male oggi per molti abitanti del pianeta, anche nel
mondo occidentale.
Yuval Noah Harari, storico, nel suo best seller Sapiens. Da animali a dèi. Breve
storia dell’umanità, indica tre fasi principali della storia umana che rendono conto
del formidabile sviluppo della nostra specie rispetto alle altre e del nostro
vantaggio evolutivo, mostrando così, indirettamente, i fattori protettivi che ci
interessano. Circa 70.000 anni fa si realizzò una prima rivoluzione, che l’autore
definisce “cognitiva”: il cervello dei nostri antenati sviluppa pienamente la capacità
linguistica e si creano nuove forme evolute di comunicazione tra i membri dei
gruppi; si sviluppa anche la capacità di operare attraverso simboli e quella di
decidere azioni di cooperazione e di aiuto reciproco; nascono le idee di religione e
di mito. È una fase in cui, nella vita quotidiana, non esiste una netta distinzione tra
tempo libero e tempo di lavoro (es. raccogliendo i tuberi le donne parlano di sé e di
ciò che avviene con i mariti e giocano con i figli; cacciando, i maschi scherzano tra
loro e parlano delle faccende di gruppo). Da tutto questo deriverebbe una
profonda ed intima relazione, molto diversa da quella attuale, tra il Sé del singolo
individuo e il mondo esterno. Esiste, cioè, una sorta di osmosi e di
compenetrazione tra la soggettività delle persone, con i loro desideri e le loro
decisioni, e il mondo della realtà oggettiva e della natura. È interessante notare
come, in quel periodo - ci spiega lo psichiatra David Buss - ciascun Sapiens
incontrasse, in tutta la sua vita, al massimo un centinaio di persone, e quasi tutte
erano imparentate biologicamente o legate da rapporti di alleanza. Buss fa parte
della corrente di pensiero che sottolinea come molte caratteristiche della nostra
mente siano ancora oggi modellate da quegli antichi meccanismi. I nostri conflitti
psicologici deriverebbero, cioè, dai modi in cui, nel bene o nel male, le nostre
menti di cacciatori-raccoglitori interagiscono con il mondo attuale postindustriale:
la tendenza alla cooperazione o quella a esprimere le proprie potenzialità e
capacità e i propri desideri in modo armonico con le richieste sociali possono
rappresentare oggi quelle forme ataviche di organizzazione psichica.
Tornando alla domanda iniziale di questo capitolo, quindi del perché la maggior
parte di noi riesca ad avere una vita normale o addirittura felice, possiamo dire che
la specie umana è caratterizzata da una serie di fattori che rappresentano un
formidabile vantaggio evolutivo e permettono un costante adattamento, anche dal
punto di vista psicologico, alla realtà in cui viviamo: abbiamo una cognizione
legata alla cultura; riusciamo a costruire e a riprodurre artefatti (oggetti, istituzioni,
valori, norme, luoghi ecc.); abbiamo capacità ematiche; abbiamo la tendenza a
vivere esperienze soggettive dotate di senso. Approfondiremo ciascuno di questi
fattori.
Il nostro mondo interno si costruisce giorno dopo giorno in relazione al mondo che
ci circonda. Alcuni hanno definito la nostra personalità e il nostro Sé “Io culturale”
o “cultura interiorizzata” o “intrasomatica”; altri autori hanno paragonato il cervello
biologico all’hardware delle macchine intelligenti e il contenuto della mente, che si
costruisce attraverso il contratto sociale, al software. Un esempio è la teoria della
grammatica universale del linguaggio naturale proposta da Noam Chomsky. Per
Chomsky esiste una predisposizione innata al linguaggio che è patrimonio di tutti
gli esseri umani, indifferentemente dalla lingua che si parla. Questa competenza
innata, chiamata grammatica universale, è un sistema di principi, condizioni e
regole che sono elementi e proprietà di tutte le lingue umane. La grammatica
universale è quindi costituita da un insieme di principi potenzialmente applicabili a
ogni lingua e da un insieme di parametri che possono variare da una lingua
all’altra. L’acquisizione del linguaggio consiste, allora, nell’apprendere il modo in
cui questi principi si applicano ad una lingua specifica. Secondo Chomsky, la
struttura cognitiva cerebrale relativa alla gestione del linguaggio è innata ma
incompleta: un certo numero di informazioni deve infatti essere specificato
attraverso l’esposizione alla lingua madre per consentire a quella struttura di
funzionare correttamente.
