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Aesthetica Edizioni

Classici
N. 5

COMITATO SCIENTIFICO
Simona Chiodo
Paolo D’Angelo
Pina De Luca
Elio Franzini
Tonino Griffero
Giovanni Matteucci
Salvatore Tedesco
John Dewey
Arte come esperienza
a cura di Giovanni Matteucci

Aesthetica Edizioni
2020 Aesthetica Edizioni

Collana: Classici, n. 5
www.aestheticaedizioni.it
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via Monfalcone 17/19
20099 Sesto San Giovanni (Mi)

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aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie
obbligazioni.
Presentazione

Nel 1934, quando pubblica Art as Experience, John Dewey (1859-1952)


ha alle spalle una quantità imponente di volumi e saggi attraverso i quali si
è tracciato il suo peculiare percorso di accostamento e ancoraggio al
pragmatismo statunitense, a cui è approdato compiutamente all’inizio del
secolo1. Ma il settantacinquenne Dewey ha anche davanti a sé più di
vent’anni di attività intellettuale, durante la quale appariranno volumi
importanti. La parabola straordinariamente lunga della vita e della
produzione loso ca di Dewey genera talvolta un effetto di distorsione che
induce a minimizzare il fatto che Art as Experience è insieme frutto e
segno di una piena maturità intellettuale. Si potrebbe anzi dire che
quest’opera costituisce una summa del pensiero di Dewey tanto più
ef cace quanto più è in grado di aprire nuovi scenari declinando
l’approccio deweyano secondo il tema dell’arte e dell’esperienza estetica,
che in precedenza aveva riscosso scarsa e rapsodica attenzione nell’intero
pragmatismo2.
Volendo fornire chiavi di lettura utili per accedere ad Art as Experience,
in questa introduzione si dovrà allora procedere in maniera articolata.
Dapprima si ricostruiranno alcuni connotati essenziali del programma
loso co di Dewey (§ 1); quindi si percorrerà una strada attraverso cui in
questo contesto emerge il problema estetico (§ 2); in ne si indicheranno i
contenuti principali dell’opera del 1934 (§ 3).
1. Il torno di anni in cui viene elaborato Art as Experience rientra in una
fase ampia in cui Dewey sembra impegnato a delineare quadri sinottici e
cornici complessive per il proprio pensiero. È infatti nel 1925 e nel 1929
che escono le due edizioni di Experience and Nature, il libro in cui viene
tentata una sistemazione organica degli argomenti della loso a
deweyana. Tra il 1932 e il 1933 vedono la luce le rielaborazioni radicali
rispettivamente di Ethics e del lavoro teoretico-pedagogico How We
Think, mentre del 1938 è la pubblicazione di Logic: The Theory of
Inquiry. Insomma, gli anni di Art as Experience sono quelli in cui Dewey
compone una sorta di personale enciclopedia ideale di argomenti e
problemi loso ci. Non si tratta, tuttavia, di un lavoro di semplice
ridistribuzione di contenuti variamente acquisiti. Anche in queste opere
domina l’indole problematica e problematizzante di Dewey, per il quale la
ricerca loso ca – come il pensiero in generale – è istanza di risoluzione di
questioni che sorgono all’interno delle cose stesse, e dunque una
rielaborazione progressiva dei contenuti acquisiti che produce novità.
Come asserisce un passo della Logica, «indagine è la trasformazione
controllata o diretta di una situazione indeterminata in altra che sia
determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da
convertire gli elementi della situazione originale in una totalità uni cata»3.
Se una tale affermazione è coerente con la loso a che l’esprime, appare
sbagliato intendere le opere di Dewey come compimenti dottrinali o come
applicazioni schematiche di formule speculative preliminarmente statuite.
Comprendere motivi e prospettive di senso, ad esempio, di Art as
Experience, ossia delle indagini che vi sono con uite, vuole pertanto dire
tener presente la situazione problematica interna con cui si misurava la
loso a deweyana agli inizi degli anni Trenta.
Il pensiero come operazione che conduce dall’indeterminatezza di
partenza a una determinatezza (peraltro parziale) delineata nella
situazione di arrivo non trova giusti cazione se si af da esclusivamente a
principi categoriali posti astrattamente a priori. Al ne di evitare l’impasse
in cui si cade ogni volta che si esamina la ragione isolandola dal contesto
entro il quale si esercita, Dewey riconosce nel pensiero una funzione che si
inscrive nell’orizzonte complessivo della situazione a cui progetta di dare
sviluppo. Per questo tenore attivo e funzionale il pragmatismo deweyano
assume anche il nome di sperimentalismo. Si legge, infatti, in un testo del
1920: «Riconoscere il posto che il pensiero attivo e progettante occupa nei
processi stessi dell’esperienza altera radicalmente lo status tradizionale di
certi problemi tecnici, come particolare e universale, sensazione e ragione,
percettivo e concettuale. Il cambiamento va ben oltre il loro signi cato
tecnico, poiché la ragione è l’intelligenza sperimentale, concepita secondo
il modello della scienza e usata per la creazione di arti sociali»4. Porre la
cellula germinale della ragione nell’intelligenza sperimentale non è però
compiere un omaggio ideologico a una qualche forma di scientismo.
Signi ca, piuttosto, valorizzare l’operatività extra-formale del pensiero, e
dunque riconnettere le forme e i procedimenti della ragione alla pienezza
che li sollecita. Ciò costituisce il nerbo di quella serrata critica
dell’intellettualismo moderno che rappresenta un motivo persistente in
tutto lo sviluppo della loso a di Dewey5.
La cifra speci ca che distingue il pragmatismo deweyano dai
pragmatismi di prima generazione di Peirce e James consiste in buona
parte nella sua forte inclinazione a descrivere processi che hanno carattere
istituzionale sul piano sociale (ogni sapere è per Dewey «creazione di arti
sociali») e che sono originati da dinamiche biologico-vitali. Emancipato da
ipoteche sostanzialiste, il pensiero si con gura come un sistema plastico di
motivi che trova giusti cazione esclusivamente nel concreto operare in cui
si incarna la relazione tra organismo e ambiente. Come si legge in un
saggio dapprima edito in francese nel 1922, «la ri essione è una risposta
indiretta all’ambiente, e l’elemento che la rende indiretta può crescere e
diventare molto complicato. Ha comunque la sua origine nel
comportamento biologico dell’adattamento e la funzione ultima del suo
aspetto cognitivo è un controllo prospettico delle condizioni
dell’ambiente»6. La ricognizione sulla ragione tematizza così ben più che
un patrimonio consolidato di forme e schemi, poiché il posto della
contrapposizione gnoseologica tra soggetto e oggetto viene ora occupato
dal campo relazionale che si instaura tra organismo e ambiente e che è
percorso da pratiche di disaccentramento e marginalizzazione. In questo
campo si incarna allora quella ri essività che germina come espressione,
linguaggio, razionalità... – come riconosce anche la quasi coeva
antropologia loso ca tedesca di derivazione herderiana. Perciò, sempre
nel saggio del 1922 Dewey dichiara di prendere nettamente le distanze da
ogni teoria che consideri il pensiero mero rispecchiamento, e conclude
ribadendo una formula aurea del pragmatismo: «La funzione
dell’intelligenza non è quindi di copiare gli oggetti dell’ambiente, ma
piuttosto di cogliere il modo in cui si possono stabilire in futuro relazioni
più ef caci e vantaggiose con questi oggetti»7.
Grazie a questa collocazione eccentrica rispetto alla tradizione
cartesiano-kantiana viene meno una serie di principi dottrinali del pensiero
moderno, a partire dalle dicotomie direttamente elencate in uno dei passi
sopra citati che contrappongono particolare e universale, sensazione e
ragione, percettivo e concettuale. Il territorio di questo confronto è
disegnato da un concetto che Dewey intende riscattare dal sequestro
gnoseologista moderno, il concetto di esperienza. È come esperienza,
infatti, che si rivela l’innesto reciproco, anziché lo iato, tra particolare e
universale, tra sensazione e ragione, tra percettivo e concettuale, da
rileggere ora secondo relazioni di inclusione invece che sulla base di
schemi oppositivi, e dunque da riquali care come poli interni a un campo
olistico che li avvolge e li eccede piuttosto che come termini elementari
reciprocamente esteriori oltre che esterni agli stessi eventi concreti. A
patto, però, di non confondere l’esperienza con una collezione di dati.
Nel contributo del 1917 a un volume collettivo, Dewey segnala la
necessità di emendare la nozione d’esperienza da alcuni luoghi speculativi
classici della tradizione moderna comuni «alla scuola empiristica e ai suoi
avversari»8. I cinque tratti stigmatizzati sono la riduzione gnoseologista
dell’esperienza a conoscenza, l’assimilazione dell’esperienza a fattualità
psichica soggettiva, il passato quale esclusivo fattore di determinazione del
presente, l’atomismo del dato esperienziale, l’antiteticità tra esperienza e
pensiero. Questi due ultimi punti sottolineano la continuità tra Dewey e
James, considerata la decisa polemica che quest’ultimo conduce contro il
mancato riconoscimento della con gurazione olistica dell’esperienza in
quanto comprensiva delle relazioni e dunque irriducibilmente dotata di
vettori valoriali e semantici. Le relazioni, insegna James, sono esperite
tanto quanto i singoli contenuti, ed è solo a causa di una teoria
dell’astrazione male impostata se la loso a fatica a riconoscerne
l’emergenza nella piena empiria9. Svaniscono così le angustie della
psicologia loso ca moderna da Descartes a Locke a Kant, evidenti
soprattutto quando essa si trova inchiodata su posizioni atomistiche e
associazionistiche oltre che sulla credenza nell’ipostasi della coscienza.
Il punto è gravido di conseguenze. Si pensi a come la medesima critica
alla tradizione moderna sia sottesa al rilievo della percezione categoriale in
ambito fenomenologico, oppure all’impalcatura epistemica della
Gestaltpsychologie; e si pensi anche alle forme più spiccate di olismo cui
sono giunti esponenti di spicco della tradizione analitica, incompatibili di
fatto con approcci atomistico-associazionistici. Il merito di Dewey sta
nell’averne fatto un caposaldo ai ni del rinnovamento della dottrina
dell’esperienza in quanto tale, coordinandolo all’emancipazione di
quest’ultima dall’asservimento alla gnoseologia e, al tempo stesso, alla
psicologia. Per Dewey, non è più la sfera dello psichico il luogo esclusivo in
cui si estrinseca l’esperienza in genere, così come non è la conoscenza ciò a
cui essa prioritariamente mette capo. Il grimaldello attraverso il quale la
nozione deweyana di esperienza guadagna la propria ampiezza è invece la
complessità antropologica.
Nel 1920 Dewey torna sulle insuf cienze dalla concezione moderna
dell’esperienza. Ora però i tratti da stigmatizzare crescono di numero, e il
quadro appare maggiormente dettagliato e articolato. Anche la
speci cazione del punto di partenza è più netta, poiché vincola con
maggiore decisione alla ricognizione del rapporto tra esperienza e ragione
la ricerca di «una nuova concezione dell’esperienza e del rapporto tra
ragione ed esperienza, o più esattamente del posto occupato dalla ragione
nell’esperienza»10. Come sottolinea la preposizione in corsivo, la ragione è
piega interna all’esperienza, sua innervatura. Si tratta di una trama
operativa da mettere a giorno seguendo le strutture del rapporto con il
mondo che si istituiscono come forme sovrapersonali. L’inclusione
nell’empiria, lungi dall’essere perdita di validità, determina il superamento
della contrapposizione frontale tra un mondo che è là e un soggetto
esterno condannato alla passività sensoriale e all’arbitrarietà cogitativa.
Dissolta tale contrapposizione vengono meno ragioni e condizioni di
eventuali mappature ontologiche, a esclusivo vantaggio di una descrizione
incardinata su funzioni e operatività11. D’altro canto questo esigono le
trasformazioni antropologiche intervenute nella contemporaneità, che
Dewey riunisce attorno a due fulcri. Uno è la tras gurazione e
l’ampliamento della sfera del vissuto esasperati nell’età della tecnica.
L’altro è l’arricchimento di cui gode il sapere ri esso dell’uomo una volta
che l’astrazione dello psichismo venga trascesa con la considerazione del
contesto ambientale. Questa nuova concezione, infatti, «è stata resa
possibile da due fattori. Il principale è stato il cambiamento avvenuto nella
natura concreta, nei contenuti e nei metodi dell’esperienza vissuta. L’altro
è stato lo sviluppo di una psicologia basata sulla biologia che ha permesso
una formulazione scienti ca della natura dell’esperienza»12.
Entro questa cornice si situa l’elaborazione progressiva e insistita della
nozione di esperienza compiuta da Dewey negli anni della
riorganizzazione del suo pensiero13. Si diceva sopra che nel saggio del
1920 i motivi della riquali cazione della nozione di esperienza sono più
numerosi rispetto a quelli rilevati nel contributo del 1917. Non si tratta di
semplice addizione o moltiplicazione. Si tratta piuttosto di un
rovesciamento di strategia. Se nel contributo del 1917 il compito era di
stigmatizzare le insuf cienze dello gnoseologismo moderno, e dunque di
evidenziare i limiti di un approccio che fa del contenuto empirico un
segmento della conoscenza, nel saggio del 1920 Dewey vuole invece
esplicitare i tratti salienti della sua concezione antropologica. Da
indicazioni critiche e polemiche si passa così a indicazioni progettuali e
programmatiche, additando compiti di opere future che immancabilmente
arriveranno.
Perno del nuovo elenco di connotati14 è la de nizione di esperienza
come interazione tra organismo e ambiente. Anzi, i connotati enucleati
altro non fanno che porre accenti diversi su tale realtà concreta. In primo
luogo, vi sono quei tratti che esprimono la biunivocità del rapporto tra
organismo e ambiente, rilevandone il carattere attivo e il suo essere n
dall’origine intreccio di fare e subire. Già questi elementi rendono obsoleta
una dottrina che, avvalendosi di dicotomie arti ciose, o risolve l’esperienza
in mera passività fattuale, o la concepisce come incontro secondario di due
istanze all’origine contrapposte quali aisthesis e noesis, percetto e
concetto, dato sensoriale e categoria. Ecco perché Dewey opera una serie
di rilievi sulla natura del contenuto sensoriale, osservando anzitutto come
ai sensi vada riconosciuto un ruolo essenziale di stimolo per l’azione, di
promozione dell’attività dell’organismo: «I sensi non sono più le porte del
sapere ma giustamente degli stimoli per l’azione. Per un animale, una
sensazione dell’occhio o dell’orecchio non è un’informazione inutile su
qualcosa di indifferente che accade nel mondo. È un invito e un
incitamento ad agire nel dovuto modo. È un indizio per il comportamento,
un fattore che orienta l’adattamento della vita al suo ambiente» – e
conclude Dewey: «La sua qualità non è cognitiva ma urgente»15.
Dif cilmente il passaggio da uno scenario gnoseologico a un contesto
antropologico potrebbe essere descritto in maniera più ef cace. È
nell’ordine della costituzione della sensorialità che entra in crisi la
sussunzione dell’esperienza sotto il paradigma della conoscenza. Muta il
volto della stessa conoscenza, che diventa un modo della prassi, un fare
qualcosa con il “mondo”. Alla pari di pensare, agire, sentire ecc.,
conoscere è uno dei piani antropologici da misurare secondo la capacità di
riorientare i comportamenti, di suggerire passi futuri. In essi si esprime una
legalità che è intrinseca al campo esperienziale e tuttavia riconoscibile con
certezza solo a giochi fatti, conferendo all’esperienza uno spiccato ed
essenziale connotato di sperimentalità.
L’affrancamento dal paradigma gnoseologico è solidale con un altro
aspetto soggetto spesso a equivoci. Il campo esperienziale porta in sé criteri
di rilevanza, di signi catività. Si costituisce secondo interessi sentiti
piuttosto che nell’ambiente asettico e as ttico dell’indifferenza o del
disinteresse. L’imprescindibilità dell’interesse non signi ca però che il
pragmatismo collassi in un bieco utilitarismo16. L’interesse per il «dovuto
modo» di agire è tensione al compimento, al perfezionamento, alla
consummation17 dell’esperienza. È adesione alla qualità gurale che rende
armonicamente unitario un campo d’azione per l’organismo. Darebbe
luogo a una deriva utilitaristica se consistesse nello sfruttamento a proprio
vantaggio di una circostanza in sé priva di valore. Ma un conto è
sottomettere il reale al proprio pro tto soggettivo, un conto è “cavare il
meglio” dalle circostanze impegnandosi in una prassi di trasformazione
tanto del mondo quanto del sé per raggiungere equilibri provvisori. In
questo movimento l’organismo non si pone di fronte all’oggetto per
calcolarne le possibilità di sfruttamento. L’organismo è portato
dall’ambiente, ne è avvolto, vi è inesorabilmente implicato. Tant’è vero
che, come sottolinea opportunamente Dewey, i fattori emotivi e quelli
cognitivi si intersecano e si compenetrano. Anche l’eventuale
raggiungimento di un sapere si deve quindi alla capacità di muoversi in
sintonia con le dinamiche di campo. Il sapere implica il sentire – la
gnoseologia implica un’estetica.
2. Su queste fondamenta poggia Experience and Nature (1925-29), che è
premessa essenziale di Art as Experience per almeno due motivi. Da un
lato, è in esso che Dewey mette a punto un “discorso sul metodo” ancora
pienamente valido all’atto di licenziare la successiva opera di estetica.
Dall’altro lato, è in Experience and Nature (che ha un capitolo dedicato
espressamente all’arte) che per la prima volta la ri essione sull’arte
compare tra i titoli salienti dell’agenda teoretica deweyana.
«Il titolo di quest’opera, Esperienza e natura, è stato scelto per
sottolineare che la loso a che viene qui presentata può essere chiamata
tanto naturalismo empiristico quanto empirismo naturalistico, oppure,
prendendo la parola “esperienza” nel suo signi cato abituale, umanismo
naturalistico»18. Così si apre il primo capitolo dell’opera del 1925-29
intitolato Il metodo della loso a. La soglia da attraversare per entrare in
scenari non pregiudicati dalle ipoteche della modernità è indicata qui dalla
coniugazione di esperienza e natura. Il dominio dell’esperienza assorbe in
sé la dimensione della soggettività che i sistemi gnoseologici di marca
cartesiana avevano contrapposto alla datità naturale e, al tempo stesso,
considerato plinto dell’edi cio della conoscenza. Con la designazione
biunivoca “naturalismo empirico” / “empirismo naturalistico” Dewey
intende allora sottolineare la reciprocità tra istanze soggettuali e istanze
oggettuali nella costituzione della realtà. La dimensione soggettiva,
anziché rappresentare una regione ontologica, viene a costituire un indice
antropologico, la maniera peculiare in cui l’uomo accede alla realtà. In
quanto tale, è inconcepibile senza presupporre la natura, cioè a
prescindere dall’intendere un mondo e dall’inerire a un mondo. Come
scrive Dewey, «l’esperienza è tanto della natura quanto nella natura» – e
continua approfondendo questa relazione di genere intenzionale: «Non è
l’esperienza che viene esperita, ma la natura [...]. Cose che interagiscono
in certi modi sono l’esperienza; sono ciò che viene esperito. Connesse in
certi altri modi con altri oggetti naturali, per esempio l’organismo umano,
esse sono anche il modo in cui le cose vengono esperite» (EN, 21).
Il rapporto così impostato tra contenuto e modo dell’esperienza mette
fuori gioco la matrice rappresentazionalista e semiotico-nominalista del
pensiero moderno. Mentre secondo questa matrice le cose si troverebbero
al di là dei modi in cui vi si accede, per Dewey è direttamente da esse che
è costituita l’esperienza. Quando si vede un tavolo, ad esempio, contenuto
della percezione è il tavolo stesso anziché un usso di indicatori percettivi,
di dati sensoriali. Ciò ha una conseguenza di rilievo. Controparte di questo
caposaldo è infatti riconoscere che i vettori modali sono intrinseci
all’esperienza. Come afferma Dewey, le cose, che sono l’esperienza, sono
anche il modo in cui esse stesse vengono esperite. La maniera in cui si
realizza l’esperienza non è allora una marca che viene apposta a nude
datità. Vige pienamente il principio anti-atomistico e anti-associazionistico
mutuato dalla psicologia di James in base al quale l’esperienza non può
essere descritta come una collezione di contenuti atomici tra i quali si
stabiliscono rapporti associativi introdotti estrinsecamente dal soggetto
pensante. Come le relazioni sono immanenti ai contenuti, così le funzioni
modali innervano le cose esperite dando luogo a una sorta di guralità del
campo percettivo e, più in generale, esperienziale19. Viene quindi meno
ogni motivo di giustapporre esperienza (modalità, “soggettività”) e natura
(contenuto, “obiettività”). Nella duplicità dei suoi versanti, l’esperienza
«non riconosce alcuna divisione tra atto e materiale, soggetto e oggetto, ma
li contiene entrambi in una totalità non analizzata» (EN, 27). Ecco perché
la proposta teoretica deweyana consiste in un empirismo che però risulta
naturalistico nella misura in cui l’esperienza è essa stessa natura dal punto
di vista dell’uomo, e dunque un umanismo – come a dire, ancora,
un’“antropologia”.
Dewey si serve di questo schema argomentativo per precisare la propria
posizione polemica nei confronti di chi mutila drasticamente il contenuto
esperienziale stabilendo anzitutto quella gerarchia di qualità (primarie,
secondarie e terziarie) che emargina come meramente soggettivo ciò che
appare irriducibile a quantità. Questo modo di procedere rovescia la
concretezza esperienziale, che invece presenta in partenza la ricchezza
della relazione dell’organismo con l’ambiente. Solo in presenza di ni
particolari si raf na e si sempli ca «l’esperienza grossolana [...] carica di
intrico e di complessità» (EN, 39). Soggettivizzare qualia e modalità, come
anche marginalizzare emozione e volontà, vuol dire trasformare in idealità
chimeriche ampi segmenti del contenuto esperienziale: «Quando gli
oggetti reali vengono identi cati, nella speci cità di ogni aspetto, con gli
oggetti della conoscenza, tutti gli oggetti dell’emozione e della volontà
vengono inevitabilmente esclusi dal mondo “reale” e costretti a cercare
rifugio nella sfera privata di un soggetto o spirito personale che esperisce».
In tal modo il soggetto conoscente «non diventa soltanto un pellegrino ma
uno straniero che viene nel mondo, senza poter assumere corpo e carattere
naturale» (EN, 37). La meta sica del soggetto disincarnato, dequali cato,
condanna così l’uomo all’enigma assoluto del trascendente. L’antidoto
prevederà, di contro, la pluralità paratattica dei piani di realtà, e con ciò la
trasformazione della contrapposizione ontologica tra soggettività e
oggettività in distinzione plastica tra modalità e realtà.
Riscatto delle dimensioni qualitative, emotive e volitive; recupero della
concretezza corporea di un organismo che tende al suo ambiente in forme
attive e passive, come progetto e sentimento; polemica contro
l’intellettualismo: davvero sembra impossibile pensare a Dewey come a un
ideologo dello scientismo. Tanto più che un importante banco di prova del
programma appena schizzato diventa la dimensione estetica, a cui è
dedicato un intero capitolo di Experience and Nature. La scelta, inedita
per Dewey, della dimensione estetica come luogo di veri ca della tenuta
dei caposaldi acquisiti non è occasionale. Se c’è un ambito in cui si vive
dell’intreccio di attività e passività, di sapere e sentire, di concetto e
percetto, questo è quello estetico-artistico. Ciò induce Dewey ad attribuire
addirittura all’arte un primato sulla scienza, poiché è anzitutto l’arte ad
abolire discriminazioni sostanziali tra teorico e pratico, tra utilità e gratuità.
Qui «la sola distinzione che val la pena di porre [...] è quella [...] tra i
procedimenti pratici poveri di intelligenza, e non immediatamente e di per
sé godibili, e quelli pieni di signi cati goduti» (EN, 257). Riconosciuto che
la teoria permea la pratica e i “fatti”, che signi care è la funzione di
rilevanza che opera nell’evento, l’esperienza compiuta, perfetta, apparirà
quella in cui le polarizzazioni duali generano un campo unitario e coeso
(cfr. anche EN, 280). «In tal modo – aggiunge Dewey – la conclusione
implicita nell’esperienza intesa come arte in senso pregnante e nell’arte
intesa come insieme di processi e materiali della natura, sviluppati nella
direzione di signi cati acquisiti e goduti, riassume in sé tutte le conclusioni
che sono state precedentemente considerate» (EN, 258). La chiave di
accesso all’estetica deweyana risiede in questa reciprocità tra fattori
semantici ed emotivi, pratici e cognitivi, che cooperano verso una pienezza
in grado di far risuonare l’integralità antropologica.
Emerge allora già in queste pagine il senso biunivoco del titolo dell’opera
del 1934, Art as Experience. Per un verso, l’arte va intesa come esperienza
perché è in tale veste che l’arte è presenza ef cace nel mondo dell’uomo,
anziché come astratta idealità o come formula tratta dall’applicazione
rigida di precetti. Per un altro verso, però, l’arte va intesa come esperienza
perché è esperienza in genere nella sua suprema concretizzazione, dal
momento che è nel farsi arte che la realtà antropologica esibisce i suoi tratti
peculiari. Il pragmatismo di Dewey imprime al pensiero una decisa
torsione, migrando da un paradigma gnoseologico a un paradigma che
sembra lecito considerare estetico20, senza con ciò vagheggiare ideologie
estetizzanti. Un’ideologia estetizzante sarebbe ancora esasperazione
unilaterale di alcuni tratti dell’esperienza a detrimento di altri; invece il
pragmatismo deweyano vede nel raggiungimento della compiutezza
estetica lo stabilirsi di un equilibrio in cui vettori disparati si compongono
in unità coese. Ecco perché Dewey ha elaborato un’estetica solo quando
ne ha riconosciuto l’urgenza loso ca, evitando che fosse lezioso ossequio
al bisogno di completare un sistema speculativo per il tramite di
un’ancillare loso a dell’arte.
Gran parte dei nuclei speculativi che verranno sviluppati nell’opera del
1934 si ritrovano già in Experience and Nature. Qui sussiste però un
principio elettivo a causa del quale le ri essioni estetiche deweyane
appaiono, per così dire, di scorcio. In linea con il resto dell’opera, infatti, a
Dewey preme riconoscere come anche, anzi eminentemente,
nell’esperienza estetica si acquisisca sapere, si colgano signi cati.
Nell’attribuire questo tipo di pregnanza conoscitiva all’arte, il punto
essenziale resta la determinazione della realtà antropologica in quanto
relazione semantica tra organismo e ambiente. Merito precipuo dell’arte
sembra allora quello di riuscire a soddisfare in maniera eccellente «il
bisogno più caratteristicamente umano [che] è quello di possedere e
valutare il signi cato delle cose» (EN, 260). La conclusione di Dewey è
perentoria: «Tutte le attività intelligenti dell’uomo, che si manifestano nella
scienza, nelle belle arti o nelle relazioni sociali, hanno come loro compito
quello di convertire i legami causali, le relazioni di successione, in una
connessione di mezzi e conseguenze, in signi cati. Quando il compito
viene svolto no in fondo, il risultato è l’arte» (EN, 265).
In Experience and Nature il ruolo paradigmatico dell’arte viene
approfondito per quel che concerne il suo pro lo epistemologico, così che
la scienza viene quasi sussunta sotto il concetto dell’arte. Per meglio dire,
tale ruolo paradigmatico assume valore in relazione alla funzione
istituzionale dei sistemi della cultura. L’arte mostra di eccellere nello
statuire costrutti simbolici che, raccogliendo un senso esperito, lo mettono
a disposizione di fruizioni ulteriori. È il ne a cui mirano sapere scienti co
e strutture della vita interpersonale, ed è essenzialmente per tale motivo
che, nel momento della loro riuscita, anch’esse guadagnano il rango
dell’artisticità. Si salvaguarda così la distanza dalle ideologie estetizzanti,
che celebrerebbero in queste riuscite l’ammiccare di un presunto ideale di
bellezza, laddove per Dewey l’artisticità di scienza, politica, diritto ecc.
consiste piuttosto nel rendere coesi e omogenei ni e mezzi, sostanze e
forme, prescindendo da ogni vuota idealizzazione della bellezza. Quando
si veri ca questa compenetrazione tra vettori solitamente disparati si esce
dalla catena della causazione naturale e si schiude la dimensione simbolica
che rende lo spazio esperienziale campo semantico.
La struttura connettiva immanente del signi cato indagata in Experience
and Nature coincide con la modalità di relazione che opera già nel corso
della percezione. Il signi cato è perciò funzione dell’aisthesis prima che
proiezione noetico-categoriale. Nel corso della percezione, è in virtù della
loro reciproca signi catività che le componenti del quadro esperienziale
vengono colte come parti di un intero. Perde così pertinenza la dicotomia
tra materia e forma, e ancor più quella tra mezzi e ni. Materia e forma,
mezzi e ni, sono momenti di un unico processo che assumono quella loro
determinazione funzionale solo in base a un particolare punto di vista, ma
che potrebbero veder rovesciata la propria determinazione funzionale una
volta che il punto di vista dovesse opportunamente cambiare. Il colore di
un dipinto funge da materia in alcuni contesti e da forma in altri, come
insegna la storia della pittura e della critica d’arte. Ciò è possibile proprio
sul piano estetico, perché in esso tra materia e forma, tra mezzi e ni, o
anche tra componente sensibile e componente semantica, vige una
relazione inclusiva di coappartenza, non un rapporto di indicazione
semiotica.
3. Sperimentata in Experience and Nature la consistenza teoretica della
dimensione estetica, Dewey dedica a questo intreccio di problemi una
ri essione organica e approfondita. L’occasione sono le William James
Lectures che Dewey venne invitato a inaugurare nel 1931 all’Università di
Harvard. L’urgenza di una ricognizione attenta della dimensione estetica è
indirettamente provata dal fatto che se c’è un argomento dif cile da
associare al nome di James, a cui comunque il ciclo era intitolato, questo è
quello dell’arte. Solo una forte motivazione intrinseca allo sviluppo della
loso a deweyana può giusti care questa singolare combinazione. La
scelta del tema rivela quindi una precisa intenzione teorica.
Il titolo indicato per il ciclo di lezioni fu Art and Aesthetic Experience. È
un titolo cauto, che mira a circoscrivere, almeno in apparenza, un
territorio speci co dell’indagine loso ca. Esso è compatibile con l’idea
convenzionale di un ambito delimitato, per l’appunto quello estetico, su
cui si innesterebbe la pratica culturale dell’arte. Le intenzioni di Dewey
sono però ben diverse. Il libro licenziato pochi anni dopo, nel 1934, in cui
assumono veste de nitiva quelle ri essioni porta infatti un titolo
signi cativamente diverso. La locuzione Art as Experience, senza attributi
di sorta, avverte che l’estetica viene considerata al di là dello statuto di un
sapere disciplinare. Essa è praticata come dottrina dell’esperienza, senza
aggettivazioni che ne limitino il senso: quando si occupa dell’arte, la
loso a si occupa di strutture generali dell’esperienza. D’altro canto, solo
una tale concezione dell’estetica rende accettabile la scelta di trattare
l’argomento dell’arte in una sede creata per celebrare il pensiero di
William James. Lo dimostra bene proprio l’opera del 1934, in cui James è
uno degli autori maggiormente citati benché non abbia mai scritto nulla di
argomento estetologico. Se si pone Art as Experience a un’altezza diversa
da questa teoretica, si compromette fortemente la comprensione del
discorso deweyano.
Ciò non signi ca che l’opera del 1934 riduca l’arte a occasione di
discorso loso co. Nel leggere il testo sorprende semmai il contrario.
Dewey si misura instancabilmente con opere e problemi artistici concreti,
forse ancor più che con dottrine meramente teoriche. D’altro canto, Art as
Experience è maturato a vivo contatto con una istituzione in cui l’arte
veniva programmaticamente tradotta in esperienza, ossia la Fondazione
creata da Albert C. Barnes, a cui Dewey dedica il libro del 1934 avendo
collaborato strettamente con lui proprio durante il periodo di travaglio
sopra ripercorso. Per il consolidamento in direzione antropologico-estetica
del pragmatismo deweyano la Fondazione di Barnes sembra aver svolto un
ruolo analogo a quello che ebbe la Biblioteca di Aby Warburg per la
maturazione della loso a delle forme simboliche di Ernst Cassirer. È in
seno a questa Fondazione che Dewey si confronta con la pittura del primo
Novecento, giovandosi del mecenatismo e del collezionismo di Barnes; ed
è in seno a questa Fondazione che Dewey, anche per il ruolo assunto nel
1923 di “director for education”, approfondisce la questione di come
mediare i nuovi linguaggi gurativi e astratti della pittura allora
d’avanguardia a un pubblico alieno alla macerazione della cultura europea
qual era quello statunitense21. Da qui uno dei li che percorrono l’intera
opera del 1934, ossia la discussione dell’aggiornamento culturale di una
nazione ancora tentata dall’isolamento e dal sospetto nei confronti di
avanguardie e idee innovative, talvolta addirittura dalla regressione in un
comunitarismo arcaico ed estremo. Per questo in Art as Experience un
referente vivo e dirompente, ma troppo spesso trascurato dai critici, è l’arte
contemporanea.
Nei primi tre capitoli di Art as Experience22 si ripresentano i caposaldi
introdotti in precedenza. In particolare vi si riscontra la forte curvatura
antropologica del discorso deweyano, a cui preme mostrare come nelle
cose stesse emergano le strutture che rendono eclatante il fenomeno
dell’artisticità. Per cogliere i modi in cui si struttura la relazione tra
organismo e ambiente circostante, occorre procedere con spirito anti-
cartesiano evitando di prescindere dal relativo contesto denso, articolato e
complesso. La «creatura vivente», infatti, opera in un ambiente che è più
dello sfondo di natura. Il suo ambiente è anche sociale e istituzionale,
«umano oltre che sico, [...] include i materiali della tradizione e delle
istituzioni oltre a ciò che ci sta intorno spazialmente» (AE, 243). È dunque
intrinsecamente antropologico sia perché antropizzato, come rivelano gli
scenari metropolitani di una parte crescente della vita contemporanea, sia
perché carico di valenze e relazioni intra- e inter-personali.
Questo ambiente va però criticato oltre che descritto. Come mostrano le
primissime pagine dell’opera, è seguendo il lo di un ragionamento critico-
sociologico che si sottrae l’arte all’isolamento museale in cui la con na
l’uomo moderno, e che se ne mostra l’autentica portata antropologica. La
denuncia della musei cazione dell’arte diventa premessa essenziale per il
recupero del signi cato dell’esteticità, poiché per disvelare le strutture
profonde dell’estetico vanno destrutturate le strati cazioni ideologiche
culminate nella subordinazione della cultura ai meccanismi della
produzione e della merci cazione che rischiano di rendere l’arte
autenticamente estranea alla coscienza contemporanea. In Art as
Experience il motivo del ripristino della continuità tra arte ed esperienza
quotidiana serve essenzialmente a questo limitato scopo, e certo non
racchiude in sé il nucleo teoretico fondamentale dell’opera.
Vi è ri esso di ciò nell’organizzazione del primo capitolo, scandito dal
succedersi di due diversi inizi. Il primo inizio, quello effettivo del testo, è
appunto quello critico-sociologico che gravita attorno alla polemica contro
l’«individualismo estetico», controparte estetica dello gnoseologismo
moderno. Il secondo inizio (da AE, 38) chiarisce invece l’approccio
teoretico di Art as Experience, che si àncora al rilievo delle strutture
elementari dell’esperienza rispetto a cui la funzione estetico-artistica svolge
un ruolo paradigmatico. Così, nel prosieguo di questo capitolo e nei due
capitoli successivi l’attenzione viene catalizzata dall’organizzazione
dell’interazione esperienziale. Essa è naturalmente protesa verso un
equilibrio tra le sue diverse istanze. Ed è quando il ne coincide con il
perfezionamento stesso dell’evento in corso, con la sua consummation, che
l’esperienza diviene estetica.
Rispetto a Experience and Nature, nella descrizione di questa dinamica
perde centralità l’ordine semantico. Si rafforza tuttavia l’anti-
gnoseologismo di Dewey, che ora smarca con decisione la dimensione
estetica da quella conoscitiva n dalla sua radice percettiva complicata
strutturalmente e temporalmente. È anzi sulla base dell’opposizione al
conoscere che prendono rilievo i caratteri peculiari di aisthesis ed
esteticità: «Vedere, percepire, è più che riconoscere. Non identi ca
qualcosa che è presente sulla base di un passato privo di collegamenti con
esso. Il passato è portato dentro il presente in modo da rendere più ampio
e più profondo il contenuto di quest’ultimo. Si chiarisce qui come la nuda
continuità del tempo esterno si traduca nell’ordine e nell’organizzazione
vitale dell’esperienza. L’identi cazione [invece] fa un cenno e passa» (AE,
50).
La dinamica descritta è estetica in senso pregnante. Nell’aisthesis si
sfugge al mero riconoscimento categoriale, alla causazione meccanica che
pone solo nel passato il fattore di determinazione del presente. Ogni
percorrimento estetico richiede tempo e con gurazione, futuro e forma.
Non è un istante vissuto, ma un arco esperienziale articolato e compiuto,
che indugia sull’oggetto esperito sfruttando ogni fonte della realtà
antropologica in atto (sentimenti, volizioni, concetti...) senza però
subordinarsi a nessuna di esse. Da qui un carattere essenziale
dell’esperienza estetica, che ha nel sottofondo emotivo persistente il
substrato unitario della sua organizzazione olistica. Si farebbe però torto a
Dewey se si pensasse a un abbinamento dell’estetico all’emotivo in base al
principio dell’espressione come estrinsecazione di sentimenti. Lo sfondo
emotivo che compagina ogni arco esperienziale è metamor co e articolato,
mutevole a seconda delle pieghe dell’interazione con l’ambiente, e per di
più propriamente intenzionale23, poiché anche quella estetica è
un’esperienza di cose e presuppone un mondo: «La natura intima
dell’emozione si manifesta nell’esperienza di chi assiste a una
rappresentazione sulla scena o legge un racconto. Accompagna lo sviluppo
di una trama; e una trama richiede una scena, uno spazio in cui svilupparsi
e un tempo in cui svolgersi. L’esperienza è emotiva, ma in essa non ci sono
cose separate chiamate emozioni» (AE, 67).
All’analisi dell’espressione così introdotta sono dedicati speci camente
due capitoli, il quarto e il quinto, che esaminano dapprima l’atto e quindi
l’oggetto espressivo. Si potrebbe anche dire che la concezione deweyana
dell’espressione si compendia nella sua distanza da quella crociana24. Se
questa fa dell’espressione un processo di chiari cazione intrapsichico,
quella contempla un intervento decisivo del medium espressivo25. Proprio
perché «la connessione tra un medium e l’atto dell’espressione è
intrinseca», l’espressione conserva il tratto interattivo che caratterizza
intimamente ogni vettore di articolazione dell’esperienza. Decade il
principio della mera soggettività dell’arte, e al suo posto subentra una
dinamica operativa a cui l’artista prende parte lottando con il materiale per
far sorgere una struttura fruibile anche da altri. Il medium diventa
addirittura il fattore quali cante dell’intera attività artistica, se è vero che la
radice comune delle arti è appunto di elaborare l’esperienza in un ordine
espressivo attivo, così da rendere il contenuto colto nell’interazione con
l’ambiente un contenuto sensibile, ovvero udibile, visibile, tangibile. È
dunque importante riconoscere che, come «in ogni esperienza noi
tocchiamo il mondo attraverso un particolare tentacolo», anche «ogni
opera d’arte ha un medium particolare che, tra le altre cose, sostiene il
pervasivo intero qualitativo» (AE, 138). L’accento posto sul registro
materiale dell’espressione allontana il rischio di risolvere l’esperienza in
uno dei due poli interattivi. Di conseguenza, le opere d’arte in cui si
raccolgono le dinamiche espressive non hanno il valore di entità obiettive
isolabili. L’opera d’arte per Dewey non coincide con l’ente obiettivo, ma
con la funzione esperienziale che si estrinseca interagendovi26, ossia con la
relazione che connette di volta in volta organismi diversi (come sono
diversi creatore e fruitore, ma anche fruitore e fruitore) e una realtà
plasmata espressivamente27.
La creazione, che manipola il materiale espressivo, in nulla è inferiore
per qualità e intensità alla ri essione concettuale. Ha, al contrario, il
singolare primato di saper restituire la compaginazione olistica di
un’esperienza particolare rendendola ripercorribile da altri. Di
conseguenza, se da un lato «pensare direttamente in termini di colori,
suoni, immagini è un’operazione tecnicamente differente dal pensare in
parole», dall’altro «ci sono valori e signi cati che possono essere espressi
solamente da qualità immediatamente visibili e udibili, e chiedere che cosa
signi chino nel senso di qualcosa che possa essere messo in parole è
negare la loro esistenza peculiare» (AE, 94). C’è sì differenza tra le
asserzioni del pensiero concettuale e le espressioni dell’esperienza estetica;
ma essa passa da elaborazioni alternative della signi catività (denotativa e
categoriale per le prime, con gurativa e caratterizzante per le seconde),
non già dalla separazione tra un mondo dotato di senso e un mondo privo
di senso. E solo una volta che si sia svincolata dal dogma della denotatività,
l’arte guadagnerà quella espressività che sa muoversi anche nell’astrazione
di cui l’arte contemporanea dà costante testimonianza.
È ovvio che il rapporto tra forma e materia di un’opera d’arte venga
concepito da Dewey come un rapporto di intima fusione e di reciprocità.
Alle varie conseguenze di tale concezione sono dedicati i capitoli centrali
dell’opera, nel corso dei quali si delinea una concezione energetica della
forma direttamente connessa alla tensione alla consummation: «La forma si
può [...] de nire come l’effetto di forze che portano a totale compimento
l’esperienza di un evento, di un oggetto, di una scena e di una situazione.
La connessione tra forma e sostanza è quindi intrinseca, non imposta
dall’esterno. Contraddistingue la materia di un’esperienza portata al suo
perfezionamento» (AE, 147). Esiste per questo motivo una «storia naturale
della forma», che descrive come il principio della forma sia immanente
all’interazione con il mondo circostante. Essa va però integrata con una
descrizione della composizione dinamica dei vettori soggettuali, che in
Dewey viene descritta al di fuori degli schemi tipici delle dottrine delle
facoltà. Mancando ogni partizione rigida tra componenti e facoltà
psichiche, la descrizione deweyana si sofferma sul modo in cui i diversi
centri d’energia dell’organismo concorrono alla con gurazione dell’arco
esperienziale nel caso dell’opera d’arte, dando rilievo alla sua dimensione
intrinsecamente percettiva, letteralmente estetica (poiché «un’esperienza
estetica, un’opera d’arte nella sua attualità, è percezione»; AE, 169). Ma la
percezione28 è pratica irriducibile all’istantaneità: «In nessun caso ci può
essere percezione di un oggetto se non in un processo che si sviluppa nel
tempo» (AE, 110). Essendo nesso di vettori diacronici talvolta anche
contrastanti, essa conosce solo equilibri dinamici. Ed è in ciò che si radica
lo straordinario signi cato antropologico del ritmo a cui Dewey dedica
ampi approfondimenti.
Alla destituzione della dottrina delle facoltà si af anca l’oltrepassamento
della psicologia quale modello per la descrizione dei momenti soggettuali.
L’organismo che partecipa alla costituzione dell’estetico è coinvolto in
relazioni che vanno ben oltre le sollecitazioni del suo psichismo. Tanto più
che nell’antropologia deweyana viene a mancare un presupposto basilare
per un’esplicazione psicologica autosuf ciente: affermare che «l’organismo
è forza, non trasparenza» (AE, 244) costringe a cogliere il “soggetto” negli
esiti della sua attività, nelle relazioni che si concretizzano nel campo
esperienziale, anziché nei suoi meccanismi interni. La critica di Dewey è
conseguentemente rivolta contro le psicologie esplicativiste, che cercano di
dare spiegazioni lineari a una realtà complessa che invece non prevede
causazioni semplici, ma combinazione olistica di vettori plurimi. È qui che
si situa la polemica contro la dottrina del disinteresse che da Kant in avanti
ha accompagnato la parte più robusta della ri essione estetica. L’elemento
essenziale di questa polemica è la rivendicazione da parte di Dewey della
solidarietà tra qualità sensoriale e signi cato. Prima di un’analisi metodica,
gli oggetti «mostrano un’unione integrale di qualità sensoriale e signi cato
in una sola tessitura compatta» (AE, 254). Si esclude così l’idea che la
ri essività sorga originariamente in assenza di rilevanza, di interesse;
semmai, la discriminazione tra qualità e signi cato, tra importo sensoriale
originario e interesse, è prodotto di una ri essione metodologicamente
orientata alla scomposizione e alla disaggregazione della compagine
unitaria dell’estetico.
La critica degli stereotipi della psicologia si amplia a critica contro
stereotipi meta sici. Se si deve riabilitare il valore dell’interesse all’interno
dell’esteticità, e dunque riconsiderare il con ne tra arte e tecnica come
membrana che separa ma insieme consente osmosi, allora occorre anche
superare il dualismo meta sico che è matrice di molte scissioni verticali nel
pensiero moderno, ossia la dicotomia tra mente e corpo. La
contaminazione di corporeo e mentale nell’esperienza estetica non desterà
certo sorpresa nel lettore di Art as Experience. Resta invece rilevante il
fatto che a partire da qui venga recuperata la tensione intenzionale della
mente. Ciò avviene considerando il campo semantico non tecnico di mind
che, rileva Dewey, «denota ogni diversa maniera di interessarsi e occuparsi
di cose» (AE, 258). E altrettanto rilevante è l’esito di questo rilievo. In base
ad esso Dewey, infatti, sottrae valore sostanziale alla “mente”, per
restituirle di contro piena natura funzionale, verbale. Per acquisire
presenza essa deve allora incarnarsi, veder riempita la propria
intenzionalità. In tal modo, il superamento della dicotomia meta sica tra
mente e corpo mette capo a un’estetica della concretezza corporea,
materica, dell’opera d’arte, in cui il motivo anti-kantiano dell’interesse
svolge un ruolo antagonista rispetto al disincarnato ed evanescente
principio dell’ispirazione (cfr. AE, 260-261).
Negli ultimi tre capitoli, dedicati alle dinamiche dei sistemi culturali,
vengono presi in considerazione i rapporti dell’arte con la loso a, con la
critica letteraria e artistica e con la costituzione della civiltà. Ricorre in
queste pagine il motivo della salvaguardia della viva plasticità dell’opera
d’arte, che si sottrae pertanto alla subordinazione al concetto loso co, ma
anche risulta eccedente rispetto alle forme della critica che poggiano
esclusivamente su qualche principio unilaterale, si tratti di un’idea
precostituita di bellezza e di forma o di un appello all’impressione
soggettiva. Nella sua plastica vitalità l’arte riscopre la funzione di
quali cazione dell’esperienza che essa ha avuto dalle sue origini no a
quando è divenuta egemone una concezione della vita e del sapere
imperniata sulla suddivisione e sulla compartimentazione. Si è così
generata una disgregazione esperienziale e culturale che minaccia la
sopravvivenza stessa dell’arte, per sua indole portata alla contaminazione e
alla trasversalità (cfr. AE, 320). La strada per credere in un futuro per
l’arte passa attraverso l’irrobustimento della sua radice antropologica, ossia
dalla constatazione che «la fame che ha l’organismo di trovare
appagamento attraverso l’occhio è a mala pena inferiore al suo pressante
bisogno di cibo» (AE, 324). Ciò signi ca uscire da una serie di equivoci
della modernità, scardinando il sistema della musei cazione ne a se stessa
che svilisce l’arte a risarcimento edonistico e riconoscendo il valore
istituzionale e sociale del campo esperienziale quali cato esteticamente.
L’antropologia di Art as Experience è un umanesimo che giusti ca le
cadute e le rivoluzioni in ambito culturale a partire dai progetti umani che
vi sono sottesi. Ad esempio, criticando la bruttezza degli edi ci dozzinali
contemporanei, Dewey osserva come in essi si esprima la de-valorizzazione
degli uomini. Non è allora una «mera abilità tecnica» che potrà «rendere
questi edi ci belli come erano una volta i templi». «Deve prima veri carsi
– continua Dewey – una trasformazione umana perché queste strutture
giungano a esprimere spontaneamente un’armonia di desideri e bisogni
che oggi non esiste» (AE, 230). È quindi con lo stesso tono critico-sociale
con cui si era aperto, che si conclude Art as Experience: «Finché l’arte sarà
il salone di bellezza della civiltà, né l’arte né la civiltà saranno al sicuro.
[...] I valori che portano a produrre l’arte e a goderne in maniera
intelligente devono essere assimilati nel sistema delle relazioni sociali. Mi
sembra che buona parte della discussione sull’arte non centri il punto
poiché confonde l’intento personale e deliberato di un artista con la
posizione e la funzione dell’arte nella società. In verità l’arte stessa non sarà
al sicuro nelle condizioni moderne nché la massa di uomini e donne che
svolgono il lavoro utile del mondo non avrà l’opportunità di essere libera di
guidare i processi di produzione e non sarà pienamente dotata della
capacità di godere dei frutti del lavoro collettivo» (AE, 325-326).

La traduzione che segue è basata sull’edizione critica di Art as Experience pubblicata in J.


Dewey, The Later Works, 1925-1953 , vol. 10: 1934, a cura di Jo Ann Boydston (e, per il volume,
di Harriet Furst Simon), con una introduzione di Abraham Kaplan, Southern Illinois University
Press, Carbondale, (1987) 1989. Al termine di tale volume (pp. 353-366) sono raggruppate le
note di curatela, utili a chiarire una parte delle molte citazioni senza riferimenti che costellano il
testo deweyano.
Le note tra parentesi quadre sono del curatore della presente edizione.
La traduzione dei capp. 1-7 è del curatore; i capp. 8-14 sono stati tradotti da Laura Mengozzi
e poi rivisti dal curatore per omogeneizzarne lessico e stile. In questo lavoro di revisione è stato
assai prezioso il contributo di Alessia Ruco. Per la ricostruzione dei riferimenti bibliogra ci e
testuali, in particolare di quelli lasciati in sospeso nell’edizione critica, è stato imprescindibile
l’aiuto di Elena Massarenti. Si ringrazia inoltre Alfonso Ottobre che ha letto via via la
traduzione dando preziosi spunti di ri essione critica su alcune scelte, e ha fornito indicazioni
per la compilazione della bibliogra a.
Fin dove possibile, si è cercato di utilizzare le traduzioni italiane disponibili dei testi
menzionati da Dewey. Solo in rari casi, comunque segnalati, non è stato possibile risalire alle
fonti delle citazioni. Eventuali dif coltà sono segnalate in nota; esse si devono in gran parte al
fatto che per i testi classici della storia dell’estetica Dewey spesso cita dall’antologia di E. F.
Carritt (a cura di), Philosophies of Beauty from Socrates to Robert Bridges, Oxford University
Press, Oxford 1931.
Le peculiarità dell’inglese di Dewey, marcatamente sassone e attento all’uso concreto delle
parole, hanno comportato alcune forzature nella traduzione di cui si è dato conto in nota
almeno in qualche caso notevole. Si è inoltre rispettato lo stile di scrittura di Dewey, anche
quando procede per accumulazione paratattica. Sempre per rispettare una gra a che è pensiero,
si è seguita pedissequamente la corsivazione deweyana, per cui alcuni forestierismi compaiono
in carattere tondo normale. I termini non inglesi che Dewey usa ripetutamente, spesso in
accezione tecnica, sono rimasti invariati: medium (plur.: media), status, milieu, revêrie (ritocco
per revery), routine... Tutti i termini composti o articolati mediante trattini ricalcano analoghe
costruzioni presenti nel testo originale.
I termini che hanno a che fare con la piena realizzazione di un evento sono stati resi cercando
di restituirne anche il senso positivo: ful llment (compimento, soddisfazione), consummation
(perfezionamento), completion (completamento)... Del modo di restituire alcune altre sottili
distinzioni deweyane all’interno di particolari aree semantico-concettuali (materia, sensibilità...)
si dà conto in nota. In ne, si è ignorata la variazione di gra a aesthetic /esthetic che appare priva
di rilievo semantico-concettuale, come documentano i repertori lessicali dell’inglese americano.

1 Non solo convenzionalmente, è con la pubblicazione del volume del 1903 Studies in Logical
Theory che si considera de nitivamente compiuta l’adesione di Dewey al pragmatismo. Tutte le
opere di Dewey sono raccolte nell’edizione critica integrale avviata nel 1967 a cura di Jo Ann
Boydston per la Southern Illinois University Press (Carbondale) e articolata in tre sezioni: The
Early Works, 1882-1898; The Middle Works, 1899-1924; The Later Works, 1925-1953. A questa
edizione si rinvia per tutti i testi deweyani ricordati.
2 Mentre sono del tutto assenti saggi di estetica nelle produzioni dei padri del pragmatismo,
Charles S. Peirce e William James, prima del 1934 gli interventi di Dewey su questi argomenti
sono sporadici e occasionali (cfr. la bibliogra a infra). – Lo sviluppo di qualche rilievo più
recente dell’estetica pragmatista, che tiene ampiamente conto della ri essione deweyana, è R.
Shusterman, Pragmatist Aesthetics. Living Beauty, Rethinking Art (1992), nuova ed. Rowman &
Little eld, Lanham ecc. 2000.
3 J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, a cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1965 2, p.
157.
4 Id., Rifare la loso a, a cura di A. Massarenti, Donzelli, Roma 1998, p. 74.
5 A ben vedere, ciò si deve a istanze af ni a quanto, tra ne Ottocento e inizio Novecento,
veniva elaborato nelle prospettive più genuine e meno ideologiche di loso a della vita e,
soprattutto, di antropologia loso ca Il fatto di non aver sempre colto questo parallelismo ha
creato supplementari dif coltà di comprensione e di interpretazione del pensiero di Dewey in
generale, e di Art as Experience in particolare.
6 J. Dewey, The Development of American Pragmatism (1925; versione inglese di Le
développement du pragmatisme américain, “Revue de métaphysique et de morale”, XXIX, 1922),
ora in The Later Works, vol. 2: 1925-1927, Southern Illinois University Press, Carbondale1988,
p. 17.
7 Ibidem. Cfr. al riguardo anche J. P. Murphy, Il pragmatismo, Il Mulino, Bologna 1997, p. 96.
8 J. Dewey, Intelligenza creativa (ma: The Need for a Recovery of Philosophy), a cura di L.
Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1957, pp. 34-37.
9 «La coscienza connota un tipo di relazione esterna [ovvero: è un modo di relazione tra
contenuti] e non denota invece una materia speciale o un modo di essere. La caratteristica
peculiare delle nostre esperienze, il fatto che non soltanto sono, ma sono conosciute, ciò che la loro
qualità “cosciente” è chiamata a spiegare, si chiarisce meglio in termini delle loro relazioni reciproche
– queste relazioni stesse essendo esperienza» (W. James, Esiste la «coscienza»?, in Saggi
sull’empirismo radicale, ed. it. parz. a cura di N. Dazzi, Laterza, Bari 1971, p. 48).
10 Dewey, Rifare la loso a, cit., p. 68.
11 Potrà sorprendere che su questa posizione speculativa si assesti un losofo essenzialmente
estraneo al travaglio disgregativo dell’eredità kantiana quale fu Dewey, il cui programma
teoretico maturò dapprima attraverso lo studio di Hegel, in seguito attraverso il confronto con
l’avvento del darwinismo (traumatico per buona parte degli ambienti intellettuali statunitensi),
in ne attraverso l’assimilazione dei Principles of Psychology di James. L’unico confronto di rilievo
con Kant risale forse alla dissertazione, ora perduta, del 1884 intitolata The Psychology of Kant.
– La ricezione di Dewey ha fortemente risentito di questa estraneità. Molti loso
“continentali” hanno infatti accusato l’agenda teoretica deweyana di ingenuità e grossolanità
poiché non vi hanno ritrovato i termini ni ed estenuati del dibattito post- e neo-kantiano a cui
si erano assuefatti. Potrebbe però essere segno di forza, e non di debolezza, aver mosso il
proprio pensiero in questa direzione prescindendo completamente dagli stilemi del
trascendentalismo. – Sui motivi loso ci e culturali che con uiscono nel pensiero di Dewey cfr.
Th. C. Dalton, Becoming John Dewey. Dilemmas of a Philosopher and Naturalist, Indiana
University Press, Bloomington 2002 (e, per le questioni toccate in questa introduzione,
soprattutto il cap. 7, pp. 149-174).
12 Dewey, Rifare la loso a, cit., p. 68.
13 Proprio in questi anni escono i tre volumi pubblicati da Dewey nel cui titolo compare il
concetto in questione: oltre a Experience and Nature e Art as Experience, si aggiunge nel 1938
Experience and Education.
14 Dewey, Rifare la loso a, cit., pp. 69-74.
15 Ivi, p. 70.
16 Sull’equivoco pragmatismo/utilitarismo cfr. H. Putnam, Il pragmatismo: una questione
aperta, trad. it. di M. Dell’Utri, Laterza, Roma-Bari (1992) 2003, pp. 14-29 e 65-84.
17 Consummation è termine tecnico in Dewey. Indica il giungere al termine dei processi
impliciti nelle cose stesse, in maniera prossima alla voce latina perfectio. Per questo si è deciso di
renderlo in questo volume con “perfezionamento”. Si tenga comunque presente che in altre
traduzioni la scelta è stata differente. In particolare, nella ed. it. di Experience and Nature curata
di P. Bairati (J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano (1973) 1990) è reso con
“consumazione”.
18 Dewey, Esperienza e natura, cit., p. 19. – D’ora in poi ci si riferirà a questa edizione con la
sigla EN, cui seguirà l’indicazione della pagina.
19 Ecco perché il pensiero di Dewey implica la possibilità di una logica materiale che sviluppa
queste forme di connessione afferenti direttamente all’empiria. Cfr. R. W. Sleeper, The Necessity
of Pragmatism. John Dewey’s Conception of Philosophy, University of Illinois Press, Urbana and
Chicago (1986) 2001 2.
20 Se ne veda la ricostruzione in Th. M. Alexander, John Dewey’s Theory of Art, Experience and
Nature. The Horizons of Feeling, State University of New York Press, New York 1987.
21 Si vedano i saggi raccolti in italiano in J. Dewey, Educazione e arte, a cura di L. Bellatalla,
La Nuova Italia, Firenze 1977. – Egualmente importante è la presenza nella collezione di Barnes
di opere che appartengono ad altre civiltà, il cui profondo signi cato viene minacciato se lo si
commisura schematicamente ai canoni convenzionali dell’esteticità occidentale matura. Questi
manufatti, documentati anche nel repertorio iconogra co dell’edizione originale di Art as
Experience a anco di capolavori dell’arte occidentale, hanno ricoperto un ruolo non marginale
nel sollecitare la critica deweyana alla musei cazione (sia nel senso della collezione di belle arti,
sia nel senso del repertorio etnogra co) che attraversa l’opera del 1934. – Entrambi i versanti
della critica alla musei cazione, e sulla base di premesse davvero molto vicine a quelle di
Dewey, si ritrovano nella recente posizione espressa da Jean-Marie Schaeffer, di cui cfr. ad
esempio Oggetti estetici?, in F. Desideri e G. Matteucci (a cura di), Dall’oggetto estetico
all’oggetto artistico, Firenze University Press, Firenze 2006, pp. 37-54.
22 Per quest’opera si cita dalla traduzione che segue nel presente volume, con la sigla AE e
l’indicazione di pagina.
23 «Un’emozione è diretta a, o derivante da o relativa a qualcosa di oggettivo, effettivamente o
idealmente. Un’emozione è implicata in una situazione il cui esito è sospeso e in cui il sé che si
muove nell’emozione è coinvolto vitalmente. Le situazioni sono deprimenti, minacciose,
intollerabili, trionfali» (AE, 88).
24 De nitive al riguardo le osservazioni di L. Russo, La polemica fra Croce e Dewey e l’arte
come esperienza, “Rivista di studi crociani”, 5, 1968, pp. 201-216.
25 Il medium è di fatto l’argomento dei capp. 9 e 10, che discutono il “sistema delle arti”
secondo gli elementi che accomunano e diversi cano i differenti media espressivi.
26 Come scrive chiaramente Dewey all’inizio di Art as Experience, anche se «nel modo comune
di vedere, l’opera d’arte viene identi cata spesso con l’edi cio, il libro, il dipinto o la statua nel
loro esistere separati dall’esperienza umana», in realtà «l’opera d’arte vera e propria è ciò che il
prodotto fa della e nella esperienza» (AE, 31). E molto più avanti precisa: «L’arte è una qualità
del fare e di ciò che viene fatto. Solo esteriormente, quindi, può essere designata con un
sostantivo nominale. Inerendo alla maniera e al contenuto del fare, essa è aggettivale per
natura» (AE, 215).
27 «L’opera d’arte vera e propria è la costruzione di un’esperienza integrale attraverso
l’interazione tra condizioni ed energie organiche e ambientali. [...] la cosa espressa viene estorta
al produttore dalla pressione esercitata da cose oggettive sugli impulsi e sulle tendenze naturali
– essendo dunque l’espressione ben altro che l’esito diretto e incontaminato di questi ultimi
elementi. [...] L’atto d’espressione che costituisce un’opera d’arte è una costruzione nel tempo,
non un’emissione istantanea. E questa affermazione signi ca assai di più che non che ci vuole
tempo perché il pittore trasferisca sulla tela la sua concezione immaginativa o lo scultore nisca
di lavorare il marmo. Signi ca che l’espressione del sé in e attraverso un medium, che è
costitutivo dell’opera d’arte, è essa stessa una interazione prolungata di qualcosa che scaturisce
dal sé con condizioni oggettive, un processo in cui entrambi questi elementi acquisiscono una
forma e un ordine che dapprima non possedevano» (AE, 86-87).
28 Che, occorre aggiungere, per Dewey è di natura sinestetica e intenzionale. Cfr., ad
esempio: «Sebbene possa essere isolato mediante dissezione anatomica, l’apparato ottico non
funziona mai isolatamente. Esso opera in connessione con la mano nel protendersi verso
qualcosa per esplorarne la super cie, nel guidare la manipolazione delle cose, nel dirigere la
locomozione. Questo fatto ne ha come conseguenza un altro: che le qualità sensoriali che ci
arrivano per il tramite dell’apparato visivo sono immediatamente legate a quelle che ci arrivano
da oggetti attraverso attività collaterali. La rotondità che si vede è quella delle palle; gli angoli
che si percepiscono sono non già il risultato di cambiamenti nei movimenti oculari, ma proprietà
di libri e scatole maneggiate; linee curve sono la volta celeste, la volta di un edi cio; si vedono
linee orizzontali come la distesa del terreno, il margine delle cose che ci circondano. Questo
fattore è implicato così di continuo e immancabilmente ogni volta che usiamo gli occhi che forse
è impossibile riferire solo all’azione degli occhi le qualità delle linee esperite visivamente» (AE,
116).
Nota all’edizione del 2020
Come nelle riedizioni precedenti del testo qui pubblicato (2010, 2012 e 2017), si è
appro ttato della nuova edizione per correggere tacitamente alcuni refusi. Questa volta gli
interventi effettuati hanno però riguardato anche la resa di alcuni termini e passaggi in infra, pp.
42, 48, 51, 52, 62, 68 e 75.
Mentre nelle precedenti riedizioni la bibliogra a in calce al volume era stata aggiornata
censendo gli studi italiani pubblicati tra il 2006 e il 2015 (cfr. infra, p. 354), nella presente
edizione si è rinunciato a proseguire in questo modo. Per una corretta integrazione sarebbe
stato ormai imprescindibile dar conto anche della letteratura internazionale, signi cativamente
cresciuta negli ultimi anni per l’ampia riconsiderazione in corso del pensiero deweyano. Ciò
avrebbe richiesto un ripensamento strutturale dell’intero apparato bibliogra co. Si è deciso di
rinviare questa operazione ad altra occasione, che magari coinciderà con una revisione globale
anche della traduzione.
Arte come esperienza
di John Dewey
Ad Albert C. Barnes
con gratitudine
Prefazione

Tra l’inverno e la primavera del 1931 venni invitato a tenere una serie di
dieci lezioni alla Harvard University. L’argomento scelto era la loso a
dell’arte. Da tali lezioni trae origine questo volume. Il ciclo di lezioni è
stato istituito alla memoria di William James e io considero un grande
onore che questo libro venga associato, sebbene indirettamente, al suo
nome insigne. E mi fa piacere anche ricordare, con le lezioni, la costante
cortesia e ospitalità dei miei colleghi del Dipartimento di Filoso a di
Harvard.
Non è semplice per me riuscire a dar atto del debito che ho contratto nei
confronti di altri che hanno scritto su questo argomento. In parte lo si può
desumere considerando gli autori menzionati o citati nel testo.
Sull’argomento ho comunque lavorato per molti anni, leggendo in maniera
abbastanza estesa la letteratura in inglese, qualcosa di meno in francese e
ancor meno in tedesco, e ho assimilato molto da fonti che ora è dif cile
ricordare. Inoltre sono debitore verso numerosi autori in misura molto
maggiore di quanto si possa arguire dalle allusioni che ho fatto ad essi
all’interno del volume.
È invece più facile stabilire il mio debito nei confronti di coloro che mi
hanno aiutato direttamente. Joseph Ratner mi ha fornito numerosi
riferimenti signi cativi. Meyer Shapiro è stato tanto gentile da leggere il
dodicesimo e il tredicesimo capitolo dandomi suggerimenti che ho in
buona misura seguito. Irwin Edman ha letto gran parte della versione
manoscritta del libro, e devo molto ai suoi suggerimenti e alle sue critiche.
Sidney Hook ha letto molti dei capitoli, e la loro forma attuale è per molti
aspetti il risultato delle discussioni che ho avuto con lui; ciò è vero in
particolare per il capitolo sulla critica e per l’ultimo capitolo. La mia
gratitudine va però soprattutto ad Albert C. Barnes1. Con lui ho esaminato
i capitoli uno ad uno; ma quanto ho ricavato dai suoi commenti e dai suoi
suggerimenti grazie a questo confronto è solo una piccola porzione del
mio debito. Per diversi anni ho avuto la fortuna di conversare con lui, e in
molte occasioni ciò è accaduto al cospetto dell’ineguagliabile raccolta di
dipinti che ha messo insieme. L’in uenza di queste conversazioni, assieme
a quella dei suoi libri, è stata un elemento cruciale per plasmare il mio
stesso pensiero sulla loso a dell’estetica. Ciò che c’è di valido in questo
volume è dovuto, più di quanto io riesca a esprimere, al grande lavoro
pedagogico svolto all’interno della Barnes Foundation. Quel lavoro, per la
sua innovativa qualità, è comparabile al meglio che è stato fatto in
qualunque campo nell’arco di vita della generazione attuale, non escluso il
campo della scienza. Mi piacerebbe pensare a questo volume come a un
momento dell’ampia in uenza che esercita la Fondazione.
Ringrazio la Barnes Foundation per il permesso di riprodurre alcune
illustrazioni, e Barbara e Willard Morgan per le fotogra e da cui sono state
ricavate le riproduzioni2.
1 – La creatura vivente