Richard Dawkins, biologo teoretico e pensatore illuminato, nel suo libro Il gene
egoista, ha chiamato questi artefatti culturali memi: le unità di base della cultura,
come i geni lo sono per la biologia. Dawkins spiega come l’evoluzione biologica
abbia portato nel suo progredire a un cervello, quello dei Sapiens, capace di
produrre un secondo, nuovo sistema di trasmissione di informazione da una
generazione all’altra, cioè quello culturale, composto appunto dai memi. Questo
sistema si affianca e interagisce con la trasmissione dei geni. I memi
rappresentano tutta l’informazione disponibile all’apprendimento. Dawkins
sottolinea, implicitamente, il valore simbolico dei memi: distingue, infatti, tra memi
replicato e memi veicoli. I primi rappresentano l’informazione che viene trasmessa
e si replica, i secondi i vettori di quell’informazione (es. i concetti della Bibbia o del
Corano sono replicatori che sono stati trasmessi nel tempo perché depositati in un
veicolo, con il grande vantaggio che questi possono cambiare nel tempo). Il
replicatole trasportato da un veicolo può essere di tipo diverso a seconda di come
viene interpretato: lo stesso testo sacro può trasportare indicazioni di
comportamento virtuoso (“Ama il prossimo tuo come te stesso”), oppure può
essere fonte di un legame identitario (“L’Europa come Paese cristiano”) o venire
utilizzato per esprimere potere (come le Crociate). Il meme veicolo può assumere,
in questo senso, diverse forme simboliche e trasportare significati anche molto
differenti tra loro, a seconda del punto di vista di chi usa quell’artefatto. Bisogna,
quindi, stare attenti, perché la lettura automatica cognitiva e affettiva degli artefatti
che, come abbiamo visto, ci dà efficienza cognitiva e sicurezza, può portare anche
ad errori o ad incomprensioni e conflitti.
Il punto importante è che, nel loro insieme, gli artefatti culturali, i memi, ci fanno
sentire parte della società, di un gruppo, di una famiglia; veicolano una serie di
significati, concetti, categorie che ci permettono di comunicare con gli altri e di
sentire di avere un’identità personale che è anche un po’ sociale, cioè condivisa; ci
danno regole, ma ci fanno anche stare bene e ci permettono un continuo scambio
tra momenti di soggettivazione e momenti di assoggettamento. Una società ben
funzionante, permette e favorisce questa dinamica, la quale rispetta l’esigenza che
ha la nostra mente sia di regole sia di autonomia, e così tanto successo ha avuto
nella storia evolutiva dei Sapiens.
3. Il grande vantaggio di avere empatia
Nel 2006 uscì un libro scritto da Giacomo Rizzolatti, neurofisiologo, con Corrado
Sinigaglia, filosofo della Statale di Milano, intitolato So quel che fai. Il cervello che
agisce e i neuroni specchio. Il gruppo di Rizzolatti e Vittorio Gallese, dell’Università
di Parma, ha svolto fondamentali ricerche sui primati e poi sull’uomo, che hanno
portato a uno straordinario riconoscimento internazionale. Il gruppo di Parma ha
scoperto che alcuni neuroni motori si attivano non solo quando il soggetto fa
movimento, ma anche quando osserva lo stesso movimento eseguito dallo
sperimentatore, per questo sono stati chiamati neuroni specchio. Rizzolatti ipotizza
l’esistenza di un network di cellule cerebrali (mirar neuron system), che comprende
aree parietali, frontali inferiori e premotorie del cervello, deputano al
riconoscimento delle azioni non solo quando le osserviamo, ma anche quando
leggiamo un testo che parla di un’azione o ascoltiamo una parola associata ad
un’azione (es. quando immaginiamo, leggendo un testo, che una persona mangi o
quando ascoltiamo la parola “mangiare”, attiviamo, senza passare effettivamente
all’azione, lo stesso programma motorio che si attiverebbe se stessimo
effettivamente mangiando). Si tratterebbe di un meccanismo primario per cui
dentro il nostro corpo si attivano cellule connesse all’azione altrui o a un concetto
riferito all’azione. Questa capacità innata di comprendere l’altro è connessa alla
capacità di essere ematici, di comprendere e immedesimarsi nelle emozioni degli
altri.
Ma cos’è davvero l’empatia? Simon Baron-Cohen, psichiatra inglese, nel suo libro
La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà, sottolinea come l’empatia
sia un processo in due fasi, che devono essere sempre presenti e associate: il
riconoscimento di uno stato psicologico (es. un’emozione) in un’altra persona e il
vivere la stessa esperienza (stessa emozione). L’empatia è composta da due
fondamentali processi della nostra psiche: quello cognitivo (riconoscere e valutare
lo stato mentale altrui) e quello emozionale (provare lo stesso stato in modo
profondo dentro di sé). Se manca uno di questo due elementi, non si ha empatia.
Baron-Cohen analizza le condizioni inverse per cui l’empatia è totalmente assente
e perciò si sta male: ciò avviene in gravi situazioni patologiche, come nelle persone
psicopatiche o con disturbo sociale della condotta, nei soggetti borderline o
gravemente narcisisti in cui il grado zero dell’empatia produce solo effetti negativi
per sé e per gli altri. Ma avviene anche nelle persone autistiche, in cui l’incapacità
di empatia, che deriva quasi sicuramente da un danno legato alla biologia del
cervello, non comporta azioni malvagie e può essere in parte compensata per
esempio nelle persone affette da sindrome di Asperger.