Per una delle perversità ironiche che spesso af iggono il corso delle cose,
l’esistenza delle opere d’arte da cui dipende la formazione di una teoria
estetica è diventata un ostacolo per la teoria che le concerne. Uno dei
motivi di ciò è che queste opere sono prodotti che esistono esternamente e
sicamente. Nel modo comune di vedere, l’opera d’arte viene identi cata
spesso con l’edi cio, il libro, il dipinto o la statua nel loro esistere separati
dall’esperienza umana. Visto che l’opera d’arte vera e propria è ciò che il
prodotto fa della e nella esperienza, tale conclusione non agevola la
comprensione. Inoltre la stessa perfezione di alcuni di questi prodotti, il
prestigio che essi possiedono grazie a una lunga storia di ammirazione
indiscussa, crea convenzioni che ostruiscono la strada per un’analisi senza
pregiudizi. Appena un prodotto dell’arte consegue lo status di classico,
appare in qualche modo isolato dalle condizioni umane sotto le quali è
stato generato e dalle conseguenze umane che esso determina
nell’esperienza effettiva della vita.
Quando si separano gli oggetti artistici sia dalle condizioni della loro
origine, sia dalle condizioni secondo le quali essi operano nell’esperienza,
viene costruito un muro attorno a loro che ne rende quasi opaca la
signi catività generale di cui si occupa la teoria estetica. L’arte è con nata
in un regno separato in cui viene meno la sua connessione con i materiali e
gli scopi di ogni altra forma di sforzo, di impresa e di successo dell’uomo.
A chi comincia a scrivere sulla loso a delle belle arti si impone allora un
compito primario: ripristinare la continuità tra quelle forme raf nate e
intense d’esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e i
patimenti di ogni giorno che, com’è riconosciuto universalmente,
costituiscono l’esperienza. Le cime delle montagne non uttuano senza
sostegno; e neppure poggiano sul terreno. Esse sono la terra in una della
sue attività manifeste. È problema di coloro che si occupano della teoria
della terra, geogra e geologi, rendere evidente questo fatto nelle sue varie
implicazioni. Il teorico che desidera occuparsi loso camente dell’arte
bella deve assolvere un compito simile.
Chi è disposto ad accettare questa posizione, anche se solo come ipotesi
sperimentale provvisoria, vedrà che da qui segue una conclusione a prima
vista sorprendente. Per comprendere il signi cato dei prodotti artistici
dobbiamo per un po’ dimenticarli, distoglierci da essi e rivolgerci alle forze
e alle condizioni ordinarie dell’esperienza che solitamente non
consideriamo estetica. Dobbiamo arrivare alla teoria dell’arte deviando
dalla strada diretta. La teoria si occupa infatti del comprendere, del capire,
tanto quanto delle esclamazioni di ammirazione e della sollecitazione di
quell’esplosione emotiva chiamata spesso apprezzamento. È certo possibile
godere dei ori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza
senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone
di comprendere il orire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra
suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante.
È concordemente riconosciuto che il Partenone è una grande opera
d’arte. Eppure esso possiede statuto estetico solo quando l’opera diventa
un’esperienza per un essere umano. E se si vuole andare al di là del
godimento personale cercando di elaborare una teoria che concerna
l’ampia repubblica dell’arte di cui questo edi cio è un membro, a un certo
punto delle proprie ri essioni si deve accettare di volgere lo sguardo da
esso ai cittadini ateniesi dotati di grande sensibilità, presi dai loro affari e
dalle loro dispute, ricchi di un senso civico che si identi cava con una
religione civile, della cui esperienza il tempio fu un’espressione che essi
costruirono non come opera d’arte ma come monumento civile. Volgersi a
loro signi ca volgersi a esseri umani che ebbero bisogni che si tradussero
nell’esigenza di costruire l’edi cio e che trovarono soddisfazione in esso; e
non è un’analisi del tipo di quella che potrebbe svolgere un sociologo in
cerca di materiali rilevanti per il suo scopo. Chi intende ri ettere
teoricamente sull’esperienza estetica che ha preso corpo nel Partenone
deve gurarsi con il pensiero che cosa avevano in comune le persone della
cui vita esso era parte (sia chi lo creò, sia chi ne fruì) con le persone che
vivono nelle nostre case e che circolano per le nostre strade.
Al ne di comprendere l’estetico nelle sue forme fondamentali e
riconosciute, si deve cominciare dal considerarlo allo stato grezzo; dagli
eventi e dalle scene che attirano l’occhio e l’orecchio attento dell’uomo,
suscitando il suo interesse e procurandogli piacere quando egli guarda e
ascolta: le cose che attirano gli sguardi della folla – l’auto dei pompieri che
passa; le macchine che scavano enormi buchi nel terreno; l’uomo-mosca
che si arrampica sul anco del campanile; le persone appollaiate su alte
travi sospese mentre lanciano e afferrano bulloni incandescenti. Riconosce
le fonti dell’arte nell’esperienza umana chi vede come la grazia carica di
tensione del giocatore contagia la folla che sta guardando; chi nota il
piacere che ha la padrona di casa a prendersi cura delle sue piante e
l’interesse con cui il suo buon marito si dedica alle cure del ritaglio di prato
davanti a casa; il gusto che ha chi guarda il fuoco ad attizzare la legna che
sta bruciando nel camino e a osservare le amme che guizzano e le braci
che si sgretolano. Queste persone, se interrogate sui motivi delle loro
azioni, darebbero senz’altro risposte ragionevoli. Chi attizzava il pezzetto
di legno che bruciava direbbe che lo faceva per ravvivare il fuoco; ma egli
è affascinato egualmente dal variopinto gioco di trasformazioni messo in
scena davanti ai suoi occhi a cui prende parte con l’immaginazione. Non
resta un freddo spettatore. Ciò che ha detto Coleridge del lettore di poesia
è vero a suo modo di tutti coloro che sono felicemente assorbiti nelle loro
attività della mente o del corpo: «il lettore dovrebbe essere sospinto
innanzi non già semplicemente, o principalmente, dall’impulso meccanico
della curiosità, né da un desiderio irrequieto di arrivare allo scioglimento
nale, bensì dalla piacevole attività [...] del viaggio stesso»3.
Il meccanico intelligente preso dalla sua opera, interessato a far bene e a
trovare soddisfazione nel suo lavoro manuale, che si prende cura con vera
passione dei suoi materiali e dei suoi strumenti, è impegnato in un’attività
artistica. La differenza tra un lavoratore di tal genere e un pasticcione
inetto e negligente è grande nella bottega di un artigiano così come nello
studio di un artista. Spesso il prodotto può non sollecitare il senso estetico
di chi usa il prodotto. Ma spesso non per colpa del lavoratore, bensì delle
condizioni del mercato per il quale il suo prodotto è progettato. Se ci
fossero condizioni e opportunità differenti, si produrrebbero cose tanto
signi cative per l’occhio quanto lo erano quelle prodotte da artigiani di
epoche precedenti.
Le idee che pongono l’arte su un piedistallo distante sono tanto diffuse e
così sottilmente pervasive che più di una persona proverebbe ripulsa
anziché piacere se le si dicesse che il motivo per cui ha goduto dei suoi
divertimenti occasionali è, almeno in parte, la loro qualità estetica. Le arti
che oggi hanno maggiore vitalità per l’uomo medio sono cose che egli non
considera arti: ad esempio, il cinema, la musica jazz, le strisce umoristiche
e, n troppo di frequente, i resoconti giornalistici di intrecci amorosi,
omicidi e imprese banditesche. Infatti, dal momento che ciò che egli
riconosce come arte è con nato in musei e gallerie, l’impulso indomabile
verso esperienze in se stesse godibili trova solo gli sbocchi che offre
l’ambiente di tutti i giorni. Più di una persona che protesta contro la
concezione museale dell’arte continua a condividere l’idea errata da cui
scaturisce quella concezione. Questo perché la nozione comune deriva da
una separazione dell’arte dagli oggetti e dalle scene dell’esperienza
quotidiana che molti teorici e molti critici si vantano di sostenere o
addirittura di elaborare. Nel caso in cui oggetti scelti ed eccezionali sono
strettamente connessi ai prodotti dei mestieri usuali, il relativo
apprezzamento è il più ampio e il più profondo. Quando, per la loro
lontananza, gli oggetti che le persone colte riconoscono essere opere
dell’arte bella appaiono privi di vigore alla maggioranza della popolazione,
è facile che la fame estetica vada alla ricerca di qualcosa di volgare e a
buon mercato.
I fattori che hanno consacrato l’arte bella ponendola su un lontano
piedistallo non sono sorti all’interno del regno dell’arte, né la loro
in uenza è stata circoscritta alle arti. Per molte persone un’aura di
soggezione mista a irrealtà avvolge ciò che è “spirituale” e “ideale”,
mentre “materia” è diventato per contrasto un termine spregiativo,
qualcosa da giusti care o di cui scusarsi. Le forze che sono all’opera sono
quelle che hanno eliminato sia la religione che l’arte bella dallo scopo cui
mira la vita comune o della comunità. Queste forze hanno prodotto
storicamente così tanti sconvolgimenti e così tante divisioni nella vita e nel
pensiero della modernità che l’arte non ha potuto sottrarsi alla loro
in uenza. Non dobbiamo spingerci no alla ne del globo, né risalire nel
tempo a molti millenni fa per trovare popoli per i quali qualsiasi cosa che
intensi chi il senso della vita immediata è oggetto di profonda
ammirazione. Incisioni sul corpo, penne che si agitano, tuniche vistose,
ornamenti scintillanti d’oro e d’argento, di smeraldo e di giada, formavano
i contenuti di arti estetiche, e presumibilmente privi di quella volgarità
dell’esibizionismo di classe che accompagna i loro analoghi d’oggi. Utensili
domestici, arredamenti di tende e case, tappeti, stuoie, vasi, pentole, archi,
lance, erano lavorati con una tale ne cura da renderli oggi ricercatissimi,
tanto che a loro viene dato il posto d’onore nei nostri musei di belle arti.
Eppure nel loro tempo e nel loro luogo speci co tali cose servivano a dare
enfasi agli eventi della vita quotidiana. Invece di essere innalzati e posti in
una nicchia isolata, erano parte dei modi in cui si esibivano abilità, si
manifestava l’appartenenza a un gruppo o a una tribù, si veneravano gli
dei, banchettando e digiunando, lottando, cacciando, in tutti i momenti
topici che scandiscono ritmicamente il corso della vita.
La danza e la pantomima, ossia le fonti dell’arte del teatro, sorsero come
parte di riti e celebrazioni di carattere religioso. L’arte musicale era più che
presente nel momento in cui si pizzicava una corda allungata, si
percuoteva una pelle tesa, si sof ava nelle canne. Anche nell’età delle
caverne le abitazioni umane erano ornate con gure colorate che
mantenevano desto il ricordo di esperienze sensoriali relative agli animali,
tanto strettamente legati alle vite degli esseri umani. Le strutture in cui
dimoravano i loro dei e gli strumenti che agevolavano il rapporto con le
forze superiori erano lavorate con particolare nezza. Ma in questi casi
esemplari le arti della recitazione, della musica, della pittura e
dell’architettura non erano legate in modo particolare a teatri, gallerie e
musei. Erano parte degli aspetti signi cativi della vita di una comunità
organizzata.
La vita collettiva resa manifesta nella guerra, nel culto, nel tribunale, non
prevedeva separazioni tra ciò che era caratteristico di questi luoghi e di
queste attività, e le arti che vi conferivano colore, grazia e dignità. Pittura e
scultura erano organicamente unite all’architettura, così come quest’ultima
era unita allo scopo sociale a cui servivano gli edi ci. Musica e canto erano
parti intrinseche dei riti e delle cerimonie in cui veniva celebrato il
signi cato della vita di gruppo. La recitazione era una riproposizione vitale
delle leggende e della storia della vita di gruppo. Nemmeno ad Atene si
possono sciogliere tali arti da questo contesto di esperienza diretta senza
comprometterne il carattere signi cativo. Le gare sportive, così come la
tragedia, celebravano e rafforzavano le tradizioni della stirpe e del gruppo,
istruendo la popolazione, commemorando le glorie e consolidando il loro
orgoglio civile.
In tali condizioni non sorprende che i greci di Atene, cominciando a
ri ettere sull’arte, abbiano plasmato l’idea secondo cui essa sarebbe un
atto di riproduzione, ovvero di imitazione. Ci sono molte obiezioni contro
questa concezione. Ma la fortuna della teoria testimonia la stretta
connessione delle belle arti con la vita quotidiana; l’idea non sarebbe
venuta in mente a nessuno che avesse considerato l’arte separata dagli
interessi della vita. Infatti questa dottrina non signi ca che l’arte
consisterebbe nel copiare alla lettera gli oggetti, ma che essa ri etterebbe
le emozioni e le idee associate alle istituzioni principali della vita sociale.
Platone avvertì questa connessione in modo talmente forte da essere
indotto a pensare che fosse necessario censurare poeti, drammaturghi e
musicisti. Forse esagerò quando disse che il passaggio dal modo dorico al
modo lidio in musica sarebbe stato il fatale prodromo della degenerazione
civile4. Ma nessun contemporaneo avrebbe dubitato che la musica fosse
parte integrante dell’ethos e delle istituzioni della comunità. L’idea
dell’“arte per l’arte” non sarebbe stata neppure compresa.
Ci devono essere quindi ragioni storiche perché sorga la concezione
isolazionista dell’arte. I nostri musei e le nostre gallerie d’oggi, in cui sono
relegate e depositate opere dell’arte bella, rendono evidenti alcune delle
cause che hanno fatto sì che l’arte venisse segregata e non, invece,
considerata un’ancella del tempio, del tribunale o delle altre forme della
vita associata. Un’istruttiva storia dell’arte moderna si potrebbe scrivere
considerando la formazione delle caratteristiche istituzioni moderne del
museo e della galleria per esposizioni. Potrei ricordare alcuni fatti rilevanti.
La maggior parte dei musei europei è, tra le altre cose, un monumento alla
nascita del nazionalismo e dell’imperialismo. Ogni capitale deve avere il
suo speci co museo di pittura, scultura ecc., deputato da un lato a esibire
la grandezza del suo passato artistico e, dall’altro, a esibire il bottino
acquisito dai suoi monarchi durante la conquista di altre nazioni; si pensi,
ad esempio, ai cumuli di opere depredate da Napoleone che sono nel
Louvre. Essi testimoniano la connessione tra la segregazione moderna
dell’arte e nazionalismo e militarismo. Indubbiamente questa connessione
è servita a volte a uno scopo pro cuo, come nel caso del Giappone che,
durante il processo di occidentalizzazione, salvò buona parte dei propri
tesori artistici nazionalizzando i templi che li contenevano.
La crescita del capitalismo ha esercitato una grande in uenza sullo
sviluppo del museo in quanto casa propria delle opere d’arte, e sulla
promozione dell’idea per cui le opere d’arte sono separate dalla vita
comune. I nouveaux riches5, che costituiscono un importante
sottoprodotto del sistema capitalistico, si sono sentiti soprattutto in dovere
di circondarsi di opere dell’arte bella costose perché rare. In generale, il
collezionista tipico è il capitalista tipico. Per dimostrare una buona
posizione nel regno della cultura più elevata, egli ammassa dipinti, statue,
e bijoux6 artistici alla stessa stregua in cui i suoi titoli e le sue obbligazioni
certi cano la sua posizione nel mondo economico.
Non solo individui, ma anche comunità e nazioni mettono in evidenza il
loro buon gusto culturale costruendo teatri d’opera, gallerie e musei.
Questi mostrano che una comunità non è interamente assorbita dalla
ricchezza materiale poiché è disposta a investire i propri pro tti nella
promozione dell’arte. La costruzione di questi edi ci e la raccolta dei loro
contenuti equivale, oggi, all’innalzamento di una cattedrale. Queste cose
ri ettono e istituiscono uno status culturale superiore, laddove invece la
loro segregazione dalla vita comune ri ette il fatto che esse non sono parte
di una cultura nativa e spontanea. Esse costituiscono una sorta di
controparte di un atteggiamento di superiorità spirituale esibito non nei
confronti di persone come tali, ma nei confronti degli interessi e delle
occupazioni che assorbono la maggior parte del tempo e dell’energia della
comunità.
L’industria moderna e il commercio moderno sono su scala
internazionale. I contenuti delle gallerie e dei musei testimoniano la
crescita del cosmopolitismo economico. La mobilità delle attività e delle
popolazioni, dovuta al sistema economico, ha indebolito o distrutto la
connessione tra opere d’arte e il genius loci7 di cui erano un tempo
l’espressione naturale. Avendo perso la loro condizione nativa, le opere
d’arte ne hanno acquisita una nuova – quella di essere esemplari di arte
bella e null’altro. Inoltre le opere d’arte ora sono prodotte, come altre
merci, per essere vendute sul mercato. Il patrocinio economico da parte di
individui ricchi e potenti ha giocato molte volte un ruolo nel sostenere la
produzione artistica. Probabilmente molte tribù selvagge hanno avuto un
loro Mecenate. Ma ora nell’impersonalità di un mercato mondiale è andata
perduta anche buona parte di quella profonda connessione sociale.
Oggetti che in passato erano validi e signi cativi per il loro posto nella vita
di una comunità, ora agiscono isolati dalle condizioni della loro origine.
Perciò essi sono anche distinti dall’esperienza comune, e fungono da
emblemi del gusto e da attestati di una cultura particolare.
A causa delle trasformazioni delle condizioni industriali l’artista è stato
spinto ai margini dei corsi principali dell’interesse produttivo. L’industria è
stata meccanizzata, ma un artista non può lavorare meccanicamente per
produzioni di massa. Egli è meno integrato di prima nel usso dei servizi
sociali. Ne deriva un peculiare “individualismo” estetico. Per gli artisti
diventa obbligatorio dedicarsi alla propria opera intesa come un mezzo
isolato di “espressione di sé”. Per non accondiscendere alla tendenza delle
forze economiche, spesso si sentono costretti a enfatizzare la loro
separatezza no a diventare eccentrici. Di conseguenza i prodotti artistici
assumono in misura ancora maggiore l’aspetto di qualcosa di indipendente
ed esoterico.
Se si prende nel suo complesso l’azione di tutte queste forze, ecco allora
che le condizioni che determinano lo iato che in genere esiste tra
produttore e consumatore nella società moderna riescono a creare anche
un abisso tra esperienza normale ed esperienza estetica. Da ultimo, a
testimoniare questo abisso accettato come se fosse normale, abbiamo le
loso e dell’arte che la pongono in una regione disabitata da ogni altra
creatura, e che enfatizzano oltre ogni ragionevolezza il carattere
meramente contemplativo dell’estetico. Ad accentuare la separazione
interviene la confusione dei valori. Elementi marginali, come il piacere di
collezionare, di esibire, di possedere e di apparire, si spacciano per valori
estetici. Ciò in uisce sulla critica. Si plaude molto lo stupore che segue
all’apprezzamento e ci si compiace per le glorie della bellezza trascendente
dell’arte senza prendere in grande considerazione la capacità di percepire
concretamente in maniera estetica.
Il mio scopo, comunque, non è di impegnarmi in un’interpretazione
economica della storia delle arti, e tanto meno sostenere che le condizioni
economiche sono rilevanti invariabilmente o direttamente per la
percezione e la fruizione, o anche per l’interpretazione di singole opere
d’arte. Vorrei invece mostrare come le teorie che isolano l’arte e la sua
valutazione ponendole in un regno loro proprio, separato da altre modalità
d’esperienza, non sono intrinseche all’argomento della ricerca ma sorgono
a causa di speci che condizioni estrinseche. Essendo radicate nelle
istituzioni e nelle consuetudini di vita, queste condizioni sono davvero
ef caci nella misura in cui operano inconsciamente. Ecco perché il teorico
crede che siano radicate nella natura delle cose. Tuttavia l’in uenza di
queste condizioni non è circoscritta alla teoria. Come ho già mostrato,
agisce in profondità sulla vita pratica in quanto allontana percezioni
estetiche che sono ingredienti necessari della felicità, oppure le riduce al
livello di ef mere eccitazioni piacevoli compensatorie.
Anche per i lettori che sono orientati negativamente verso ciò che è stato
detto, le implicazioni delle affermazioni fatte possono essere utili per
de nire la natura del problema: quello di ripristinare la continuità
dell’esperienza estetica con i processi normali del vivere. Non si favorisce
la comprensione dell’arte e del suo ruolo nella civiltà se si comincia
tessendo le lodi dell’arte, né se all’inizio ci si occupa esclusivamente di
grandi opere d’arte riconosciute come tali. Si arriverà alla comprensione
messa alla prova dalla teoria deviando dalla strada diretta; ritornando
all’esperienza del corso ordinario delle cose per scoprire la qualità estetica
che possiede tale esperienza. La teoria può partire con e da opere d’arte
riconosciute solo quando l’estetico è già isolato, o solo quando le opere
d’arte sono messe in una nicchia separata invece di essere celebrazioni,
riconosciute come tali, delle cose dell’esperienza comune. Anche
un’esperienza rozza, se è autenticamente un’esperienza, è più adatta a
fornire un indizio sulla natura intrinseca dell’esperienza estetica di quanto
lo sia un oggetto già separato da ogni altra modalità d’esperienza.
Seguendo questo indizio possiamo scoprire come l’opera d’arte sviluppi e
accentui ciò che è tipicamente valido nelle cose di cui godiamo ogni
giorno. E si vedrà come il prodotto dell’arte scaturisca da queste ultime
una volta che si sia espresso il pieno signi cato dell’esperienza comune,
così come le tinture vengono fuori dal carbon fossile dopo aver subito un
trattamento speciale.
Esistono già molte teorie relative all’arte. Se c’è una giusti cazione del
fatto che si proponga ancora un’altra loso a dell’estetica, bisogna trovarla
in una nuova modalità d’approccio. È facile procedere combinando e
permutando teorie già esistenti se se ne ha l’inclinazione. Ma, secondo me,
il problema con le teorie esistenti è che partono da una
compartimentazione prestabilita, o da una concezione dell’arte che la
“spiritualizza” al di fuori della connessione con gli oggetti dell’esperienza
concreta. L’alternativa a tale spiritualizzazione non è, comunque, la
svalutazione e la materializzazione listea delle opere dell’arte bella, ma
una concezione che sveli il modo in cui queste opere idealizzano qualità
trovate nell’esperienza comune. Se le opere d’arte fossero subito poste in
un contesto umano già dal momento della considerazione a livello
popolare, esse susciterebbero molto più interesse di quel che accade
quando ottengono consenso generale teorie basate sull’idea dell’arte come
nicchia.
Una concezione dell’arte bella che cominci dalla sua connessione con
qualità colte nell’esperienza ordinaria sarà in grado di individuare le forze
che favoriscono la normale evoluzione delle comuni attività umane in
elementi di valore estetico. Sarà anche in grado di mettere in rilievo quelle
condizioni che ne arrestano la crescita naturale. Chi scrive di teoria estetica
spesso pone la questione se l’estetica loso ca possa aiutare a coltivare
l’apprezzamento estetico. La questione rientra nella teoria generale della
critica che, a mio parere, non riesce ad assolvere pienamente al proprio
compito se non indica che cosa cercare e che cosa trovare in oggetti
estetici concreti. Ma in ogni caso si può senz’altro dire che una loso a
dell’arte è sterile nché non rende consapevoli della funzione dell’arte in
rapporto ad altre modalità d’esperienza, nché non indica perché questa
funzione è svolta in modo talvolta inadeguato, e nché non suggerisce
quali sono le condizioni in base alle quali il compito verrebbe assolto con
successo.
Il confronto tra l’emergere delle opere d’arte dalle esperienze comuni e il
raf nare materiali grezzi trasformandoli in prodotti apprezzabili, può
sembrare a qualcuno inopportuno, se non addirittura un tentativo di
ridurre le opere d’arte al rango di merci confezionate per scopi
commerciali. Il punto è, però, che nessuna dose di elogi estatici per opere
compiute può di per sé aiutare a comprendere o a generare tali opere. Si
può godere dei ori senza conoscere le interazioni tra suolo, aria, umidità e
semi di cui sono il risultato. Ma i ori non possono essere compresi senza
prendere in considerazione proprio queste interazioni – e una teoria ha a
che fare con la comprensione. La teoria concerne la scoperta della natura
della produzione di opere d’arte e della loro fruizione nella percezione.
Come accade che il quotidiano far cose si trasforma in quella forma di fare
che è genuinamente artistica? Come accade che il nostro quotidiano
godere di scene e situazioni si evolve nella peculiare soddisfazione che
accompagna l’esperienza enfaticamente estetica? Queste sono le domande
a cui deve rispondere una teoria. Le risposte non si trovano nché non
siamo disposti a rintracciare i germi e le radici in elementi d’esperienza che
correntemente non reputiamo estetici. Dopo aver scoperto questi semi
attivi, possiamo seguire il corso della loro trasformazione nelle forme
supreme dell’arte perfetta e raf nata.
È banale affermare che non possiamo dirigere, se non accidentalmente,
la crescita e il orire delle piante, per quanto ci attraggano e ci piacciano,
senza comprenderne le condizioni causali. Credo sia egualmente banale
affermare che la comprensione estetica – in quanto distinta dal godimento
puramente personale – deve partire dal suolo, dall’aria e dalla luce grazie a
cui nascono cose esteticamente degne d’ammirazione. E queste condizioni
sono le condizioni e i fattori che rendono compiuta un’esperienza comune.
Più riconosciamo questo fatto, più ci troveremo di fronte a un problema
anziché a una soluzione nale. Se in ogni esperienza normale è implicita
una qualità artistica ed estetica, in che modo potremo spiegare come e
perché essa di solito non riesce a diventare esplicita? Perché accade che ai
più l’arte sembri l’incursione nell’esperienza da un paese straniero, e
l’estetico sinonimo di qualcosa di arti ciale?
Non è possibile rispondere a queste domande né seguire come l’arte si
sviluppa dall’esperienza quotidiana nché non si ha un’idea chiara e
coerente di ciò che si intende quando si parla di “esperienza normale”.
Fortunatamente la strada per arrivare a tale idea è aperta e ben segnata. La
natura dell’esperienza è determinata dalle condizioni essenziali della vita.
Malgrado sia differente dall’uccello e dall’animale, l’uomo condivide con
essi funzioni vitali basilari e deve compiere il medesimo adattamento di
fondo per proseguire nel suo processo di vita. Avendo gli stessi bisogni
vitali, l’uomo trae dai suoi antenati animali i mezzi con cui respira, si
muove, guarda e ascolta, e anche il cervello con cui coordina i suoi sensi e i
suoi movimenti. Gli organi con cui si mantiene in essere non sono
esclusivamente suoi, ma si devono alle lotte e ai successi di una lunga linea
di discendenza animale.
Per fortuna una teoria relativa alla posizione dell’estetico nell’esperienza
non si deve perdere in dettagli minuti se parte dall’esperienza nella sua
forma elementare. È suf ciente una trattazione di massima. La prima
considerazione importante è che la vita si sviluppa in un ambiente; non
solo in esso, ma a causa sua, interagendo con esso. Nessuna creatura vive
solo sotto la propria pelle; i suoi organi sottocutanei sono mezzi per
connettersi con ciò che si trova al di là della sua cornice corporea, e a cui
per vivere essa si deve conformare, adattandosi e difendendosi ma anche
conquistandolo. In ogni momento la creatura vivente è esposta ai pericoli
che provengono dall’ambiente circostante, e in ogni momento essa deve
ricorrere a qualcosa nel suo ambiente circostante per soddisfare i propri
bisogni. Il corso e il destino di un essere vivente sono vincolati ai suoi
scambi con il suo ambiente, in modo non estrinseco bensì assolutamente
intrinseco.
Il ringhio di un cane accovacciato sopra il suo cibo, il suo guaito quando
è perso e solo, il suo scodinzolare al ritorno dell’amico umano, sono
espressioni dell’implicazione di un essere vivente in un medium naturale
che include l’uomo insieme agli animali che ha addomesticato. Ogni
bisogno, la voglia di aria fresca come quella di cibo, è una carenza che
denota almeno un’assenza temporanea di adattamento adeguato con
l’ambiente circostante. Ma è anche una richiesta, un tendere la mano verso
l’ambiente per colmare le lacune e ripristinare l’adattamento stabilendo
almeno un equilibrio temporaneo. La vita stessa consiste di fasi in cui
l’organismo perde il passo della marcia delle cose circostanti e poi torna
all’unisono con essa – o attraverso uno sforzo, o per un qualche caso
fortunato. E in una vita in crescita il ripristino non è mai il ritorno a uno
stato precedente, poiché essa è arricchita dallo stato di sperequazione e
resistenza attraverso il quale è dovuta passare con successo. Se la discrasia
tra organismo e ambiente è troppo ampia, la creatura muore. Se la sua
attività non è sollecitata da una temporanea alienazione, essa non fa che
sussistere. La vita cresce quando una momentanea aritmìa comporta una
transizione verso un equilibrio più ampio delle energie dell’organismo con
quelle delle condizioni sotto cui esso vive.
Queste ovvietà biologiche sono qualcosa di più che luoghi comuni;
giungono alle radici dell’estetico nell’esperienza. Il mondo è pieno di cose
che sono indifferenti o addirittura ostili alla vita; gli stessi processi
mediante cui la vita si conserva tendono a farla espellere dal suo ambiente
circostante. Eppure se la vita continua, e se continuando si espande,
vengono sopraffatti fattori di opposizione e di con itto, che vengono
trasformati in aspetti differenziati di una vita di maggior potenza e
signi catività. Ha effettivamente luogo il prodigio di ciò che è organico,
vitale: l’adattamento per espansione, anziché per contrazione e
sistemazione passiva. Vi sono qui, in germe, equilibrio e armonia ottenuti
mediante il ritmo. L’equilibrio si stabilisce non in maniera meccanica e
inerte, ma muovendo da un tensione e per sua causa.
In natura, anche al di sotto del livello della vita, c’è qualcosa di più che
mero usso e cambiamento. Si giunge alla forma ogni volta che si arriva a
un equilibrio stabile, sebbene in movimento. I cambiamenti sono
interdipendenti e si sostengono l’uno con l’altro. Ovunque vi sia questa
coerenza c’è resistenza. L’ordine non è imposto dall’esterno ma risulta
dalle relazioni di interazioni armoniose che hanno tra loro alcune energie.
Ed essendo attivo (non qualcosa di statico poiché estraneo a ciò che
succede) l’ordine sviluppa se stesso. Esso nel suo movimento equilibrato
nisce per coinvolgere un numero sempre più grande di mutamenti.
Non si può che ammirare l’ordine in un mondo costantemente
minacciato dal disordine – in un mondo in cui le creature viventi possono
continuare a vivere solo traendo vantaggio da qualunque ordine esista
intorno a loro, incorporandolo in loro stesse. In un mondo come il nostro,
ogni volta che qualsiasi creatura vivente che acquisisca sensibilità incontra
un ordine congruo attorno a sé lo saluta con favore reagendovi con un
sentimento d’armonia. Infatti, solo quando un organismo prende parte alle
relazioni ordinate del suo ambiente si garantisce la stabilità che è
essenziale al vivere. E quando la partecipazione giunge dopo una fase di
scompiglio e di con itto, essa porta con sé i germi di una perfezione simile
all’estetico.
L’alternanza tra perdita dell’integrazione con l’ambiente e ripristino
dell’unione non solo permane nell’uomo, ma con lui diventa consapevole;
le condizioni di questa alternanza sono il materiale con cui egli dà forma
agli scopi. L’emozione è il segno cosciente di una frattura, attuale o
incombente. La disarmonia è l’occasione che spinge alla ri essione. Il
desiderio del ripristino dell’unione trasforma la mera emozione in interesse
per alcuni oggetti in quanto condizioni per la realizzazione dell’armonia.
Quando si realizza l’armonia, il materiale della ri essione è incorporato
negli oggetti come loro signi cato. Poiché l’artista si cura in modo
particolare della fase dell’esperienza in cui si raggiunge l’unione, egli non
rifugge i momenti di resistenza e di tensione. Piuttosto li coltiva, non per
loro stessi ma per le loro potenzialità, portando a viva coscienza
un’esperienza che è uni cata e totale. In contrasto con chi ha uno scopo
estetico, l’uomo di scienza è interessato a problemi e situazioni in cui è
marcata la tensione tra il materiale dell’osservazione e il pensiero.
Sicuramente egli ha a cuore la soluzione di questi problemi. Ma non si
ferma a ciò; passa ad un altro problema impiegando una soluzione
conseguita solo come gradino da cui avviare ulteriori indagini.
La differenza tra l’estetico e l’intellettuale è così una differenza relativa al
luogo in cui cade l’accento nel ritmo costante che caratterizza l’interazione
della creatura vivente con il suo ambiente circostante. La materia ultima di
entrambi gli accenti nell’esperienza è la stessa, come è la stessa anche la
loro forma generale. La strana idea per cui un artista non pensa e un
ricercatore scienti co non fa che pensare deriva dal fatto di prendere una
differenza di cadenza e di accento per una differenza di genere. Il
pensatore ha il suo momento estetico quando le sue idee cessano di essere
mere idee e diventano i signi cati incarnati di oggetti. L’artista ha i suoi
problemi e pensa mentre è all’opera. Ma il suo pensiero prende corpo più
immediatamente nell’oggetto. Vista la relativa lontananza del suo ne, chi
opera scienti camente si serve di simboli, parole e segni matematici.
L’artista svolge il proprio pensiero negli stessi media qualitativi in cui
lavora, e i termini si trovano così vicini all’oggetto che sta producendo che
si fondono direttamente in esso.
L’animale vivente non deve proiettare emozioni negli oggetti di cui fa
esperienza. La natura è gentile e odiosa, dolce e scontrosa, irritante e
confortevole, molto prima di essere quali cata matematicamente o di
essere addirittura una congerie di qualità “secondarie” come i colori e le
relative sembianze. Anche parole come lungo e corto, pieno e vuoto,
implicano ancora per tutti, tranne che per coloro che sono specializzati sul
piano intellettuale, una connotazione morale ed emotiva. Il dizionario può
informare chiunque lo consulti che il primo uso di parole come dolce e
amaro non serviva a denotare qualità sensoriali come tali, ma a distinguere
le cose in favorevoli e ostili. Come potrebbe essere diversamente?
L’esperienza diretta viene dalla interazione reciproca tra natura e uomo. In
questa interazione l’energia umana si raccoglie, viene liberata, tenuta a
freno, ostacolata e resa vincente. Ci sono battiti ritmici di carenza e
soddisfazione, impulsi al fare e all’essere trattenuti dal fare.
Ogni interazione che genera stabilità e ordine nel usso vorticante del
cambiamento è ritmo. Ci sono usso e ri usso, sistole e diastole:
mutamento ordinato. Quest’ultimo si muove entro dei con ni.
Oltrepassare i limiti posti signi ca distruzione e morte, da cui peraltro
vengono creati nuovi ritmi. Quando si colgono i cambiamenti in maniera
proporzionata si stabilisce un ordine che è compaginato spazialmente e
non soltanto temporalmente: come le onde del mare, come le creste di
sabbia dove le onde sono giunte nel loro uire e ri uire, come la bianca
nuvoletta frastagliata e quella densa e scura. Il contrasto tra mancanza e
pienezza, tra lotta e successo, dell’adattamento che segue a una irregolarità
che è stata vinta, costituisce il gioco drammatico che unisce azione,
sentimento e signi cato. Ne derivano un equilibrio e controequilibrio che
non sono né statici né meccanici. Essi esprimono una forza che è intensa
perché viene misurata dal suo vincere una resistenza. Gli oggetti
circostanti servono e non servono.
Ci sono due tipi di mondi possibili in cui l’esperienza estetica non
avrebbe luogo. In un mondo di mero usso, il mutamento non sarebbe
progressivo; non si muoverebbe verso una conclusione. Non ci sarebbero
stabilità e quiete. Egualmente, però, è vero che un mondo compiuto,
nito, non avrebbe elementi di incertezza e di crisi e non offrirebbe
opportunità per una soluzione. Dove ogni cosa è già compiuta non c’è
compimento. Ci pre guriamo con piacere il Nirvana e una paradisiaca
felicità uniforme solo perché li proiettiamo sullo sfondo del nostro mondo
presente ricco di pressioni e con itti. È perché il mondo concreto, quello
in cui viviamo, è una combinazione di movimento e punti di vertice, di
fratture e ri-uni cazioni, che l’esperienza di una creatura vivente può
essere dotata di qualità estetica. L’essere vivente ricorsivamente smarrisce e
ristabilisce l’equilibrio con il suo ambiente circostante. Il momento di
passaggio dalla perturbazione all’armonia è il momento di una vita più
intensa. In un mondo compiuto non si potrebbero distinguere sonno e
veglia. In un mondo interamente perturbato ci sarebbero condizioni con
cui non si potrebbe neppure lottare. In un mondo fatto secondo il modello
del nostro i momenti di soddisfazione punteggiano l’esperienza con
intervalli di cui si gode ritmicamente.
L’armonia interna si raggiunge solo quando si scende in qualche modo a
patti con l’ambiente. Quando accade ciò su una base qualsiasi che non sia
“oggettiva”, l’armonia è illusoria – e in casi estremi giunge alla follia.
Fortunatamente grazie alla varietà presente nell’esperienza, i patti vengono
stipulati in molti modi – modi alla n ne determinati da un interesse
selettivo. Alcuni piaceri possono veri carsi per contatto e stimolazione
casuale; tali piaceri non sono da disprezzare in un mondo pieno di dolore.
Ma felicità e gioia sono un altro tipo di cose. Esse nascono per una
soddisfazione che arriva no alle profondità del nostro essere –
soddisfazione che è adattamento del nostro intero essere alle condizioni
dell’esistenza. Nel processo del vivere il raggiungimento di un periodo di
equilibrio è al tempo stesso l’avvio di una nuova relazione con l’ambiente,
che porta con sé il potenziale di nuovi adattamenti da realizzare lottando.
Il momento del perfezionamento è anche il momento in cui si ricomincia.
Ogni tentativo di perpetuare al di là dei suoi estremi il piacere che si
raggiunge nel momento della soddisfazione e dell’armonia, costituisce un
isolamento dal mondo. Quindi esso rivela abbassamento e perdita di
vitalità. Ma, attraverso le fasi della perturbazione e del con itto, si pone
qui la memoria inveterata di una soggiacente armonia, il cui senso
tormenta la vita come il senso di essere fondata su una roccia.
I mortali sono per la maggior parte consapevoli che spesso si veri ca una
spaccatura tra la loro vita presente e il loro passato e futuro. Pertanto il
passato li opprime; invade il presente con un senso di rammarico, di
opportunità non sfruttate, e di conseguenze che vorremmo annullate. Esso
poggia sul presente come qualcosa di opprimente anziché essere una
riserva di risorse grazie a cui avanzare con ducia. Ma la creatura vivente si
appropria del suo passato; può conciliarsi addirittura con le sue ottusità
usandole come moniti che fanno aumentare la cautela presente. Invece di
cercare di vivere di quel che può essere stato ottenuto nel passato, utilizza i
successi passati per dare forma al presente. Ogni esperienza vivente deve la
propria ricchezza a ciò che Santayana8 ha felicemente chiamato «taciti
riverberi»9.
Per l’essere pienamente in vita il futuro non è minaccia ma promessa;
esso avvolge il presente come un alone. Consiste di possibilità che sono
sentite come patrimonio di quel che è ora e qui. Nella vita che è veramente
vita tutte le cose si sovrappongono e si fondono. Ma troppo spesso noi
viviamo paventando ciò che può portarci il futuro e siamo divisi al nostro
interno. Anche quando non siamo esageratamente ansiosi, noi non
godiamo il presente perché lo subordiniamo a ciò che è assente. A causa
della frequenza di questo trascurare il presente per il passato e il futuro, i
periodi felici di un’esperienza che ora è compiuta poiché assorbe in sé
memorie del passato e anticipazioni del futuro niscono per costituire un
ideale estetico. Solo quando il passato cessa di af iggere e le anticipazioni
del futuro non turbano, un essere risulta unito interamente con il suo
ambiente e quindi pienamente in vita. L’arte celebra con particolare
intensità i momenti nei quali il passato rafforza il presente e nei quali il
futuro è una sollecitazione che ravviva ciò che è ora.
Per capire le fonti dell’esperienza estetica è pertanto necessario prendere
in considerazione la vita animale al di sotto del gradino dell’uomo. Le
azioni della volpe, del cane e del tordo possono almeno servire a ricordare
e a simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo quando
il lavoro è mestiere e il pensiero ci isola dal mondo. L’animale vivente è
pienamente presente, tutto qui, in tutti i suoi atti: nel suo sguardo
dif dente, nel suo ne annusare, nel suo drizzare improvvisamente gli
orecchi. Tutti i sensi sono egualmente sul “chi vive”. A guardarlo si vede
che il moto si fonde nel senso e il senso nel moto – costituendo quella
grazia animale con cui è così dif cile competere per l’uomo. Ciò che la
creatura vivente trattiene del passato e ciò che si aspetta dal futuro
operano come direzioni nel presente. Il cane non è mai pedante né
saccente; infatti queste cose sorgono solo quando il passato è staccato nella
coscienza dal presente e diventa un modello da copiare o un magazzino a
cui attingere. Il passato assimilato nel presente procede, spinge in avanti.
C’è molto di sciocco nella vita del selvaggio. Ma quando il selvaggio è
bene in vita, è un buon osservatore del mondo intorno a lui e ben teso con
energia. Quando osserva quel che si agita attorno a lui è lui stesso agitato.
La sua osservazione è sia azione che si prepara, sia previsione del futuro. È
attivo con tutto il suo essere quando guarda e ascolta così come quando
insegue la sua preda o indietreggia di soppiatto davanti a un nemico. I suoi
sensi stanno a guardia del pensiero immediato e sono gli avamposti
dell’azione, non già, come sono spesso per noi, meri sentieri lungo i quali
si raccoglie materiale da metter via per una possibilità differita e remota.
Solo l’ignoranza ci induce quindi a supporre che una connessione
dell’arte e della percezione estetica con l’esperienza comporti la
diminuzione della loro signi catività e della loro dignità. L’esperienza,
nella misura in cui è esperienza, è vitalità intensi cata. Anziché riferirsi a
un essere chiuso entro i suoi propri privati sentimenti e sensazioni,
comporta un commercio attivo e vigile con il mondo; al suo culmine
comporta una completa compenetrazione tra sé e il mondo degli oggetti e
degli eventi. Anziché comportare la resa a capriccio e disordine, fornisce la
nostra unica dimostrazione di una stabilità che non è stagnazione, ma è
ritmica e in evoluzione. In quanto soddisfazione di un organismo nelle sue
lotte e nei suoi successi in un mondo di cose, l’esperienza è arte in germe.
Anche nelle sue forme rudimentali essa contiene la promessa di quella
percezione piacevole che è l’esperienza estetica.
2 – La creatura vivente e le “cose eteree”10

Perché il tentativo di connettere le cose ideali e più elevate


dell’esperienza con le radici vitali di base viene considerato così spesso un
tradimento della loro natura e una negazione del loro valore? Perché si è
restii a mettere in connessione le alte realizzazioni dell’arte bella con la vita
comune, la vita che condividiamo con tutte le creature viventi? Perché si
pensa alla vita come a una faccenda di bassi istinti, o al più come a
qualcosa che si risolve in sensazioni volgari, sempre sul punto di degradare
dal suo livello migliore a quello della libidine e della brutale crudeltà? Per
rispondere in modo esauriente a tale domanda sarebbe necessario scrivere
una storia della morale in cui mettere in rilievo le condizioni che hanno
determinato il disprezzo per il corpo, la paura dei sensi e l’opposizione tra
carne e spirito.
Un aspetto di questa storia è talmente rilevante per il nostro problema
che dobbiamo prestargli attenzione almeno di sfuggita. La vita
istituzionale dell’umanità è caratterizzata dalla disorganizzazione. Questo
disordine spesso si camuffa prendendo la forma di una divisione statica in
classi, che viene assunta come l’essenza stessa dell’ordine nella misura in
cui è tanto ssa e rispettata da non generare aperti con itti. La vita è
suddivisa in compartimenti, e i compartimenti istituzionalizzati sono
classi cati come alti e bassi; i rispettivi valori come profani e spirituali,
materiali e ideali. Gli interessi sono messi in relazione tra loro in modo
esteriore e meccanico attraverso un sistema di controlli ed equilibri. Dal
momento che religione, morale, politica, economia hanno un
compartimento proprio entro cui è opportuno che ciascuna resti, anche
l’arte deve avere il suo regno peculiare e privato. La compartimentazione
delle attività e degli interessi provoca la separazione di quel genere di
attività comunemente chiamata “pratica” dal capire, dell’immaginazione
dall’agire concreto, dello scopo signi cativo dall’opera, dell’emozione da
pensiero e azione. Ognuno di questi elementi ha, egualmente, il suo
proprio posto che deve rispettare. Per questo chi disegna l’anatomia
dell’esperienza suppone che tali divisioni ineriscano alla costituzione stessa
della natura umana.
Per gran parte della nostra esperienza, così come essa viene
concretamente vissuta secondo le attuali condizioni economiche e
giuridico istituzionali, è n troppo vero che persistono queste separazioni.
Solo occasionalmente nella vita di molti i sensi sono pregni del sentimento
che sorge con la profonda realizzazione di signi cati intrinseci. Riceviamo
sensazioni come stimoli meccanici o eccitazioni nervose senza avvertire la
realtà che vi è dentro o dietro: in gran parte della nostra esperienza i nostri
vari sensi non si uniscono per raccontare una storia comune ed estesa.
Vediamo senza sentire; udiamo, ma solo un racconto che è di seconda
mano perché non viene corroborato dalla visione. Tocchiamo, ma il
contatto resta tangenziale poiché non si fonde con le qualità sensoriali che
vanno al di sotto della super cie. Usiamo i sensi per suscitare passioni ma
non per soddisfare l’interesse della conoscenza, e non perché questo
interesse non sia potenzialmente presente nell’esercizio del senso, ma
perché assecondiamo condizioni di vita che costringono i sensi a rimanere
un’eccitazione di super cie. Si attribuisce prestigio a chi usa la propria
mente senza il concorso del corpo e a chi agisce per procura controllando i
corpi e il lavoro altrui.
In tali condizioni il senso e la carne vengono giudicati negativamente. Il
moralista avverte però l’intima connessione del senso con il resto del nostro
essere in modo più genuino dello psicologo e del losofo di professione,
sebbene secondo una direzione opposta ai fatti potenziali del nostro vivere
in relazione con l’ambiente. Psicologo e losofo sono stati talmente
ossessionati di recente dal problema gnoseologico da trattare le
“sensazioni” come meri elementi della conoscenza. Il moralista sa che il
senso è alleato di emozione, istinto e appetito. Per questo denuncia la
cupidigia dell’occhio come un momento di resa dello spirito alla carne.
Egli identi ca sensorialità e sensualità, e anche sensualità e lascivia. La sua
teoria morale è contorta, ma almeno lui è consapevole del fatto che
l’occhio non è un telescopio imperfetto progettato per la ricezione
intellettuale del materiale al ne di generare conoscenza di oggetti distanti.
“Senso” copre un ampio spettro di contenuti: ciò che è sensoriale,
sensazionale, sensitivo, sensibile e sentimentale, e inoltre ciò che è
sensuale. Include quasi ogni cosa, dal mero shock sico ed emotivo no al
senso vero e proprio – cioè no al signi cato delle cose presenti
nell’esperienza immediata. Ciascuno di questi termini si riferisce a qualche
dimensione e a qualche aspetto reale della vita di una creatura organica,
dal momento che la vita si realizza passando attraverso gli organi di senso.
Ma in quanto signi cato incarnato tanto direttamente nell’esperienza da
esserne il signi cato dispiegato, “senso” indica solo l’atto signi cativo in
cui si esprime la funzione degli organi sensoriali pienamente realizzati. I
sensi sono gli organi mediante i quali la creatura vivente partecipa
direttamente ai processi del mondo che le sta intorno. In tale
partecipazione, per la creatura i vari prodigi e splendori di questo mondo
divengono concreti nelle qualità di cui fa esperienza. Questo materiale non
si può contrapporre all’azione, poiché l’apparato motorio e la stessa
“volontà” sono i mezzi con cui si porta avanti e si guida tale
partecipazione. Né lo si può contrapporre all’“intelletto”, poiché la mente
è il mezzo con cui si rende feconda la partecipazione mediante i sensi, con
cui i signi cati e i valori vengono estratti, conservati e messi ancora a
disposizione nell’interazione tra la creatura vivente e il suo ambiente
circostante.
L’esperienza è il risultato, il segno e la ricompensa di quella interazione
tra organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si trasforma
in partecipazione e comunicazione. Poiché gli organi sensoriali, con il
relativo apparato motorio che vi è connesso, sono i mezzi di questa
partecipazione, ogni e qualsiasi loro indebolimento, sia pratico che teorico,
è al tempo stesso effetto e causa di un’esperienza-di-vita ridotta e offuscata.
Le opposizioni tra mente e corpo, anima e materia, spirito e carne, hanno
tutte origine fondamentalmente nella paura di ciò che la vita può
produrre. Sono segni di contrazione e arretramento. Quindi il pieno
riconoscimento della continuità di organi, bisogni e istinti di base tra la
creatura umana e i suoi antenati animali non implica una necessaria
riduzione dell’uomo al livello delle bestie. Al contrario, permette di
descrivere il livello elementare dell’esperienza umana su cui si erge la
sovrastruttura dell’esperienza mirabile che contraddistingue l’uomo. Ciò
che è peculiare per l’uomo gli permette di scendere al di sotto del livello
delle bestie. Al tempo stesso gli permette di portare a nuovi e inediti vertici
quella unità di senso e istinto, di cervello occhio e orecchio, che trova
esempio nella vita animale, impregnandola dei signi cati consapevoli che
derivano dalla comunicazione e dall’espressione intenzionale.
L’uomo eccelle per la complessità e la minuziosità delle differenziazioni.
Proprio questo fatto rende necessarie relazioni molto più ampie e de nite
tra le parti costitutive del suo essere. Per quanto siano importanti le
distinzioni e le relazioni che in tal modo diventano possibili, la cosa non
nisce qui. Sono più ampie le situazioni di resistenza e tensione, sono più
numerosi gli schemi di sperimentazione e invenzione, è quindi più
innovativa l’azione, e vi è maggiore ampiezza e profondità nel capire e un
incremento di acutezza nel sentire. Quando un organismo cresce in
complessità, si modi cano e si prolungano le alternanze ritmiche di lotta e
soddisfacimento nelle sue relazioni con l’ambiente, nendo per includere
al loro interno una varietà in nita di sotto-ritmi. I progetti di vita diventano
più ampi e più ricchi. La soddisfazione è più forte e ha sfumature più
sottili.
Lo spazio diventa così qualcosa di più di un vuoto in cui vagare,
punteggiato qua e là di cose pericolose e di cose che soddisfano il
desiderio. Diventa una scena ampia e delimitata in cui si ordina la
molteplicità di atti compiuti e subiti in cui l’uomo è impegnato. Il tempo
smette di essere o quel usso senza ne e uniforme, o quella successione di
punti istantanei che alcuni loso hanno detto essere. Anch’esso è il
medium organizzato e organizzante del usso e ri usso ritmico di un
impulso in attesa, di un movimento in avanti e ritratto, di resistenza e
sospensione, che soddisfa e consuma. È un dar ordine a momenti di
crescita e di maturazione – come ha detto James, si impara a pattinare in
estate dopo aver cominciato in inverno11. Il tempo in quanto
organizzazione nel cambiamento è crescita, e crescita signi ca che una
serie composita di cambiamenti prende il posto di intervalli di pausa e
quiete, di conclusioni che diventano i punti iniziali di nuovi processi di
sviluppo. Come il suolo, la mente diviene fertile rimanendo a riposo nché
non si ha una nuova oritura improvvisa.
Quando il bagliore di un fulmine illumina un paesaggio buio si
riconoscono per un momento degli oggetti. Ma il riconoscimento non è di
per sé un mero punto nel tempo. È la culminazione focale di processi di
maturazione lunghi e lenti. È la manifestazione della continuità di
un’esperienza ordinata temporalmente in un istante di vertice improvviso e
discreto. Esso sarebbe privo di signi cato se venisse isolato, così come la
tragedia di Amleto sarebbe priva di signi cato se fosse ridotta a un singolo
verso o a una singola parola senza contesto. La frase «il resto è silenzio»12 è
invece in nitamente pregnante in quanto è la conclusione di una tragedia
rappresentata in un certo arco di tempo; così può essere la percezione
momentanea di una scena naturale. La forma presente nelle belle arti
consiste nel saper rendere chiaro ciò che è implicato nell’organizzazione
dello spazio e del tempo pre gurata in ogni corso in cui si sviluppa
un’esperienza-della-vita.
Momenti e luoghi, malgrado la limitazione sica e la ristretta
localizzazione, si caricano accumulando energia nel corso di molto tempo.
Se si torna in un posto dell’infanzia lasciato molti anni prima, il luogo
viene sommerso da un’ondata di memorie e speranze represse. Incontrare
in un paese straniero qualcuno che a casa è una semplice conoscenza può
dare un piacere talmente acuto da far trasalire. Meri riconoscimenti si
veri cano solo quando ci occupiamo di qualcosa di diverso dall’oggetto o
dalla persona che riconosciamo. Ciò segnala o un’interruzione o altrimenti
l’intenzione di usare ciò che viene riconosciuto come mezzo per
qualcos’altro. Vedere, percepire, è più che riconoscere. Non identi ca
qualcosa che è presente sulla base di un passato privo di collegamenti con
esso. Il passato è portato dentro il presente in modo da rendere più ampio
e più profondo il contenuto di quest’ultimo. Si chiarisce qui come la nuda
continuità del tempo esterno si traduca nell’ordine e nell’organizzazione
vitale dell’esperienza. L’identi cazione fa un cenno e passa. Ovvero
de nisce un momento passeggero di per sé, segna un punto morto
nell’esperienza che viene semplicemente aggiunto. Il momento in cui il
processo del vivere in un certo giorno o in una certa ora si riduce a un
etichettare situazioni, eventi e oggetti come “così e così” in mera
successione, segna la cessazione di una vita in quanto esperienza cosciente.
Essenza di quest’ultima sono invece continuità realizzate in una forma
individuale, distinta.
L’arte viene quindi pre gurata nei processi stessi del vivere. Un uccello
costruisce il suo nido e un castoro costruisce la sua diga quando impulsi
organici interni cooperano con materiali esterni così che i primi sono
soddisfatti e gli ultimi sono trasformati raggiungendo un culmine di
appagamento. Possiamo esitare ad applicare la parola “arte” nché
dubitiamo della presenza di un’intenzione guida. Ma ogni scelta
deliberata, ogni intenzione consapevole ha origine da cose eseguite in
passato con organicità facendo interagire energie naturali. Se non fosse
così, l’arte sarebbe edi cata su sabbie mobili, anzi uttuerebbe per aria. Il
contributo peculiare dell’uomo è la consapevolezza delle relazioni che si
trovano in natura. Attraverso la consapevolezza egli converte le relazioni
tra causa ed effetto che si trovano in natura in relazioni tra mezzo e
conseguenza. Più precisamente, la stessa consapevolezza è l’inizio di tale
trasformazione. Quel che era un semplice urto diventa una sollecitazione;
la resistenza diviene qualcosa da usare per modi care l’organizzazione
materiale esistente; semplici abilità diventano mezzi per tradurre in pratica
un’idea. In queste operazioni uno stimolo organico diviene latore di un
signi cato e le risposte motorie sono trasformate in strumenti di
espressione e comunicazione; non sono più meri mezzi di locomozione e
di reazione diretta. Al tempo stesso il sostrato organico resta il fondamento
vivi cante e profondo. Senza le relazioni naturali di causa ed effetto, non
ci sarebbe concezione né invenzione. Senza la relazione sottesa a processi
ritmici di con itto e appagamento nella vita animale, l’esperienza sarebbe
priva di progetto e struttura. Senza organi ereditati dagli antenati animali,
non ci sarebbero meccanismi per realizzare idee e scopi. Le arti primitive
della natura e della vita animale sono il materiale e, grosso modo, il
modello dei successi intenzionali dell’uomo, tanto che chi ha assunto un
punto di vista teleologico ha attribuito un’intenzione consapevole alla
struttura della natura – così come l’uomo, avendo molte attività in comune
con la scimmia, di solito pensa che quest’ultima imiti ciò che fa lui.
L’esistenza dell’arte è la prova concreta di ciò che si è appena affermato
in maniera astratta. È la prova che l’uomo usa i materiali e le energie della
natura con l’intenzione di espandere la propria vita, e che lo fa seguendo
la struttura del proprio organismo – cervello, organi di senso e sistema
muscolare. L’arte è la prova vivente e concreta che l’uomo è capace di
restaurare consapevolmente, e dunque sul piano del signi cato, l’unione di
senso, bisogno, istinto e azione che è caratteristica della creatura vivente.
L’intervento della consapevolezza aggiunge ordine, selettività e
riorganizzazione. Rende quindi le arti in nitamente variabili. Ma il suo
intervento spinge anche col tempo all’idea dell’arte come idea cosciente –
la più grande realizzazione intellettuale nella storia dell’umanità.
La varietà e la perfezione delle arti in Grecia indusse i pensatori a
elaborare un concetto generale di arte e ad abbozzare l’ideale di un’arte
capace in sé di organizzare le attività umane – l’arte della politica e della
morale concepita da Socrate e Platone. Le idee di progetto, piano, ordine,
struttura, scopo emersero distinguendosi dai materiali impiegati nella loro
realizzazione e ponendosi in relazione con essi. La concezione dell’uomo
in quanto essere che usa l’arte divenne al tempo stesso la base per
distinguere l’uomo dal resto della natura e la base per legare l’uomo alla
natura. Quando si rese esplicita la concezione dell’arte quale tratto
distintivo dell’uomo, si credette che, a meno di una ricaduta completa
dell’umanità addirittura al di sotto dello stato selvaggio, la possibilità di
inventare nuove arti sarebbe rimasta, accanto all’uso di arti vecchie,
l’ideale guida del genere umano. Anche se è ancora dif cile ammetterlo a
causa di tradizioni che si sono create prima che fosse riconosciuto
adeguatamente il potere dell’arte, la stessa scienza non è che un’arte
fondamentale che aiuta a generare e utilizzare altre arti13.
È usuale, e da certi punti di vista necessario, distinguere tra arte bella e
arte utile o tecnologica. Ma il punto di vista da cui ciò è necessario è un
punto di vista estrinseco all’opera d’arte in sé. La distinzione usuale si basa
semplicemente sull’accettazione di determinate condizioni sociali esistenti.
Penso che i feticci dello scultore negro venissero considerati estremamente
utili dal suo gruppo tribale, ancora più di lance e indumenti. Ma ora sono
arte bella, e nel ventesimo secolo servono a ispirare il rinnovamento di arti
che si sono sviluppate per convenzioni. Sono però arte bella solo perché
durante il processo di produzione quell’artista anonimo ha vissuto e ha
fatto esperienza con pienezza. Un pescatore può mangiare la sua preda
senza con ciò perdere la soddisfazione estetica di cui ha fatto esperienza
lanciando e tirando la lenza. È questo grado di completezza del vivere
nell’esperienza di fare e di percepire che crea la differenza tra ciò che è
bello o estetico in arte e ciò che non lo è. Di per sé non ha rilievo se la cosa
fatta viene usata, come accade a scodelle, tappeti, indumenti, armi.
Casualmente purtroppo è vero che molti, forse la maggior parte, degli
oggetti e degli utensili oggi prodotti per l’uso non siano autenticamente
estetici. Ma è vero per ragioni che sono estranee alla relazione tra “bello” e
“utile” in quanto tale. Ovunque vi siano condizioni tali da impedire
all’atto produttivo di essere un’esperienza in cui l’intera creatura è viva e
possiede la sua vita con piacere, al prodotto mancherà qualcosa per essere
estetico. A prescindere da quanto sia utile per ni particolari e circoscritti,
esso non sarà utile in ultima istanza – quella di contribuire in maniera
diretta e liberale a una vita che si amplia e diviene più ricca. La storia della
separazione e della forte opposizione nale tra utile e bello è la vicenda di
quello sviluppo industriale ad opera del quale gran parte della produzione
è diventata una forma di vita differita e gran parte del consumo è diventata
un godimento di secondo grado dei frutti del lavoro altrui.
Di solito c’è una reazione ostile alla concezione dell’arte che la connette
alle attività di una creatura vivente nel suo ambiente. L’ostilità ad associare
l’arte bella ai processi normali del vivere è un modo patetico, se non
tragico, di commentare la vita nel suo essere vissuta normalmente. Solo
perché tale vita è così stentata, misera, inerte o pesantemente opprimente,
si accetta l’idea che ci sia un qualche antagonismo intrinseco tra il processo
della vita normale e la creazione e fruizione delle opere delle arti estetiche.
Dopo tutto, anche se “spirituale” e “materiale” sono tra loro separati e
contrapposti, ci devono essere condizioni grazie alle quali l’ideale riesce a
prendere corpo e a essere realizzato – ed è questo tutto ciò che
fondamentalmente signi ca “materia”. La grande diffusione che ha
conosciuto questa opposizione è testimonianza, pertanto, di un’ampia
attivazione di forze che trasformano in carichi oppressivi ciò che poteva
essere un mezzo per dare esecuzione a idee liberali, e rendono gli ideali
vaghe aspirazioni in un’atmosfera incerta e priva di fondamento.
Sebbene l’arte stessa sia la prova migliore dell’esistenza di un’unione
realizzata, e dunque realizzabile, di materiale e ideale, vi sono argomenti
generali a supporto della tesi in questione. Ogni volta che è possibile la
continuità, l’onere della prova è a carico di chi sostiene opposizione e
dualismo. La natura è madre e dimora dell’uomo, anche se talvolta è
matrigna e abitazione ostile. Il fatto che la civiltà perduri e la cultura
continui – e talvolta avanzi – dimostra che le speranze e gli scopi
dell’uomo trovano una base e un supporto nella natura. Come lo sviluppo
di un individuo dall’embrione alla maturità è il risultato dell’interazione tra
organismo e ambiente circostante, così la cultura è il prodotto non di sforzi
compiuti dagli uomini nel vuoto o solo su loro stessi, ma di un’interazione
prolungata e progressiva con l’ambiente. La profondità delle reazioni
suscitate dalle opere d’arte mostra la loro continuità con gli effetti di
questa esperienza persistente. Le opere e le reazioni che evocano sono in
continuità con gli stessi processi del vivere in quanto portati a un felice e
inatteso compimento.
Per quel che concerne l’assorbimento dell’estetico nella natura, cito un
caso che in qualche misura si riscontra in migliaia di persone, e che però
appare importante perché è stato espresso da un artista di prim’ordine
come W. H. Hudson. «Quando non vedo l’erba che vive e cresce, e non
sento le voci degli uccelli e tutti i suoni della campagna, ho l’impressione
di non essere veramente vivo!». E continua dicendo: «[...] Quando certuni
dicono che non hanno trovato il mondo e la vita così piacevoli o
interessanti da amarli, o che aspettano la morte con serenità, sono
propenso a pensare che non siano mai stati veramente vivi e che non
abbiano mai visto con occhi limpidi né il mondo di cui hanno un’idea così
meschina, né tutto ciò che in esso vive – nemmeno un lo d’erba».
L’aspetto mistico dell’intenso abbandono estetico che rende questa
esperienza tanto simile a ciò che i religiosi chiamano comunione estatica,
viene rievocato da Hudson dalla sua adolescenza. Egli parla dell’effetto
che gli fece vedere delle acacie: «Nelle sere di luna, il loro fogliame sfocato
e piumoso prendeva uno strano aspetto canuto che faceva apparire questi
alberi più intensamente vivi degli altri, più consapevoli della mia presenza
e guardinghi nei miei confronti. [...] Per descrivere la sensazione che
provavo in quelle notti di luna tra gli alberi dovrei paragonarla a ciò che
proverebbe una persona se fosse visitata da un essere soprannaturale, se
fosse perfettamente convinta che quello è là, alla sua presenza,
quantunque silenzioso e invisibile, intento a ssarla e a indovinare ogni
suo pensiero»14. Si considera in genere Emerson un pensatore sobrio. Ma
proprio lui, e quando era adulto, disse, in piena sintonia con il passo citato
da Hudson: «Attraversando un campo deserto, tra pozzanghere di neve, al
crepuscolo, sotto un cielo nuvoloso, senza pensare a nulla di
particolarmente positivo, sono stato del tutto preso da ilarità. Lieto n
quasi a provare paura»15.
Non vedo come si possa dar conto della molteplicità di esperienze di tal
sorta (e qualcosa del genere si trova in ogni reazione estetica spontanea e
non forzata) se non sulla base del fatto che nelle relazioni primitive
dell’essere vivente con il suo ambiente circostante vengono messe in
movimento risonanze di disposizioni acquisite che non sono riconducibili
a coscienza distinta o intellettuale. Esperienze di tal genere ci suggeriscono
un’ulteriore considerazione che dà prova di una continuità naturale. Non
c’è limite alla capacità che l’esperienza sensoriale immediata ha di
assorbire al suo interno signi cati e valori che in sé e per sé – ossia in
astratto – sarebbero de niti “ideali” e “spirituali”. La tensione animistica
dell’esperienza religiosa, incarnata nel ricordo di Hudson della sua
adolescenza, è un esempio a un certo livello d’esperienza. E il poetico, in
qualsiasi medium, è sempre strettamente af ne all’animistico. Se poi ci
volgiamo a un’arte che per molti versi è agli antipodi, l’architettura,
vediamo come idee elaborate dapprima forse in una ri essione altamente
tecnica, come quella della matematica, possono prendere corpo
direttamente in forme sensoriali. La super cie sensibile delle cose non è
mai solo una super cie. Si può distinguere una roccia dalla carta
marmorizzata considerando solo la super cie grazie al fatto che la
resistenza al tocco e la solidità dovuta alle pressioni dell’intero sistema
muscolare sono state incorporate nella visione. Il processo non termina con
l’incarnazione di altre qualità sensoriali che danno profondità di signi cato
alla super cie. Nulla di quel che un uomo abbia mai raggiunto con il più
alto volo del pensiero o penetrato con un’indagine inquisitoria è di natura
tale da non poter diventare il cuore e il fulcro del senso.
La stessa parola “simbolo” si usa per designare sia espressioni del
pensiero astratto, come in matematica, sia quelle cose, come la bandiera e
il croci sso, che incarnano un profondo valore sociale e il signi cato di
una fede storica e di un credo teologico. L’incenso, i vetri istoriati, il
rintocco di campane invisibili, le vesti ricamate accompagnano
l’accostamento a ciò che si considera divino. La connessione dell’origine di
molte arti con rituali primitivi diventa più evidente ogni volta che
l’antropologo compie incursioni nel passato. Solo chi è tanto distaccato
dalle esperienze più primitive da perderne il senso nisce col credere che
riti e cerimonie fossero solamente espedienti tecnici per assicurarsi la
pioggia, i gli, i raccolti e la vittoria in battaglia. È vero che avevano questa
funzione magica, ma sicuramente vennero praticati per molto tempo, a
dispetto di ogni fallimento pratico, perché servivano a migliorare
l’esperienza del vivere. I miti furono ben altro che tentativi intellettualistici
dell’uomo primitivo nell’ambito della scienza. Il turbamento davanti a ogni
fatto insolito svolse senza dubbio la sua parte. Ma il piacere per il racconto,
per lo sviluppo e l’interpretazione di una buona storia, ebbe una parte
decisiva allora così come ce l’ha oggi nello sviluppo di mitologie popolari.
L’elemento sensibile diretto – e le emozioni sono modalità sensoriali – non
solo tende ad assorbire tutta la materia dell’ideazione, ma assoggetta e
metabolizza tutto ciò che è meramente intellettuale, anche a prescindere
dalle discipline particolari imposte dall’apparato sico.
L’introduzione del soprannaturale nella fede e la facile regressione n
troppo umana ad esso è più qualcosa che riguarda la vita psichica che
genera opere d’arte che non qualcosa che riguarda tentativi di spiegazione
scienti ca e psicologica. Essa intensi ca il brivido emotivo e sottolinea
l’interesse che accompagna ogni rottura della solita routine. Se l’in uenza
del soprannaturale sul pensiero umano fosse una questione esclusivamente
– o anche prevalentemente – intellettuale, sarebbe relativamente priva di
rilievo. Teologie e cosmogonie hanno fatto presa sull’immaginazione
perché sono state sostenute da processioni solenni, incenso, vesti ricamate,
musica, sfolgorìo di luci colorate, racconti che suscitano meraviglia e
inducono un’ammirazione ipnotica. Sono cioè giunte all’uomo facendo
diretto appello al senso e all’immaginazione sensoriale. Le religioni hanno
per la maggior parte identi cato i propri sacramenti con gli esiti supremi
dell’arte, e le fedi più autorevoli sono state vestite con abiti fastosi e da
cerimonia che danno immediato piacere all’occhio e all’orecchio, e che
evocano forti emozioni di attesa, meraviglia e soggezione. I voli dei sici e
degli astronomi oggi rispondono al bisogno estetico di soddisfare
l’immaginazione anziché a una pretesa rigorosa di dimostrazioni non
emotive utili a un’interpretazione razionale.
Henry Adams ha chiarito che la teologia del Medioevo è una costruzione
che ha il medesimo scopo di cui sono impastate le cattedrali16. In generale
questo medio evo, che di solito si ritiene esprimere l’apice della fede
cristiana nel mondo occidentale, è una dimostrazione del potere che ha il
senso di assorbire le idee spiritualmente più elevate. Musica, pittura,
scultura, architettura, teatro e letteratura erano al servizio della religione
come la scienza e la ricerca. Le arti dif cilmente vivevano al di fuori della
chiesa, e i riti e le cerimonie della chiesa erano arti messe in scena in
condizioni che esercitavano la maggior attrazione emotiva e immaginativa
possibile. Non so infatti cosa potrebbe determinare un abbandono più
profondo in chi guarda e in chi ascolta manifestazioni artistiche della
convinzione che esse siano plasmate con i mezzi necessari per raggiungere
la gloria e la beatitudine eterna.
A questo proposito è utile citare le seguenti parole di Pater: «Il
cristianesimo del medio evo riuscì ad emergere in parte per la sua bellezza
estetica, cosa sentita molto profondamente dai salmogra latini, che per un
solo sentimento morale o spirituale avevano cento immagini sensoriali.
Una passione a cui sono preclusi gli sbocchi genera una tensione nervosa
in cui il mondo sensibile nisce per essere un mondo con una brillantezza
e un rilievo più intensi – tutto quel che è rosso diventa sangue, tutto ciò
che è acqua diventa lacrime. Da qui una sensuosità incontrollata e
convulsa in tutta la poesia del medio evo, in cui le cose della natura
cominciarono ad assumere una insolita sionomia delirante. Il pensiero
medievale aveva un senso profondo delle cose della natura; ma tale senso
non era obiettivo, nessuna fuga reale verso il mondo al di fuori di noi»17.
Nel suo saggio autobiogra co The Child in the House egli generalizza
ciò che è implicito in questo passo. Dice: «anni dopo incontrò loso e che
lo impegnarono molto per riuscire a valutare le proporzioni tra gli elementi
sensoriali e gli elementi ideali nella conoscenza umana, la loro
distribuzione al suo interno; e, secondo il suo schema intellettuale, venne
indotto ad assegnare assai poco al pensiero astratto, e molto al veicolo e
all’occasione del pensiero sul piano sensibile». Quest’ultimo «divenne il
necessario elemento concomitante di ogni percezione delle cose,
suf cientemente reale da avere grande peso e rilievo nell’architettura del
suo pensiero [...]. Divenne sempre meno capace di interessarsi o di
pensare a un’anima se non come anima in un corpo concreto, o di
interessarsi e pensare a un mondo che non fosse quello dove si trovano
acqua e alberi, dove uomini e donne appaiono in un certo modo e si
stringono mani reali»18. L’elevazione dell’ideale al di sopra e al di là del
senso immediato non solo ha fatto sì che esso divenisse esangue e anemico,
ma ha agito, come d’intesa con la mente sensuale, impoverendo e
degradando tutte le cose dell’esperienza diretta.
Nel titolo di questo capitolo mi sono permesso di prendere in prestito da
Keats la parola “etereo” per designare i signi cati e i valori che molti
loso e alcuni critici ritengono inaccessibili al senso per i loro caratteri
spirituali, eterni e universali – esempli cando così il consueto dualismo di
natura e spirito. Vorrei citare ancora le sue parole. L’artista può volgere gli
occhi «al Sole, alla Luna, alla Terra e a ciò che contiene in quanto
materiali con cui formare cose più grandi, cioè cose eteree – cose più
grandi di quelle create dal Creatore stesso». Quando ho usato così Keats
avevo in mente anche come egli identi casse l’atteggiamento dell’artista
con quello della creatura vivente; e non solo nei toni impliciti della sua
poesia, ma nel corso di ri essioni che esprimevano l’idea in parole
esplicite. In una lettera al fratello egli scriveva: «La maggior parte degli
Uomini vivono allo stesso modo istintivo, con lo sguardo sso sui loro ni,
con la stessa brama animale del Falco. Il Falco vuole un Compagno, e così
l’Uomo: guardate come entrambi nello stesso modo si cercano e si
procurano il compagno. Tutti e due vogliono un nido e tutt’e due se lo
cercano nella stessa identica maniera, anche il cibo se lo procurano nello
stesso modo. L’animale nobile, l’Uomo, per il suo piacere fuma la pipa, il
Falco vibra sospeso tra le Nuvole; questa è la sola differenza che c’è tra i
loro piaceri. In questo consiste il Piacere della Vita, per la Mente
speculativa. Vado tra i Campi e colgo di sfuggita un Ermellino e un topo di
campagna che spia tra l’erba appassita, la creatura ha un progetto e gli
brilla negli occhi. Vado tra le case di una città e vedo l’Uomo che si
affretta, verso che cosa? La creatura ha un progetto e gli brilla negli occhi
[...]. Anche qui, sebbene io stesso stia seguendo lo stesso corso istintivo del
più umano degli animali che possiate immaginare, per quanto io sia così
giovane e scriva a caso, e cerchi di afferrare delle particelle di luce in
mezzo a un grande buio, senza sapere le conseguenze di nessuna delle mie
affermazioni e opinioni – tuttavia non potrei essere in questo libero dal
peccato? Non potrebbero esserci delle creature superiori che godono della
grazia anche se istintiva della mia mente, come io godo della vigile
prontezza dell’Ermellino e della vibrante tensione del Cervo? Anche se
una lite per strada è una cosa detestabile, le energie che in essa si
dispiegano sono belle; il più ordinario degli Uomini rivela una sua grazia
anche nella lite. Forse i nostri ragionamenti assumono la stessa tonalità per
una creatura superiore: per quanto sbagliati, forse, sono belli. È proprio di
questo che è fatta la poesia»19. Ci possono essere ragionamenti, ma quando
assumono una forma istintiva, come le forme e i movimenti animali, essi
sono poesia, sono belli; hanno grazia.
In un’altra lettera Keats scrive che Shakespeare era un uomo dotato di
una straordinaria «Capacità Negativa»; un uomo « capace di essere
nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre
dietro ai fatti e alla ragione». A questo riguardo contrappone Shakespeare
al proprio contemporaneo Coleridge, che avrebbe lasciato perdere
un’intuizione poetica circondata da oscurità poiché incapace di
giusti carla intellettualmente; nel linguaggio di Keats, egli non sapeva
accontentarsi di una «quasi-conoscenza»20. Penso che la stessa idea sia
contenuta in una lettera a Bailey, quando dice di «non essere mai riuscito a
capire nora come si possa conoscere la verità di una cosa attraverso un
ragionamento logico […]. Anche il più grande Filosofo deve essere giunto
alla meta del suo cercare solo scartando via via numerose obiezioni?»: il
che in realtà vuol dire chiedersi se anche chi ragiona non debba darsi
delle sue “intuizioni”, di ciò che gli sopravviene nelle sue immediate
esperienze sensoriali ed emotive, anche contro obiezioni che gli presenta la
ri essione. Infatti Keats prosegue dicendo: «una Mente immaginativa
semplice può trovare la propria ricompensa nella ripetizione del suo
Lavoro silenzioso che va avanti senza tregua nello Spirito con bella
Immediatezza»21 – un’osservazione che contiene più psicologia del
pensiero produttivo di molti trattati.
Malgrado il carattere ellittico delle affermazioni di Keats emergono due
punti. Uno è la sua convinzione che i “ragionamenti” hanno un’origine
simile a quella dei movimenti di una creatura selvaggia che va verso la sua
meta, e possono diventare spontanei, “istintivi”, e quando diventano
istintivi sono sensoriali e immediati, poetici. L’altro aspetto della sua
convinzione è il suo credere che nessun “ragionamento” in quanto tale,
ossia se esclude immaginazione e senso, possa raggiungere la verità. Anche
“il più grande Filosofo” compie una scelta di tipo animale per guidare il
proprio pensiero alla sue conclusioni. Seleziona e scarta a seconda di come
procedono i suoi sentimenti immaginativi. La “ragione” al suo vertice non
può giungere a una presa completa e a una certezza autosuf ciente. Deve
ricorrere all’immaginazione – all’incarnarsi delle idee in sensi
emotivamente carichi.
Si è discusso molto su cosa intendesse Keats nei suoi famosi versi:
«Verità è Bellezza». Questo a voi,
sopra la terra, di sapere è dato:
questo, non altro, a voi,
sopra la terra, è bastante sapere22

e su cosa egli intendesse nell’analoga affermazione in prosa: «ciò che


l’Immaginazione coglie come Bellezza deve essere verità»23. Per gran parte
del dibattito si è ignorata la particolare tradizione entro la quale scriveva
Keats e che dava signi cato al termine “verità”. In questa tradizione
“verità” non signi ca mai correttezza di affermazioni intellettuali relative a
cose, ovvero verità in quel suo signi cato che oggi è in uenzato dalla
scienza. Il termine designa la saggezza grazie a cui gli uomini vivono, e in
particolare «la cognizione del bene e del male»24. E nella mente di Keats
era connesso soprattutto alla questione della giusti cazione del bene e del
credere ad esso malgrado l’abbondare di male e distruzione. La “ loso a”
è il tentativo di rispondere razionalmente a tale questione. Il fatto che
Keats creda che nemmeno i loso possano trattare tali questioni senza
dipendere da intuizioni immaginative trova un’espressione autonoma e
positiva nella sua identi cazione della “bellezza” con la “verità” – la
particolare verità che risolve per l’uomo il problema sconcertante della
distruzione e della morte che preoccupò sempre tanto Keats – nel regno
stesso in cui la vita lotta per affermare la propria supremazia. L’uomo vive
in un mondo di congetture, misteri e incertezze. Il “ragionamento” gli è
senz’altro insuf ciente – questa è ovviamente una dottrina insegnata a
lungo da chi era convinto che fosse necessaria una rivelazione divina.
Keats non accetta questo supplemento e surrogato della ragione.
L’intuizione dell’immaginazione deve bastare. «Questo a voi, sopra la
terra, di sapere è dato: questo, non altro, a voi, sopra la terra, è bastante
sapere». Le parole critiche sono “sopra la terra” – ossia nel mezzo di una
scena in cui «l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione»
confonde e distorce invece di condurci alla luce. Fu in momenti di
percezione estetica molto intensa che Keats trovò il suo massimo conforto
e le sue convinzioni più profonde. Questo è il fatto che viene ricordato
nella conclusione della sua ode. Alla n ne ci sono solo due loso e. Una
sola accetta vita ed esperienza in tutta la sua incertezza, in tutto il suo
mistero, il suo dubbio e la sua quasi-conoscenza, e volge quella esperienza
verso se stessa per renderne più profonde e intense le qualità – in direzione
di immaginazione e arte. Questa è la loso a di Shakespeare e Keats.
3 – Fare un’esperienza