Aleksandr Solzenicyn, scrittore russo premio Nobel nel 1970, descrive con
chiarezza le strategie di autostimolazione psichica attuate da alcuni prigionieri
sotto il regime sovietico per mantenere attivi la mente e il Sé: ad esempio,
calcolare le distanze percorse ogni giorno nel campo e, cosa molto importante,
collegarle a uno scopo futuro come la distanza tra la Russia e gli Stati Uniti, dove
si sognava di emigrare un giorno.
Le basi biologiche del flusso sembrano indicare come esso sia un meccanismo
psicologico selezionato dall’evoluzione. Come sappiamo, le culture orientali, come
quella giapponese, sottolineano l’importanza dell’appartenenza ai gruppi e alla
comunità e si organizzano per far sì che lo sviluppo del bambino porti alla
costruzione di un Sé personale che trovi il proprio senso e la propria identità giusto
in quanto parte di un’entità più estesa e in quanto connesso con gli altri, con
grande rispetto delle gerarchie: in quelle culture si parla infatti di un Sé
interdipendente che si contrappone al Sé indipendente tipico delle culture
occidentali come quella statunitense ed europea, centrato sul senso di
indipendenza e di autonomia. Le ricerche mostrano come i giapponesi
sperimentano il flusso quando si impegnano in attività obbligatorie w come
soddisfino le aspettative degli altri, rispettino gli standard sociali o mantengano
l’armonia del gruppo.
Parleremo ora di due elementi, uno positivo e l’altro potenzialmente negativo, che
dimostrano l’importante del flusso.
Il flusso può poi essere utilizzato non solo per capire l’eziologia del disturbo, ma
come tecnica di cura. L’obiettivo è quello di far provare flusso durante la relazione
terapeutica e trasferire poi la riacquisita o nuova capacità di flusso in situazioni,
anche difficili e problematiche, della vita quotidiana. Per raggiungere questo
scopo, tre dono i traguardi decisivi da raggiungere seduta dopo seduta:
innanzitutto, riequilibrare la percezione soggettiva delle capacità personali rispetto
alle richieste e alle sfide del mondo esterno. Di conseguenza, favorire l’aumento
della complessità del Sé, che viene come nutrito dalla possibilità di essere in flusso
durante la seduta. Nel corso della terapia, il paziente deve infine essere messo in
grado di prevenire a un controllo delle emozioni, con la scoperta delle emozioni
appropriate: il paziente sperimenta cioè nuove abilità rispetto alle sfide emotive
che affronta nella vita. Allo stesso tempo, si agisce anche sul piano cognitivo e di
interpretazione di ciò che accade concretamente nella quotidianità ragionando
sulle situazioni che permettono ancora il flusso nella vita di tutti i giorni.
Complessivamente il paziente sperimenta nuove abilità rispetto alle decisioni da
prendere e alle sfide cognitive e affettive che gli si presentano, e lo psicoterapeuta
scopre e rinforza le abilità residue esistenti del paziente. Si attuano quindi la
ricostruzione e la riattivazione di processi cognitivi ed emotivi adatti e significati,
nonché la costruzione di una nuova competenza personale, per poter trasferire il
flusso della relazione terapeutica ad attività e a situazioni reali nella vita quotidiana.
La ricerca del flusso di coscienza, in alcuni casi, produce risultati inquietanti sul
piano sociale, che dimostrano pero la nostra tendenza innata a ricercare questo
tipo di esperienza. Si tratta di casi in cui la società o certi gruppi sociali utilizzano
una predisposizione dei Sapiens, la ricerca del flusso di coscienza, per raggiungere
i propri scopi. Harari, l’autore di Sapiens, in un articolo dal titolo “Combat flow:
Military, political and ethical dimensions of the subjective well-being in war [Flusso
in combattimento: dimensioni militari, politiche ed etiche del benessere soggettivo
in guerra], mette in luce la possibilità e la pericolosità di questo processo. Le
memorie dei reduci di guerra mostrano con chiarezza com l’intensità della
battaglia, dell’attacco militare, del rischio mortale produca esperienze soggettive di
picco sovrapponibili a quelle del flusso, così intense ed eccitanti da diventare, in
un certo senso, attraenti, e poi ricercate, quasi fossero una droga che permette
un’alterazione psichica profondamente appagante e di cui non si può fare a meno.
Da ciò derivano due conseguenze. In primo luogo, le gerarchie militari possono
utilizzare questo meccanismo per motivare i soldati allo scontro e,
secondariamente, ciò spiega il fatto che molti reduci, al ritorno a casa, sono
maladattati, ovvero non riescono a reinserirsi nella vita normale e cadono
frequentemente in depressione: a tutti i fattori del ritorno di aggiunge il rimpianto
per quelle esperienze comunque intense ed eccitanti. Harari mostra anche come
un meccanismo simile si fosse verificato - ancora una volta con caratteristiche
diverse, perché legate ad una cultura differente - durante la Seconda Guerra
Mondiale, quando i monaci buddhisti istruivano alla meditazione - che induce uno
stato psicologico molto simile al flusso - i piloti giapponesi, prima delle loro azioni
di guerra, per renderli più efficienti, motivati e concentrati. Abbiamo citato il
paragone con l’assunzione di droghe: alcuni studi mostrano la somiglianza tra lo
stato esperienziale causato da stupefacenti e il flusso, e indicano come la ricerca
di sostanze stupefacenti possa essere simile al flusso cui siamo biologicamente
predisposti. Altri studi mostrano come la ricerca di flusso stia alla base anche di
comportamenti socialmente devianti, specie tra i giovani: l’impossibilità di
raggiungere il flusso nella vita quotidiana spinge a ricercarlo attraverso
comportamenti messi in atto in situazioni estreme. In un recente libro su ciò che
porta, psicologicamente parlando, alle scelte di radicalizzazione terroristica proprie
delle foreign fighters collegate all’ISIS, Anna e Zizda e io abbiamo evidenziato
come la ricerca di flusso sia uno dei fattori e delle motivazioni presenti nelle donne
occidentali che aderiscono al califfato. In conclusione, in tutti questi casi siamo di
fronte ad una sorta di alleanza tra uno specifico processo psicologico individuale, il
flusso, e l’interesse di una parte sociale.
Ora ragioneremo su quali possano essere i meccanismi di vera e propria cura dei
nostri malesseri e del nostro star male psicologicamente. Non parleremo di singole
strategie individuali né di meccanismi psicosociali generali che possano portare al
benessere e ad un miglioramento delle nostre vite. Il nostro taglio sarà focalizzato
su un aspetto particolare, che parte da una domanda di fondo: è possibile,
tenendo conto di tutti gli elementi che abbiamo analizzato nei primi due capitoli,
sostenete che i luoghi in cui viviamo e le cose intorno a noi ci possono curare, una
“cura” senza particolari costi economici ma basata principalmente su meccanismi
psicologici che abbiamo già a disposizione? E se sì, quali sono questi
meccanismi?
Qualche anno fa, Tobie Nathan, psicoanalista francese che si occupa dei rapporti
tra processi mentali e cultura, scrisse un libro che ebbe molto successo nel
campo, dal titolo Medici e Stregoni. Sosteneva che nelle società tradizionali, per
esempio quelle africane, il sapere dei “medici” locali, gli stregoni appunto, poggia
su un insieme di regole e di conoscenze specifiche complesso e sofisticato, che
richiede un lungo apprendistato per poter essere messo in atto. Questo sapere e le
tecniche che ne derivano vengono percepiti dalle popolazioni locali, i possibili
clienti, come assolutamente “esatti”, andando a costruire una vera e propria
scienza che si basa, però, su altri postulati rispetto a quella occidentale, come
l’idea che esistano gli spiriti e la possibilità di un pensiero di tipo magico. In questo
quadro, assume particolare interesse l’analisi dei feticci, cioè quegli oggetti
costruiti e usati dai guaritori per la cura. Una volta assemblati possono essere usati
o per una danza, o per toccare il corpo del paziente o durante una preghiera;
spesso sono il tramite con gli spiriti che possono guarire il paziente. La cosa
interessante è che, all’interno di questo processo particolare, si svolgono due
processi generali, che sono propri di tutti gli oggetti e gli artefatti che ci circondano
e che usiamo nella nostra vita quotidiana. Il feticcio, che è un artefatto o meme
culturale, incorpora una memoria di informazione, cioè il sapere tradizionale che
permette allo stregone di costruire quel feticcio e di usarlo in quel modo specifico;
dall’altro, il feticcio e mette prescrizioni, dice come comportarsi alla mente e al
corpo del paziente e dei suoi familiari, che sono profondamente convinti
dell'efficacia terapeutica del rito. Si potrebbe dire che c'è un effetto placebo, una
suggestione psicologica che contribuisce alla possibile cura, ma non è questo il
punto. Il dato importante è che sono messe in moto due proprietà generali degli
artefatti e dei memi: pensiamo, per esempio, a una sede della nostra casa,
l'oggetto ci dice come comportarci e ciò avviene senza sforzo cognitivo. Lo stesso
vale per tutti gli artefatti della cultura; derivano da una storia e ci danno istruzioni
comportamentali (es. so cos'è un grande magazzino e so come comportarmi).