L’esperienza accade continuamente, poiché l’interazione tra la creatura


vivente e le condizioni ambientali è implicata nello stesso processo del
vivere. In condizioni di resistenza e con itto, aspetti ed elementi del sé e
del mondo che sono implicati in questa interazione quali cano
l’esperienza con emozioni e idee facendo emergere un’intenzione
consapevole. Spesso, tuttavia, l’esperienza fatta è appena abbozzata. Si fa
esperienza di cose, ma non in modo tale da comporle in una esperienza.
C’è distrazione e dispersione; non c’è accordo tra ciò che osserviamo e ciò
che pensiamo, tra ciò che desideriamo e ciò che otteniamo. Mettiamo
mano all’aratro e ci giriamo indietro; partiamo e ci fermiamo, non perché
l’esperienza abbia raggiunto il ne per il quale era stata avviata, ma per
interruzioni esterne o per apatìa interna.
In contrasto con tale esperienza, facciamo una esperienza quando il
materiale esperito porta a compimento il proprio percorso. Allora e
soltanto allora esso è integrato e delimitato da altre esperienze entro il
usso generale dell’esperienza. Un lavoro è compiuto in modo
soddisfacente; un problema trova la sua soluzione; un gioco è portato a
termine; una situazione (consumare un pasto, giocare una partita a
scacchi, portare avanti una conversazione, scrivere un libro, partecipare a
una campagna elettorale...) è completata in modo che la sua conclusione è
un perfezionamento e non una cessazione. Un’esperienza del genere è un
intero, e reca con sé la propria qualità individualizzante e la propria auto-
suf cienza. È una esperienza.
I loso , anche gli empiristi, hanno parlato prevalentemente di
esperienza in generale. Il linguaggio parlato, invece, fa riferimento a
esperienze che sono una ad una singolari, dotate ciascuna di un proprio
inizio e di una propria ne. Infatti la vita non è un corso o un usso
uniforme ininterrotto. È fatta di storie, ciascuna con la sua propria trama, il
proprio inizio e il proprio movimento verso una sua conclusione, ciascuna
dotata del suo peculiare movimento ritmico; ciascuna dotata di una sua
propria e unica qualità che la pervade per intero. Una rampa di scale,
essendo meccanica, procede per gradini separati, non attraverso una
progressione indifferenziata, e un piano inclinato si distingue da altre cose
quanto meno per l’improvvisa discontinuità.
In questo senso vitale l’esperienza è de nita da quelle situazioni e da
quegli episodi a cui ci riferiamo immediatamente indicandoli come “vere
esperienze”; da quelle cose di cui diciamo, ricordandole, “quella è stata
un’esperienza”. Talvolta si tratta di qualcosa che ha grande importanza –
una lite con qualcuno che era stato un amico intimo, una tragedia evitata
per un sof o. Talvolta di qualcosa di relativo scarso rilievo – e che forse
proprio per il suo scarso rilievo mostra al meglio che cosa può essere
un’esperienza. Ad esempio, un particolare pranzo in un ristorante a Parigi
di cui si dice “quella è stata un’esperienza”. Spicca come ricordo duraturo
di cosa può essere il cibo. Oppure, una particolare tempesta che si è
incontrata attraversando l’Atlantico – quella tempesta che nella sua furia,
per come se ne è fatta esperienza, è parsa riassumere in sé tutto ciò che
può essere una tempesta, in se stessa compiuta, che spicca perché si
distingue da ciò che è successo prima e da ciò che è venuto dopo.
In tali esperienze ogni parte che sopraggiunge sfocia liberamente, senza
giunture e senza spazi vuoti, in ciò che segue. Al tempo stesso non si
sacri ca l’identità speci ca delle parti. A differenza di uno stagno, un
ume scorre. Ma il suo uire conferisce alle sue parti che si susseguono
una determinatezza e un interesse maggiori di quelli che si riscontrano
nelle parti uniformi di uno stagno. In un’esperienza si uisce da qualcosa a
qualcosa. Siccome ciascuna parte conduce a un’altra parte e porta avanti
ciò che è venuto prima, ogni parte diviene distinta in se stessa. L’intero che
perdura si diversi ca per fasi successive che ne accentuano i differenti
colori.
Per questa continua fusione, quando facciamo una esperienza non ci
sono buchi, né giunture meccaniche, né punti morti. Ci sono pause,
luoghi di riposo, che però mettono in risalto e de niscono la qualità del
movimento. Ricapitolano ciò che è stato subìto e ne prevengono la
dissipazione e la vana evaporazione. Un’accelerazione continua non dà
tregua e impedisce alle parti di venir separate. In un’opera d’arte atti,
episodi, eventi differenti si mescolano e si fondono in unità, e tuttavia
quando ciò accade essi non scompaiono e non perdono il loro carattere
speci co – così come in una conversazione brillante c’è un continuo
scambio e rimescolamento, e tuttavia ogni interlocutore non solo conserva
il proprio carattere ma lo manifesta in modo più chiaro del solito.
Un’esperienza ha un’unità che le dà il suo nome, quel pasto, quella
tempesta, quella rottura di un’amicizia. L’esistenza di questa unità è
costituita da una singola qualità che pervade l’intera esperienza nonostante
il variare delle sue parti costitutive. Questa unità non è né emotiva, né
pratica, né intellettuale, in quanto questi termini indicano distinzioni che
la ri essione può fare al suo interno. Quando parliamo di un’esperienza
dobbiamo far uso di questi aggettivi interpretativi. Quando esaminiamo
mentalmente un’esperienza dopo che si è veri cata, possiamo trovare che
una particolare proprietà piuttosto che un’altra è stata abbastanza
dominante da caratterizzare l’esperienza nel suo complesso. Ci sono
ricerche e speculazioni avvincenti che uno scienziato o un losofo
ricorderà come “esperienze” in senso enfatico. Nel loro contenuto nale
sono esperienze intellettuali. Ma nella loro occorrenza concreta erano al
tempo stesso emotive; erano tese a un ne e volitive. L’esperienza non è
stata però una somma di questi caratteri diversi; in quanto tratti speci ci
questi caratteri sono andati perduti al suo interno. Nessun pensatore può
dedicarsi alla sua occupazione se non è affascinato e grati cato da
esperienze che, in tutta la loro integralità, siano di per sé dotate di valore.
Senza di esse non saprebbe mai che cosa bisogna davvero pensare e non
riuscirebbe affatto a distinguere il pensiero vero da un prodotto spurio. Il
pensiero avanza per successioni di idee, ma le idee formano una
successione solo perché sono molto più di ciò che la psicologia analitica
chiama idee. Sono fasi, distinte emotivamente e praticamente, di una
qualità sottostante in sviluppo; ne sono le variazioni dinamiche, non
separate e indipendenti come le cosiddette idee e impressioni di Locke e di
Hume, essendo invece sfumature sottili di una tinta pervasiva e in divenire.
Quando parliamo di un’esperienza di pensiero, diciamo che
raggiungiamo o traiamo una conclusione. La formulazione teorica del
processo è spesso fatta in termini tali da celare in realtà la somiglianza della
“conclusione” con la fase terminale di ogni esperienza completa in
sviluppo. Il modello di queste formulazioni sembra il modo in cui
appaiono sulla pagina stampata le proposizioni separate che costituiscono
le premesse e la proposizione che rappresenta la conclusione. Da qui
deriva l’impressione che dapprima ci siano due entità indipendenti e già
costituite che, in seguito, vengono manipolate così da dar luogo a una
terza entità. In realtà in un’esperienza di pensiero le premesse emergono
solo quando una conclusione diviene manifesta. L’esperienza, come quella
di osservare una tempesta che raggiunge il suo apice e gradualmente
scema, è l’esperienza di un movimento continuo di ciò che si esperisce.
Come nell’oceano in tempesta, c’è una serie di onde; suggestioni
emergono e si frantumano con frastuono, oppure vengono portate avanti
grazie all’aiuto di un’altra onda. Se si raggiunge una conclusione, è la
conclusione di un movimento di anticipazione e accumulazione che alla
ne giunge a completamento. Una “conclusione” non è una cosa separata
e indipendente; è il perfezionamento di un movimento.
Di conseguenza una esperienza di pensiero ha la sua propria qualità
estetica. Viene distinta da quelle esperienze che sono riconosciute come
estetiche, ma solo per i suoi materiali. Il materiale delle arti belle consiste
di qualità; quello di un’esperienza che ha una conclusione intellettuale è
composto da segni o simboli che non possiedono una qualità intrinseca per
loro stessi, ma stanno per cose che in un’altra esperienza possono essere
esperite qualitativamente. La differenza è enorme. È una ragione per cui
l’arte esclusivamente intellettuale non sarà mai popolare quanto la musica.
Ma di per sé l’esperienza ha una qualità emotiva appagante quando
raggiunge al suo interno integrazione e compimento grazie a un
movimento ordinato e organizzato. Questa struttura artistica può essere
sentita immediatamente. In quanto tale è estetica. Ciò che è addirittura più
importante è che non solo questa qualità è un valido motivo per
intraprendere una ricerca intellettuale e portarla avanti con rigore, ma che
nessuna attività intellettuale è un evento integrale (è una esperienza)
nché non viene completata da questa qualità. Senza di essa il pensiero è
inconcludente. In breve, l’estetico non può essere nettamente distinto
dall’esperienza intellettuale dal momento che quest’ultima deve avere un
marchio estetico per essere in sé completa.
La medesima affermazione resta valida per un agire che si svolga su un
piano prevalentemente pratico, ossia che consista chiaramente di azioni. Si
può agire in maniera ef ciente senza però fare un’esperienza cosciente.
Un’attività troppo automatica non permette che ci si renda conto di ciò di
cui ci stiamo occupando e di dove stiamo andando. Arriva a una ne, ma
non a una conclusione o a un perfezionamento consapevole. Alcuni
ostacoli vengono superati grazie a una pronta abilità, ma non alimentano
l’esperienza. C’è anche chi tentenna nell’azione, incerto e inconcludente
come le ombre nella letteratura classica. Tra gli estremi della mancanza di
scopi e dell’ef cienza meccanica si trovano quei processi attivi in cui atti
successivi sono attraversati dalla percezione di un signi cato crescente che
si conserva e si accumula andando verso una ne che è sentita come
realizzazione del processo. Politici di successo e generali che diventano
statisti, come Cesare e Napoleone, hanno in loro qualcosa dell’uomo di
spettacolo. Ciò di per sé non è arte, ma credo sia un segno che l’interesse
non è esclusivamente, forse nemmeno principalmente, suscitato dal
risultato preso per sé (come nel caso della mera ef cienza), ma dal risultato
in quanto esito di un processo. C’è interesse a completare un’esperienza.
Può trattarsi di un’esperienza dannosa per il mondo che non si desidera
veder realizzata. Tuttavia essa ha qualità estetica.
L’identi cazione greca del buon comportamento con il comportamento
che ha proporzione, grazia e armonia, il kalon-agathon, è un esempio più
evidente della peculiare qualità estetica di un’azione morale. Un grande
difetto in ciò che viene spacciato per moralità è la sua qualità anestetica,
così che esso, invece di mostrare come compiere un’azione con tutto il
cuore, prende la forma di concessioni fatte di malavoglia e
occasionalmente alle esigenze del dovere. Le spiegazioni riescono però
solo a rendere meno chiaro il fatto che ogni attività pratica ha una qualità
estetica una volta che sia integrata dalla sua speci ca spinta muovendosi
così verso un compimento.
Per fornire una spiegazione generale si può immaginare una pietra che
faccia un’esperienza rotolando giù da una collina. Questa attività è
senz’altro suf cientemente “pratica”. La pietra parte da qualche luogo e, a
seconda di ciò che permettono le condizioni, si muove verso un posto e
uno stato in cui sarà in quiete – verso una ne. A questi fatti esterni
aggiungiamo con l’immaginazione l’ipotesi che essa pensi al futuro
desiderando l’esito nale; che si interessi delle cose che incontra sul suo
cammino – condizioni che accelerano e ritardano il suo movimento a
seconda del loro nesso con la ne; che le sue azioni e i suoi sentimenti nei
loro confronti dipendano dalla loro funzione di ostacolo o di aiuto che
attribuisce a loro; e che alla ne il giungere a riposo stia in relazione con
tutto quello che è successo prima come culmine di un movimento
continuo. In tal caso la pietra farebbe un’esperienza, anzi un’esperienza
dotata di qualità estetica.
Se da questo caso immaginario ci volgiamo alla nostra propria
esperienza, troveremo che molto di essa è più vicino a quanto accade alla
pietra vera e propria che non a qualcosa che soddisfa le condizioni appena
formulate con fantasia. Infatti in buona parte della nostra esperienza non
ci curiamo della connessione di un evento con ciò che è accaduto prima e
con ciò che viene dopo. Non c’è un interesse che controlla dinieghi o
scelte attente di ciò che andrà organizzato all’interno dell’esperienza in
sviluppo. Alcune cose accadono, ma non sono né de nitivamente incluse
né de nitivamente escluse; ci lasciamo trasportare. Cediamo alla pressione
esterna, oppure ci sottraiamo ad essa e cerchiamo compromessi. Si
comincia e ci si arresta, senza che vi siano inizi e conclusioni in senso
proprio. Una cosa sostituisce l’altra senza però assorbirla o portarla avanti.
C’è esperienza, ma talmente acca e divagante da non essere una
esperienza. Inutile dire che tali esperienze sono anestetiche.
Ciò che è non-estetico è quindi racchiuso entro due con ni. A un polo vi
è la successione slegata che non comincia in un luogo particolare e che ha
ne – in quanto cessa – in nessun luogo particolare. All’altro estremo vi è
arresto, costrizione, in quanto vi sono parti che hanno tra loro solo una
connessione meccanica. Vi è così tanta esperienza che rientra in uno questi
due generi che inconsapevolmente si nisce con il considerarli norme
dell’intera esperienza. Perciò l’estetico, quando appare, contrasta in modo
così netto con l’immagine già formata dell’esperienza che è impossibile
mettere d’accordo le sue speciali qualità con i tratti di questa immagine; gli
si assegnano allora un luogo e uno status marginali. La descrizione
dell’esperienza prevalentemente intellettuale e pratica che abbiamo svolto
serve a mostrare che tale contrasto non è implicito nel fare un’esperienza;
al contrario, essa mostra come nessuna esperienza, di qualunque sorta, sia
unitaria se è priva di qualità estetica.
I nemici dell’estetico non sono né il pratico né l’intellettuale. Sono la
monotonia; l’inerzia dovuta a ni vaghi; la sottomissione a convenzioni
nella prassi e nel processo intellettuale. Severa astinenza, sottomissione
forzata, rigidità da un lato, dissolutezza, incoerenza e mancanza di scopi
dall’altro, sono deviazioni in direzioni opposte dall’unità di un’esperienza.
Sono forse considerazioni di questo genere ad aver indotto Aristotele a
richiamarsi al «medio proporzionale» per designare in maniera adeguata
ciò che contraddistingue sia la virtù che l’estetico25. Formalmente aveva
ragione. “Medio” e “proporzione” non sono però auto-esplicativi, né
vanno presi in un senso anzitutto matematico, ma sono proprietà che
appartengono a un’esperienza che si sviluppa dinamicamente verso il suo
speci co perfezionamento.
Ho sottolineato il fatto che ogni esperienza completa si muove verso una
conclusione, verso una ne, in quanto cessa solo quando le energie attive
al suo interno hanno svolto la propria opera. Questa chiusura di un
circuito d’energia è l’opposto dell’arresto, della stasi. Maturazione e
ssazione sono poli opposti. Si può godere anche di lotta e con itto,
sebbene portino dolore, quando li si sperimenta come mezzi per
sviluppare un’esperienza; come suoi membri in quanto la portano avanti, e
non solo perché sono presenti. Come emergerà in seguito, in ogni
esperienza c’è un elemento di patimento, di sofferenza in senso lato.
Altrimenti non sarebbe possibile assimilare ciò che è venuto prima. Infatti
in ogni esperienza vitale “assimilare” è più che piazzare qualcosa in cima
alla coscienza al di sopra di ciò che era noto in precedenza. Implica una
ricostruzione che può essere spiacevole. Che la necessaria fase passiva sia
di per sé piacevole o dolorosa dipende da condizioni particolari. È
indifferente in rapporto alla qualità estetica totale, tranne che per poche
esperienze estetiche intense che sono interamente gioiose. Certamente esse
non vanno caratterizzate come divertenti, e quando ci capitano
comportano un patire che è pur tuttavia in armonia con la percezione
complessiva che dà piacere, anzi ne è una parte.
Ho chiamato emotiva la qualità estetica che corona un’esperienza
portandola a completezza e unità. Questa designazione può causare
dif coltà. Siamo abituati a pensare alle emozioni come cose tanto semplici
e compatte quanto le parole con cui le de niamo. Trattiamo gioia, dolore,
speranza, paura, rabbia, curiosità come se ciascuna in sé fosse una sorta di
entità che entra in scena già formata, un’entità che può durare molto o
poco tempo, ma la cui durata, crescita ed evoluzione non ne condizionano
la natura. In realtà le emozioni, quando sono signi cative, sono qualità di
un’esperienza complessa che si muove e cambia. Dico quando sono
signi cative perché altrimenti non si tratta che delle urla e degli strepiti di
un bambino a disagio. Tutte le emozioni sono quali cazioni di un dramma
e cambiano con lo sviluppo del dramma. Talvolta si dice che le persone si
innamorano al primo sguardo. Ciò di cui si innamorano non è però una
cosa di quell’istante. Che cosa sarebbe l’amore se fosse compresso in un
momento in cui non c’è spazio per il prendersi cura e la premura? La
natura intima dell’emozione si manifesta nell’esperienza di chi assiste a
una rappresentazione sulla scena o legge un racconto. Accompagna lo
sviluppo di una trama; e una trama richiede una scena, uno spazio in cui
svilupparsi e un tempo in cui svolgersi. L’esperienza è emotiva, ma in essa
non ci sono cose separate chiamate emozioni.
Analogamente le emozioni sono legate a eventi e oggetti nel loro
movimento. Tranne che in casi patologici, non sono interne al soggetto. E
anche un’emozione “priva di oggetto” esige qualcosa al di là di sé a cui
legarsi, e quindi genera subito delusione se manca qualcosa di reale.
L’emozione appartiene senz’altro al sé. Ma appartiene al sé che è coinvolto
nel movimento degli eventi verso un esito che si desidera o si avversa.
Quando siamo spaventati sobbalziamo improvvisamente, e quando ci
vergogniamo arrossiamo all’istante. Ma in questo caso spavento e pudica
modestia non sono stati emotivi. Di per sé sono solo ri essi automatici. Per
diventare emotivi devono divenire parti di una situazione complessiva e
duratura che include un interesse per gli oggetti e i loro esiti. Il sobbalzo
per lo spavento diventa paura emotiva quando si scopre o si pensa che
esiste un oggetto minaccioso con cui bisogna fare i conti o che si deve
evitare. Il rossore diventa l’emozione della vergogna quando una persona
connette mentalmente un’azione che ha compiuto con una reazione
sfavorevole nei suoi confronti da parte di altre persone.
Quando si costruisce un nuovo oggetto si trasportano materialmente cose
siche che provengono da lontane estremità della terra costringendole
sicamente a interagire tra loro. Il miracolo della mente è che qualcosa di
simile accade nell’esperienza senza trasporto e assemblaggio sici.
L’emozione è la forza che muove e cementa. Essa seleziona ciò che è
congruo e tinge ciò che è selezionato con il suo colore, conferendo così
unità qualitativa a materiali all’apparenza eterogenei e dissimili. In tal
modo essa introduce unità nelle e attraverso le varie parti di un’esperienza.
Quando l’unità è del genere già descritto, l’esperienza ha carattere estetico
anche se non è prevalentemente un’esperienza estetica.
Due persone si incontrano; una è il candidato per un posto di lavoro,
mentre l’altra è chi ha in mano la gestione della faccenda. Il colloquio può
essere meccanico e consistere in domande prestabilite a cui si risponde
sbrigando in fretta la questione. Non c’è esperienza nella quale le due
persone si incontrano, nulla che non sia ripetizione, con esito positivo o
negativo, di qualcosa che è accaduto diverse volte. La situazione è
sistemata come se fosse un esercizio di contabilità. Ma può veri carsi
un’interazione in cui si sviluppa una nuova esperienza. Dove cercare il
resoconto di tale esperienza? Non tra le colonne di un libro contabile, né
in un trattato di economia o sociologia o psicologia del personale, ma in
una rappresentazione teatrale o in una narrazione. La sua natura e il suo
signi cato si possono esprimere solo con l’arte, poiché c’è un’unità
esperienziale che si può esprimere solo come un’esperienza. L’esperienza è
di un materiale carico di tensione che va verso il suo perfezionamento
passando per una serie connessa di episodi differenti. Le emozioni
primarie dal lato del candidato all’inizio possono essere speranza o
disperazione, e alla ne esultanza o delusione. Queste emozioni
quali cano l’esperienza come un’unità. Ma mentre si svolge il colloquio si
sviluppano emozioni secondarie come variazioni di quella primaria di
base. È addirittura possibile per ogni atteggiamento e per ogni gesto, per
ogni frase, quasi per ogni parola, produrre più che una variazione
d’intensità dell’emozione fondamentale; produrre, cioè, un mutamento di
tonalità e di tinta nella sua qualità. Il datore di lavoro vede il carattere del
candidato ltrato attraverso le sue stesse reazioni emotive. Proietta con
l’immaginazione il candidato nel lavoro da svolgere e giudica la sua
idoneità sulla base del modo in cui si compongono gli elementi della scena
collidendo o adattandosi tra loro. L’aspetto e il comportamento del
candidato o si armonizzano con i suoi atteggiamenti e desideri, oppure
con iggono e stridono con essi. Fattori come questi, intrinsecamente
estetici per qualità, sono le forze che conducono i diversi elementi del
colloquio verso uno sbocco decisivo. Intervengono quando si sistemano
tutte le situazioni che presentano incertezza e indecisione, qualunque ne
sia la natura prevalente.
Ci sono dunque schemi comuni in esperienze diverse, a prescindere da
quanto differiscano l’una dall’altra nei dettagli del relativo contenuto. Ci
sono condizioni che vanno soddisfatte senza le quali non può istituirsi
un’esperienza. Il pro lo dello schema comune è stabilito dal fatto che ogni
esperienza è il risultato dell’interazione tra una creatura vivente e qualche
aspetto del mondo in cui essa vive. Una persona fa qualcosa; ad esempio,
solleva una pietra. Di conseguenza recepisce, patisce qualcosa: il peso, lo
sforzo, la consistenza della super cie della cosa sollevata. Le proprietà così
recepite determinano ciò che si farà. La pietra è troppo pesante o troppo
spigolosa, non abbastanza solida; oppure le proprietà recepite mostrano
che la cosa è adatta all’uso a cui è destinata. Il processo continua nché
non emerge un mutuo adattamento tra il sé e l’oggetto di modo che quella
particolare esperienza giunge a una conclusione. Sul piano della forma, ciò
che è vero per questo caso semplice è vero per ogni esperienza. La
creatura all’opera può essere un pensatore intento a studiare e l’ambiente
con cui interagisce può consistere di idee invece che di una pietra. Ma la
loro interazione costituisce l’esperienza totale che si ha, e la conclusione
che le dà compimento è l’istituzione di un’armonia che viene sentita.
Un’esperienza ha schema e struttura in quanto non è solo un’alternanza
di azioni e passioni, ma consiste di azioni e passioni poste in relazione.
Mettere la mano su un fuoco che la brucia non è necessariamente fare
un’esperienza. L’azione e la sua conseguenza devono essere congiunte
nella percezione. È questa relazione a conferire signi cato; coglierla è
sempre l’obiettivo dell’intelligenza. La portata e il contenuto delle relazioni
misurano il contenuto signi cativo di un’esperienza. L’esperienza di un
bambino può essere intensa, ma, a causa della carenza di retroterra
derivato da esperienza passata, le relazioni tra subire e agire sono colte
debolmente, e l’esperienza non ha grande profondità o ampiezza. Nessuno
giunge poi a una maturità tale da percepire tutte le connessioni che sono
implicate. Tempo fa Hinton ha scritto un romanzo, intitolato The
Unlearner26, che ritraeva tutta l’in nita durata della vita dopo la morte
come un vivere daccapo gli eventi che accadono in una vita breve sulla
terra, scoprendo di continuo le relazioni che vi sono implicate.
L’esperienza è limitata da tutte le cause che interferiscono con la
percezione delle relazioni tra subire e agire. Ci possono essere interferenze
dovute a un eccesso sul versante dell’agire o a un eccesso sul versante della
ricettività, del subire. Lo sbilanciamento da uno dei versanti rende confusa
la percezione delle relazioni e fa sì che l’esperienza sia parziale e distorta, e
assuma un signi cato inadeguato o errato. Lo zelo nel fare, la brama
d’agire, soprattutto nell’ambiente umano frettoloso e impaziente in cui
viviamo, lasciano diverse persone con un’esperienza di una pochezza quasi
incredibile e tutta di super cie. Nessuna esperienza ha l’opportunità di
completare se stessa poiché qualcos’altro è subentrato con grande rapidità.
Ciò che viene chiamato esperienza diventa tanto disperso ed eterogeneo
da meritare appena questo nome. La resistenza è trattata come
un’ostruzione da abbattere, non come un invito a ri ettere. Un individuo
nisce per cercare, inconsciamente ancor più che per scelta deliberata,
situazioni in cui poter fare il maggior numero di cose nel tempo più breve.
Le esperienze vengono bruscamente interrotte nel loro processo di
maturazione anche per eccesso di ricettività. In casi del genere ciò che si
apprezza è il mero subire questo e quello, senza riguardo per la percezione
di un qualche signi cato. Si pensa che la “vita” consista nell’affollarsi del
maggior numero possibile di impressioni, malgrado nessuna di esse sia più
di un’impressione fuggevole e rapsodica. Il sentimentale e il sognatore
possono avere più fantasie e impressioni che attraversano la loro coscienza
di chi è animato dalla brama d’agire. Ma la loro esperienza è egualmente
distorta, poiché nulla si radica nella mente quando non c’è equilibrio tra
fare e recepire. Qualche azione risoluta è necessaria per stabilire un
contatto con le realtà del mondo e per far sì che le impressioni possano
essere messe in relazione con fatti in modo che ne venga saggiato e
de nito il valore.
Poiché la percezione della relazione tra ciò che si fa e ciò che si subisce
costituisce un’opera dell’intelligenza, e poiché l’artista si regola nel corso
del suo lavoro a seconda di come coglie la connessione tra ciò che ha già
fatto e ciò che farà in seguito, è assurda l’idea che l’artista non pensi in
maniera profonda e penetrante come un ricercatore scienti co. Un pittore
deve recepire consapevolmente l’effetto di ogni sua pennellata perché
altrimenti non si renderà conto di ciò che sta facendo e di dove sta
andando la sua opera. Inoltre deve vedere ogni connessione particolare tra
fare e subire in relazione all’intero che desidera produrre. Afferrare tali
relazioni è pensare, ed è una delle forme di pensiero più impegnative. Ciò
che distingue i quadri di pittori diversi si deve quasi in egual misura a
differenze nella capacità di gestire questo pensiero e, dall’altro lato, a
differenze nella sensibilità per il colore puro e semplice e a differenze nella
destrezza dell’esecuzione. Per quel che riguarda la qualità fondamentale
dei quadri, la differenza dipende in effetti più dalla qualità
dell’intelligenza che viene messa nella percezione di relazioni che da ogni
altra cosa – sebbene certamente l’intelligenza non possa essere separata
dalla sensibilità diretta e sia connessa, anche se in maniera più estrinseca,
con l’abilità.
Ogni concezione che ignori il ruolo necessario dell’intelligenza nella
produzione di opere d’arte si basa sulla identi cazione del pensiero con
l’uso di un particolare genere di materiale, i segni verbali e le parole.
Pensare in modo ef cace in termini di relazioni tra qualità signi ca esigere
rigore dal pensiero quanto pensare in termini di simboli, verbali e
matematici. Anzi, poiché è facile manipolare meccanicamente le parole, la
produzione di un’opera di arte autentica esige probabilmente più
intelligenza di quanto non faccia gran parte del cosiddetto pensiero in
voga tra coloro che si vantano di essere “intellettuali”.
In questi capitoli ho cercato di mostrare che l’estetico non s’intrufola
nell’esperienza dall’esterno, a causa di un lusso ozioso o in virtù di
un’idealità trascendente, ma che è lo sviluppo chiari cato e intensi cato di
tratti che appartengono a ogni esperienza normalmente compiuta.
Considero questo fatto la sola base sicura su cui poter costruire una teoria
estetica. Resta da delineare qualcuna delle implicazioni di questo fatto
fondamentale.
Nella lingua inglese non c’è una parola che comprenda senza ambiguità
ciò che è designato dalle due parole “artistico” ed “estetico”27. Dal
momento che “artistico” si riferisce anzitutto all’atto della produzione ed
“estetico” a quello della percezione e della fruizione, è un peccato che
manchi un termine per designare i due processi presi insieme. Talvolta
l’effetto è che si separano l’uno dall’altro i due processi, e si considera l’arte
come qualcosa di sovrimposto al materiale estetico o, sull’altro versante, si
suppone che, essendo l’arte un processo di creazione, la sua percezione e
la sua fruizione non abbiano nulla in comune con l’atto creativo. In ogni
caso c’è una certa dif coltà verbale, in quanto siamo costretti alcune volte
a usare il termine “estetico” per coprire l’intero campo, e altre volte a
limitarlo al solo aspetto percettivo e ricettivo dell’intera azione. Ricordo
questi fatti ovvi perché servono a introdurre il tentativo di mostrare come
la concezione dell’esperienza cosciente in quanto relazione percepita tra
fare e subire consenta di comprendere la connessione reciproca che vige
tra l’arte in quanto produzione e la percezione e la valutazione in quanto
fruizione.
Arte signi ca processo fattivo, creativo. Ciò è vero sia per l’arte bella che
per l’arte tecnologica. L’arte richiede di modellare la creta, scolpire il
marmo, fondere il bronzo, stendere colori, costruire edi ci, cantare
canzoni, suonare strumenti, interpretare ruoli sul palcoscenico, muoversi
ritmicamente nella danza. Ogni arte fa qualcosa con qualche materiale
sico, che è il corpo o qualcosa di esterno al corpo, usando o meno attrezzi
aggiuntivi e mirando a produrre qualcosa di visibile, udibile o tangibile. È
talmente marcata la dimensione attiva o del “fare” propria dell’arte che i
dizionari di solito de niscono quest’ultima in termini di azione abile, di
destrezza nell’esecuzione. L’Oxford Dictionary28 spiega il concetto con una
citazione da John Stuart Mill: «L’arte è uno sforzo teso alla perfezione
nell’esecuzione»29, mentre Matthew Arnold la de nisce «realizzazione
pura e senza difetti»30.
La parola “estetico” si riferisce, come abbiamo già osservato,
all’esperienza in quanto valutativa, percettiva e fruitiva. Denota il punto di
vista di chi consuma e non di chi produce. Si tratta del gusto31. È come nel
cucinare, in cui è chiaro che l’azione abile ricade dalla parte del cuoco che
prepara mentre il gusto ricade dalla parte di chi consuma, e nel
giardinaggio, in cui si distingue tra il giardiniere che semina e lavora la
terra e il padrone di casa che gode del prodotto nito.
Anche questi esempi, però, così come la relazione che sussiste tra attività
e passività quando si fa un’esperienza, indicano che la distinzione tra
estetico e artistico non può essere spinta al punto da diventare una
separazione. La perfezione nell’esecuzione non si può misurare o de nire
in termini di esecuzione; implica chi percepisce e fruisce il prodotto che si
realizza. Il cuoco prepara il cibo per il consumatore e il criterio del valore
di ciò che viene preparato si trova nel consumo. La mera perfezione
nell’esecuzione, giudicata isolatamente secondo i suoi propri elementi,
probabilmente può essere raggiunta in modo migliore da una macchina
invece che dall’arte umana. Per se stessa è al massimo tecnica, e ci sono
grandi artisti che non sono eccelsi in quanto tecnici (come dimostra
Cézanne), così come ci sono grandi virtuosi del pianoforte che non sono
esteticamente grandi, e così come Sargent non è un grande pittore.
L’abilità dell’arte ce, per essere indubitabilmente artistica, dev’essere
“amorosa”; deve prendersi cura a fondo del contenuto su cui si esercita la
sua tecnica. Si pensi a uno scultore che crei busti meravigliosamente esatti.
Di fronte a una fotogra a di uno di essi e a una fotogra a dell’originale
potrebbe essere dif cile dire qual era quella della persona in carne e ossa.
Sono busti notevoli per virtuosismo. Ma c’è da dubitare che chi ha creato i
busti abbia avuto un’esperienza sua propria che si è preoccupato venisse
condivisa da coloro che guardano il suo prodotto. Per essere veramente
artistica un’opera deve essere anche estetica – cioè, concepita per una
percezione ricettiva nella fruizione. Per chi fa è certo necessaria
un’osservazione costante mentre sta producendo. Ma se la sua percezione
non è anche di natura estetica, si limita a riconoscere in maniera incolore e
fredda ciò che è stato fatto, usandolo come stimolo per il passo successivo
in un processo che è essenzialmente meccanico.
In breve, nella sua forma l’arte realizza l’unità proprio di quella relazione
tra fare e subire, tra uscite ed entrate di energia, che fa sì che
un’esperienza sia un’esperienza. Nella misura in cui viene eliminato tutto
quello che non contribuisce all’organizzazione d’insieme dei fattori sia
dell’azione che della ricezione in rapporto l’uno all’altro, e nella misura in
cui vengono scelti solamente gli aspetti e i tratti che contribuiscono alla
loro compenetrazione reciproca, il prodotto è un’opera dell’arte estetica.
L’uomo tagliuzza, incide, canta, danza, gesticola, modella, disegna e
dipinge. Il fare o creare è artistico quando il risultato percepito è di natura
tale che le sue qualità in quanto percepite hanno dominato il problema
della produzione. L’atto produttivo guidato dall’intenzione di produrre
qualcosa da godere nell’esperienza immediata del percepire ha qualità che
non possiede un’attività spontanea e incontrollata. Mentre lavora l’artista
incarna in se stesso l’atteggiamento del percipiente.
Supponiamo, per amore di argomentazione, che un oggetto nemente
lavorato, la cui tessitura e le cui proporzioni siano estremamente piacevoli
nella percezione, sia stato ritenuto un prodotto di qualche popolo
primitivo. In seguito si scopre la prova che dimostra che esso è un prodotto
accidentale della natura. In quanto cosa esterna è ora esattamente ciò che
era prima. Tuttavia cessa immediatamente di essere un’opera d’arte e
diventa una “stranezza” della natura. Ora dovrebbe stare in un museo di
storia naturale, non in un museo d’arte. E la cosa straordinaria è che la
differenza fatta in tal modo non riguarda solo la classi cazione
intellettuale. Si fa differenza, e direttamente, nella percezione valutativa.
L’esperienza estetica – in senso stretto – è quindi considerata
intrinsecamente connessa all’esperienza del fare.
Quando la soddisfazione sensoriale di occhio e orecchio è estetica, essa è
tale perché non è a sé stante ma è legata all’attività di cui è conseguenza.
Persino i piaceri del palato sono di qualità differente per un buongustaio
piuttosto che in colui a cui semplicemente “piace” il cibo che mangia. La
differenza non è solo di intensità. Il buongustaio è consapevole di molte
cose in più oltre al sapore del cibo. Nel sapore entrano infatti qualità di cui
si fa direttamente esperienza che sono correlate alla sua fonte e alla
maniera in cui lo si produce tenendo conto di criteri d’eccellenza. Come la
produzione deve assorbire in se stessa qualità del prodotto in quanto
percepite, ed essere regolata da esse, così, sull’altro versante, vedere,
ascoltare, gustare diventano estetici quando a quali care ciò che si
percepisce è la relazione con un’attività di tipo particolare.
C’è un elemento di passione in ogni percezione estetica. Quando però
siamo sopraffatti dalla passione, come nei casi di estrema ira, paura,
gelosia, l’esperienza è chiaramente non-estetica. Non si sente una relazione
con le qualità dell’attività che ha generato la passione. Di conseguenza, al
materiale dell’esperienza mancano elementi di equilibrio e proporzione.
Infatti questi possono essere presenti solo quando, come in un
comportamento che ha grazia o dignità, l’atto è tenuto sotto controllo da
un senso raf nato delle relazioni a cui l’atto è sotteso – della sua
adeguatezza all’occasione e alla situazione.
Il processo dell’arte nella produzione sta in relazione organica con
l’estetico nella percezione – così come durante la creazione Dio contemplò
la sua opera e la trovò buona. Finché percependo non è soddisfatto di ciò
che sta facendo, l’artista continua a plasmare e riplasmare. Il fare giunge a
termine quando il suo risultato viene esperito come buono – e a quella
esperienza si perviene non in forza di un mero giudizio intellettuale ed
estrinseco ma nella percezione diretta. Rispetto ai suoi simili, un artista è
una persona particolarmente dotata non solo di capacità d’esecuzione, ma
di insolita sensibilità per le qualità delle cose. Questa sensibilità dirige
anche il suo fare e il suo creare.
Quando maneggiamo, noi tocchiamo e sentiamo; quando guardiamo,
noi vediamo; quando ascoltiamo, noi udiamo. La mano si muove con il
bulino o con il pennello. L’occhio accompagna e riporta le conseguenze di
ciò che è fatto. A causa di questa intima connessione, il fare successivo è
una progressione e non si deve al capriccio o alla routine. In un’esperienza
artistico-estetica di rilievo la relazione è così stretta da tenere sotto
controllo simultaneamente sia il fare che il percepire. Una connessione
talmente intima e vitale non si può avere se ci si limita a impegnare mano e
occhio. Se ciascuno di essi non agisce come organo dell’intero essere non
c’è che una sequenza meccanica di senso e movimento, come quando si
cammina automaticamente. Quando l’esperienza è estetica, mano e occhio
sono invece strumenti mediante i quali opera l’intera creatura vivente,
mossa e attiva da un capo all’altro. Allora l’espressione è emotiva e guidata
da un ne.
La relazione tra ciò che si fa e ciò che si subisce fa sì che si senta
immediatamente che nella percezione le cose sono coerenti o in contrasto
tra loro, si rafforzano o si ostacolano a vicenda. Le conseguenze dell’atto
creativo che si presentano nel senso mostrano se ciò che si fa porta avanti
l’idea che si sta realizzando oppure determina una deviazione e
un’interruzione. Nella misura in cui lo sviluppo di un’esperienza è regolato
dal rapporto con queste relazioni d’ordine e di compimento sentite
immediatamente, quell’esperienza assume una natura prevalentemente
estetica. La sollecitazione all’azione diventa sollecitazione a un tipo
d’azione tale da sfociare in un oggetto che soddisfa nella percezione
diretta. Il ceramista plasma la sua creta per fare un recipiente utile a
contenere il grano; ma lo fa venendo regolato dalla serie di percezioni in
cui si accumulano gli atti successivi del creare, di modo che il recipiente
viene caratterizzato da una grazia e da un fascino durevoli. La situazione
generale resta identica quando si dipinge un quadro o si modella un busto.
Inoltre, ad ogni livello si anticipa ciò che deve venire. Questa anticipazione
è l’elemento che connette sul piano dei sensi l’azione successiva e il
relativo esito. Ciò che si fa e ciò che si subisce sono quindi tra loro in un
rapporto strumentale che è reciproco, progressivo e continuo.
Il fare può essere energico e il subire acuto e intenso. Ma nché essi non
sono in relazione l’uno con l’altro formando un intero nella percezione, la
cosa fatta non è pienamente estetica. Il creare, ad esempio, può essere
un’esibizione di virtuosismo tecnico, e il subire un’effusione di sentimento
o una rêverie. Se nel corso del suo fare non dà compimento a una nuova
visione, l’artista agisce meccanicamente e ripete qualche vecchio modello
pre ssato come se fosse uno stampo rigido interno alla sua mente. L’opera
creativa in arte è caratterizzata da un’incredibile dose di osservazione e di
quel genere di intelligenza che si esercita nella percezione delle relazioni
qualitative. Le relazioni vanno colte non solo nel loro rapporto reciproco, a
due a due, ma in connessione con l’intero che si sta costruendo; sono in
atto tanto nell’immaginazione quanto nell’osservazione. Si presentano
degli elementi irrilevanti che invitano alla distrazione; delle digressioni si
propongono come arricchimenti. Ci sono casi in cui la presa dell’idea
dominante si indebolisce, e quindi l’artista è spinto inconsciamente ad
aggiungere cose nché il suo pensiero non torna ad essere forte. La vera
opera di un artista è la costruzione di un’esperienza che resta coerente
nella percezione sebbene nel suo sviluppo si muova mutando
continuamente.
Quando un autore mette sulla carta idee che ha già concepito con
chiarezza e ha già messo in ordine con coerenza, l’opera vera e propria è
già stata fatta. Oppure, può af darsi alla maggiore percepibilità
determinata dall’attività e dal relativo riscontro sensibile per farsi guidare
mentre porta a completamento l’opera. Il mero atto di trascrizione è
esteticamente irrilevante, a meno che non sia parte integrante della
formazione di un’esperienza che si muove verso la completezza. Anche la
composizione concepita mentalmente, e dunque dal punto di vista sico
privata, è pubblica nel suo contenuto signi cativo, dal momento che è
concepita in rapporto a una realizzazione in un prodotto che è percepibile
e appartiene quindi al mondo comune. Altrimenti sarebbe un’aberrazione
o un sogno ef mero. Non c’è soluzione di continuità tra la sollecitazione a
esprimere le qualità percepite di un paesaggio dipingendo e la ricerca di
matita e pennello. Se non assume un corpo esterno un’esperienza resta
incompleta; dal punto di vista siologico e funzionale gli organi sensoriali
sono organi di movimento e sono connessi, non solo anatomicamente ma
grazie alla distribuzione delle energie nel corpo umano, con altri organi di
movimento. Non è una casualità linguistica che “edi cio”, “costruzione”,
“opera”32 designino sia un processo che il suo prodotto nito. Senza il
signi cato del verbo quello del sostantivo rimane vuoto.
Lo scrittore, il compositore di musica, lo scultore o il pittore, durante il
processo di produzione possono ripercorrere quello che hanno fatto in
precedenza. Nel caso in cui ciò non sia soddisfacente sul piano ricettivo o
percettivo dell’esperienza, essi possono in una certa misura cominciare
daccapo. Non è cosa immediata farlo nel caso dell’architettura – e questo
forse è uno dei motivi per cui ci sono così tanti edi ci brutti. Gli architetti
sono costretti a completare la loro idea prima che essa venga tradotta in un
oggetto percettivo compiuto. L’impossibilità di erigere al tempo stesso
l’idea e la sua incarnazione oggettiva determina uno svantaggio. Malgrado
ciò anche gli architetti sono costretti a elaborare le loro idee nei termini del
medium in cui prenderanno corpo e dell’oggetto della percezione nale, a
meno di non lavorare meccanicamente e a memoria. Probabilmente la
qualità estetica delle cattedrali medievali si deve in qualche misura al fatto
che le si costruiva senza sottostare a progetti e indicazioni di dettaglio
stabilite in anticipo come invece succede oggi. I progetti crescevano con il
crescere dell’edi cio. Ma anche un prodotto simile a Minerva, se è
artistico, presuppone un periodo precedente di gestazione in cui le azioni
e le percezioni proiettate nell’immaginazione interagiscono e si modi cano
a vicenda. Ogni opera d’arte segue il piano, lo schema di un’esperienza
completa, restituendolo in modo più intenso e concentrato.
Per chi percepisce e valuta comprendere l’intima unione di fare e subire
non è così facile come per chi crea. Siamo inclini a supporre che il primo
semplicemente recepisca ciò che c’è in forma nita, anziché renderci
conto che questa ricezione comporta attività che sono comparabili a quelle
del creatore. Ma la ricettività non è passività. Essa pure è un processo che
consiste di una serie di atti di risposta che si accumulano nella direzione di
un compimento oggettivo. Altrimenti non vi sarebbe percezione ma
riconoscimento. La differenza tra i due atti è immensa. Il riconoscimento è
una percezione che si è arrestata prima di avere l’opportunità di
svilupparsi liberamente. Nel riconoscimento c’è l’inizio di un atto di
percezione, che però non si lascia diventare utile allo sviluppo di una piena
percezione della cosa riconosciuta. Si arresta al punto in cui servirà a
qualche altro scopo, come quando riconosciamo un uomo per strada per
salutarlo o per evitarlo e non per vederlo al solo ne di vedere che cosa c’è.
Nel riconoscimento ricorriamo, come a uno stereotipo, a qualche schema
formato in precedenza. Qualche dettaglio o disposizione di dettagli funge
da traccia per una pura e semplice identi cazione. Nel riconoscimento
basta applicare questo mero schema come matrice per l’oggetto presente.
Talvolta in contatto con un essere umano siamo colpiti da tratti, forse
relativi soltanto a caratteristiche siche, di cui prima non ci eravamo
accorti. Capiamo di non aver mai conosciuto prima questa persona, di non
averla vista in un qualche senso pregnante. Cominciamo ora a studiare e
ad “assimilare”. La percezione prende il posto del riconoscimento puro e
semplice. Si compie un atto che consiste in un fare ricostruttivo, e la
coscienza si rinnova e si ravviva. Questo atto di vedere comporta la
cooperazione di elementi motori che pure restano impliciti e non
diventano palesi, così come la cooperazione di tutte le idee consolidate che
possano servire a completare la nuova gura che si sta formando. Il
riconoscimento è troppo facile per destare una viva coscienza. Non c’è
suf ciente resistenza tra nuovo e vecchio per riuscire a raggiungere la
coscienza dell’esperienza che si è fatta. Persino un cane che abbaia e
scodinzola con gioia quando vede tornare il suo padrone è più pienamente
vivo recependo il suo amico di quanto lo sia un essere umano che si
accontenta del mero riconoscimento.
Il puro e semplice riconoscimento è soddisfatto quando si appone il
cartellino giusto, l’etichetta giusta, laddove “giusto” denota un cartellino, o
un’etichetta, che serve a uno scopo esterno all’atto del riconoscimento –
come quando un venditore stabilisce l’identità delle merci per mezzo di un
campione. Non comporta un’agitazione dell’organismo, né una
commozione interna. Invece un atto di percezione procede per ondate che
si estendono una dopo l’altra attraverso l’intero organismo. Pertanto nella
percezione non c’è qualcosa come vedere o udire più un’emozione.
L’oggetto percepito, o la scena percepita, è pervaso emotivamente da cima
a fondo. Quando un’emozione sorta non permea il materiale che è
percepito o pensato, essa è o preliminare o patologica.
La dimensione estetica o passiva dell’esperienza è ricettiva. Comporta un
abbandonarsi. Ma un adeguato abbandonarsi del sé è possibile solo
attraverso un’attività controllata che può anche essere intensa. In buona
parte della nostra interazione con l’ambiente che ci circonda noi ci
ritraiamo; talvolta per paura, quanto meno per paura di dissipare
indebitamente la nostra scorta di energia; talvolta perché ci preoccupiamo
di altre faccende, come nel caso del riconoscimento. La percezione è un
atto in cui fuoriesce energia al ne di ricevere, e non un trattenere energia.
Per impregnarci di un contenuto dobbiamo anzitutto immergerci in esso.
Quando siamo solo passivi rispetto a una scena, essa ci domina e
mancando attività di risposta noi non percepiamo ciò che ci opprime. Per
assimilare dobbiamo raccogliere energia e intonarla in una chiave di
risposta.
Tutti sanno che ci vuole esercizio per vedere attraverso un microscopio o
un telescopio e per vedere un paesaggio nel modo in cui lo vede un
geologo. L’idea che la percezione estetica sia una questione a cui dedicarsi
solo a tempo perso è uno dei motivi dell’arretratezza delle arti tra noi.
L’occhio e l’apparato visivo possono essere intatti; l’oggetto può essere
sicamente presente, ad esempio la cattedrale di Notre Dame o un ritratto
di Hendrickje Stoffels eseguito da Rembrandt33. In un certo senso
immediato questi ultimi possono essere “visti”. Li si può guardare,
eventualmente riconoscere, riuscendo ad assegnargli i nomi corretti. Ma
mancando un’interazione continua tra l’intero organismo e gli oggetti, essi
non sono percepiti, certo non esteticamente. Una folla di visitatori
condotta attraverso una galleria di quadri da un guida che richiama
l’attenzione ogni tanto su qualche punto che spicca, non percepisce; solo
accidentalmente c’è anche interesse a vedere un quadro perché attratti dal
contenuto realizzato in maniera viva.
Per percepire, chi osserva deve infatti creare la sua propria esperienza. E
la sua creazione deve includere relazioni comparabili a quelle che provò il
produttore originario. Non sono le stesse in un senso letterale. Ma per
colui che percepisce, come per l’artista, ci dev’essere un ordine in cui
vengono messi gli elementi dell’intero che nella sua forma, pur non nei
dettagli, sia lo stesso del processo di organizzazione di cui ha fatto
consapevolmente esperienza il creatore dell’opera. Senza un atto di nuova
creazione l’oggetto non viene percepito come un’opera d’arte. L’artista ha
selezionato, sempli cato, chiarito, ridotto e condensato secondo il proprio
interesse. Chi osserva deve passare attraverso queste operazioni secondo il
proprio punto di vista e il proprio interesse. In entrambi ha luogo un atto
di astrazione che è un atto di estrazione di ciò che è signi cativo. In
entrambi si veri ca una comprensione nel suo signi cato letterale – cioè
un mettere insieme dettagli e particolari sicamente dispersi entro un
intero di cui si è fatta esperienza. C’è lavoro che viene svolto sul versante di
chi percepisce così come ce n’è sul versante dell’artista. Chi è troppo
indolente, pigro o irrigidito in una convenzione per compiere questo
lavoro non potrà vedere o udire. La sua “valutazione” sarà un miscuglio di
frammenti di erudizione conforme a norme di ammirazione convenzionale
e accompagnato da una eccitazione emotiva confusa ancorché genuina.
Le considerazioni esposte implicano sia la comunanza che la
dissomiglianza, per il suo rilievo speci co, tra una esperienza in senso
pregnante e l’esperienza estetica. La prima ha qualità estetica; altrimenti i
suoi materiali non troverebbero compimento in una singola esperienza
coerente. In un’esperienza vitale non è possibile separare tra loro il pratico,
l’emotivo e l’intellettuale e contrapporre le proprietà dell’uno alle
caratteristiche degli altri. La dimensione emotiva lega tra loro le parti in un
unico intero; “intellettuale” designa semplicemente il fatto che
l’esperienza ha signi cato; “pratico” indica che l’organismo interagisce
con eventi e oggetti che lo circondano. La ricerca loso ca o scienti ca
più elaborata e l’iniziativa industriale o politica più ambiziosa, nel
momento in cui i loro ingredienti differenti costituiscono un’esperienza
completa, hanno qualità estetica. Infatti in tal caso le loro parti diverse
sono collegate tra loro e non si susseguono meramente l’una all’altra. E le
parti, grazie al loro legame di cui si fa esperienza, si muovono verso un
perfezionamento e una conclusione, e non solamente verso una cessazione
temporale. Questo perfezionamento, peraltro, non attende nella coscienza
che l’intera impresa sia portata a termine. È sempre anticipato e viene più
volte assaporato con particolare intensità.
Le esperienze in questione sono comunque prevalentemente intellettuali
o pratiche piuttosto che speci camente estetiche, visto l’interesse e lo scopo
che dà loro inizio e che le governa. In un’esperienza intellettuale la
conclusione ha valore di per sé. Può essere ricavata come una formula o
una “verità”, e può essere usata nella sua indipendente interezza come
fattore e guida in altre ricerche. In un’opera d’arte non c’è un tale
sedimento isolato autosuf ciente. La ne, il termine è signi cativo non per
se stesso ma come integrazione delle parti. Non esiste altrimenti. Un
dramma o un racconto non consiste nell’ultima frase, anche se si stabilisce
che da lì in avanti i personaggi vivranno felici e contenti. In un’esperienza
speci camente estetica sono dominanti caratteristiche che in altre
esperienze risultano attenuate; assumono la guida le caratteristiche
subordinate – ossia quelle in virtù delle quali l’esperienza è un’esperienza
integrale compiuta per conto proprio.
In ogni esperienza completa c’è forma perché c’è organizzazione
dinamica. Chiamo dinamica l’organizzazione perché ha bisogno di tempo
per compiersi, perché è una crescita. C’è inizio, sviluppo, compimento. Si
ingerisce e si digerisce del materiale interagendo con quella
organizzazione vitale dei risultati dell’esperienza precedente che
costituisce la mente di chi opera. L’incubazione va avanti nché ciò che è
concepito non viene partorito e reso percepibile come parte del mondo
comune. Si può comprimere un’esperienza estetica in un momento solo
nel senso che una progressione di processi precedenti che durano a lungo
può sfociare in un movimento culminante che raccoglie in sé ogni altra
cosa tanto da far dimenticare tutto il resto. Ciò che distingue un’esperienza
in quanto estetica è la trasformazione di resistenza e tensioni, di eccitazioni
che in loro stesse sono tentazioni alla diversione, nel movimento verso una
conclusione comprensiva e appagante.
Fare esperienza, come respirare, è un’alternanza ritmica di immissione
ed emissione. La loro successione è scandita e trasformata in ritmo
dall’esistenza di intervalli, periodi nei quali una fase va a cessare e l’altra si
pro la e si prepara. Giustamente William James ha paragonato il corso di
un’esperienza cosciente con i momenti alternati di volo e di sosta di un
uccello34. I voli e le soste sono strettamente connessi tra loro; non sono
tanti momenti di posa irrelati seguiti da alcuni saltelli egualmente irrelati.
Ogni luogo di sosta nell’esperienza è un subire in cui si assorbono e si
assimilano le conseguenze delle azioni precedenti, e, almeno se non è
dovuto ad estremo capriccio o a mera routine, ogni agire porta in sé un
signi cato che è stato estratto e conservato. Come nel caso dell’avanzata di
un esercito, tutte le conquiste dovute a ciò che è già stato effettuato sono
periodicamente consolidate, e sempre mirando a ciò che dev’essere fatto
dopo. Se ci muoviamo troppo rapidamente ci stacchiamo dalla base dei
rifornimenti – dei signi cati accumulati – e l’esperienza è confusa, debole
e disorientata. Se bighelloniamo per troppo tempo dopo avere ricavato un
valore netto, l’esperienza muore di inedia.
La forma dell’intero è pertanto presente in ogni membro. Dare
compimento, perfezionare, sono funzioni continue e non meri ni situati
in un solo posto. Un incisore, pittore o scrittore si trova in un processo di
completamento ad ogni stadio del suo lavoro. In ogni punto deve
mantenere e ricapitolare ciò che è venuto prima come un intero e in
rapporto all’intero che verrà. Altrimenti i suoi atti successivi diventano
privi di consistenza e sicurezza. La serie di azioni nel ritmo dell’esperienza
dà varietà e movimento, salvando così l’opera dalla monotonia e da inutili
ripetizioni. I momenti passivi sono gli elementi corrispondenti nel ritmo, e
conferiscono unità, salvando così l’opera dalla mancanza di scopo propria
di una mera successione di eccitazioni. Un oggetto è peculiarmente e
prevalentemente estetico, e dunque consente il godimento caratteristico di
una percezione estetica, quando i fattori che fan sì che qualcosa possa
essere chiamato una esperienza sono innalzati molto al di sopra della soglia
percettiva e vengono resi manifesti per loro stessi.
4 – L’atto dell’espressione

Ogni esperienza, di lieve o enorme entità, comincia con un impulso,


anzi: come un impulso. Dico “impulso” e non “stimolo”. Uno stimolo è
specializzato e particolare; anche quando è istintivo, è solo una parte del
meccanismo coinvolto in un adattamento più complesso con l’ambiente.
“Impulso” designa un movimento all’infuori e in avanti dell’intero
organismo a cui sono di ausilio particolari stimoli. È l’insaziabile richiesta
di cibo della creatura vivente che va distinta dalle reazioni della lingua e
delle labbra coinvolte nell’inghiottimento; è il girarsi verso la luce da parte
del corpo come un tutto, come l’eliotropismo delle piante, che va distinto
dal seguire una luce particolare da parte degli occhi.
Essendo il movimento dell’organismo nella sua interezza, l’impulso è lo
stadio iniziale di ogni esperienza compiuta. Se si osservano i bambini si
scoprono molte reazioni particolari. Esse tuttavia non sono, perciò, l’inizio
di esperienze compiute. Entrano in tali esperienze solo quando si
intrecciano come li in un’attività che mette in gioco l’intero sé. Quando si
trascurano queste attività complessive e si fa attenzione solo alle
differenziazioni, le stesse divisioni del lavoro che le rendono più ef cienti
diventano di fatto fonte e causa di tutti gli altri errori che si commettono
nell’interpretare l’esperienza.
Gli impulsi sono gli inizi di un’esperienza compiuta perché procedono
dal bisogno; da un appetito e da un’esigenza che appartengono
all’organismo nella sua interezza e che possono essere placati solo
istituendo relazioni de nite (relazioni attive, interazioni) con l’ambiente.
Solo in un senso assai super ciale l’epidermide indica dove termina un
organismo e dove comincia il suo ambiente. Ci sono cose dentro il corpo
che sono estranee all’organismo, e ci sono cose fuori di esso che gli
appartengono de jure35 se non de facto36; ossia, di cui bisogna prendere
possesso per continuare a vivere. Al livello più basso tali cose sono l’aria e
le sostanze per nutrirsi; al livello più elevato sono strumenti, come la penna
dello scrittore o l’incudine del fabbro, utensili e arredi, proprietà, amici e
istituzioni – tutti i supporti e i sostegni senza i quali non ci potrebbe essere
vita civile. Il bisogno che si manifesta negli impulsi urgenti che devono
essere soddisfatti mediante ciò che può fornire l’ambiente – e solo esso – è
un riconoscimento dinamico di questa dipendenza del sé in quanto intero
dall’ambiente circostante.
È però destino di una creatura vivente di non potersi garantire ciò che le
spetta senza avventurarsi in un mondo che nel suo complesso non le
appartiene e su cui non vanta diritti originari. Ogni volta che lo stimolo
organico eccede il limite del corpo, essa si trova in un mondo estraneo e in
una certa misura af da le sorti del sé a una circostanza esterna. Non può
raccogliere solo quel che vuole e lasciar perdere automaticamente ciò che
è indifferente e avverso. Se e nché l’organismo continua a svilupparsi,
viene aiutato come un vento favorevole aiuta chi corre. Ma sulla sua rotta
di navigazione l’impulso incontra anche molte cose che lo deviano e gli si
oppongono. Nel processo in cui questi ostacoli e condizioni neutrali si
convertono in forze favorevoli la creatura vivente prende coscienza
dell’intento che è implicito nel suo impulso. Sia se ha successo che se
fallisce, il sé non restaura semplicemente se stesso nel suo stato precedente.
Un cieco slancio è stato mutato in scopo; tendenze istintive sono
trasformate in imprese piani cate. Gli atteggiamenti del sé hanno acquisito
signi cato.
Un ambiente sempre e ovunque congeniale alla realizzazione diretta dei
nostri impulsi porrebbe senz’altro termine alla crescita con la stessa
certezza con cui un ambiente sempre ostile sarebbe irritante e distruttivo.
Un impulso continuamente sostenuto nel suo avanzamento compirebbe il
proprio cammino senza dare a ri ettere e risultando emotivamente morto.
Infatti non dovrebbe render conto di sé facendo riferimento alle cose che
incontra, e quindi tali cose non diventerebbero oggetti signi cativi. L’unica
strada perché divenga consapevole della sua natura e della sua meta passa
attraverso gli ostacoli superati e i mezzi impiegati; dei mezzi che siano solo
mezzi n dall’inizio si identi cano troppo con un impulso, lungo una
strada già liscia e spianata, perché se ne abbia coscienza. E se non incontra
resistenza dall’ambiente circostante il sé nemmeno riesce a rendersi conto
di se stesso; non avrebbe né sentimento né interesse, né paura né speranza,
né delusione né esultanza. La mera opposizione di un ostacolo
insormontabile crea irritazione e rabbia. Invece una resistenza che sollecita
il pensiero genera curiosità e crea attenzione e, quando è vinta e asservita,
sfocia nell’esultanza.
Ciò che non fa che scoraggiare un bambino, o qualcuno che non abbia
maturato un bagaglio di esperienze rilevanti, è che chi ha già acquisito
esperienze di situazioni suf cientemente simili da essere richiamate inviti a
ricorrere all’intelligenza per piani care e convertire l’emozione in
interesse. Un impulso che deriva dal bisogno dà inizio a un’esperienza che
non sa dove sta andando; resistenza e impedimento determinano la
conversione di un’azione diretta in avanti in una ri- essione; ciò a cui ci si
rivolge è la relazione tra le condizioni che ostacolano e quel che possiede il
sé come capitale di lavoro acquisito grazie a esperienze precedenti. Dal
momento che le energie in tal modo implicate rafforzano l’impulso
originale, questo opera con maggiore circospezione cogliendo con
chiarezza ne e metodo. Questo è il pro lo di ogni esperienza che sia
fornita di signi cato.
Che tensione richiami energia e che una totale mancanza di opposizione
non favorisca uno sviluppo normale sono fatti noti. In generale, tutti
riteniamo auspicabile lo stato di cose in cui vi è equilibrio tra condizioni
che agevolano e condizioni che frenano – purché le condizioni avverse
abbiano una stretta relazione con ciò che ostacolano invece di essere
arbitrarie ed estranee. Tuttavia ciò che viene suscitato non è un elemento
di pura quantità, né solo maggiore energia, ma un elemento qualitativo,
una trasformazione dell’energia in un’azione dotata di ri essione, grazie
all’assimilazione di signi cati dal bagaglio di esperienze passate. La
giunzione tra nuovo e vecchio non è una mera composizione di forze; è
invece una ri-creazione in cui l’impulso presente acquisisce forma e
consistenza mentre il materiale vecchio, il materiale “immagazzinato”,
letteralmente si rianima, ottiene nuova vita e nuova anima dovendo far
fronte a una nuova situazione.
È questo doppio cambiamento che trasforma un’attività in un atto
d’espressione. Cose nell’ambiente che altrimenti sarebbero solo alvei
scorrevoli ovvero ciechi ostacoli diventano mezzi, media. Al tempo stesso
cose trattenute dall’esperienza passata che sarebbero avvizzite per la
routine o divenute inerti per mancanza di utilizzo, diventano coef cienti
in nuove avventure e indossano la veste di un nuovo signi cato. Qui ci
sono tutti gli elementi necessari per de nire un’espressione. La de nizione
guadagnerà forza se espliciteremo i tratti ricordati per contrasto con
situazioni alternative. Non ogni attività rivolta all’esterno ha la natura di
un’espressione. A un estremo, ci sono tempeste di passioni che infrangono
barriere e spazzano via tutto quello che si frappone tra una persona e
qualcosa che essa vuol distruggere. C’è attività, ma dal punto di vista di chi
sta agendo non c’è espressione. Uno spettatore può dire “Che magni ca
espressione di rabbia!”. Ma la persona irritata sta solo agendo con rabbia,
cosa completamente differente dall’esprimere rabbia. Oppure, ancora, uno
spettatore può dire “Come esprime quest’uomo il suo carattere dominante
in ciò che fa o dice”. Ma l’ultima cosa a cui l’uomo in questione sta
pensando è di esprimere il proprio carattere; sta solo dando sfogo a un
accesso di passione. Ancora, l’urlo o il sorriso di un fanciullo può essere
espressivo per la madre o per la balia e tuttavia non essere un atto di
espressione del bimbo. Per lo spettatore è un’espressione perché dice
qualcosa sullo stato del bambino. Il bambino, però, è solo impegnato
direttamente a fare qualcosa, dalla sua prospettiva nulla che sia più
espressivo del respirare o dello starnutire – attività che sono pure espressive
per chi osserva le condizioni del fanciullo.
La generalizzazione di tali esempi ci proserverà dall’errore – che ha
purtroppo invaso la teoria estetica – di supporre che il semplice dar sfogo a
un impulso, innato o acquisito, costituisca un’espressione. Un atto del
genere è espressivo non in se stesso, ma solo nell’interpretazione ri essiva
da parte di qualche osservatore – come quando la balia interpreta uno
starnuto come segno di un raffreddore imminente. Finché si considera
l’atto stesso, esso è, se puramente impulsivo, semplicemente un traboccare.
Non essendoci espressione nché non c’è spinta dall’interno all’esterno,
prima di poter essere un atto d’espressione lo sfogo deve essere chiarito e
ordinato assumendo in sé i valori di esperienze precedenti. E questi valori
non sono messi in gioco se non per il tramite di oggetti dell’ambiente che
oppongono resistenza allo sfogo diretto di un’emozione e di uno stimolo.
Lo sfogo emotivo è una condizione necessaria ma non suf ciente
dell’espressione.
Non c’è espressione senza eccitamento, senza agitazione. Tuttavia
un’agitazione interna che si sfoga d’un ato in una risata o in un pianto
svanisce appena appare. Sfogarsi è sbarazzarsi di qualcosa, liberarsene;
esprimere è trattenersi presso qualcosa, portarne avanti lo sviluppo,
elaborarla no al completamento. Uno scoppio di lacrime può dare rilievo,
un impeto distruttivo può dare sfogo a una rabbia interna. Ma quando non
si gestiscono le condizioni oggettive, quando non si plasmano i materiali al
ne di dare corpo all’eccitamento, non c’è espressione. Ciò che talvolta si
chiama atto di auto-espressione lo si potrebbe de nire in modo migliore
atto di auto-esposizione; svela il carattere – o la mancanza di carattere – ad
altri. In se stesso è solo un erompere.
Il passaggio da un atto che è espressivo dal punto di vista di un
osservatore esterno a un atto intrinsecamente espressivo lo illustra
facilmente un caso semplice. Dapprima un bimbo piange esattamente
come gira la testa per seguire la luce; c’è una spinta interna, ma nulla da
esprimere. Quando il fanciullo cresce, impara che atti particolari generano
conseguenze differenti, che ad esempio riceve attenzione quando piange e
che il sorriso provoca un’altra risposta determinata da parte di coloro che
lo circondano. Comincia così a rendersi conto del signi cato di ciò che fa.
Quando afferra il signi cato di un atto dapprima eseguito per pura e
semplice pressione interna, diventa capace di atti di vera espressione. La
trasformazione di suoni, balbettii, lallazioni ecc. in linguaggio è un
esempio perfetto del modo in cui vengono alla luce atti d’espressione e
anche della differenza tra loro e meri atti di sfogo.
In tali casi viene richiamata, anche se non esempli cata con precisione,
la connessione tra l’espressione e l’arte. Quando ha capito quale effetto fa
un suo atto un tempo spontaneo su coloro che lo circondano, il bambino
compie “di proposito” un atto che era cieco. Comincia a gestire e
organizzare le proprie attività in relazione alle loro conseguenze. Le
conseguenze che si subiscono a causa di quel che si fa sono incorporate
come il signi cato di azioni successive dal momento che si è percepita la
relazione tra fare e subire. Il bambino ora può piangere per uno scopo,
perché vuole attenzione o conforto. Può cominciare a dispensare i suoi
sorrisi come lusinghe o come favori. Ora c’è arte allo stato nascente.
Un’attività che era “naturale” – spontanea e inintenzionale – è trasformata
perché viene intrapresa come mezzo in rapporto a una conseguenza
deliberatamente ricercata. Tale trasformazione caratterizza ogni fatto
artistico. Il risultato della trasformazione può essere arti cioso invece che
estetico. Il sorriso di adulazione e il cenno convenzionale di saluto sono
arti ci. Ma anche un sincero atto gentile di benvenuto racchiude la
trasformazione di un gesto che una volta era la manifestazione cieca e
“naturale” di un impulso in un atto artistico, in qualcosa che si compie in
considerazione della sua collocazione o relazione all’interno del processo
di uno stretto rapporto umano.
La differenza tra arti ciale, arti cioso e artistico è palmare. Nel primo c’è
uno iato tra ciò che si fa apertamente e ciò che è nelle intenzioni. Vi è
un’apparenza di cordialità ma l’intenzione è di guadagnare favore. Ogni
volta che sussiste questo iato tra ciò che si fa e il suo scopo, c’è insincerità,
trucco, simulazione di un atto che di per sé mira a un altro effetto.
Quando natura ed educazione si fondono in unità, gli atti di relazione
sociale sono opere d’arte. L’impulso che anima una cordiale amicizia e
l’atto perfettamente compiuto coincidono senza che intervengano altri
scopi. L’imbarazzo può impedire l’adeguatezza dell’espressione. Ma ciò
che è abilmente dissimulato, per quanto si sia abili, ltra attraverso la
forma dell’espressione; non ha la forma dell’amicizia e non vi rientra. La
sostanza dell’amicizia non ne viene toccata.
Un atto di sfogo o di mera esibizione manca di un medium. Il pianto o il
sorriso istintivo non richiedono un medium più di uno starnuto o di un
ammiccamento. Scorrono attraverso qualche canale, ma i mezzi attraverso
cui si scaricano non sono usati come mezzi che appartengono
immanentemente a un ne. L’atto che esprime un benvenuto usa come
media il sorriso, la mano tesa, l’illuminarsi del volto, non per scelta
deliberata ma perché sono diventati mezzi organici per comunicare il
piacere di incontrare un caro amico. Atti che in origine erano spontanei
sono trasformati in mezzi che rendono più ricco e cordiale il rapporto
umano – così come un pittore trasforma un colore in mezzo per esprimere
un’esperienza immaginativa. Danza e sport sono attività in cui atti un
tempo eseguiti spontaneamente uno alla volta sono uniti e trasformati da
materiale grezzo, crudo, in opere di arte espressiva. Solo dove il materiale è
impiegato come media c’è espressione e arte. I tabù selvaggi che
all’osservatore esterno sembrano mere proibizioni e inibizioni imposte da
fuori, per coloro che ne fanno esperienza possono essere i media per
esprimere ceto, dignità e onore. Tutto dipende dal modo in cui viene usato
un materiale quando agisce come medium.
La connessione tra un medium e l’atto dell’espressione è intrinseca. Un
atto d’espressione impiega sempre un materiale naturale, sebbene possa
essere naturale nel senso di abituale così come nel senso di primitivo o
innato. Esso diventa un medium quando è impiegato in considerazione
della sua collocazione e del suo ruolo, nelle sue relazioni, in
considerazione di una situazione comprensiva – come i suoni diventano
musica quando sono ordinati in una melodia. Gli stessi suoni potrebbero
essere prodotti in connessione con un atteggiamento di gioia, sorpresa o
tristezza, ed essere gli sbocchi naturali di particolari sentimenti. Essi sono
espressivi di una di queste emozioni quando altri suoni costituiscono il
medium in cui si presenta uno di loro.
Etimologicamente, un atto d’espressione è uno spremere fuori, un
estrarre. Il succo è espresso37 quando gli acini sono schiacciati nel torchio;
per un usare un paragone più prosaico, lardo e olio vengono raf nati
sottoponendo alcuni grassi a calore e pressione. Niente viene estratto se
non da un materiale originariamente grezzo o naturale. Ma è altrettanto
vero che la mera fuoriuscita o emissione di materiale grezzo non è
espressione. Il succo viene fuori interagendo con qualcosa di esterno ad
esso, il torchio o i piedi dell’uomo che pigiano. Buccia e vinaccioli
vengono separati e ltrati; passano solo quando l’apparato è difettoso.
Anche nelle modalità d’espressione più meccaniche c’è interazione e
conseguente trasformazione del materiale originario che si presenta come
materiale grezzo per un prodotto dell’arte, in relazione a ciò che viene
effettivamente estratto. Ci vogliono sia il torchio che gli acini per es-
primere38 il succo, e per costituire una espressione di emozioni ci vogliono
tanto oggetti che stanno attorno e che fanno resistenza quanto emozioni
interne e impulsi interni.
Parlando della produzione della poesia, Samuel Alexander ha osservato
che «l’opera dell’artista procede non da un’esperienza immaginativa nita
a cui corrisponde l’opera d’arte, ma dall’eccitamento passionale relativo al
contenuto. [...] L’opera del poeta gli viene estorta dall’argomento che lo
stimola»39. Basandoci su quel che dice questo passaggio possiamo fare
quattro considerazioni. Una può essere utile ora per corroborare un punto
stabilito nei capitoli precedenti. L’opera d’arte vera e propria è la
costruzione di un’esperienza integrale attraverso l’interazione tra
condizioni ed energie organiche e ambientali. Più vicino al nostro tema
attuale è il secondo punto: la cosa espressa viene estorta al produttore dalla
pressione esercitata da cose oggettive sugli impulsi e sulle tendenze
naturali – essendo dunque l’espressione ben altro che l’esito diretto e
incontaminato di questi ultimi elementi. Il terzo punto è conseguente.
L’atto d’espressione che costituisce un’opera d’arte è una costruzione nel
tempo, non un’emissione istantanea. E questa affermazione signi ca assai
di più che non che ci vuole tempo perché il pittore trasferisca sulla tela la
sua concezione immaginativa o lo scultore nisca di lavorare il marmo.
Signi ca che l’espressione del sé in e attraverso un medium, che è
costitutivo dell’opera d’arte, è essa stessa una interazione prolungata di
qualcosa che scaturisce dal sé con condizioni oggettive, un processo in cui
entrambi questi elementi acquisiscono una forma e un ordine che
dapprima non possedevano. Anche l’Onnipotente ebbe bisogno di sette
giorni per creare il cielo e la terra e, se la storia fosse completa,
apprenderemmo anche che fu solo alla ne di quel periodo che si rese
conto di cosa si era messo a fare con il materiale grezzo del caos che aveva
di fronte. Solo una meta sica soggettiva svirilizzata ha trasformato
l’eloquente mito della Genesi nella concezione di un Creatore che crea
senza materia informe su cui lavorare.
L’ultima considerazione è che quando l’eccitamento suscitato
dall’argomento va in profondità, mette in movimento una gran quantità di
atteggiamenti e signi cati derivati dall’esperienza precedente. Appena
rimessi in attività diventano pensieri ed emozioni coscienti, immagini rese
emotive. Essere in ammati da un pensiero o una scena vuol dire essere
ispirati. Ciò che è arroventato non può che consumarsi, incenerirsi, o
metter capo a un materiale che lo trasforma da metallo grezzo in un
prodotto raf nato. Più di una persona è infelice, tormentata interiormente,
perché non dispone dell’arte di compiere azioni espressive. Ciò che in
condizioni più felici potrebbe essere usato per trasformare un materiale
oggettivo nel materiale di un’esperienza intensa e chiara, ribolle all’interno
in un tumulto sregolato che alla ne si spegne, eventualmente dopo una
dolorosa disgregazione interna.
L’ispirazione è costituita da materiali che vanno soggetti a combustione
per contatti ravvicinati e per resistenze esercitate l’uno nei confronti
dell’altro. Sul versante del sé, elementi che scaturiscono da un’esperienza
precedente sono messi in azione in nuovi desideri, impulsi e immagini.
Questi provengono dal subconscio, non freddi o in forme da identi care
con particolari del passato, non a pezzi o a blocchi, ma fusi nel fuoco
dell’agitazione interna. Non sembrano venire dal sé, perché scaturiscono
da un sé di cui non si ha conoscenza consapevole. Quindi, stando a un
mito indovinato l’ispirazione va attribuita a un dio o alla musa.
L’ispirazione comunque è iniziale. In se stessa, al principio, è ancora
abbozzata. Il materiale interno che arde deve trovare combustibile
oggettivo con cui alimentarsi. Grazie all’interazione del combustibile con
materiale già in amme nasce il prodotto raf nato e formato. L’atto
dell’espressione non è qualcosa che sopravviene sull’ispirazione già
compiuta. È il portare avanti il completamento di un’ispirazione
servendosi del materiale oggettivo della percezione e dell’immaginario40.
Un impulso non può condurre all’espressione se non quando si aggiunge
ad agitazione, tumulto. Se non c’è com-pressione nulla è es-presso41. Il
tumulto segna il luogo in cui impulso interno e contatto con l’ambiente,
effettivamente o idealmente, si incontrano generando un fermento. La
danza di guerra e la danza per il raccolto che compie il selvaggio non
scaturiscono dall’interno se non c’è la minaccia di un’incursione nemica o
se non ci sono messi da raccogliere. Per generare l’eccitamento
indispensabile ci dev’essere in gioco qualcosa, qualcosa che sia importante
e incerto – come l’esito di una battaglia o le previsioni per un raccolto.
Una cosa certa non ci scuote emotivamente. Quindi ad essere espresso non
è il mero eccitamento, ma l’eccitamento-relativo-a-qualcosa; e, inoltre, può
anche darsi che il mero eccitamento, fuorché il panico totale, si serva di
canali per agire che sono stati adoperati da attività precedenti che avevano
a che fare con oggetti. Così, come i movimenti di un attore che interpreti
la sua parte automaticamente, esso simula un’espressione. Persino un
disagio inde nito cerca sbocco nel canto o nella pantomima, sforzandosi di
diventare articolato.
Quasi tutte le concezioni erronee della natura dell’atto espressivo
traggono origine dall’idea per cui un’emozione sarebbe compiuta in se
stessa internamente, ed andrebbe quindi a collidere con un materiale
esterno solo quando viene esternata. Ma in realtà un’emozione è diretta a,
o derivante da o relativa a qualcosa di oggettivo, effettivamente o
idealmente. Un’emozione è implicata in una situazione il cui esito è
sospeso e in cui il sé che si muove nell’emozione è coinvolto vitalmente. Le
situazioni sono deprimenti, minacciose, intollerabili, trionfali. La gioia per
la vittoria conseguita da un gruppo con cui si identi ca una persona non è
qualcosa che si compie internamente, né il dolore per la morte di un amico
si può comprendere senza che il sé venga intriso dalle condizioni
oggettive.
Quest’ultimo fatto è particolarmente importante per quel che riguarda
l’individuazione delle opere d’arte. L’idea per cui l’espressione è una
emissione diretta di un’emozione compiuta in sé comporta logicamente il
fatto che l’individuazione sia capziosa ed estrinseca. Infatti, secondo tale
idea, la paura è paura, l’euforia è euforia, l’amore è amore; ciascuno
costituisce un genere e si distingue al suo interno solo per variazioni di
intensità. Se questa idea fosse corretta, le opere d’arte rientrerebbero
necessariamente in determinati tipi. Questa concezione ha contagiato la
critica senza però aiutare a comprendere opere d’arte concrete. Se non
nominalmente, non esistono cose come la emozione di paura, odio, amore.
Il carattere unico, irriproducibile, di eventi e situazioni di cui si è fatta
esperienza impregna l’emozione suscitata. Se la funzione del linguaggio
fosse di riprodurre ciò a cui si riferisce, non potremmo mai parlare di
paura, ma solo della paura-di-questa-particolare-automobile-che-sta-
arrivando, con tutte le relative speci cazioni di spazio e di tempo, oppure
della paura-di-trarre-una-conclusione-sbagliata-in-particolari-circostanze
da dati-proprio-così-e-così. L’arco di una vita sarebbe troppo breve per
riprodurre in parole una singola emozione. In realtà, però, poeta e
narratore quando trattano di un’emozione hanno un immenso vantaggio
addirittura su uno psicologo esperto. Infatti costruiscono una situazione
concreta e fanno sì che sia essa a suscitare una risposta emotiva. Invece di
descrivere un’emozione in termini intellettuali e simbolici, l’artista
“compie l’atto che genera” l’emozione.
Che l’arte sia selettiva è un fatto universalmente riconosciuto. Lo è per il
ruolo che svolge l’emozione nell’atto dell’espressione. Ogni stato d’animo
dominante esclude automaticamente tutto ciò che non gli è congeniale.
Un’emozione è più ef cace di quanto lo possa essere qualsiasi sentinella
attenta e vigile. Allunga tentacoli all’esterno in cerca di ciò che è af ne, di
cose che la nutrano e la portino a completamento. Solo quando l’emozione
muore o si è infranta in frammenti dispersi può entrare nella coscienza il
materiale con cui essa è incompatibile. L’operazione di selezione dei
materiali effettuata in modo così potente da un’emozione in evoluzione
attraverso una serie di atti continui estrae materia da una moltitudine di
oggetti, numericamente e spazialmente separati, e condensa ciò che viene
ricavato in un oggetto che è un’epitome dei valori che appartengono a tutti
loro. Questa funzione crea la “universalità” di un’opera d’arte.
Se si esamina la ragione per cui certe opere d’arte ci disturbano, è
probabile che si trovi che la causa è l’assenza di un’emozione sentita di
persona a guidare la selezione e la raccolta dei materiali presentati. Se ne
trae l’impressione che l’artista, ad esempio l’autore di un racconto, stia
cercando di conformare la natura dell’emozione suscitata a un’intenzione
calcolata. Siamo irritati quando sentiamo che egli sta manipolando
materiali per ottenere un effetto deciso in anticipo. Gli aspetti dell’opera,
nella varietà che le è così indispensabile, sono tenuti insieme da una
qualche forza esterna. Il movimento delle parti e la conclusione non
rivelano alcuna necessità logica. Arbitro è l’autore e non il contenuto
trattato.
Quando si legge un racconto, anche un racconto scritto da un esperto
artigiano, si può avere la sensazione già nelle prime parti della storia che
l’eroe o l’eroina siano condannati, condannati non da qualcosa di
intrinseco alle situazioni e al personaggio, ma dall’intenzione dell’autore
che fa del personaggio un burattino per affermare l’idea che egli predilige.
La sensazione spiacevole che ne deriva è di irritazione non perché sia
spiacevole, ma perché ci è imposta da qualcosa che sentiamo provenire
dall’esterno del movimento del contenuto trattato. Un’opera può essere
davvero molto tragica e tuttavia lasciarci con un’emozione di appagamento
piuttosto che di irritazione. Ci rassegniamo alla conclusione perché
sentiamo che è intrinseca al movimento del contenuto rappresentato.
L’evento è tragico, ma il mondo in cui accadono tali cose fatidiche non è
un mondo arbitrario e imposto. L’emozione dell’autore e quella suscitata in
noi sono determinate da scene interne a quel mondo e si fondono con il
contenuto trattato. È per ragioni simili che ci ripugna l’intrusione di un
disegno morale nella letteratura, mentre invece accettiamo esteticamente
una qualunque dose di contenuto morale purché sia tenuta insieme da
un’emozione sincera che governi il materiale. Una amma candida di pietà
o indignazione può trovare materiale che l’alimenti e può fondere in un
intero vitale tutto quello che si è raccolto.
Proprio perché l’emozione è essenziale per quell’atto d’espressione che
produce un’opera d’arte, per un’analisi poco accurata è facile fraintendere
il suo modo di operare e concludere che è per il suo contenuto
signi cativo che l’opera d’arte ha emozione. Si può piangere per la gioia o
perché si vede un amico da cui si è stati separati per molto tempo. L’esito
non è un oggetto espressivo – se non per chi osserva. Ma se l’emozione
porta a raccogliere materiale associato allo stato d’animo suscitato, può
risultarne un’opera poetica. Nello sfogo diretto una situazione oggettiva è
lo stimolo, la causa, dell’emozione. Nell’opera poetica il materiale
oggettivo diventa il contenuto e la materia dell’emozione, non già
l’occasione per suscitarla.
Nello sviluppo di un atto espressivo l’emozione opera come un magnete
che attira a sé materiale adeguato: adeguato perché ha un’af nità
emozionale esperita con lo stato mentale già attivo. Selezione e
organizzazione del materiale sono al tempo stesso una funzione e una
veri ca di qualità dell’emozione provata. Nel vedere un dramma, nel
contemplare un quadro o nel leggere un racconto possiamo sentire che le
parti non sono connesse. O l’autore non ha fatto un’esperienza
emotivamente intonata, o, pur avendo all’inizio un’emozione sentita,
questa non si è prolungata, e l’opera è stata dettata da una successione di
emozioni irrelate. Nell’ultimo caso l’attenzione ha oscillato e cambiato
direzione, dando luogo a un accumulo di parti incongrue. L’osservatore o
il lettore sensibile si rende conto delle giunzioni e delle cuciture, dei buchi
riempiti arbitrariamente. Certo, un’emozione deve agire. Ma essa opera
per determinare continuità di movimento, unicità d’effetto nella varietà.
Seleziona materiale e ne governa l’ordine e la disposizione. Ma non è ciò
che si esprime. Senza emozione ci può essere artigianato, ma non arte;
l’emozione può essere presente e intensa, ma se viene manifestata
direttamente il risultato non è comunque arte.
Ci sono altre opere che sono sovraccariche di emozione. Per la teoria
secondo cui la manifestazione di un’emozione ne è l’espressione, non ci
potrebbe essere un sovraccarico; più intensa è l’emozione, più ef cace è
l’“espressione”. In realtà, una persona sopraffatta da un’emozione è per
ciò stesso incapace di esprimerla. C’è almeno questo elemento di verità
nella formula di Wordsworth della «emozione rivissuta in tranquillità»42.
Quando si è dominati da un’emozione c’è troppa passività (stando al
linguaggio con cui si è descritto il fare esperienza) e troppo poca risposta
attiva per permettere che si instauri una relazione equilibrata. C’è troppa
“natura” per consentire che si sviluppi arte. Molti dei quadri di Van Gogh,
ad esempio, possiedono un’intensità che sollecita una corda per risonanza.
Ma con l’intensità c’è una esplosività dovuta alla mancanza di esercizio di
un controllo. In casi estremi l’emozione crea disordine anziché ordinare un
materiale. Un’emozione insuf ciente sfocia in un prodotto freddamente
“corretto”. Un’emozione eccessiva ostacola la necessaria elaborazione e
de nizione di parti.
La determinazione del mot juste43, dell’episodio giusto al posto giusto,
dell’eccellenza della proporzione, della tonalità, della sfumatura e della
gradazione precisa che serve a uni care l’intero de nendone una parte, è
effettuata da un’emozione. Non ogni emozione, però, può compiere
questo lavoro, ma solo un’emozione che trae forma dai materiali afferrati e
raccolti. Un’emozione assume forma e viene spinta in avanti quando la si
sfrutta indirettamente nel cercare materiale e nel dargli ordine, non
quando la si consuma direttamente.
Le opere d’arte spesso ci mostrano un’aria di spontaneità, una qualità
lirica, come se fossero il canto non premeditato di un uccello. Ma l’uomo,
per fortuna o per sfortuna, non è un uccello. I suoi sfoghi più spontanei, se
sono espressivi, non sono il tracimare di pressioni interne momentanee. Lo
spontaneo nell’arte è totale assorbimento in un contenuto che è nuovo, la
cui novità trattiene e sorregge un’emozione. La mancanza di novità
dell’argomento e l’introduzione surrettizia di calcolo sono i due nemici
della spontaneità dell’espressione. La ri essione, anche una ri essione
lunga e dif cile, può aver preso parte alla generazione del materiale. Ma
un’espressione mostrerà comunque spontaneità se quell’argomento è stato
assimilato vitalmente in un’esperienza presente. L’inevitabile movimento
autonomo44 di un’opera poetica o drammaturgica è compatibile con una
qualunque quantità di lavoro precedente sempre che i risultati di quel
lavoro emergano completamente fusi con un’emozione che sia fresca.
Keats dice in modo poetico come si raggiunge un’espressione artistica
raccontando delle «innumerevoli composizioni e decomposizioni che
hanno luogo tra l’intelletto e i suoi mille materiali prima che si arrivi alla
trepida, delicata, vibrante percezione della Bellezza»45.
Ognuno di noi assimila in se stesso qualcosa dei valori e dei signi cati
contenuti in esperienze passate. Ma lo facciamo in gradi differenti e a
livelli differenti del nostro sé. Alcune cose scendono in profondità, altre
stanno sulla super cie e sono rimosse con facilità. Gli antichi poeti
invocavano tradizionalmente la musa della memoria come qualcosa che
era del tutto esterna a loro – esterna ai loro sé di cui erano al momento
consapevoli. L’invocazione è un tributo al potere di ciò che giace più in
profondità, e dunque si trova più lontano al di sotto della coscienza, ma
che determina il sé attuale e ciò che ha da dire. Non è vero che
“dimentichiamo” o lasciamo cadere nell’inconscio solo cose estranee e
spiacevoli. È anzi più vero che le cose che abbiamo reso più
compiutamente parte di noi stessi, che abbiamo assimilato per comporre la
nostra personalità e non meramente trattenuto come episodi, smettono di
avere un’esistenza conscia separata. Vi sono occasioni di qualsiasi genere
che sommuovono la personalità che si è così formata. Nasce allora il
bisogno di esprimere. Ad essere espressi non saranno gli eventi passati che
hanno esercitato la loro in uenza formativa, e neppure l’occasione attuale
in senso stretto. Sarà, con vari gradi di spontaneità, una stretta unione delle
caratteristiche dell’esistenza attuale con i valori che l’esperienza passata ha
fatto incorporare nella personalità. Immediatezza e individualità, i tratti
che contraddistinguono l’esistenza concreta, derivano dall’occasione
presente; signi cato, sostanza, contenuto da ciò che si è impresso nel sé dal
passato.
Non penso che la danza e il canto anche di bambini piccoli si possano
spiegare interamente sulla base di reazioni inconsapevoli e informi a
occasioni oggettive che esistono al momento. Ovviamente nel presente ci
deve essere qualcosa che susciti felicità. Ma l’atto è espressivo solo quando
in esso c’è unisono tra qualcosa che si è accumulato da un’esperienza
passata, e dunque qualcosa che si è generalizzato, e condizioni presenti.
Nel caso delle espressioni di bambini felici il matrimonio tra valori passati e
avvenimenti presenti ha luogo facilmente; ci sono pochi ostacoli da
superare, poche ferite da sanare, pochi con itti da risolvere. Nel caso di
persone più mature la situazione è rovesciata. Di conseguenza raramente si
realizza unisono perfetto; ma quando accade, ciò si veri ca a un livello più
profondo e con un contenuto di signi cato più pieno. E allora, anche se
dopo una lunga incubazione e preceduta da un doloroso travaglio,
l’espressione nale può sgorgare con la spontaneità del discorso cadenzato
o il movimento ritmico di un’infanzia felice.
In una delle sue lettere al fratello, Van Gogh dice che le «emozioni sono
talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del lavoro, e che talvolta le
pennellate vengono giù una dopo l’altra e i rapporti di colori come le
parole in un discorso o in una lettera»46. Tale pienezza di emozione e
spontaneità nell’esprimere viene però solo a coloro che si sono immersi in
esperienze di situazioni oggettive; a coloro che sono stati a lungo assorti a
osservare materiali correlati e la cui immaginazione è stata a lungo
occupata a ricostruire ciò che si vede e si ode. Altrimenti lo stato è più
simile a uno stato di delirio in cui il senso di una produzione ordinata è
soggettivo e allucinatorio. Anche l’esplosione di un vulcano implica un
lungo periodo di precedente compressione e, se l’eruzione sparge lava fusa
e non solamente rocce e ceneri separate, comporta che il materiale grezzo
originale si trasformi. La “spontaneità” è il risultato di lunghi periodi di
attività, altrimenti è tanto vuota da non essere un atto d’espressione.
Ciò che ha scritto William James sull’esperienza religiosa lo si sarebbe
potuto scrivere tranquillamente sugli antecedenti degli atti d’espressione.
«L’intelligenza cosciente e la volontà dell’individuo, quando si affaticano
verso l’ideale, mirano a qualcosa di immaginato solo in modo confuso e
inde nito. Tuttavia le forze organiche di maturazione progrediscono in
tutto quel periodo verso il loro ne prestabilito, e gli sforzi consapevoli
liberano alleati subconsci dietro le quinte i quali, a modo loro, operano in
direzione dell’assetto; e il riassetto verso cui tendono tutte queste forze più
profonde è de nito con suf ciente sicurezza, e nettamente differente da
quello che l’individuo concepisce e determina coscientemente. Esso può,
quindi, essere effettivamente disturbato – come fosse inceppato […] –
dagli sforzi volontari dell’individuo, che lo fanno desistere dalla giusta
direzione». Quindi, come aggiunge James, «quando il nuovo centro
dell’energia personale è stato tenuto in incubazione subconscia abbastanza
a lungo per essere pronto a orire, “giù le mani” è l’unica regola per noi,
perché deve sbocciare senza soccorsi»47.
Sarebbe dif cile trovare o dare una descrizione migliore della natura
dell’espressione spontanea. La pressione precede la fuoriuscita del succo
dal torchio. Nuove idee vengono senza fretta e tuttavia tempestivamente
alla coscienza solo quando in precedenza si è svolto un lavoro per foggiare
le porte giuste attraverso le quali esse possono guadagnare l’entrata. La
maturazione subcosciente precede la produzione creativa in ogni ambito
in cui l’uomo si mette alla prova. Lo sforzo diretto di “intelligenza e
volontà” di per sé non ha mai dato origine a qualcosa che non fosse
meccanico; la loro funzione è necessaria, però deve lasciare agire alleati
che esistono al di là dei loro scopi. In momenti differenti noi meditiamo su
cose differenti; prendiamo in considerazione scopi che, per quel che
riguarda la coscienza, sono indipendenti, ciascuno essendo appropriato
alla sua occasione speci ca; compiamo atti differenti, ciascuno dei quali
con il suo risultato particolare. Provenendo però tutti da un’unica creatura
vivente, essi sono in qualche modo legati insieme al di sotto del livello
dell’intenzione. Operano assieme e alla ne nasce qualcosa quasi a
dispetto della personalità cosciente, e sicuramente non per sua volontà
deliberata. Quando la pazienza ha svolto tutto il suo lavoro, l’uomo cade
preda della musa appropriata, e parla e canta nel modo dettato da qualche
divinità.
Persone che di solito vengono distinte dagli artisti, ossia “pensatori” e
scienziati, non agiscono affatto in base a intelligenza e volontà consapevoli
tanto quanto comunemente si suppone. Anche loro procedono verso
qualche ne pre gurato in maniera confusa e incerta, cercando a tentoni
la strada come soggiogati dall’identità di un’aura in cui uttuano le loro
osservazioni e le loro ri essioni. Solo la psicologia, avendo separato cose
che in realtà fanno parte l’una dell’altra, sostiene che scienziati e loso
pensano mentre poeti e pittori seguono i loro sentimenti. Negli uni come
negli altri, e nella stessa misura quando sono di rango comparabile, c’è un
pensiero pregno di emozione e ci sono sentimenti la cui sostanza consiste
di signi cati o idee che sono stati valutati. Come ho già detto, la sola
distinzione signi cativa riguarda il tipo di materiale a cui inerisce
l’immaginazione pregna di emozione. Chi è chiamato artista si occupa
tematicamente delle qualità delle cose che appartengono all’esperienza
diretta; chi svolge indagini “intellettuali” tratta queste qualità da una certa
distanza, attraverso la mediazione di simboli che stanno per qualità ma che
non sono signi cativi nella loro presenza immediata. La differenza di
fondo è enorme per quel che concerne la tecnica del pensiero e
l’emozione. Ma non c’è differenza per quel che concerne la dipendenza da
idee pregne di emozione e la maturazione nel subconscio. Pensare
direttamente in termini di colori, suoni, immagini è un’operazione
tecnicamente differente dal pensare in parole. Ma solo per superstizione si
riterrà che, poiché il signi cato di dipinti e sinfonie non può essere
tradotto in parole, o quello della poesia in prosa, allora il pensiero è
monopolizzato da quest’ultima. Se tutti i signi cati potessero essere
espressi adeguatamente da parole, le arti della pittura e della musica non
esisterebbero. Ci sono valori e signi cati che possono essere espressi
solamente da qualità immediatamente visibili e udibili, e chiedere che cosa
signi chino nel senso di qualcosa che possa essere messo in parole è
negare la loro esistenza peculiare.
Persone differenti si distinguono per la relativa quota di partecipazione
con cui intelligenza e volontà consapevoli entrano nei loro atti
d’espressione. Edgar Allan Poe ci ha lasciato una descrizione di come si
svolge il processo dell’espressione per coloro che hanno una forma
mentis48 più pacata. Parlando di che cosa successe quando scrisse The
Raven dice: è raro permettere al pubblico «di vedere dietro la scena le
elaborate e vacillanti crudezze del pensiero – il vero ne colto solo
all’ultimo momento – […] le ruote e i rocchetti, i paranchi per i
cambiamenti di scena, le scale e le trappole del diavolo, le penne di gallo; il
belletto rosso e i nei neri che nel novantanove per cento dei casi
costituiscono l’attrezzeria dell’histrio letterario»49.
Non è necessario prendere troppo seriamente il rapporto numerico
stabilito da Poe. Ma in sostanza ciò che dice presenta in modo pittoresco
una realtà di fatto. Bisogna rilavorare il materiale originale e grezzo
dell’esperienza per garantire un’espressione artistica. Molte volte questo
bisogno è più grande nei casi di “ispirazione” piuttosto che in altri casi. In
questo processo l’emozione suscitata dal materiale originale si modi ca
appena viene a unirsi con il nuovo materiale. Questo fatto ci fornisce
l’indizio chiave sulla natura dell’emozione estetica.
Quanto ai materiali sici che entrano nella formazione di un’opera
d’arte, tutti sanno che essi devono subire una trasformazione. Il marmo
dev’essere scolpito; i colori devono essere messi sulla tela; le parole devono
essere messe assieme. Non viene riconosciuto però in misura egualmente
generale che una trasformazione simile ha luogo sul versante dei materiali
“interni” – immagini, osservazioni, ricordi ed emozioni. Anche questi
vengono progressivamente ri-formati; bisogna amministrare anche loro. In
questa modi cazione consiste la costruzione di un atto veramente
espressivo. L’impulso che sommuove agitando e chiede di esprimersi, per
ricevere una manifestazione pregnante deve sottoporsi a un trattamento
ampio e attento tanto quanto il marmo o la tempera, i colori e i suoni. E
non si tratta di due operazioni, l’una eseguita sul materiale esterno e l’altra
sulla materia interna e mentale.
L’opera è artistica nella misura in cui le due funzioni di trasformazione
vengono svolte con una singola operazione. Quando il pittore stende il
colore sulla tela, o ve lo immagina steso, si ordinano anche le sue idee e il
suo sentimento. Quando lo scrittore compone nel suo medium di parole
ciò che vuole dire, la sua idea assume una forma percepibile anche per lui.
Lo scultore concepisce la sua statua non già in termini mentali, ma in
termini di creta, marmo o bronzo. È cosa relativamente meno importante
che un musicista, un pittore o un architetto elabori la sua idea emotiva
originaria in termini di immaginario uditivo o visivo, oppure secondo il
medium effettivo in cui lavora. Infatti l’immaginario è proprio del medium
oggettivo che viene sviluppato. I media sici possono essere ordinati in
base all’immaginazione oppure in base al materiale concreto. In ogni caso,
il processo sico è sviluppo dell’immaginazione, mentre l’immaginazione
viene concepita nei termini propri di un materiale concreto. Solo mediante
la progressiva organizzazione del materiale “interno” ed “esterno” in
organica connessione tra loro si può produrre qualcosa che non sia un
documento erudito o la riproposizione di qualcosa di noto.
Il modo improvviso di emergere riguarda come il materiale appare sopra
la soglia della coscienza e non il processo della sua creazione. Se
riuscissimo a risalire alle radici di una qualsiasi di queste manifestazioni e
poi a seguirla attraverso la sua storia, troveremmo all’inizio un’emozione
relativamente grezza e inde nita. Troveremmo che essa ha assunto forma
de nita solo sottoponendosi a una serie di cambiamenti in un materiale
immaginato. Ciò che manca alla maggior parte di noi per essere artisti non
è l’emozione iniziale, e nemmeno una mera abilità tecnica di esecuzione. È
la capacità di lavorare a fondo un’idea e un’emozione vaga nei termini
propri di qualche medium de nito. Se l’espressione non fosse che una
sorta di decalcomania, o il far saltar fuori un coniglio da dove sta nascosto,
l’espressione artistica sarebbe una questione relativamente semplice. Ma
tra concepimento e parto si trova un lungo periodo di gestazione. Durante
questo periodo il materiale interno dell’emozione e dell’idea si trasforma
sia perché produce effetti su un materiale oggettivo e ne subisce le
reazioni, sia perché questo materiale oggettivo viene a modi carsi quando
diventa un medium dell’espressione.
È proprio questa trasformazione che modi ca il carattere dell’emozione
originale, alterandone la qualità in modo da farle assumere una natura
speci camente estetica. Per dare una de nizione formale, un’emozione è
estetica quando si associa a un oggetto formato da un atto espressivo, nel
senso in cui quest’ultimo è stato de nito.
Al suo inizio un’emozione mira direttamente al suo oggetto. L’amore
tende a prendersi cura dell’oggetto amato così come l’odio tende a
distruggere la cosa odiata. Entrambe le emozioni possono essere distolte
dal loro ne diretto. L’emozione dell’amore può cercare e trovare materiale
che è diverso da quello direttamente amato, ma congeniale e analogo per
l’emozione che rende af ni le cose. Questo materiale diverso può essere
qualunque cosa purché alimenti l’emozione. I poeti insegnano che l’amore
trova la sua espressione in torrenti irruenti, stagni placidi, nella tensione
quando si attende una tempesta, in un uccello che si libra in volo, in una
stella lontana o nella volubile luna. E non è neanche un materiale di
carattere metaforico, se con “metafora” si intende il risultato di un qualche
atto consapevole di comparazione. In poesia una metafora premeditata
vuol dire che si è ricorso all’intelletto perché l’emozione non satura il
materiale. Un’espressione verbale può assumere la forma di una metafora
sebbene dietro le parole si trovi un atto di identi cazione emotiva e non
una comparazione intellettuale.
In tutti i casi del genere un qualche oggetto emotivamente af ne
all’oggetto diretto dell’emozione prende il posto di quest’ultimo.
Rimpiazza una carezza diretta, un approccio esitante, un tentativo di
portate un assalto. C’è del vero in ciò che dice Hulme quando afferma che
«la bellezza è il tempo d’attesa, la vibrazione immobile, l’estasi simulata di
uno stimolo incapace di raggiungere il suo ne naturale»50. Se c’è qualcosa
di sbagliato in questa affermazione, è il velato suggerimento del fatto che
l’impulso dovrebbe prima raggiungere «il suo ne naturale». Se l’emozione
dell’amore tra i sessi non fosse stata celebrata venendo deviata in un
materiale emotivamente af ne ma in pratica irrilevante in rapporto al suo
oggetto e al suo ne diretto, si hanno tutte le ragioni per supporre che essa
sarebbe rimasta sul piano animale. Lo stimolo bloccato nel suo movimento
diretto verso il suo ne siologico normale non è, nel caso della poesia,
bloccato in senso assoluto. È indirizzato in canali indiretti dove trova
materiale diverso da quello che gli è “naturalmente” appropriato, e
quando si fonde con questo materiale assume una nuova tonalità e ha
nuove conseguenze. È quel che succede quando qualsiasi stimolo naturale
viene idealizzato o spiritualizzato. Ad elevare l’amplesso degli amanti al di
sopra del piano animale è appunto il fatto che quando ha luogo esso ha
assunto in sé, come suo proprio signi cato, le conseguenze di questi
percorsi indiretti che sono immaginazione all’opera.
L’espressione è la chiari cazione di un’emozione confusa; quando sono
ri essi nello specchio dell’arte i nostri appetiti si riconoscono, e appena si
riconoscono sono tras gurati. Si veri ca allora un’emozione che è
speci camente estetica. Non è una forma di sentimento che esiste
indipendentemente dal suo inizio. È un’emozione provocata da un
materiale che è espressivo, e in quanto suscitata da questo materiale e
associata ad esso consiste di emozioni naturali che sono state trasformate.
La provocano oggetti naturali, ad esempio paesaggi. Ma questi la
provocano solo perché, in quanto materia di un’esperienza, essi pure
hanno subìto un mutamento simile a quello che il pittore o il poeta
determina quando converte la scena immediata nella materia di un atto
che esprime il valore di ciò che si vede.
Una persona irritata è indotta a fare qualcosa. Non può sopprimere la
sua irritazione con un qualche atto diretto di volontà; al massimo con
questo sforzo riesce solo a spingerla in un canale sotterraneo dove opererà
nel modo più insidioso e distruttivo. Deve fare in modo di liberarsene. Ma
può manifestare il suo stato agendo in modi differenti, uno diretto e l’altro
indiretto. Non può sopprimerlo più di quanto possa distruggere il
fenomeno dell’elettricità con un decreto della volontà. Può però sfruttare
un modo o l’altro per raggiungere nuovi ni che annulleranno la forza
distruttiva dell’azione naturale. La persona irritabile non deve scaricarsi sui
vicini o sui membri della sua famiglia per trovar pace. Può ricordare che
una certa dose di attività sica regolare è una buona medicina. Si impone
di lavorare mettendo a posto la sua stanza, raddrizzando quadri storti,
riorganizzando carte, svuotando cassetti, o mettendo comunque in ordine
cose. Egli usa la sua emozione deviandola in canali indiretti predisposti da
occupazioni e interessi precedenti. Poiché però c’è qualcosa nella
utilizzazione di questi canali che è emotivamente af ne agli strumenti
attraverso cui la sua irritazione troverebbe uno sfogo diretto, quando egli
mette in ordine gli oggetti va in ordine la sua emozione.
Questa trasformazione è la vera essenza del cambiamento che ha luogo
in ogni e qualsiasi impulso emotivo naturale od originale quando imbocca
la strada indiretta dell’espressione invece della strada diretta dello sfogo. Si
può lasciare andare l’irritazione come una freccia diretta a un bersaglio
che può produrre qualche cambiamento nel mondo esterno. Ma ottenere
un effetto esterno è qualcosa di ben diverso dall’uso ordinato di condizioni
oggettive al ne di dare compimento oggettivo all’emozione. Solo
quest’ultimo è espressione, e l’emozione che si unisce all’oggetto che ne
risulta, o si intreccia ad esso, è estetica. Se mette in ordine la propria stanza
come se fosse routine, il soggetto di cui sopra è anestetico. Ma se la sua
originale emozione di irritazione impaziente è stata ordinata e placata da
ciò che ha fatto, la stanza ordinata per lui è lo specchio del cambiamento
che ha avuto luogo al suo interno. Egli sente non di aver svolto una
faccenda necessaria, ma di aver fatto qualcosa di emotivamente appagante.
La sua emozione, in quanto “oggettivata” in tal modo, è estetica.
L’emozione estetica è quindi qualcosa di distinto e tuttavia non isolato,
da un abisso, da esperienze emotive diverse e naturali, come hanno invece
ritenuto alcuni teorici quando ne hanno sostenuto l’esistenza. Chi ha
familiarità con la letteratura recente sull’estetica saprà che c’è la tendenza
ad andare verso l’uno o l’altro estremo. Da un lato, si suppone che almeno
in alcune persone di talento esista un’emozione estetica n dall’origine, e
che produzione e valutazione artistica siano manifestazioni di questa
emozione. Tale concezione è l’inevitabile corrispettivo logico di quei modi
di pensare che riducono l’arte a qualcosa di esoterico e che relegano l’arte
bella in un regno separato mediante un abisso dalle esperienze quotidiane.
Dall’altro lato, una reazione, sana nell’intenzione, contro questa
concezione giunge all’estremo di sostenere che non c’è qualcosa come
un’emozione speci camente estetica. L’emozione di un affetto che anziché
tradursi in un atto palese come una carezza si realizza nel cercare di
osservare o di raf gurare un uccello che si libra in volo, l’emozione
dell’energia dell’ira che non distrugge o danneggia ma mette gli oggetti in
un ordine appagante, non è quantitativamente identica al suo stato
originale e naturale. Tuttavia sta in continuità genetica con esso.
L’emozione che venne elaborata alla ne da Tennyson componendo In
Memoriam51 non era identica all’emozione di dolore che si manifesta nel
pianto e in uno stato d’animo triste: il primo è un atto d’espressione, il
secondo di sfogo. Eppure è evidente la continuità tra le due emozioni,
essendo l’emozione estetica un’emozione originaria che si trasforma
perché passa attraverso il materiale oggettivo a cui ha af dato il proprio
sviluppo e il proprio perfezionamento.
Samuel Johnson, mostrando la massiccia preferenza di un listeo per la
riproduzione di ciò che è noto, criticò il Lycidas di Milton nel modo
seguente: «non si deve considerare effusione di vera passione, poiché la
passione non insegue allusioni lontane e opinioni oscure. La passione non
coglie bacche di mirtillo e di edera, né si rivolge ad Aretusa e Mincio, né
racconta di satiri e fauni rozzi dai piedi fessi. Dove c’è agio per la nzione
c’è poco dolore»52. Il principio di base della critica di Johnson
impedirebbe di certo la comparsa di qualsiasi opera d’arte. A rigor di
logica ridurrebbe l’“espressione” del dolore al piangere e allo strapparsi i
capelli. Così, anche se oggi un’elegia non tratterebbe il contenuto
particolare del poema di Milton, essa, come ogni altra opera d’arte, è
costretta a misurarsi con ciò che risulta distante in uno dei suoi aspetti –
ossia, ciò che è distante dall’effusione immediata dell’emozione e dal
materiale che si è logorato. Il dolore che è maturato al di là del bisogno di
piangere e lamentarsi per aver conforto, farà ricorso a qualcosa di simile a
ciò che Johnson chiama nzione – cioè materiale immaginativo, anche
fosse materia differente dalla letteratura, dal mito classico e antico. In tutte
le popolazioni primitive il lamento assume presto una forma cerimoniale
che è “distante” dalla sua manifestazione originaria.
In altre parole l’arte non è natura, è invece natura trasformata dal suo
entrare in nuove relazioni suscitando una nuova risposta emotiva. Molti
attori rimangono estranei all’emozione particolare che rappresentano.
Questo fatto è noto come il paradosso di Diderot, poiché fu Diderot il
primo ad approfondire l’argomento53. In realtà è un paradosso solo dal
punto di vista implicito nella citazione tratta da Samuel Johnson. Ricerche
più recenti hanno infatti mostrato che ci sono due tipi di attori. C’è chi
racconta di trovarsi nelle condizioni migliori quando si “perde”
emotivamente nel suo ruolo. Questo fatto non è però un’eccezione rispetto
al principio stabilito. Infatti, dopo tutto è un ruolo, una “parte”, ciò con
cui si identi cano gli attori. In quanto tale, va concepita e trattata come
parte di un intero; se c’è arte nella recitazione, il ruolo diviene secondario e
va a occupare la posizione di una parte nell’intero. Di conseguenza è
quali cato da una forma estetica. Persino chi sente nel modo più acuto le
emozioni del personaggio rappresentato non perde la coscienza di essere
su un palcoscenico dove ci sono altri attori che interagiscono; di essere
davanti a un pubblico e di dovere pertanto cooperare con altri interpreti
per creare un certo effetto. Questi fatti esigono e signi cano una
determinata trasformazione dell’emozione originale. Rappresentare
l’ubriachezza è un espediente consueto del teatro comico. Ma una persona
veramente ubriaca dovrebbe sforzarsi di nascondere la sua condizione se
non vuole disgustare il pubblico o almeno suscitare una risata
radicalmente diversa da quella suscitata dall’ubriachezza recitata. La
differenza tra i due tipi di attori non è tra l’espressione di un’emozione
governata dalle relazioni della situazione in cui entra e una manifestazione
dell’emozione allo stato grezzo. È una differenza relativa ai metodi usati
per ottenere l’effetto desiderato, differenza indubbiamente connessa con il
temperamento personale.
In ne, ciò che si è detto pone, pur senza risolverla, la dif cile questione
della relazione dell’arte estetica o arte bella con altri modi di produzione
egualmente chiamati arte. La differenza che esiste di fatto non si può
annullare, come abbiamo già visto, dando di entrambe de nizioni basate
su tecnica e abilità. Ma non si può nemmeno erigere come barriera
insuperabile mettendo in relazione la creazione dell’arte bella con uno
stimolo che sarebbe unico, separato dagli impulsi che operano in modi di
espressione che solitamente non si riportano sotto il concetto di arte bella.
Il comportamento può essere sublime e le maniere graziose. Se l’impulso a
organizzare il materiale sì da presentarlo in una forma direttamente
soddisfacente nell’esperienza non avesse esistenza al di fuori delle arti
come la pittura, la poesia, la musica e la scultura, esso non esisterebbe
affatto; non ci sarebbe arte bella.
Il problema di attribuire qualità estetica a tutti i modi di produzione è un
problema serio. Ma è un problema umano che si presta a una soluzione
umana; non un problema privo di soluzione perché stabilito sulla base di
qualche abisso insuperabile posto nella natura umana o nella natura delle
cose. In una società imperfetta – e nessuna società sarà mai perfetta – l’arte
bella sarà in qualche modo un’evasione dalle, o una decorazione ef mera
delle, attività principali della vita. Ma in una società ordinata meglio di
quella in cui viviamo tutti i modi di produzione sarebbero accompagnati
da una felicità in nitamente più grande di quella che si dà ora. Viviamo in
un mondo in cui c’è una quantità immensa di organizzazione; è però
organizzazione esteriore, non quell’organizzazione che regola
un’esperienza in sviluppo coinvolgendo inoltre per intero la creatura
vivente in cammino verso una conclusione appagante. Le opere d’arte che
non sono distanti dalla vita ordinaria, che vengono diffusamente fruite in
una comunità, sono segni di una vita collettiva uni cata. Ma sono anche
meravigliosi aiuti per creare una tale vita. Rielaborare il materiale
dell’esperienza nell’atto dell’espressione non è un evento isolato limitato
all’artista e a chi ha occasione qua e là di fruire dell’opera. Nella misura in
cui svolge la propria funzione, l’arte è anche una rielaborazione
dell’esperienza della comunità nella direzione di maggiore ordine e unità.
5 – L’oggetto espressivo

Espressione, come costruzione, signi ca sia un’azione che il suo risultato.