3. I beni comuni che ci fanno stare bene: dalla vita nello Slum alla pandemia
da Covid-19
La presenza dei beni comuni innesca processi positivi che ci fanno stare bene:
essi, infatti, attivano processi di base come attaccamento e flusso di coscienza, ci
fanno sentire forti dall'appartenenza a gruppi, ci permettono di condividere
esperienze con altre persone e questo porta alla nascita di una nuova qualità di
cittadinanza che possiamo chiamare cittadinanza psicologica. Oltre al capitale
sociale esiste infatti un altro capitale, quello psicologico: l'attaccamento
psicologico ai luoghi, ai valori, alle pratiche di una comunità porta alla cittadinanza
psicologica, cioè al fatto di sentirsi davvero appartenenti alla collettività e luoghi
della nostra vita e di agire, di conseguenza, come cittadini responsabili capaci di
sviluppare comportamenti virtuosi che fanno star bene noi e fanno star bene la
collettività. Un esempio per tutti è rappresentato da alcuni aspetti della vita degli
slum. Questi agglomerati caratterizzano tante città del mondo, specie nei paesi
poveri o di recente sviluppo, come l'India o il Brasile. Molte ricerche sottolineano,
però, come esistano all'interno degli Slum e dinamiche positive e di resilienza.
Un primo modello dei luoghi che ci fanno star bene è quello della piacevolezza
ambientale proposto fin dal 1989 da Rachel e Stephan Kaplan, E fa riferimento ai
due concetti che abbiamo appena ricordato, quello di schema e quello di flusso.
Un ambiente ci trasmette emozioni positive e ci piace quando viene compreso in
modo veloce ed è facile attribuirgli un senso e, contemporaneamente, può essere
esplorato attivamente e lo si può conoscere meglio. Deve avere quattro
caratteristiche: coerenza, cioè deve assomigliare a ciò che già si conosce e ai
propri schemi cognitivi; leggibilità, cioè deve contenere informazioni che ne
facilitano la comprensione; complessità, cioè deve essere ricco di stimoli sia
percettivi sia simbolici; mistero, cioè deve indurre la sensazione di poter
conoscere, frequentando, qualcosa di nuovo sia del luogo sei un assoluto o
rispetto a sé stessi.
Un esempio di luogo pubblico sono i musei. Uno spazio espositivo deve poter
rimandare all'idea tradizionale di museo, ma, al contempo, deve poter suscitare
curiosità e proporre nuovi punti di vista, che devono però potersi agganciare alle
conoscenze del visitatore. Anche i percorsi all'interno del museo devono essere
chiari e facilitanti la fruizione delle opere, ma possono prevedere una parziale
libertà di scelta del visitatore o l'uso di nuove tecnologie che permettano di
creazioni intellettuali o momenti di riposo e di svago.
La teoria della rigenerazione dell'attenzione si basa sul fatto che, nella vita di tutti i
giorni, si deve impiegare continuamente una forma di attenzione definita
volontaria, cioè da noi volontariamente orientata su attività che spontaneamente
non la trarrebbero in quanto poco stimolanti e interessanti; grazie a questo
meccanismo cognitivo possiamo far fronte alla grande massa di informazioni di cui
siamo esposti, da quelle diffuse dai media a quelle connesse alle attività lavorative
o di tempo libero. Questa risorsa attentiva non è tuttavia è limitata, ma tende a
esaurirsi sovraccaricando le nostre funzioni cognitive ed emozionali. Ciò influisce
negativamente su alcune tra le principali attività mentali, come la risoluzione dei
problemi, la concentrazione, l'elaborazione di strategie comportamentali. È
necessario attivare risorse che prevengano questi effetti negativi solitamente
associati a uno stato emotivo di profonda irritabilità, stanchezza, depressione. È
qui che entra in gioco la cosiddetta attenzione involontaria o senza sforzo, che i
Kaplan definiscono fascination, fascinazione, la quale non richiede fatica cognitiva
ed è indotta e guidata direttamente dalla piacevolezza dagli stimoli ambientali o da
attività come quelle di tempo libero e autoteliche, seguendo la definizione di
Csikszentmihalyi.
La teoria del recupero dallo stress esci invece da una famosa ricerca di Roger
Ulrich, che valutò le complicanze post operatorie in pazienti con la stessa malattia,
ma con una diversa posizione spaziale all'interno dell’ospedale. Si dimostrò che i
pazienti nelle stanze con una vista sul giardino interno avevano un tempo di
recupero più breve, meno bisogno di medicinali e un minore stress emotivo
rispetto ad altri pazienti ricoverati nelle stanze senza vista, costretti a guardare la
parete di fronte. L'effetto fu spiegato ipotizzando che gli esseri umani sviluppino,
dal punto di vista biologico e mentale, una risposta rapida e automatica sei
immersi nell'ambiente proprio dall'origine della specie, quando si formano il
sistema nervoso centrale e le funzioni biologiche dei Sapiens, cioè l'ambiente
naturale in cui vivevano i nostri progenitori. Molto interessante è la revisione
effettuata nel 2015 da Ming Kuo dell’Università dell’Illinois, che ha esaminato
centinaia di studi sugli effetti della natura sulla salute, da cui risulta che trascorrere
del tempo nell'ambiente naturale o con l'esposizione al verde fornisce protezione
contro una gamma sorprendente di malattie, tra cui depressione, diabete, obesità,
malattie cardiovascolari, cancro, e ciò è possibile grazie a un aumentato
funzionamento del sistema immunitario, che reagisce meglio contro gli agenti
patogeni.