L’ultimo capitolo l’ha considerata in quanto atto. Ora ci occupiamo del
prodotto, dell’oggetto che è espressivo, che ci dice qualcosa. Se si scindono
i due signi cati, si guarda all’oggetto isolandolo dall’operazione che l’ha
prodotto, e di conseguenza separatamente dalla individualità della visione,
in quanto l’atto proviene da una creatura vivente individuale. Le teorie che
concepiscono l’“espressione” come se denotasse semplicemente l’oggetto,
insistono sempre in grado estremo sul fatto che l’oggetto d’arte sarebbe
puramente rappresentativo di altri oggetti già esistenti. Tali teorie
trascurano l’apporto individuale che rende l’oggetto qualcosa di nuovo. Si
soffermano sul suo carattere “universale” e sul suo signi cato – un termine
ambiguo, come vedremo. D’altro canto l’isolamento dell’atto espressivo
dalla espressività posseduta dall’oggetto porta a de nire l’espressione solo
come un processo che dà sfogo a un’emozione personale – concezione
criticata nell’ultimo capitolo.
Il succo spremuto54 dal torchio è ciò che è a causa di un atto che è
precedente, ed è qualcosa di nuovo e di distinto. Non si limita a
rappresentare altre cose. Tuttavia ha qualcosa in comune con altri oggetti
ed è fatto per interessare persone diverse da colui che l’ha prodotto. Una
composizione poetica e un quadro presentano materiale ltrato
dall’alambicco dell’esperienza personale. Non hanno precedenti in ciò che
esiste o nell’essere universale. Eppure il loro materiale è derivato dal
mondo pubblico e dunque possiede qualità comuni con il materiale di
altre esperienze, benché il prodotto susciti in persone diverse nuove
percezioni dei signi cati del mondo comune. Le contrapposizioni tra
individuale e universale, tra soggettivo e oggettivo, tra libertà e ordine, con
cui si sono baloccati i loso , non hanno luogo nel mondo dell’arte.
L’espressione in quanto atto personale e l’espressione in quanto risultato
oggettivo sono connesse organicamente l’una con l’altra.
Non è quindi necessario addentrarsi in tali questioni meta siche.
Possiamo accostarci direttamente alla questione. Cosa signi ca dire che
un’opera d’arte è rappresentativa (poiché deve pur essere in qualche senso
rappresentativa se è espressiva)? Non ha senso dire in generale che
un’opera d’arte è o non è rappresentativa. Infatti la parola ha molti
signi cati. Asserire che una qualità è rappresentativa può essere sbagliato
in un senso e giusto in un altro. Se con “rappresentativo” si intende una
riproduzione letterale, allora l’opera d’arte non è di questa natura, poiché
una tale concezione non considera la peculiarità dell’opera dovuta al
medium personale attraverso il quale sono passati scene ed eventi. Matisse
ha detto che la macchina fotogra ca è stato un grande vantaggio per i
pittori, poiché li ha sollevati da ogni apparente obbligo di copiare
oggetti55. Ma rappresentazione può anche signi care che l’opera d’arte
dice qualcosa a coloro che ne fruiscono circa la natura della loro propria
esperienza del mondo: che essa presenta il mondo in una nuova esperienza
che loro stessi provano.
Un’ambiguità simile af igge la questione del signi cato in un’opera
d’arte. Le parole sono simboli che rappresentano oggetti e azioni nel senso
che stanno per essi; in tal senso hanno signi cato. Un cartello ha
signi cato quando dice quante miglia mancano per arrivare a questo o a
quest’altro posto, con una freccia che indica la direzione. Ma in questi due
casi il signi cato è dotato di un riferimento puramente esterno; sta per
qualcosa indicandolo. Il signi cato non appartiene alla parola e al cartello
per suo proprio diritto intrinseco. Parola e cartello hanno signi cato nel
senso in cui l’hanno una formula algebrica o un codice cifrato. Ma ci sono
altri signi cati che si presentano direttamente come proprietà di oggetti di
cui si fa esperienza. In questo caso non c’è bisogno di un codice o di una
convenzione per interpretare; il signi cato è intrinseco all’esperienza
immediata quanto lo è quello di un giardino orito. Negare signi cato a
un’opera d’arte vuole dire allora due cose radicalmente differenti. Può
voler dire che un’opera d’arte non possiede il genere di signi cato che
appartiene a segni e simboli in matematica – ed è un’opinione corretta.
Oppure può voler dire che l’opera d’arte è priva di signi cato così come ne
è privo un nonsense. L’opera d’arte non ha certamente il signi cato che
possiedono le bandiere quando vengono usate per fare segnali a un’altra
nave. Ha però il signi cato che è posseduto dalle bandiere quando sono
usate per decorare il ponte di una nave per un ballo.
Dal momento che presumibilmente non c’è nessuno che afferma che le
opere d’arte sono senza signi cato intendendo dire che sono prive di
senso, potrebbe sembrare che chi lo fa voglia semplicemente escludere un
signi cato esterno, un signi cato che risiede al di fuori della stessa opera
d’arte. Purtroppo, però, la situazione non è così semplice. La negazione di
signi cato all’arte si basa di solito sull’assunzione che il genere di valore (e
di signi cato) che possiede un’opera d’arte è così peculiare da non avere
nulla in comune o di connesso con i contenuti di modalità esperienziali
diverse da quella estetica. Si tratta, in breve, di un altro modo di sostenere
quella che ho chiamato l’idea esoterica dell’arte bella. Ma secondo la
concezione racchiusa nell’esame dell’esperienza estetica esposto nei
capitoli precedenti, l’opera d’arte ha una qualità peculiare che è, però,
quella di chiarire e concentrare signi cati che sono contenuti in modo
disperso e debole nel materiale di altre esperienze.
Si può affrontare il problema in questione tracciando una distinzione tra
espressione e asserzione. La scienza asserisce signi cati; l’arte li esprime.
Forse questa considerazione di per sé illustra la differenza che ho in mente
meglio di come faccia una serie anche lunga di commenti esplicativi.
Tuttavia cercherò di approfondirla un poco. L’esempio del cartello può
aiutare. Il cartello indica la strada a qualcuno per andare in un luogo, ad
esempio una città. In nessun modo fornisce l’esperienza di quella città,
nemmeno in modo vicario. Ciò che fa è mostrare alcune condizioni che
devono essere soddisfatte per ottenere tale esperienza. Il contenuto di
questo esempio si può generalizzare. Un’asserzione mostra le condizioni in
base alle quali si può fare l’esperienza di un oggetto o di una situazione. È
quindi buona, ef cace, nella misura in cui queste condizioni sono asserite
in modo tale da poter essere usate come istruzioni mediante le quali si può
giungere all’esperienza. È un’asserzione cattiva, ossia confusa e falsa, se
mostra queste condizioni in modo tale che quando sono usate come
istruzioni mettono sulla falsa strada o portano qualcuno all’oggetto in
modo dispendioso.
“Scienza” designa appunto il tipo di asserzione che è più utile come
istruzione. Per ricorrere al caso standard di un tempo – che oggi la scienza
sembra voler modi care – asserire che l’acqua è H2 O è anzitutto asserire le
condizioni in base alle quali l’acqua esiste. Ma per chi la comprende,
questa asserzione è anche un’istruzione per produrre acqua pura e per
esaminare tutto ciò che è probabile prendere per acqua. È un’asserzione
“migliore” di quelle volgari e pre-scienti che appunto perché nell’asserire
le condizioni d’esistenza dell’acqua in maniera comprensiva ed esatta, le
espone in modo da dare istruzioni su come produrre acqua. È però tale la
novità dell’asserzione scienti ca ed è tale il suo prestigio attuale (dovuto in
fondo alla sua ef cacia nel dare istruzioni), che spesso si crede che essa
possieda più che la funzione di un cartello e che riveli, o “esprima”, la
natura interna delle cose. Se lo facesse entrerebbe in competizione con
l’arte, e noi dovremmo prendere posizione decidendo quale delle due
annunci la rivelazione più vera.
Il poetico in quanto distinto dal prosastico, l’arte estetica in quanto
distinta dall’attività scienti ca, l’espressione in quanto distinta
dall’asserzione, fa qualcosa di diverso dal condurre a un’esperienza. Ne
costituisce una. Un viaggiatore che segue ciò che asserisce o indica un
cartello si ritrova nella città che gli è stata segnalata. Allora può avere nella
sua propria esperienza un po’ del signi cato che possiede la città. Ciò può
accadere a noi nella misura in cui la città ha espresso se stessa al
viaggiatore – come Tintern Abbey ha espresso se stessa a Wordsworth in e
attraverso la sua composizione poetica56. La città potrebbe infatti essere
intenta a esprimere se stessa in una celebrazione corredata dallo sfarzo e
da tutti quei mezzi che ne rendono percepibile la storia e lo spirito. Allora,
se il visitatore fa di persona l’esperienza che gli consente di partecipare, c’è
un oggetto espressivo che è differente da ciò che asserisce un atlante
geogra co, per quanto esauriente e corretto, così come la poesia di
Wordsworth è differente dalla descrizione di Tintern Abbey fatta da un
archeologo. La poesia, o il dipinto, non opera nella dimensione di
un’asserzione descrittiva corretta, ma in quella della stessa esperienza.
Poesia e prosa, fotogra a realistica e dipinto, operano in media differenti
per ni distinti. La prosa consta di proposizioni. La logica della poesia è
sovra-proposizionale persino quando usa quelle che, grammaticalmente
parlando, sono proposizioni. Queste ultime hanno un’intenzione; l’arte è
la realizzazione immediata di un’intenzione.
Le lettere che Van Gogh ha scritto a suo fratello sono piene di
descrizioni di cose che egli ha osservato e in gran parte dipinto. Cito uno
dei molti esempi: «Ho una visione del Rodano – il ponte di ferro a
Trinquetaille, in cui cielo e ume sono del colore dell’assenzio, le banchine
hanno una sfumatura lilla, le gure che si sporgono dal parapetto sono
nerastre, il ponte di ferro è di un blu intenso con una nota di arancio
vivido sullo sfondo e una nota di intensa malachite»57. Qui si ha un tipo di
asserzione fatto apposta per condurre suo fratello a una “visione” analoga.
Ma chi dalle sole parole «sto cercando di ottenere qualcosa di
estremamente desolato» riuscirebbe a ricostruire il passaggio compiuto
dallo stesso Vincent alla particolare espressività che egli desiderava
raggiungere nel suo quadro? Queste parole prese da sole non sono
l’espressione: vi accennano solamente. L’espressività, il signi cato estetico,
è il quadro stesso. Ma la differenza tra la descrizione della scena e ciò per
cui egli stava combattendo ci può ricordare la differenza tra asserzione ed
espressione.
Ci può essere stato qualcosa di accidentale nella speci ca scena sica che
ha lasciato Van Gogh con un’impressione di estrema desolazione. Tuttavia
il signi cato è qui; è qui come qualcosa che sta oltre l’occasione
dell’esperienza privata del pittore, qualcosa che egli ritiene esistere
potenzialmente per altri. Il suo prendere corpo è il quadro. Le parole non
riescono a riprodurre l’espressività dell’oggetto. Ma le parole possono
mettere in rilievo che il quadro non è “rappresentativo” proprio di un
particolare ponte sul ume Rodano, e neppure di un animo desolato,
foss’anche dell’emozione di desolazione propria di Van Gogh che è
accaduto fosse in qualche modo prima suscitata e poi assorbita da (ed
entro) la scena. Attraverso la presentazione pittorica di un materiale che
chiunque sul posto potrebbe “osservare”, che migliaia di persone hanno
osservato, egli ha inteso presentare un nuovo oggetto esperito come dotato
di un suo signi cato peculiare. Il sommovimento emotivo e un episodio
esterno si sono fusi in un oggetto che era “espressivo” non di uno dei due
separatamente e neppure di una giunzione meccanica dei due, ma proprio
del signi cato dell’«estremamente desolante». Egli non ha riversato
all’esterno l’emozione della desolazione; era impossibile. Ha selezionato e
organizzato un soggetto esterno prendendo di mira qualcosa di totalmente
differente – un’espressione. E nella misura in cui vi è riuscito, il quadro è
di necessità espressivo.
Roger Fry, commentando gli aspetti caratteristici della pittura moderna,
ha generalizzato il punto come segue: «quasi ogni aspetto del
caleidoscopio della natura può suscitare nell’artista questa visione lontana
e spassionata e, mentre egli contempla un particolare campo di visione, la
connessione di forme e di colori, che esteticamente è caotica e accidentale,
comincia a cristallizzarsi in un’armonia; e mentre questa armonia si
chiari ca per l’artista, la facoltà visiva attuale si deforma a causa dell’enfasi
del ritmo che è sorta in lui. Certi rapporti delle direzioni di una linea
divengono per l’artista pieni di signi cato; egli li coglie, non più
casualmente o semplicemente per curiosità, ma con passione, mentre
queste linee diventano per lui così importanti e chiare che le vede molto
più distinte di quanto non fossero in un primo momento. I colori che in
natura sono quasi sempre vaghi e imprecisi diventano così de niti e chiari,
per la loro relazione necessaria con gli altri colori, che, se l’artista decide di
rappresentare pittoricamente la sua visione può ssare con esattezza e
precisione. In questa visione creativa, gli oggetti come tali tendono a
scomparire, a perdere le loro distinte unità, e a prendere il loro posto come
altrettanti frammenti nel mosaico intero della visione»58.
Questo passaggio mi sembra un’ottima descrizione del tipo di cosa che si
veri ca nella percezione e nella costruzione artistica. Esso chiarisce due
cose: se la visione è stata artistica o costruttiva (creativa), la
rappresentazione non è di “oggetti come tali”, ossia di aspetti interni alla
scena naturale così come si presentano o vengono rievocati realmente. Non
è il genere di rappresentazione che restituirebbe una macchina fotogra ca
se, ad esempio, un investigatore stesse ssando la scena per i suoi scopi.
Inoltre si mostra con chiarezza la ragione di questo fatto. Determinate
relazioni di linee e colori diventano importanti, “piene di signi cato”, e
ogni altra cosa è subordinata all’evocazione di ciò che in queste relazioni
viene coinvolto, omesso, distorto, aggiunto, trasformato, per comunicare le
connessioni. Si può aggiungere una cosa a quanto detto. Il pittore non si è
accostato alla scena con la mente vuota, ma con un bagaglio di esperienze
che molto prima si sono fuse in capacità e simpatie, oppure con
un’agitazione dovuta a esperienze più recenti. Arriva alla visione con una
mente in attesa, paziente, desiderosa di ricevere impressioni e tuttavia non
priva di inclinazioni e tendenze. Ecco perché linee e colori si cristallizzano
in un’armonia invece che in un’altra. Il modo speciale di armonizzare non
deriva esclusivamente dalle linee e dai colori. È una funzione di ciò che si
trova nella scena presente, nella sua interazione con ciò che l’osservatore
porta con sé. Una certa sottile af nità con la corrente della sua propria
esperienza di creatura vivente fa sì che linee e colori si sistemino secondo
un modello e un ritmo invece che un altro. La passionalità che
contrassegna l’osservazione procede con lo sviluppo della nuova forma – è
l’emozione speci camente estetica di cui si è parlato. Ma non è
indipendente da qualche emozione precedente sorta nell’esperienza
dell’artista; quest’ultima viene rinnovata e ricreata grazie alla fusione con
un’emozione che appartiene alla visione di un materiale quali cato
esteticamente.
Alla luce di queste considerazioni si chiarisce una certa ambiguità che
af igge il passaggio citato. Fry parla di linee e loro relazioni che sono piene
di signi cato. Ma visto tutto quello che viene esplicitamente affermato, il
signi cato a cui egli si riferisce sembra poter essere esclusivamente delle
linee nelle loro relazioni reciproche. I signi cati di linee e colori
rimpiazzerebbero allora per intero tutti i signi cati di cui è dotata questa e
ogni altra esperienza di una scena naturale. In tal caso il signi cato
dell’oggetto estetico sarebbe unico in quanto andrebbe separato dai
signi cati di ogni altra cosa esperita. L’opera d’arte sarebbe allora
espressiva solo nel senso di esprimere qualcosa che appartiene
esclusivamente all’arte. Che si intenda qualcosa del genere si può ricavare
da un’altra affermazione di Fry spesso citata, secondo la quale il
“contenuto trattato” in un’opera d’arte è sempre irrilevante se non
addirittura dannoso59.
Così i passi citati fanno mettere a fuoco il problema della natura della
“rappresentazione” nell’arte. L’enfasi del primo passo sull’emergere di
nuove linee e nuovi colori in nuove relazioni è necessaria. Mette al riparo
coloro che vi fanno attenzione dall’ipotesi, consueta nella pratica se non
nella teoria soprattutto per quel che concerne la pittura, per cui
rappresentazione vuol dire o imitazione o reminiscenza piacevole. Ma
l’affermazione per cui il contenuto è irrilevante vincola chi l’accetta a una
teoria dell’arte assolutamente esoterica. Fry continua dicendo: « no a
quando l’artista osserva gli oggetti soltanto come parti di un intero campo
visivo che rappresenta in potenza il suo quadro, non può riferire sul loro
valore estetico». E aggiunge: «[…] l’artista è fra tutti gli uomini quello che
più costantemente osserva ciò che lo circonda e meno viene in uenzato da
un intrinseco valore estetico»60. Altrimenti come spiegare la tendenza del
pittore a distogliere lo sguardo da scene e oggetti che possiedono un
evidente valore estetico per volgersi a cose che lo scuotono per una
qualche stranezza o per una forma particolare? Perché è più facile che
dipinga Soho invece di St. Paul?
La tendenza a cui fa riferimento Fry è reale, come lo è la tendenza dei
critici a biasimare un dipinto sulla base del fatto che il relativo soggetto sia
“basso” o eccentrico. Ma è altrettanto vero che ogni artista autentico
eviterà un materiale che sia stato esteticamente sfruttato prima no in
fondo, e cercherà un materiale in cui possa avere libero gioco la sua
individuale capacità di vedere e di rendere. Egli lascia che uomini da
meno continuino a dire con lievi variazioni ciò che è già stato detto. Prima
di stabilire che considerazioni come queste non spiegano la tendenza di
cui parla Fry, prima di trarre la particolare conclusione che trae lui,
dobbiamo tornare alla forza di una considerazione già notata.
Fry cerca di stabilire una differenza radicale tra i valori estetici intrinseci
a cose dell’esperienza ordinaria e il valore estetico di cui si occupa l’artista.
Egli suppone che i primi siano direttamente connessi con il contenuto
mentre l’altro sia connesso con la forma che è separata da qualsiasi
contenuto tranne che per elementi esteticamente accidentali. Se un artista
potesse accostarsi a una scena senza provare interessi e senza idee, senza
bagaglio di valori tratti dalla sua esperienza precedente, teoricamente
potrebbe vedere linee e colori prendendo in considerazione
esclusivamente le loro relazioni in quanto linee e colori. Ma questa è una
condizione impossibile da soddisfare. Inoltre in un caso del genere per
l’artista non ci sarebbe nulla per cui appassionarsi. Prima che un artista
possa svolgere la propria ricostruzione della scena che gli sta davanti nei
termini di quelle relazioni di colori e linee che sono caratteristiche della
sua opera, egli osserva la scena secondo signi cati e valori che vengono
forniti alla sua percezione da esperienze precedenti. Questi sono in realtà
ricreati, trasformati, mentre prende forma la sua nuova visione estetica. Ma
non possono svanire mentre l’artista continua comunque a vedere un
oggetto. Non importa quanto ardentemente l’artista possa desiderarlo:
nella sua nuova percezione l’artista non può sbarazzarsi di signi cati resi
solidi dal suo rapporto passato con le cose che lo circondano, né può
liberarsi dall’in uenza che essi esercitano su cosa e come egli vede al
momento. Se potesse farlo e lo facesse non gli rimarrebbe nessun modo di
vedere un oggetto.
Aspetti e stati della sua esperienza precedente di vari contenuti sono
entrati nel suo essere; sono gli organi con cui percepisce. La visione
creativa modi ca questi materiali. Essi si ripresentano nell’inedito oggetto
di una nuova esperienza. Memorie che non sono necessariamente
coscienti, ma che sono ricordi incorporati organicamente nella struttura
stessa del sé, alimentano l’osservazione presente. Sono il nutrimento che dà
corpo a ciò che si vede. Rielaborati nel materiale della nuova esperienza,
danno espressività all’oggetto appena creato.
Supponiamo che attraverso il suo medium l’artista voglia ritrarre lo stato
emotivo o il carattere duraturo di una persona. Sfruttando la forza
vincolante del suo medium, se è un artista – ossia un pittore che tiene
conto con rigore del proprio medium – egli vuole modi care l’oggetto che
ha di fronte. Rivedrà l’oggetto in termini di linee, colori, luce, spazio –
relazioni che formano un intero pittorico, ossia che danno luogo a un
oggetto che piace immediatamente percependolo. Quando nega che
l’artista tenta di rappresentare nel senso di riprodurre letteralmente colori,
linee ecc. così come già esistono nell’oggetto, Fry ha senz’altro ragione. Ma
da qui non segue la conclusione che non venga ri-presentato61 alcun
signi cato di un qualunque contenuto, ossia che non venga presentato un
contenuto che abbia di per sé un signi cato che chiarisce e concentra i
signi cati dispersi e offuscati di altre esperienze. Se si generalizza la tesi di
Fry relativa alla pittura estendendola alla drammaturgia e alla poesia,
queste ultime cessano di esistere.
La differenza tra i due tipi di rappresentazione può essere indicata
facendo riferimento al disegno. Una persona capace può tracciare con
facilità linee che suggeriscano paura, rabbia, divertimento e così via. Indica
esultanza con linee piegate in una direzione, il dispiacere con curve che
vanno nella direzione opposta. Ma il risultato non è un oggetto di
percezione. Su ciò che si vede prende subito il sopravvento la cosa
suggerita. Il disegno è simile per genere, sebbene non per com’è costituito,
a un’insegna. L’oggetto indica il signi cato piuttosto che contenerlo. Il suo
valore, come quello dell’insegna per l’automobilista, consiste nel dare
istruzioni per altre attività. Nella percezione non si gode della
composizione di linee e spazi per via della sua propria qualità esperita, ma
per via di ciò a cui essa ci rinvia.
C’è un’altra grande differenza tra espressione e asserzione. Quest’ultima
è generale. Un’asserzione intellettuale ha valore a seconda del grado in cui
dirige la mente verso molte cose dello stesso genere. È ef cace nella misura
in cui, come una pavimentazione liscia, ci conduce senza problemi in
molti posti. Il signi cato di un oggetto espressivo, al contrario, è
individuale. Il disegno a diagramma che richiama dolore non comunica il
dolore di una singola persona; esibisce la specie di “espressione” del viso
che mostrano in genere persone in preda al dolore. Il ritratto estetico del
dolore manifesta il dolore di un individuo particolare in connessione con
un evento particolare. È quello stato di af izione che viene raf gurato,
non la depressione in assoluto. È topicamente situato.
Lo stato di beatitudine è tema ricorrente nei dipinti religiosi. I santi sono
presentati nel loro godere di una condizione di beata felicità. Ma nella
maggior parte dei primi dipinti religiosi questo stato è indicato invece che
espresso. Le linee che lo rendono chiaramente identi cabile sono come
segni proposizionali. Hanno una natura non meno ssa e generale
dell’aureola che circonda le teste dei santi. L’informazione comunicata ha
un carattere edi cante grazie a simboli che sono convenzionali come quelli
a cui si ricorre per distinguere le varie Sante Caterine o per contrassegnare
le differenti Marie ai piedi della croce. Tra lo stato generico della
beatitudine e la gura particolare in questione non c’è una relazione
necessaria, ma solo un’associazione elaborata entro circoli ecclesiastici.
Può sorgere un’emozione simile in persone ancora devote alle stesse
associazioni. Ma invece di essere estetica, tale emozione è della specie
descritta da William James: «ricordo di aver visto una coppia inglese
seduta per più di un’ora in un giorno pungente di febbraio nell’Accademia
di Venezia davanti alla celebre Assunta di Tiziano; e quando, dopo essere
stato braccato dal freddo di sala in sala, decisi di andare al sole prima
possibile e di lasciar perdere i quadri, mi avvicinai però con rispetto a loro
prima di uscire per apprendere di quali forme superiori di sensibilità loro
disponessero, tutto quello che colsi fu la voce della donna che mormorava:
“Che espressione umile mostra il suo volto! Che abnegazione62! Quanto si
sente indegna dell’onore che sta ricevendo”»63.
La religiosità sentimentale dei dipinti di Murillo fornisce un buon
esempio di ciò che accade quando un pittore di indiscusso talento
subordina il proprio senso artistico a “signi cati” associati che sono
artisticamente irrilevanti. Davanti ai suoi dipinti sarebbe pertinente il tipo
di osservazione che era assolutamente fuori luogo nel caso di Tiziano. Ma
implicherebbe una carenza di soddisfazione estetica.
Giotto ha dipinto santi. Ma i loro volti sono meno convenzionali; sono
più individuali e quindi raf gurati in modo più naturalistico. Al tempo
stesso sono presentati in modo maggiormente estetico. L’artista usa qui
luce, spazio, colore e linea, ovvero i media, per presentare un oggetto che
rientra di per sé in un’esperienza percettiva che piace. Il peculiare
signi cato religioso e umano e il peculiare valore estetico si compenetrano
e si fondono; l’oggetto è autenticamente espressivo. Questa parte del
dipinto è inconfondibilmente un Giotto così come sono
inconfondibilmente dei Masaccio i santi dipinti da Masaccio. La
beatitudine non è un marchio trasferibile dall’opera di un pittore a quella
di un altro, ma reca in sé le tracce dell’individuo che l’ha creata, in quanto
esprime la sua esperienza oltre a quella che egli ha creduto propria di un
santo in generale. Anche nella sua natura essenziale, un signi cato è
espresso più pienamente in una forma individuale piuttosto che in una
rappresentazione a diagramma o in una copia letterale. Quest’ultima
contiene troppi elementi che sono irrilevanti; la prima è troppo inde nita.
Una relazione artistica tra colore, luce e spazio in un ritratto è non solo è
più piacevole di un marchio schematico, ma dice anche di più. In un
ritratto di Tiziano, Tintoretto, Rembrandt o Goya ci sembra di essere in
presenza di un carattere essenziale. Il risultato è ottenuto però con mezzi
esclusivamente plastici, e anzi il modo stesso in cui sono trattati gli sfondi
ci comunica qualcosa di più che non la personalità. La distorsione delle
linee e le divergenze rispetto al colore effettivo possono, oltre che
incrementare l’effetto estetico, determinare una espressività intensi cata.
Infatti in tal caso il materiale non è subordinato a qualche signi cato
particolare e antecedente attribuito alla persona in questione (e una
riproduzione letterale può mostrare solo una sezione trasversale in un
momento particolare), ma è ricostruito e riorganizzato per esprimere la
visione immaginativa che l’artista ha dell’intero essere della persona.
Non c’è fraintendimento più comune di un dipinto di quella che
riguarda la natura del disegno. L’osservatore che ha imparato a riconoscere
ma non a percepire in maniera estetica starà davanti a un Botticelli, a un
El Greco o a un Cézanne dicendo: “Che peccato che il pittore non abbia
mai imparato a disegnare”. Eppure il forte dell’artista può essere il
disegno. Barnes ha messo in rilievo la vera funzione del disegno nei
dipinti. Non è un mezzo per riuscire a ottenere espressività in generale, ma
un valore molto particolare dell’espressione. Non è un mezzo per
agevolare il riconoscimento attraverso un pro lo corretto e un chiaroscuro
preciso. Disegnare è tirar fuori64; è estrarre ciò che ha da dire in particolare
il soggetto trattato al pittore nella sua esperienza integrata. Poiché il
dipinto è un’unità di parti interrelate, ogni atto che designa una gura
particolare va, in aggiunta, inserito all’interno65 di una relazione di mutuo
rafforzamento con tutti gli altri mezzi plastici – colore, luce, piani spaziali e
la collocazione di altre parti. Questa integrazione può comportare, e di
fatto comporta, ciò che dal punto di vista della con gurazione della cosa
reale è una distorsione sica66.
Pro li lineari che sono usati per riprodurre con accuratezza una gura
particolare sono di necessità limitati nella loro espressività. Essi esprimono
o solo una cosa, “realisticamente” come si dice talvolta, oppure un tipo
generale di cosa grazie a cui riconosciamo la specie – l’essere un uomo, un
albero, un santo o qualunque altra cosa. Linee “tracciate” esteticamente
svolgono molte funzioni con un corrispondente incremento di espressività.
Incarnano il signi cato di volume, spazio e posizione; solidità e
movimento; si associano alla forza di tutte le altre parti dell’immagine e
servono a tenere in relazione tra loro tutte le parti di modo che il valore
dell’intero sia espresso con energia. Non basta essere abili a disegnare per
riuscire a far sì che delle linee svolgano tutte queste funzioni. Al contrario,
da questo punto di vista è in pratica certo che l’abilità da sola metta capo a
una costruzione in cui i pro li lineari spiccano per loro stessi,
compromettendo così l’espressività dell’opera come intero. Nello sviluppo
storico della pittura la determinazione di gure attraverso il disegno è
progredita costantemente: dapprima fornisce una indicazione piacevole di
un oggetto particolare, poi diventa una relazione di piani e una fusione
armoniosa di colori.
L’arte “astratta” può sembrare un’eccezione rispetto a ciò che si è detto
su espressività e signi cato. Alcuni sostengono che le opere dell’arte
astratta non siano affatto opere d’arte, e altri affermano che sono il vero
punto di vertice dell’arte. Questi ultimi le apprezzano per la loro
lontananza dalla rappresentazione in senso letterale; i primi negano che
abbiano una qualche espressività. La soluzione del problema si trova,
penso, nella seguente affermazione di Barnes: «il riferimento al mondo
reale non svanisce dall’arte quando le forme cessano di essere quelle delle
cose concretamente esistenti, più di quanto l’obiettività non scompaia dalla
scienza quando essa smette di parlare in termini di terra, fuoco, aria e
acqua, e sostituisce a queste cose i meno facilmente riconoscibili
“idrogeno”, “ossigeno”, “azoto” e “carbonio”. [...] Quando in un dipinto
non riusciamo a trovare la rappresentazione di un qualche oggetto
particolare, ciò che esso rappresenta possono essere le qualità che
condividono tutti gli oggetti particolari, come colore, estensione, solidità,
movimento, ritmo ecc. Tutte le cose particolari hanno queste qualità;
quindi ciò che funge, per così dire, da paradigma dell’essenza visibile di
tutte le cose può contenere in soluzione le emozioni che cose individuali
suscitano in una maniera più speci ca»67.
L’arte, in breve, non smette di essere espressiva perché rende in forma
visibile relazioni tra cose senza indicare i particolari tra cui sussistono tali
relazioni più di quanto sia necessario per comporre un intero. Ogni opera
d’arte “astrae” in una certa misura dai tratti particolari degli oggetti
espressi. Altrimenti, con un’esatta imitazione creerebbe solamente
l’illusione della presenza delle cose stesse. In fondo il contenuto di una
natura morta è estremamente “realistico” – tovaglie, tegami, mele, ciotole.
Ma una natura morta di Chardin o di Cézanne presenta questi materiali
secondo relazioni di linee, piani e colori che piacciono di per sé nella
percezione. Questo ri-ordinare non potrebbe veri carsi senza un certo
grado di “astrazione” dall’esistenza sica. In realtà, il tentativo stesso di
presentare oggetti tridimensionali su un piano bidimensionale esige
astrazione dalle condizioni usuali in cui esistono questi oggetti. Non c’è
alcuna regola a priori per decidere quanto debba essere portata avanti
l’astrazione. In un’opera d’arte per sapere se il cibo cucinato è buono non
si può che assaggiarlo. Ci sono nature morte di Cézanne in cui uno degli
oggetti in effetti si libra in aria. Tuttavia per un osservatore capace di
visione estetica l’espressività dell’intero è rafforzata e non diminuita. Essa
pone alla ribalta un tratto che tutti danno per scontato quando guardano il
dipinto, e cioè che nessun oggetto nel dipinto è supportato sicamente da
uno degli altri. Il supporto che danno l’uno all’altro consiste nei loro
rispettivi contributi all’esperienza percettiva. L’espressione della prontezza
degli oggetti a muoversi, sebbene temporaneamente siano posti in
equilibrio, è intensi cata se si astrae dalle condizioni che sono possibili
sicamente e nello spazio esterno. L’“astrazione” è associata di solito a
operazioni di carattere eminentemente intellettuale. In realtà la si ritrova in
ogni opera d’arte. La differenza sta nell’interesse e nel ne in vista del
quale si fa astrazione, rispettivamente, nella scienza e nell’arte. In scienza
si astrae perché si cerca un’asserzione ef cace, così come è stata de nita;
in arte perché si cerca l’espressività dell’oggetto, e l’essere e l’esperienza
propri dell’artista determinano che cosa sarà espresso e quindi la natura e
l’estensione dell’astrazione che si veri ca.
Ovunque si ammette che l’arte implica selezione. Quando manca
selezione o l’attenzione è priva di direzione, la conseguenza è una
miscellanea caotica. Il principio guida della selezione è l’interesse;
un’inclinazione inconscia ma organica verso determinati aspetti e valori del
complesso e variegato universo in cui viviamo. In nessun caso un’opera
d’arte può rivaleggiare con la concretezza in nita della natura. Quando
sceglie, un artista segue senza remore la logica del suo interesse,
aggiungendo alla sua tendenza selettiva un orire o “abbondare” nel senso
o nella direzione in cui è spinto. Il solo limite che non va oltrepassato è che
resti un qualche riferimento alle qualità e alla struttura delle cose
circostanti. Altrimenti l’artista opera entro un quadro di riferimento
esclusivamente privato e ciò che risulta è privo di senso malgrado siano
presenti colori vivaci e suoni forti. L’arco tra forme scienti che e oggetti
concreti indica entro quale misura arti differenti possono portare avanti le
loro trasformazioni selettive senza perdere rapporto con il quadro
oggettivo di riferimento.
I nudi di Renoir piacciono senza richiamare alla mente nulla di
pornogra co. Le qualità voluttuose della carne sono mantenute,
addirittura accentuate. Ma si è fatto astrazione dalle condizioni
dell’esistenza sica dei corpi nudi. Attraverso l’astrazione e grazie al
medium del colore, le associazioni consuete con corpi nudi sono traslate in
un nuovo ambito, poiché queste associazioni sono stimoli pratici che
svaniscono nell’opera d’arte. L’estetico scaccia il sico, e l’intensi cazione
di qualità che accomunano la carne ai ori espunge l’erotico. L’idea che gli
oggetti abbiano valori ssi e inalterabili è proprio il pregiudizio da cui ci
emancipa l’arte. Le qualità intrinseche delle cose af orano con vigore e
freschezza sorprendenti proprio perché sono rimosse le associazioni
convenzionali.
Il problema controverso della posizione del brutto nelle opere d’arte mi
sembra trovare soluzione se ne esaminiamo i termini entro tale contesto.
Ciò a cui si applica il termine “brutto” è l’oggetto nelle sue associazioni
consuete, quelle che oramai appaiono una parte intrinseca di un certo
oggetto. Non si applica a ciò che è presente nel quadro o nella
rappresentazione teatrale. Le cose cambiano quando af ora in un oggetto
dotato di una propria espressività: esattamente come nel caso dei nudi di
Renoir. Qualcosa che era brutto in certe condizioni, quelle usuali, è
sottratto alle condizioni in cui era ripugnante ed è tras gurato
qualitativamente quando diviene parte di un intero espressivo. Nel suo
nuovo contesto lo stesso contrasto con la bruttezza precedente aggiunge
attrattiva e animazione, mentre in relazione ad argomenti seri accresce la
profondità di signi cato in maniera quasi incredibile.
La peculiare capacità della tragedia di lasciarci alla ne con un senso di
riconciliazione invece che con un senso di orrore costituisce il tema di una
delle più antiche discussioni sull’arte letteraria68. Cito una teoria
importante per questa discussione. Samuel Johnson ha detto: «il piacere
della tragedia deriva dalla nostra consapevolezza della nzione; se
pensassimo che gli omicidi e i tradimenti fossero reali non ci piacerebbero
più». Questa spiegazione sembra costruita sul modello del ragazzino che
affermava che gli spilli avevano salvato la vita a molte persone “dal
momento che loro non li avevano inghiottiti”. È vero che la mancanza di
realtà nell’evento drammatico è una condizione negativa dell’effetto della
tragedia. Ma non per questo un nto omicidio è piacevole. Il fatto positivo
è che un contenuto particolare rimosso dal suo contesto pratico è entrato
in un nuovo intero divenendone parte integrante. Nelle sue nuove
relazioni esso acquisisce una nuova espressione. Diventa una parte
qualitativa di un nuovo contesto qualitativo. Colvin, dopo aver citato il
passaggio di Johnson appena riportato, aggiunge: «quindi la nostra
peculiare consapevolezza del piacere nell’osservare l’incontro di scherma
in As You Like It dipende dalla nostra consapevolezza della nzione»69.
Qui, di nuovo, una condizione negativa viene trattata come una forza
positiva. «Consapevolezza della nzione» è un modo ambiguo di
esprimere una cosa che è in sé marcatamente positiva: la consapevolezza di
un intero integrale in cui un avvenimento ottiene un nuovo valore
qualitativo.
Nell’esaminare l’atto dell’espressione abbiamo visto che la conversione di
un atto di sfogo immediato in un atto di espressione dipende dalla
presenza di condizioni che impediscano la manifestazione diretta e che lo
devino in un canale in cui viene coordinato con altri impulsi. Inibire
l’emozione grezza originale non vuol dire sopprimerla; in arte, la
limitazione non è la stessa cosa della coercizione. L’impulso è modi cato
da tendenze collaterali; la modi cazione gli conferisce un signi cato
aggiuntivo – il signi cato dell’intero di cui da lì in avanti è una parte
costitutiva. Nella percezione estetica ci sono due tipi di risposta collaterale
e cooperativa che sono coinvolti nella trasformazione dello sfogo diretto in
un atto di espressione. Queste due modalità del subordinare e del
rafforzare spiegano l’espressività dell’oggetto percepito. Per loro tramite un
accadimento particolare cessa di essere stimolo per un’azione diretta e
diventa valore di un oggetto percepito.
Il primo di questi fattori collaterali è l’esistenza di disposizioni motorie
precedentemente formate. Un chirurgo, uno che gioca a golf o con la
palla, così come un ballerino, un pittore o un violinista, ha a mano e sotto
controllo alcune strutture motorie del corpo. Senza di loro non si può
realizzare alcun atto specializzato in maniera complessa. Un cacciatore
inesperto è molto agitato quando si imbatte d’improvviso nella selvaggina
che sta cacciando. Non ha percorsi ef caci di risposta motoria pronti e
latenti. Le sue tendenze ad agire pertanto entrano tra loro in con itto e si
ostacolano a vicenda, e il risultato è confusione, tutto vortica e si offusca.
Anche il vecchio esperto davanti alla selvaggina può essere agitato per
l’emozione. Ma domina l’emozione dirigendo la propria risposta lungo
canali predisposti in anticipo: tiene fermi occhio e mano, punta il fucile
ecc. Se poniamo un pittore o un poeta nella situazione di imbattersi
d’improvviso in un cervo aggraziato in una foresta verde e chiazzata dal
sole, vi è egualmente una deviazione della risposta immediata in canali
collaterali. Costui non si affretta a sparare, ma nemmeno permette alla sua
risposta di propagarsi a caso per tutto il suo corpo. Le coordinazioni
motorie che sono pronte grazie all’esperienza precedente rendono subito
la sua percezione della situazione più acuta e più intensa e incorporano in
essa signi cati che le danno profondità, facendo anche sì che ciò che si
vede si scandisca in ritmi adeguati.
Stavo parlando del punto di vista di qualcuno che agisce. Ma
considerazioni del tutto analoghe si incontrano sul versante di chi
percepisce. Ci devono essere canali di risposta indiretti e collaterali
predisposti in anticipo quando qualcuno effettivamente vede un quadro o
ascolta un brano musicale. Questa preparazione in senso motorio è una
parte importante dell’educazione estetica in qualsiasi ambito particolare.
Sapere cosa cercare e come scorgerlo è questione di prontezza sul piano
dell’apparato motorio. Solo un chirurgo abile apprezza l’artisticità della
prestazione di un altro chirurgo, seguendola simpateticamente, anche se
non apertamente, nel proprio corpo. Chi conosce qualcosa delle relazione
dei movimenti del pianista con la produzione della musica con il piano
udrà qualcosa che il mero profano non percepisce – proprio come
l’esecutore esperto “diteggia” la musica mentre è intento a leggere uno
spartito. Non si deve sapere molto del mescolare colori su una tavolozza o
dei colpi di pennello che trasferiscono i colori sulla tela per vedere
l’immagine nel dipinto. Ma è necessario che ci siano canali di risposta
motoria già de niti, in parte per costituzione innata e in parte per
un’educazione dovuta all’esperienza. L’emozione può essere stimolata e
tuttavia risultare irrilevante per l’atto della percezione quanto lo è per
l’azione del cacciatore in preda all’agitazione. Non è esagerato dire che
l’emozione a cui mancano percorsi motori propri per operare essendo
priva di direzione renderà la percezione confusa e distorta.
È però necessario che qualcosa cooperi con i percorsi de niti di risposta
motoria. Una persona impreparata a teatro può sentirsi spinta a
partecipare attivamente a ciò che si sta svolgendo – per aiutare l’eroe e
ostacolare il malvagio come vorrebbe fare nella vita reale – tanto da non
vedere la rappresentazione. Invece un critico blasé70 può concedere ai suoi
modi allenati di dare risposte tecniche – alla n ne sempre di tipo
motorio – di dominarlo al punto che egli non si cura di che cosa è espresso
pur afferrando abilmente come le cose sono realizzate. L’altro fattore
richiesto perché un’opera possa essere espressiva per chi la percepisce è
che vi siano signi cati e valori tratti da esperienze precedenti e consolidati
in modo da fondersi con le qualità presentate direttamente nell’opera
d’arte. Risposte tecniche, se non sono mantenute in equilibrio con un tale
materiale fornito in un secondo momento, sono così esclusivamente
tecniche da rendere davvero limitata l’espressività dell’oggetto. Ma se il
materiale af ne di esperienze precedenti non si mescola direttamente con
le qualità della poesia e del dipinto, queste restano suggestioni esteriori,
non parte dell’espressività dell’oggetto stesso.
Ho evitato di usare la parola “associazione” poiché la psicologia
tradizionale suppone che il materiale associato e il colore o il suono
immediato che lo evoca rimangano separati l’uno dall’altro. Essa non
ammette la possibilità di una fusione così completa da incorporare
entrambi i membri in un solo intero. Questa psicologia ritiene che la
qualità sensoriale diretta sia una cosa, e un’idea o un’immagine che la
richiami o la evochi sia un elemento mentale distinto. La teoria estetica
basata su questa psicologia non può riconoscere che evocante ed evocato
possano amalgamarsi e formare un’unità in cui la qualità sensoriale
presente conferisce vivacità alla realizzazione mentre il materiale evocato
fornisce contenuto e profondità.
Il problema qui implicato ha conseguenze molto più ampie per la
loso a dell’estetica di quanto appaia a prima vista. La questione della
relazione che sussiste tra materia sensoriale diretta e quello che fa corpo
con essa in virtù di esperienze precedenti concerne l’essenza
dell’espressività di un oggetto. Non riuscire a vedere che ciò che ha luogo
non è un’“associazione” esteriore ma un’integrazione interna e intrinseca
ha portato a due concezioni della natura dell’espressione opposte ed
egualmente false. Secondo una teoria, l’espressività estetica appartiene alle
qualità sensoriali dirette, e ciò che si aggiunge per evocazione rende solo
l’oggetto più interessante, ma non diventa una parte del suo essere
estetico. L’altra teoria prende la strada opposta e imputa l’espressività per
intero al materiale associato.
L’espressività delle linee in quanto mere linee è addotta come prova del
fatto che il valore estetico appartiene alle qualità sensoriali per loro stesse;
il loro status può servire come banco di prova della teoria. Differenti tipi di
linee, rette e curve, e tra quelle rette le orizzontali e le verticali, e tra le
curve quelle che si chiudono e quelle che scendono e salgono, hanno
qualità estetiche immediate differenti. Questo fatto è fuor di dubbio. Ma la
teoria che stiamo considerando ritiene che la loro peculiare espressività si
possa spiegare senza alcun riferimento che vada al di là dell’apparato
sensoriale immediato direttamente coinvolto. Si ritiene che la fredda
rigidità di una linea retta sia dovuta al fatto che l’occhio mentre vede tende
a cambiare direzione, a muoversi tangenzialmente, in quanto agisce sotto
coercizione quando è costretto a muoversi lungo una linea retta, sicché
allora il risultato esperito è spiacevole. Dall’altro lato, le linee curve sono
gradevoli perché si conformano alle tendenze naturali dei movimenti
propri dell’occhio.
Va riconosciuto che questo fattore probabilmente ha qualcosa a che fare
con la mera piacevolezza o spiacevolezza dell’esperienza. Tuttavia non
tocca il problema della espressività. Sebbene possa essere isolato mediante
dissezione anatomica, l’apparato ottico non funziona mai isolatamente.
Esso opera in connessione con la mano nel protendersi verso qualcosa per
esplorarne la super cie, nel guidare la manipolazione delle cose, nel
dirigere la locomozione. Questo fatto ne ha come conseguenza un altro:
che le qualità sensoriali che ci arrivano per il tramite dell’apparato visivo
sono immediatamente legate a quelle che ci arrivano da oggetti attraverso
attività collaterali. La rotondità che si vede è quella delle palle; gli angoli
che si percepiscono sono non già il risultato di cambiamenti nei movimenti
oculari, ma proprietà di libri e scatole maneggiate; linee curve sono la volta
celeste, la volta di un edi cio; si vedono linee orizzontali come la distesa
del terreno, il margine delle cose che ci circondano. Questo fattore è
implicato così di continuo e immancabilmente ogni volta che usiamo gli
occhi che forse è impossibile riferire solo all’azione degli occhi le qualità
delle linee esperite visivamente.
La natura, in altre parole, non ci si presenta con linee prese di per sé. In
quanto esperite, sono linee di oggetti; demarcazioni di cose. Esse
de niscono la forma grazie alla quale riconosciamo quotidianamente
oggetti che ci stanno attorno. Pertanto, anche quando proviamo a ignorare
ogni altra cosa e a ssare solo loro, le linee portano con sé il signi cato
degli oggetti di cui sono state parti costitutive. Sono espressive delle scene
naturali che hanno de nito per noi. Demarcando e de nendo oggetti, le
linee al tempo stesso riuniscono e connettono. Chi ha sbattuto contro uno
spigolo sporgente e aguzzo riconoscerà l’appropriatezza del termine
“acuto” riferito a un angolo. Oggetti dalle linee molto allungate hanno
spesso quella qualità allocchita così stupida che chiamiamo “ottusa”. Ciò
vuol dire che le linee esprimono i modi in cui le cose agiscono le une sulle
altre e su di noi; i modi in cui gli oggetti si danno forza a vicenda e si
intersecano agendo insieme. Per questa ragione le linee sono ondeggianti,
diritte, oblique, storte, imponenti; per questa ragione nella percezione
diretta sembrano avere persino espressività morale. Sono vincolate alla
terra e proiettate altrove; intime e freddamente distanti; allettanti e
repellenti. Portano con sé le proprietà degli oggetti.
Non ci si può sbarazzare delle proprietà abituali delle linee, nemmeno in
un esperimento che cerchi di isolare l’esperienza delle linee da ogni altra
cosa. Le proprietà degli oggetti de niti dalle linee e dei movimenti messi in
relazione dalle linee hanno radici troppo profonde. Queste proprietà sono
risonanze di una gran quantità di esperienze in cui, nel nostro rapporto
con gli oggetti, non siamo nemmeno sempre consapevoli delle linee in
quanto tali. Linee differenti e relazioni differenti tra linee si sono caricate
inconsciamente di tutti i valori che derivano da ciò che hanno fatto nella
nostra esperienza in ogni nostro contatto con il mondo che ci circonda.
L’espressività delle linee e delle relazioni spaziali in pittura non può essere
compresa appoggiandosi su un’altra base.
L’altra teoria nega che qualità sensoriali immediate possiedano una
qualche espressività; essa ritiene che il senso serva solo da veicolo esterno
mediante il quale ci vengono comunicati altri signi cati. Vernon Lee, essa
stessa un’artista di indubbia sensibilità, ha sviluppato questa teoria nel
modo più coerente, così da evitare, pur avendo qualcosa in comune con la
teoria tedesca della Einfühlung71 ovvero dell’empatia, l’idea che la nostra
percezione estetica sia una proiezione negli oggetti di una mimesi interna
delle loro proprietà che rappresentiamo drammatizzandola quando
guardiamo tali oggetti – una teoria che, a sua volta, è appena più che una
versione animistica della teoria classica della rappresentazione.
Secondo Vernon Lee, come anche secondo alcuni altri teorici nel campo
dell’estetica, “arte” designa un gruppo di attività che sono, di volta in
volta, di ricezione, costruttive, logiche e comunicative. Non c’è nulla di
estetico per quel che riguarda l’arte in sé. I prodotti di queste arti
diventano estetici «rispondendo a un desiderio del tutto diverso che ha le
sue ragioni, le sue regole, i suoi imperativi». Questo desiderio «del tutto
diverso» è il desiderio di forme, e sorge per il bisogno di soddisfare
relazioni congrue tra i nostri tipi di immaginario motorio. Pertanto qualità
sensoriali dirette come quelle del colore e del suono sono irrilevanti. La
richiesta di forme è soddisfatta quando il nostro immaginario motorio
riproduce le relazioni incarnate in un oggetto – come, ad esempio, «la
disposizione a ventaglio di linee fortemente convergenti e l’orizzonte assai
ben delineato di colline, sollevate ritmicamente in creste nitide che
scendono solo per risalire in lunghe e rapide curve concave»72.
Si dice che le qualità sensoriali sono non-estetiche perché, diversamente
dalle relazioni che viviamo attivamente, ci sono imposte e tendono a
opprimerci. Ciò che conta è quel che facciamo, non quel che recepiamo.
La cosa essenziale dal punto di vista estetico è la nostra stessa attività
mentale di partire, compiere un percorso, tornare a un punto di partenza,
attenerci al passato, portarlo con noi; il movimento dell’attenzione indietro
e avanti, in quanto questi atti sono eseguiti dal meccanismo
dell’immaginario motorio. Le relazioni che ne risultano de niscono una
forma, essendo la forma interamente una questione di relazioni. Queste
«trasformano quelle che altrimenti sarebbero giustapposizioni o sequenze
di sensazioni prive di signi cato in entità signi cative che possono essere
ricordate e riconosciute anche quando le sensazioni che le costituiscono
sono, quindi, mutate completamente in forme». L’esito è l’empatia nel suo
vero signi cato. Essa non riguarda «direttamente stato d’animo ed
emozione, ma condizioni dinamiche che entrano in stati d’animo ed
emozioni e che traggono da essi il loro nome. [...] I drammi diversi e
diversamente combinati interpretati da linee e curve e angoli hanno luogo
non nel marmo o nel colore in cui si incarnano le forme contemplate, ma
esclusivamente dentro di noi. [...] E poiché siamo noi i loro soli veri attori,
inevitabilmente questi drammi empatici di linee incidono su di noi,
corroborando od ostacolando i nostri bisogni e le nostre abitudini vitali»73
(il corsivo non è nel testo originale).
Questa teoria è interessante per l’accuratezza con cui separa senso e
relazioni, materia e forma, l’attivo e il ricettivo, le fasi dell’esperienza, e per
come espone dal punto di vista logico ciò che accade quando questi
elementi sono separati. Il riconoscimento dei ruoli svolti dalle relazioni e
dall’attività che ci compete (essendo quest’ultima mediata siologicamente
con tutta probabilità dal nostro meccanismo motorio) è un buon argine
contro teorie che ammettono soltanto che le qualità sensoriali sono
recepite passivamente e subite. Ma una teoria che considera esteticamente
irrilevante il colore in pittura, che ritiene che i suoni in musica siano solo
qualcosa a cui si sovrimpongono relazioni estetiche, sembra aver bisogno a
mala pena di essere confutata.
Le due teorie criticate si integrano l’una con l’altra. Ma non si può
raggiungere la verità della teoria estetica per addizione meccanica tra una
teoria e l’altra. L’espressività dell’oggetto d’arte si deve al fatto che esso
presenta una compenetrazione profonda e completa dei materiali del
subire e dell’agire, laddove in questi ultimi rientra una riorganizzazione
della materia che ci si porta dall’esperienza passata. Infatti, nella
compenetrazione quest’ultimo materiale non è aggiunto per associazione
esterna, e neppure sovrapponendosi alle qualità sensoriali. L’espressività
dell’oggetto annuncia e celebra la fusione completa tra ciò che subiamo e
ciò che la nostra attività di percezione attenta introduce in quello che
recepiamo per mezzo dei sensi.
Il riferimento al corroborare i nostri bisogni e le nostre abitudini vitali è
degno di nota. Questi bisogni e queste abitudini vitali sono puramente
formali? Possono essere soddisfatti solo mediante relazioni, oppure vanno
alimentati con la materia del colore e del suono? Che sia vera quest’ultima
ipotesi sembra sia riconosciuto implicitamente quando Vernon Lee
continua dicendo che «l’arte, anziché svincolarci dal senso della vita
effettiva, intensi ca e ampli ca quegli stati di serenità di cui ci è data
prova, ma troppo raramente, troppo poco e troppo confusamente, nel
corso della nostra consueta vita pratica»74. Proprio così. Ma le esperienze
che l’arte intensi ca e ampli ca non esistono esclusivamente dentro di noi,
e neppure consistono di relazioni separate dalla materia. I momenti in cui
la creatura è sia più viva sia più calma e concentrata sono quelli in cui più
piena è l’interazione con l’ambiente circostante, in cui il materiale sensibile
e le relazioni si fondono nel modo più completo. Se facesse ritirare il sé nel
sé l’arte non ampli cherebbe l’esperienza, né l’esperienza risultante da tale
isolamento sarebbe espressiva.
Entrambe le teorie considerate separano la creatura vivente dal mondo in
cui essa vive; vive per interazione attraverso una serie di azioni e passioni
correlate che, secondo gli schemi della psicologia, sono motorie e sensorie.
La prima teoria trova nell’attività organica isolata dagli eventi e dalle scene
del mondo una causa suf ciente della natura espressiva di determinate
sensazioni. L’altra teoria localizza l’elemento estetico “esclusivamente
dentro di noi”, sulla base del fatto che le relazioni motorie vengono
tradotte in “forme”. Ma la vita è un processo continuo; ha continuità
perché è un processo sempre rinnovato in cui si agisce sull’ambiente e si
subisce l’azione dell’ambiente, e insieme vengono a istituirsi relazioni tra
ciò che si fa e ciò che si subisce. Pertanto l’esperienza è necessariamente
cumulativa e il suo contenuto acquisisce espressività grazie a questa
continuità cumulativa. Il mondo di cui abbiamo fatto esperienza diventa
una parte integrante del sé che agisce e patisce in un’esperienza ulteriore.
Nella loro occorrenza sica cose ed eventi esperiti passano e svaniscono.
Ma qualcosa del loro signi cato e del loro valore si conserva come parte
integrante del sé. Grazie alle abitudini formate nell’interazione con il
mondo noi anche in-abitiamo75 il mondo. Esso diventa una dimora, e la
dimora è parte di ogni nostra esperienza.
Come possono allora evitare di diventare espressivi alcuni oggetti
dell’esperienza? Eppure l’apatia e il torpore celano questa espressività
costruendo un guscio attorno agli oggetti. La familiarità spinge
all’indifferenza, il pregiudizio ci acceca; la presunzione guarda dalla parte
sbagliata di un telescopio e riduce al minimo la signi catività posseduta
dagli oggetti in favore della pretesa importanza del sé. L’arte toglie il velo
che nasconde l’espressività delle cose esperite; ci distoglie dall’indolenza
della routine e ci fa dimenticare noi stessi facendoci ritrovare nel piacere
dell’esperienza del mondo che ci circonda nelle sue diverse qualità e
forme. Capta ogni sfumatura di espressività trovata negli oggetti
ordinandoli in una nuova esperienza di vita.
Essendo espressivi, gli oggetti d’arte comunicano. Non dico che l’intento
dell’artista sia di comunicare con altre persone. Ma questa è la
conseguenza della sua opera – la cui vita è infatti solo comunicazione nel
momento in cui ha effetti sull’esperienza altrui. Se l’artista desidera
comunicare un messaggio particolare allora tende a limitare l’espressività
che la sua opera ha per gli altri – che voglia comunicare tanto una morale
quanto un saggio della sua stessa abilità. L’indifferenza nei confronti della
risposta del pubblico immediato è un tratto necessario di tutti gli artisti che
hanno qualcosa di nuovo da dire. Questi sono però animati dalla profonda
convinzione del fatto che, potendo solo dire quello che hanno da dire, il
problema non riguarda la loro opera ma coloro che non vedono pur
avendo gli occhi, che non sentono pur avendo le orecchie. La
comunicabilità non ha nulla a che fare con la popolarità.
Non posso che pensare che sia falso molto di quanto dice Tolstoj76 sul
contagio immediato in quanto banco di prova per la qualità artistica, e che
sia limitato quello che dice sul solo tipo di materiale che può essere
comunicato. Ma se si ampliasse l’arco temporale, risulterebbe vero che
nessuno è eloquente se qualcuno non si commuove mentre ascolta. Chi si
commuove sente, come dice Tolstoj, che ciò che l’opera esprime è come
qualcosa che lui stesso avrebbe voluto esprimere. Al tempo stesso, l’artista
lavora per creare un pubblico con cui comunicare. Alla ne le opere d’arte
sono i soli media capaci di una comunicazione completa e non ostacolata
tra uomo e uomo che può aver luogo in un mondo pieno di abissi e pareti
che limitano la condivisione dell’esperienza.
6 – Sostanza e forma