Edward O. Wilson è un autore molto discusso: a metà degli anni 70 del novecento
propose una teoria, la sociobiologia umana, per la quali comportamenti sociali, sia
animali sia umani, anche complessi, sono strettamente funzionali al vantaggio che
procurano in termini di trasmissione dei geni degli individui che li attuano. Una
teoria considerata dal Cunnie estrema, ma che bel merito di porre l'attenzione sui
rapporti tra fattori biologici e fattori culturali nello sviluppo del comportamento,
aprendo un ampio dibattito che continua tuttora. Nel 1984 uscì un suo libro
intitolato Biophilia, in cui, attraverso numerosi studi empirici, Wilson sosteneva che
nella specie umana esiste una tendenza innata a relazionarsi con il mondo naturale
e con tutte le forme di vita, e ad amare e a prendersi cura della natura: la biofilia è
infatti "l'innata tendenza a concentrare l'attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò
che le circonda, in alcuni casi ad affiliarsi con esse emotivamente”. Per Wilson, la
biofilia è infatti associata alla capacità di concentrarsi senza sforzo e di lasciarsi
affascinare dagli elementi naturali e all'empatia, cioè la capacità di unirsi
emotivamente alle diverse forme di vita e di partecipare alla loro condizione. Il
contatto con l'ambiente naturale tende a favorire lo sviluppo di legami affettivi con
esso, producendo uno stato di benessere psicofisico. Diversi studi sottolineano
che una relazione intima con la natura, specie durante l'infanzia, è indispensabile
per instaurare legami significativi non solo con il mondo naturale ma, in generale,
con le altre persone e che il minor contatto con la natura, tipico della società
occidentale attuale, può influenzare negativamente lo sviluppo psicofisico dei
bambini e, d'altro canto, contribuire al rallentamento motorio e cognitivo negli
anziani.
Luoghi emozionali
Donald Norman, nel suo famoso libro Emotional Design, descrive tre livelli di
elaborazione del cervello da cui derivano le emozioni: il livello viscerale, il livello
comportamentale e il livello riflessivo. Questi livelli sono sempre interconnessi,
coinvolgono sia la componente emozionale sia quella cognitiva e spiegano il
nostro rapporto con le cose non solo in termini emotivi, ma anche in termini
estetici e di usabilità. Per Norman, questa distinzione è utile per i designer al fine di
realizzare i prodotti che abbiano successo attraverso uno specifico stile di design.
Esiste poi il livello riflessivo, che si basa sulle capacità di elaborazione più elevate e
profonde del nostro cervello: elevati perché implicano l'interpretazione, la
comprensione e il ragionamento; profondi perché dipendono dei nostri bisogni più
intimi e personali. Questo tipo di processo mentale dipende, quindi, sia dalla
cultura, che ci insegna ad attribuire significati al mondo esterno, sia dalla nostra
storia personale, che ha costruito il nostro mondo interno, il nostro Sé, con i suoi
bisogni e i desideri consci e inconsci. Il livello riflessivo riguarda, dunque, sia il
valore simbolico degli oggetti e dei luoghi sia i ricordi personali che questi
evocano: Ci fa sentire di essere persone capaci di esprimere pienamente le proprie
potenzialità, i propri desideri, e di farlo in accordo con i valori della cultura e in
sintonia con i membri dei gruppi di cui si fa parte, mettendoci nella condizione di
provare un senso di appartenenza che ci fa stare bene.
L'integrazione ottimale fra i tre tipi di emozioni è molto importante specie nei luoghi
di studio o di lavoro, in cui inevitabilmente è presente anche un aspetto
"doveristico" e di obbligatorietà: proprio in questi contesti, il poter vivere anche
emozioni positive grazie alle caratteristiche dei luoghi, diventa un elemento
favorevole al benessere psicologico e al senso di appartenenza degli studenti e dei
lavoratori e contribuisce al successo delle loro attività.
Vediamo ora come il suo lavoro sembri mettere in atto alcuni dei processi studiati
nella psicologia ambientale. Partiamo dal meccanismo indicato dagli studi di
Rachel e Stephan Kaplan e dal loro modello di piacevolezza ambientale.