In quanto espressivi gli oggetti d’arte sono un linguaggio. Anzi, sono


molti linguaggi. Infatti ogni arte ha il suo proprio medium e tale medium è
particolarmente adatto a un tipo di comunicazione. Ogni medium dice
qualcosa che non può essere espresso nello stesso modo o con la stessa
completezza in una qualsiasi altra lingua. I bisogni della vita quotidiana
hanno attribuito maggiore importanza pratica a una maniera di
comunicare, quella del discorso. Questo fatto purtroppo ha originato la
comune impressione che i signi cati espressi in architettura, scultura,
pittura e musica possano essere tradotti in parole con, semmai, piccolo
danno. In realtà ogni arte parla un idioma che trasmette ciò che non può
essere detto in un altro linguaggio rimanendo invariato.
Un linguaggio esiste solo quando è ascoltato oltre che parlato. Chi
ascolta è un partner indispensabile. L’opera d’arte è completa solo quando
agisce nell’esperienza di persone diverse da chi l’ha creata. Quindi un
linguaggio comporta ciò che i logici chiamano una relazione triadica. C’è
chi parla, la cosa detta e colui a cui si parla. L’oggetto esterno, il prodotto
dell’arte, è l’anello di congiunzione tra artista e pubblico. Anche quando
l’artista lavora in solitudine sono presenti tutti e tre i termini. Mentre
l’opera è in via di sviluppo l’artista deve fungere, in forma vicaria, da
pubblico ricevente. Riesce a parlare solo se la sua opera gli si rivolge come
a qualcuno a cui si parla attraverso ciò che costui percepisce. L’artista
osserva e comprende come potrebbe osservare e interpretare una terza
persona. Si racconta che Matisse abbia detto: «quando un dipinto è nito
è come un bambino appena nato. L’artista stesso ha bisogno di tempo per
comprenderlo»77. Bisogna viverci assieme, come si vive assieme a un
bambino, per riuscire ad afferrare il signi cato del suo essere.
Ogni linguaggio, qualunque ne sia il medium, implica ciò che viene detto
e come viene detto, ovvero la sostanza e la forma. Il grande problema
relativo a sostanza e forma è: prima viene la materia già fatta, e solo dopo si
cerca di scoprire una forma in cui darle corpo? Oppure l’intero sforzo
creativo dell’artista è un tentativo di formare materiale ed è dunque esso in
realtà l’autentica sostanza di un’opera d’arte? Il problema è ampio e
profondo. La risposta che gli si dà determina l’esito di molte altre questioni
controverse nella critica estetica. C’è un valore estetico proprio dei
materiali sensibili e un altro valore estetico relativo a una forma che rende
espressivi tali materiali? Tutti i soggetti sono idonei a un trattamento
estetico, oppure lo sono solo i pochi che si distinguono a tal ne per un
loro carattere intrinsecamente superiore? “Bellezza” è un altro nome per
una forma che cala dall’esterno, come un’essenza trascendente, su un
materiale, oppure è un nome che indica la qualità estetica che appare ogni
volta che un materiale è formato in modo da renderlo suf cientemente
espressivo? Nel suo senso estetico, forma è qualcosa che contraddistingue
esclusivamente, in quanto estetico sin dall’inizio, un determinato ambito di
oggetti, oppure è il nome astratto che sta per ciò che emerge ogni volta che
un’esperienza giunge a completo sviluppo?
Tutte queste domande erano implicite nella discussione dei tre capitoli
precedenti, e implicitamente hanno trovato risposta. Se si ritiene che un
prodotto artistico sia prodotto di un’espressione del sé, considerando il sé
come qualcosa di compiuto e isolato al proprio interno, allora sostanza e
forma risultano senz’altro separate. Ciò che riveste una rivelazione del sé è,
secondo l’ipotesi avanzata, esterno alle cose espresse. L’esternità persiste a
prescindere da quale dei due elementi venga considerato come forma e
quale come sostanza. Ed è chiaro anche che se non ci fosse nessuna
espressione di sé, nessun libero gioco di una individualità, il prodotto
sarebbe necessariamente solo l’esemplare di una specie; gli mancherebbe
la freschezza e l’originalità che si riscontrano solo in cose che hanno per
loro stesse individualità. Ed ecco un punto da cui partire per affrontare la
relazione tra forma e sostanza.
Il materiale con cui viene composta un’opera d’arte appartiene al mondo
comune invece che al sé, e tuttavia vi è espressione di sé in arte poiché il sé
assimila quel materiale in modo peculiare così da farlo riemergere nel
mondo pubblico in una forma che costituisce un nuovo oggetto. Questo
nuovo oggetto può avere per conseguenza analoghe ricostruzioni,
ricreazioni, di un materiale vecchio e usuale da parte di coloro che lo
percepiscono, e dunque col tempo può consolidarsi come parte del mondo
noto – come “universale”. Il materiale espresso non può essere privato; tale
situazione si veri ca in manicomio. Ma la maniera di esprimerlo è
individuale e, nel caso in cui il prodotto sia un’opera d’arte,
irriproducibile. L’identità del modo di produrre caratterizza l’opera di una
macchina, il cui corrispettivo estetico è l’accademismo. La qualità di
un’opera d’arte è sui generis78 perché la maniera in cui viene presentato
un materiale generico lo trasforma in una sostanza fresca e vitale.
Ciò che vale per chi produce vale anche per chi percepisce, che può
percepire in maniera accademica quando cerca identità con le quali è già
familiare, in maniera erudita e pedante quando cerca materiali che si
attaglino a una ricostruzione storica o a un saggio che vuole scrivere,
oppure in maniera sentimentale quando cerca esempli cazioni di qualche
tema che gli è caro dal punto di vista emotivo. Ma se percepisce in maniera
estetica, allora crea un’esperienza che ha un nuovo contenuto intrinseco,
una nuova sostanza. Un critico inglese, A. C. Bradley, ha detto che,
«poiché la poesia sono le opere poetiche, dobbiamo pensare a una poesia
così come esiste in concreto; e una poesia concreta è una successione di
esperienze – suoni, immagini, pensiero – attraverso a cui passiamo
leggendo una poesia. [...] Una poesia esiste su in niti livelli»79. Ed è anche
vero che essa esiste in in nite qualità o varietà, tanto che non ci saranno
mai due lettori che avranno esattamente la stessa esperienza per quel che
concerne le “forme”, ovvero le maniere di rispondere che si determinano
nei suoi confronti. Chiunque legga in maniera poetica crea una nuova
poesia – non perché sia originale il suo materiale grezzo (dopo tutto
viviamo infatti nello stesso vecchio mondo), ma perché ogni individuo
porta con sé, quando esercita la propria individualità, un modo di vedere e
di sentire che, interagendo con un vecchio materiale, crea qualcosa di
nuovo, qualcosa che prima nell’esperienza non esisteva.
Un’opera d’arte, per quanto antica o classica, è effettivamente, non già
potenzialmente, un’opera d’arte solo quando vive in qualche esperienza
individuale. Come pezzo di pergamena, di marmo, di tela, pur essendo
soggetta alle ingiurie del tempo essa resta identica a sé attraverso i secoli.
Ma come opera d’arte essa viene ricreata ogni volta che se ne fa esperienza
estetica. Nessuno mette in dubbio questo fatto quando si esegue uno
spartito musicale; nessuno crede che le linee e i punti sulla carta siano più
che mezzi registrati per evocare l’opera d’arte. Ciò che è vero in questo
caso è però vero anche per il Partenone come edi cio. È assurdo chiedere
che cosa intendeva “davvero” un artista con il suo prodotto; egli stesso vi
troverebbe signi cati differenti in giorni e ore differenti e in fasi differenti
della sua evoluzione. Se si potesse esprimere con chiarezza, direbbe:
“Intendevo proprio questo, e questo vuol dire qualunque cosa ne possa
ricavare chiunque con sincerità, ossia sulla base della sua stessa esperienza
vitale”. Ogni altra idea rende la celebrata “universalità” dell’opera d’arte
sinonimo di una monotona identità. Il Partenone, o qualsiasi altra cosa, è
universale perché riesce continuamente a ispirare nuove realizzazioni
personali nell’esperienza.
È semplicemente impossibile che una persona qualsiasi oggi riesca a fare
la stessa esperienza del Partenone che ne faceva il devoto cittadino
ateniese dell’epoca, non più che la statuaria religiosa del XII secolo riesca a
signi care, sul piano estetico, anche per un buon cattolico di oggi proprio
quello che signi cava per i fedeli del tempo antico. Le “opere” che non
riescono a diventare nuove non sono quelle universali, ma quelle “datate”.
Il prodotto artistico duraturo può essere stato, e probabilmente fu,
sollecitato da qualcosa di occasionale, qualcosa che aveva un suo tempo e
un suo luogo. Ma ciò che ne è risultato è una sostanza formata in modo da
poter entrare nell’esperienza di altri consentendo esperienze di se stessi più
intense e più pienamente complete.
Ecco cos’è l’aver forma. Contraddistingue un modo di considerare, di
sentire e di presentare una materia esperita in maniera da farla diventare
più velocemente ed ef cacemente materiale per costruire un’esperienza
adeguata da parte di coloro che sono meno dotati del creatore originale.
Quindi non si può tracciare una distinzione tra forma e sostanza se non
per ri essione. L’opera stessa è materia che ha preso forma in una sostanza
estetica. Tuttavia il critico, il teorico, in quanto studioso che ri ette sul
prodotto d’arte, non solo può ma deve tracciare una distinzione tra forma
e sostanza. Chiunque osservi da esperto un pugile o un giocatore di golf
distinguerà, credo, ciò che è fatto da come viene fatto – tra il knock-out e la
maniera di portare un colpo; tra la pallina scagliata per molte iarde no a
una certa linea e il modo di eseguire il lancio. L’artista, essendo impegnato
a fare, effettuerà una distinzione analoga quando cerca di correggere un
errore abituale, o di imparare il modo migliore di ottenere un certo effetto.
Ma l’atto stesso è esattamente ciò che è a causa di come è fatto. Nell’atto
non c’è distinzione, ma integrazione perfetta tra maniera e contenuto,
forma e sostanza.
L’autore appena citato, Bradley, in un saggio su Poetry for Poetry’s Sake80
stabilisce una distinzione tra soggetto e sostanza che può essere un buon
punto di partenza per la nostra ulteriore discussione di questo problema.
La distinzione credo possa essere riformulata come distinzione tra materia
per e materia in una produzione artistica. Il soggetto, o “materia per”, lo si
può indicare e descrivere in un modo diverso come fa un particolare
prodotto artistico. La “materia in”, la sostanza effettiva, è lo stesso oggetto
artistico e pertanto non può essere espresso in nessun altro modo. Il
soggetto del Paradise Lost di Milton è, come dice Bradley, la caduta
dell’uomo in rapporto alla rivolta degli angeli – un tema già diffuso negli
ambienti cristiani e facilmente identi cabile da chiunque abbia familiarità
con la tradizione cristiana. La sostanza del poema, la materia estetica, è il
poema stesso; ciò che ne è stato del soggetto una volta sottoposto al
trattamento immaginativo di Milton. Analogamente, si può raccontare a
qualcuno in prosa il soggetto dell’Ancient Mariner81. Ma per
comunicargliene la sostanza lo si dovrebbe porre di fronte all’opera poetica
lasciando che quest’ultima entri in contatto con lui.
La distinzione che Bradley traccia per le opere poetiche si può applicare
ugualmente a ogni arte, persino all’architettura. Il “soggetto” del
Partenone è Pallade Atena, la dea vergine, la protettrice della città di
Atene. Se si prendesse una gran quantità di prodotti artistici di ogni genere
e tipo e li si osservasse abbastanza a lungo per assegnare a ciascuno di essi
un soggetto, si vedrebbe che la sostanza di opere d’arte che trattano lo
stesso “soggetto” è in nitamente diversi cata. In tutte le lingue quante
poesie ci sono che hanno per “soggetto” i ori, o anche solo la rosa?
Quindi i cambiamenti nei prodotti artistici non sono arbitrari; anche
quando sono abbastanza rivoluzionari, essi non vengono (come reputa
sempre una scuola di critica) dal desiderio sregolato di uomini
indisciplinati di produrre qualcosa di nuovo e sorprendente. I
cambiamenti sono inevitabili dal momento che le cose comuni del mondo
vengono esperite in culture differenti e da personalità differenti. Il soggetto
che aveva un così grande signi cato per il cittadino ateniese del IV secolo
a.C. oggi è poco più di un caso storico. Un protestante inglese del XVII
secolo che apprezzava appieno il tema del poema epico di Milton può non
aver avuto affatto simpatia per l’argomento e l’impianto della Divina
Commedia di Dante, al punto da non riuscire a coglierne la qualità
artistica. Oggi potrebbe essere un “non-credente” ad avere la maggiore
sensibilità estetica per queste opere poetiche proprio grazie alla sua
indifferenza per il loro contenuto già trattato in precedenza. Dall’altro lato,
più di una persona abituata a osservare quadri oggi non è in grado di
rendere pienamente giustizia alla pittura di Poussin nelle sue intrinseche
qualità plastiche dal momento che i suoi temi classici ci sono diventati
estranei.
Il soggetto, come dice Bradley, è esterno all’opera poetica; la sostanza è
dentro di essa; anzi: è lei l’opera poetica. Anche il “soggetto”, però, ha un
ampio spettro di variazione. Può essere poco più di un’etichetta; può
essere l’occasione che ha sollecitato l’opera; oppure può essere il contenuto
che, come materiale grezzo, è entrato nella nuova esperienza dell’artista e
ha subito una trasformazione. Le poesie di Keats e Shelley sull’allodola e
sull’usignolo forse non ebbero solo i canti di questi uccelli come stimolo
occasionale. È dunque bene, per amore di chiarezza, distinguere non solo
la sostanza dal tema, ovvero dall’argomento, ma distinguere entrambi da
un contenuto già trattato in precedenza. Il “soggetto” dell’Ancient
Mariner è l’uccisione di un albatros da parte di un marinaio e ciò che
accade in conseguenza di ciò. La sua materia è la stessa opera poetica. Il
contenuto che tratta sono tutte le esperienze di crudeltà e pietà relative a
una creatura vivente che un lettore si porta dietro. Lo stesso artista è a
stento in grado di cominciare se ha solo un soggetto. Se lo facesse, quasi
sicuramente la sua opera sarebbe affetta da arti cialità. Prima viene il
contenuto trattato, poi la sostanza ovvero la materia dell’opera; in ne la
determinazione dell’argomento, ovvero del tema82.
Un contenuto già trattato in precedenza non si trasforma all’istante nella
materia di un’opera nella mente dell’artista. È un processo che si sviluppa.
Come abbiamo già visto, l’artista scopre dove sta andando sulla base di ciò
che ha fatto prima; cioè, l’originaria eccitazione e agitazione per un
qualche contatto con il mondo subisce in seguito una trasformazione. Lo
stato della materia cui è giunto pone esigenze da soddisfare e determina
una cornice entro cui si muovono le altre operazioni. Con il procedere
dell’esperienza che trasforma il contenuto nella vera sostanza dell’opera
d’arte, episodi e scene che c’erano all’inizio possono scomparire e altri
possono subentrare, trascinati dall’assimilazione del materiale qualitativo
che ha suscitato l’eccitazione originaria.
D’altro canto, il tema o soggetto può non avere alcuna importanza se
non per consentire una identi cazione pratica. Una volta ho visto una
persona che stava tenendo una conferenza sulla pittura strappare una
facile risata dal suo uditorio mostrando un quadro cubista e chiedendo al
pubblico di indovinare che cosa raf gurasse. Poi disse al pubblico il titolo
– come se questo ne fosse stato il contenuto trattato, la sostanza. Per una
qualche ragione che lui solo doveva conoscere, forse pour épater les
bourgeois83 oppure per le circostanze in cui era sorto il quadro, o per una
qualche qualità sottilmente af ne, l’artista aveva etichettato il suo quadro
con il nome di un personaggio storico. Il conferenziere e la risata del
pubblico sottindendevano che l’evidente discrasia tra il titolo e il quadro
che si vedeva si dovesse in qualche modo alle qualità estetiche dell’opera.
Nessuno percependo il Partenone si lascerebbe in uenzare dal fatto
casuale di non conoscere il senso del termine con cui viene chiamato
l’edi cio. Eppure, soprattutto per quel che concerne i dipinti, questo
errore si veri ca in diversi modi molto più sottili di quello illustrato
dall’episodio della conferenza.
I titoli sono, per così dire, fatti sociali. Identi cano oggetti per facili
riferimenti, di modo che si sappia che cosa si intende quando una sinfonia
di Beethoven è chiamata la “Quinta”84 o quando si menziona la
Deposizione di Tiziano85. Una poesia di Wordsworth si può determinare
attraverso il nome, ma potrebbe essere identi cata sia come la poesia che si
trova su una certa pagina di una data edizione sia chiamandola Lucy Gray.
Un dipinto di Rembrandt può essere chiamato Matrimonio ebreo86 oppure
può essere de nito come quel dipinto appeso a una certa parete di una
sala particolare del museo di Amsterdam. I musicisti di solito indicano le
loro opere con il numero aggiungendo, al più, l’indicazione della tonalità.
Alcuni pittori preferiscono titoli vaghi. In tal modo gli artisti, forse
inconsciamente, cercano di sottrarsi alla tendenza generale di collegare un
oggetto d’arte a una certa scena o a un qualche corso di eventi
riconoscibili da ascoltatori e spettatori sulla base della loro esperienza
precedente. Un quadro può essere catalogato solo come “Fiume al
crepuscolo”. Anche in tal caso molte persone crederebbero di dover
traslare nella propria esperienza di esso qualche ume che ricordano di
aver visto una volta a quell’ora particolare. Ma in tal modo il quadro cessa
allora di essere un quadro e diventa un inventario o un documento, quasi
fosse una fotogra a a colori presa a ni storici o geologici o per aiutare le
indagini di un investigatore.
Le distinzioni effettuate sono elementari; tuttavia sono basilari in una
teoria estetica. Una volta posto termine alla confusione tra soggetto e
sostanza ci si libererà anche, ad esempio, di quelle ambiguità relative alla
rappresentazione che abbiamo discusso. Bradley richiama l’attenzione
sulla tendenza comune a trattare un’opera d’arte come ciò che serve solo a
ricordare qualcosa facendo il caso del visitatore di una galleria che mentre
cammina nota “Questo quadro assomiglia tanto a mio cugino”, oppure
che quel quadro è “l’immagine del posto dove sono nato”, e che, «avendo
capito che un dipinto si riferisce a Elia, va avanti felice di riconoscere il
soggetto, e solo quello, del quadro successivo»87. Finché non si riconosce
la radicale differenza tra soggetto e sostanza, non solo commetterà errori il
visitatore casuale, ma critici e teorici giudicheranno oggetti d’arte sulla
base dei loro preconcetti su quale debba essere il contenuto trattato
dall’arte. Non è lontano il tempo in cui dei drammi di Ibsen era cosa
conveniente dire che fossero “volgari”, e in cui venivano condannati in
quanto arbitrari e capricciosi quei dipinti che modi cano il contenuto sulla
base di esigenze poste dalla forma estetica tanto da comportare la
distorsione della gura sica. La giusta replica di un pittore a tale
incomprensione si trova in una osservazione di Matisse. A una signora che
si lamentava con lui dicendo di non aver mai visto una donna che
somigliasse a quella del suo dipinto, egli rispose: «Signora, questa non è
una donna; è un quadro»88. I critici che tirano in ballo contenuti non
pertinenti – storici, morali, emotivi, o travestiti da canoni stabiliti che
prescriverebbero temi adeguati – possono essere di gran lunga superiori
per erudizione rispetto alla guida del museo che non dice nulla sui dipinti
in quanto quadri ma molto sulle circostanze in cui essi vennero prodotti e
sulle associazioni emotive che suscitano, sulla maestosità del Monte Bianco
o sulla tragedia di Anna Bolena; ma esteticamente si trovano sullo stesso
livello.
L’uomo di città che da ragazzo ha vissuto in campagna è portato ad
acquistare quadri con prati verdi e animali al pascolo o ruscelli
gorgoglianti – soprattutto se vi è anche un pozza per nuotare. Questi
quadri gli fanno rivivere certi valori della sua giovinezza privati delle
pesanti esperienze di quel tempo e invece arricchiti da un valore emotivo
aggiuntivo dovuto al contrasto con l’attuale stato di benessere. In tutti
questi casi il quadro non viene visto. Il dipinto è usato come trampolino
per arrivare a sentimenti che sono gradevoli in forza di un contenuto non
pertinente. Il contenuto delle esperienze dell’infanzia e della gioventù è
tuttavia uno sfondo inconscio di molta grande arte. Ma per essere la
sostanza dell’arte deve essere trasformato in un nuovo oggetto attraverso il
medium impiegato, e non semplicemente rievocato attraverso una sorta di
reminiscenza.
Il fatto che in un’opera d’arte forma e materia siano connesse non
signi ca che siano identiche. Vuol dire che nell’opera d’arte esse non si
presentano come due cose distinte: l’opera è materia formata. Tuttavia è
lecito distinguerle quando si comincia a ri ettere, come nell’ambito della
critica e della teoria. In tal caso siamo costretti a indagare la struttura
formale dell’opera, e per portare avanti razionalmente questa indagine
dobbiamo avere una concezione generale di che cos’è la forma. Una
chiave d’accesso a questa idea si può ricavare partendo dal fatto che un
uso idiomatico del termine rende tale idea equivalente a gura o
con gurazione89. Soprattutto per quel che concerne i quadri la forma
viene spesso semplicemente identi cata con le sagome de nite dai
contorni lineari delle gure. La gura però è solo un elemento della forma
estetica; non la costituisce. Nella percezione comune si riconoscono e si
identi cano le cose mediante le relative gure; anche parole e frasi hanno
gure, sia quando vengono udite che quando vengono viste. Si pensi a
quanto un accento malposto ostacola il riconoscimento più di quanto
faccia ogni altro tipo di errore di pronuncia.
Dunque per quel che riguarda il riconoscimento la gura non si riduce
alle proprietà geometriche o spaziali. Queste svolgono un certo ruolo solo
in quanto subordinate all’adattamento a un ne. Le gure che non sono
associate nella nostra mente a qualche funzione sono dif cili da afferrare e
da trattenere. Le gure di cucchiai, coltelli, forchette, oggetti domestici,
elementi del mobilio, sono mezzi di identi cazione poiché sono associate a
uno scopo. Fino a un certo punto, quindi, la gura si allea con la forma nel
suo senso artistico. In entrambe vengono organizzate le parti che le
costituiscono. In qualche senso persino la gura tipica di un utensile e di
un attrezzo indica che il signi cato dell’intero è entrato nelle parti per
quali carle. Questo è il motivo per cui alcuni teorici, come Herbert
Spencer, sono stati indotti a identi care il principio della “bellezza” con
l’adattarsi in modo ef cace e redditizio delle parti alla funzione di un
intero90. In alcuni casi l’adeguatezza è in effetti tanto eccellente da
costituire grazia visibile indipendentemente dall’idea di una qualsiasi
utilità. Ma questo caso particolare indica come gura e forma differiscano
sul piano generale. Infatti si tratta più di grazia che di semplice mancanza
di scomodità, nella misura in cui “scomodo” signi ca non riuscire ad
adattarsi a un ne. Nella gura come tale l’adattamento è intrinsecamente
limitato a un ne particolare – come, nel caso di un cucchiaio, il portare
liquidi alla bocca. Il cucchiaio che in più è dotato di quella forma estetica
chiamata grazia non ha tale limitazione.
Si sono fatti moltissimi sforzi teorici per cercare di identi care l’ef cienza
rispetto a un ne particolare con la “bellezza”, ovvero con la qualità
estetica. Ma questi tentativi sono destinati a fallire, sebbene in alcuni casi
fortunati le due cose coincidano e sebbene sia umanamente auspicabile
che le due cose riescano sempre ad incontrarsi. Infatti l’adattamento a un
ne particolare è spesso (sempre nel caso di faccende complesse) qualcosa
che si percepisce con il pensiero, mentre l’effetto estetico si trova
direttamente nella percezione dei sensi. Una seggiola può servire allo
scopo di fornire una seduta comoda e igienicamente adeguata, senza
assecondare al tempo stesso le esigenze dell’occhio. Se invece ostacola,
anziché agevolare, il ruolo che la visione ha in un’esperienza, risulterà
brutta a prescindere da quanto sia adatta all’uso in quanto sedile. Non c’è
un’armonia prestabilita che garantisca che ciò che soddisfa le esigenze di
un insieme di organi appaghi anche le esigenze di tutte le altre strutture e
di tutti gli altri stimoli che intervengono nell’esperienza, rendendola così
compiuta in quanto insieme complesso di tutti gli elementi. Tutto quello
che possiamo dire è che in assenza di contesti di disturbo, come capita
invece quando si producono oggetti per massimizzare il pro tto privato,
tende a istituirsi un equilibrio tale per cui gli oggetti saranno soddisfacenti
– “utili” in senso stretto – per l’intero sé, sebbene nel processo venga
sacri cata qualche ef cienza speci ca. In tal senso esiste una tendenza
della gura dinamica (da distinguere dalla mera con gurazione
geometrica) a fondersi con la forma artistica.
All’inizio della storia del pensiero loso co il valore della gura nel
rendere possibile la de nizione e la classi cazione degli oggetti venne
rilevato e posto a base di una teoria meta sica della natura delle forme. Il
fatto empirico della relazione dovuta alla sistemazione di parti per un certo
ne e un certo uso – come nel caso del cucchiaio, del tavolo o della tazza –
venne del tutto trascurato e, anzi, disconosciuto. La forma venne trattata
come qualcosa di intrinseco, come l’essenza stessa di una cosa in virtù
della struttura meta sica dell’universo. È facile seguire il corso del
ragionamento che portò a questo risultato una volta dimenticata la
relazione della gura con l’uso. È grazie alla forma – nel senso di gura
adattata – che noi tanto identi chiamo quanto distinguiamo le cose nella
percezione: le seggiole dai tavoli, l’acero dalla quercia. Poiché le notiamo –
ovvero le “conosciamo” – in questo modo, e poiché si credeva che la
conoscenza consistesse nel rivelare la vera natura delle cose, si concluse
che le cose sono ciò che sono in virtù del loro possedere, intrinsecamente,
certe forme.
Inoltre, poiché le cose sono rese conoscibili da queste forme, si concluse
che la forma è l’elemento razionale, intelligibile degli oggetti e degli eventi
del mondo. Quindi fu contrapposta alla “materia”, intesa come il supporto
irrazionale, intrinsecamente caotico e uttuante, su cui si imprimeva la
forma. Questa era eterna tanto quanto l’altra era mutevole. Questa
distinzione meta sica tra materia e forma si incarnò nella loso a che ha
dominato per secoli il pensiero europeo. Ecco perché in uisce ancora sulla
loso a estetica della forma in relazione alla materia. È la fonte del
pregiudizio a favore della loro separazione, soprattutto quando si traduce
nell’assunzione del fatto che la forma possiede una dignità e una stabilità
che mancano alla materia. In realtà, se non fosse per questa tradizione che
sta sullo sfondo, forse a nessuno verrebbe in mente che c’è un problema
nella relazione tra forma e materia dal momento che sarebbe ben chiaro
che la sola distinzione importante in arte è quella tra materia
inadeguatamente formata e materiale formato compiutamente e
coerentemente.
Gli oggetti delle arti industriali possiedono una forma – quella che si
adatta ai loro usi particolari. Questi oggetti acquisiscono forma estetica,
che si tratti di stuoie, di urne o di cesti, quando il materiale è sistemato e
adattato in modo da servire immediatamente ad arricchire l’esperienza
immediata di chi vi si volge con una percezione attenta. Nessun materiale
può essere adattato a un ne, anche se è quello dell’uso di un cucchiaio o
di un tappeto, nché il materiale grezzo non viene sottoposto a una
trasformazione che con guri le parti e che le disponga in un rapporto
reciproco in vista dello scopo dell’intero. Allora l’oggetto possiede una
forma in senso de nitivo. Quando questa forma viene svincolata dall’esser
limitata a un ne speci co e serve anche agli scopi di un’esperienza
immediata e vitale, essa è estetica e non semplicemente utile.
È signi cativo che la parola “disegno” abbia due signi cati. Vuol dire
scopo e vuol dire disposizione, modo in cui qualcosa è composto. Il
disegno di una casa è il progetto in base a cui essa è costruita per servire
agli scopi di coloro che vi vivono. Il disegno di un dipinto o di un romanzo
è la disposizione dei suoi elementi che lo fa diventare un’unità espressiva
nella percezione diretta. In entrambi i casi sussiste una relazione ordinata
di molti elementi costitutivi. La caratteristica del disegno artistico è
l’intrinsecità delle relazioni che tengono insieme le parti. In una casa ci
sono le stanze e insieme il loro disporsi l’una rispetto all’altra. Nell’opera
d’arte le relazioni non possono essere considerate separatamente da ciò che
esse correlano, se non in una ri essione successiva. Un’opera d’arte è tanto
più povera quanto più le relazioni sono isolate, come in un romanzo in cui
si avverte che la trama – il disegno – si sovrappone agli eventi e ai
personaggi, anziché rappresentarne le reciproche relazioni dinamiche. Per
comprendere il disegno di un complicato pezzo meccanico dobbiamo
conoscere lo scopo a cui dovrebbe servire la macchina e il modo in cui le
diverse parti si combinano per realizzare tale scopo. È come se il disegno
venisse sovrapposto ai materiali che non contribuiscono effettivamente ad
esso, così come i soldati semplici partecipano a una battaglia condividendo
solo passivamente il “disegno” strategico del generale.
Solo quando le parti che costituiscono un intero hanno l’unico ne di
contribuire al perfezionamento di un’esperienza cosciente, disegno e
gura perdono il carattere della sovrapposizione e diventano forma. Non
possono farlo nché servono a uno scopo speci co; possono invece servire
allo scopo complessivo di fare una esperienza solo quando non spiccano di
per sé, ma si fondono con tutte le altre proprietà dell’opera d’arte.
Trattando dell’importanza della forma in pittura, Barnes ha chiarito la
necessità di questa integrazione o fusione, della compenetrazione di
“ gura” e struttura con colore, spazio e luce. La forma, dice, è «la sintesi,
ovvero la fusione, di tutti i mezzi plastici [...] la loro amalgama armonica».
Dall’altro lato, la struttura nel suo senso ristretto, ovvero come progetto e
disegno, «è solo lo scheletro su cui le unità plastiche [...] si innestano»91.
Questa fusione reciproca di tutte le proprietà del medium è necessaria
perché l’oggetto in questione possa servire alla creatura intera nella sua
vitalità uni cata. Essa pertanto de nisce la natura della forma in tutte le
arti. In rapporto a un’utilità speci ca, possiamo de nire il disegno l’essere
in relazione con questo o quel ne. Una seggiola ha un disegno adatto a
dare conforto; un’altra all’igiene; una terza allo sfarzo regale. Solo quando
tutti i mezzi si compenetrano l’un l’altro, l’intero permea le parti dando
luogo a un’esperienza che è uni cata perché è inclusiva anziché esclusiva.
Questo fatto conferma la posizione assunta nel capitolo precedente relativa
all’unione delle qualità della vivacità sensoriale diretta con altre qualità
espressive. Nella misura in cui il “signi cato” è un problema di
associazione e di evocazione, esso risulta separato dalle qualità del medium
sensoriale, e la forma ne risente. Le qualità sensoriali sono i vettori dei
signi cati, non come fanno i veicoli che trasportano le merci ma come una
madre porta il bimbo quando questo è parte del suo stesso organismo. Le
opere d’arte, come le parole, sono letteralmente pregne di signi cato. I
signi cati, avendo origine nell’esperienza passata, sono i mezzi attraverso i
quali si realizza l’organizzazione particolare che contrassegna, ad esempio,
un quadro. Non si aggiungono per “associazione” ma sono, egualmente, o
l’anima di cui i colori sono il corpo, oppure il corpo di cui i colori sono
l’anima – a seconda del modo in cui ci capita di occuparci del quadro.
Barnes ha messo in rilievo che dall’esperienza passata non si riprendono
solo signi cati intellettuali per aggiungere espressività, ma anche qualità
per aggiungere eccitazione emotiva, che si tratti di serenità o di amarezza.
«Nella nostra mente c’è – egli dice – il precipitato di un gran numero di
atteggiamenti emotivi, sentimenti pronti a essere riattivati quando arriva lo
stimolo giusto, e più di ogni altra cosa sono queste forme, questo residuo
dell’esperienza più pieno e più ricco che nella mente dell’uomo comune, a
costituire il capitale dell’artista. Ciò che viene chiamato l’elemento magico
dell’artista risiede nella sua abilità a trasferire questi valori da un campo
all’altro dell’esperienza, a unirli agli oggetti della nostra vita quotidiana, e a
rendere questi oggetti amari e gravi con la sua perspicuità
immaginativa»92. O materia o forma non sono i colori, non sono le qualità
sensoriali come tali, ma queste qualità in quanto completamente imbevute,
impregnate di valori traslati. Esse sono allora vuoi materia, vuoi forma a
seconda della direzione del nostro interesse.
Mentre alcuni teorici distinguono tra valore sensoriale e valore mutuato a
causa del dualismo meta sico appena ricordato, altri lo fanno perché
temono che l’opera d’arte venga indebitamente intellettualizzata. Costoro
si preoccupano di mettere in rilievo quella che in realtà è una necessità
estetica: l’immediatezza dell’esperienza estetica. Non si dirà mai in
maniera troppo energica che ciò che non è immediato non è estetico.
L’errore consiste nel supporre che solo certe cose speci che – quelle legate
direttamente all’occhio, all’orecchio ecc. – possano essere esperite
qualitativamente e immediatamente. Se fosse vero che si fa esperienza
diretta solo delle qualità che ci raggiungono attraverso organi di senso
isolatamente, allora ogni materiale di relazione sarebbe senz’altro aggiunto
per un’associazione estrinseca – oppure, secondo alcuni teorici, per un atto
“sintetico” di pensiero. Da questo punto di vista il valore strettamente
estetico ad esempio di un dipinto consiste semplicemente in certe relazioni
e in certi ordini relazionali che i colori intrattengono tra loro a prescindere
dalla relazione con gli oggetti. L’espressività che essi acquisiscono essendo
presenti in quanto colori dell’acqua, di rocce, di nuvole ecc. è dovuta
all’arte. Su questa base c’è sempre uno iato tra l’estetico e l’artistico. Sono
di due generi radicalmente differenti.
La psicologia sottesa a questa dicotomia è stata già screditata da William
James, che ha messo in rilievo che ci sono sentimenti diretti di relazioni
come “se”, “allora”, “e”, “ma”, “da”, “con”. Infatti egli ha mostrato che
non c’è una relazione talmente ampia da non poter diventare materia di
esperienza immediata93. Ogni opera d’arte mai esistita ha di fatto già
contraddetto la teoria in questione. È assolutamente vero che certe cose,
cioè certe idee, svolgono una funzione di mediazione. Ma solo una logica
contorta e fallimentare può sostenere che qualcosa, essendo mediato, non
possa perciò venire esperito immediatamente. È vero il contrario. Non
possiamo afferrare alcuna idea, alcun organo di mediazione, né possiamo
possederlo in tutta la sua forza, nché non l’abbiamo avvertito e sentito
proprio come se fosse un odore o un colore.
Chi è particolarmente dedito al pensare come propria occupazione,
quando osserva i processi del pensiero invece di determinare per via
dialettica che cosa devono essere, si rende conto che un sentimento
immediato non ha un raggio d’azione limitato. Idee differenti hanno i loro
differenti “tocchi”, i loro aspetti qualitativi immediati, proprio come ogni
altra cosa. Chi ri ette a suo modo su un problema complicato trova una
direzione lungo questa sua strada grazie a tale proprietà delle idee. Sono le
loro qualità a fermarlo quando si inoltra per un sentiero sbagliato e a
spingerlo avanti quando imbocca la strada giusta. Sono i segni di uno
“stop and go” intellettuale. Se chi pensa dovesse elaborare
dettagliatamente il signi cato di ogni idea, si smarrirebbe in un labirinto
senza ne né centro. Ogni volta che un’idea perde la propria qualità
immediatamente sentita, smette di essere un’idea e diventa, come un
simbolo algebrico, un mero stimolo a eseguire un’operazione senza
bisogno di pensare. Per questa ragione certe sequenze di idee che portano
al loro adeguato perfezionamento (o alla loro adeguata conclusione) sono
belle o eleganti. Hanno carattere estetico. Quando si ri ette è necessario
spesso distinguere tra ciò che riguarda il senso e ciò che riguarda il
pensiero. Ma tale distinzione non ha luogo in tutte le modalità
dell’esperienza. Quando c’è vera e propria artisticità nella ricerca
scienti ca e nella speculazione loso ca, chi pensa non procede né
secondo una regola e neppure alla cieca, ma sfruttando signi cati che
sussistono immediatamente come sentimenti dotati di colore qualitativo94.
Le qualità dei sensi, del tatto e del gusto così come della vista e
dell’udito, hanno qualità estetiche. Non le hanno però se vengono isolate,
ma nelle loro connessioni; in quanto interagiscono e non come entità
semplici e separate. E le connessioni non sono limitate alla loro propria
specie (colori con colori, suoni con suoni). Nemmeno il dispositivo
scienti co del tipo più recente riesce mai a ottenere o un colore “puro” o
uno spettro cromatico puro. Un raggio di luce prodotto sotto controllo
scienti co non termina bruscamente e uniformemente. Ha margini vaghi e
quindi complessità interna. Inoltre è proiettato su uno sfondo, riuscendo
solo in tal modo a entrare nella percezione. E lo sfondo non è soltanto una
delle varie sfumature e delle varie ombre. È dotato di qualità sue proprie.
Nemmeno l’ombra proiettata anche dalla linea più sottile è mai omogenea.
È impossibile isolare un colore dalla luce in modo da non avere rifrazione.
Anche nelle condizioni di laboratorio più uniformi un colore “semplice”
sarà complesso, tanto da avere un margine azzurrognolo. E i colori usati
nei dipinti non sono i colori puri dello spettro ma pigmenti, non sono
proiettati nel vuoto ma stesi su una tela.
Queste osservazioni elementari sono svolte tenendo presenti i tentativi di
importare nell’estetica presunte scoperte scienti che sul materiale dei
sensi. Esse mostrano che anche su una cosiddetta base scienti ca non ci
sono esperienze di qualità “pure” e “semplici”, né di qualità limitate
all’ambito di un singolo senso. C’è comunque un divario insormontabile
tra la scienza in laboratorio e l’opera d’arte. In un dipinto i colori appaiono
come i colori del cielo, delle nuvole, dei umi, delle rocce, dei prati, dei
gioielli, della seta, e così via. Nemmeno l’occhio allenato arti cialmente a
vedere il colore come colore, separato dalle cose che i colori quali cano,
riesce a rimaner cieco alle risonanze e alle traslazioni di valore dovute a
questi oggetti. Una verità peculiare delle qualità cromatiche è che nella
percezione esse sono quello che sono in base a relazioni di contrasto e
armonia con altre qualità. Coloro che giudicano un quadro secondo
l’abilità con cui è disegnato hanno attaccato i coloristi proprio su questo
terreno, mettendo in rilievo che, in contrasto con la costanza stabile della
linea, il colore non è mai due volte uguale poiché varia a ogni
cambiamento di luce e di altre condizioni.
Per contrastare il tentativo di importare nell’estetica astrazioni fuori
luogo dell’anatomia e della psicologia, possiamo prestare ascolto
attentamente ai pittori. Ad esempio, Cézanne dice: «disegno e colore non
sono distinti. Il disegno esiste nella misura in cui il colore risulta davvero
dipinto. Quanto più i colori sono in armonia tra loro, tanto più è de nito il
disegno. Quando un colore raggiunge la sua massima ricchezza, la forma
risulta maggiormente completa. Il segreto del disegno, di ogni cosa
caratterizzata da un pro lo, è il contrasto e la relazione tra i toni»95. Egli
cita con approvazione ciò che dice un altro pittore, Delacroix: «datemi il
fango delle strade e, se mi lasciate anche la facoltà di spargerlo a mio
piacimento, ne farò carne di donna di una tinta deliziosa»96. Opporre la
qualità in quanto immediata e sensoriale alla relazione in quanto
puramente mediata e intellettuale, è sbagliato in una teoria generale, sul
piano psicologico e loso co. Tale contrapposizione nell’arte bella è
assurda, poiché la forza di un prodotto artistico dipende dalla completa
compenetrazione tra i due elementi.
L’azione di qualunque senso comporta atteggiamenti e disposizioni che
si devono all’intero organismo. Le energie che appartengono agli stessi
organi di senso agiscono in modo causale sulla cosa percepita. Quando
alcuni pittori hanno introdotto la tecnica “pointilliste” basandosi sulla
capacità dell’apparato visivo di fondere punti di colore sicamente separati
sulla tela, hanno messo in pratica e non inventato un’attività organica che
trasforma l’esistenza sica in un oggetto percepito. Questo genere di
trasformazione è però elementare. Non è solo l’apparato visivo, ma l’intero
organismo che interagisce con l’ambiente in ogni azione che non sia
routine. L’occhio, l’orecchio o quant’altro è solo il canale attraverso il quale
si realizza la risposta complessiva. Un colore visto è sempre quali cato da
reazioni implicite di molti organi, quelle del sistema simpatico come anche
quelle del tatto. È un imbuto che raccoglie tutta l’energia sprigionata e
non la sua vera fonte. I colori sono fastosi e ricchi appunto perché vi è
profondamente implicata una risonanza dell’intero organismo.
Per no più importante è il fatto che l’organismo che risponde
producendo l’oggetto esperito è un organismo che tende a osservare e a
provare desideri ed emozioni in modi che sono plasmati da esperienze
precedenti. Esso porta in sé esperienze passate non per una memoria
cosciente ma perché ne è direttamente carico. Questo fatto spiega
l’esistenza di un certo grado di espressività nell’oggetto di ogni esperienza
cosciente. È un fatto che è stato messo già in rilievo. Ciò che è pertinente
all’argomento della sostanza estetica si basa sul modo in cui il materiale
dell’esperienza passata, che grava su atteggiamenti presenti, opera in
connessione con un materiale fornito per mezzo dei sensi. In un semplice
ricordo, ad esempio, è essenziale tenere separate le due cose; altrimenti il
ricordare risulta alterato. In una mera azione automatica acquisita il
materiale passato è subordinato al punto da non apparire affatto nella
coscienza. In altri casi il materiale del passato diviene cosciente, ma viene
impiegato in modo consapevole come strumento per trattare un problema
e una dif coltà presenti. È tenuto sotto controllo perché serva a qualche
ne speci co. Se l’esperienza è prevalentemente un’esperienza di
indagine, esso ha la funzione di addurre prove o di suggerire ipotesi; se
l’esperienza è “pratica” ha la funzione di fornire indicazioni per l’azione in
corso.
Nell’esperienza estetica, al contrario, il materiale del passato né riempie
l’attenzione, come nel ricordo, né è subordinato a uno scopo speci co.
C’è, in effetti, un vincolo che s’impone a ciò che accade. Ma è quello di
contribuire alla materia immediata di un’esperienza appena fatta. Il
materiale non è impiegato come un ponte verso qualche altra esperienza,
ma per incrementare e rendere individuale l’esperienza in corso. La
portata di un’opera d’arte si misura secondo il numero e la varietà di
elementi che vengono da esperienze passate e sono organicamente
assorbiti nella percezione avuta qui e ora. Essi le danno corpo e capacità
evocativa. Spesso vengono da fonti troppo oscure per essere in qualche
modo identi cate dalla memoria cosciente, e quindi creano l’aura e la
penombra in cui uttua un’opera d’arte.
Vediamo dipinti mediante gli occhi e ascoltiamo musica mediante le
orecchie. Quando ri ettiamo siamo quindi n troppo abituati a supporre
che nell’esperienza stessa le qualità visive o uditive come tali siano centrali,
se non esclusive. Questo porre all’interno dell’esperienza primaria, come
parte della sua natura immediata, una qualche cosa che vi trova un’analisi
successiva, è una fallacia – quella che James ha chiamato la fallacia
psicologica97. Quando si vede un quadro non è vero che le qualità visive
siano in quanto tali, ovvero in modo cosciente, centrali, mentre altre
qualità si dispongono attorno ad esse in quanto accessorie o associate.
Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Ciò non è più vero circa il
vedere un quadro piuttosto che circa il leggere una poesia o un trattato di
loso a, in cui non abbiamo affatto coscienza distinta delle forme visive di
lettere e parole. Queste sono stimoli a cui rispondiamo con valori emotivi,
immaginativi e intellettuali tratti da noi stessi, che poi vengono ordinati
interagendo con quelli resi presenti dal medium delle parole. I colori visti
in un quadro sono riferiti a oggetti, non all’occhio. Solo per questa ragione
sono quali cati emotivamente, talvolta no ad assumere forza ipnotica, e
sono signi cativi ovvero espressivi. L’organo che l’indagine, usando
conoscenze anatomiche e siologiche per sostenerlo, dimostra essere
causalmente primario nel condizionare l’esperienza, nell’esperienza stessa
può essere un organo poco appariscente come le aree del cervello che sono
coinvolte tanto quanto l’occhio ma di cui sa qualcosa solo il neurologo
preparato – e di cui per no lui non è consapevole quando è intento a
vedere qualcosa. Quando, mediante gli occhi quali sussidi causali,
percepiamo la liquidità dell’acqua, la freddezza del ghiaccio, la solidità
delle rocce, la nudità degli alberi d’inverno, di certo nella percezione sono
evidenti e dominanti qualità diverse da quelle dell’occhio. Ed è quanto
mai certo che le qualità ottiche non spiccano per loro stesse trascinandosi
dietro qualità tattili ed emotive.
L’osservazione appena svolta non riguarda una teoria tecnica posta
altrove. Riguarda direttamente il nostro problema principale, la relazione
tra sostanza e forma. Questo rapporto ha molti aspetti. Uno di essi è la
tendenza intrinseca del senso a espandersi, a stabilire strette relazioni con
cose diverse da se stesso, assumendo così una forma in base al suo proprio
movimento – anziché attendere passivamente che una forma gli sia
imposta. Qualsiasi qualità sensoriale tende, per le sue connessioni
organiche, a propagarsi e a fondersi. Quando una qualità sensoriale
rimane sul piano relativamente isolato su cui è dapprima emersa, lo fa a
causa di qualche reazione particolare, perché viene curata per ragioni
particolari. Cessa di essere sensoriale e diventa sensuale. Questo
isolamento del senso non è caratteristico degli oggetti estetici, ma di cose
come narcotici, orgasmi sessuali, e il gioco d’azzardo che ci si concede per
il gusto dell’eccitazione immediata della sensazione. Nell’esperienza
normale una qualità sensoriale sta in relazione con altre qualità così da
de nire un oggetto. L’organo della ricezione, che è focale, aggiunge
energia e freschezza a signi cati altrimenti meramente legati al ricordo,
stantii o astratti. Nessun poeta è più direttamente legato ai sensi di Keats.
Ma nessuno ha scritto opere poetiche in cui le qualità sensoriali siano più
intimamente pervase da scene ed eventi oggettivi. Milton era
apparentemente ispirato da ciò che per la maggior parte delle persone oggi
è una teologia arida e insopportabile. Ma era interno alla tradizione
shakespeareana abbastanza perché la sua sostanza fosse quella di un
dramma sincero composto su scala grandiosa. Se ascoltiamo una voce
intensa e profonda la sentiamo immediatamente come la voce di un certo
genere di personalità. Se in seguito scopriamo che la persona è, in realtà, di
costituzione scarna e sottile, abbiamo la sensazione di essere stati
ingannati. Quindi siamo sempre esteticamente delusi quando le qualità
sensoriali e le proprietà intellettuali di un oggetto artistico non sono
coalescenti.
Il problema controverso della relazione tra elemento decorativo ed
elemento espressivo trova soluzione quando viene considerato nel contesto
dell’integrazione tra materia e forma. L’elemento espressivo inclina dal lato
del signi cato, quello decorativo dal lato dei sensi. Gli occhi hanno fame
di luce e colore; e si prova una peculiare soddisfazione quando questa
fame viene appagata. Carta da parati, stuoie, tappezzerie, il meraviglioso
gioco di colori cangianti nel cielo e nei ori, appagano questo bisogno. Gli
arabeschi, i colori vivaci, hanno una funzione simile nei dipinti. Parte del
fascino delle strutture architettoniche – che infatti hanno fascino oltre che
dignità – proviene dal fatto che, nelle loro combinazioni perfette di linee e
spazi, vanno incontro a un bisogno organico analogo del sistema senso-
motorio.
Tuttavia in tutto questo non ci sono operazioni isolate di sensi particolari.
La conclusione da trarre è che la qualità tipicamente decorativa si deve a
un’energia insolita di un apparato sensoriale che conferisce vivacità e
attrattiva alle altre attività a cui è associato. Hudson era una persona di
straordinaria sensibilità per la super cie sensoriale del mondo. Parlando
della sua infanzia, quando era, come dice, «proprio un animaletto selvatico
che correva su due zampe anziché su quattro, interessato e stupefatto del
mondo nel quale si trovava», continua dicendo: «mi beavo dei colori, dei
profumi, dei suoni, del gusto e del tatto: l’azzurro del cielo, la vegetazione
della terra, lo scintillio del sole sull’acqua, il sapore del latte, dei frutti, del
miele, l’odore della terra asciutta o umida, del vento e della pioggia, delle
erbe e dei ori; il solo tocco di un lo d’erba mi rendeva felice; e c’erano
certi suoni e certe fragranze, e soprattutto certi colori di ori, o delle
piume e delle uova degli uccelli – per esempio il guscio purpureo e lustro
dell’uovo di tinamu – che mi inebriavano di gioia. Quando nel percorrere
a cavallo la pianura scoprivo una macchia di rosse verbene tutte orite, che
stendevano i loro viticci su metri e metri di terra, con un prato verde e
umido tutto disseminato di grappoli di corolle, scendevo a precipizio dal
mio pony con un grido di gioia per buttarmi sull’erba in mezzo ai ori e
riempirmi gli occhi del loro vivido colore»98.
Non si può certo dire che in tale esperienza non venga riconosciuto
l’effetto sensoriale immediato. Ciò è tanto più degno di nota perché non
viene ostentato quell’atteggiamento di superiorità nei confronti di qualità
dell’odorato, del gusto e del tatto assunto da alcuni autori a partire da
Kant. Ma si noterà che «colori, profumi, gusto e tatto» non sono isolati. Si
gode del colore, della sensazione tattile e dell’odore di oggetti: li d’erba,
cielo, luce del sole e acqua, uccelli. La vista, l’odorato e il tatto
immediatamente sollecitati sono mezzi attraverso i quali l’intero essere del
ragazzo trovava diletto per la percezione profonda delle qualità del mondo
in cui viveva – qualità delle cose esperite e non della sensazione. La
produzione della qualità comporta l’opera attiva di un particolare organo
di senso, ma l’organo non è per questa ragione il fulcro dell’esperienza
cosciente. La connessione tra qualità e oggetti è intrinseca in ogni
esperienza dotata di signi catività. Se si elimina questa connessione non
rimane che una successione di fremiti transitori priva di senso e non
identi cabile. Quando facciamo “pure” esperienze di sensazioni esse ci
capitano attirando d’improvviso e violentemente l’attenzione; sono shock,
e per no gli shock servono normalmente a suscitare la curiosità di
indagare la natura della situazione che ha improvvisamente interrotto la
nostra occupazione precedente. Se la condizione persiste senza
cambiamenti e senza che si sappia calare ciò che si sente in una proprietà
dell’oggetto, il risultato è pura esasperazione – una cosa assolutamente
distante dal godimento estetico. E non è promettente fare della patologia
della sensazione la base del godimento estetico.
Se si traduce il piacere per le verbene che invadono il prato, per la luce
del sole che brilla sull’acqua, per la lucidatura scintillante dell’uovo
dell’uccello, in esperienze della creatura vivente, si trova l’esatto opposto di
un singolo senso che funziona isolatamente, o di alcuni sensi che si
limitano a sommare insieme le loro qualità separate. Queste ultime sono
coordinate in un intero di vitalità sulla base delle loro relazioni comuni a
oggetti. Sono gli oggetti a vivere una vita appassionata. L’arte, come fa
anche Hudson quando ricrea l’esperienza dell’infanzia, selezionando e
concentrando non porta che il riferimento a un oggetto più in là, a
un’organizzazione e un ordine che si trovano al di là del mero senso, che
sono impliciti nell’esperienza del bambino. L’esperienza originaria nel suo
carattere continuo e cumulativo (proprietà che esistono in quanto le
“sensazioni” sono relative a oggetti ordinati in un mondo comune e non
mere eccitazioni transeunti) fornisce così un quadro di riferimento per
l’opera d’arte. Se fosse corretta la teoria per cui l’esperienza estetica
primaria è relativa a qualità sensibili isolate, per l’arte sarebbe impossibile
imporre ad esse connessione e ordine.
La situazione appena descritta dà la chiave per comprendere la relazione
tra elemento decorativo ed elemento espressivo in un’opera d’arte. Se si
godesse semplicemente di qualità in se stesse, l’elemento decorativo e
quello espressivo non avrebbero connessione l’uno con l’altro, provenendo
l’uno dall’immediata esperienza dei sensi e l’altro da relazioni e signi cati
introdotti dall’arte. Poiché il senso stesso si mescola con relazioni, la
differenza tra elemento decorativo ed elemento espressivo è solo di enfasi.
La joie de vivre99 – l’abbandono che non si preoccupa del domani, la
sontuosità dei tessuti, la gaiezza dei ori, la matura abbondanza dei frutti –
è espressa dalla qualità decorativa che scaturisce direttamente dalla piena
azione delle qualità sensoriali. Se la portata dell’espressione nelle arti deve
essere ampia, vi sono alcuni oggetti dotati di valore che andranno resi
decorativamente e altri che andranno resi senza decoratività. Un Pierrot
felice a un funerale contrasterebbe con gli altri. Quando un buffone di
corte viene inserito in un quadro che raf gura le esequie del suo signore, il
suo aspetto deve essere almeno acconcio a quanto esige il contesto. Un
eccesso di qualità decorativa in una particolare con gurazione ha di per sé
espressività – come quando Goya la porta all’estremo in alcuni ritratti della
gente di corte del suo tempo, no a rendere ridicola la loro pomposità.
Pretendere che tutta l’arte sia decorativa, escludendo l’espressione di ciò
che è cupo, è una limitazione del materiale dell’arte, così come lo è
pretendere in maniera puritana che tutta l’arte sia seria.
È il particolare rapporto dell’espressività della decorazione con il
problema della sostanza e della forma a dimostrare che sono sbagliate le
teorie che isolano le qualità dei sensi. Infatti, nella misura in cui un effetto
decorativo è ottenuto per isolamento, esso diventa vuoto abbellimento,
ornamento arti ciale – come le gure di zucchero su una torta – e
addobbo esteriore. Non è necessario che mi impegni a condannare
l’insincerità dell’uso di un ornamento per nascondere una debolezza e per
mascherare difetti strutturali. Occorre però osservare che se ci si attiene
alle teorie estetiche che separano sensi e signi cato, tale condanna risulta
priva di fondamento artistico. L’insincerità in arte ha ragioni estetiche, non
già morali; la si riscontra ogni volta che sostanza e forma si separano.
Questa affermazione non signi ca che tutti gli elementi strutturalmente
necessari debbano essere evidenti alla percezione, come hanno invece
ribadito alcuni “funzionalisti” estremi in architettura. Tale opinione
confonde una concezione abbastanza austera della morale con l’arte100.
Infatti, in architettura come in pittura e in poesia, i materiali grezzi sono ri-
ordinati interagendo con il sé per rendere piacevole l’esperienza.
Alcuni ori in una stanza ne accrescono l’espressività quando si
armonizzano con il mobilio e la destinazione senza aggiungere una nota di
insincerità – anche se coprono qualcosa di strutturalmente necessario.
In verità il fatto è che ciò che è forma in un contesto è materia in un altro
e viceversa. Un colore che è materia per quel che riguarda l’espressività di
alcune qualità e di alcuni valori, è forma quando viene usato per
trasmettere delicatezza, splendore, gaiezza. E dire ciò non signi ca che
alcuni colori abbiano una funzione e altri colori un’altra. Prediamo, ad
esempio, il dipinto di Velázquez dell’infanta Margarita Teresa, quello con
un vaso di ori alla sua destra101. La sua grazia e la sua delicatezza sono
insuperabili; la delicatezza pervade ogni aspetto e ogni parte – vestito,
gioielli, viso, capelli, mani, ori; tuttavia esattamente gli stessi colori
esprimono non solo la trama dei tessuti, ma, come sempre accade con i
quadri riusciti di Velázquez, l’intima dignità di un essere umano, una
dignità che anche in un personaggio regale è talmente intrinseca da non
essere un’insegna di regalità.
Non ne deriva, ovviamente, che tutte le opere d’arte, anche quelle di
qualità più elevata, debbano possedere quella completa compenetrazione
tra l’elemento decorativo e quello espressivo che si osserva spesso in
Tiziano, Velázquez e Renoir. Alcuni artisti possono essere bravi in un
senso o nell’altro, e tuttavia risultare grandi. La pittura francese, quasi dai
suoi inizi, è stata caratterizzata da un vivo senso del decorativo. Lancret,
Fragonard, Watteau possono essere delicati a volte no a giungere alla
fragilità, ma non vi si riscontra quasi mai la scissione tra espressività e
ornamento esteriore che contraddistingue quasi sempre Boucher.
Preferiscono soggetti per cui è necessario essere delicati ed estremamente
abili se li si vuol rendere pienamente espressivi. Rispetto a loro, nei suoi
dipinti Renoir ha più della sostanza della vita comune. Ma usa ogni mezzo
plastico – colore, luce, linea e piani, isolatamente o nelle loro interazioni –
per trasmettere un senso di gioia traboccante nei rapporti con cose
comuni. Stando a quanto si racconta, alcuni amici che conoscevano le
modelle che usava talvolta si lamentavano perché le rendeva molto più
belle di quanto fossero in realtà. Ma nessuno guardando i suoi dipinti
avverte in qualche modo che sono “sistemate” o rese graziose. Ad essere
espressa è l’esperienza che lo stesso Renoir ha fatto della gioia di percepire
il mondo. Matisse non ha rivali tra i coloristi decorativi di oggi. In un
primo momento egli può urtare l’osservatore per la giustapposizione di
colori in se stessi sgargianti e perché gli spazi sici vuoti sembrano
dapprima inestetici. Ma quando si è imparato a vedere, si scopre una
meravigliosa resa delle qualità tipicamente francese – chiarezza, clarté102.
Se non ha successo il tentativo di esprimerla – e ovviamente non sempre
riesce – allora l’elemento decorativo emerge di per sé e risulta fastidioso –
come quando c’è troppo zucchero.
Quindi, una facoltà importante per imparare a percepire un’opera d’arte
– una facoltà che molti critici non possiedono – è il saper cogliere le fasi di
oggetti che interessano in special modo un particolare artista. Una natura
morta sarebbe vuota come la maggior parte della pittura di genere se, sotto
la mano di un maestro, non divenisse espressiva attraverso la sua stessa
qualità decorativa propria di signi cativi fattori strutturali, come quando
Chardin rende volume e posizioni spaziali in modi che blandiscono
l’occhio; invece Cézanne ottiene una qualità monumentale con la frutta
proprio come, sul versante opposto, Guardi avvolge la monumentalità
degli edi ci con uno sfarzo decorativo.
Quando gli oggetti vengono traslati da un ambiente culturale a un altro,
la qualità decorativa assume un valore nuovo. Stuoie e scodelle
dell’Oriente hanno disegni il cui valore originario era di solito religioso o
politico – come gli emblemi tribali – espresso in gure decorative quasi
geometriche. L’osservatore occidentale non lo coglie più di quanto colga
l’espressività religiosa di dipinti cinesi di tradizione buddista o taoista. Gli
elementi plastici rimangono e talvolta danno un senso errato di
separazione tra aspetto decorativo e aspetto espressivo. Gli elementi locali
erano una sorta di strumento con cui assicurarsi l’accesso. Il valore
intrinseco resta dopo che gli elementi locali sono stati eliminati.
In quel che precede si è appena ricordata la bellezza, che viene
considerata convenzionalmente il tema peculiare dell’estetica.
Propriamente essa è un termine emotivo, sebbene tale da denotare
un’emozione speci ca. Di fronte a un paesaggio, a una poesia o a un
quadro che ci cattura immediatamente sul piano emotivo, siamo spinti a
mormorare o a esclamare “Che bello”. L’esclamazione è un giusto tributo
alla capacità dell’oggetto di suscitare un’ammirazione prossima
all’adorazione. La bellezza è tutt’altro che un termine analitico, e dunque
è tutt’altro che un’idea che può comparire in una teoria come strumento di
spiegazione o classi cazione. Purtroppo si è cristallizzata in un particolare
oggetto; il rapimento emotivo è stato sottoposto a ciò che la loso a
chiama ipostatizzazione, e ne è risultato il concetto di bellezza come
un’essenza dell’intuizione. Piegata ai ni della teoria essa diventa allora un
termine che ostacola. Quando in una teoria si usa il termine per designare
la qualità estetica complessiva di un’esperienza, è senz’altro meglio
occuparsi direttamente dell’esperienza stessa e mostrare da dove, e in che
modo, deriva questa qualità. In tal caso la bellezza è la risposta a ciò che
per la ri essione è il movimento completo di una materia che, attraverso le
sue relazioni interne, si integra in un unico intero qualitativo.
C’è un altro e più limitato uso del termine in cui la bellezza viene
contrapposta ad altre modalità della qualità estetica – il sublime, il comico,
il grottesco. A giudicare dai risultati, la distinzione non è felice. Tende a
coinvolgere chi se ne serve in una manipolazione dialettica di concetti e in
una suddivisione a comparti che ostacola, anziché agevolare, la percezione
diretta. Invece di favorire l’abbandono all’oggetto, le divisioni
preconfezionate inducono ad avvicinarsi a un oggetto estetico con
l’intenzione di operare confronti e, quindi, di ridurre l’esperienza a una
comprensione parziale dell’intero uni cato. Un esame dei casi in cui la
parola è comunemente usata, a prescindere dal suo senso immediatamente
emotivo sopra ricordato, rivela che un signi cato del termine è di
sottolineare la presenza di una qualità decorativa, della capacità di attrarre
immediatamente il senso. L’altro signi cato denota la presenza evidente di
relazioni di adeguatezza e reciproco adattamento tra i membri dell’intero,
si tratti di un oggetto, di una situazione o di un fatto.
Si dicono quindi belle dimostrazioni matematiche, operazioni
chirurgiche – per no un caso patologico può essere talmente tipico nel suo
mostrare relazioni caratteristiche da essere detto bello. Entrambi i
signi cati, quello del fascino per i sensi e quello della manifestazione di
una proporzione armonica tra parti, contraddistinguono la forma umana
nei suoi migliori esemplari. Gli sforzi compiuti dai teorici per ridurre un
signi cato all’altro dimostrano la futilità di accostarsi a questo argomento
attraverso concetti ssi. I fatti rendono evidente la fusione immediata di
forma e materia, e la relatività di ciò che si prende per forma o per sostanza
in un caso particolare al ne di sollecitare un’analisi ri essiva.
Da tutta questa discussione risulta che le teorie che separano materia e
forma, le teorie che si sforzano di trovare una collocazione speci ca per
ciascuna di esse nell’esperienza, malgrado si oppongano l’una all’altra sono
esempi dello stesso errore di fondo. Fanno perno sulla separazione della
creatura vivente dall’ambiente in cui essa vive. Una scuola, che in loso a
diventa la scuola “idealistica” quando se ne esplicitano le implicazioni,
effettua questa separazione a vantaggio dei signi cati e delle relazioni.
L’altra scuola, quella dell’empirismo sensista, effettua questa separazione
in nome del primato delle qualità sensoriali. Non si è creduto che
l’esperienza estetica potesse creare i suoi propri concetti per interpretare
l’arte. Questi sono stati sovrimposti in quanto tratti, già confezionati, da
sistemi di pensiero costruiti senza riferimento all’arte.
Il risultato non è mai stato così disastroso come in rapporto al problema
della materia e della forma. Sarebbe stato facile riempire le pagine di
questo capitolo con citazioni tratte da autori di estetica che sostengono un
dualismo originario tra materia e forma. Citerò solo un esempio:
«Chiamiamo bella la facciata di un tempio greco riferendoci in particolare
alla sua forma mirabile; invece quando predichiamo la bellezza di un
castello normanno ci riferiamo piuttosto a ciò che il castello signi ca –
all’effetto immaginario della sua era forza passata e del suo lento
soccombere agli inesorabili colpi del tempo»103.
Questo particolare autore riferisce direttamente “forma” al senso, e
materia o “sostanza” al signi cato associato. Sarebbe altrettanto semplice
invertire il procedimento. Le rovine sono pittoresche; ovvero, la sagoma e
il colore che hanno d’impatto, insieme all’edera rigogliosa, attirano i sensi
come una decorazione; invece, si potrebbe sostenere, l’effetto della facciata
greca è dovuto a una percezione di rapporti di proporzione ecc. che
richiedono considerazioni razionali piuttosto che sensoriali. In realtà, a
prima vista sembra più naturale associare la materia al senso e la forma al
pensiero che media anziché il contrario. Il fatto è che ogni distinzione in
entrambe le direzioni è egualmente arbitraria. Ciò che è forma in un
contesto è materia in un altro e viceversa. Inoltre, forma e materia
cambiano posto nella stessa opera d’arte appena muta il nostro interesse e
la nostra attenzione. Prendiamo le seguenti strofe di Lucy Gray:
Yet some maintain to this day
She is a living child;
That you may see sweet Lucy Gray
Upon the lonesome wild.

O’er rough and smooth she trips along


And never looks behind;
And sings a solitary song
That whistles in the wind.104

Chiunque abbia sentito esteticamente questa poesia fa forse – al tempo


stesso – una distinzione consapevole tra sensi e pensiero, tra materia e
forma? In tal caso non si legge o ascolta in maniera estetica, poiché il
valore estetico delle strofe risiede nella integrazione dei due elementi. Ciò
non toglie che dopo aver goduto della poesia assorti, si possa ri ettere e
analizzare. Si può esaminare come la scelta delle parole, il metro e la rima,
il movimento delle frasi, contribuiscano all’effetto estetico. Non solo, ma
un’analisi del genere, svolta avendo colto in maniera più de nita la forma,
può arricchire una successiva esperienza diretta. In un’altra occasione
questi stessi tratti presi in connessione con l’evoluzione di Wordsworth,
con lo sviluppo della sua esperienza e delle sue teorie, possono essere
considerati come materia piuttosto che come forma. Allora l’episodio, la
«storia della fanciulla fedele no alla morte», funge da forma in cui
Wordsworth ha dato corpo al materiale della sua esperienza personale.
Poiché la causa ultima dell’unione di forma e materia nell’esperienza è la
stretta relazione tra subire e agire nell’interazione di una creatura vivente
con il mondo della natura e dell’uomo, le teorie che separano materia e
forma hanno la loro fonte ultima nella trascuratezza di questa relazione. Di
conseguenza le qualità vengono trattate come impressioni prodotte da
cose, e le relazioni che forniscono signi cato vengono trattate o come
associazioni tra impressioni, o come qualcosa che viene introdotto dal
pensiero. Non è che non ci sono nemici dell’unione tra forma e materia.
Essi però si devono alle nostre stesse limitazioni; non sono intrinseci.
Provengono dall’apatia, dalla presunzione, dall’autocommiserazione, dalla
titubanza, dalla paura, dalla convenzione, dalla routine, dai fattori che
ostacolano, deviano e impediscono un’interazione vitale della creatura
vivente con l’ambiente della sua esistenza. Solo l’essere che di solito è
apatico trova una pura eccitazione transitoria in un’opera d’arte; solo chi è
depresso, incapace di affrontare le situazioni che lo circondano, si volge a
un’opera d’arte esclusivamente per trarre un bene cio terapeutico da
valori che non riesce a trovare nel suo mondo. Ma l’arte in sé è più di una
scossa di energia nella calma piatta di chi è giù di corda, o una pausa nelle
tempeste di chi è agitato.
Attraverso l’arte, signi cati di oggetti altrimenti muti, appena abbozzati,
impliciti e intangibili vengono chiariti e concentrati, e non dal pensiero
che lavora faticosamente su di essi, né perché si evada in un mondo di
meri sensi, ma creando una nuova esperienza. Alcune volte l’espansione e
l’intensi cazione è ottenuta grazie a
[...] qualche canto loso co della verità
che anima il nostro vivere quotidiano.105

altre volte si deve a un viaggio verso luoghi lontani, un’avventura verso


[…] nestre spalancate
sulle schiume di mari
pericolosi in magiche contrade
perdute.106
Ma qualunque sia il sentiero che segue l’opera d’arte, proprio perché è
un’esperienza piena e intensa essa tiene in vita la capacità di fare
esperienza del mondo comune nella sua pienezza. E lo fa riducendo i
materiali grezzi di quell’esperienza a una materia ordinata attraverso una
forma.
7 – La storia naturale della forma

Nel capitolo precedente si è presa in considerazione la forma come


qualcosa che organizza il materiale nella materia dell’arte. La de nizione
che si è data dice che cos’è la forma quando viene realizzata, quando è
presente in un’opera d’arte. Non dice come essa venga alla luce, in quali
condizioni si generi. La forma è stata de nita in termini di relazioni, e la
forma estetica in termini di completezza di relazioni entro un medium
prescelto. Ma “relazione” è una parola ambigua. Nel discorso loso co è
usata per designare una connessione stabilita nel pensiero. In tal caso
signi ca qualcosa di indiretto, di puramente intellettuale, addirittura di
logico. Nel suo uso idiomatico, però, “relazione” denota qualcosa di
diretto e di attivo, qualcosa di dinamico ed energico. Fissa l’attenzione sul
modo in cui le cose si rapportano l’una all’altra, sulle loro collisioni e sulle
loro congiunzioni, sul modo in cui si soddisfano o si frustrano, si
favoriscono o si ostacolano, si eccitano o si inibiscono l’una con l’altra.
Il modo di sussistere delle relazioni intellettuali sono le proposizioni; esse
stabiliscono la connessione reciproca di termini. In arte, come in natura e
nella vita, una relazione è una maniera di interagire. Le relazioni sono
spinte e tirate; sono contrazioni ed espansioni; determinano leggerezza e
peso, salite e discese, armonia e discordia. Le relazioni tra amici, tra marito
e moglie, tra genitore e glio, tra cittadino e nazione, come quelle tra
corpo e corpo nella gravitazione e nell’azione chimica, possono essere
simbolizzate mediante termini o concetti e, quindi, divenire contenuti di
asserzioni in proposizioni. Ma esistono come azioni e reazioni in cui le
cose si modi cano. L’arte esprime, non asserisce; è interessata alle esistenze
nelle loro qualità percepite, non ai concetti simbolizzati in termini. Una
relazione sociale è una faccenda di affetti e di doveri, di rapporto, di
generazione, di in uenza e reciproca trasformazione. È in questo senso
che va intesa la parola “relazione” quando viene usata per de nire la
forma in arte.
Dal punto di vista formale, un’opera d’arte si caratterizza per la relazione
dell’adattamento reciproco delle parti l’una con l’altra nella costituzione di
un intero. Ogni macchina, ogni utensile, entro certi limiti, ha un analogo
adattamento reciproco. In ciascun caso si soddisfa un ne. Ciò che è
semplicemente una cosa utile soddisfa, però, un ne particolare e limitato.
L’opera di un’arte estetica soddisfa molti ni, nessuno dei quali è ssato in
anticipo. Serve alla vita anziché prescrivere una maniera di vivere de nita
e limitata. Questa funzione sarebbe impossibile se le parti non fossero
legate assieme nell’oggetto estetico in modi peculiari. Com’è che ogni
parte è dinamica, ossia gioca una parte attiva, nel costituire un intero di
questo genere? Ecco la questione che abbiamo davanti.
Nel suo saggio Enjoyment of Poetry, per spiegare la natura di
un’esperienza estetica Max Eastman utilizza la felice immagine di un
uomo che attraversa il ume per entrare, ad esempio, nella città di New
York su un traghetto107. Alcune persone lo considerano semplicemente un
viaggio per raggiungere il posto dove vogliono andare – un mezzo da
sopportare. Quindi, ad esempio, leggono il giornale. Chi non ha nulla da
fare può mettersi a guardare questo o quell’edi cio riconoscendovi il
Metropolitan Tower, il Chrysler Building, l’Empire State Building e così
via. Chi è invece impaziente di arrivare può mettersi in cerca di punti di
riferimento per valutare l’avvicinamento alla sua destinazione. Un altro
ancora che stia compiendo per la prima volta il viaggio guarda con avidità,
ma è confuso dalla grande quantità di oggetti che si presentano davanti ai
suoi occhi. Egli non vede né un intero né le parti; è come un profano che
si muove dentro una fabbrica sconosciuta dove sono in funzione molte
macchine. Un’altra persona, interessata ai beni immobili, guardando
l’orizzonte può trovare nell’altezza degli edi ci elementi per determinare il
valore del terreno. Oppure può lasciar vagare il proprio pensiero sulla
congestione di un grande centro industriale e commerciale. Può
continuare pensando alla mancanza di piani cazione di una situazione
come dimostrazione del caos di una società organizzata sulla base del
con itto invece che della cooperazione. In ne, la scena formata dagli
edi ci può essere guardata come insieme di volumi colorati e illuminati in
relazione l’uno con l’altro, con il cielo e con il ume. In tal caso si sta
vedendo esteticamente, come potrebbe vedere un pittore.
Ora, la caratteristica del modo di vedere ricordato per ultimo,
contrariamente alle altre citate, è che ha a che fare con un intero
percettivo, costituito da parti correlate. Nessuna singola gura, aspetto o
qualità viene colta come mezzo per qualche altro risultato esterno
desiderato, né come segno di una conclusione da trarre. L’Empire State
Building può essere riconosciuto per se stesso. Ma quando viene visto in
maniera pittorica, è visto come una parte correlata di un intero organizzato
percettivamente. I suoi valori, le sue qualità, in quanto visti, sono
modi cati dalle altre parti della scena complessiva, e a loro volta queste
modi cano il valore di ogni altra parte dell’intero in quanto valore
percepito. In tal caso c’è una forma in senso artistico.
Matisse ha descritto il processo concreto del dipingere come segue: «se,
su una tela bianca, disperdo delle sensazioni di blu, di verde, di rosso, man
mano che aggiungo tratti di pennello, ciascuno dei precedenti perde
importanza. Devo dipingere un interno: ho davanti a me un armadio che
mi dà una sensazione di rosso molto vivo, e io metto un rosso che mi
soddisfa. Tra questo rosso e il bianco della tela si stabilisce un rapporto. Se
ci metto a lato un verde, se rendo il pavimento con un giallo, ci saranno
ancora tra questo verde o questo giallo e il bianco della tela dei rapporti
che mi daranno soddisfazione. Ma questi toni diversi si smorzano
reciprocamente. Bisogna che i diversi segni che adopero siano equilibrati
in modo tale da non distruggersi l’un l’altro. Per arrivare a questo, devo
mettere ordine nelle mie idee: la relazione tra i toni si stabilirà in modo da
sostenerli invece di spegnerli. Una nuova combinazione di colori
succederà alla prima e renderà la totalità della mia rappresentazione»108.
Ora, in linea di principio qui non c’è nulla di diverso da ciò che capita
quando si arreda una stanza, quando il padrone di casa fa sì che tavoli,
seggiole, tappeti, lampade, colore per pareti e disposizione dei quadri su di
esse siano scelti e organizzati in modo non da creare contrasti, ma da
formare un insieme. Altrimenti c’è confusione – cioè confusione nella
percezione. E allora la visione non riesce a giungere a completamento. È
frantumata in una successione di atti sconnessi, poiché si vede ora questo
ora quello, e nessuna mera successione è una serie. Quando le masse sono
equilibrate, i colori armonizzati, e le linee e i piani si incontrano e si
intersecano in maniera appropriata, la percezione sarà organizzata come
serie così da afferrare l’intero, e ciascun atto sequenziale incrementa e
rafforza ciò che l’ha preceduto. Anche a prima vista c’è il senso di un’unità
qualitativa. C’è forma.
In poche parole, la forma non si trova esclusivamente in oggetti
etichettati come opere d’arte. Ogni volta che la percezione non è stata
spuntata e alterata c’è una tendenza inevitabile a sistemare eventi e oggetti
secondo le esigenze di una percezione compiuta e uni cata. La forma è un
carattere di ogni esperienza che sia una esperienza. L’arte in senso
speci co presenta con maggior intenzione e pienezza le condizioni che
generano questa unità. La forma si può allora de nire come l’effetto di
forze che portano a totale compimento l’esperienza di un evento, di un
oggetto, di una scena e di una situazione. La connessione tra forma e
sostanza è quindi intrinseca, non imposta dall’esterno. Contraddistingue la
materia di un’esperienza portata al suo perfezionamento. Se la materia è di
tipo gioioso, risulta impossibile la forma che sarebbe adeguata a una
materia patetica. Se viene espressa in una poesia, allora il metro,
l’andamento del movimento, le parole scelte, l’intera struttura saranno
differenti, e in un quadro sarà analogamente differente l’intero schema dei
rapporti tra colori e volumi. In una commedia va bene che un uomo che
sta scaricando mattoni indossi abiti da sera; la forma è adeguata alla
materia. Lo stesso contenuto sarebbe disastroso per lo sviluppo di
un’esperienza diversa.
Il problema di individuare la natura della forma coincide quindi con
quello di individuare i mezzi con i quali si riesce a portare avanti
un’esperienza no al compimento. Se conosciamo questi mezzi sappiamo
cos’è la forma. È vero che ogni materia ha la propria forma, ovvero è
intrinsecamente individuale; tuttavia ci sono condizioni generali implicate
nello sviluppo ordinato di ciascun contenuto verso il relativo
completamento, e dunque solo quando tali condizioni sono soddisfatte ha
luogo una percezione uni cata.
Alcune delle condizioni della forma sono state ricordate incidentalmente.
Non ci può essere movimento verso una conclusione de nitiva nché non
c’è che ammasso progressivo di valori, che un effetto cumulativo. Questo
risultato non si può ottenere se non si conserva l’importo di ciò che è già
trascorso. Inoltre, per garantire la necessaria continuità, l’esperienza
accumulata dev’essere tale da creare attesa e anticipazione della soluzione.
L’accumulazione è al tempo stesso preparazione, come per ogni fase di
crescita di un embrione vivente. Si porta avanti solo ciò a cui si mira;
altrimenti ci si arresta e ci si interrompe. Per questa ragione il
perfezionamento è relativo; invece di veri carsi una volta per tutte in un
dato punto, è ricorsivo. Il termine ultimo è anticipato da pause ritmiche,
ed è ultimo solo esteriormente. Infatti appena ci distogliamo dalla lettura
di una poesia o di un romanzo, o dalla visione di un quadro, l’effetto
spinge in avanti verso nuove esperienze, anche se solo inconsapevolmente.
Caratteristiche come continuità, accumulazione, conservazione, tensione
e anticipazione sono pertanto condizioni formali della forma estetica. A
questo punto merita particolare attenzione il fattore della resistenza. Senza
tensione interna ci sarebbe un uire disordinato verso un obiettivo
immediato; non ci sarebbe nulla da poter chiamare sviluppo e
compimento. La presenza di una resistenza determina la posizione che
assume l’intelligenza nella produzione di un oggetto dell’arte bella. Le
dif coltà da superare per raggiungere l’adeguato adattamento reciproco
tra le parti rappresentano ciò che in un lavoro intellettuale sono i problemi.
Come accade in un’attività che ha a che fare con questioni
prevalentemente intellettuali, il materiale che costituisce un problema deve
essere convertito in un mezzo per la relativa soluzione. Non può essere
eluso. Ma nell’arte la resistenza incontrata entra nell’opera in un modo più
immediato che nella scienza. Come l’artista, anche il fruitore deve
percepire, affrontare e superare problemi; altrimenti la fruizione è ef mera
e sovraccarica di sentimento. Infatti, per percepire esteticamente deve
riaggiustare le sue esperienze passate per riuscire a farle entrare
integralmente in una nuova struttura. Non può mettere da parte le sue
esperienze passate, e neppure indugiare in esse come sono state in passato.
Una rigida predeterminazione di un prodotto nale da parte dell’artista o
dell’osservatore porta a generare un prodotto meccanico o accademico. In
tali casi, i processi con cui si raggiungono l’oggetto nale e la percezione
nale non sono mezzi che procedono verso la costruzione di un’esperienza
che si sta compiendo. Quest’ultima ha invece la natura di uno stampo,
sebbene la copia con cui esso è fatto esista mentalmente e non come una
cosa sica. Affermare che un artista non si cura del modo in cui la propria
opera diviene reale non sarebbe propriamente corretto. Ma è vero che
l’artista si cura del risultato nale come completamento di ciò che è venuto
prima e non per la sua conformità o mancanza di conformità a uno
schema anteriore precostituito. Preferisce af dare l’esito all’adeguatezza
dei mezzi da cui dipende e che esso ricapitola. Come un ricercatore
scienti co, lascia che a determinare il risultato sia il contenuto della sua
percezione assieme ai problemi che esso presenta, invece di ostinarsi ad
accordarlo con una conclusione decisa in anticipo.
La fase in cui si compie un’esperienza – che sia intermedia o nale –
presenta sempre qualcosa di nuovo. L’ammirazione comporta sempre un
elemento di stupore. Come ha detto uno scrittore del Rinascimento: «non
esiste bellezza eccelsa che non abbia una qualche singolarità nelle
proporzioni»109. La svolta inattesa, qualcosa che l’artista stesso non
prevede in maniera de nita, è una condizione della qualità positiva di
un’opera d’arte; la mette al riparo dalla meccanicità. Dà la spontaneità del
non-premeditato a ciò che altrimenti sarebbe il frutto di un calcolo. Il
pittore e il poeta, come il ricercatore scienti co, conoscono i piaceri della
scoperta. Chi sviluppa la propria opera come dimostrazione di una tesi
preconcetta può avere le gioie di un successo egoistico, ma non la gioia di
dare compimento a un’esperienza per se stessa. In quest’ultima si impara
dalla propria opera, andando avanti, a vedere e a sentire ciò che in origine
non rientrava nel proprio piano e nel proprio obiettivo.
La fase del perfezionamento ricorre in ogni parte di un’opera d’arte, e
nell’esperienza di una grande opera d’arte i punti su cui incide cambiano
con il succedersi delle osservazioni. Questo fatto sancisce l’insuperabile
barriera tra produzione e uso meccanici e creazione e percezione estetiche.
Nel primo caso non ci sono punti nali nché non si è raggiunto lo scopo
ultimo. L’opera tende allora a essere lavoro e la produzione fatica. Invece
non c’è un termine ultimo nella fruizione di un’opera d’arte. Essa procede
ed è, pertanto, sia strumentale che nale. Coloro che negano questo fatto
con nano il senso di “strumentale” al processo con cui si contribuisce a
una funzione pratica ristretta o addirittura di basso livello. Quando non si
etichetta il fatto, essi lo riconoscono. Santayana parla di un essere
«trasportati dalla contemplazione della natura ad una vivida ducia negli
ideali»110. Questa affermazione si addice all’arte oltre che alla natura, e
indica una funzione strumentale svolta dall’opera d’arte. Siamo portati ad
assumere un atteggiamento rinnovato nei confronti delle circostanze e
delle esigenze dell’esperienza consueta. L’opera, nel senso dell’operare, di
un oggetto d’arte non cessa quando si interrompe l’atto percettivo diretto.
Continua ad agire per vie indirette. In realtà, alcuni di quelli che si tirano
indietro quando si menziona il termine “strumentale” in connessione con
l’arte, spesso celebrano l’arte proprio perché essa suscita serenità duratura,
rinnova o rieduca il modo di vedere. Il vero problema è verbale. Tali
persone sono solite associare quel termine a strumentazioni per ni ristretti
– come un ombrello è strumentale a proteggere dalla pioggia o una
mietitrice a tagliare il grano.
Alcuni aspetti che a prima vista sembrano estranei in realtà
appartengono alla espressività. Infatti favoriscono lo sviluppo di
un’esperienza così da soddisfare nella maniera che è peculiare per la
pienezza che si raggiunge. Ciò è vero, ad esempio, quando è evidente
un’abilità insolita e una gestione attenta dei mezzi, laddove questi tratti si
integrino con l’opera concreta. L’abilità quindi viene ammirata non come
parte dell’equipaggiamento esterno dell’artista, ma come espressione
intensi cata che appartiene all’oggetto. Aiuta infatti a portare avanti un
processo continuo verso la sua giusta e determinata conclusione.
Appartiene al prodotto e non semplicemente al produttore, poiché è un
elemento costitutivo della forma; esattamente come la grazia di un levriero
caratterizza i movimenti che esegue anziché essere un tratto che l’animale
possiede come qualcosa che è al di fuori dei movimenti.
Anche la preziosità, come ha messo in rilievo Santayana111, è un
elemento interno all’espressione – una preziosità però che non ha nulla in
comune con l’esibizione volgare del potere d’acquisto. La rarità concorre a
intensi care l’espressione se è dovuta al ricorso insolito a un lavoro
paziente, oppure perché possiede il fascino di un’atmosfera lontana e ci
introduce in modi di vita di cui si sa pochissimo. Tali casi di preziosità sono
parte della forma poiché agiscono favorendo la costruzione di
un’esperienza unica, come fanno tutti i fattori del nuovo e dell’inatteso.
Anche ciò che è familiare può avere questo effetto. Oltre a Charles Lamb
altri sono particolarmente sensibili al fascino di ciò che è consueto. Ma essi
celebrano ciò che è familiare invece di riprodurne le forme in pupazzi di
cera. Il vecchio assume una nuova foggia in cui il senso del familiare è
salvato dall’oblìo che solitamente genera la consuetudine. Anche
l’eleganza è parte della forma in quanto contraddistingue tutte le opere in
cui un contenuto spinge verso le sue conclusioni con logica ineluttabile.
Alcuni dei tratti ricordati vengono riferiti più spesso alla tecnica anziché
alla forma. L’attribuzione è corretta in tutti i casi in cui le qualità in
questione si riferiscono all’artista e non alla sua opera. C’è una tecnica che
è d’ostacolo, come i ghirigori di un abile scrittore. Se fanno pensare al loro
autore, abilità e preziosismo ci distraggono dall’opera stessa. I tratti
dell’opera che richiamano l’abilità del suo produttore sono quindi
nell’opera e non dell’opera. E il motivo per cui non sono dell’opera è
proprio l’aspetto negativo del punto che sto sottolineando. Non ci portano
comunque a istituire un’esperienza che si svolge in maniera unitaria; non
agiscono come forze intrinseche per condurre al perfezionamento
l’oggetto di cui li si ritiene parte. Tali tratti sono come ogni altro elemento
super uo o accessorio. La tecnica non è né identica alla forma né però
interamente indipendente da essa. È, propriamente, l’abilità con cui sono
gestiti gli elementi che costituiscono la forma. Altrimenti è esibizione o
virtuosismo separato dall’espressione.
Signi cativi passi in avanti nella tecnica si veri cano, quindi, in
connessione con i tentativi di risolvere problemi che non sono tecnici ma
derivano dal bisogno di nuove modalità d’esperienza. Questa affermazione
è vera sia per le arti estetiche che per le arti tecnologiche. Ci sono progressi
nella tecnica che concernono solamente il miglioramento di un veicolo di
vecchio stile. Ma non sono signi cativi a confronto del cambiamento nella
tecnica dovuto al passaggio dal carro all’automobile che si è veri cato
quando le necessità sociali richiesero un trasporto rapido controllato dai
singoli che non era possibile neppure con la locomotiva. Se si considerano
gli sviluppi delle principali tecniche pittoriche durante e dopo il
Rinascimento, si nota che furono connessi a tentativi di risolvere problemi
derivati dall’esperienza espressa nella pittura e non dalla destrezza nello
stesso dipingere.
Anzitutto vi fu il problema di passare dalla raf gurazione dei contorni in
mosaici senza profondità alla gurazione “tridimensionale”. Finché
l’esperienza non si ampliò al punto da richiedere l’espressione di qualcosa
di più di rese decorative di temi religiosi determinati da una volontà
ecclesiastica, non c’era nulla che motivasse questo cambiamento. Nel suo
proprio contesto, la convenzione della pittura “piatta” va bene come ogni
altra convenzione, così come il modo cinese di rendere la prospettiva è in
un certo modo perfetto quanto lo è, in un altro modo, quello della pittura
occidentale. La forza che causò il cambiamento nella tecnica fu lo sviluppo
del naturalismo nell’esperienza al di fuori dell’arte. Qualcosa di analogo si
veri ca con il successivo grande cambiamento, ottenuto con la padronanza
dei mezzi per rendere la prospettiva aerea e la luce. Il terzo grande
cambiamento tecnico fu l’uso del colore da parte dei veneziani per
realizzare ciò che altre scuole, soprattutto quella orentina, avevano
ottenuto con la plasticità della linea – un cambiamento che segnala una
diffusa secolarizzazione dei valori vista la sua esigenza di glori care ciò che
è sontuoso e soave nell’esperienza.
Non mi interessa comunque la storia dell’arte, ma indicare come
funziona la tecnica in rapporto alla forma espressiva. La dipendenza della
tecnica espressiva dal bisogno di esprimere alcune modalità d’esperienza
peculiari è testimoniata dalle tre fasi che di solito accompagnano la
comparsa di una nuova tecnica. Dapprima c’è una sperimentazione da
parte di alcuni artisti, in cui si esagera notevolmente il fattore a cui si
applica la nuova tecnica. Ciò è capitato con l’uso della linea per giungere a
riconoscere il valore del tutto tondo, come con Mantegna; e capita con gli
impressionisti tipici per quel che concerne gli effetti della luce. Da parte
del pubblico c’è una generale condanna dell’intento e del contenuto di
queste avventure artistiche. Nella fase successiva i frutti del nuovo
procedimento vengono assimilati; vengono naturalizzati e causano
determinate trasformazioni della vecchia tradizione. Questo periodo ssa i
nuovi obiettivi e quindi stabilisce che la nuova tecnica ha una validità
“classica”, per cui essa viene accompagnata da un prestigio che conserva
in periodi successivi. In terzo luogo, c’è un periodo in cui aspetti
particolari della tecnica dei maestri del periodo di equilibrio vengono
ripresi per imitazione e resi ni a se stessi. Così, più tardi nel XVII secolo il
modo di trattare il movimento in maniera drammatica caratteristico di
Tiziano e ancor più di Tintoretto, principalmente per mezzo di luce e
ombra, viene esagerato no a diventare teatrale. In Guercino, Caravaggio,
Fetti112, Carracci, Ribera il tentativo di raf gurare drammaticamente il
movimento sfocia in rappresentazioni artefatte e provoca il suo stesso
fallimento. In questa terza fase (che viene dopo che un’opera creativa ha
ottenuto generale riconoscimento) si mutua la tecnica senza più relazione
all’esperienza incalzante che dapprima l’ha sollecitata. Ne derivano
accademismo ed eclettismo.
In precedenza ho affermato che la destrezza di per sé non è arte. Ora
aggiungo un punto spesso trascurato, ossia che in arte la tecnica ha valore
solo in relazione alla forma. Non è stata una mancanza di bravura a
determinare la forma peculiare della prima scultura gotica, né lo speciale
tipo di prospettiva dei dipinti cinesi. Con le tecniche che hanno usato gli
artisti hanno detto quel che avevano da dire meglio di quanto avrebbero
potuto fare con altre tecniche. Ciò che per noi è un’affascinante naïveté113
per loro era il metodo semplice e diretto di esprimere un contenuto sentito.
Per questa ragione in nessun’arte estetica, come non c’è la continuità della
ripetizione, nemmeno c’è, di necessità, progresso. La scultura greca non
sarà mai eguagliata nei suoi propri termini. Thorwaldsen non è un Fidia.
Quel che riuscirono a fare i pittori veneziani non avrà mai rivali. Alla
riproduzione moderna dell’architettura di una cattedrale gotica mancherà
sempre la qualità dell’originale. Ciò che accade nel movimento dell’arte è
che emergono nuovi materiali d’esperienza che richiedono espressione, e
pertanto comportano nella loro espressione nuove forme e nuove tecniche.
Manet andò indietro nel tempo per ottenere la propria pennellata, ma
questo ritorno non volle dire copiare meramente una vecchia tecnica.
L’esempio migliore del fatto che la tecnica ha valore in relazione alla
forma è quello di Shakespeare. Una volta consolidata la sua reputazione
universale come letterato, alcuni critici pensarono che fosse necessario
presumere che quella grandezza riguardasse tutta la sua opera.
Elaborarono teorie della forma letteraria basate su tecniche speciali. E
rimasero stupiti quando uno studio più accurato mostrò che molte cose
spesso lodate erano derivate dalle convenzioni del teatro elisabettiano. Per
coloro che avevano identi cato la tecnica con la forma l’effetto fu che
sembrò diminuita la grandezza di Shakespeare. Ma la sua forma
sostanziale resta esattamente quella di sempre e non è toccata da queste
variazioni occasionali. La considerazione di alcuni aspetti della sua tecnica
non dovrebbe in realtà che far concentrare l’attenzione su ciò che è
signi cativo nella sua arte.
È dif cile riuscire esagerare il fatto che la tecnica abbia valore in
relazione alla forma. Essa varia con tutti i tipi di circostanze che hanno
anche una piccola relazione con l’opera d’arte – magari una nuova
scoperta chimica che riguarda i colori. I cambiamenti importanti sono
quelli che toccano la forma stessa nel suo senso estetico. Spesso si trascura
il fatto che la tecnica ha valore in relazione agli strumenti. Ciò diventa
importante quando il nuovo strumento è indice di un cambiamento nella
cultura – ossia nel materiale da esprimere. Le ceramiche primitive sono
ampiamente condizionate dal tornio del vasaio. Stuoie e coperte devono
gran parte del loro disegno geometrico alla natura dello strumento usato
per tessere. Tali cose in se stesse sono come la costituzione sica di un
artista – così Cézanne desiderava avere i muscoli di Manet. Sono cose che
assumono più di un interesse documentario solo quando stanno in
relazione con un cambiamento nella cultura e nell’esperienza. La tecnica
di coloro che dipinsero molto tempo fa sulle pareti delle caverne e che
intagliarono le ossa era utile allo scopo che offrivano o imponevano le
condizioni. Gli artisti hanno sempre usato e sempre useranno tutti i tipi di
tecnica.
Dall’altro lato, tra i critici non specialisti c’è la tendenza a circoscrivere la
sperimentazione agli scienziati che operano nei laboratori. Invece uno dei
tratti essenziali dell’artista è di essere uno sperimentatore nato. Senza
questo tratto diventa un accademico, scarso o bravo. L’artista è costretto a
essere uno sperimentatore in quanto deve esprimere un’esperienza
intensamente individualizzata attraverso mezzi e materiali che
appartengono al mondo comune e pubblico. Questo problema non può
essere risolto una volta per tutte. Lo si ritrova sempre quando si dà inizio a
una nuova opera. Altrimenti un artista si ripete e diventa morto dal punto
di vista estetico. Solo operando sperimentalmente l’artista apre nuovi
campi d’esperienza e schiude nuovi aspetti e nuove qualità in scene e
oggetti familiari.
Se invece di dire “sperimentalmente” si dicesse “avventurosamente” si
otterrebbe probabilmente generale consenso – tanto grande è il potere
delle parole. Essendo amante dell’esperienza incontaminata, l’artista evita
oggetti già saturi e quindi sta sempre sulla cresta dello sviluppo delle cose.
Per sua natura non trova soddisfazione in ciò che è già acquisito allo stesso
modo di chi compie esplorazioni geogra che o indagini scienti che.
Quando venne prodotto, il “classico” portava i segni distintivi
dell’avventura. Questo fatto viene trascurato dai classicisti quando
polemizzano con i romantici, che cominciano a promuovere nuovi valori
spesso senza possedere i mezzi per crearli. Ciò che adesso è classico lo è
perché l’avventura è riuscita, non perché l’avventura non c’è stata. Chi
percepisce e fruisce esteticamente, quando legge un qualsiasi classico ha
sempre quel senso d’avventura che Keats aveva leggendo l’Omero di
Chapman114.
In concreto si può discutere la forma solo facendo riferimento a opere
d’arte realmente presenti. Le opere non le si può presentare in un libro
dedicato alla teoria dell’estetica. Tuttavia non si può rimanere a lungo
assorbiti in un’opera d’arte in maniera tanto completa da escludere
l’analisi. C’è un’alternanza ritmica di abbandono e ri essione.
Interrompiamo il nostro abbandonarci all’oggetto per chiedere dove ci sta
portando e come lo sta facendo. È allora che cominciamo ad occuparci in
una certa misura delle condizioni formali di una forma concreta. Di fatto,
abbiamo già ricordato queste condizioni della forma parlando di
accumulazione, tensione, conservazione, anticipazione e compimento
quali caratteristiche formali di un’esperienza estetica. Chi si allontana
dall’opera d’arte abbastanza per sottrarsi all’effetto ipnotico della sua
impressione qualitativa complessiva non userà queste parole né sarà
esplicitamente cosciente delle cose per cui esse stanno. Ma i tratti che
individua come quelli che hanno dato all’opera potere su di lui si possono
ricondurre alle condizioni della forma che si sono stabilite.
Per prima viene la travolgente impressione complessiva, magari perché si
è investiti dall’improvviso splendore del paesaggio, o dall’effetto che ci fa
entrare in una cattedrale quando la luce incerta, l’incenso, il vetro istoriato
e le dimensioni maestose si fondono in un intero indistinguibile. È corretto
dire che un dipinto ci colpisce. C’è un impatto che precede ogni preciso
riconoscimento di ciò a cui esso è relativo. Come ha detto il pittore
Delacroix parlando di questa prima fase pre-analitica, «prima di
riconoscere ciò che rappresenta il quadro, siete investiti dalla sua magica
armonia»115. Per molte persone questo effetto è particolarmente evidente
in musica. L’impressione esercitata direttamente da un insieme armonioso
in qualsiasi arte viene spesso descritta come la qualità musicale di tale arte.
Tuttavia, non solo è impossibile prolungare inde nitamente questa fase
dell’esperienza estetica, ma non è nemmeno auspicabile farlo. C’è solo una
garanzia che questo essere direttamente investiti sia di livello elevato, ed è
il grado di cultura di chi ne fa esperienza. In se stesso può essere, e spesso
è, il risultato di mezzi a buon mercato applicati a un materiale seducente.
E il solo modo per elevarsi da qui a un livello in cui ci sia una garanzia
intrinseca di validità è che intervengano momenti di discriminazione. La
distinzione del prodotto è intimamente connessa con il processo del
discernere.
Sebbene tanto l’impatto iniziale quanto il successivo discernimento
critico pretendano egualmente di giungere a completo sviluppo, non
bisogna dimenticare che l’impressione diretta e non ragionata viene per
prima. In tali occasioni c’è qualcosa della qualità del vento, che sof a dove
lo si sente. Talvolta viene e talvolta no, anche in presenza del medesimo
oggetto. Non può essere forzato, e quando non arriva non è saggio cercare
di recuperare, agendo direttamente, la prima estasi pura. L’inizio della
comprensione estetica sta nel conservare e coltivare queste esperienze
personali. Infatti, alla ne, il nutrirsi di esse si trasformerà in
discernimento. L’esito del discernimento sarà spesso di convincerci che la
particolare cosa in questione non aveva abbastanza valore per suscitare
l’impatto estatico; che in realtà quest’ultimo è stato causato da fattori
fortuiti rispetto all’oggetto in sé. Ma questo esito è anche un preciso
contributo all’educazione estetica ed eleva la successiva impressione diretta
a un livello più alto. Per favorire il discernimento, come anche la possibilità
che l’oggetto ci avvinca direttamente, il solo mezzo sicuro è ri utare di
simulare e di ngere quando non subentra quella che, quando era intensa,
agli antichi sembrava una sorta di divina follia.
La fase della ri essione nell’alternanza ritmica della fruizione estetica è
critica in embrione, e la critica più elaborata e consapevole non ne è che
l’ampliamento ragionato. Altrove svilupperò questo tema particolare116.
Qui devo però almeno toccare un punto che rientra in tale argomento
generale. Diverse questioni ingarbugliate, molteplici ambiguità e
controversie storiche sono connesse al problema della soggettività e
dell’oggettività. Eppure se è corretta la posizione che si è presa nei riguardi
di forma e sostanza, c’è almeno un senso importante in cui la forma deve
essere oggettiva quanto il materiale che essa quali ca. Se la forma emerge
quando materiali grezzi sono sistemati selettivamente con l’intento di
rendere uni cata un’esperienza nel movimento verso il suo intrinseco
compimento, allora di certo sono condizioni oggettive a controllare le forze
mentre si produce un’opera d’arte. Un’opera dell’arte bella – una statua,
un edi cio, un dramma, una poesia, un romanzo – quando è fatta è parte
del mondo oggettivo tanto quanto una locomotiva o una dinamo. E come
per queste ultime, la sua esistenza è condizionata causalmente dalla
coordinazione di materiali ed energie del mondo esterno. Non voglio dire
che questo sia tutto per l’opera d’arte; per no il prodotto dell’arte
industriale è stato fatto per servire a uno scopo ed è effettivamente,
anziché potenzialmente, una locomotiva in quanto opera in condizioni in
cui produce conseguenze al di là del suo essere meramente sico; in
quanto, cioè, trasporta esseri umani e merci. Voglio invece dire che non ci
può essere esperienza estetica separatamente da un oggetto e che, per
essere il contenuto di una fruizione estetica, un oggetto deve soddisfare
quelle condizioni oggettive senza le quali sono impossibili accumulo,
conservazione, rafforzamento, passaggio a qualcosa di più completo. Le
condizioni generali della forma estetica di cui ho parlato alcuni paragra
fa, sono oggettive nel senso che appartengono al mondo dei materiali sici
e delle energie siche: sebbene non siano suf cienti per un’esperienza
estetica, questi ultimi sono un sine qua non117 della sua esistenza. E
l’immediata prova artistica della verità di questa affermazione è l’interesse
che assilla ogni artista per l’osservazione del mondo che lo circonda e la
cura che egli consacra ai media sici con cui lavora.
Quali sono, dunque, tali condizioni formali della forma artistica che sono
radicate profondamente nel mondo stesso? Le implicazioni della questione
non coinvolgono alcun materiale che non sia già stato considerato.
L’interazione tra ambiente e organismo è la fonte, diretta o indiretta, di
ogni esperienza, e dall’ambiente provengono quei controlli, resistenze,
sostegni, equilibri che, quando si incontrano con le energie dell’organismo
in modi adeguati, costituiscono una forma. La prima caratteristica del
mondo circostante che rende possibile l’esistenza di una forma artistica è il
ritmo. C’è ritmo in natura prima che esistano poesia, pittura, architettura e
musica. Se così non fosse, il ritmo in quanto proprietà essenziale della
forma sarebbe soltanto sovrimposto al materiale, e non un’operazione
mediante la quale il materiale raggiunge il proprio culmine nell’esperienza.
I ritmi più ampi della natura sono talmente legati alle condizioni della
più elementare sussistenza umana da non poter essere sfuggiti
all’osservazione dell’uomo appena questi è divenuto consapevole delle sue
occupazioni e delle condizioni che le rendevano attuabili. Tramonto e
alba, giorno e notte, pioggia e sole, nella loro alternanza sono fattori che
riguardano direttamente gli esseri umani.
Il corso ciclico delle stagioni incide quasi su ogni interesse umano.
Quando l’uomo divenne agricoltore il procedere ritmico delle stagioni
venne di necessità identi cato con il destino della comunità. Il ciclo di
regolarità irregolari nella forma e nel comportamento della luna sembrò
gravido di conseguenze misteriose per il bene di uomini, animali e raccolti,
e inestricabilmente legato al mistero della generazione. Con questi ritmi
più ampi erano connessi quelli dei cicli sempre ricorrenti dello sviluppo
dal seme no a una maturità che riproduceva il seme; la riproduzione degli
animali, la relazione tra maschio e femmina, il cerchio senza ne di nascite
e morti.
La stessa vita dell’uomo è condizionata dal ritmo di veglia e sonno, fame
e sazietà, lavoro e riposo. I ritmi lunghi delle occupazioni agricole vennero
frammentati in cicli più brevi e più direttamente percepibili con lo
sviluppo dei mestieri. Nel lavoro di legno, metallo, bre, argilla, diviene
obiettivamente chiara la trasformazione del materiale grezzo in prodotto
nito utilizzando mezzi controllati con la tecnica. Quando si lavora la
materia ci sono i colpi ricorrenti del battere, togliere, modellare, tagliare,
pestare, che scandiscono l’opera in misure. Ma più importanti erano quei
momenti in cui ci si preparava per la guerra e la semina, quei momenti in
cui si celebrava la vittoria e il raccolto, quando i movimenti e il discorso
assumevano una forma cadenzata.
Così, prima o dopo, la sua partecipazione ai ritmi della natura
(un’unione molto più stretta di quanto sia ogni osservazione di essi ai ni
della conoscenza) ha indotto l’uomo a imporre ritmo ai mutamenti in cui i
ritmi non apparivano. La canna suddivisa in parti, la corda tirata e la pelle
tesa fecero avvertire le misure delle azioni mediante canto e danza.
Esperienze di guerra, di caccia, di semina e mietitura, di morte e
resurrezione della vegetazione, delle stelle che ruotano sopra i pastori che
le osservano, del ritorno costante dell’incostante luna, furono soggette a
una riproduzione in pantomime e fecero nascere il senso della vita come
dramma. I movimenti misteriosi di serpente, alce, cinghiale, vennero
ripartiti in ritmi che facevano cogliere l’essenza stessa delle vite di questi
animali quando erano messi in scena nella danza, scolpiti sulla pietra,
incisi nell’argento o dipinti sulle pareti delle caverne. Le arti formative che
plasmavano le cose d’uso furono congiunte ai ritmi della voce e ai
movimenti autonomi del corpo, e grazie a questa unione le arti tecniche
acquisirono la qualità dell’arte bella. Quindi i ritmi appresi della natura
vennero usati per introdurre un ordine evidente in qualche fase delle
osservazioni e delle immagini confuse degli uomini. L’uomo non conformò
più per forza le sue attività ai mutamenti ritmici dei cicli naturali, ma usò
quelli che gli erano imposti di necessità per celebrare le proprie relazioni
con la natura come se essa gli avesse dato la libertà di disporre del suo
regno.
La riproduzione dell’ordine dei mutamenti naturali e la percezione di
tale ordine furono dapprima intrecciati tra loro al punto che non esisteva
alcuna distinzione tra arte e scienza. Entrambe erano chiamate techne. La
loso a era scritta in versi e, in virtù dello sforzo dell’immaginazione, il
mondo divenne un cosmo. La prima loso a greca raccontava la storia
della natura, e poiché una storia ha inizio, sviluppo e culmine, la sostanza
della storia esigeva una forma estetica. Dentro la storia ritmi minori
divennero parti del grande ritmo di generazione e distruzione, venire
all’essere e cessare di essere, rilassamento e contrazione, aggregazione e
dispersione, consolidamento e dissoluzione. L’idea di legge emerse con
l’idea di armonia, e nozioni che ora sono banali luoghi comuni emersero
come parti dell’arte della natura costruita nell’arte del linguaggio.
L’esistenza di una gran quantità di casi che illustrano il ritmo della natura
è un fatto noto. Si citano spesso il usso e ri usso della marea, il ciclo delle
fasi lunari, le pulsazioni nella circolazione del sangue, l’anabolismo e il
catabolismo di tutti i processi della vita. Quel che non si percepisce in
maniera altrettanto diffusa è che ogni uniformità e regolarità nei
cambiamenti della natura è un ritmo. “Legge naturale” e “ritmo naturale”
sono termini sinonimi. Nella misura in cui la natura per noi è più di un
usso privo di ordine nei suoi cambiamenti mutevoli, nella misura in cui è
più di un vortice caotico, essa è contrassegnata da ritmi. Le formule che
esprimono questi ritmi costituiscono i canoni della scienza. Astronomia,
geologia, dinamica e cinematica registrano vari ritmi che sono gli ordini di
generi differenti di cambiamento. Gli stessi concetti di molecola, atomo ed
elettrone derivano dal bisogno di esprimere in formula i ritmi più piccoli e
minuti che si sono scoperti. Le matematiche sono le asserzioni più generali
concepibili corrispondenti ai ritmi più universali che si possono cogliere.
La successione uno, due, tre e quattro nel contare, la costruzione di linee e
angoli in disegni geometrici, i voli più elevati dell’analisi vettoriale sono
mezzi per registrare o imporre ritmo.
La storia del progresso della scienza naturale è la registrazione di
operazioni che raf nano e rendono più ampio il nostro afferramento dei
ritmi grossolani e limitati che dapprima occuparono l’attenzione dell’uomo
primitivo. Lo sviluppo ha raggiunto un punto in cui si sono divise le strade
della scienti cità e dell’artisticità. Oggi i ritmi esaltati dalla scienza sica
sono evidenti solo per il pensiero, non per la percezione sulla base di
un’esperienza immediata. Sono presentati in simboli che non signi cano
nulla nella percezione sensoriale. Rendono manifesti ritmi naturali solo per
chi si è sottoposto a una lunga e severa disciplina. Eppure un interesse
comune per il ritmo è ancora il vincolo di parentela tra scienza e arte.
Grazie a questa parentela è possibile che venga un giorno in cui un
contenuto che ora esiste solo per una ri essione dif coltosa, che richiama
l’attenzione solo di chi è allenato a interpretare ciò che per il senso è solo
un gerogli co, diventi sostanza poetica, e quindi sia la materia di una
percezione che piace.
Essendo uno schema universale dell’esistenza sotteso a ogni realizzazione
dell’ordine nel cambiamento, il ritmo pervade tutte le arti letterarie,
musicali, plastiche e architettoniche, come pure la danza. Dal momento
che l’uomo ha successo solo quando adatta il suo comportamento
all’ordine della natura, le sue conquiste e le sue vittorie, in quanto vincono
resistenze e con itti, diventano la matrice di ogni contenuto estetico; in un
certo senso costituiscono la struttura comune dell’arte, le condizioni ultime
della forma. I loro progressivi ordini di successione diventano, sebbene
non esplicitamente, i mezzi con cui l’uomo commemora e celebra i
momenti più intensi e pieni della sua esperienza. Al di sotto del ritmo di
ogni arte e di ogni opera d’arte si trova, come sostrato nelle profondità del
subconscio, la struttura basilare delle relazioni della creatura vivente con il
suo ambiente.
Non è allora solo per la sistole e diastole nella circolazione del sangue, o
per l’alternanza di inspirazione ed espirazione quando si respira, per
l’oscillare delle gambe e delle braccia durante la locomozione, né per una
qualche combinazione di casi speci ci di ritmo naturale, che l’uomo prova
piacere per raf gurazioni e rappresentazioni ritmiche. Sono molto
importanti queste considerazioni. Ma alla n ne il piacere deriva dal fatto
che tali cose sono esempi delle relazioni che determinano il corso naturale
e compiuto della vita. Supporre che l’interesse per il ritmo che domina le
arti belle si possa spiegare solo sulla base di processi ritmici interni al corpo
vivente non è che un altro modo di separare l’organismo dall’ambiente.
L’uomo ha prestato attenzione all’ambiente circostante molto prima di
mettersi a osservare o a pensare ai suoi propri processi organici, e
certamente molto prima di sviluppare un preciso interesse per i suoi propri
stati mentali.
Naturalismo è una parola che ha molti signi cati sia in loso a che in
arte. Come molti ismi – classicismo e romanticismo, idealismo e realismo
in arte – è diventato un termine emotivo, un grido di battaglia di alcuni
partigiani. Per quel che riguarda l’arte, ancor più che la loso a, le
de nizioni formali ci lasciano freddi; ora che vi arriviamo gli elementi che
effettivamente facevano rimescolare il sangue e suscitavano ammirazione
sono svaniti. In poesia la “natura” è spesso associata a un interesse che è
distinto da, se non opposto a, una materia che deriva dalla vita degli
uomini in società. Come in Wordsworth, la natura è quindi ciò con cui si
cerca di entrare in comunione anelando a consolazione e pace
[…] quando la vuota
Inquietudine e la stessa febbre del mondo
Hanno sopraffatto i palpiti del mio cuore.118

In pittura “naturalismo” suggerisce un volgersi agli aspetti più


accidentali e, per così dire, informali, agli aspetti più immediatamente
evidenti di terra, cielo e acqua, a differenza di quei quadri che prestano
attenzione a relazioni strutturali. Ma il naturalismo, secondo il senso più
ampio e profondo di natura, è una necessità di tutta la grande arte, anche
della pittura più religiosamente convenzionale e di quella astratta, e del
teatro che tratta dell’agire dell’uomo in un ambiente urbano. Una
distinzione si può fare solo per quel che concerne l’aspetto e la fase
particolare della natura in cui si svolgono i ritmi che contraddistinguono
tutte le relazioni tra la vita e il suo sfondo.
Condizioni naturali e oggettive si devono usare in ogni caso per portare a
completamento l’espressione dei valori che appartengono a un’esperienza
integrale nella sua qualità immediata. Ma in arte naturalismo signi ca
qualcosa di più della necessità a cui sono soggette tutte le arti di utilizzare
media naturali e sensoriali. Signi ca che tutto quello che si può esprimere
è un qualche aspetto della relazione tra l’uomo e il suo ambiente, e che
questo contenuto raggiunge la sua più perfetta unione con una forma
quando ci si vincola e ci si af da completamente ai ritmi di base che
caratterizzano la loro interazione. Ci si richiama spesso al “naturalismo”
per indicare l’indifferenza per tutti i valori che non si possono ridurre ad
elementi sici e animali. Ma concepire la natura in tal modo vuol dire
isolare alcune condizioni ambientali come se fossero l’intera natura ed
escludere l’uomo dalla concatenazione delle cose. La stessa esistenza
dell’arte in quanto fenomeno oggettivo che impiega materiali e media
naturali è prova del fatto che natura signi ca niente meno che l’intero
complesso dei risultati dell’interazione tra l’uomo con le sue memorie e le
sue speranze, con il suo intelletto e il suo desiderio, e quel mondo in cui
una loso a unilaterale relega la “natura”. La vera antitesi della natura
non è l’arte ma sono la fantasticheria arbitraria e la convenzione
stereotipata.
Malgrado ciò ci sono convenzioni che sono vitali e naturali. In certi
tempi e in certi luoghi le arti sono controllate da convenzioni rituali e
cerimoniali. Eppure non diventano per questo necessariamente aride e
inestetiche, poiché le convenzioni stesse vivono all’interno della vita della
comunità. Anche quando adottano forme ieratiche e liturgiche prestabilite
possono esprimere ciò che è attivo nell’esperienza del gruppo. Quando
Hegel affermava che il primo stadio in arte è sempre “simbolico”119
alludeva, nei termini della sua loso a, al fatto che alcune arti una volta
erano libere di esprimere solo quell’aspetto dell’esperienza che era
autorizzato dai sacerdoti o dal sovrano. Ma era pur sempre un aspetto
dell’esperienza a venir espresso. Inoltre, se generalizzata, questa
caratterizzazione è sbagliata. Infatti in tutti i tempi e in tutti i luoghi ci
sono state arti popolari nell’ambito del canto, della danza, della narrazione
di storie e della pittura al di fuori delle arti uf cialmente autorizzate e
governate. Le arti secolari erano, comunque, più direttamente
naturalistiche e ogni volta che il secolarismo ha pervaso l’esperienza le loro
qualità hanno reindirizzato le arti uf ciali in un senso naturalistico.
Quando ciò non si è veri cato, quel che un tempo era vitale è degenerato.
Lo testimonia, ad esempio, il barocco degenerato che si trova nelle piazze
pubbliche dell’Europa sudoccidentale. Esso è futile al punto di diventare
frivolo, con i suoi cupidi mascherati da cherubini (per fare un tipico
esempio).
Un vero naturalismo è differente sia dall’imitazione di cose e caratteri, sia
dall’imitazione dei metodi di artisti a cui il tempo ha conferito un’autorità
apparente – apparente perché non deriva dall’esperienza delle cose che
essi esperirono ed espressero. È un termine di contrasto e indica una
sensibilità più profonda e più ampia per qualche aspetto dei ritmi
dell’esistenza rispetto a quella che c’era in precedenza. È un termine di
contrasto perché signi ca che per qualche particolare una percezione
personale si è sostituita a una convenzione. Torniamo a ciò che si è detto
prima sull’espressione della beatitudine in alcuni dipinti. Assumere che
alcune linee de nite stanno per una data emozione è una convenzione che
non deriva dall’osservazione; ostacola un’acuta sensibilità nel reagire. È
sopraggiunto un vero naturalismo quando è stata percepita la non- ssità
delle sembianze umane sotto l’in uenza delle emozioni; quando si
corrispose alla loro stessa varietà di ritmo. Non intendo circoscrivere le
convenzioni restrittive all’in uenza della chiesa. Maggiori ostacoli
generano convenzioni che sorgono all’interno degli stessi artisti quando
diventano accademici, come nella tarda pittura eclettica in Italia e in
buona parte della poesia inglese del XVIII secolo. Ciò che convengo di
chiamare arte “realistica” (la parola è arbitraria, ma la cosa esiste), da
distinguere dall’arte naturalistica, riproduce dettagli ma non ne coglie il
ritmo che li muove e li organizza. Come una fotogra a perde vigore, se
non per prosaici scopi documentari. Perde vigore perché permette di
accostarsi all’oggetto solo da un punto di vista sso. Le relazioni che
formano un ritmo delicato sollecitano un approccio da punti di vista che
cambiano. Quante sono le varietà individuali di esperienza personale che
utilizzano un ritmo che è formalmente lo stesso sebbene in concreto sia
differente a seconda del materiale cui esso dà forma nella sostanza di
un’opera d’arte!
Opponendosi al cosiddetto stile poetico120 orito in Inghilterra dopo la
morte di Milton, la poesia di Wordsworth è stata una rivolta naturalistica.
L’ipotesi (dovuta al fraintendimento di alcuni scritti di Wordsworth) che la
sua essenza consistesse nell’uso delle parole del linguaggio comune rende
priva di senso la sua opera effettiva. Infatti implica che egli abbia
continuato a separare la forma dalla sostanza com’era caratteristico della
poesia precedente, solo girando la medaglia. In realtà, il suo senso diviene
chiaro in una delle prime strofe del poeta una volta che la si ponga in
connessione con un suo stesso commento.
And, fronting the bright west, yon oak entwines
Its darkening boughs and leaves in stronger lines.

Più che poesia, questi sono versi. È una descrizione secca, non lambita
dall’emozione. Come Wordsworth stesso ha detto: «questo modo di
esprimersi è debole e imperfetto». Ma egli prosegue e aggiunge: «ricordo
distintamente il luogo esatto in cui ciò mi colpì per la prima volta. Fu sulla
strada tra Hawkshead e Ambleside e mi fece un immenso piacere. Fu un
momento importante per la mia storia poetica; infatti dato da qui la mia
consapevolezza della varietà in nita delle apparenze della natura che non
era stata notata dai poeti di qualsiasi epoca o paese, per quanto ne sapessi;
e presi la risoluzione di provvedere in qualche misura a questa de cienza.
In quell’epoca potevo avere a mala pena quattordici anni»121.
Questo è un chiaro esempio di transizione dal convenzionale, da
qualcosa di astrattamente generalizzato che al tempo stesso sorgeva da e
conduceva a una percezione incompleta, al naturalistico – a un’esperienza
che corrispondeva in modo più ne e sensibile al ritmo del cambiamento
naturale. Infatti non era solo varietà, solo usso, ciò che egli desiderava
esprimere, ma varietà e usso di relazioni ordinate – il rapporto tra la
sfumatura di foglie e rami e le variazioni della luce del sole. I dettagli di
spazio e tempo, della particolare quercia, svaniscono; resta la relazione e,
peraltro, non in astratto, ma in maniera de nita, sebbene in questo caso
particolare resa concreta in modo piuttosto prosaico.
Questa analisi non ci allontana dal tema del ritmo in quanto condizione
della forma. Altre persone forse preferiscono un termine diverso da
“naturalistico” per esprimere la fuga dalla convenzione verso la
percezione. Ma qualunque parola si usi, per essere fedele al ravvivamento
della forma estetica essa deve sottolineare la sensibilità per un ritmo
naturale. E questo fatto mi porta a una breve de nizione del ritmo. Ritmo
è variazione ordinata di cambiamenti. Quando c’è anche un usso ma
uniforme, senza variazioni di intensità o velocità, non c’è ritmo. C’è
stagnazione, foss’anche stagnazione di un moto invariabile. Allo stesso
modo, non c’è ritmo quando le variazioni non sono situate. È ricca di
suggestioni la locuzione “aver luogo”. Il cambiamento non solo accade ma
ha una sede; ha un posto de nito in un intero più ampio. I casi più
evidenti di ritmo riguardano variazioni d’intensità come, ad esempio, nei
versi di Wordsworth citati, quando certe forme si sviluppano con forza in
contrasto con forme più deboli di altri rami e altre foglie. Non c’è ritmo di
alcun genere, per quanto delicato ed esteso, laddove non si veri chi una
variazione di impulso e quiete. Ma in qualsiasi ritmo complesso queste
variazioni d’intensità non sono tutto. Servono a de nire variazioni di
numero, di estensione, di velocità e di differenze qualitative intrinseche, ad
esempio di sfumatura, tono ecc. Le variazioni d’intensità sono, cioè,
relative al contenuto direttamente esperito. Ogni battito, distinguendo una
parte entro il tutto, aumenta la forza di ciò che è venuto prima creando
una sospensione che è richiesta di qualcosa a venire. Non è variazione di
un singolo aspetto, ma modulazione del sostrato qualitativo che pervade e
uni ca l’intero.
Un gas che satura uniformemente un recipiente, un diluvio torrenziale
che spazza via ogni argine, una pozza stagnante, un ininterrotto deserto di
sabbia e un boato monotono sono interi privi di ritmo. Uno stagno mosso
da increspature, una saetta spezzata, l’ondeggiare di rami al vento, il
battito delle ali di un uccello, il verticillo122 di sepali e petali, le ombre delle
nubi che cambiano sul prato, sono ritmi naturali semplici. Ci devono
essere energie che si fanno resistenza l’una con l’altra. Ciascuna cresce
d’intensità per un certo periodo, ma in tal modo comprime qualche
energia opposta nché quest’ultima non riesce a prevalere sull’altra che ha
perso vigore espandendosi. Quindi si inverte l’operazione, non
necessariamente in periodi di tempo identici ma secondo un certo
rapporto che si sente regolare. La resistenza accumula energia; riesce a
conservarsi nché non si sprigiona e non si espande. Al momento
dell’inversione c’è un intervallo, una pausa, una stasi, che de nisce e rende
percepibile l’interazione di energie opposte. La pausa è equilibrio o
simmetria tra forze antagoniste. Questo è lo schema generale di un
cambiamento ritmico, malgrado l’esposizione non riesca a tener conto di
cambiamenti minori concomitanti di espansione e contrazione che si
sviluppano in ogni fase e in ogni aspetto di un intero organizzato, e del
fatto che per quel che concerne il perfezionamento nale vengono ad
aggiungersi anche le onde e gli impulsi successivi.
Per quel che riguarda l’emozione umana, uno sfogo immediato che è
fatale per l’espressione è dannoso per il ritmo. Non c’è resistenza
suf ciente per creare tensione, e pertanto contrazione e scarica periodiche.
L’energia non viene conservata in modo da contribuire a uno sviluppo
ordinato. Si fa un singhiozzo o un grido, una smor a, si corruga la fronte,
ci si contorce, si batte il pugno furiosamente. Il libro di Darwin intitolato
Expression of Emotions123 – che concerne, più precisamente, lo sfogo
delle emozioni – è pieno di esempi di ciò che capita quando un’emozione
è semplicemente uno stato organico lasciato libero di agire sull’ambiente in
modo diretto e palese. Quando l’intera scarica è posticipata e vi si giunge
alla ne attraverso una successione di periodi ordinati di contrazione e
conservazione, scanditi in intervalli da ricorrenti pause d’equilibrio, la
manifestazione di un’emozione diventa vera espressione e acquisisce
qualità estetica – e solo allora.
L’energia emotiva continua a operare, ma ora compie un lavoro effettivo;
realizza qualcosa. Evoca, assembla, accoglie e respinge memorie,
immagini, osservazioni, e le elabora in un intero completamente accordato
dallo stesso sentimento emotivo immediato. Di conseguenza si presenta un
oggetto che risulta unito e distinto in ogni sua parte. È proprio la
resistenza contro l’espressione immediata dell’emozione a costringere
quest’ultima ad assumere una forma ritmica. Ed è appunto così che
Coleridge spiega il metro nel verso. La sua origine, egli dice, «la farei
risalire all’equilibrio che produce nella mente la tensione spontanea che si
sforza di tenere a freno le operazioni della passione. […] Questo salutare
antagonismo è favorito proprio da quello stato contro il quale esso
reagisce; e questo equilibrio di forze antagonistiche si è organizzato in
metro […] per l’azione sopravveniente della volontà e della ragione,
consapevolmente e con il proposito calcolato del piacere». C’è una
«interpenetrazione di passione e volontà, di impulso spontaneo e proposito
volontario». Il metro quindi «tende ad accrescere la vivacità e la prontezza
tanto dei sentimenti in genere, quanto dell’attenzione. Quest’effetto lo
produce mediante la continua eccitazione del senso di sorpresa, e il rapido
alternarsi di movimenti rispettivamente di soddisfazione e di riaccensione
della curiosità, troppo impercettibili per essere distintamente oggetto di
consapevolezza precisa in un momento dato, ma tuttavia considerevoli
dell’in uenza congiunta che sono capaci di esercitare»124. La musica
rende più complesso e intenso il processo della reciproca sollecitazione
geniale di antagonismo, sospensione e rafforzamento, quando le varie
“voci” contemporaneamente si oppongono e rispondono l’una all’altra.
Santayana ha giustamente osservato: «le percezioni non restano passive e
immutate nella mente nché il tempo non ne smussa gli orli scabri
facendole sbiadire, come sembra suggerire il vieto paragone del sigillo e
della cera. No, le percezioni cadono piuttosto nel cervello come cadono i
semi in un campo arato o addirittura le scintille in un barilotto di polvere
da sparo. Ogni immagine ne genera centinaia di altre, talvolta lentamente
e sottotraccia, talvolta (come quando prende il via una successione
passionale) con un scoppio improvviso della fantasia»125. Anche nei
processi astratti del pensiero la connessione con l’apparato motorio
primario non è completamente recisa, e il meccanismo motorio è collegato
a riserve d’energia nel sistema simpatico ed endocrino. Un’osservazione,
un’idea che balena nella mente, dà il via a qualcosa. Il risultato può essere
uno sfogo troppo diretto per riuscire ritmico. Si può manifestare una
grezza forza indisciplinata. Ci può essere una debolezza che fa sì che
l’energia si dissipi nel futile sognare a occhi aperti. Alcuni canali possono
essere troppo aperti a causa di abitudini che sono diventate cieca routine –
quando l’attività assume la forma che talvolta si identi ca in senso
esclusivo con il fare “pratico”. Timori inconsapevoli per un mondo ostile
verso i desideri prevalenti provocano l’inibizione di ogni azione oppure la
costringono entro canali familiari. Ci sono molti modi, che oscillano tra i
poli della tiepida apatia e della violenta impazienza, in cui l’energia, una
volta destata, non riesce a muoversi in una relazione ordinata di
accumulazione, opposizione, sospensione e pausa, verso il
perfezionamento nale di un’esperienza. Quest’ultima è, allora, abbozzata,
meccanica, oppure irregolare e dispersa. Tali casi de niscono, per
contrasto, la natura di ritmo ed espressione.
Dal punto di vista sico, se si apre solo un po’ un rubinetto la resistenza
al usso costringe a conservare l’energia nché la resistenza non è vinta.
L’acqua esce allora a singole gocce e a intervalli regolari. Se un getto
d’acqua cade da una distanza suf ciente, come in una cascata, la tensione
di super cie fa sì che il getto raggiunga il fondo in singole bolle. La
polarità, l’opposizione tra energie, è sempre necessaria per quella
de nizione, delimitazione, che scompone masse e distese altrimenti
uniformi in forme individuali. Al tempo stesso, la distribuzione equilibrata
di energie opposte dà la misura, o l’ordine, che impedisce alla variazione di
diventare eterogeneità disordinata. Come musica, teatro e romanzo, anche
i dipinti sono caratterizzati dalla tensione. Lo si vede, per quel che
concerne le loro forme evidenti, nell’uso dei colori complementari, nel
contrasto tra primo piano e sfondo, tra oggetti centrali e periferici. Nei
dipinti moderni il contrasto e il rapporto necessario tra luce e buio non si
ottiene usando chiaroscuro, terre d’ombra e bruni, ma con colori puri
ciascuno dei quali in se stesso brillante. Per de nire contorni si usano
curve simili tra loro ma con direzioni opposte, in alto e in basso, avanti e
indietro. Anche singole linee esprimono tensione. Come ha osservato Leo
Stein, «la tensione in una linea può essere colta seguendo il pro lo di un
vaso e notando la forza che ci vuole per piegare la linea di un contorno.
Ciò dipenderà dall’elasticità visibile della linea, dalla direzione e
dall’energia determinate dalla parte precedente, e così via»126.
L’universalità dell’uso di intervalli in opere d’arte è signi cativo. Non sono
interruzioni, dal momento che danno luogo sia a una delimitazione delle
singole parti sia a una distribuzione proporzionata. Speci cano e correlano
al tempo stesso.
Il medium attraverso il quale agisce l’energia determina l’opera che ne
risulta. La resistenza da vincere in canto, danza e rappresentazione teatrale
è in parte interna all’organismo stesso (imbarazzo, paura, goffaggine,
consapevolezza critica, mancanza di vitalità), e in parte nel pubblico a cui
ci si rivolge. La declamazione lirica e la danza, i suoni emessi da strumenti
musicali scuotono l’atmosfera o il terreno. Non devono far fronte
all’opposizione che si incontra quando si riplasma del materiale esterno.
La resistenza è della persona e le conseguenze sono direttamente personali
sul versante sia del produttore che del fruitore. Tuttavia una declamazione
enfatica non è scritta nell’acqua. Gli organismi, le persone coinvolte, sono
in una certa misura riplasmati. Il medium in cui operano compositore,
scrittore, pittore, scultore è più esteriore e distante dal pubblico rispetto a
quello in cui operano attore, danzatore ed esecutore. Essi rimodellano un
materiale esterno che fa resistenza e provoca tensioni al suo interno,
mentre sono esentati dalla pressione esercitata da un pubblico
direttamente presente. È una differenza profonda. Comporta differenze di
temperamento e talento e disposizioni differenti nel pubblico. Pittura e
architettura non possono ottenere il plauso simultaneo suscitato
direttamente che provocano il teatro, la danza e il concerto musicale. Il
contatto personale diretto stabilito dalla recitazione, dalla musica e dalla
rappresentazione teatrale è sui generis127.
L’effetto immediato delle arti plastiche e architettoniche non è organico,
ma rientra nel mondo durevole che ci circonda. È al tempo stesso più
indiretto e più persistente. La canzone e la rappresentazione teatrale
registrate in forme letterarie, la musica scritta, si collocano tra le arti
formative. L’effetto delle modi cazioni oggettive che intervengono nelle
arti formative è duplice. Da un lato, c’è una diretta diminuzione della
tensione tra l’uomo e il mondo. L’uomo si sente più a casa, dal momento
che è in un mondo che ha contribuito a fare. Vi si abitua e ci si trova
abbastanza a suo agio. In alcuni casi ed entro certi limiti, il conseguente
maggiore adeguamento reciproco tra uomo e ambiente è sfavorevole a
ulteriori creazioni estetiche. In tal caso le cose sono troppo levigate; non
c’è irregolarità suf ciente a far rinnovare la richiesta di rendere manifesto e
possibile un nuovo ritmo. L’arte diventa stereotipata e si accontenta di
effettuare variazioni secondarie su vecchi temi secondo stili e maniere che
sono gradevoli in quanto veicolano piacevoli reminiscenze. Da un punto di
vista estetico, in tal caso l’ambiente è esaurito, logoro. Il ricorrere
dell’elemento accademico ed eclettico nelle arti è un fenomeno che non va
ignorato. E se di solito associamo l’elemento accademico con pittura e
scultura invece che, ad esempio, con poesia e prosa, è comunque vero che
quando queste ultime si af dano a scene consuete, a variazioni di
situazioni familiari e al mascheramento di tipi di personaggi facili da
riconoscere, possiedono tutti i tratti che ci fanno chiamare accademico un
quadro.
Ma col tempo questa stessa familiarità genera resistenza in alcune menti.
Le cose familiari vengono assorbite e diventano un deposito in cui i semi o
le scintille di nuove condizioni provocano scompiglio. Quando il vecchio
non è stato assimilato, l’esito è solamente l’eccentricità. Invece i grandi
artisti originali si impossessano di una tradizione. Non l’hanno evitata, ma
metabolizzata. Allora lo stesso con itto generato tra tale tradizione e ciò
che è nuovo al loro interno e nel loro ambiente crea la tensione che esige
una nuova modalità di espressione. Shakespeare forse ne sapeva «poco di
latino, e ancor meno di greco»128, ma fu un divoratore talmente insaziabile
del materiale accessibile che sarebbe diventato un plagiario se il materiale
non avesse al tempo stesso combattuto contro e cooperato con la sua
visione personale grazie a una curiosità egualmente insaziabile per la vita
che lo circondava. I grandi innovatori nella pittura moderna hanno
studiato con maggiore assiduità i quadri del passato di quanto abbiano
fatto gli imitatori che dettavano la moda del tempo. Ma i materiali della
loro maniera personale di vedere hanno agito contrapponendosi alle
vecchie tradizioni, e da questo reciproco con itto e rafforzamento sono
sorti ritmi nuovi.
Nei fatti indicati ci sono le fondamenta di una teoria estetica basata
sull’arte e non su preconcetti estranei. La teoria si può basare solo sulla
comprensione del ruolo centrale dell’energia all’interno e all’esterno, e di
quella interazione di energie che dà luogo all’opposizione accanto ad
accumulazione, conservazione, sospensione e intervallo, e al movimento
concorde verso il compimento in un’esperienza ordinata, ovvero ritmica.
Allora l’energia interna riesce a scaricarsi in un’espressione e il corpo
esterno che assume l’energia nella materia si dota di una forma. Abbiamo
qui un caso più pieno e più esplicito di quella relazione tra fare e subire di
organismo e ambiente il cui prodotto è un’esperienza. Il ritmo speci co di
differenti relazioni tra fare e subire è il principio di distribuzione e
ripartizione degli elementi che contribuisce a far sì che l’esperienza sia
diretta e unita. La mancanza di relazione e distribuzione adeguata
produce una confusione che ostacola l’unicità della percezione. Proprio la
relazione genera l’esperienza in virtù della quale un’opera d’arte al tempo
stesso eccita e calma. Il fare agita mentre le conseguenze subite provocano
una fase di tranquillità. Un subire continuo e combinato causa un
accumulo di energia da cui prende origine un ulteriore sfogo pratico. La
percezione che ne risulta è ordinata e chiara, e al tempo stesso intonata
emotivamente.
È possibile sottolineare troppo la qualità della serenità in arte. Non c’è
arte senza quella compostezza che corrisponde al disegno e alla
composizione nell’oggetto. Ma non c’è arte nemmeno senza resistenza,
tensione ed eccitazione; altrimenti la calma suscitata non è quella del
compimento. All’atto della concezione sono tenute distinte cose che nella
percezione e nell’emozione si coappartengono. Le distinzioni, che nella
ri essione loso ca diventano antitesi, tra sensuale e ideale, super cie e
contenuto o signi cato, eccitazione e calma, non esistono nelle opere
d’arte; e non semplicemente perché le opposizioni concettuali sono state
superate, ma perché l’opera d’arte esiste a un livello d’esperienza in cui tali
distinzioni del pensiero ri essivo non si presentano. La varietà può
suscitare eccitazione, ma nella pura e semplice varietà non ci sono
resistenze da superare e fare tacere. Nulla di più vario c’è del mobilio
sparso sul marciapiede in attesa del furgone per il trasloco. Tuttavia non è
che emergono ordine e serenità quando queste cose sono stipate insieme
nel furgone. Devono essere distribuite secondo una loro relazione
reciproca, come quando si arreda una stanza, formando un intero.
Quando distribuzione e uni cazione cooperano si genera quel moto di
cambiamento che eccita e il compimento che calma.
C’è una vecchia formula per la bellezza nella natura e nell’arte: unità
nella varietà. Tutto dipende da come si intende la preposizione “in”. Ci
possono essere molti elementi in una scatola, molte gure in un solo
quadro, molte monete in una tasca e molti documenti in una cassaforte.
L’unità è esteriore e i molti sono irrelati. Il punto rilevante è che unità e
molteplicità sono sempre più o meno così quando l’unità dell’oggetto o
della scena è morfologica e statica. La formula assume signi cato solo
quando si intende che i suoi termini si riferiscono a una relazione di
energie. Non c’è pienezza, non ci sono molte parti, senza differenziazioni
peculiari. Ma queste hanno qualità estetica, come nel caso della ricchezza
di una frase musicale, solo quando le distinzioni dipendono da resistenze
reciproche. C’è unità solo quando le resistenze creano una tensione che si
risolve con l’interazione concorde delle opposte energie. L’“uno” della
formula è la realizzazione mediante parti interagenti delle loro rispettive
energie. Il “molti” è la manifestazione delle individualizzazioni de nite
dovute a forze opposte che alla ne si tengono in equilibrio. Il prossimo
argomento sarà allora l’organizzazione delle energie in un’opera d’arte.
Infatti l’unità nella varietà che caratterizza un’opera d’arte è dinamica.
8 – L’organizzazione delle energie
Si è ripetutamente suggerito che c’è una differenza tra il prodotto
artistico (statua, dipinto o quant’altro) e l’opera d’arte. Il primo è sico,
potenziale; la seconda è attiva e se ne fa esperienza. Essa è ciò che il
prodotto fa, è il suo operare. Infatti nulla penetra nell’esperienza senza
rivestimento e accompagnamento, che sia un accadimento
apparentemente informe, un tema intellettualmente sistematizzato o un
oggetto elaborato con ogni amorevole cura di pensiero ed emozione uniti.
Il suo stesso entrare in scena dà inizio a un’interazione complessa; dalla
natura di questa interazione dipende il carattere della cosa come viene
esperita alla ne. Quando la struttura dell’oggetto è tale da far sì che la sua
forza interagisca felicemente (ma non con semplicità) con le energie che si
sprigionano dall’esperienza stessa; quando le loro reciproche af nità e i
muti antagonismi operano insieme per determinare una sostanza che si
sviluppa progressivamente e costantemente (ma non in maniera troppo
rigida) verso la soddisfazione di impulsi e tensioni, solo allora c’è un’opera
d’arte.
Nel capitolo precedente ho sottolineato come tale opera nale dipenda
dall’esistenza di ritmi in natura; come ho messo in rilievo, essi sono
condizioni della forma nell’esperienza, e pertanto dell’espressione. Ma
un’esperienza estetica, l’opera d’arte nella sua attualità, è percezione. Solo
laddove questi ritmi, seppur incarnati in un oggetto esterno che è esso
stesso un prodotto dell’arte, diventano un ritmo interno all’esperienza
stessa, essi sono estetici. E tale ritmo interno a ciò di cui si fa esperienza è
qualcosa di molto diverso dal riconoscimento intellettuale del fatto che
esiste un ritmo nella cosa esterna: tanto diverso quanto per un ricercatore
scienti co godere nella percezione di colori armoniosi e brillanti è
differente dalle equazioni matematiche che li de niscono.
Comincio sfruttando tale considerazione per sgombrare il campo da una
falsa nozione di ritmo che ha in qualche modo infettato gravemente la
teoria estetica. L’equivoco, infatti, ha origine dall’incapacità di considerare
il fatto che il ritmo estetico è questione di percezione, quindi coinvolge
tutto ciò che con cui il sé contribuisce al processo attivo del percepire.
Inoltre, in modo piuttosto inconsueto, l’errore in questione sussiste accanto
ad affermazioni secondo le quali l’esperienza estetica riguarderebbe
l’immediatezza della percezione. La nozione a cui mi riferisco identi ca il
ritmo con la regolarità di qualcosa che ricorre tra elementi in mutamento.
Prima di occuparmi direttamente di tale concezione, voglio sottolinearne
l’effetto sulla comprensione dell’arte. L’ordine degli elementi di oggetti
spaziali, in quanto spaziali e sici, cioè a prescindere dal fatto di rientrare
in quell’interazione che è causa di un’esperienza, è, almeno relativamente,
sso. Al di là di un lento processo di logoramento, le linee e i piani di una
statua rimangono immutati, e così accade alle con gurazioni e agli
intervalli di un edi cio. Da ciò si è tratta la conclusione che esistano due
generi di arti belle, quelle spaziali e quelle temporali, e che soltanto queste
ultime siano contraddistinte dal ritmo; corrispettivo di tale errore è che
soltanto gli edi ci e le statue possiederebbero simmetria. L’errore sarebbe
grave pur se colpisse solo la teoria. Difatti, negare ritmo a quadri ed edi ci
impedisce di percepire qualità che sono assolutamente indispensabili nel
loro effetto estetico.
Quando si identi ca il ritmo con una ricorrenza in senso letterale, con un
regolare ripresentarsi di elementi identici, si concepisce la ricorrenza in
maniera statica o anatomica anziché funzionale; in quest’ultimo caso,
infatti, si interpreta la ricorrenza sulla base di un avanzamento, grazie
all’energia degli elementi, di un’esperienza completa ed esauriente. Poiché
uno degli esempi privilegiati da coloro che sostengono quella teoria è il
ticchettio di un orologio, potremmo chiamarla la teoria del tic-tac. Per
quanto dovrebbe risultare evidente, dopo una breve ri essione, che se
fosse possibile fare esperienza di una serie uniforme di tic-tac l’effetto
sarebbe di farci addormentare o di spingerci all’esasperazione, la
concezione di tale regolarità viene assunta come il piano di fondo che si
suppone poi complicato dalla sovrapposizione di una quantità di altri
ritmi, ciascuno in sé egualmente regolare. Naturalmente, si può analizzare
per via matematica un ritmo effettivamente esperito scomponendolo in
una combinazione di una regolarità fondamentale a cui si sovrappone un
certo numero di ripetizioni uniformi minori. Il risultato di tale analisi,
tuttavia, è una mera approssimazione meccanica a qualsiasi ritmo vitale o
espressivo. È analogo al risultato che si otterrebbe tentando di costruire
linee curve esteticamente soddisfacenti (come quelle di un vaso greco)
combinando un certo numero di linee curve, ciascuna costruita secondo
un rigido calcolo matematico.
Servendosi di uno strumento di registrazione uno studioso intraprese una
ricerca sulla voce di alcuni cantanti. Si scoprì che la voce degli artisti di
successo, posti in una categoria superiore, erano registrate leggermente al
di sopra o leggermente al di sotto delle linee che indicavano il tono esatto,
mentre i cantanti ancora in formazione sembravano produrre suoni che
coincidevano esattamente con i registri degli intervalli esatti. Lo studioso
sottolineò come gli artisti sempre “si prendessero delle libertà” con la
musica. Sono proprio queste “libertà” a segnare la differenza tra
costruzione meccanica, o puramente oggettiva, e produzione artistica. Il
ritmo, infatti, comporta una variazione costante. Nella de nizione data del
ritmo come variazione ordinata della manifestazione dell’energia, la
variazione non soltanto è importante quanto l’ordine, ma risulta un
coef ciente indispensabile dell’ordine estetico. Maggiore è la variazione,
più interessante è l’effetto, posto che l’ordine venga mantenuto – un fatto
che dimostra che l’ordine in questione non va stabilito in termini di
regolarità oggettive, ma va interpretato sulla base di un altro principio.
Tale principio è ancora una volta quello della progressione continua verso
il compimento di un’esperienza intesa come integrità dell’esperienza stessa
– qualcosa che non si può misurare in termini esterni, malgrado non si
possa conseguire senza impiegare materiali esterni, osservati o immaginati.
Posso delucidare la mia posizione mediante alcuni versi poetici scelti in
modo piuttosto arbitrario, prendendo intenzionalmente un brano che,
benché interessante, non è tra i migliori. Al mio scopo basteranno alcuni
versi del Prelude di Wordsworth:
[…] il vento e la pioggia mista a neve
e tutta l’inquietudine degli elementi,
la pecora sola, e l’albero rinsecchito,
e la musica desolata di quel vecchio muro di pietra,
il suono di bosco e di acqua, la nebbia
che sulla linea di entrambe quelle strade
avanzava in forme tanto indisputabili.129

C’è sempre qualcosa di sciocco nel volgere la poesia in una prosa che si
crede possa spiegarne il signi cato. Ma qui il mio scopo, nello svolgerne
un’analisi in prosa, non è di spiegare i versi, ma di rafforzare un punto
della teoria. Si noti, quindi, in primo luogo come non vi sia una sola parola
che ripeta il tipo di contenuto semantico convenzionale che si potrebbe
trovare in un dizionario. Il signi cato di “vento, pioggia, pecora, albero,
muro di pietra, nebbia” è una funzione dell’intera situazione espressa ed è
dunque una variabile di quella situazione e non una costante esterna. Lo
stesso vale per gli aggettivi: mista, sola, rinsecchito, desolata, indisputabili.
Il loro senso è determinato dall’esperienza individuale di desolazione che si
sta formando; ciascuno contribuisce a farne progredire la realizzazione,
sebbene ciascuno a sua volta sia quali cato dall’esperienza nella cui
costruzione interviene quale fattore energizzante. C’è poi la variazione
negli oggetti, alcuni relativamente immobili contrapposti a quelli in moto;
cose viste e cose sentite, pioggia e vento; muro e musica; albero e rumore.
Poi c’è l’andatura relativamente lenta nché dominano gli oggetti, che
cambia e accelera seguendo gli eventi, con il “suono di bosco e di acqua”,
e culmina nella spinta della nebbia che avanza inesorabilmente. È questa
variazione che in uisce su ogni dettaglio a stabilire la differenza tra versi
come questi e un ritornello. Nonostante ciò si mantiene “ordine”, non
tanto quello della ripetizione interna alla sostanza o alla forma, ma in senso
attivo, poiché ogni elemento contribuisce a costruire una situazione che
viene esperita integralmente, a costruirla senza scarti, e senza
incongruenze che collidano e siano distruttive. A ni estetici, l’ordine
viene de nito e misurato per il tramite di tratti funzionali e operativi.
Contrapponiamo a questi versi, per esempio, un inno gospel che ha un
ritmo cadenzato e incalzante da cui moltissime persone hanno tratto una
rudimentale soddisfazione estetica. Il carattere relativamente esteriore e
sico di quest’ultimo si manifesta nella tendenza a rispondere tenendo
sicamente il tempo; la povertà del sentimento si deve alla relativa
uniformità sia della materia che del suo arrangiamento. Anche in una
ballata i ritornelli non hanno nell’esperienza l’uniformità che hanno
quando sono isolati. Infatti, entrando in contesti differenti essi hanno un
effetto differente che dà prosecuzione a un’accumulazione progressiva. È
possibile che un artista impieghi qualcosa che esteriormente è pura
ripetizione per comunicare un senso di destino inesorabile. Ma l’effetto
dipende da una somma che è più di un’addizione quantitativa. Per questo
in musica la ripetizione di una frase, come potrebbe essere la prima che ci
viene presentata all’inizio di una sinfonia, prende forza nella misura in cui
i nuovi contesti in cui la si ritrova le danno colore e le conferiscono un
nuovo valore, anche se solo quello dovuto a una enunciazione più
insistente, precisa e cumulativa del tema.
Naturalmente non c’è ritmo senza ripetizione. Ma quando la ricorsività
viene interpretata come ripetizione letterale o di un materiale o di un
intervallo esatto, all’esperienza dell’arte si sostituisce l’analisi ri essiva della
scienza sica. La ricorsività meccanica è quella delle unità materiali. La
ricorsività estetica è quella delle relazioni che si sommano e fanno andare
avanti. In sé le unità che ricorrono richiamano l’attenzione su loro stesse
come parti isolate e pertanto avulse dall’intero. Per tale motivo esse
riducono l’effetto estetico. Le relazioni che ricorrono servono a de nire e
delimitare le parti, dando loro un’individualità propria. Oltre a ciò, però,
connettono; le entità individuali che esse demarcano esigono, a causa delle
relazioni, l’associazione e l’interazione con altri individui. Di conseguenza
le parti hanno una funzione vitale nella costruzione di un insieme esteso.
Anche nel battito del tamburo del selvaggio si è visto un modello del
ritmo, trasformando la teoria del tic-tac nella teoria del tam-tam. E pure in
questo caso si è detto che lo schema è costituito da una ripetizione di
battiti semplice e piuttosto monotona, e che tale schema viene variato
aggiungendo altri ritmi, ciascuno dei quali a sua volta uniforme, mentre si
aggiunge vivacità quando si introduce un cambiamento aritmico.
Purtroppo per le presunte basi oggettive di questa teoria, i battiti del tam-
tam non si presentano da soli ma come fattori in un insieme molto più
complesso di differenti canti e danze. E invece che ripetizione c’è uno
sviluppo, un crescere no a picchi più alti di una eccitazione, forse
frenetica, che ha avuto inizio con movimenti relativamente lenti e calmi.
Fatto ancora più importante, la storia della musica mostra come in realtà i
ritmi primitivi, come quelli dei negri d’Africa, presentano variazioni più
sottili, meno uniformi, rispetto ai ritmi della musica dei popoli civilizzati,
così come quelli dei negri che vivono negli Stati Uniti del nord sono
generalmente più convenzionali rispetto a quelli del sud. Le esigenze della
musica d’insieme e le potenzialità dell’armonia hanno fatto sì che venisse
molto più uniformata quella fase del ritmo che consiste in variazioni dirette
dell’intensità, mentre secondo la teoria in questione si sarebbe dovuto
veri care un movimento inverso.
La creatura vivente esige ordine per vivere, ma anche novità. La
confusione è spiacevole, ma anche la noia lo è. Il “tocco di disordine” che
riveste di fascino una scena regolare crea disordine solo rispetto a uno
schema esterno. Dal punto di vista dell’esperienza concreta aggiunge
enfasi, distinzione, purché non impedisca di procedere progressivamente
da una parte all’altra. Se lo si esperisse come disordine produrrebbe un
contrasto insolubile e risulterebbe spiacevole. D’altro canto, un contrasto
temporaneo può essere l’elemento che suscita una resistenza tale da
richiamare l’energia a progredire nel modo più attivo e trionfante. Solo alle
persone viziate n dall’infanzia piacciono cose sempre concilianti; le
persone di carattere, che preferiscono vivere e non si accontentano di
sopravvivere, provano ripugnanza per ciò che è troppo facile. Ciò che è
dif cile diventa deplorevole solo quando, invece di generare energia, la
soffoca e la blocca. Alcuni prodotti estetici hanno immediatamente
successo; sono i “best sellers” del loro tempo. Sono “facili” ed esercitano
quindi un fascino istantaneo; la loro popolarità richiama imitatori e per un
certo periodo essi dettano la moda negli ambiti del teatro, del romanzo,
della canzone. Ma la grande rapidità con cui vengono assimilati
nell’esperienza ben presto li svuota; da essi non derivano nuovi stimoli.
Hanno un giorno di gloria – e solo un giorno.
Confrontiamo un quadro per esempio di Whistler con un quadro di
Renoir. Nella maggior parte dei casi, nel primo si troveranno tratti
consistenti di colore il più possibile uniformi. I ritmi, con i loro necessari
fattori di contrasto, sono costituiti solo dalla contrapposizione di grandi
blocchi. In un solo pollice quadrato del quadro di Renoir non si potranno
trovare due linee contigue che abbiano esattamente la stessa qualità.
Possiamo non esserne consapevoli mentre guardiamo il quadro, ma siamo
consapevoli dell’effetto che ciò determina. Questo fatto contribuisce alla
ricchezza immediata dell’intero e determina le condizioni perché a ogni
approccio successivo vengano ancora suscitate nuove risposte. È tale
elemento di continua variazione – nel rispetto delle relazioni dinamiche di
rafforzamento e conservazione – a rendere durevole un quadro o una
qualsiasi opera d’arte.
Ciò che è vero in grande lo è anche in piccolo. La ripetizione di unità
uniformi a intervalli uniformi non solo non è ritmica, ma si oppone
all’esperienza del ritmo. L’effetto di una scacchiera è più piacevole di un
grande spazio vuoto oppure riempito con linee che vanno a caso e che,
invece di de nire gure, interferiscono con l’incedere della visione. Infatti,
l’esperienza della disposizione a scacchiera non è regolare quanto l’oggetto
considerato dal punto di vista sico e geometrico. Con il muoversi
dell’occhio in essa rientrano super ci nuove e più forti, e un’attenta
osservazione dimostrerà come vengano costruiti quasi automaticamente
nuovi schemi. I quadrati corrono ora in verticale, ora in orizzontale, ora
lungo una diagonale, ora lungo l’altra; e i quadrati più piccoli costruiscono
non solo quadrati più grandi, ma anche rettangoli e gure che hanno un
contorno a forma di scala. L’esigenza di varietà dell’organismo è tale da
imporsi all’esperienza anche in assenza di una forte occasione esterna. Lo
stesso tic-tac dell’orologio quando lo si sente varia perché ciò che si ode è
un’interazione tra l’evento sico e le pulsazioni mutevoli della risposta
dell’organismo. Il paragone che spesso si stabilisce tra musica e
architettura si basa sul fatto che queste arti, più direttamente di altre,
esempli cano ricorsività organiche dovute a relazioni progressive piuttosto
che alla ripetizione di unità. La volgarità estetica di tanti nostri edi ci,
specialmente quelli delle grandi città americane, si deve alla monotonia
causata da una sistematica ripetizione di forme, disposte a intervalli
uniformi, che vengono diversi cate dall’architetto solo facendo ricorso a
elementi ornamentali posticci. Esempio ancor più impressionante sono i
nostri terribili monumenti della guerra civile e la maggior parte della
nostra statuaria civica.
Ho detto che l’organismo desidera sia varietà che ordine. Tale
affermazione, tuttavia, è troppo debole poiché fa riferimento a una
proprietà secondaria invece che al fatto principale. Il processo della vita
organica è variazione. Esso, con parole usate spesso da William James,
rappresenta un esempio di “sempre, non del tutto”. Il desiderio come tale
sorge solo quando questa tendenza naturale è ostacolata da una
circostanza avversa, dalla monotonia dovuta a un eccesso di povertà o da
un eccesso di abbondanza. Ogni movimento che l’esperienza fa per
raggiungere il proprio completamento torna al suo principio, essendo
soddisfacimento del bisogno che ha agito all’inizio. Ma la ricorsività è
accompagnata da una differenza; si carica di tutte le differenze che ha
generato il lungo viaggio compiuto partendo dalla posizione iniziale. Si
considerino, tra i vari esempi, il ritorno dopo molti anni alla casa
d’infanzia; la proposizione dimostrata attraverso una serie di ragionamenti
e la proposizione enunciata all’inizio; l’incontro con un vecchio amico
dopo una separazione; la ricorsività di una frase in musica, o di un
ritornello in poesia.
L’esigenza di varietà è manifestazione del fatto che essendo in vita
cerchiamo di vivere nché la paura non ci rende vili o la routine non ci
rende apatici. Il bisogno stesso della vita ci spinge verso l’ignoto. Questa è
la costante verità di ciò che è romanzesco. Esso può degenerare in uno
smisurato compiacimento per movimento ed eccitazione ni a se stessi,
trovando espressione nello pseudo-romanticismo. Invece il classicismo a
parole, quello che predica anziché agire, come fa quel che diventa davvero
classico, si basa sempre sulla paura della vita e sul tirarsi indietro dalle sue
esigenze e dalle sue s de. Il romantico diventa classico quando è ordinato
secondo il ritmo appropriato, ogni volta cioè che l’avventura intrapresa è di
portata suf ciente a mettere alla prova e in gioco le energie degli uomini:
l’Iliade e l’Odissea ne sono testimonianze immortali. Il ritmo è razionalità
tra qualità. La presa che l’ordine più basso di ritmo esercita sull’incolto
mostra che un qualche ordine viene desiderato nel tumulto dell’esistenza.
E persino le equazioni dei matematici dimostrano che la variazione è
desiderata tra la massima ripetizione, dal momento che esprimono
equivalenze e non identità esatte.
In breve, la ricorsività estetica è vitale, siologica, funzionale. Le
relazioni ricorrono, non gli elementi, e lo fanno in contesti differenti e con
conseguenze diverse, cosicché ogni ricorrenza è una novità e al tempo
stesso un ricordo. Nel soddisfare un’aspettativa suscitata essa crea anche
un’aspirazione nuova, stimola una curiosità inedita, determina una
tensione diversa. La completa integrazione di queste due funzioni, pure
opposte nella ri essione astratta, mediante gli stessi mezzi, e non usando
un espediente per stimolare l’energia e un altro per placarla, dà la misura
dell’artisticità della produzione e della percezione. Una indagine
scienti ca ben condotta scopre sperimentando, e dimostra ricercando; lo
fa grazie a un metodo che combina le due funzioni. E la conversazione,
l’opera teatrale, il romanzo e la costruzione architettonica, se c’è
un’esperienza ordinata, raggiungono uno stadio che al tempo stesso
registra e sintetizza il valore di ciò che precede, ed evoca e preannuncia ciò
che deve venire. Ogni chiusura è un risveglio, e ogni risveglio determina
qualcosa. Questo stato di cose de nisce l’organizzazione dell’energia.
Insistere sulla variazione del ritmo può sembrare un rimestare cose ovvie.
Sono però giusti cato non solo dal fatto che autorevoli teorie hanno
trascurato questa proprietà, ma anche dal fatto che c’è una tendenza a
circoscrivere il ritmo a qualche elemento particolare di un prodotto
artistico: per esempio, al tempo in musica, alle linee in pittura, alla metrica
in poesia; alle curve smussate o levigate in scultura. Tale limitazione va
sempre nella direzione di quella che Bosanquet ha chiamato «bellezza
facile»130 e, quando è sostenuta da un procedimento logico, teoricamente
o praticamente, sfocia in qualche materia che viene lasciata senza forma e
in qualche forma che viene arbitrariamente imposta a una materia.
Nella Primavera e nella Nascita di Venere del Botticelli si avverte con
facilità negli schemi ritmici il fascino dell’arabesco e della linea. Il suo
fascino può indurre facilmente uno spettatore a fare di questo elemento
ritmico, in modo più inconsapevole che esplicito, il criterio con cui
giudicare l’esperienza di altri dipinti. Ciò darà quindi luogo a una
sopravvalutazione del Botticelli rispetto ad altri pittori. Questa in sé è una
questione da poco, dal momento che è meglio avere sensibilità per un
aspetto formale che giudicare i quadri solo come illustrazioni. Più
importante è che ciò tende a generare insensibilità per i modi di realizzare
ritmi che sono al tempo stesso più solidi e più sottili: come le relazioni di
piani, di masse, di colori non nettamente delineate. Di nuovo,
l’adeguatezza della scultura greca come mezzo per esprimere la gura
umana utilizzando piani levigati e smussati merita l’ammirazione destata
dalle statue di Fidia. Non va però bene quando questo particolare modulo
ritmico viene assunto come criterio unico. In tal caso si ottunde la
percezione di ciò che è caratteristico delle opere migliori della scultura
egiziana, dovuto alla relazione tra grandi masse, della scultura negra con le
sue acute spigolosità, di opere come quelle di Epstein131 che dipendono in
maniera così ampia da ritmi di luce ottenuti frammentando continuamente
le super ci.
Gli stessi esempi chiariscono la separazione tra sostanza e forma che si
veri ca quando si circoscrive il ritmo alla variazione e al ricorrere di un
singolo tratto. Idee comuni, consigli morali consolidati, temi da romanzo
convenzionale come l’amore che un certo Darby nutre per una certa Joan,
il fascino consueto di oggetti come la rosa o il giglio, diventano più
piacevoli quando vengono rivestiti dalla rima e scanditi dall’incalzare del
metro. Ma in questi casi alla ne ci viene solamente ricordato in un modo
gradevole, che è talvolta occasione di un brivido di piacere, ciò di cui
abbiamo già fatto esperienza. Quando tutti i materiali sono pervasi dal
ritmo, il tema o “soggetto” si trasforma in un nuovo contenuto. Si veri ca
quell’improvvisa magia che ci dà il senso di una rivelazione interiore
provocata da qualche cosa che credevamo fosse nota per intero. In breve,
la reciproca compenetrazione132 di parti e intero, che come si è visto fa di
un oggetto un’opera d’arte, si ottiene quando tutte le componenti di
un’opera, si tratti di un quadro, un dramma, una poesia o un edi cio, si
trovano in una connessione ritmica con tutti gli altri elementi dello stesso
genere – linea con linea, colore con colore, spazio con spazio,
illuminazione con luce e ombra in un dipinto – e tutti questi fattori
distintivi si rafforzano a vicenda come variazioni che formano
un’esperienza complessa integrata. Sarebbe pedante oltre che ingeneroso
negare in assoluto qualità estetica a un oggetto che sia contraddistinto
sotto qualche aspetto da ritmi che consolidano e organizzano le energie in
gioco quando si fa esperienza. Ma la misura oggettiva della grandezza sta
proprio nella varietà e nella portata di fattori che, poiché sono ritmici gli
uni nei confronti degli altri, continuano progressivamente a proteggersi e a
sostenersi formando l’esperienza in atto.
È stato fatto un tentativo per difendere la distinzione tra sostanza e forma
nelle opere d’arte contrapponendo “adeguatezza” e “grandezza”. Si è
detto che l’arte è bella quando la forma è perfetta; è invece grande in forza
della portata e del peso intrinseci al contenuto trattato, malgrado la
maniera con cui lo si tratta non sia meno bella. Per illustrare questa
presunta distinzione sono stati usati i romanzi di Jane Austen e Walter
Scott. Non riesco a capire come ciò sia valido. Posto che rispetto ai romanzi
della Austen quelli di Scott siano più grandi per portata e ampiezza ma
meno belli, la causa è che, mentre nessuna fase dei mezzi impiegati viene
portata a compimento in modo altrettanto perfetto come nel solo medium
in cui eccelle Jane Austen, c’è una maggior porzione del contenuto in cui
si raggiunge un certo livello di forma. La questione non sta nella
contrapposizione forma e contenuto, ma nel numero di tipi di relazioni
formali che operano contemporaneamente. Uno stagno limpido, una
gemma, una miniatura, un manoscritto miniato, un racconto breve
possiedono una loro propria perfezione, ciascuno nel suo genere. La
singola qualità che domina in ognuno di essi può essere portata a
compimento in maniera più adeguata in oggetti di maggiore portata e
complessità rispetto a un singolo sistema di relazioni. Ma in tali oggetti è la
moltiplicazione degli effetti, ove questi conducano a un’esperienza
uni cata, a renderli “più grandi”.
Quando si tratta di tecnologia, economia domestica o di organizzazione
sociale, non è necessario che ci venga detto che la razionalità,
l’intelligibilità, si misura in base al co-adattamento ordinato di mezzi che
procedono verso un ne comune. L’assurdità è l’annullamento reciproco
portato al suo completamento, che diventa estetico o “comico” se
realizzato con successo. In modo analogo, sappiamo che l’abilità pratica di
una persona è determinata dalla sua capacità di mobilitare diversi mezzi e
strategie per ottenere un grande risultato con il massimo di pro tto; e che
l’economia diventa esteticamente sgradevole quando viene imposta
all’attenzione come fattore separato, mentre la sfera dei mezzi è sfarzosa, e
non frivola ostentazione, nel caso in cui ad essa corrisponda un risultato di
ampia portata. Sappiamo poi anche che il pensare consiste nell’ordinare
diversi signi cati in modo da indirizzarli verso una conclusione che li
giusti chi tutti e in cui tutti siano ricapitolati e conservati. Ciò di cui siamo
forse meno consapevoli è che questa organizzazione delle energie che
indirizza progressivamente verso un intero nale in cui si fondono i valori
di tutti i mezzi e di tutti i media, è l’essenza dell’arte bella.
Nella vita quotidiana, sia in pratica che in teoria, l’organizzazione è
meno diretta e il senso della conclusione o del perfezionamento giunge,
almeno relativamente, solo alla ne anziché sopravvenire ad ogni stadio. Il
fatto che il senso di completamento sia posposto, che non ci sia un
continuo perfezionarsi, ha ovviamente come effetto di ritorno la riduzione
dei mezzi impiegati allo stato di meri mezzi. Essi sono condizioni
antecedenti indispensabili, ma non componenti intrinseche del ne. In
altre parole, in tali casi l’organizzazione delle energie è frammentaria, una
energia subentra all’altra, mentre nel processo artistico tale organizzazione
è progressiva e cumulativa. E così veniamo ricondotti al ritmo. Infatti c’è
ritmo ogni volta che ciascun passo in avanti è allo stesso tempo sintesi e
compimento di ciò che precede, e ogni perfezionamento fa crescere in
tensione l’aspettativa.
Nella vita quotidiana una buona parte del nostro spingerci avanti è
determinata da necessità esterne invece che da un movimento interno
come quello delle onde del mare. Analogamente, una buona parte del
nostro riposo è recupero dall’esaurimento; anch’esso, dunque, è
determinato da qualcosa di esterno. Nell’ordinamento ritmico, ogni
chiusura e ogni sospensione, come la pausa in musica, mette in
connessione oltre a de nire limiti e individui. Una pausa in musica non è
un vuoto, ma è un silenzio ritmico che scandisce quel che si è fatto
trasmettendo, al tempo stesso, un impulso in avanti, e non arrestando il
processo al punto che de nisce. Quando guardiamo un quadro o leggiamo
una poesia o un dramma, lo stesso aspetto lo cogliamo talvolta nella sua
qualità di de nizione e conclusione, talvolta nella sua funzione transitoria.
Normalmente il modo in cui lo cogliamo dipende dalla direzione del
nostro interesse in quel punto particolare della nostra esperienza. Ci sono
però prodotti artistici in cui un elemento insiste a esser colto in un solo
modo. Allora c’è quel genere di restrizione che si riscontra in pittura
quando si sopravvaluta la linea nella scuola orentina; o la luce in
Leonardo, e in Raffaello sotto l’in uenza di Leonardo; o l’atmosfera negli
impressionisti convinti. È estremamente dif cile raggiungere un perfetto
equilibrio di miscele che fanno procedere e pause che accentuano e
de niscono, e si può trarre un’autentica soddisfazione estetica da oggetti
in cui non si realizza tale equilibrio. Ma in questi casi l’organizzazione
dell’energia è tuttavia parziale.
Il carattere attivo, in quanto distinto da quello morfologico, del ritmo di
agire e subire, di pause che de niscono e spinte in avanti, è reso evidente
in arte dal fatto che l’artista usa ciò che normalmente si considera brutto
per ottenere un effetto estetico: colori contrastanti, suoni discordanti,
cacofonie in poesia, zone apparentemente buie e scure o per no
semplicemente vuote – come in Matisse – in pittura. È il modo in cui la
cosa è connessa che conta. L’esempio consueto più adatto è il ricorso di
Shakespeare al comico nel mezzo di una tragedia. Fa più che allentare la
tensione dalla parte dello spettatore. Ha una funzione più intrinseca in
quanto dà risalto alla qualità tragica. Qualsiasi prodotto la cui qualità non
sia di un genere molto “facile” distorce e dissocia ciò che di solito è
connesso. La distorsione che si riscontra nei dipinti soddisfa l’esigenza di
qualche ritmo particolare. Ma fa di più. Spinge a de nire valori di
percezione che nell’esperienza ordinaria sono nascosti a causa
dell’abitudine. Bisogna superare la comune prevenzione per riuscire ad
attivare il grado di energia richiesto da un’esperienza estetica.
Purtroppo quando si scrive di teoria estetica si è costretti a parlare in
termini generali, poiché è impossibile presentare l’opera in cui il materiale
sussiste nella sua forma individuale. Mi occuperò però di un esempio
schematico tratto da un dipinto realmente esistente133. Guardando il
particolare oggetto che ho in mente, l’attenzione viene catturata anzitutto
dagli oggetti nei quali le masse si dirigono verso l’alto: la prima
impressione è quella del movimento dal basso verso l’alto. Dire ciò non
signi ca affermare che lo spettatore sia esplicitamente consapevole di ritmi
in senso verticale, ma che, se si ferma ad analizzare, egli si accorge che la
prima e dominante impressione è determinata da schemi costituiti in tal
modo da ritmi. Nel frattempo l’occhio si muove anche attraverso il quadro
sebbene l’interesse resti concentrato sugli schemi che vanno verso l’alto.
Poi si veri ca una interruzione, un arresto, una pausa di sospensione non
appena la visione giunge all’angolo inferiore opposto su una massa
de nita, che invece di adeguarsi agli schemi verticali sposta l’attenzione sul
peso delle masse disposte in orizzontale. Qualora la composizione del
quadro fosse cattiva, la variazione agirebbe come un’interruzione che
disturba, come una frattura nell’esperienza invece che come un
riorientamento dell’interesse e dell’attenzione che in tal modo amplia il
signi cato dell’oggetto. Così com’è, la chiusura di una fase dell’ordine dà
un nuovo assetto all’aspettativa e questa è appagata nel momento in cui la
visione torna indietro attraverso una serie di aree colorate dal carattere di
tipo prevalentemente orizzontale. Poi, non appena questa fase della
percezione raggiunge il proprio completamento, l’attenzione viene attirata
dalla variazione ordinata del colore caratteristica di queste masse.
Successivamente, quando l’attenzione si riorienta verso gli schemi verticali
– tornando al punto da cui siamo partiti – abbandoniamo il disegno
costituito dalla variazione di colore e scopriamo che l’attenzione è diretta
verso intervalli spaziali determinati da una serie di piani che arretrano e
s’intrecciano. Fin dall’inizio, nella percezione l’impressione di profondità,
certamente implicita, è resa esplicita da questo particolare ordine ritmico.
Nella formazione di questa percezione pittorica sono stati chiamati ad
agire con particolare intensità quattro tipi di energia organica, fusi
nell’impressione complessiva iniziale, e tuttavia non vi è stata alcuna
interruzione nell’esperienza. E la storia non termina qui. Quando si
diventa maggiormente consapevoli dei fattori che costituiscono la
profondità spaziale, in gran lontananza si delinea una scena. Questa scena,
secondo la relativa distanza indicata, è caratterizzata da una marcata
luminosità. La visione si adatta quindi a percepire in maniera più de nita i
ritmi di luminosità che conferiscono un valore accresciuto al quadro nel
suo complesso. Abbiamo qui più o meno cinque sistemi di ritmo. Ognuno
di essi, se lo si esaminasse ulteriormente, rivelerebbe al proprio interno
ritmi secondari. Ogni ritmo, primario o secondario, interagisce con tutti gli
altri per coinvolgere sistemi diversi di energia organica. Ma essi devono
anche interagire tra loro in modo tale che l’energia non sia solo attivata,
ma anche coerentemente organizzata. Talvolta in un oggetto di un genere
nuovo si prova una sorpresa sconcertante. Ciò accade in oggetti talmente
eccentrici da essere di scarso valore; ma capita anche con opere di elevato
valore estetico alla loro prima apparizione. Occorre tempo per capire se
l’urto è provocato da fratture intrinseche all’organizzazione dell’oggetto o
dalla mancanza di preparazione in chi percepisce.
Può sembrare che ciò che è stato detto esageri l’aspetto temporale della
percezione. Senza dubbio ho dato ampio spazio a elementi che di solito
sono in misura maggiore o minore ridotti. Ma in nessun caso ci può essere
percezione di un oggetto se non in un processo che si sviluppa nel tempo.
Mere eccitazioni, sì; non però un oggetto che sia percepito, anziché
semplicemente riconosciuto come oggetto di un genere familiare. Se la
nostra visione del mondo consistesse di una successione di occhiate
estemporanee, non ci sarebbe una visione del mondo né di alcuna cosa al
suo interno. Se il fragore e la corrente impetuosa del Niagara non fossero
altro che un rumore e un colpo d’occhio del momento, non si
percepirebbero né il suono né l’aspetto di un qualche oggetto, e ancor
meno di quel particolare oggetto chiamato Cascate del Niagara. Non lo si
coglierebbe neppure come rumore. Né la mera continuazione isolata del
rumore esterno che martella l’orecchio produrrebbe altro effetto se non
maggiore confusione. Non si percepisce nulla se non quando sensi diversi
lavorano in relazione reciproca, se non quando l’energia di un “centro” si
comunica agli altri, stimolando così nuove modalità di risposte motorie che
a loro volta suscitano nuove attività sensoriali. Non c’è scena o oggetto
percepiti nché queste diverse energie senso-motorie non sono coordinate
tra loro. Ma anche quando – in condizioni impossibili da soddisfare nella
realtà – fosse attivo solo un singolo senso. Se è l’occhio l’organo
prevalentemente attivo, allora la qualità cromatica è condizionata da
qualità di altri sensi chiaramente attivi in esperienze precedenti. In questo
senso è condizionata da una storia; c’è un oggetto con un passato. E
l’impulso degli elementi motori che sono coinvolti genera un’estensione
nel futuro, predisponendosi a ciò che deve venire e in un certo senso
preannunciando ciò che deve accadere.
Negare ritmo a quadri, edi ci e statue, o affermare che si trova in essi
solo metaforicamente, è fatto che si basa sull’ignoranza della natura
intrinseca di ogni percezione. Naturalmente talvolta si effettuano
riconoscimenti virtualmente istantanei. Tuttavia, ciò accade solo quando,
grazie a una serie di esperienze passate, il sé è diventato esperto in
determinate direzioni, magari solo nell’afferrare a colpo d’occhio che un
certo oggetto è un tavolo o che un dipinto è di un particolare artista, ad
esempio di Manet. Dal momento che la percezione attuale utilizza
un’organizzazione di energie elaborata progressivamente nel passato non
c’è motivo di eliminare la qualità temporale dalla percezione. E in ogni
caso, se la percezione è estetica, un’identi cazione immediata ne è solo
l’inizio. Non vi è alcun valore estetico intrinseco nell’identi care un
quadro come questa o quest’altra cosa. L’identi cazione può destare
l’attenzione e indurre a indugiare sul dipinto di modo che parti e relazioni
siano chiamate a comporre un intero.
Siamo appena consapevoli di qualcosa di metaforico quando di un
quadro o di un racconto diciamo che è morto e di un altro che ha vita.
Spiegare esattamente che cosa intendiamo quando diciamo ciò non è
facile. Eppure, la consapevolezza che una cosa sia debole, che un’altra
abbia la pesante inerzia delle cose inanimate, mentre un’altra sembri
muoversi dall’interno, sorge spontaneamente. Deve esserci qualcosa
nell’oggetto che la suscita. Ora, a distinguere ciò che è vivo da ciò che è
morto non è né l’agitazione né la confusione, e nemmeno un quadro si
muove in senso letterale. L’essere vivente è caratterizzato dall’avere un
passato e un presente; e dall’averli perché li possiede nel presente, non solo
esteriormente. E io affermo che è proprio quando da un prodotto artistico
ricaviamo il senso di avere a che fare con una carriera, con una storia,
percepita in un punto particolare del suo sviluppo, che abbiamo
l’impressione della vita. Ciò che è morto non si estende nel passato, né
suscita un interesse per ciò che deve venire.
L’elemento comune a tutte le arti, tecnologiche e utili, è l’organizzazione
dell’energia come mezzo per produrre un risultato. Nei prodotti che ci
colpiscono in quanto semplicemente utili abbiamo di mira solo qualcosa
che è al di là dell’oggetto, e se non siamo interessati a quest’altro prodotto
siamo indifferenti all’oggetto stesso. Ci potremmo passar sopra senza
vederlo davvero, oppure potremmo osservarlo pigramente come si guarda
senza impegno una cosa curiosa che ci è stato detto essere degna di nota.
Nel caso dell’oggetto estetico l’oggetto agisce – come ovviamente può fare
anche un oggetto che si presta a un uso esteriore – per far cooperare
energie che sono state impegnate separatamente avendo avuto a che fare
con tante cose diverse in occasioni diverse, e per conferir loro quella
particolare organizzazione ritmica che abbiamo chiamato (pensando
all’effetto e non al modo della sua produzione) chiari cazione,
intensi cazione, concentrazione. Le energie che si conservano in uno stato
potenziale in rapporto l’una all’altra, e che comunque sono attuali rispetto
a se stesse, si sollecitano e si rafforzano a vicenda direttamente in funzione
dell’esperienza che risulta.
Ciò che è vero per quel che concerne la produzione originaria è vero
anche per quel che concerne la percezione nella fruizione. Parliamo di
percezione e del suo oggetto. Ma la percezione e il suo oggetto si formano
e si completano in una sola e identica operazione continua. Quel che si
chiama l’oggetto, la nuvola, il ume, l’indumento, si carica di un’esistenza
indipendente da un’esperienza concreta; ciò è ancor più vero per la
molecola di carbonio, lo ione d’idrogeno, per le entità della scienza in
generale. Ma l’oggetto della – o meglio nella – percezione non è l’oggetto
di una specie in generale, non è un campione di nuvola o di ume, bensì
questa cosa individuale che esiste qui ed ora con tutte le peculiarità
irripetibili che accompagnano e contrassegnano tali esistenze. In quanto
oggetto-della-percezione esso esiste esattamente in quella stessa
interazione con una creatura vivente che costituisce l’attività del percepire.
Ora, per pressione di circostanze esterne o per rilassatezza interiore, gli
oggetti di gran parte della nostra percezione ordinaria mancano di
completezza. Si taglia corto quando li si riconosce; cioè quando l’oggetto
viene identi cato come oggetto di un genere, o di una specie entro quel
genere. Infatti tale riconoscimento basta a metterci in grado di utilizzare
l’oggetto per scopi consueti. Basta sapere che quegli oggetti sono nuvole
cariche di pioggia per indurci a prender su un ombrello. Rendersi
pienamente conto percettivamente di che cosa sono esattamente le singole
nuvole potrebbe addirittura impedire di utilizzarle come segno per uno
speci co, circoscritto tipo di comportamento. D’altro canto, percezione
estetica designa una percezione piena e il suo correlato, oggetto o evento.
Una percezione di tal genere è accompagnata da, o piuttosto consiste in
un rilascio di energia nella sua forma più pura; una forma che, come
abbiamo visto, è organizzata e dunque ritmica.
Non occorre pertanto avere la sensazione di parlare metaforicamente, né
occorre giusti carsi contro l’accusa di animismo quando si dice che un
dipinto è vivo e che le sue gure, o anche che forme architettoniche e
scultoree, esprimono movimento. La Deposizione di Tiziano134 fa più che
suggerire il trasporto di un peso abbandonato; lo comunica ovvero lo
esprime. Le ballerine di Degas sono davvero sulla punta dei piedi per
ballare; i bambini dei dipinti di Renoir sono intenti alle loro letture o al
loro cucito. In Constable il verde è umido; e in Courbet una piccola valle
stilla rugiada e le rocce scintillano di fresca umidità. Quando i pesci non
guizzano o non se ne stanno pigramente a mezz’acqua, quando le nuvole
non uttuano o non corrono via, quando gli alberi non ri ettono la luce,
nulla sollecita la giusta energia necessaria a realizzare l’energia piena
dell’oggetto. In tal caso, se la percezione è integrata da reminiscenze o
associazioni sentimentali derivate dalla letteratura – come solitamente
avviene in dipinti comunemente considerati poetici –, ha luogo
un’esperienza estetica simulata.
I dipinti che sembrano morti in tutto o in parte sono quelli in cui gli
intervalli non fanno che arrestare invece di spingere anche in avanti. Sono
“buchi”, spazi vuoti. Quelli che chiamiamo punti morti sono, dal lato di
chi percepisce, le cose che sottolineano un’organizzazione parziale o
fallimentare dell’energia verso l’esterno. Ci sono opere d’arte che non
fanno che eccitare, nelle quali si suscita attività senza che vi sia la
posatezza del soddisfacimento, senza raggiungere la pienezza nei termini
propri del medium. L’energia è lasciata senza organizzazione. Le opere
teatrali sono allora melodrammatiche; i dipinti di nudo sono pornogra ci;
l’opera di nzione letta ci lascia scontenti del mondo in cui siamo
purtroppo costretti a vivere senza l’opportunità dell’avventura romantica e
dell’alto eroismo suggerita dai libri delle favole. In quei romanzi in cui i
personaggi sono burattini dei loro autori la nostra avversione deriva dal
fatto che la vita è simulata, non messa in scena. La simulazione della vita
ottenuta mettendo in mostra animazione e vivacità ci lascia con lo stesso
senso irritante di incompiutezza che rimane dopo continue e futili
chiacchiere.
Forse a qualcuno è sembrato che io abbia esagerato l’importanza del
ritmo a scapito della simmetria. Stando alle parole esplicite, ho fatto così.
Ma solo per quel che concerne le parole. Infatti l’idea di energia
organizzata signi ca che ritmo ed equilibrio non possono essere separati,
sebbene possano essere distinti con il pensiero. In breve e
schematicamente, quando l’attenzione indugia soprattutto sui tratti e sugli
aspetti nei quali si manifesta l’organizzazione compiuta, diventiamo
particolarmente consapevoli della simmetria, della misura che una cosa
assume in relazione a un’altra. Simmetria e ritmo sono la stessa cosa sentita
secondo la differenza di enfasi che è dovuta a un attento interesse.
Quando i tratti che caratterizzano peculiarmente la percezione sono gli
intervalli che de niscono una pausa e il relativo riempimento, ci
accorgiamo della simmetria. Quando ci interessiamo del movimento, degli
andirivieni invece che dei punti di arrivo, prende rilievo il ritmo. Ma in
ogni caso la simmetria, essendo l’equilibrio tra energie contrastanti,
implica il ritmo, mentre il ritmo ha luogo solo quando il movimento è
intervallato da spazi di pausa, e pertanto implica la misura.
Naturalmente, a volte in un prodotto artistico i due elementi si separano.
Ma questo fatto signi ca che il prodotto non è esteticamente compiuto,
che da un lato ci sono buchi, punti morti e, dall’altro, eccitazioni
immotivate e irrisolte. Nell’esperienza ri essiva come tale, nell’indagine
sollecitata da situazioni problematiche, c’è un ritmo tra cercare e trovare,
tra la tensione verso una conclusione plausibile e l’approdo a ciò che per lo
meno è un tentativo di soluzione. Di norma, però, queste fasi sono troppo
secondarie per dotare il processo di una ingente qualità estetica. Quando
assumono importanza e si uniscono al contenuto, c’è il medesimo genere
di consapevolezza che si ha in presenza di qualsiasi costruzione artistica.
In ciò che è solo una simulazione accademica dell’arte, d’altro canto,
l’equilibrio non aderisce al contenuto ma è una posa gratuita che, essendo
isolata dal movimento, diventa col tempo estremamente tediosa.
La connessione tra intensità ed estensione e di entrambe con la tensione
non è questione di parole. Non c’è ritmo se non quando c’è un’alternarsi
di compressioni e distensioni. La resistenza impedisce lo sfogo immediato
e accumula una tensione che rende intensa l’energia. Il suo scioglimento
da questo stato di imprigionamento prende necessariamente la forma di un
progressivo distendersi. In un quadro, i colori caldi e freddi, i colori
complementari, luce e ombra, alto e basso, sfondo e primi piani, destra e
sinistra sono, parlando in modo schematico, i mezzi con cui si produce
quel tipo di contrasto in un’immagine che sfocia in un equilibrio. Nei
dipinti antichi questa simmetria si realizza principalmente per mezzo di
contrasti di posizione tra destra e sinistra, o per un’ovvia disposizione in
diagonale. Si ha così un’energia di posizione e, di conseguenza, persino in
queste immagini la simmetria non è meramente spaziale. Essa però è
debole, come nelle immagini a silhouette135 del tredicesimo e
quattordicesimo secolo, dove la gura principale è collocata al centro
esatto del quadro mentre gure tra loro pressoché identiche sono disposte
secondo una corrispondenza laterale quasi esatta. In seguito si preferirono
forme piramidali. Tali disposizioni devono gran parte della loro forza a
fattori esterni all’immagine. La stabilità degli oggetti viene ottenuta
rievocando in noi modi familiari con cui si genera equilibrio. Così l’effetto
della simmetria nell’immagine si deve a un’associazione, e non è
intrinseco. La tendenza in pittura è stata di sviluppare relazioni tali da
impedire che l’equilibrio venga indicato topogra camente selezionando
gure particolari; esso è invece una funzione dell’intera immagine. Il
“centro” dell’immagine non è spaziale, ma è l’epicentro delle forze che
interagiscono.
De nire la simmetria in termini statici corrisponde esattamente all’errore
in base al quale il ritmo viene concepito come il ricorrere di elementi.
L’equilibrio è bilanciamento, in cui il problema è di distribuire i pesi
tenendo conto del modo in cui essi agiscono l’uno sull’altro. I due piatti
della bilancia sono in equilibrio quando si aggiustano il loro spingersi e
tirarsi a vicenda. E ci sono veramente (e non potenzialmente) bilance solo
nel momento in cui i loro piatti operano combattendosi tra loro per
raggiungere un equilibrio. Poiché gli oggetti estetici dipendono da
un’esperienza che si compie progressivamente, la misura nale
dell’equilibrio ovvero della simmetria è la capacità dell’intero di tenere
insieme al suo interno la più grande varietà e quantità di elementi opposti.
La connessione tra equilibrio e pressione dei pesi è intrinseca. Un lavoro
in qualsiasi ambito viene svolto solo facendo interagire forze opposte –
come nei sistemi antagonistici dell’apparato muscolare. Pertanto in
un’opera d’arte tutto dipende dalla scala adottata – per questa ragione c’è
appena un passo dal sublime al ridicolo. Non c’è qualcosa come una forza
in sé forte o debole, grande o piccola. Miniature e quartine hanno una loro
perfezione e di per sé la grandezza è offensiva nella sua vuota
pretenziosità. Dire che è debole una parte di un dipinto, di un’opera
teatrale o di un romanzo, signi ca che qualche parte correlata è troppo
forte – e viceversa. In termini assoluti, nulla è forte o debole; forte o debole
è il modo in cui qualcosa agisce e subisce. Talvolta in uno scorcio
architettonico è sorprendente vedere come un edi cio basso
opportunamente collocato terrà insieme gli alti edi ci circostanti invece di
venirne annientato.
Il difetto più comune in opere che hanno qualche diritto a essere
chiamate opere d’arte è lo sforzo di acquisire forza esagerando un qualche
elemento. Inizialmente, come accade temporaneamente per ogni tipo di
best-seller, c’è una risposta immediata. Ma tali opere non durano. Col
passare del tempo diventa sempre più evidente che ciò che si è considerato
forza signi ca debolezza sul versante dei fattori che controbilanciano.
Nessun fascino sensuale, per quanto grande e intenso, è stucchevole se
viene contrapposto ad altri fattori. Ma isolata la sdolcinatezza è una delle
qualità che diventano più rapidamente vuote. In letteratura lo stile
“virile”136 si logora rapidamente poiché è evidente (sebbene solo
inconsciamente) che, malgrado la violenza del movimento, non si ostenta
vera forza dato che le energie che si contrappongono sono solo gure di
gesso e cartapesta. La forza apparente di un elemento va a scapito della
debolezza in altri elementi. Anche la sensazionalità di un romanzo o di
una messa in scena si deve esclusivamente a una mancanza di relazioni che
riguarda la qualità dell’intero e non un qualche episodio in se stesso. Un
critico ha osservato che le commedie di O’Neill soffrono di una mancanza
di rallentamenti; ogni cosa si muove troppo rapidamente e pertanto con
troppa facilità, e il risultato è un ingorgo. I pittori mentre lavorano sono
costretti a intervenire qua e là, non sull’intera super cie del quadro in una
volta. E sono consapevoli della necessità di “tener sotto” in ogni singolo
momento la parte su cui stanno lavorando. Ogni scrittore deve risolvere lo
stesso problema. Finché non è risolto, altre parti non vengono “messe
sotto”. Nella maggior parte dei casi l’analisi scoprirà che l’obiezione
estetica contro dosi di morale e di propaganda economica o politica nelle
opere d’arte si deve al peso eccessivo assunto da certi valori a scapito di
altri no a procurare noia invece di ristoro tranne che a chi vive uno stato
di entusiasmo unilaterale analogo.
La manifestazione di una singola forma di energia isolata sfocia in
movimenti non coordinati, poiché l’organismo umano è di fatto complesso
e pertanto richiede l’aggiustamento di molti fattori diversi. C’è una grande
differenza tra violenza e intensità d’azione. Se si osservano bambini piccoli
che intendono partecipare a un gioco, si riscontra una successione di
movimenti privi di relazione. Gesticolano, fanno capitomboli e rotolano,
ciascuno quasi esclusivamente per conto proprio, con scarso riferimento a
ciò che stanno facendo gli altri. Per no i gesti di uno stesso bambino
hanno poca consequenzialità. Un tale caso esempli ca, per contrasto, la
relazione artistica tra intensità ed estensione. Poiché l’energia non è
frenata da altri elementi che siano a un tempo antagonisti e cooperanti,
l’azione procede per scatti e contrazioni. C’è discontinuità. Quando
opposizioni reciproche rendono tesa l’energia, questa si dispiega in una
estensione ordinata. Il contrasto che è estremo nel caso, opposto a una
zuffa infantile, di un gioco ben costruito e ben eseguito si trova, in misura
minore, in tutti i casi in cui c’è un valore estetico contrappositivo. Dipinti,
edi ci, poesie, romanzi, tutti possiedono diversi gradi di volume – da non
confondere con la corposità. Dal punto di vista estetico essi sono spessi ed
esili, solidi e traballanti, ben intrecciati e sconnessi. Questa proprietà
dell’estensione, della varietà relativa, è la fase cinetica che contraddistingue
il rilascio delle energie che sono costrette in ordinati intervalli di
sospensione. Ma ancora una volta l’ordine di questi intervalli (che
costituiscono la simmetria dell’opera) non viene regolato sulla base di unità
di tempo o spazio. Quando esso è determinato in tal modo, l’effetto è
meccanico, come l’andamento altalenante di un verso dal ritmo facile. In
un prodotto artistico gli intervalli sono sempre regolari quando derivano
dal rafforzamento reciproco delle parti relativamente all’effetto di unità e
totalità. Ecco cosa si intende quando si dice che la simmetria è dinamica e
funzionale.
Quando si guarda un quadro o un edi cio si veri ca la stessa
compressione per accumulazione nel tempo che si veri ca quando si
ascolta musica, quando si legge una poesia o un romanzo, nell’assistere a
una rappresentazione teatrale. Nessuna opera d’arte può essere percepita
in un istante poiché allora non ci sarebbe modo di conservare e aumentare
la tensione, e quindi di effettuare quel rilascio e quella distensione che
danno volume a un’opera d’arte. Nella maggior parte delle opere
intellettuali, in tutte le opere salvo che in quei lampi evidentemente
estetici, dobbiamo procedere a ritroso; dobbiamo ripercorrere con
consapevolezza i passi precedenti e richiamare alla mente con chiarezza
particolari fatti e particolari idee. Andare avanti nel pensiero dipende da
queste escursioni coscienti della memoria nel passato. Ma solo quando la
percezione estetica si interrompe (per colpa dell’artista o del fruitore),
siamo costretti a tornare indietro, come quando mentre assistiamo ci
chiediamo che cosa è accaduto prima per riprendere il lo di ciò che
accade. Ciò che si ricava dal passato fa corpo in ciò che si percepisce al
momento, e lo fa in modo tale, comprimendosi così in quel punto, da
costringere la mente a protendersi verso ciò che sta per accadere. Più c’è di
compresso di ciò che viene dalle serie continue delle percezioni
precedenti, più è ricca la percezione presente e più è intenso l’impulso in
avanti. Grazie alla profondità della concentrazione, il rilascio di materiali
contenuti mentre ha luogo dà alle esperienze successive un’ampiezza
maggiore che comprende un numero più alto di certe peculiarità: è quel
che ho chiamato estensione e volume, e che corrisponde all’intensità
dell’energia dovuta al moltiplicarsi delle resistenze.
Di conseguenza separare tra loro ritmo e simmetria e dividere le arti in
temporali e spaziali è più che una maldestra ingenuità. Si basa su un
principio che, quando vi ci si attiene, risulta deleterio per la comprensione
estetica. Inoltre, esso ha ora perduto quel sostegno dal lato della scienza
che una volta si credeva che avesse. Infatti, in virtù del carattere
dell’argomento che trattano i sici sono stati costretti ad ammettere che le
loro non sono unità di spazio e di tempo, ma unità di spazio-tempo. Fin
dall’inizio l’artista ha tradotto in azioni, se non in pensieri consapevoli,
questa tarda scoperta scienti ca. Egli, infatti, ha sempre di necessità
trattato con materiale percettivo invece che concettuale, e in ciò che si
percepisce l’elemento spaziale e quello temporale vanno sempre insieme.
È interessante notare che in ambito scienti co questa scoperta venne fatta
quando ci si rese conto che il processo di astrazione concettuale non
poteva essere portato no al punto di escludere l’atto dell’osservazione
senza distruggere la possibilità della veri ca.
Pertanto, quando il ricercatore scienti co è stato costretto a considerare
le conseguenze dell’atto della percezione in rapporto al contenuto dei suoi
studi, è passato da spazio e tempo a un’unità che poteva descrivere solo
come spazio-tempo. Ha scoperto così un fatto che trova esempio in ogni
percezione comune. Infatti, l’estensione e il volume di un oggetto, le sue
proprietà spaziali, non si possono esperire – o percepire – direttamente in
un istante matematico, né le proprietà temporali degli eventi si possono
esperire se non come una qualche energia che rivela se stessa in un modo
estensivo. Quindi l’artista tratta le qualità temporali e spaziali del materiale
della percezione allo stesso modo in cui tratta l’intero contenuto della
percezione ordinaria. Seleziona, intensi ca e concentra per il tramite della
forma: ritmo e simmetria sono dunque di necessità la forma che il
materiale assume quando subisce le operazioni di chiari cazione e
ordinamento proprie dell’arte.
A prescindere dalla perdita del presunto avallo scienti co, la separazione
del temporale dallo spaziale nelle belle arti è sempre stata assurda. Come
ha detto Croce137, noi siamo speci camente (o separatamente) consapevoli
della sequenza temporale in musica e poesia e della co-esistenza spaziale in
architettura e pittura solo quando passiamo dalla percezione alla ri essione
analitica. Supporre di udire direttamente che i suoni musicali sono nel
tempo e di vedere direttamente i colori nel loro essere nello spazio,
signi ca attribuire a un’esperienza immediata un’interpretazione
successiva di essa dovuta alla ri essione. Vediamo intervalli e direzioni nei
quadri e udiamo distanze e volumi in musica. Se il movimento fosse
percepito solo in musica e la quiete solo in pittura, la musica sarebbe del
tutto priva di struttura e i quadri non sarebbero che scheletri scarni cati.
Ciò nonostante, pur essendo sbagliato tracciare una distinzione tra arti
spaziali e arti temporali dal momento che tutti gli oggetti d’arte hanno a
che fare con la percezione e la percezione non è istantanea, la musica,
nella sua evidente enfasi temporale, rende chiaro forse meglio di ogni altra
arte il senso in base a cui la forma è l’integrazione motrice di
un’esperienza. In musica, forma per la quale anche chi ne è esperto deve
trovare un linguaggio spaziale e che anche chi ne è esperto vede come una
struttura, la forma si sviluppa nel corso dell’ascolto del brano. Qualsiasi
punto dello sviluppo musicale, cioè ogni suono, è ciò che è in
quell’oggetto – o in quella percezione – musicale in virtù di ciò che c’è
stato prima e di ciò che musicalmente sta per irrompere o viene
annunciato. Una melodia viene de nita dalla tonica, rispetto a cui si
determina un’attesa di ritorno quale tensione dell’attenzione. La “forma”
del brano diviene forma mentre si sviluppa l’ascolto. Inoltre, ogni parte del
brano e ogni sua sezione trasversale ha esattamente l’equilibrio e la
simmetria, in accordi e armonie, che ha un dipinto, una statua o un
edi cio. Una melodia è un accordo che si sviluppa nel tempo.
Il termine “energia” è stato utilizzato molte volte in questa discussione.
Forse a qualche grande intellettuale sembra fuori luogo insistere sull’idea
di energia in connessione con l’arte bella. Tuttavia ci sono certi luoghi
comuni che di solito si enunciano a proposito dell’arte che non possono
essere chiariti senza considerare centrale il fatto dell’energia: la sua
capacità di commuovere ed eccitare, di calmare e tranquillizzare. E
certamente o ritmo ed equilibrio sono entrambi caratteri estranei all’arte,
oppure l’arte, visto il loro ruolo fondamentale, si può de nire solo come
organizzazione di energie. Per quel che concerne ciò che l’opera d’arte fa
a noi e per noi, non vedo che due alternative. O la sua azione si deve al
fatto che una qualche essenza trascendente (di solito chiamata “bellezza”)
scende sull’esperienza dall’esterno, oppure l’effetto estetico è dovuto alla
peculiarissima trascrizione dell’energia delle cose del mondo che compie
l’arte. Se ci si trova tra queste due alternative, non so come un semplice
ragionamento possa determinare la scelta. Ma può aiutare sapere che cosa
è in gioco in questa scelta.
Assumendo quindi la mia posizione sulla connessione tra effetto estetico
e qualità di ogni esperienza purché unitaria, chiederei: come può l’arte
essere espressiva e comunque non imitativa, ovvero pedissequamente
rappresentativa, se non selezionando e ordinando le energie grazie alle
quali le cose agiscono su di noi e ci interessano? Se l’arte è in un qualche
senso riproduttiva senza però riprodurre né dettagli né caratteristiche
generiche, ne consegue necessariamente che l’arte opera selezionando
quelle potenzialità all’interno delle cose grazie alle quali un’esperienza –
qualsiasi esperienza – ha signi catività e valore. L’eliminazione liquida le
forze che confondono, distraggono e indeboliscono. Ordine, ritmo ed
equilibrio vogliono semplicemente dire che le energie signi cative per
l’esperienza stanno agendo al loro meglio.
Il termine “ideale” è stato sminuito dal comune uso acritico e dall’uso
nel discorso loso co a scopi apologetici per mascherare i contrasti e le
crudeltà dell’esistenza. Ma c’è un senso determinato in cui l’arte è ideale –
ed è proprio il senso appena indicato. Attraverso selezione e
organizzazione, quei tratti che fan sì che ogni esperienza diventi
un’esperienza degna di essere fatta sono predisposti dall’arte a una
percezione adeguata. Malgrado tutta l’indifferenza e l’ostilità della natura
per gli interessi umani, ci deve essere una qualche rispondenza tra natura e
uomo, altrimenti la vita non potrebbe sussistere. Nell’arte vengono messe
in libertà le forze che sono congeniali, che danno sostegno non a questo o
a quello scopo particolare, ma ai processi della stessa esperienza di cui si
fruisce. Quel rilascio gli conferisce qualità ideale. Infatti, quale ideale può
francamente nutrire l’uomo se non l’idea di un ambiente in cui tutte le
cose concorrono a perfezionare e sostenere i valori esperiti in modo
occasionale e parziale?
Uno scrittore inglese, credo Galsworthy, da qualche parte ha de nito
l’arte «l’espressione immaginativa dell’energia che, attraverso una
concrezione tecnica di sentimento e percezione, tende a riconciliare
l’individuale con l’universale suscitando nell’individuo un’emozione
impersonale»138. Le energie che costituiscono gli oggetti e gli eventi del
mondo e che pertanto determinano la nostra esperienza sono
l’“universale”. La “riconciliazione” è il conseguimento, in una forma
immediata e non argomentativa, di periodi di cooperazione armoniosa tra
l’uomo e il mondo in esperienze che sono complete. L’emozione che ne
risulta è “impersonale” perché riguarda non la sorte personale ma
l’oggetto alla cui costruzione il sé si è abbandonato con devozione. La
fruizione è altrettanto impersonale nella sua qualità emotiva, poiché
anch’essa implica costruzione e organizzazione di energie oggettive.
9 – La sostanza comune delle arti