L'architetto fornisce una base standard che rispecchia ciò che già si conosce, dal
punto di vista tecnico ed estetico; al contempo, deve lasciare il progetto aperto,
tenendo in conto l'indeterminatezza di ciò che si inventerà poi la singola famiglia
che andrà ad abitare in quel modulo: occorre perciò un po' di mistero, sia per il
progettista sia per gli abitanti, che potranno scoprire via via la forma che prenderà
la loro nuova abitazione. L'insieme di questi due fattori, il conosciuto e la novità,
renderanno il luogo emozionalmente piacevole.
È interessante notare come, in alcuni casi, siano stati realizzati o siano possibili
interventi meno progettati dall'alto, ma che seguono percorsi molto simili. Il
quartiere Satellite di Pioltello è uno dei contesti più dinamici controversi dalla
periferia metropolitana multiculturale milanese. Realizzato nei primi anni 60, il
Satellite costituisce oggi un insediamento di edilizia privata, in molta parte assai
degradato, abitato da quasi 10.000 persone provenienti da circa 100 paesi diversi:
l'80% della popolazione residente è di origini non italiane e la quota di popolazione
giovani in età scolare è molto alta. In questo contesto, si è sviluppata la ricerca
MOST of Pioltello, per lo studio di un dispositivo di integrazione sociale e
rigenerazione urbana basato sul coinvolgimento dei cittadini e potenzialmente
trasferibile a diversi contesti delle periferie metropolitane. Il progetto punta a
favorire la capacità azione della società locale non che la scoperta, la
valorizzazione e l'attivazione di risorse urbane come la casa e gli spazi collettivi.
Vi sono dei casi in cui sono aziende private a progettare luoghi che realizzano
l'effetto rigenerativo e curativo di percorsi in cui natura, edifici, attività artistica e
libera partecipazione si combinano in modo molto efficace. Emblematico è
l’esempio dell’azienda vinicola francese Château La Coste, in Provenza. Si tratta di
200 ha di campagna, di cui 130 coltivati a vigna, e di un museo a cielo aperto. Il
centro di accoglienza per i visitatori, che ospita un ristorante, un bookshop e una
piccola galleria, è stato realizzato dall'architetto giapponese Tadao Ando. Da qui
parte un percorso tra vigneti e uliveti, e tra architetture e sculture di artisti e
architetti di fama mondiale. Nella parte più bassa della proprietà si trova invece la
cantina progettata da Jean Nouvel. I visitatori possono girare liberamente, con i
loro tempi, per i terreni, scegliendo di vedere quello che desiderano riposandosi in
luoghi ombrosi.
Concludiamo questa breve rassegna con Renzo Piano. Tutte le sue opere rivelano
un profondo rapporto con la natura e con il senso dei luoghi. Il centro culturale
kanak J.-M. Tjibaou a Nouméa. In Nuova Caledonia, è forse l'icona di questa
relazione. A Nouméa Renzo Piano dà vita a una realizzazione umanistica della
cultura kanak, dove storia, archeologia e scienze sociali si mescolano a un'alta
tecnologia finalizzata, però, a un obiettivo soft che raggiunge alti livelli di
spiritualità, ma pure ancorata alla realtà e alla complessità delle situazioni
concrete. Il Centro è costituito da 10 strutture curve simili a capanne, fatte di listelli
e centine in legno lamellare, di diverse dimensioni e ciascuna con diverse funzioni.
Questi gusci sono articolati in tre villaggi collegati da percorsi pedonali in parte
coperti e alternano luoghi di esposizione a spazi verdi che si confondono con le
nuove costruzioni: sale conferenza, un centro di ricerca, una biblioteca
multimediale, un auditorium, un anfiteatro all'aperto e studi dedicati a danza,
pittura, scultura e musica. Anche nelle opere di piano possiamo riconoscere molti
degli approcci che abbiamo considerato: l'attenzione alla storia dei luoghi e ai
legami che le persone hanno con essi; la necessità che gli elementi costruiti siano
pervasi dalla natura, con tutti gli effetti positivi che ne conseguono dal punto di
vista psicologico; i tre livelli emozionali suscitati dagli edifici, cioè le immediate
sensazioni viscerali, la buona esperienza proveniente dalla facilità e semplicità
d'uso, lo stimolo a pensare ai significati del luogo e della cultura.
David Quammen, l’autore del libro Spillover, che nel 2012 descrisse in modo
preveggente il rischio di un salto di specie da parte di un virus che avrebbe potuto
infettare la specie umana, in un articolo pubblicato il 28 gennaio 2020 sul New York
Times affermava: "Siamo stati noi a generare l’epidemia da Coronavirus (…)
Faceva -ed è- parte di un insieme di scelte che noi umani stiamo facendo.”.