Quale contenuto è appropriato all’arte? Ci sono materiali


intrinsecamente adatti e altri non adatti? Oppure nessun materiale è
volgare e impuro dal punto di vista dell’elaborazione artistica? All’ultima
domanda la risposta da parte delle stesse arti è stata fermamente e
ripetutamente orientata in senso affermativo. Tuttavia c’è una tradizione
duratura che ribadisce che l’arte dovrebbe effettuare distinzioni improprie.
Una breve ricognizione sul tema può quindi servire a introdurre
l’argomento speci co di questo capitolo, cioè gli aspetti della materia
propria dell’arte comuni a tutte le arti.
In un altro contesto ho avuto occasione di accennare alla differenza tra le
arti popolari di un periodo e le arti uf ciali. Anche quando le arti
privilegiate si sono affrancate dal mecenatismo e dal controllo del clero e
dei governanti, è rimasta la distinzione tra generi sebbene il termine
“uf ciale” non sia più una designazione adeguata. La teoria loso ca si è
interessata solo di quelle arti che ottenevano il marchio e il sigillo di
riconoscimento dalla classe che aveva reputazione sociale e autorità. Le
arti popolari sono sicuramente orite, ma senza riscuotere affatto
attenzione dalla cultura colta. Esse non erano degne di esser menzionate
nelle discussioni teoriche. Probabilmente non erano nemmeno considerate
come arti.
Tuttavia, invece di occuparmi della prima formulazione di una
distinzione impropria tra le arti, ne sceglierò una moderna che sia
rappresentativa, e indicherò poi brevemente alcuni aspetti della rivolta che
ha abbattuto le barriere un tempo innalzate. Secondo la tesi che ci
propone Sir Joshua Reynolds, essendo i soli soggetti adatti a essere trattati
dalla pittura quelli che hanno «un interesse generale», essi dovrebbero
essere «un qualche esempio eminente di azione eroica o di eroica
sofferenza», come «i grandi eventi della storia e dei miti greci e romani
[…]. Tali sono anche i soggetti più importanti della storia biblica». A suo
parere tutti i grandi dipinti del passato appartengono a questa «scuola
storica», ed egli prosegue dicendo che «su questo principio la scuola
romana, orentina e bolognese hanno plasmato il loro metodo e grazie ad
esso hanno meritatamente ottenuto il massimo plauso» – ove l’omissione
della scuola veneta e della scuola amminga, accanto all’elogio della scuola
eclettica, è commento suf ciente sul versante strettamente artistico139. Che
cosa avrebbe detto se fosse riuscito a prevedere le ballerine di Degas, le
carrozze ferroviarie di Daumier – addirittura di terza classe – o le mele, i
tovaglioli e i piatti di Cézanne?
In letteratura la tradizione dominante sul piano teorico è stata simile. Si è
ripetutamente sostenuto che Aristotele aveva delimitato una volta per tutte
l’ambito della tragedia, il genere letterario più elevato, affermando che il
suo materiale appropriato erano le disgrazie dei nobili e degli altolocati,
mentre le disgrazie della gente comune erano intrinsecamente adatte per il
genere più basso della commedia140. Diderot ha in pratica preannunciato
una rivoluzione storica in ambito teorico quando ha detto che c’era
bisogno di tragedie borghesi e di portare in scena, anziché solo re e
principi, i privati cittadini che subiscono rovesci terribili che ispirano pietà
e terrore. E ha anche affermato che le tragedie familiari, malgrado abbiano
un altro tono e un altro meccanismo rispetto al dramma classico, possono
avere una loro sublimità141 – una previsione che si è indubbiamente
avverata grazie a Ibsen.
All’inizio del diciannovesimo secolo, dopo quello che Housman de nisce
il periodo della poesia misti cata o contraffatta142, del verso mascherato da
poesia, le Lyrical Ballads di Wordsworth e di Coleridge diedero inizio a
una rivoluzione. Uno dei principi che animavano questi due autori fu
descritto da Coleridge come segue: «quanto alla seconda classe di poesie,
si sarebbero scelti soggetti della vita quotidiana; i personaggi e gli
avvenimenti sarebbero stati quelli che si possono trovare in qualsiasi
villaggio o nelle vicinanze, dove vi sia una mente sensibile e meditativa
capace di ricercarli, o di vederli quando si presentano»143. C’è appena
bisogno di far notare che molto prima del tempo di Reynolds una
rivoluzione simile era bene avviata in pittura. Essa aveva fatto un buon
passo avanti quando i veneziani, oltre a celebrare la ricchezza della vita
che li circondava, trattarono temi nominalmente religiosi in modo
chiaramente secolare. Pittori amminghi che si af ancarono ai pittori di
genere olandesi, ad esempio Breughel il Vecchio, e pittori francesi come
Chardin, si rivolsero apertamente a temi ordinari. I quadri di ritratti si
estesero dalla nobiltà ai ricchi mercanti grazie alla crescita del commercio,
e poi anche a uomini meno in vista. Verso la ne del diciannovesimo
secolo tutti i con ni erano spazzati via per quel che riguarda le arti
plastiche.
Il romanzo è stato il grande strumento per effettuare un cambiamento
nella letteratura in prosa. Ha spostato il centro dell’attenzione dalla corte
alla borghesia, e poi al “povero” e all’operaio, quindi alla persona comune
a prescindere dal ceto. Rousseau deve molta della sua enorme e durevole
in uenza nell’ambito della letteratura al suo aver acceso l’immaginazione
parlando del “peuple”144; certo più a tale motivo che alle sue teorie
formali. Il ruolo svolto dalla musica popolare, soprattutto in Polonia,
Boemia e Germania, nell’espansione e nel rinnovamento della musica è n
troppo noto perché gli si dedichi più di un cenno. La stessa architettura, la
più conservatrice fra tutte le arti, è stata condizionata da una
trasformazione simile a quella subita dalle altre arti. Le stazioni ferroviarie,
le sedi della banche e gli uf ci postali, persino le chiese non si costruiscono
più esclusivamente imitando i templi greci e le cattedrali medievali.
Sull’arte basata su “ordini” stabiliti, la rivolta contro la ssazione in classi
sociali ha inciso tanto quanto hanno inciso gli sviluppi tecnologici del
cemento e dell’acciaio.
Questo breve abbozzo ha solo uno scopo: indicare che, nonostante la
teoria formale e i canoni della critica, si è veri cata una di quelle
rivoluzioni da cui non si torna indietro. L’impulso a oltrepassare tutti i
limiti imposti dall’esterno è insito nella natura stessa dell’opera dell’artista.
Appartiene al carattere stesso della mente creativa di protendersi verso
qualsiasi materiale che lo solleciti e di afferrarlo così che il valore di quel
materiale possa essere spremuto fuori e diventare la materia di una nuova
esperienza. Il ri uto di riconoscere i con ni posti dalla convenzione è
all’origine di frequenti riprovazioni di oggetti d’arte in quanto immorali.
Ma una delle funzioni dell’arte è proprio di indebolire la soggezione
moralistica che spinge la mente a rifuggire da certi materiali e a ri utare di
portarli sotto la luce chiara e puri catrice della coscienza percettiva.
L’interesse di un artista è la sola limitazione che si pone all’uso del
materiale, e questa limitazione non è restrittiva. Non fa che rendere
esplicito un tratto intrinseco all’opera dell’artista, il bisogno di sincerità; la
necessità di non imbrogliare e di non scendere a compromessi.
L’universalità dell’arte è talmente distante dal negare il principio della
selezione in base all’interesse vitale che, anzi, dipende dall’interesse. Artisti
diversi hanno diversi interessi e attraverso la loro opera collettiva, non
ostacolata da regole sse e prestabilite, vengono coperti tutti gli aspetti e le
fasi dell’esperienza. L’interesse diventa unilaterale e malsano solo quando
cessa di essere sincero diventando malizioso e furtivo – come senza dubbio
accade in buona parte dello sfruttamento contemporaneo del sesso. Il fatto
che Tolstoj riconosca nella sincerità l’essenza dell’originalità compensa
quel tanto di eccentrico che è presente nel suo trattato sull’arte. Quando
attacca il meramente convenzionale in poesia, egli afferma che gran parte
del materiale poetico è preso a prestito poiché gli artisti, come i cannibali,
si cibano l’uno dell’altro. Il materiale disponibile, dice, è costituito da
«ogni specie di leggenda, di saga, di antica tradizione [...] le donzelle, i
guerrieri, i pastori, gli eremiti, gli angeli, i diavoli in tutti i loro aspetti, il
chiaro di luna, il tuono, le montagne, il mare, i burroni, i ori, i capelli
lunghi, i leoni, gli agnelli, le colombe, gli usignoli; in generale vengono
considerati come poetici tutti gli oggetti rappresentati più frequentemente
degli altri, nelle opere degli artisti del passato»145.
Volendo restringere il materiale dell’arte a temi tratti dalla vita dell’uomo
comune, dell’operaio di fabbrica e soprattutto del contadino, Tolstoj
dipinge un quadro delle limitazioni convenzionali che è fuori prospettiva.
Ma in esso c’è verità suf ciente perché sia utile a chiarire una delle
caratteristiche fondamentali dell’arte: ogni cosa che restringe i con ni del
materiale adeguato ad essere utilizzato nell’arte circoscrive anche la
sincerità artistica del singolo artista. Non rispetta e non fa venir fuori il suo
interesse vitale. Costringe le sue percezioni in canali già diventati abitudini
fossilizzate e tarpa le ali alla sua immaginazione. L’idea che ci sia un
obbligo morale per un artista di trattare materiale “proletario”, o un
qualsiasi altro materiale in quanto riguarderebbe le vicende e il destino del
proletariato, credo che sia un tentativo di tornare a una posizione che l’arte
ha superato nel suo sviluppo storico. Ma nella misura in cui l’interesse
proletario indica una nuova direzione dell’attenzione e implica la
considerazione di materiali prima trascurati, esso spingerà certamente ad
agire persone che non sarebbero indotte ad esprimersi dai materiali
precedenti svelando e quindi contribuendo ad abbattere con ni di cui
prima non si era consapevoli. Sono piuttosto scettico sul presunto
pregiudizio personale di Shakespeare per l’aristocrazia. Ho l’impressione
che la sua prevenzione fosse convenzionale, comune, e pertanto
congeniale alla platea come ai loggioni. Ma qualunque ne sia stata
l’origine, essa limitò la sua “universalità”.
Dimostrare che il movimento storico dell’arte ha abolito restrizioni del
proprio contenuto che un tempo erano giusti cate in base a presunti
motivi razionali non vuol dire dimostrare che c’è qualcosa di comune nella
materia di tutte le arti. Ciò però suggerisce che, essendosi ampliata
l’estensione della sua portata no a comprendere (potenzialmente) ogni e
qualsiasi cosa, l’arte avrebbe perduto la propria unità, dispersa tra arti
connesse, no a farci vedere l’albero ma non la foresta o i rami ma non il
semplice albero, come se non ci fosse un nucleo di sostanza comune.
L’ovvia replica alla deduzione qui suggerita è che l’unità delle arti risiede
nella loro forma comune. Se accettiamo questa replica siamo però rinviati
all’idea che forma e materia sono separati, e di conseguenza ricondotti
all’affermazione secondo cui un prodotto artistico è sostanza formata, e
che ciò che nella ri essione sembra forma quando domina un interesse
sembra invece materia quando un cambiamento d’interesse determina una
svolta di direzione.
A prescindere da qualche interesse particolare, ogni prodotto dell’arte è
materia e solo materia, e dunque il contrasto non è tra materia e forma, ma
tra materia relativamente priva di forma e materia adeguatamente formata.
Il fatto che la ri essione trovi una forma peculiare in alcuni quadri non
può essere contrapposto al fatto che un dipinto consista semplicemente di
colori collocati sulla tela, poiché ogni disposizione e ogni disegno assunti
dai colori sono, dopotutto, proprietà della sostanza e di nient’altro. In
modo analogo, la letteratura di per sé esiste solo come insieme di tante
parole, parlate e scritte. La “stoffa” è qualunque cosa, e forma è un nome
che sta per certi aspetti della materia quando l’attenzione si indirizza
anzitutto proprio verso questi aspetti. Il fatto che un’opera d’arte sia
un’organizzazione di energie e che la natura dell’organizzazione sia di
assoluta importanza, non può essere d’ostacolo al fatto che siano le energie
a venire organizzate e che l’organizzazione non abbia esistenza al di fuori
di esse.
La comunanza di forma che si è riscontrata in differenti arti comporta
implicitamente una corrispondente comunanza di sostanza. Ed è questa
implicazione che mi propongo ora di indagare e approfondire. Sopra ho
osservato che l’artista e chi percepisce cominciano egualmente da quello
che potremmo de nire un afferramento complessivo, un intero qualitativo
globale non ancora articolato, non distinto in elementi. Parlando della
genesi delle sue poesie, Schiller ha detto: «all’inizio per me la percezione
non ha un oggetto chiaro e de nito. Questo prende forma più tardi. Prima
viene una certa tonalità emotiva musicale. Solo dopo viene l’idea
poetica»146. Secondo me queste parole vogliono dire qualcosa del genere
di ciò che si è appena affermato. Inoltre la “tonalità” non solo viene per
prima, ma persiste quale substrato dopo che sono emerse distinzioni; esse
infatti emergono come sue distinzioni.
Fin dall’inizio, la qualità totale e compatta ha una sua unicità; sebbene
vaga e inde nita, è proprio ciò che è e nient’altro. Se la percezione
continua, subentra inevitabilmente la discriminazione. L’attenzione deve
muoversi e, mentre si muove, dallo sfondo emergono parti, elementi. E se
invece di andare senza meta l’attenzione si muove lungo una direzione
unitaria, viene regolata dall’unità qualitativa pervasiva; l’attenzione viene
regolata da essa poiché opera al suo interno. Che i versi siano la poesia, che
siano la sua sostanza, è talmente ovvio da non dir nulla. Ma il fatto
segnalato da questo truismo non potrebbe esistere se la materia, sentita
poeticamente, non venisse per prima, e in un modo così unitario e
compatto da determinare il suo stesso sviluppo, ossia la sua speci cazione
in parti distinte. Se chi percepisce è consapevole delle giunture e delle
congiunzioni meccaniche in un’opera arte, è perché la sostanza non viene
regolata da una qualità diffusa.
Non solo questa qualità deve essere in tutte le “parti”, ma può essere
solamente sentita, ovvero esperita immediatamente. Non cerco di
descriverla perché non può essere descritta e neppure speci camente
indicata – dal momento che ogni cosa speci cata in un’opera d’arte è una
delle sue differenziazioni. Cerco solo di richiamare l’attenzione su qualcosa
di cui chiunque può veri care la presenza nella propria esperienza di
un’opera d’arte, ma che è presente in modo talmente profondo e pervasivo
che è dato per scontato. Il termine “intuizione” è stato usato dai loso
per designare molte cose – alcune delle quali di carattere sospetto. Ma la
qualità diffusa che pervade tutte le parti di un’opera d’arte legandole in un
intero individualizzato può soltanto essere “intuita” emotivamente. I
diversi elementi e le qualità speci che di un’opera d’arte si mescolano e si
fondono in una maniera che le cose siche non riescono a emulare. Questa
fusione è la presenza della stessa unità qualitativa che si sente in tutti loro.
Le “parti” sono discriminate, non intuite. Ma senza la qualità intuita che
le avvolge, le parti sono esteriori l’una all’altra e correlate meccanicamente.
Eppure quell’organismo che è l’opera d’arte non è nulla di diverso dalle
sue parti o dai suoi elementi. È le parti intese come elementi – un fatto che
ci porta di nuovo all’unica qualità pervasiva che rimane la stessa nel suo
differenziarsi. Il senso di totalità che ne risulta è un senso di memoria,
attesa, allusione, premonizione147.
A ciò non si può dare un nome. Essendo ciò che ravviva e anima, è lo
spirito dell’opera d’arte. È la sua realtà, nel momento in cui sentiamo che
l’opera d’arte è reale di per sé e non in quanto raf gurazione realistica. È
l’idioma in cui è composta ed espressa una particolare opera, quello che le
imprime il sigillo dell’individualità. È lo sfondo in un senso più che
spaziale, poiché penetra e quali ca ogni cosa nel suo nocciolo, ogni cosa
distinta come parte ed elemento. Noi siamo abituati a pensare agli oggetti
sici come oggetti che hanno margini delimitati, cose come rocce, sedie,
libri, case; i rapporti commerciali e la scienza, sforzandosi di misurare le
cose con precisione, hanno confermato questa credenza. Di conseguenza
noi trasferiamo inconsciamente questa credenza nel carattere delimitato di
tutti gli oggetti dell’esperienza (una credenza fondata in de nitiva sulle
esigenze pratiche di quando abbiamo a che fare con delle cose) alla nostra
concezione dell’esperienza stessa. Supponiamo che l’esperienza abbia gli
stessi limiti de niti delle cose di cui si occupa. Ma qualsiasi esperienza,
anche la più comune, ha un quadro complessivo inde nito. Cose, oggetti,
sono solo punti focali di un qui e ora in un intero che si estende
inde nitamente. Questo è lo “sfondo” qualitativo che si de nisce e di cui
si prende chiara coscienza in oggetti particolari e in proprietà e qualità
speci che. C’è qualcosa di mistico che si associa alla parola intuizione, e
qualsiasi esperienza diviene mistica nella misura in cui diviene intenso il
senso, il sentimento, dell’illimitatezza che la circonda – come può accadere
nell’esperienza di un oggetto d’arte. Come ha detto Tennyson:
L’esperienza è un arco attraverso cui
brilla quel mondo inesplorato, il cui margine svanisce
sempre e ogni volta che mi muovo.148

Sebbene infatti ci sia un orizzonte che delimita, esso si muove quando ci


muoviamo noi. Non si è mai del tutto liberi dal senso che al di là si trovi
qualcosa. All’interno del mondo limitato che si vede direttamente c’è un
albero con una roccia ai suoi piedi; ssiamo il nostro sguardo sulla roccia,
poi sul muschio che ricopre la roccia, poi magari prendiamo un
microscopio per osservare meglio alcuni minuscoli licheni. Ma che
l’ampiezza della visione sia vasta o esigua, noi la esperiamo come parte di
un insieme più grande e comprensivo, una parte che al momento fa da
fulcro per la nostra esperienza. Potremmo variare in espansione il campo
da più piccolo a più grande. Ma quale che ne sia l’ampiezza, esso continua
ad essere sentito come qualcosa che non è l’intero; i margini sfumano in
quella inde nita estensione ulteriore che l’immaginazione chiama
universo. Questo senso dell’intero comprensivo implicito nelle esperienze
comuni viene reso intenso all’interno della struttura di un dipinto o di una
poesia. È esso a riconciliarci, più di qualsiasi speci ca puri cazione, con
gli eventi della tragedia. I simbolisti hanno sfruttato questa fase inde nita
dell’arte; Poe ha parlato di «una suggestiva inde nitezza» di un «effetto
vago e dunque spirituale»149, mentre Coleridge ha detto che ogni opera
d’arte, per ottenere il suo pieno effetto, deve avere attorno qualcosa di non
compreso150.
Intorno a ogni oggetto esplicito e focale c’è un arretramento
nell’implicito che non è afferrabile intellettualmente. Nella ri essione lo
de niamo indistinto e vago. Ma nell’esperienza originaria non viene
considerato vago. È una funzione dell’intera situazione e non un elemento
al suo interno, come dovrebbe essere se lo si dovesse cogliere come vago.
Al crepuscolo l’imbrunire è una qualità gradevole del mondo intero. È la
sua manifestazione adeguata. Diventa un tratto modi cato e sgradevole
solo quando impedisce di percepire in maniera distinta qualche particolare
cosa che desideriamo discernere.
L’inde nita qualità pervasiva di un’esperienza è quella che lega insieme
tutti gli elementi de niti, dei cui oggetti siamo coscienti focalmente,
facendone un intero. La dimostrazione migliore che le cose stanno così è il
nostro costante senso di pertinenza o non pertinenza delle cose, di
rilevanza, un senso che è immediato. Non può essere un risultato della
ri essione, sebbene sia necessario ri ettere per scoprire se una particolare
considerazione è pertinente a ciò che stiamo facendo o pensando. Infatti se
il senso non fosse immediato, non avremmo guida per la nostra ri essione.
Il senso di un intero estensivo e soggiacente è il contesto di ogni esperienza
ed è l’essenza dell’equilibrio mentale. Infatti per noi la cosa folle, insana, è
quella che viene strappata dal contesto comune e che resta sola e isolata,
come lo è di necessità ogni cosa che abbia luogo in un mondo
completamente diverso dal nostro. Senza uno scenario indeterminato e
inde nito il materiale di qualsiasi esperienza è incoerente.
Un’opera d’arte fa emergere e accentua questa qualità di essere un intero
e di appartenere a quell’intero più grande, onnicomprensivo, che è
l’universo in cui viviamo. Credo che questo fatto spieghi quel sentimento
di acuta intelligibilità e chiarezza che proviamo in presenza di un oggetto
di cui si fa esperienza con intensità estetica. Esso spiega anche il
sentimento religioso che accompagna una percezione estetica intensa. Noi
siamo, per così dire, introdotti in un mondo al di là di questo mondo che è
tuttavia la realtà più profonda del mondo in cui viviamo nelle nostre
esperienze comuni. Siamo trasportati al di là di noi stessi per trovare noi
stessi. Non riesco a scorgere alcun fondamento psicologico per tali
proprietà di un’esperienza se non che, in qualche modo, l’opera d’arte ha
l’effetto di approfondire ed elevare a grande chiarezza quel senso di un
avvolgente intero inde nito che accompagna ogni esperienza normale.
Questo intero viene quindi sentito come un’espansione di noi stessi. Infatti
solo chi viene deluso da un particolare oggetto che ha desiderato
scommettendovi tutto se stesso, come Macbeth, ritiene che la vita sia una
favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non signi ca
nulla151. Quando non prendiamo l’egocentrismo come misura di realtà e
valore, siamo cittadini di questo vasto mondo al di là di noi stessi, e la
profonda comprensione della sua presenza, con noi e in noi, suscita un
senso di unità in sé e con noi stessi che è particolarmente appagante.
Ogni opera d’arte ha un medium particolare che, tra le altre cose,
sostiene il pervasivo intero qualitativo. In ogni esperienza noi tocchiamo il
mondo attraverso un particolare tentacolo; noi portiamo avanti il nostro
rapporto con il mondo, e il mondo assume rilievo per noi, per il tramite di
un organo speci co. L’intero organismo opera con tutto il suo carico di
acquisite e molteplici risorse, ma opera attraverso un particolare medium,
quello dell’occhio, quando interagisce con occhio, orecchio e tatto. Le
belle arti sfruttano questa circostanza e la spingono no al massimo di
signi catività. In qualsiasi comune percezione visiva si vede per mezzo
della luce; si distingue per mezzo di colori ri essi e rifratti: è ovvio. Ma
nelle percezioni comuni questo medium del colore è mescolato, corrotto.
Mentre vediamo, noi anche udiamo; sentiamo pressioni, e il caldo o il
freddo. In un dipinto il colore restituisce la scena senza queste mescolanze
e impurità. Esse fanno parte delle scorie che vengono estratte e scartate in
un atto di espressione intensi cata. Medium diviene il solo colore, e poiché
ora il colore da solo deve veicolare le qualità di movimento, tocco, suono
ecc., che sono sicamente presenti di per sé nella visione comune,
l’espressività e l’energia del colore vengono aumentate.
Per i popoli primitivi, si dice, le fotogra e possiedono una qualità magica
che viene temuta. Come cose solide e viventi possano essere raf gurate in
questo modo è misterioso. È dimostrato che quando quadri di qualsiasi
genere fecero la loro prima apparizione, ad essi venne attribuito un potere
magico. La loro capacità di rappresentare poteva venire esclusivamente da
una fonte soprannaturale. Per chi non è diventato insensibile per il
contatto frequente con le rappresentazioni pittoriche c’è ancora qualcosa
di miracoloso nella capacità che ha una cosa limitata, piatta e uniforme di
raf gurare l’universo ampio e vario di cose animate e inanimate: è forse
per questa ragione che nel linguaggio comune “arte” tende a designare la
pittura, e “artista” colui che dipinge. L’uomo primitivo, inoltre, attribuiva a
suoni utilizzati come parole la capacità di controllare in modo
soprannaturale le azioni e i segreti degli uomini e di dominare, purché si
trattasse della parola giusta, le forze della natura. La capacità di semplici
suoni di esprimere in letteratura tutti gli eventi e gli oggetti è altrettanto
stupefacente.
Fatti di questo genere mi sembrano rivelare il ruolo e il rilievo che hanno
i media per l’arte. A prima vista non sembra degno di nota che ogni arte
abbia un medium suo proprio. Perché mettere nero su bianco che la
pittura non può esistere senza il colore, la musica senza il suono,
l’architettura senza la pietra e il legno, la scultura senza il marmo e il
bronzo, la letteratura senza le parole, la danza senza il corpo vivente?
Credo che la risposta sia stata indicata. In ogni esperienza c’è il pervasivo
intero qualitativo soggiacente che corrisponde all’intera organizzazione
delle attività che costituiscono la misteriosa struttura umana e la manifesta.
Ma in ogni esperienza, questo meccanismo complesso, differenziato e
ricettivo opera mediante strutture particolari che prendono il comando,
non per diffusione dispersa mediante tutti gli organi in una sola volta – se
non nel panico, quando, come si dice giustamente, si perde la testa.
Nell’arte bella “medium” indica il fatto che questa specializzazione e
individualizzazione di un organo particolare dell’esperienza è portata no
al punto in cui vengono sfruttate tutte le sue possibilità. L’occhio o
l’orecchio, quando è al centro dell’azione, non perde il suo carattere
speci co né la sua peculiare adeguatezza di vettore di un’esperienza che
esso soltanto riesce a rendere possibile. Nell’arte il vedere o l’udire,
disperso e mescolato nella percezione comune, è tanto concentrato che la
funzione peculiare del medium speciale opera con piena energia, senza
distrazioni.
“Medium” signi ca anzitutto intermediario. Il signi cato del termine
“mezzo” è lo stesso. Sono le cose di mezzo, che intervengono, attraverso le
quali si fa accadere qualcosa che ora è lontano. Tuttavia non tutti i mezzi
sono media. Ci sono due tipi di mezzi. Quelli di un tipo sono esterni a ciò
che viene realizzato; quelli dell’altro si assimilano alle conseguenze
prodotte e restano a loro immanenti. Ci sono ni che sono semplici
cessazioni gradite e ci sono ni che sono i compimenti di ciò che è venuto
prima. Troppo spesso la fatica di un operaio è solo un antecedente al
salario che egli riceve, così come il consumo di benzina non è che un
mezzo per il trasporto. Il mezzo cessa di agire quando si raggiunge la
“ ne”; di norma si sarebbe felici di ottenere il risultato senza dover
impiegare mezzi. I mezzi non sono che un’impalcatura.
Questi mezzi esterni o, meri mezzi, come propriamente li de niamo, di
solito sono di tal genere da poter essere sostituiti da altri; quelli particolari
che vengono impiegati sono determinati da qualche considerazione
estrinseca, come l’economicità. Ma quando parliamo di “media” ci
riferiamo a mezzi che sono incorporati nell’esito. Anche i mattoni e la
calce diventano parte della casa per la cui costruzione vengono impiegati;
non sono meri mezzi per edi carla. I colori sono il dipinto; i suoni sono il
brano musicale. Un quadro dipinto ad acquerello ha una qualità differente
da un quadro dipinto a olio. Gli effetti estetici appartengono
intrinsecamente al loro medium; quando vi si sostituisce un altro medium
si ottiene un virtuosismo invece di un oggetto artistico. E anche quando
tale sostituzione è praticata con somma bravura o per qualche ragione
estrinseca al tipo di ne desiderato, il prodotto è meccanico o
un’imitazione di cattivo gusto – come le assi dipinte in modo da
assomigliare alla pietra quando si costruisce una cattedrale, dato che la
pietra è parte integrante non tanto della costituzione sica, ma dell’effetto
estetico.
La differenza tra operazioni estrinseche e intrinseche vale per tutte le
faccende della vita. Uno studente studia per superare un esame, per essere
promosso. Per un altro il mezzo, l’attività dell’apprendere, si identi ca
completamente con i risultati che ne derivano. La conseguenza,
l’istruzione, la chiarezza, è tutt’uno con il processo. Talvolta viaggiamo per
raggiungere un certo luogo perché lì abbiamo affari da sbrigare e, se fosse
possibile, faremmo volentieri a meno del viaggio. Altre volte viaggiamo per
il piacere di andare in giro e vedere quello che vediamo. Mezzo e ne si
fondono. Se passiamo in rassegna mentalmente un certo numero di casi
del genere, ci accorgiamo rapidamente come tutti quelli in cui mezzi e ni
sono tra loro estrinseci risultino non-estetici. Questa estrinsecità può anche
essere considerata una de nizione del non-estetico.
Essere “buoni” per evitare una punizione, che si tratti di nire in carcere
o all’inferno, rende il comportamento sgradevole. È anestetico quanto
andare dal dentista per evitare un danno permanente. Identi cando
buono e bello nelle azioni i greci hanno rivelato, nel loro sentire grazia e
proporzione nel comportamento corretto, di percepire la fusione tra mezzo
e ne. Le avventure di un pirata possiedono almeno un’attrattiva
romantica che manca ai traguardi faticosamente raggiunti da chi sta nel
perimetro della legge solo perché pensa che, così facendo, sarà alla ne
meglio remunerato. Gran parte dell’avversione popolare nei confronti
dell’utilitarismo per quel che concerne la teoria morale si deve alla sua
esagerazione del mero calcolo. “Decoro” e “convenienza”, che in passato
avevano un signi cato positivo in quanto estetico, stanno assumendo un
senso denigratorio poiché li si intende come se denotassero un’affettazione
o una ricercatezza adottata perché si desidera un ne estrinseco. In ogni
ambito dell’esperienza, quando il mezzo è estrinseco si determina qualcosa
di meccanico. Buona parte di ciò che viene de nito spirituale è anche
inestetico. Ma la qualità è inestetica perché le cose denotate dalla parola
esempli cano anche la separazione tra mezzo e ne; l’“ideale” viene così
reciso dalle cose reali, le sole in grado di contrastare il fatto che risulti
insulso. Solo quando si fa corpo nel senso delle cose concrete lo
“spirituale” prende dimora in un luogo e acquisisce quella solidità della
forma che si esige per una qualità estetica. Per no gli angeli
nell’immaginazione devono essere provvisti di corpi e ali.
Più di una volta ho fatto riferimento alla qualità estetica che può
appartenere al lavoro scienti co. Al profano il materiale dello scienziato di
solito appare inaccessibile. Per il ricercatore c’è in esso una qualità di
compiutezza e perfezione, poiché le conclusioni ricapitolano e realizzano
le condizioni che hanno condotto ad esse. Inoltre a volte assumono una
forma elegante e addirittura austera. Si dice che Clerk-Maxwell una volta
abbia introdotto un simbolo allo scopo di rendere simmetrica
un’equazione sica, e che fu solo in seguito che i risultati sperimentali
diedero signi cato al simbolo. Credo che sia vero anche che, se gli uomini
d’affari fossero soltanto quegli arraffatori di denaro che spesso dal di fuori
con avversione si pensa che siano, il mondo degli affari sarebbe molto
meno attraente di quel che è. In realtà può assumere i connotati di un
gioco, e anche quando è socialmente dannoso deve avere una qualità
estetica per coloro che ne sono conquistati.
I mezzi dunque sono media quando non sono solo propedeutici o
preliminari. In quanto medium, il colore funge da intermediario tra i valori
deboli e dispersi nelle esperienze comuni e la nuova percezione
concentrata occasionata da un dipinto. Un disco fonogra co è nient’altro
che il veicolo di un effetto. Anche la musica che ne viene fuori è un
veicolo, ma è qualcosa di più; è un veicolo che diventa una sola cosa con
ciò che porta; si fonde con ciò che trasmette. Dal punto di vista sico, un
pennello e il movimento della mano nello stendere il colore sulla tela sono
esterni a un dipinto. Non così dal punto di vista artistico. I colpi di
pennello sono parte integrante dell’effetto estetico di un dipinto quando lo
si percepisce. Alcuni loso hanno avanzato l’idea che l’effetto estetico,
ovvero la bellezza, sia una sorta di essenza eterea che, nell’adattarsi alla
carne, è costretta a utilizzare come veicolo un materiale sensoriale. Questa
dottrina implica che, se l’anima non fosse imprigionata nel corpo,
esisterebbe pittura senza colori, musica senza suoni, letteratura senza
parole. Sebbene tranne che per i critici, che ci dicono come sentono senza
dire o sapere, nei termini dei media utilizzati, perché essi sentono in tal
modo, e tranne che per le persone che identi cano scoppio emotivo e
valutazione, media ed effetto estetico si fondono completamente.
La sensibilità per un medium in quanto tale è il cuore stesso di ogni
creazione artistica e di ogni percezione estetica. Tale sensibilità non si posa
su un materiale estraneo. Per esempio, quando si guardano i dipinti come
illustrazioni di scene storiche, di brani letterari o di scene familiari, non li si
percepisce nei termini dei loro media. Oppure, quando li si guarda
facendo semplicemente riferimento alla tecnica impiegata per renderli
quel che sono, non li si percepisce esteticamente. Infatti anche in questo
caso i mezzi sono separati dai ni. Si analizzano i primi in luogo di godere
dei secondi. È vero che gli stessi artisti sembrano spesso accostarsi a
un’opera d’arte da un punto di vista esclusivamente tecnico – e ciò
produce almeno ristoro se prima ci si è sorbiti un poco quella che viene
considerata “valutazione”. Ma in realtà essi per lo più sentono talmente
l’intero che non è necessario soffermarsi sul ne, sull’intero, con le parole,
e sono così liberi di prendere in considerazione il modo in cui quest’ultimo
è prodotto.
Il medium è un mediatore. È un intermediario tra l’artista e chi
percepisce. Muovendosi tra i suoi pregiudizi morali Tolstoj spesso parla da
artista. Celebra questa funzione dell’artista quando svolge le sue
considerazioni già citate sull’arte in quanto ciò che unisce. La cosa
importante per la teoria dell’arte è che questa unione si realizza usando un
materiale particolare come medium. Per temperamento, o anche per
inclinazione e aspirazione, tutti siamo artisti – no a un certo punto. A
mancare è ciò che contraddistingue l’artista durante l’esecuzione. Infatti
l’artista ha la capacità di impadronirsi di un tipo particolare di materiale e
di trasformarlo in un autentico medium d’espressione. Noi altri abbiamo
bisogno di molti canali e di grandi quantità di materiale per dare
espressione a ciò che vorremmo dire. Quindi i molti vettori impiegati si
intralciano a vicenda e rendono torbida l’espressione, mentre l’enorme
mole di materiale utilizzato la rende confusa e goffa. L’artista resta fedele
all’organo prescelto e al materiale che vi corrisponde, e in tal modo l’idea
sentita nella sua singolarità e in maniera concentrata secondo i termini del
medium diventa pura e chiara. Svolge il gioco con intensità, perché gioca
con rigore.
Qualcosa che Delacroix ha detto dei pittori del suo tempo si attaglia agli
artisti mediocri in generale. Egli ha detto che questi pittori utilizzavano la
colorazione anziché il colore. Ciò vuol dire che loro applicavano il colore
agli oggetti che rappresentavano invece di ricavarli dal colore. Procedere
così signi ca tenere separati i colori in quanto mezzo e gli oggetti e le
scene raf gurati. Questi artisti non usavano il colore in quanto come
medium con piena dedizione. La loro mente e la loro esperienza erano
divise. Mezzo e ne non erano fusi insieme. La più grande rivoluzione
estetica nella storia della pittura ebbe luogo quando il colore venne
utilizzato in modo strutturale; di conseguenza i quadri cessarono di essere
disegni colorati. Il vero artista vede e sente nei termini del proprio medium
e chi ha imparato a percepire esteticamente emula questa operazione. Altri
proiettano sul loro vedere quadri e ascoltare musica preconcetti che
derivano da fonti che ostacolano e confondono la percezione.
L’arte bella viene de nita talvolta come capacità di creare illusioni. Per
quanto mi è dato vedere, questa affermazione è un modo decisamente
poco intelligente e fuorviante di enunciare una verità – ossia, che gli artisti
creano effetti obbedendo a un solo medium. Nella percezione comune ci
avvaliamo del contributo di varie fonti per comprendere il signi cato di ciò
che subiamo. Usare artisticamente un medium signi ca escludere aiuti
irrilevanti e utilizzare in modo concentrato e intenso una sola qualità
sensoriale per svolgere il lavoro solitamente svolto in modo approssimativo
con l’aiuto di molte. Ma chiamare illusione questo risultato equivale a
confondere fatti che andrebbero tenuti distinti. Se il metro del merito
artistico fosse l’abilità di dipingere una mosca su una pesca in modo da
indurci a cacciarla via, o di dipingere dei grappoli su una tela in modo da
far venire uccelli a beccarli, uno spaventapasseri che riesca a tenere lontani
i corvi sarebbe l’opera di una raf nata arte bella.
La confusione di cui ho appena parlato può essere chiarita. C’è qualcosa
di sico, nel senso comune di esistenza reale. C’è il colore o il suono che
costituisce il medium. E c’è un’esperienza che ha un senso, molto
probabilmente intenso, di realtà. Questo senso sarebbe illusorio se fosse
analogo a quello che inerisce al senso dell’esistenza reale del medium. Ma
è molto diverso. Sulla scena i media, gli attori con le loro voci e i loro gesti,
ci sono davvero; esistono. E lo spettatore avvezzo ha di conseguenza un
senso intenso (posto che l’opera sia veramente artistica) della realtà delle
cose dell’esperienza comune. Solo chi non è avvezzo a frequentare teatri ha
un’illusione tale della realtà di ciò che viene rappresentato da identi care
ciò che accade con il genere di realtà che si manifesta nella presenza
sica152 degli attori, al punto da cercare di prendere parte all’azione. Un
dipinto di alberi o rocce può rendere la realtà caratteristica di un albero o
di una roccia ancora più intenso di quanto non sia mai stato prima. Ma ciò
non implica che lo spettatore consideri una parte del quadro una roccia
vera e propria tale da poterla prendere a martellate o potercisi mettere a
sedere. Ciò che fa di un materiale un medium è il venir usato per
esprimere un signi cato diverso da ciò che esso è in virtù della sua mera
esistenza sica: il signi cato non di ciò che sicamente è, ma di ciò che
esprime.
Quando si esamina lo sfondo qualitativo dell’esperienza e il medium
particolare attraverso il quale su di esso si proiettano signi cati e valori
diversi, ci si trova in presenza di qualcosa di comune nella sostanza delle
arti. I media sono diversi nelle diverse arti. Ma è di tutte le arti avere un
medium. Altrimenti non sarebbero espressive, né potrebbero avere una
forma senza questa sostanza comune. In precedenza mi sono riferito alla
de nizione data da Barnes di forma come integrazione, mediante
relazioni, di colore, luce, linea e spazio. Il colore è evidentemente il
medium. Nelle altre arti, però, non solo c’è qualcosa di corrispondente al
colore in quanto medium, ma c’è qualcosa che, essendo una proprietà
della loro sostanza, svolge la medesima funzione che svolgono in un
quadro linea e spazio. Nel quadro la linea demarca, delimita, e il risultato è
la presentazione di diversi oggetti, ove la gura o con gurazione è il
mezzo tramite il quale una massa altrimenti indiscriminata viene distinta in
oggetti, persone, montagne, prati identi cabili. Ogni arte ha elementi
individuali, de niti. Ogni arte usa il proprio medium sostanziale in modo
da dare complessità di parti all’unità delle sue creazioni.
Probabilmente la funzione da assegnare alla linea, dopo una sua prima
considerazione, è quella della forma. Una linea correla, connette. È un
mezzo integrale per determinare il ritmo. La ri essione mostra, tuttavia,
che ciò che per un verso determina la giusta relazione, per l’altro verso dà
luogo a un’individualità di parti. Supponiamo di guardare un normale
paesaggio “naturale” costituito da alberi, sottobosco, macchie di prati
erbosi e qualche collina sullo sfondo. La scena consiste di queste parti. Ma
esse non si compongono bene per quel che concerne la scena nel suo
complesso. Le colline e alcuni alberi non si trovano al posto giusto;
vogliamo risistemarli. Certi rami non vanno bene; e, mentre un pezzo del
sottobosco crea uno scenario piacevole, parti di esso creano confusione e
sono d’ostacolo.
Dal punto di vista sico le cose ricordate sono parti della scena. Ma non
sono sue parti se consideriamo la scena come un intero estetico. Ora,
osservando la faccenda dal punto di vista estetico, dapprima tenderemo
probabilmente ad attribuire i difetti alla forma, imputandoli a un rapporto
inadeguato e urtante tra contorno, massa e disposizione. E non
sbaglieremmo a sentire che disarmonia e interferenza provengono da
questa fonte. Ma se procediamo con l’analisi vediamo che il difetto di
rapporto da un lato è, dall’altro lato, difetto di struttura e de nizione
individuale. Troveremmo che i cambiamenti che si fanno per ottenere una
composizione migliore servono anche a dare alle parti una individualità,
una determinatezza, nella percezione che prima non avevano.
Una cosa dello stesso genere si riscontra quando si discute di accento e
intervallo. Questi sono determinati dalla necessità mantenere le relazioni
che negano le parti in un intero. Anche in assenza di questi elementi le
parti sarebbero comunque un caos, andando l’una contro l’altra senza
scopo; non avrebbero la demarcazione che individualizza. In musica o in
poesia ci sarebbero vuoti privi di signi cato. Perché un dipinto sia un
quadro non solo ci deve essere ritmo, ma la massa – il sostrato comune del
colore – deve essere distinta in gure; altrimenti ci sono macchie, chiazze e
imbrattature.
Vi sono quadri in cui i colori sono tenui sebbene il dipinto ci dia un
senso di luminosità e splendore, mentre in altri dipinti i colori brillanti no
a diventare sgargianti, per quanto l’effetto complessivo sia di qualcosa di
scialbo. Un colore vivacemente brillante, quando non è nelle mani di un
artista, è molto facile che faccia pensare a una cromolitogra a. Ma con un
artista, un colore in sé vistoso o anche smorto può dare maggiore energia.
La spiegazione di fatti del genere è che un artista utilizza il colore per
de nire un oggetto e ottiene questa individualizzazione in modo così
completo che colore e oggetto si fondono. Il colore è dell’oggetto e
l’oggetto in tutte le sue qualità si esprime attraverso il colore. Infatti sono
gli oggetti a brillare – pietre preziose e luce del sole; e sono gli oggetti a
risplendere – corone, vesti, luce del sole. Quando non esprimono oggetti
in quanto qualità cromatiche signi cative di materiali dell’esperienza
comune, i colori provocano solo eccitazioni transitorie – ad esempio il
rosso agita mentre un altro colore calma. Si prenda a piacere una qualsiasi
arte e apparirà che il medium è espressivo perché lo si usa per
individualizzare e de nire, e ciò non già nel senso del contorno sico ma
nel senso dell’esprimere quella qualità che è tutt’uno con il carattere di un
oggetto; rende il carattere de nito per enfasi.
Cosa sarebbe un romanzo o un dramma senza personaggi, situazioni,
azioni, idee, movimenti, eventi differenti? In teatro vengono evidenziati
tecnicamente da atti e scene, da entrate e uscite diverse e da tutti gli
espedienti dell’arte scenica. Ma questi ultimi sono solo mezzi per dare ad
alcuni elementi un rilievo tale da completare per conto loro oggetti ed
episodi – così come in musica le pause non sono spazi vuoti ma, portando
avanti il ritmo, mettono in risalto e determinano l’individualità. Cosa
sarebbe una struttura architettonica senza differenziazione di masse, e una
differenziazione che non sia soltanto sica o spaziale ma de nisca parti,
nestre, porte, cornici, sostegni, tetto e così via? Soffermarsi indebitamente
su un fatto sempre presente in ogni intero complesso signi cativo, può
però far pensare che si renda misteriosa una cosa che è una delle nostre
esperienze più familiari – che nessun intero è signi cativo per noi se non
quando è costituito da parti che sono esse stesse signi cative a prescindere
dall’intero a cui appartengono – che, in breve, non può esistere una
comunità signi cativa se non in quanto composta da individui che sono
signi cativi.
L’acquerellista americano John Marin ha detto di un’opera d’arte:
«l’identità si delinea come la grande Ancora di Salvezza. E come nel
forgiare l’uomo la natura è rimasta rigorosamente fedele a Identità, Testa,
Corpo, Membra e ai loro contenuti distinti, identità in se stessi, in quanto
ogni parte lavora al suo interno ma anche attraverso e insieme alle altre
parti, a quelle vicine, cercando di avvicinarsi al meglio a un equilibrio
bello, così questo prodotto dell’Arte è composto da identità tra loro
contigue. E se in questa composizione un’identità non trova posto e parte,
essa è una cattiva vicina. E se i legami che connettono le parti vicine non
trovano un proprio posto e una propria parte, il servizio è cattivo, il
contatto è cattivo. Quindi questo prodotto dell’Arte è in sé un
villaggio»153. Queste identità sono quelle parti che sono esse stesse interi
individuali nella sostanza dell’opera d’arte.
Nella grande arte non vi sono limiti posti alla individualizzazione di parti
all’interno di parti. Leibniz ha sostenuto che l’universo è in nitamente
organico poiché ogni cosa organica è costituita ad in nitum154 da altri
organismi155. Si può essere scettici sulla verità di questa affermazione
riguardo all’universo; come metro della riuscita artistica, però, è vero che
ciascuna parte di un’opera d’arte è quantomeno potenzialmente costituita
in tal modo, dal momento che è suscettibile di una inde nita
differenziazione percettiva. Vediamo edi ci nelle cui parti c’è poco o nulla
che attira la nostra attenzione – se non vera e propria bruttezza156. I nostri
occhi propriamente vi si posano di sfuggita e corrono via. Nella musica di
bassa lega le parti sono semplicemente mezzi per andare avanti; non ci
trattengono in quanto parti, e neppure mentre va avanti la successione noi
tratteniamo ciò che è venuto prima come se si trattasse di parti; e quando
si legge un romanzo esteticamente di second’ordine si può avvertire una
“scossa” perché si è eccitati dal movimento senza però che ci sia nulla su
cui soffermarsi non essendoci un oggetto o un evento individualizzato.
D’altra parte, la prosa può avere un effetto sinfonico quando
l’articolazione viene estesa a ogni particolare. Più la de nizione delle parti
contribuisce all’intero, più è importante in sé.
Guardare un’opera d’arte per vedere quanto scrupolosamente vengano
osservate determinate regole e ci si sia conformati a certi canoni
impoverisce la percezione. Ma sforzarsi di notare i modi in cui sono
soddisfatte certe condizioni, come ad esempio i mezzi organici di cui sono
fatti i media per esprimere e supportare determinate parti, o come viene
risolto il problema di un’adeguata individualizzazione, rende più acuta la
percezione estetica e più ricco il suo contenuto. Infatti ogni artista effettua
questa operazione a modo proprio e non si ripete mai esattamente in due
sue opere. Egli ha diritto di servirsi di ogni e qualunque mezzo tecnico con
cui poter raggiungere il risultato, mentre apprendere il metodo
caratteristico con cui lo fa signi ca essere iniziati alla comprensione
estetica. Un pittore rende l’individualità nel dettaglio con linee uide, con
fusioni, più di quanto non faccia un altro artista con un pro lo dai
contorni netti. Uno fa col chiaroscuro ciò che un altro ottiene con luci
intense. Nei disegni di Rembrandt non è insolito trovare all’interno di una
gura linee che sono più forti di quelle che la delimitano esternamente –
eppure c’è guadagno e non perdita di individualità. In generale ci sono
due metodi opposti: quello del contrasto, dello staccato157, del brusco, e
quello del uido, della fusione, della gradazione impercettibile. Da qui si
può partire per scoprire sottigliezze sempre crescenti. Come esempi dei
due metodi in senso ampio, possiamo prendere quelli citati da Leo Stein.
«Paragonate», egli dice, «il verso di Shakespeare “In cradle of rude
imperious surge” con il verso “When icicles hang by the wall”»158. Nel
primo ci sono contrasti come cradle-surge, imperious-rude, contrasti di
vocali e anche di passo. Nell’altro, egli dice, «ogni verso è come un anello
di una catena lievemente sospesa, o anche come una trave che è senz’altro
in contatto con quelle dopo»159. Il fatto che il metodo del brusco si presti
più direttamente alla de nizione e quello della continuità a stabilire
relazioni è probabilmente una ragione per cui gli artisti hanno preferito
invertire il processo facendo così crescere la quantità di energia suscitata.
Sia per chi percepisce che per l’artista è possibile portare la propria
predilezione per un metodo particolare per ottenere l’individualizzazione a
un punto tale da confondere il metodo con il ne, negando che
quest’ultimo esista quando si ripugnano i mezzi adoperati per realizzarlo.
Sul versante del pubblico, questo fatto è illustrato ampiamente da come
vennero accolti i dipinti quando gli artisti smisero di impiegare sfumature
banali per delimitare le gure ricorrendo invece a una relazione tra colori.
Ciò è particolarmente evidente, sul versante dell’arte, in un personaggio
che è signi cativo in pittura (soprattutto nel disegno) e assolutamente
grande in poesia, Blake. Egli negò merito estetico a Rubens, Rembrandt,
alla scuola veneziana e amminga in genere perché lavoravano con «linee
spezzate, masse spezzate e colori spezzati» – gli stessi fattori che
caratterizzano la grande rinascita della pittura verso la ne del
diciannovesimo secolo. E ha aggiunto: «la grande regola aurea dell’arte,
come della vita, è questa: più distinta, netta e tesa è la linea che delimita,
più perfetta è l’opera d’arte, e meno essa è netta e decisa, maggiore è la
prova di immaginazione debole, plagio e incompetenza […] La mancanza
di questa forma determinata e delimitante denuncia la mancanza di
un’idea nella mente dell’artista, nonché la maschera del plagiario quale
che ne sia la forma»160. Il passo merita di essere citato per l’enfasi con cui
afferma la necessità che l’individualizzazione degli elementi di un’opera
d’arte sia determinata. Ma indica anche la limitatezza che può unirsi a un
modo particolare di vedere quando questo è radicale.
Vi è un altro elemento che è comune alla sostanza di tutte le opere
d’arte. Lo spazio e il tempo – o meglio lo spazio-tempo – si trovano nella
materia di ogni prodotto artistico. Nelle arti non sono né i vuoti contenitori
né le relazioni formali con cui talvolta li hanno rappresentati le scuole
loso che. Sono sostanziali; sono proprietà di ogni sorta di materiale
utilizzato nell’espressione artistica e nella realizzazione estetica.
Immaginate, leggendo Macbeth, di provare a separare le streghe dalla
brughiera, oppure, nella materia dell’Ode on a Grecian Urn di Keats, di
separare le gure corporee del sacerdote, delle vergini e della giovenca da
qualcosa che si chiama anima o spirito. In pittura, lo spazio sicuramente
mette in relazione; aiuta a costituire la forma. Ma è direttamente sentito,
avvertito, anche come qualità. Se così non fosse, un quadro sarebbe
talmente pieno di vuoti da scompaginare l’esperienza percettiva. Finché
William James non insegnò nulla di meglio161, gli psicologi erano abituati a
trovare nei suoni solo una qualità temporale, e alcuni di loro
riconducevano anch’essa a una questione inerente a una relazione
intellettuale invece di considerarla una qualità distintiva quanto ogni altro
tratto del suono. James ha mostrato che i suoni sono anche spazialmente
voluminosi – un fatto che ogni musicista aveva sfruttato ed esibito nella
pratica indipendentemente dall’averlo formulato teoricamente o meno.
Come accade con le altre proprietà della sostanza di cui si è parlato, le
belle arti vanno a scovare e portano allo scoperto questa qualità che
appartiene a tutte le cose di cui si fa esperienza e la esprimono con
maggiore energia e chiarezza di quanto non facciano le cose da cui la
estraggono. Come la scienza prende lo spazio e il tempo qualitativi e li
riduce a relazioni che entrano in equazioni, così l’arte li arricchisce nel loro
senso speci co quali valori signi cativi della sostanza stessa di tutte le cose.
Il movimento nell’esperienza diretta è alterazione delle qualità degli
oggetti, e lo spazio di cui si fa esperienza è un aspetto di questo
cambiamento qualitativo. Su e giù, dietro e davanti, avanti e indietro, un
lato e l’altro – o destra e sinistra – qui e là, si sentono in modo diverso. La
ragione di ciò è che non sono punti statici in qualcosa che è in sé statico,
ma sono oggetti in movimento, cambiamenti qualitativi di valore. Infatti
“dietro” è un’abbreviazione per all’indietro e “davanti” lo è per in avanti.
Così è con la velocità. Matematicamente non ci sono cose in sé rapide e
lente. Sono parole che indicano semplicemente un maggiore e un minore
su una scala numerica. Quando se ne fa esperienza tali cose sono
qualitativamente dissimili quanto rumore e silenzio, caldo e freddo, bianco
e nero. Essere costretti ad aspettare per molto tempo che accada un evento
importante è una lunghezza molto diversa da quella misurata dai
movimenti delle lancette di un orologio. È qualcosa di qualitativo.
C’è un’altra involuzione signi cativa del tempo e del movimento nello
spazio. Essa è costituita non solo da tendenze verso qualche direzione – su
e giù, per esempio – ma da avvicinamenti e indietreggiamenti reciproci.
Vicino e lontano, prossimo e distante, sono qualità di importanza
pregnante, spesso tragica – ovviamente quando se ne fa esperienza, non
già quando le si de nisce con una misurazione scienti ca. Signi cano
allentare e stringere, separare e compattare, alzarsi e abbassarsi, ergersi e
cadere; il dispersivo, frammentario, e ciò che si libra e sovrasta, la
leggerezza immateriale e il sof o poderoso. Azioni e reazioni di tal genere
sono la stoffa stessa di cui sono fatti gli oggetti e gli eventi di cui abbiamo
esperienza. La scienza può descriverle perché le riduce a relazioni che
differiscono solo matematicamente, occupandosi essa delle cose lontane e
identiche o ripetute che sono le condizioni dell’esperienza concreta, e non
dell’esperienza in quanto tale. Ma nell’esperienza esse sono in nitamente
diversi cate e non si possono descrivere, mentre nelle opere d’arte sono
espresse. L’arte, infatti, seleziona ciò che è signi cativo, escludendo
proprio con il medesimo impulso ciò che è irrilevante, e perciò
condensando e intensi cando ciò che è signi cativo.
La musica, ad esempio, ci offre l’essenza stessa del calare in basso e del
crescere in alto, dell’avanzare e del ritirarsi, dell’accelerare e del ritardare,
dello stringere e dell’allargare, della spinta improvvisa e del graduale
insinuarsi delle cose. L’espressione è astratta nella misura in cui è libera dal
vincolo con questo e quello, mentre al tempo stesso è intensamente diretta
e concreta. Credo sarebbe possibile giusti care in modo plausibile la tesi
secondo cui, senza le arti, l’esperienza di volumi, masse, gure, distanze e
direzioni del cambiamento qualitativo sarebbe rimasta rudimentale,
qualcosa di appreso in modo vago e dif cilmente capace di essere
comunicata in maniera articolata.
Sebbene le arti plastiche diano enfasi agli aspetti spaziali del
cambiamento mentre musica e arte letteraria a quelli temporali, la
differenza è solo di enfasi entro una sostanza comune. Ciascuna possiede
ciò che l’altra sfrutta attivamente, e tale possesso è uno sfondo senza il
quale le proprietà portate alla ribalta dall’enfasi esploderebbero nel vuoto,
evaporando in un’omogeneità che non si riuscirebbe a percepire. Si può
stabilire una corrispondenza quasi punto a punto tra, ad esempio, le
battute di apertura della Quinta Sinfonia di Beethoven e l’ordine
successivo di pesi, di volumi pesanti, nei Giocatori di carte di Cézanne162.
A causa della qualità voluminosa che appartiene a entrambi, sia la sinfonia
che il dipinto hanno potenza, forza e solidità – come un massiccio ponte di
pietra ben costruito. Entrambi esprimono ciò che dura, che è
strutturalmente resistente. Due artisti con media differenti pongono la
qualità essenziale di una roccia in cose tanto dissimili quanto un quadro e
una serie di suoni complessi. Uno realizza la sua opera con colore aggiunto
a spazio, l’altro con un suono aggiunto a tempo, che in questo caso
possiede il volume massiccio dello spazio.
Infatti in quanto esperiti spazio e tempo non sono solo qualitativi, ma
in nitamente diversi cati nelle qualità. Possiamo ricondurre la
diversi cazione a tre temi generali: spazio, estensione, posizione –
spaziosità, spazialità, spaziatura – ovvero in termini di tempo – transizione,
resistenza e termine. Nell’esperienza questi tratti si quali cano a vicenda
in un singolo effetto. Di solito, però, uno predomina sugli altri, e sebbene
non abbiano esistenza separata li si può distinguere nel pensiero.
Lo spazio è luogo, Raum, e il luogo è spaziosità163, possibilità di essere,
vivere e muoversi. Lo stesso termine “spazio vitale” richiama alla mente
ciò che è soffocante, l’oppressione che si ha quando le cose sono costrette.
La rabbia sembra una reazione di protesta contro una limitazione stabile
del movimento. La mancanza di spazio è negazione della vita, l’apertura di
spazio è affermazione della sua potenzialità. Il sovraffollamento, anche
quando non è d’impedimento alla vita, è irritante. Ciò che è vero per lo
spazio è vero per il tempo. Abbiamo bisogno di uno “spazio di tempo” in
cui realizzare qualsiasi cosa di signi cativo. La fretta eccessiva a cui ci
costringe la pressione delle circostante è odiosa. Il nostro grido costante
ogni volta che siamo pressati dall’esterno è “dateci tempo!”. Il maestro, in
realtà, si rivela nelle limitazioni, e uno spazio propriamente in nito entro
cui agire signi cherebbe la più completa dispersione. Ma le limitazioni
devono stare in un rapporto de nito con la capacità; esse implicano una
scelta partecipata; non possono essere imposte.
Le opere d’arte esprimono lo spazio in quanto occasione di movimento e
azione. È una questione di proporzioni sentite qualitativamente. Un’ode
lirica può averlo mentre a un poema epico mal riuscito manca. I quadri
piccoli lo manifestano, mentre acri di vernice ci lasciano con la sensazione
di essere imprigionati o rinchiusi in un luogo angusto. L’enfasi sulla
spaziosità è una caratteristica dei dipinti cinesi. Invece di essere accentrati
così da esigere cornici, essi si muovono verso l’esterno, mentre i dipinti di
paesaggio su rotolo presentano un mondo in cui i limiti comuni sono
trasformati in sollecitazioni a procedere. Anche se con mezzi diversi, i
dipinti occidentali che sono estremamente accentrati creano il senso
dell’intero esteso che include una scena de nita con cura. Anche un
interno, come I coniugi Arnol ni di Van Eyck164, può trasmettere entro un
certo ambito il senso esplicito di ciò che si trova fuori al di là del muro. Nei
ritratti di persone Tiziano dipinge lo sfondo in modo che dietro la gura ci
sia lo spazio in nito, non semplicemente la tela.
Il puro e semplice spazio, opportunità e possibilità del tutto
indeterminate, sarebbe però assolutamente vuoto. Spazio e tempo
nell’esperienza sono anche occupazione, riempimento – non meramente
qualcosa di riempito dall’esterno. La spazialità è massa e volume, così
come la temporalità è resistenza, non solo durata astratta. Sia i suoni che i
colori si contraggono e si espandono, e sia i colori che i suoni salgono e
scendono. Come ho osservato prima, William James ha reso evidente la
qualità voluminosa dei suoni, e non è una metafora de nire i suoni alti e
bassi, lunghi e brevi, sottili e robusti. In musica i suoni ritornano così come
procedono; esibiscono intervalli come anche progressioni. La ragione è
simile a quella già notata a proposito dello splendore o della cupezza dei
colori nei dipinti. Appartengono agli oggetti; non sono sospesi né isolati, e
gli oggetti a cui appartengono esistono in un mondo dotato di estensione e
volume.
Il mormorare è dei ruscelli, il bisbigliare e lo stormire è delle foglie,
l’incresparsi è delle onde, il fragore è del frangente e del tuono, il gemere e
il sof are è del vento… e così via inde nitamente. Con questa
affermazione non voglio dire che la sottigliezza della nota del auto e il
robusto fragore dell’organo siano direttamente associati da noi a particolari
oggetti della natura. Voglio invece dire che questi suoni esprimono qualità
di estensione perché solo l’astrazione intellettuale riesce a separare un
evento nel tempo da un oggetto esteso che avvia o subisce un
cambiamento. Il tempo in quanto vuoto non esiste; il tempo in quanto
entità non esiste. A esistere sono cose che agiscono e cambiano, e una
qualità costante del loro comportamento è temporale.
Il volume, come la spaziosità, è una qualità indipendente dalla mera
dimensione e dalla mera massa. Ci sono piccoli paesaggi che trasmettono
l’abbondanza della natura. Una natura morta di Cézanne, con una
composizione di pere e mele, trasmette l’essenza stessa del volume in un
equilibrio dinamico sia con un altro volume che con lo spazio circostante.
Ciò che è gracile, fragile, non è per forza esempio di debolezza estetica;
può anche essere un dar corpo al volume. Romanzi, poesie, drammi,
statue, edi ci, personaggi, movimenti sociali, argomentazioni, così come
quadri e sonate, sono contraddistinti da solidità, compattezza, e dal suo
contrario.
Senza la terza proprietà, la spaziatura, l’occupazione sarebbe un caos. Il
posto, o posizione, che viene determinato dalla distribuzione di intervalli
mediante la spaziatura, è un fattore importante per realizzare
l’individualizzazione delle parti di cui si è già parlato. Ma una posizione
presa ha un immediato valore qualitativo e in quanto tale diventa una
parte intrinseca della sostanza. Il sentimento dell’energia, specialmente
non già dell’energia in generale ma di questa o quella forza in concreto, è
strettamente connesso con la correttezza della posizione. Infatti c’è
un’energia sia di posizione che di movimento. E mentre in sica la prima
viene chiamata talvolta energia potenziale per distinguerla dall’energia
cinetica, in quanto sentita direttamente essa è attuale quanto l’ultima.
Nelle arti plastiche è infatti il mezzo attraverso il quale viene espresso il
movimento. Alcuni intervalli (che si stabiliscono in tutte le direzioni, non
soltanto lateralmente) sono favorevoli alla manifestazione dell’energia; altri
ne vani cano l’azione – esempi evidenti sono il pugilato e la lotta.
Le cose potrebbero essere troppo lontane, troppo vicine, o messe in
relazione tra loro da un angolo visuale errato per consentire energia
d’azione. Ne risulta una composizione goffa, che si tratti di un essere
umano o di architettura, prosa o pittura. In poesia il metro deve i suoi
effetti più penetranti al suo de nire la posizione esatta a vari elementi – un
esempio evidente è la sua frequente inversione dell’ordine della prosa. Ci
sono idee che sarebbero distrutte se venissero spaziate con spondei invece
che con trochei. Una distanza eccessiva o un intervallo troppo inde nito in
un romanzo o in un dramma fanno divagare o assopire l’attenzione,
mentre quando eventi e personaggi si succedono vorticosamente
diminuisce la forza di tutti loro. Certi effetti che distinguono alcuni pittori
si devono alla loro ne sensibilità per la spaziatura – una questione del
tutto diversa dall’utilizzo dei piani per rendere volumi e sfondi. Come
Cézanne è maestro in quest’ultimo, Corot possiede un tatto infallibile per
la prima – in particolare nei ritratti e nei cosiddetti dipinti italiani, se
confrontati con i suoi popolari, ma relativamente deboli, paesaggi argentei.
Si pensa alla trasposizione soprattutto in connessione alla musica, ma per
quel che concerne i media essa caratterizza egualmente pittura e
architettura. Il ricorrere di relazioni – non di elementi – in contesti diversi
che costituisce la trasposizione è qualitativo, e di conseguenza se ne fa
direttamente esperienza nella percezione.
Il progresso delle arti – che non è necessariamente un avanzamento e, in
pratica, non è mai un avanzamento sotto ogni pro lo – mostra una
transizione dal mezzo più ovvio per esprimere una posizione a quello più
ne. Nella letteratura più antica la posizione era conforme (come abbiamo
già notato in un altro contesto) alla convenzione sociale e alla classe
economica e politica. Era la posizione nel senso dello status sociale a
stabilire la forza della collocazione nella tragedia più antica. La distanza
era già stabilita all’esterno della rappresentazione teatrale. Nel teatro
moderno, il cui esempio eminente è Ibsen, le relazioni tra marito e moglie,
tra uomo politico e cittadinanza democratica, età avanzata e gioventù
usurpatrice (vuoi attraverso la competizione, vuoi attraverso l’attrazione
seducente), i contrasti tra convenzione esterna e impulso personale,
esprimono con forza l’energia di posizione.
Il caos e il trambusto della vita moderna fan sì che la delicatezza della
disposizione sia l’aspetto più dif cile da ottenere da parte degli artisti. La
cadenza è troppo rapida e gli accadimenti troppo tti per consentire di
agire con decisione – un difetto che si riscontra allo stesso modo in
architettura, in teatro e nella narrativa. La grande profusione di materiali e
la forza meccanica delle attività ostacolano una distribuzione ef cace.
L’enfasi interviene a creare più veemenza che intensità. Quando
all’attenzione manca la remissione indispensabile ai suoi atti, diventa
insensibile, quasi a proteggersi contro la sua ripetuta sovrastimolazione.
Solo occasionalmente troviamo risolto il problema – come in narrativa
nella Montagna incantata di Thomas Mann165 e in architettura nel Bush
Building di New York City166.
Ho detto che le tre qualità dello spazio e del tempo si in uenzano e si
quali cano a vicenda nell’esperienza. Lo spazio è vuoto se non è occupato
da volumi attivi. Le pause sono buchi se non danno rilievo a masse e non
de niscono gure come individui. L’estensione procede scompostamente
no a paralizzarsi se non interagisce con la posizione trovando una
distribuzione comprensibile. La massa non è qualcosa di sso. Si contrae e
si espande, si afferma e si sottomette a seconda delle sue relazioni con altre
cose spaziali e resistenti. Possiamo considerare questi tratti dal punto di
vista della forma, del ritmo, dell’equilibro e dell’organizzazione, ma le
relazioni che il pensiero afferra come idee sono presenti come qualità nella
percezione e sono intrinseche alla sostanza stessa dell’arte.
Ci sono dunque proprietà comuni della materia delle arti poiché ci sono
condizioni generali senza le quali un’esperienza non è possibile. Come
abbiamo visto in precedenza, la condizione basilare è la relazione sentita
tra fare e subire nell’interazione tra organismo e ambiente. La posizione
esprime la prontezza equilibrata con cui la creatura vivente affronta
l’impatto delle forze circostanti, in modo da resistere e persistere, da
estendersi o espandersi subendo quelle stesse forze che,
indipendentemente dalla sua reazione, sono indifferenti e ostili.
Inoltrandosi nell’ambiente, la posizione si dispiega in volume; a causa della
pressione dell’ambiente, la massa si riduce a energia di posizione e lo
spazio, quando la materia è contratta, resta come occasione di azioni
ulteriori. La distinzione degli elementi e la coesione dei membri in un
intero sono le funzioni che de niscono l’intelligenza; l’intelligibilità di
un’opera d’arte dipende dall’avere un senso vivo del signi cato che fa sì
che l’individualità delle parti e la loro relazione nell’intero siano
direttamente presenti all’occhio e all’orecchio allenati a percepire.
10 – La sostanza differente delle arti