Di fronte a queste prospettive, come possiamo noi fare qualcosa contro questi
fenomeni globali e riappropriarci degli aspetti positivi non solo dagli ambienti
naturali ma, in generale, dei luoghi che curano, che ci fanno stare bene? Il
professore scrive che, secondo lui, per far fronte a questa situazione, per avere
davvero a disposizione un pianeta, occorrano una visione e un modo di agire non
ideologici, ma molto concreti e frutto di scelte molto personali. Tratta, soprattutto,
di una consapevolezza e di una serie di azioni che riguardano, in fondo, la nostra
libertà. L'amore per la natura e la vicinanza al verde non possono non devono
essere scelte puramente razionali o solo politiche, ma devono partire da qualcosa
che è dentro di noi, da un nostro reale desiderio e dei nostri vissuti.
Uno di noi riuscisse nelle cose concrete della vita, nel rapporto con gli altri,
raggiungere un equilibrio e una mediazione tra questi due poli - tra vincoli e
desideri, tra regole e libertà, tra il rispetto dei beni comuni e dell'ambiente e
possibilità di fare liberamente le cose che si ama -, ecco che allora staremo
contribuendo in piccolo al benessere del pianeta, ottenendo però anche il nostro.
Possiamo chiamare questo comportamento narcisismo altruista, nel senso che
esprime l'attenzione e l'amore per se stessi per le proprie capacità, i propri bisogni
e desideri, ma anche l'attenzione a quelli degli altri.
Il professore, nel libro La buona vita. Per l'uso creativo degli oggetti nella società
dell'abbondanza, aveva sottolineato la differenza tra materialismo terminale e
materialismo strumentale. Tema si inseriva nel dibattito sul rapporto tra il prodotto
interno lordo e la cosiddetta felicità interna lorda, analizzato, fra gli altri, da Jeremy
Rifkin. Il materialismo terminale consiste nel fare uso delle cose e della ricchezza
senza pensare a loro vero significato e se davvero ci facciano stare bene: e quindi
fine a se stesso, in molti casi inutile e, a lungo termine, dannoso per la società. Il
materialismo strumentale consiste invece nel fare uso del denaro e nell'impegnare
la nostra mente verso cose e comportamenti che servono davvero al nostro Sé,
che sono cioè strumenti per stare bene con noi stessi e per ottenere i nostri scopi
più personali. Il materialismo strumentale devi però riguardare non solo noi stessi
ma anche il nostro rapporto con gli altri e con il mondo in cui viviamo; in caso
contrario il rischio è che sia, a lungo termine, solo parziale ed effimero.
Un'altra guida in questa direzione può consistere nel raggiungimento dello stato
soggettivo che abbiamo chiamato "flusso di coscienza”. È un'esperienza ottimale,
caratterizzata dal fatto di sentirsi in equilibrio con le richieste del mondo esterno e
di riuscire a vivere questo equilibrio con un'intensità sempre maggiore nello
scorrere della vita. Ciò può avvenire, per ognuno di noi, nelle situazioni più diverse:
in solitudine o in compagnia, lavorando o studiando, stando in famiglia, leggendo
ecc. Per ottenere questa esperienza occorre, però, una realtà esterna, cioè i gruppi
ai quali apparteniamo e la cultura in cui siamo cresciuti o in cui viviamo. È il
contesto esterno che ci dà l'opportunità, con le sue richieste e le sue
caratteristiche, di esprimere noi stessi. Per raggiungere il flusso ho quindi bisogno
della società e degli altri: il livello del benessere psicologico si interseca, anche in
questo caso, con il livello sociale. Abbiamo chiamato questa fondamentale
dinamica psicosociale democrazia profonda, la quale può portare a una vera
cittadinanza psicologica. I ricercatori che si occupano del flusso l’hanno definita
networking flow o “flusso di gruppo”; Howard Gardner e altri psicologi, l’hanno
chiamata good work, intendendo con questa espressione un'attività umana che
riesce a unire il benessere psicologico delle persone coinvolte, interesse sociale
della comunità e successo nel conseguimento degli obiettivi: si tratta di un tema
importantissimo, che sottolinea come sia necessario unire responsabilità sociale,
etica e buona qualità dell’esperienza. Se riesco a provare il flusso in attività utili sia
per me sia per il gruppo e per la collettività - che danno una ricompensa
psicologica legata al piacere di fare quell'attività, ma anche un guadagno
economico per me e per gli altri - sono allora autore del mio successo e, al
contempo, di quello dei gruppi cui appartengo o, addirittura, dell'intera società.
Questa alleanza, raggiungibile attraverso il flusso di coscienza, tra benessere
psicologico personale, benessere altrui e della collettività, successo economico ed
etica, è ben descritta nel libro di Mihaly Csikszentmihalyi che mostra come questo
processo abbia avuto luogo nella vita di numerosi, importanti uomini di affari
statunitensi.
Più in generale, la possibilità di fare buone esperienze in attività utili sia per se
stessi sia per la collettività apre la strada a un armonioso rapporto fra l'amore per
noi stessi, il sistema ecologico e il sistema economico-produttivo. Possiamo quindi
sperare davvero di far fronte ai rischi che oggi stiamo correndo sia come singole
persone sia come specie.