L’arte è una qualità del fare e di ciò che viene fatto. Solo esteriormente,
quindi, può essere designata con un sostantivo nominale. Inerendo alla
maniera e al contenuto del fare, essa è aggettivale per natura. Quando
diciamo che giocare a tennis, cantare, recitare e moltissime altre attività
sono arti, ci serviamo di un modo ellittico per dire che c’è arte nel modo di
svolgere tali attività e che questa arte quali ca ciò che si fa e si realizza in
modo da sollecitare in chi le percepisce attività in cui pure c’è arte. Il
prodotto dell’arte – tempio, dipinto, statua, poesia – non è l’opera d’arte.
L’opera ha luogo quando un essere umano coopera con il prodotto dando
esito a un’esperienza che piace per le sue proprietà di libertà e ordine.
Esteticamente almeno
…we receive but what we give,
And in our life alone does nature live;
Ours is her wedding garments; ours her shroud.167

Se “arte” denotasse oggetti, se fosse un vero e proprio sostantivo, gli


oggetti d’arte potrebbero essere distinti in classi diverse. L’arte sarebbe
allora divisa in generi e questi sarebbero suddivisi in specie. Questo tipo di
divisione è stato applicato agli animali nché si è creduto che si trattasse di
cose sse in se stesse. Ma il sistema di classi cazione ha dovuto cambiare
quando si è scoperto che gli animali erano differenziazione in un usso di
attività vitale. Le classi cazioni sono diventate genetiche, designando
quanto più accuratamente possibile il posto speci co di forme particolari
nella continuità della vita sulla terra. Se l’arte è una qualità intrinseca
dell’attività, non possiamo dividerla e frazionarla. Possiamo solo seguire la
differenziazione dell’attività in modi differenti quando collide con
materiali differenti e impiega media differenti.
Le qualità in quanto tali non si prestano a una divisione. Sarebbe
impossibile dare un nome a sottogeneri per no del dolce e dell’aspro. Alla
ne un tentativo simile sarebbe costretto a enumerare ogni cosa al mondo
che sia dolce o aspra, di modo che la presunta classi cazione risulterebbe
un mero catalogo che duplica inutilmente in forma di “qualità” ciò che si
conosceva prima in forma di cose. Infatti la qualità è concreta ed
esistenziale, e pertanto varia insieme agli individui essendo pregna della
loro unicità. Possiamo difatti parlare di rosso e poi del rosso di rose o
tramonti. Ma questi termini sono di natura pratica, in quanto ci danno
qualche indicazione sulla direzione verso cui volgerci. Nella realtà non ci
sono due tramonti che hanno esattamente lo stesso rosso. Ciò non
potrebbe accadere se un tramonto ripetesse l’altro assolutamente in ogni
suo dettaglio. Infatti il rosso è sempre il rosso del materiale di quella
esperienza.
Per certi scopi i logici considerano qualità come rosso, dolce, bello, ecc.
degli universali. In quanto logici formali non sono interessati proprio a
quelle questioni a cui gli artisti sono interessati. Un pittore sa infatti che in
un quadro non ci sono due rossi esattamente uguali tra loro, poiché
ciascuno risente degli in niti dettagli del suo contesto nell’intero
individuale in cui appare. Quando si usa “rosso” per designare “rossezza”
in generale, il termine è un appiglio, una modalità di approccio, una
delimitazione dell’azione entro una certa sfera, come nel caso in cui si
compra vernice rossa per un enile e dunque entro certi limiti ogni rosso
andrà bene, o per fare un confronto con un campione quando si sta
acquistando della merce.
Il linguaggio risulta in nitamente insuf ciente a procedere in parallelo
con la variegata super cie della natura. Tuttavia le parole, in quanto
dispositivi pratici, sono gli strumenti con cui ridurre a ordini, gradi e classi
gestibili quella ineffabile diversità dell’esistenza naturale che opera
nell’esperienza umana. Non solo è impossibile che il linguaggio duplichi
l’in nita varietà delle qualità individuali che esistono, ma è assolutamente
indesiderabile e non necessario che lo faccia. La qualità unica di una
qualità si trova nell’esperienza stessa; è qui e ciò basta a che non ci sia
bisogno di una sua duplicazione nel linguaggio. Quest’ultimo adempie al
proprio scopo scienti co o intellettuale quando dà indicazioni su come
rintracciare queste qualità nell’esperienza. Quanto più l’indicazione è
generale e semplice, tanto è migliore. Più le indicazioni sono inutilmente
dettagliate, più confondono invece di orientare. Le parole adempiono
invece al loro scopo poetico nella misura in cui richiamano e sollecitano in
un’operazione attiva le risposte vitali che sono presenti ogni volta che si fa
esperienza di qualità.
Recentemente un poeta ha detto che la poesia gli sembra «più sica che
intellettuale», e ha proseguito dicendo di riconoscere la poesia da sintomi
sici come la pelle d’oca, i brividi lungo la schiena, lo stringersi della gola e
il sentire alla bocca dello stomaco la «lancia che mi perfora» di cui parla
Keats168. Non credo che Housman intenda dire che questi sentimenti sono
l’effetto poetico. Essere una cosa ed essere un segno della sua presenza
sono modi d’essere differenti. Ma proprio sentimenti del genere, e ciò che
altri autori hanno chiamato “clic” organici, sono l’indicazione evidente di
una completa partecipazione organica, mentre sono la pienezza e
l’immediatezza di questa partecipazione a costituire la qualità estetica di
un’esperienza, proprio in quanto sono loro a trascendere la qualità
intellettuale. Per questo motivo metterei in dubbio la verità letterale
dell’affermazione secondo cui la poesia è più sica che intellettuale. Ma
che sia più che intellettuale, in quanto assimila l’intellettuale in qualità
immediate di cui si fa esperienza attraverso i sensi che appartengono al
corpo vivente, mi pare talmente indubitabile da giusti care l’esagerazione
insita in quell’affermazione in quanto opposta all’idea che le qualità siano
degli universali intuiti attraverso l’intelletto.
La fallacia di una de nizione è l’altro aspetto della fallacia di una
classi cazione rigida, e di un’astrazione che sia resa ne a se stessa invece
di essere utilizzata come uno strumento funzionale all’esperienza. Una
de nizione è buona quando è sagace, ed è tale quando indica la direzione
verso cui possiamo muoverci speditamente per fare un’esperienza. Fisica e
chimica hanno imparato, per la necessità intrinseca dei loro compiti, che
una de nizione è ciò che ci indica come sono fatte le cose, e in tale
maniera ci rende capaci di predirne il veri carsi, di veri carne la presenza
e, talvolta, di crearle noi stessi. I teorici e i critici della letteratura sono
rimasti molto indietro. Sono ancora in larga parte schiavi dell’antica
meta sica dell’essenza in base alla quale una de nizione, se è “corretta”,
ci svela qualche realtà interna che fa sì che la cosa sia ciò che è in quanto
membro di una specie che è ssa in eterno. Ecco perché si afferma che la
specie è più reale di un individuo, o anzi che lei stessa è il vero individuo.
Per scopi pratici pensiamo in termini di classi, così come facciamo
esperienza concreta in termini di individui. Quindi un profano
probabilmente crede che è una cosa semplice de nire una vocale. Invece
uno studioso di fonetica è costretto, dallo stretto contatto con il contenuto
concreto che tratta, a riconoscere che è un’illusione una de nizione che sia
rigorosa in quanto in grado di contraddistinguere una classe di cose
rispetto ad altre da ogni punto di vista. C’è solo una serie di de nizioni più
o meno utili; utili perché dirigono l’attenzione verso tendenze signi cative
nel processo continuo della vocalizzazione – tendenze che, se portate a un
eccesso di discontinuità, produrrebbero questa o quella de nizione
“esatta”.
William James169 ha fatto notare quanto sia tediosa un’elaborata
classi cazione di cose che si fondono e variano come fanno le emozioni
umane. I tentativi di classi care le belle arti in modo preciso e sistematico
mi sembrano altrettanto tediosi. Una classi cazione elencativa è opportuna
e, ai ni di un facile riferimento, indispensabile. Una catalogazione che
distingua tra pittura, scultura, poesia, drammaturgia, danza, arte dei
giardini, architettura, canto, orchestrazione musicale, ecc. ecc., non nge
però di far luce sulla natura intrinseca delle cose elencate. Lascia che
l’illuminazione giunga dal solo luogo da cui può giungere: l’opera d’arte
individuale.
Le classi cazioni rigide sono inadeguate (se prese seriamente) perché
distraggono l’attenzione da ciò che è esteticamente fondamentale – il
carattere qualitativamente unico e integrale dell’esperienza di un prodotto
artistico. Ma per uno studioso di teoria estetica sono anche fuorvianti. Ci
sono due punti importanti della comprensione intellettuale in cui queste
classi cazioni generano confusione. Esse trascurano inevitabilmente gli
anelli di transizione e di connessione; di conseguenza pongono ostacoli
insormontabili che impediscono di seguire in modo intelligente lo sviluppo
storico di qualsiasi arte.
Una sola classi cazione che ha incontrato un certo favore è conforme
agli organi dei sensi. Vedremo più avanti quale elemento di verità possa
risiedere in questa maniera di suddividere. Ma presa in modo letterale e
rigido essa non può assolutamente produrre un risultato coerente. Autori
recenti si sono occupati in modo adeguato dello sforzo di Kant di limitare
il materiale delle arti ai sensi intellettuali “più elevati”, occhio e orecchio, e
non ripeterò i loro convincenti argomenti. Se si estende la sfera dei sensi in
modo più universale, resta comunque vero che un senso particolare è
semplicemente l’avamposto di un’attività organica totale a cui prendono
parte tutti gli organi, compreso il funzionamento del sistema
neurovegetativo. Occhio, orecchio, tatto, prendono il comando in una
particolare attività dell’organismo, ma non sono l’agente esclusivo e
neppure sempre quello maggiormente importante, più di quanto una
sentinella non sia un intero esercito.
Un esempio particolare della confusione generata dalla divisione in arti
dell’occhio e dell’orecchio si riscontra nel caso della poesia. Un tempo i
poemi erano opere dei bardi. La poesia, per quel che sappiamo, non
esisteva al di fuori della viva voce che si rivolgeva all’orecchio. Era
qualcosa di cantato o salmodiato. È appena necessario dire quanto gran
parte della poesia si sia allontanata dal canto a partire dall’invenzione della
scrittura e della stampa. Oggi ci sono anche tentativi di utilizzare le gure
a stampa come strumento per intensi care il senso di una poesia colpendo
l’occhio – come la coda del topo in Alice nel paese delle maraviglie170. Al
di là però di qualsiasi esagerazione, sebbene la “musica” sentita di una
poesia letta in silenzio sia ancora un fattore (a riprova del punto emerso
nell’ultimo paragrafo), la poesia come genere letterario oggi è
esplicitamente e sensibilmente visiva. Ha dunque migrato da una “classe”
all’altra negli ultimi duemila anni?
C’è poi la classi cazione in arti dello spazio e del tempo che si è già
menzionata. Ora, anche se tale divisione fosse corretta, essa viene stabilita
dopo l’evento e dall’esterno, e non getta luce alcuna sul contenuto estetico
di una qualche opera d’arte. Non favorisce la percezione; non dice cosa
cercare, né come vedere, ascoltare e fruire. Ha inoltre un difetto un difetto
serio vero e proprio. Come si è sottolineato in precedenza, nega ritmo a
strutture architettoniche, statue e dipinti, e simmetria a canto, poesia ed
eloquenza. E l’implicazione di tali negazioni è il ri uto di riconoscere
all’esperienza estetica la cosa più fondamentale – di essere percettiva. La
divisione viene fatta sulla base di tratti dei prodotti artistici in quanto
esistenze siche ed esterne.
In una edizione dell’Encyclopædia Britannica chi si è occupato di belle
arti ha illustrato talmente bene questa fallacia che è opportuno citare un
suo passaggio. Giusti cando la divisione delle arti in spaziali e temporali,
egli dice parlando di una statua e di un edi cio: «ciò che l’occhio vede da
un qualsiasi punto di vista lo vede tutto in una volta; in altre parole, le parti
di una qualsiasi cosa che vediamo riempiono o occupano non il tempo ma
lo spazio, e ci raggiungono da vari punti nello spazio in una singola
percezione simultanea». E aggiunge: «i loro prodotti (cioè i prodotti delle
arti della scultura e dell’architettura) sono in sé stessi solidi, ssi e
permanenti»171.
In queste poche frasi si affolla una serie di ambiguità e di equivoci
conseguenti. Anzitutto relativamente al “tutto in una volta”. Qualsiasi
oggetto nello spazio (e tutti gli oggetti sono spaziali) emette vibrazioni
tutto in una volta e le parti siche dell’oggetto occupano spazio tutto in
una volta. Ma questi tratti dell’oggetto non hanno nulla da dire o a che
fare col distinguere un tipo di percezione dall’altro. L’occupazione dello
spazio è una condizione generale dell’esistenza di qualsiasi cosa – anche di
un fantasma, se ve ne fosse uno. È una condizione causale per avere una
qualsiasi “sensazione”. In modo analogo, le vibrazioni emesse da un
oggetto sono condizioni causali di ogni tipo di percezione; di conseguenza,
esse non contraddistinguono un solo genere di percezione dagli altri.
Così, al massimo a “raggiungerci simultaneamente” sono le condizioni
siche di una percezione, non gli elementi costitutivi dell’oggetto in
quanto percepito. Si passa per inferenza a questi ultimi solo perché si
confonde “simultaneo” con “singolo”. Ovviamente tutte le impressioni
che ci raggiungono da un qualsiasi oggetto o evento devono essere
integrate in un’unica percezione. La sola alternativa all’unicità della
percezione, nel caso in cui l’oggetto sia unitario nello spazio o nel tempo, è
una successione sconnessa di istantanee che nemmeno formano spaccati di
una certa cosa. La differenza tra quella cosa elusiva e frammentaria che gli
psicologi chiamano sensazione e una percezione è l’unicità, ovvero l’unità
integrata, di quest’ultima. La simultaneità sia dell’esistenza sica che della
ricezione siologica non hanno nulla a che fare con l’unicità. Come ho
appena fatto notare, le si può considerare identiche solo confondendo le
condizioni causali di una percezione con il contenuto effettivo della
percezione.
Ma l’errore fondamentale è confondere il prodotto sico con l’oggetto
estetico, che è ciò che si percepisce. Fisicamente una statua è un blocco di
marmo. È immobile e, per quanto lo permettano le ingiurie del tempo,
permanente. Ma identi care la massa sica con la statua che è un’opera
d’arte, e identi care i pigmenti su una tela con un quadro, è assurdo. E il
gioco di luci su un edi cio con il continuo variare di ombre, intensità e
colori e ri essi cangianti? Se l’edi cio o la statua fossero “immobili” nella
percezione quanto lo sono nell’esistenza sica, risulterebbero tanto morti
che l’occhio non vi si soffermerebbe e scivolerebbe invece via. Un oggetto
viene infatti percepito attraverso una serie progressiva di interazioni.
L’occhio quale organo principale dell’essere intero produce un effetto
passivo, di ritorno; questo sollecita un altro atto visivo con nuove
integrazioni connesse incrementando ulteriormente signi cato e di valore,
e così via, in una continua costruzione dell’oggetto estetico. Quella che
viene chiamata inesauribilità di un’opera d’arte è una funzione di questa
continuità dell’atto totale del percepire. “Visione simultanea” è un’ottima
de nizione di una percezione così poco estetica da non essere neppure
una percezione.
Credo che le strutture architettoniche rappresentino la perfetta reductio
ad absurdum172 della separazione di spazio e tempo in opere d’arte. Se
qualche cosa ha come modo d’esistenza la “occupazione dello spazio”,
questa è un edi cio. Ma anche una piccola capanna non può essere
materia di percezione estetica se non intervengono qualità temporali. Una
cattedrale, indipendentemente da quanto sia grande, fa un’impressione
istantanea. Da essa proviene un’impressione qualitativa totale non appena
interagisce con l’organismo attraverso l’apparato visivo. Ma questo è solo il
sostrato e la cornice entro cui un continuo processo di interazioni
introduce elementi che arricchiscono e determinano. Il turista frettoloso
non ha una visione estetica di Santa So a o della Cattedrale di Rouen più
di un automobilista che viaggiando a sessanta miglia all’ora vede il
paesaggio che scorre. Occorre andare avanti e indietro, dentro e fuori, e
con ripetute visite far sì che la struttura ci si manifesti gradualmente sotto
luci diverse e in connessione con stati d’animo mutevoli.
Può sembrare che mi sia soffermato inutilmente a lungo su di
un’affermazione non molto importante. Ma l’implicazione del passo citato
investe l’intero problema dell’arte come esperienza. Un’esperienza
istantanea è una impossibilità, sia biologicamente che psicologicamente.
Un’esperienza è un prodotto, si potrebbe quasi dire un sottoprodotto,
dell’interazione continua e progressiva di un sé organico con il mondo.
Non c’è altro fondamento su cui la teoria estetica e la critica estetica
possano edi care. Quando un individuo non permette a tale processo di
compiersi pienamente, nel punto d’arresto comincia a sostituire
l’esperienza dell’opera d’arte con nozioni personali scollegate. Ciò che reca
molto danno alla teoria e alla critica estetica viene descritto con precisione
in quanto segue: «quando si trascurano il processo continuo in cui si
svolge l’interazione progressiva e il suo risultato, un oggetto viene visto solo
in una parte della sua totalità, e il resto della teoria diventa una rêverie
soggettiva invece di un progresso. Si arresta alla prima percezione di un
dettaglio parziale; il resto del processo è esclusivamente cerebrale – una
faccenda unilaterale che acquista momento solo dall’interno. Non include
quella stimolazione proveniente dall’ambiente che sostituirebbe alla
rêverie l’interazione con il sé»173.
In ogni caso, la divisione delle arti in spaziali e temporali va integrata con
un’altra classi cazione, quella in arti rappresentative e non-
rappresentative, una divisione che assegna al suo interno architettura e
musica al secondo genere. Aristotele, che ha dato la formulazione classica
alla concezione per cui l’arte è rappresentativa, ha evitato almeno il
dualismo di questa divisione. Egli ha preso il concetto di imitazione in
modo più generoso e intelligente. Di conseguenza afferma che la più
rappresentativa di tutte le arti è la musica174 – proprio quella particolare
arte che alcuni teorici moderni mettono in relazione con la classe
completamente non-rappresentativa. Egli non voleva dire qualcosa di così
sciocco come che la musica rappresenta il cinguettio degli uccelli, il
muggito delle mucche o il gorgoglio dei ruscelli. Voleva dire che la musica
riproduce per mezzo dei suoni le passioni, le impressioni emotive, che
sono prodotte da oggetti e scene marziali, tristi, trionfali, sessualmente
orgasmiche. La rappresentazione nel senso di espressione copre tutte le
qualità e tutti i valori di qualsiasi esperienza estetica possibile.
L’architettura non è rappresentativa se con questo termine si intende la
riproduzione di forme naturali ne a se stessa – come alcuni hanno
ritenuto che le cattedrali “rappresentino” gli alti alberi di una foresta. Ma
l’architettura fa più che utilizzare semplicemente forme naturali, archi,
colonne, cilindri, rettangoli, porzioni di sfera. Ne esprime l’effetto
caratteristico sull’osservatore. Cosa appunto sarebbe un edi cio che non
utilizzasse e non rappresentasse le energie naturali di gravità, pressione,
spinta e così via, va fatto spiegare a chi considera l’architettura non-
rappresentativa. Ma l’architettura non circoscrive la rappresentazione a
queste qualità di materia ed energia. Esprime anche i valori che perdurano
della vita umana collettiva. “Rappresenta” le memorie, le speranze, le
paure, gli scopi e i valori sacri di coloro che costruiscono per proteggere
una famiglia, perché gli dei abbiano un altare, per fondare un luogo dove
fare leggi, o per erigere una roccaforte contro gli attacchi. Proprio il
motivo per cui gli edi ci sono chiamati palazzi, castelli, case, municipi, fori
diventa un mistero se l’architettura non risulta espressiva al massimo grado
di interessi e valori umani. Al di là delle rêverie cerebrali, è auto-evidente
che ogni struttura importante è una miniera di memorie istoriate e un
inventario monumentale di aspettative nutrite per il futuro.
Inoltre, la separazione dell’architettura (e anche della musica, a tal
riguardo) da arti come pittura e scultura mette a soqquadro gli sviluppi
storici delle arti. Per intere epoche la scultura (che è considerata
rappresentativa) è stata una parte organica dell’architettura: ne sono prova
il fregio del Partenone o le sculture delle cattedrali di Lincoln e Chartres.
Non si può neanche dire che la sua crescente indipendenza
dall’architettura – con statue disseminate in parchi e piazze pubbliche e
busti posti su piedistalli in spazi già strapieni – abbia coinciso con un
qualche progresso nell’arte della scultura. La pittura fu dapprima
intimamente unita alle pareti delle caverne. A lungo continuò a essere un
effetto decorativo di templi e palazzi, all’esterno e su pareti interne. Gli
affreschi si voleva che ispirassero fede, risvegliassero misericordia e
istruissero il fedele sui santi, sugli eroi e sui martiri della sua religione.
Quando gli edi ci gotici lasciarono poco spazio sulle pareti per i dipinti
murali, vetri istoriati e più tardi dipinti su quadri ne presero il posto –
anch’essi parti di un intero architettonico come lo erano le sculture
sull’altare e sul dossale. Quando i nobili e i principi mercanti cominciarono
a collezionare dipinti su tela, li utilizzarono per decorare pareti – tanto che
spesso venivano tagliati e sagomati perché meglio si adattassero allo scopo
di ornare la parete. La musica era associata al canto e i suoi vari modi
erano adatti alle esigenze di grandi momenti critici e di eventi importanti –
morti, matrimoni, guerre, culti, festeggiamenti. Col passare del tempo, sia
la pittura sia la musica hanno smesso di essere asservite a ni particolari.
Poiché tutte le arti hanno teso a sfruttare i propri media no a raggiungere
l’indipendenza, si può utilizzare questo fatto più per dimostrare che
nessuna delle arti è letteralmente imitativa che per fornire un motivo per
tracciare linee rigide e nette tra loro.
Inoltre, appena le linee sono state tracciate, i teorici che le stabiliscono
trovano necessario fare eccezioni e introdurre forme di transizione e
persino dire che alcune arti sono miste – per esempio la danza, che è sia
spaziale che temporale. Dal momento che è la natura di ogni oggetto
d’arte di essere se stesso, unico e unitario, questa nozione di un’arte
“mista” può essere senz’altro considerata una reductio ad absurdum175 di
tutti i modi di fare classi cazioni rigide. Cosa possono cogliere
classi cazioni del genere di una scultura in altorilievo o in bassorilievo,
delle gure di marmo su tombe, dell’intaglio su portali di legno o della
fusione su portali di bronzo? E che dire delle sculture che ornano capitelli,
fregi, cornici, canopie, mensole? Come vi si adattano le arti minori, i lavori
in avorio, alabastro, gesso, terracotta, oro e argento, le decorazioni
ornamentali in ferro per mensole, insegne, cardini, griglie e inferriate? La
stessa musica è non-rappresentativa quando si suona in una sala da
concerti e rappresentativa quando fa parte di una funzione religiosa in una
chiesa?
Il tentativo di giungere a una classi cazione e una de nizione rigida non
è circoscritto alle arti. Un metodo analogo è stato applicato agli effetti
estetici. Ci si è sforzati con molto ingegno di enumerare le differenti specie
di bellezza dopo aver stabilito l’“essenza” della bellezza stessa: il sublime,
il grottesco, il tragico, il comico, il poetico e così via. Ora, ci sono senza
dubbio realtà a cui si addicono tali termini – così come i nomi propri si
usano in rapporto a membri diversi di una famiglia. È possibile per una
persona titolata dire cose su sublime, eloquente, poetico, umoristico, che
migliorano e chiariscono la percezione di oggetti in concreto. Quando si
guarda un Giorgione può essere d’aiuto possedere già un senso de nito di
ciò che deve essere lirico; e quando si ascolta il tema principale della
Quinta Sinfonia di Beethoven può essere d’aiuto accostarvisi con una
concezione chiara di quale forza sia o non sia presente nelle arti.
Purtroppo, però, la teoria estetica non si è accontentata di qualità
chiari catrici intese in termini di enfasi all’interno di interi individuali. Ha
elevato gli aggettivi a sostantivi e poi ha eseguito motivi dialettici basati sui
concetti ssi emersi. Dal momento che se si muove da principi e idee
costruiti all’esterno dell’esperienza estetica diretta non può che istituirsi
una concettualizzazione rigida, tutte queste imprese offrono buoni esempi
di “revêrie cerebrale”.
Se però consideriamo pittoresco, sublime, poetico, brutto, tragico come
termini che indicano tendenze e pertanto come termini aggettivali al pari
di grazioso, sdolcinato, persuasivo, verremo ricondotti al fatto che l’arte è
una qualità d’attività. Come qualsiasi modo d’attività, essa è contrassegnata
dal movimento in questa o quella direzione. Tali movimenti possono essere
distinti in maniera da rendere più perspicua la nostra relazione con
l’attività in questione. Una tendenza, un movimento, si veri ca entro certi
limiti che ne de niscono la direzione. Ma le tendenze dell’esperienza non
hanno limiti che sono ssati esattamente o che sono linee matematiche
prive di larghezza e di spessore. L’esperienza è troppo ricca e complessa
per permettere una delimitazione precisa di tal genere. Le tendenze
mettono capo a fasce e non a linee, e le qualità che le caratterizzano
formano uno spettro anziché prestarsi a essere divise in compartimenti
separati.
Ciascuno di noi, dunque, può scegliere brani di letteratura e dire senza
esitazione che uno è poetico, un altro prosaico. Ma questo assegnare
qualità non implica che ci sia un’entità chiamata poesia e un’altra
chiamata prosa. Implica, ancora una volta, una qualità sentita di un
movimento verso un limite. Di conseguenza la qualità esiste in molti gradi
e in molte forme. Alcuni tra i suoi gradi minori si manifestano in luoghi
inaspettati. Helen Parkhurst cita il caso seguente da un bollettino
meteorologico: «bassa pressione prevale a ovest delle Montagne Rocciose,
sull’Idaho e a sud del ume Columbia no al Nevada. Condizioni di
uragano permangono lungo la valle del Mississippi e nel Golfo del
Messico. Bufere di neve vengono segnalate nel Nord Dakota e nel
Wyoming, neve e grandine in Oregon e temperature intorno allo zero nel
Missouri. Forti venti di sud-est sof ano dalle Indie Occidentali, e lungo le
coste del Brasile la navigazione è stata messa in stato d’allerta»176.
Nessuno direbbe che questo passo è poesia. Ma solo una de nizione
accademica negherà che in esso c’è qualcosa di poetico, dovuto in parte
all’eufonia dei termini geogra ci, e ancor più ai “valori trasferiti”;
all’accumularsi di allusioni che generano un senso di spaziosità della terra,
il fascino di paesi stranieri e lontani e, soprattutto, il mistero del vario
tumulto delle forze della natura in forma di uragano, tormenta, grandine,
neve, gelo e tempesta. L’intenzione è dar conto in prosa delle condizioni
del tempo. Ma le parole si caricano di un peso che dà loro un impulso
verso il poetico. Credo che persino delle equazioni composte da simboli
chimici, in certe circostanze in cui si amplia l’indagine all’interno della
natura, per alcune persone abbiano un valore poetico, sebbene in casi del
genere l’effetto sia limitato e idiosincratico. Ma è certo in anticipo che
succederà che esperienze dotate di materiali differenti e movimenti
differenti verso differenti tipi di conclusioni avranno differenze che agli
estremi sono tanto distanti quanto ciò è che aridamente prosaico e ciò è
che fervidamente poetico. Infatti in alcuni casi la tendenza è nella
direzione del compimento di un’esperienza in quanto esperienza, mentre
in altri casi il risultato verso cui ci si muove non è che una riserva da
utilizzare in un’altra esperienza.
Credo che l’esame della letteratura relativa al comico e all’umoristico
mostrerà gli stessi due fatti. Da un lato, osservazioni casuali e marginali
chiariscono maggiormente qualche particolare tendenza e rendono il
lettore più partecipe e acuto nelle situazioni presenti. Questi esempi
saranno identici ai casi in cui si prende in esame una qualità aggettivale,
una tendenza. Ma si compiono sforzi complessi e laboriosi per stabilire una
de nizione rigida illustrata da una serie di casi. Come può una qualsiasi
classi cazione in generi e specie ridurre a unità concettuale tendenze
talmente varie come quelle indicate dai pur pochi termini in uso: risibile,
ridicolo, licenzioso, divertente, buffo, allegro, farsesco, spassoso, spiritoso,
ilare; canzonatorio, burlesco, derisorio, beffeggiatorio, motteggiante,
irrisorio? Naturalmente con suf ciente ingegnosità si può partire da una
de nizione, come incongruità, o da un senso di logica e proporzione che
operano in senso inverso, per poi trovare una differentia177 speci ca per
ogni varietà. Ma allora sarebbe evidente che stiamo assistendo a un gioco
dialettico.
Se ci limitiamo a un aspetto soltanto, il ridicolo, le rire178, il comico è ciò
di cui ridiamo. Ma ridiamo anche con; ridiamo per euforia, per semplice
buonumore, genialità, convivialità, per disprezzo o imbarazzo. Perché
con nare tutte queste variazioni di tendenza in un singolo concetto rigido
e sbrigativo? Non che i concetti non siano il cuore del pensiero, ma la loro
funzione effettiva è di essere strumenti di approccio al gioco mutevole del
materiale concreto e non quella di costringere quel materiale in una rigida
immobilità. Poiché ad agire come fattore di rinforzo della percezione in
un’esperienza particolare è il materiale del momento non già le de nizioni
formali, le osservazioni a lato svolgono la funzione effettiva del concetto.
In ne, restando su questo punto, la nozione di classi sse e quella di
regole sse vanno inevitabilmente una insieme all’altra. Se ci sono, ad
esempio, così tanti generi letterari separati, allora c’è qualche principio
immutabile che distingue ogni tipo e de nisce un’essenza intrinseca che
rende ogni specie ciò che è. È dunque a questo principio che ci si deve
conformare; altrimenti, la “natura” che è propria dell’arte sarà violata e il
risultato sarà un’arte “cattiva”. Invece di essere libero di fare ciò di cui è
capace con il materiale che ha a disposizione e i media che controlla,
l’artista, pena il biasimo della critica che conosce le regole, è costretto a
seguire i precetti che scaturiscono dal principio di base. Invece di osservare
il contenuto da trattare, osserva le regole. Così la classi cazione pone limiti
alla percezione. Se la teoria che si trova alla base è in uente, limita l’opera
creativa. Infatti le opere nuove sono tanto più nuove quanto meno si
adeguano a caselle già predisposte. Esse sono nelle arti ciò che in teologia
sono le eresie. Ci sono suf cienti ostacoli comunque sulla via
dell’espressione genuina. Le regole che presiedono alla classi cazione
aggiungono un ulteriore svantaggio. La loso a della classi cazione ssa
tanto in voga tra i critici (che, ne siano o meno consapevoli, rientrano in
una delle varie posizioni che i loso hanno formulato in maniera più
de nita) incoraggia tutti gli artisti, tranne quelli che hanno vigore e
coraggio insoliti, a fare della “sicurezza innanzitutto” il loro principio
guida.
Il tono di ciò che precede non è così negativo come potrebbe sembrare a
prima vista. Infatti esso richiama attenzione in modo indiretto
sull’importanza dei media e sulla loro inesauribile varietà. Possiamo
tranquillamente avviare qualsiasi confronto sulla materia differente delle
arti con questo fatto dell’importanza decisiva del medium: con il fatto che
media diversi hanno diversa ef cacia e si adattano a ni diversi. Non
costruiamo ponti con la creta né utilizziamo la cosa più opaca che
riusciamo a trovare per farne pannelli da nestre per trasmettere la luce
del sole. Questo solo fatto negativo costringe alla differenziazione nelle
opere d’arte. Sul versante positivo, ciò suggerisce che il colore fa qualcosa
di peculiare nell’esperienza e il suono qualcos’altro; i suoni degli strumenti
qualcosa di diverso dal suono della voce umana, e così via. Al tempo stesso
ci ricorda che non si possono determinare, mediante una qualche regola a
priori, i limiti esatti dell’ef cacia di un qualsiasi medium, e che ogni
grande iniziatore in arte infrange qualche barriera che prima era stata
considerata connaturata. Inoltre, impostando la discussione sulla base dei
media, si capisce che essi formano un continuum179, uno spettro, e che
mentre si possono distinguere le arti così come si distinguono i sette
cosiddetti colori primari, non si può nemmeno tentare di dire esattamente
dove inizia l’una e dove nisce l’altra; e anche che, se si toglie un colore
dal suo contesto, per esempio una particolare striscia di rosso, esso non è
più lo stesso colore che era prima.
Quando guardiamo le arti dal punto di vista dei media espressivi, l’ampia
distinzione con cui dobbiamo confrontarci è quella tra le arti che hanno
per medium l’organismo umano, l’insieme corpo-mente, dell’artista, e
quelle che dipendono in misura assai maggiore da materiali esterni al
corpo: le cosiddette arti automatiche e formative180. Danzare, cantare,
raccontare le storie – il prototipo delle arti letterarie in connessione con il
canto – sono esempi di arti “automatiche”, così come lo sono le
scari cazioni sul corpo, i tatuaggi, ecc., e l’educazione del corpo presso i
greci con i giochi e la ginnastica. Altro esempio è l’educazione della voce,
della postura e dei gesti che aggiunge grazia ai rapporti sociali.
Essendo state identi cate in un primo momento con le arti tecnologiche,
le arti formative sono state associate al lavoro e con un certo grado, pur
lieve, di pressione esterna, in contrasto con le arti automatiche in quanto
derivanti spontaneamente, liberamente dallo svago. Pertanto, i pensatori
greci le hanno collocate più in alto di quelle che asservivano l’uso del
corpo alla lavorazione di materiali esterni passando per la mediazione di
strumenti. Aristotele reputa scultore e architetto – anche quelli del
Partenone – artigiani invece che artisti nel senso liberale181. Il gusto
moderno tende a ritenere più elevate le belle arti che rimodellano il
materiale, dove il prodotto è durevole anziché transitorio ed è capace di
affascinare un’ampia cerchia, inclusi i posteri, di contro alla restrizione del
canto, della danza e della narrazione orale di storie a un pubblico diretto.
Ma tutte le classi cazioni in alto o in basso sono, in de nitiva, fuori posto
e ottuse. Ogni medium ha la sua propria ef cacia e il suo proprio valore.
Ciò che si può dire è che i prodotti delle arti tecnologiche diventano belli
nella misura in cui accolgono al proprio interno qualcosa della spontaneità
delle arti automatiche. Tranne che nel caso di opere fatte da macchine,
curate meccanicamente da un operatore, i movimenti del corpo
individuale intervengono ogni volta che si rimodella un materiale. Questi
movimenti diventano “belli” nella misura in cui trasmettono ai modi di
trattare materiali sicamente esterni quella spinta organica che viene
dall’interno ed è propria di un’arte automatica. Qualcosa del ritmo
dell’espressione vitale naturale, quasi fosse un qualche elemento di danza
o pantomima, deve penetrare nell’intagliare, nel dipingere, nel fare statue,
nel progettare edi ci e nello scrivere racconti; ecco una ragione in più per
subordinare la tecnica alla forma.
Anche nel caso di questa ampia distinzione delle arti siamo in presenza
di uno spettro piuttosto che di classi separate. Il discorso cadenzato non si
sarebbe sviluppato tanto nella direzione della musica senza l’ausilio di
canna, corda e tamburo, un ausilio che non è esterno dal momento che ha
modi cato la materia del canto stesso. La storia delle forme musicali è da
un lato la storia dell’invenzione degli strumenti e della pratica della
strumentazione. Che gli strumenti non siano meri veicoli, come un disco
fonogra co, ma siano tutti media, risulta evidente se, ad esempio, si
considera quanto il pianoforte ha contribuito a ssare la scala oggi
generalmente in uso. Analogamente, la stampa ha agito – o reagito – nel
modi care profondamente la sostanza della letteratura; nel modi care, per
mezzo di una sola illustrazione, le parole stesse che formano il medium
della letteratura. Sul versante negativo il cambiamento è indicato dalla
tendenza crescente a usare “letterario” come termine spregiativo. La
lingua parlata non è mai stata “letteraria” nché la stampa e la lettura non
sono diventate di uso comune. D’altro lato, però, anche ammettendo che
nessuna singola opera letteraria supera, diciamo, l’Iliade (sebbene anche
questa sia sicuramente il prodotto di un’organizzazione di materiali in
precedenza dispersi resa necessaria dalla scrittura e da una diffusione più
ampia), la stampa ha comunque contribuito a un enorme ampliamento
non tanto nella mole quanto nella varietà e nella nezza qualitativa, oltre
ad aver imposto un’organizzazione che prima non esisteva.
Non desidero però addentrarmi ulteriormente in questa materia se non
per segnalare che anche in questa ampia distinzione delle varie arti in
automatiche e formative siamo in presenza anche di forme intermedie, di
transizioni e in uenze reciproche, e non degli scomparti di un casellario.
La cosa importante è che un’opera d’arte sfrutti al massimo il medium che
è suo – tenendo a mente che il materiale non è medium se non quando è
utilizzato come un organo d’espressione. I materiali della natura e del
consorzio umano sono pressoché in nitamente disparati. Ogni volta che
un qualche materiale trova un medium che esprime il suo valore
nell’esperienza – ossia il suo valore immaginativo ed emotivo – esso diventa
la sostanza di un’opera d’arte. La lotta senza ne dell’arte è quindi di
convertire in media eloquenti materiali che nell’esperienza comune
balbettano o sono muti. Ricordando che l’arte stessa denota una qualità
d’azione e di cose che si sono fatte, ogni vera opera d’arte nuova è in una
certa misura in sé la nascita di una nuova arte.
Direi, quindi, che ci sono due errori di interpretazione per quel che
concerne l’argomento in discussione. Uno è tenere le arti del tutto
separate. L’altro è farle con uire tutte quante in una sola. Il secondo errore
si riscontra nell’interpretazione spesso data dai critici che si accontentano
di conformarsi a un passo di Pater che dice che tutte le «arti aspirano
costantemente alla condizione della musica». Parlo di interpretazioni
piuttosto che dello stesso Pater perché il passaggio completo mostra che
egli non voleva dire che ogni arte si svilupperà no al punto di produrre il
medesimo effetto dato dalla musica. Egli pensava che la musica realizzasse
«più completamente quest’ideale artistico, questa perfetta identi cazione
di materia e di forma». Questa unione è la «condizione» a cui aspirano le
altre arti. Sia che Pater abbia ragione o meno a ritenere che la musica
realizza in maniera assolutamente perfetta questa fusione reciproca di
sostanza e forma, non dovrebbe comunque essergli attribuita l’altra idea.
Anche perché, tra l’altro, è chiaramente falsa. Dal momento in cui Pater
scriveva, sia la pittura che la stessa musica si sono mosse nella direzione
dell’architettonico allontanandosi dal “musicale” nel suo senso limitato: e
così ha fatto in misura considerevole la poesia oltre alla pittura. Ed è degno
di nota che Pater dica che ogni arte raggiunge la condizione di un’altra, e
che la musica avrebbe gure, «curve, forme geometriche, tessitura»182.
In breve, ciò che vorrei mettere in evidenza è che parole come poetico,
architettonico, drammatico, scultoreo, pittorico, letterario – inteso come
designazione della qualità realizzata al meglio dalla letteratura – denotano
tendenze che appartengono in una certa misura a ogni arte in quanto
quali cano qualsiasi esperienza completa, mentre peraltro un medium
particolare è più adatto a dare enfasi a una qualche tensione. Se l’effetto
appropriato a un medium diventa troppo evidente nell’uso di un altro
medium, c’è difetto estetico. Quando, dunque, in seguito userò i nomi
delle arti come sostantivi, si comprenderà che ho in mente una gamma di
oggetti che esprimono una certa qualità in modo enfatico ma non
esclusivo.
Il tratto che caratterizza l’architettura in senso enfatico è che i suoi media
sono i materiali (relativamente) grezzi della natura e delle forme
fondamentali dell’energia naturale. I suoi effetti dipendono da
caratteristiche che appartengono in misura dominante proprio a questi
materiali. Tutte le arti “formative” mettono materiali naturali e forme di
energia al servizio di qualche desiderio umano. L’architettura non ha in sé
nulla di insolito rispetto a questo fatto generale. Ma è peculiarmente
contraddistinta per quel che riguarda il modo ampio e diretto con cui fa
uso di forze naturali. Se si paragonano gli edi ci con altri prodotti artistici
si viene subito colpiti dalla gamma inde nitamente ampia di materiali che
l’architettura adotta ai propri ni – legno, pietra, acciaio, cemento,
terracotta, vetro, giunco, a confronto del numero relativamente ristretto di
materiali disponibili in pittura, scultura e poesia. Ma è altrettanto
importante il fatto che essa prenda questi materiali, per così dire, schietti.
Impiega materiali non solo su vasta scala ma di prima mano – non che
l’acciaio e i mattoni siano forniti direttamente dalla natura, ma essi sono
più vicini alla natura di quanto non lo siano i pigmenti e gli strumenti
musicali. Se c’è qualche dubbio su questo fatto, non ce n’è nessuno sul suo
utilizzo delle energie della natura. Nessun altro prodotto esibisce pressioni
e tensioni, spinte e controspinte, gravità, leggerezza, coesione, su una scala
affatto comparabile a quello architettonico, e questo prende tali forze in
maniera più diretta, meno mediata e meno vicaria di quanto faccia
qualsiasi altra arte. Il prodotto architettonico esprime la costituzione
strutturale della natura stessa. La sua connessione con l’ingegneria è
inevitabile.
Per questa ragione, tra tutti gli oggetti d’arte gli edi ci sono quelli che
arrivano più vicini a esprimere la stabilità e la resistenza dell’esistenza.
Stanno alle montagne come la musica sta al mare. Per la sua intrinseca
capacità di resistere, l’architettura raccoglie e celebra più di qualsiasi altra
arte le caratteristiche generiche della nostra comune vita umana. C’è chi,
sotto l’in uenza di preconcetti teorici, considera i valori umani espressi
nell’architettura esteticamente irrilevanti, solo una concessione inevitabile
all’utilità. Che gli edi ci siano la cosa esteticamente peggiore poiché
esprimono il fasto del potere, la maestà dello stato, i dolci atti pietosi delle
relazioni domestiche, il traf co caotico delle città e l’adorazione dei fedeli,
non è ovvio. Che questi ni entrino organicamente nella struttura degli
edi ci sembra troppo evidente per dare luogo a una discussione. Che
spesso si veri chi la degradazione verso qualche uso speci co e che ciò sia
artisticamente nocivo è altrettanto chiaro. Ma la ragione è la bassezza del
ne, ovvero il fatto che i materiali non vengano trattati in modo da
esprimere in maniera equilibrata l’adattamento sia alle condizioni naturali
che a quelle umane.
La completa eliminazione dell’uso umano (come in Schopenhauer)
spiega la limitazione dell’“uso” a ni ristretti e ciò dipende dall’ignorare il
fatto che l’arte bella è sempre il prodotto nell’esperienza di una interazione
degli esseri umani con il loro ambiente. L’architettura è un esempio
notevole della reciprocità dei risultati di questa interazione. I materiali
vengono trasformati divenendo i media degli scopi dell’uomo di difendersi,
abitare e pregare. Ma anche la vita stessa dell’uomo è resa differente, e in
modi che vanno ben al di là dell’intento o della capacità di previsione di
coloro che costruiscono gli edi ci. Il rimodellamento dell’esperienza
successiva da parte delle opere architettoniche è più diretto e più esteso
che nel caso di qualsiasi altra arte, salvo forse la letteratura. Non solo
in uenzano il futuro, ma raccolgono e trasmettono il passato. Templi,
scuole, palazzi, case, come anche le rovine, raccontano delle speranze e
delle lotte degli uomini, dei loro successi e delle loro sofferenze. Il
desiderio dell’uomo di sopravvivere attraverso le proprie imprese,
caratteristico della edi cazione delle piramidi, si riscontra in misura meno
massiccia in ogni opera architettonica. Non è una qualità circoscritta agli
edi ci. Infatti qualcosa di architettonico si trova in ogni opera d’arte in cui
c’è manifestamente su ampia scala l’armonioso adattamento reciproco
delle forze durature della natura con i bisogni e gli scopi dell’uomo. Il
senso della struttura non può essere dissociato da quello architettonico, e
l’elemento architettonico è presente nel suo signi cato speci co in
qualunque opera, che sia di musica, letteratura, pittura o architettura, ove
le proprietà strutturali siano fortemente manifeste. Ma per essere estetica la
struttura deve essere più che sica e matematica. Deve essere utilizzata
insieme supportando, rafforzando ed estendendo valori umani nel corso
del tempo. Che l’edera rampicante si confaccia a certi edi ci rivela l’unità
intrinseca tra effetto architettonico e natura che trova ampio riscontro nella
necessità degli edi ci di adattarsi in modo naturale al loro ambiente per
ottenere pieno effetto estetico. Ma questa inconscia unione vitale deve
essere parallela a un eguale assorbimento di valori umani in quell’effetto
completo dell’edi cio di cui si fa esperienza. La bruttezza, ad esempio, di
gran parte degli edi ci industriali e l’aspetto orribile della comune sede di
una banca, se da un lato dipendono da difetti strutturali sul versante
tecnicamente sico, dall’altro ri ettono una distorsione di valori umani,
distorsione incorporata nell’esperienza connessa con gli edi ci. Nessuna
mera abilità tecnica può rendere questi edi ci belli come erano una volta i
templi. Deve prima veri carsi una trasformazione umana perché queste
strutture giungano a esprimere spontaneamente un’armonia di desideri e
bisogni che oggi non esiste.
La scultura, come abbiamo già notato, è strettamente imparentata con
l’architettura. Credo si possa dubitare del fatto che la scultura dissociata
dall’architettura riesca mai a raggiungere grandi vette estetiche. È dif cile
non avvertire qualcosa di incongruo nella statua singola e isolata in una
piazza pubblica o in un parco. Certo le statue riscuotono il maggior
successo quando sono imponenti, monumentali, e possiedono qualcosa
che si avvicina al contesto architettonico, foss’anche solo un grande seggio.
La scultura può comprendere una quantità, una grande quantità di gure
diverse, come nei Marmi Elgin183. Ma se immaginate che queste gure
sono concepite collettivamente per rappresentare una singola azione e
tuttavia sicamente disgiunte l’una dall’altra, vi si forma in mente
un’immagine che fa sorridere. Ci sono però differenze che separano
l’effetto scultoreo da quello architettonico.
La scultura sceglie di dare enfasi a ciò che rende l’architettura ricordo e
monumento. È specializzata, per così dire, nel commemorativo. Gli edi ci
entrano nella vita e contribuiscono a darle forma e direzione in modo
diretto; le statue e i monumenti rammentandoci l’eroismo, la devozione e i
successi del passato. La colonna di granito, la piramide, l’obelisco, sono
scultorei; sono testimoni del passato, non però della soggezione alle
vicissitudini del tempo ma della capacità di resistere ed elevarsi al di sopra
del tempo – nobili o patetiche manifestazioni di un’immortalità qual è
quella che appartiene ai mortali. L’altra distinzione determina una
differenza più decisiva. Sia l’architettura che la scultura devono possedere
e devono esprimere unità. Ma l’unità di un intero architettonico è quella
della convergenza di una vasta moltitudine di elementi. L’unità della
scultura è più singolare e de nita – è costretta a essere tale non foss’altro
che per lo spazio. Solo la scultura negra, sacri cando tutti i valori
direttamente connessi, ha tentato di restituire in un ambito ristretto il
carattere di studio intrinseco a un edi cio vero e proprio, realizzandolo
con ritmi di linee, masse e forme. Ma anche la scultura negra è stata
costretta a osservare il principio di singolarità – lo studio è costruito con le
parti connesse del corpo umano: testa, braccia e gambe, tronco.
Questa singolarità del materiale e dello scopo (in quanto anche una
struttura specializzata come un tempio serve a un complesso di intenti)
costringe la scultura a limitarsi all’espressione di materiali che hanno di per
sé un’unità signi cativa e immediatamente percepita. Solo le cose viventi
soddisfano questa condizione – gli animali e l’uomo o anche, quando sono
direttamente attigui a edi ci, i ori, i frutti, i rampicanti e le altre forme di
vegetazione. L’architettura esprime la vita collettiva dell’uomo – l’eremita,
l’anima solitaria, non costruisce ma cerca una grotta. La scultura esprime
vita nelle sue forme individualizzate. I rispettivi effetti emotivi delle due
arti corrispondono a questo principio. Si dice che l’architettura sia “musica
congelata”, ma dal punto di vista emotivo ciò vale solo per la sua struttura
dinamica, non per l’effetto della sua sostanza. Nel complesso, il suo effetto
emotivo dipende dalle o è strettamente collegato alle questioni umane a
cui prende parte l’edi cio. Il tempio greco è troppo lontano da noi per fare
esperienza più che degli effetti di un equilibrio eccellente di forze naturali.
Ma entrando in una cattedrale medievale è impossibile non sentire che ne
sono parte gli usi a cui è stata storicamente adibita; qualcosa dello stesso
genere un occidentale lo sente anche entrando in un tempio buddista.
Non direi che effetti simili che appartengono a esperienze di case ed
edi ci pubblici sono “presi a prestito”, in quanto i valori sono incorporati
in maniera troppo perfetta da permettere di utilizzare questa espressione.
Ma i valori estetici in architettura dipendono in modo particolare
dall’assorbimento di signi cati tratti dalla vita collettiva degli uomini.
Le emozioni suscitate dalla scultura sono di necessità quelle che
appartengono a ciò che è de nito e duraturo – eccetto quando la scultura
è usata per scopi illustrativi, uso congeniale al medium. Infatti, mentre la
musica e la poesia lirica sono intrinsecamente atte a esprimere crisi e
turbamenti particolari (o anche le occasioni che li provocano), la scultura è
per carattere tutto tranne che “occasionale”, tanto poco quanto
l’architettura. I sentimenti del vago, del transitorio e dell’incerto non si
accordano bene al medium. Simile all’architettonico sotto questo aspetto,
differisce da esso così come, di nuovo, il singolare differisce dal collettivo.
Ciò che si è detto dell’arte come unione di universale e individuale vale in
modo particolare per la scultura; tanto che l’idea che questa unione
costituisca una formula per tutte le opere d’arte ha avuto probabilmente la
sua fonte nella statuaria greca. Il Mosé di Michelangelo è estremamente
individualizzato, e non è comunque più generico che episodico, poiché
l’“universale” è qualcosa di completamente differente dal generale.
L’atteggiamento della gura scolpita, con la sua energica ma contenuta
spinta in avanti, esprime il capo che vede da lontano la terra promessa in
cui sa che non entrerà. Ma attraverso un valore e un sentimento
estremamente individualizzati comunica l’eterna disparità tra aspirazione e
conseguimento.
La scultura comunica il senso del movimento con un’energia
straordinariamente delicata – come testimoniano le gure danzanti greche
e la Vittoria Alata. Ma è movimento trattenuto in una posa singola e
duratura – come quella celebrata nei versi di Keats – non già le
vicissitudini di un moto per il quale la musica è il medium incomparabile.
Un senso del tempo è parte inalienabile della natura dell’effetto scultoreo
per motivi intrinseci ovvero formali. Ma è senso del tempo sospeso, non
della successione o del lasso di tempo. In breve, le emozioni alle quali
meglio si addice il medium sono quelle di ne, gravità, riposo, equilibrio,
pace. La scultura greca deve gran parte del suo effetto al fatto di esprimere
la forma umana idealizzata – tanto che la sua in uenza sulla scultura
successiva non è stata nel complesso felice, dal momento che essa ha
gravato statue e busti europei, no a pochissimo tempo fa, di una tendenza
a esprimere idealizzazioni, le quali, se non nelle mani di maestri in
condizioni di equilibrio (come in Grecia), tendono al grazioso, al futile, a
gurare soddisfazioni del desiderio. Ritrarre la forma umana in guisa di dei
ed eroi semi-divini non è un’impresa da prendere alla leggera.
Persino un bambino impara presto che è attraverso la luce che il mondo
diventa visibile. Egli lo impara appena mette in relazione la sparizione
delle scene che ha davanti con il suo chiudere gli occhi. Eppure questa
ovvietà, se colta nella sua forza, dice sull’effetto peculiare del colore in
quanto medium della pittura più di quanto direbbero montagne di discorsi
e parole. Infatti la pittura esprime la natura e l’ambiente umano come uno
spettacolo, e gli spettacoli esistono in virtù dell’interazione dell’essere
vivente, incentrata sugli occhi, con la luce, pura, ri essa e rifratta in colori.
Il pittorico (in questo senso) esiste nelle opere di molte arti. Il gioco di luce
e ombra è un fattore vitale in architettura, di quella scultura che non è
stata troppo soggiogata ai modelli greci – e il fatto di colorare le proprie
statue forse era per i greci una compensazione. Prosa e teatro spesso
raggiungono il pittoresco, e la poesia il genuinamente pittorico,
comunicando così l’ordine visibile delle cose. Ma in queste arti si tratta di
qualcosa di ridotto e secondario. Lo sforzo di renderlo primario, come
nell’“imagismo”, insegnò senz’altro qualcosa di nuovo ai poeti, ma fu una
tale forzatura del medium che ha potuto resistere solo come accento, non
come valore dominante. Il rovescio della medaglia è che quando i dipinti
vanno oltre la scena e lo spettacolo per raccontare una storia, diventano
“letterari”.
Poiché la pittura tratta direttamente il mondo come “veduta”, come
mondo visto direttamente, discutere i prodotti di questa arte in assenza di
oggetti è ancor meno possibile che in qualsiasi altra arte. I quadri possono
esprimere ogni oggetto e situazione in grado di presentarsi come scena.
Possono esprimere il signi cato di eventi quando questi costituiscono una
scena in cui si raccoglie un passato e si indica un futuro, sempre che la
scena sia suf cientemente semplice e coerente. Altrimenti – come ad
esempio nei quadri di Abbey184 nella Public Library di Boston – diventa
un documento. Dire che può presentare oggetti e situazioni è, tuttavia,
talmente riduttivo del suo potere da essere fuorviante, se non si include la
capacità ineguagliabile del pigmento di trasmettere attraverso l’occhio le
qualità in virtù delle quali si distinguono gli oggetti e gli aspetti in virtù dei
quali si stabilisce nella percezione la loro stessa natura e costituzione – la
uidità dell’acqua, la solidità delle rocce, la combinazione di fragilità e
resistenza degli alberi, la trama delle nubi, e così via passando attraverso
tutti i vari aspetti in virtù dei quali si gode della natura come se fosse uno
spettacolo e un’espressione. Vista la portata stessa della pittura, tentare di
stabilire la gamma di materiali con cui essa ha a che fare vorrebbe dire
impelagarsi in una catalogazione senza ne. È suf ciente che gli aspetti
dello spettacolo della natura siano inesauribili e che ogni nuovo
movimento signi cativo in pittura sia la scoperta e lo sfruttamento di una
qualche possibilità di visione non sviluppata in precedenza – come quando
i pittori olandesi afferrarono la qualità intima degli interni sviluppando
studi di arredi e prospettive; come quando Rousseau le Douanier fece
emergere il ritmo spaziale di scene sia domestiche che esotiche; come
quando Cézanne rivide il volume di forze naturali nelle loro relazioni
dinamiche, la stabilità di interi composti solo adattando tra loro parti
instabili.
L’orecchio e l’occhio sono tra loro complementari. L’occhio dà la scena in
cui le cose succedono e su cui si proiettano i cambiamenti – così che resti
una scena anche in mezzo a tumulto e agitazione. L’orecchio, dando per
acquisito lo sfondo che procura l’azione coef ciente di vista e tatto, ci fa
capire i cambiamenti in quanto cambiamenti. Infatti i suoni sono sempre
effetti; effetti dello scontro, dell’impatto e della resistenza delle forze della
natura. Esprimono queste forze nei termini di ciò che fanno l’una all’altra
quando si incontrano; il modo in cui si modi cano a vicenda e modi cano
le cose che sono il teatro dei loro con itti senza ne. Lo sciabordare
dell’acqua, il mormorare dei ruscelli, l’impeto e il sibilo del vento, lo
scricchiolare di porte, lo stormire di foglie, il frusciare e lo spezzarsi di
rami, il tonfo di oggetti caduti, i singhiozzi dello sconforto e le grida di
vittoria – che cosa sono, con tutti i suoni e i rumori, se non manifestazione
immediata di cambiamenti provocati dal con itto di forze? Ogni
scompiglio della natura si realizza mediante vibrazioni, ma una vibrazione
ininterrotta uniforme non produce alcun suono; devono esserci
interruzione, impatto e resistenza.
Avendo come medium il suono, la musica esprime dunque di necessità in
maniera concentrata gli urti e le instabilità, i con itti e le risoluzioni, che
sono i mutamenti drammatici che hanno luogo sullo sfondo più duraturo
della natura e della vita umana. La tensione e la lotta hanno le loro
accumulazioni di energia, le loro scariche, i loro attacchi e le loro difese, le
loro poderose belligeranze e i loro incontri paci ci, le loro resistenze e
risoluzioni, e con queste cose la musica tesse la sua tela. Essa si trova
quindi al polo opposto rispetto allo scultoreo. Come l’una esprime ciò che
è duraturo, ciò che è stabile e universale, così l’altra esprime scompiglio,
agitazione, movimento, i particolari e le contingenze delle esistenze – che
sono tuttavia radicati nella natura e tipici per l’esperienza tanto quanto le
relative permanenze strutturali. Se ci fosse solo uno sfondo avremmo
monotonia morte; se solo mutamento e movimento ci sarebbe caos,
neppure riconosciuto come disturbato o disturbante. La struttura delle
cose si indebolisce e si altera, ma lo fa secondo ritmi che sono secolari,
mentre le cose che catturano l’orecchio sono quelle improvvise, brusche e
veloci nel cambiamento.
Le connessioni dei tessuti cerebrali con l’orecchio costituiscono una
parte del cervello più ampia di quelle di qualsiasi altro senso. Se si pensa
all’animale vivente e al selvaggio la rilevanza di questo fatto risulta palese.
È ovvio che la scena visibile è evidente; l’idea dell’esser limpido, chiaro fa
tutt’uno con l’essere in vista – chiaramente in vista, come si usa dire. Le
cose chiaramente in vista di per sé non disturbano; ciò che è chiaro è ciò
che è stato chiarito185. Implica sicurezza, ducia; crea le condizioni
favorevoli a formare ed eseguire piani. L’occhio è il senso della distanza –
non già perché la luce arriva da lontano, ma perché attraverso la visione
entriamo in relazione con ciò che è distante e quindi siamo avvisati su ciò
che sta per arrivare. La visione ci dà la scena dispiegata – quella in cui e su
cui, come ho detto, ha luogo il mutamento. L’animale è vigile, dif dente,
nella percezione visiva, ma è pronto, preparato. Solo in caso di panico ciò
che si vede è profondamente perturbante.
Il materiale con cui l’orecchio ci mette in relazione attraverso il suono è
opposto sotto ogni aspetto. I suoni vengono dall’esterno del corpo, ma il
suono stesso è vicino, intimo; è un’eccitazione dell’organismo; sentiamo lo
scontro delle vibrazioni attraverso tutto il nostro corpo. Il suono sollecita
direttamente un mutamento immediato perché dà conto di un
mutamento. Il rumore di un passo, lo spezzarsi di un ramoscello, il fruscio
del sottobosco possono signi care attacco o anche morte da parte di un
animale ostile o di un uomo. Dà misura del suo rilievo la cura con cui
l’animale e il selvaggio cercano di non far rumore mentre si muovono. Il
suono è ciò che comunica quanto incombe, quanto sta per accadere,
poiché è un’indicazione di quel che è probabile che accada. Rispetto alla
visione è molto più carico del senso delle conseguenze; attorno a ciò che
incombe vi è sempre un’aura di indeterminatezza e incertezza – tutte
condizioni favorevoli a un’intensa eccitazione emotiva. La visione suscita
l’emozione in forma di interesse – la curiosità sollecita un esame ulteriore,
ma attrae; oppure istituisce un equilibrio tra arretramento e azione con cui
si esplora avanzando. Sono i suoni a farci sobbalzare.
In termini generali, ciò che è visto eccita l’emozione indirettamente,
mediante interpretazioni e idee af ni. Il suono agita direttamente, essendo
un tumulto dello stesso organismo. Udito e vista vengono spesso classi cati
insieme come i due sensi “intellettuali”. In realtà la portata intellettuale
dell’udito, seppur enorme, è acquisita; in sé l’orecchio è il senso emotivo.
La sua dimensione e profondità intellettuale vengono dalla connessione
con la parola; sono un’acquisizione secondaria e, per così dire, arti ciale,
dovuta all’istituzione del linguaggio e dei mezzi convenzionali di
comunicazione. La visione deriva la sua diretta estensione di signi cato
dalla connessione con altri sensi, specialmente con il tatto. La differenza
opera in entrambi i sensi. Ciò che vale per l’udito sul versante intellettuale
vale per la vista sul versante emotivo. Architettura, scultura, pittura
possono eccitare l’emozione in profondità. La fattoria “giusta” in cui ci si è
imbattuti in un certo stato d’animo può dare una stretta al cuore e far
inumidire gli occhi come fa un passo poetico. Ma si ha questo effetto per
via di uno spirito e di un’atmosfera dovuti all’associazione con la vita
umana. A prescindere dall’effetto emotivo delle relazioni formali, le arti
plastiche suscitano emozioni in virtù di ciò che esprimono. I suoni hanno la
forza dell’espressione emotiva diretta. Un suono è di per sé, nella sua stessa
qualità, minaccioso, lamentoso, rasserenante, deprimente, feroce, tenero,
soporifero.
A causa di questa immediatezza dell’effetto emotivo, la musica è stata
classi cata sia come la più bassa che come la più elevata delle arti. Ad
alcuni la sua dipendenza diretta dall’organismo e le sue dirette risonanze
in esso sono sembrate prove della sua prossimità alla vita degli animali; a
sostengo di questa tesi, si può citare il fatto che musica di un grado
notevole di complessità è stata eseguita con successo da persone di
intelligenza inferiore alla norma. Il fascino della musica – di certi livelli – è
assai più esteso, assai più indipendente da una particolare cultura rispetto
a quello di qualsiasi altra arte. Se solo si osservano alcuni appassionati di
musica di un certo tipo a un concerto, si nota che stanno godendo di
un’orgia emotiva, di un affrancamento da inibizioni comuni e dell’ingresso
in un regno in cui viene lasciata briglia sciolta alle eccitazioni – e Havelock
Ellis ha osservato che alcuni ricorrono agli spettacoli musicali per
raggiungere orgasmi sessuali186. Dall’altro lato, ci sono tipi di musica,
quelli più apprezzati dagli intenditori, che richiedono uno speciale
addestramento per percepirli e per godere, i relativi devoti danno origine a
un culto facendo della loro arte la più esoterica di tutte le arti.
In virtù delle connessioni dell’udito con tutte le parti dell’organismo, il
suono possiede più riverberi e risonanze di qualsiasi altro senso. È molto
probabile che le cause organiche che rendono le persone non musicali
siano dovute a interruzioni di queste connessioni invece che a difetti
intrinseci all’apparato uditivo di per sé. Ciò che si è detto in generale sulla
capacità di un’arte di prendere un materiale grezzo, naturale, e di
convertirlo, mediante selezione e organizzazione, in un medium
intensi cato e concentrato per la costruzione di un’esperienza, si applica
con particolare forza alla musica. Attraverso l’uso di strumenti il suono
viene liberato dalla de nitezza che ha acquisito con l’associazione con la
parola. Esso torna così alla sua qualità passionale primitiva. Acquista
generalità, distacco da oggetti ed eventi particolari. Al tempo stesso
l’organizzazione del suono effettuata attraverso la gran quantità di mezzi
di cui dispone l’artista – una gamma forse tecnicamente più ampia di
quella di qualsiasi altra arte eccetto l’architettura – sottrae al suono la sua
usuale tendenza immediata a stimolare una particolare azione evidente. Le
reazioni diventano interne e implicite, e così arricchiscono il contenuto
della percezione invece di disperdersi in uno sfogo evidente. «Siamo noi in
persona adesso la corda tesa, pizzicata e vibrante», come dice
Schopenhauer187.
È la peculiarità della musica, e di fatto la sua gloria, saper prendere la
qualità del senso che è il più immediatamente e intensamente pratico tra
tutti gli organi del corpo (poiché sollecita con maggiore forza all’azione
impulsiva) e, con l’uso di relazioni formali, trasformare il materiale nell’arte
che è la più lontana da preoccupazioni pratiche. Essa conserva la capacità
primitiva del suono di denotare lo scontro di forze che attaccano e
resistono e tutte le fasi concomitanti del movimento emotivo. Ma
sfruttando l’armonia e la melodia delle note, essa introduce complessi
incredibilmente vari di problema, incertezza e sospensione, ove ogni nota
è ordinata in rapporto alle altre, riassumendo così ciò che precede e
annunciando ciò che sta per accadere.
In contrasto con le arti no qui ricordate, la letteratura presenta un tratto
peculiare. I suoni che, o direttamente o in quanto simbolizzati nella
stampa, costituiscono il suo medium, non sono suoni in quanto tali, come
in musica, ma suoni che sono stati sottoposti a un’arte che li ha trasformati
prima che la letteratura se ne occupasse. Infatti le parole esistono prima
dell’arte delle lettere e le parole sono state formate con suoni grezzi
dall’arte della comunicazione. Sarebbe inutile cercare di riassumere i ni a
cui è deputata la parola prima che esista letteratura in quanto tale –
ordine, orientamento, esortazione, istruzione, avvertimento. Solo
l’esclamazione e le interiezioni conservano il loro aspetto nativo di suoni.
L’arte della letteratura gioca pertanto con dadi truccati; il suo materiale è
carico di signi cati assorbiti durante un tempo immemorabile. Il suo
materiale possiede dunque una forza intellettuale superiore a quella di
qualsiasi altra arte, mentre ha la stessa capacità dell’architettura di rivelare
i valori della vita collettiva.
Nelle lettere non c’è quel divario tra materiale grezzo e materiale in
quanto medium che c’è nelle altre arti. Il personaggio di Molière non
sapeva di aver parlato in prosa per tutta la sua vita188. Così gli uomini in
generale non sono consapevoli di star esercitando un’arte ogni volta che
sono impegnati in uno scambio linguistico con gli altri. Una ragione della
dif coltà di tracciare un con ne tra prosa e poesia è senza dubbio il fatto
che la materia di entrambe ha già subito l’in uenza trasformatrice
dell’arte. Usare “letterario” come termine denigratorio signi ca che l’arte
più formale si è allontanata troppo dall’idioma dell’arte precedente da cui
trae il proprio alimento. Per non diventare esclusivamente raf nate, tutte
le “belle” arti di tanto in tanto devono essere rinnovate da un contatto più
stretto con materiali esterni alla tradizione estetica. Ma la letteratura in
particolare è quella che ha più bisogno di rinfrescarsi costantemente a
questa fonte, avendo a disposizione materiale che già è eloquente,
pregnante, pittoresco e ha un richiamo generale, e che però è
estremamente soggetto alla convenzione e allo stereotipo.
La continuità di signi cato e di valore è l’essenza del linguaggio. È infatti
il fondamento di una cultura che perdura. Per questa ragione le parole
sono dotate di una carica pressoché in nita di echi e risonanze. Ne fanno
parte i “valori traslati” di emozioni esperite che vengono da una
fanciullezza che non può essere recuperata consapevolmente. Il linguaggio
parlato è davvero la lingua madre. È pregno del temperamento e dei modi
di vedere e interpretare la vita che sono caratteristici della cultura di un
gruppo sociale che ha continuità. Poiché la scienza mira a parlare una
lingua da cui sono eliminati questi tratti, solo la letteratura scienti ca è
completamente traducibile. Tutti noi condividiamo in qualche misura il
privilegio dei poeti che
...speak the tongue
That Shakespeare spake; the faith and morals hold
Which Milton held.189

Infatti questa continuità non è circoscritta alle lettere nella loro forma
scritta e stampata. La nonna che racconta le storie del “c’era una volta” ai
bambini sulle sue ginocchia, tramanda e colora il passato; prepara
materiale per la letteratura e può essere lei stessa un’artista. La capacità dei
suoni di preservare e trasmettere i valori di tutte le varie esperienze del
passato e di adattarsi con esattezza a ogni mutevole sfumatura di
sentimento e idea, dà alle loro combinazioni e trasformazioni il potere di
creare una nuova esperienza, spesso un’esperienza sentita in modo più
inteso di quella che viene dalle cose stesse. I contatti con queste ultime
rimarrebbero su un piano di collisione meramente sico nel caso in cui le
cose non avessero assimilato al loro interno signi cati sviluppati nell’arte
della comunicazione. È possibile riuscire a dare realtà intensa e viva ai
signi cati di eventi e situazioni dell’universo solo attraverso un medium già
imbevuto di signi cato. L’architettonico, il pittorico e lo scultoreo sono
sempre inconsciamente circondati e arricchiti da valori che derivano dalla
parola. Per la natura della nostra costituzione organica è impossibile
escludere questo effetto.
Mentre non c’è una differenza tra prosa e poesia che si può stabilire con
precisione, c’è un abisso tra il prosaico e il poetico in quanto termini che,
tracciando limiti estremi, indicano tendenze interne all’esperienza. Uno di
loro incarna il potere delle parole di esprimere ciò che sta in cielo e in terra
e sotto i mari per mezzo dell’estensione; l’altro per intensione. Il prosaico
ha a che fare con descrizione e narrazione, con dettagli accumulati e
relazioni elaborate. Si svolge procedendo come un documento legale o un
catalogo. Il poetico inverte il processo. Condensa e abbrevia, dando così
alle parole un’energia di espansione che è quasi esplosiva. Una poesia
presenta il materiale in modo da diventare un universo in sé che, anche
quando è un intero in miniatura, non è embrionale più di quanto sia
elaborato attraverso l’argomentazione. In una poesia c’è qualcosa di in sé
chiuso e delimitato, e questa autosuf cienza, insieme all’armonia e al ritmo
dei suoni, spiega perché la poesia è la più ipnotica delle arti dopo la
musica.
Ogni parola in poesia è immaginativa, come in realtà lo era in prosa no
a quando le parole nell’uso non si levigarono per il logorio diventando
mere cifre. Infatti quando non è puramente emotiva, una parola si riferisce
a qualcosa di assente per cui essa sta. Quando le cose sono presenti basta
ignorarle, o usarle e indicarle. Probabilmente anche le parole puramente
emotive non fanno eccezione; l’emozione cui esse danno sfogo può essere
quella relativa a oggetti assenti ammassati al punto da aver perduto
individualità. La forza immaginativa della letteratura è una intensi cazione
della funzione idealizzante svolta dalle parole nel linguaggio comune.
Anche la presentazione più realistica di una scena mediante parole dopo
tutto ci pone di fronte cose che, quanto a contatto diretto, non sono che
possibilità. Ogni idea è per sua stessa natura indicativa di una possibilità,
non di una realtà attuale. Il signi cato che trasmette può essere reale in un
dato tempo e in un dato luogo. Ma quando è coltivato come idea, il
signi cato per quell’esperienza è una possibilità; è ideale nel senso stretto
della parola: in senso stretto perché “ideale” viene usato anche per
indicare il fantasioso e l’utopico, la possibilità che è impossibile.
Se l’ideale ci è realmente presente, la sua presenza deve essere conseguita
tramite il medium del senso. Nella poesia il medium e il signi cato
sembrano fondersi come per un’armonia prestabilita, che è la “musica” e
l’eufonia delle parole. Non può esserci musica in senso stretto, poiché
manca l’intonazione. Ma c’è il musicale, in quanto le parole stesse sono
aspre e solenni, rapide e languide, solenni e romantiche, ri essive e frivole,
in accordo con il signi cato. Il capitolo sul suono delle parole del libro di
Lascelles Abercrombie The Theory of Poetry190 rende super ui i dettagli;
tuttavia inviterei a fare particolare attenzione alla sua dimostrazione del
fatto che la cacofonia è un fattore genuino quanto l’eufonia. Credo infatti
che sia giusto interpretarne la forza come prova del fatto che la uidità
deve essere bilanciata da fattori strutturali che in sé stessi sono rigidi,
altrimenti nirebbe per risultare stucchevole.
Ci sono critici che sostengono che la musica abbia la meglio sulla poesia
per la sua capacità di trasmettere un senso della vita e delle fasi della vita
quali noi vorremmo che fossero. Tuttavia, non posso che pensare che per
la natura stessa del suo medium la musica è brutalmente organica:
ovviamente, non “brutale” nel senso di “bestiale”, ma nel senso in cui si
parla di fatti bruti, di ciò che non si può negare né evitare essendo
ineluttabilmente presente. Né questa visione getta discredito sulla musica.
Il suo valore è proprio di saper prendere materiale che è organicamente
inaggirabile e apparentemente indomabile ricavandone melodia e
armonia. Come accade ai quadri, che quando sono dominati da qualità
ideali diventano deboli per l’eccesso di qualità poetica; oltrepassano la
linea di con ne e, se esaminati criticamente, rivelano una mancanza di
senso del medium – del colore. Ma nell’epica, nella lirica, nella
drammaturgia – nella commedia come nella tragedia – l’idealità in
contrasto con la realtà gioca un ruolo intrinseco ed essenziale. Ciò che
potrebbe essere o che avrebbe potuto essere si pone sempre in contrasto
con ciò che è e che è stato in un modo che solo le parole sono capaci di
comunicare. Se gli animali sono realisti rigorosi è perché a loro mancano i
segni che il linguaggio dona agli umani.
Le parole come media non si esauriscono nella loro capacità di
comunicare possibilità. Sostantivi, verbi, aggettivi esprimono condizioni
generalizzate – vale a dire un carattere191. Persino un nome proprio non
può che denotare un carattere nei limiti di un’esempli cazione
individuale. Le parole tentano di comunicare la natura delle cose e degli
eventi. In realtà è grazie al linguaggio che cose ed eventi possiedono una
natura che è al di sopra e al di là del bruto usso dell’esistenza. Che le
parole riescano a comunicare un carattere, una natura, non in un’astratta
forma concettuale, ma facendolo apparire e operare in individui, diventa
evidente nel romanzo e nel teatro, che hanno il compito di sfruttare questa
particolare funzione del linguaggio. I caratteri sono infatti presentati in
situazioni che ne evocano la natura, dando la particolarità dell’esistenza
alla generalità della potenzialità. Al tempo stesso le situazioni sono de nite
e rese concrete. Infatti tutto ciò che sappiamo di una certa situazione è ciò
che essa fa a noi e con noi: è questa la sua natura. Il nostro modo di
concepire i tipi di carattere e le molteplici variazioni di questi tipi si deve
principalmente alla letteratura. Noi osserviamo, notiamo e giudichiamo le
persone intorno a noi in termini che sono ricavati dalla letteratura,
includendo naturalmente biogra a e storia accanto a romanzo e teatro. A
confronto, i trattati etici del passato sono stati incapaci di ritrarre i caratteri
in modo da farli rimanere nella coscienza del genere umano. La
correlatività di carattere e situazione appare chiara nel fatto che, ogni volta
che le situazioni vengono lasciate in uno stato iniziale e di incertezza, si
riscontra che i caratteri sono vaghi e inde niti – sono qualcosa da
indovinare, che non ha preso corpo, in breve sono privi di carattere.
In quel che ho detto ho toccato temi a ciascuno dei quali sono stati
dedicati dei volumi. Infatti mi sono occupato delle diverse arti sotto un
aspetto soltanto. Ho voluto mostrare che, come costruiamo ponti con
pietra, acciaio o cemento, così ogni medium ha la sua propria forza, attiva
e passiva, in uscita o in entrata, e che la base per distinguere i tratti
differenti delle arti è il loro modo di sfruttare l’energia che caratterizza il
materiale usato come medium. Gran parte di ciò che viene scritto sulle
differenti arti in quanto differenti mi pare debba essere detto dall’interno –
con il che intendo che considera il medium un fatto esistente senza
chiedere perché e come esso sia ciò che è.
La letteratura dà allora forse la prova più convincente di quella offerta
dalle altre arti che l’arte è bella quando attinge al materiale di altre
esperienze e lo esprime in un medium che ne intensi ca e chiari ca
l’energia attraverso l’ordine che sopraggiunge. Le arti ottengono questo
risultato non in modo consapevolmente intenzionale, ma nel corso stesso
dell’operazione creativa, per mezzo di nuovi oggetti, di nuovi modi
d’esperienza. Ogni arte comunica perché esprime. Ci mette in grado di
essere vitalmente e profondamente partecipi di signi cati a cui eravamo
rimasti insensibili o avevamo prestato orecchio solo per permettere a
quanto detto di attraversarlo nel transito verso l’azione evidente. Infatti
comunicare non è annunciare cose, anche se dette con enfasi altisonante.
La comunicazione è il processo con cui si crea partecipazione, si rende
comune ciò che è diventato isolato e singolare; e parte del miracolo che
compie è che, nel venir comunicata, la trasmissione di signi cato dà corpo
e de nitezza sia all’esperienza di chi parla che a quella di chi ascolta.
Gli uomini si associano in molti modi. Ma la sola forma di associazione
che è autenticamente umana, e non un radunarsi in società per avere
calore e protezione, o un mero espediente per dare ef cacia dell’azione
esterna, è la partecipazione a signi cati e beni che è realizzata dalla
comunicazione. Le espressioni che costituiscono l’arte sono
comunicazione nella sua forma pura e incontaminata. L’arte spezza le
barriere che separano gli esseri umani, impermeabili nell’associazione
ordinaria. Questa forza dell’arte, comune a tutte le arti, si manifesta nella
maniera più piena in letteratura. Il suo medium è già formato dalla
comunicazione, cosa che dif cilmente si può affermare di qualsiasi altra
arte. Ci possono essere controversie elaborate in modo ingegnoso e
concepite in modo plausibile circa la funzione morale e umana di altre arti.
Nessuna ce ne può essere per quel che riguarda l’arte delle lettere.
11 – L’apporto umano

Con “apporto umano” intendo quegli aspetti e quegli elementi


dell’esperienza estetica che di solito sono chiamati psicologici. Si può
ipotizzare, in teoria, che la discussione dei fattori psicologici non sia un
ingrediente necessario di una loso a dell’arte. In pratica essa è
indispensabile. Infatti le teorie storiche sono piene di termini psicologici, e
questi termini non sono utilizzati in un senso neutrale ma sono carichi di
interpretazioni a loro attribuite in forza delle teorie psicologiche del
tempo. Se si cancellano i signi cati particolari dati a termini come
sensazione, intuizione, contemplazione, volontà, associazione, emozione,
svanisce un’ampia parte della loso a estetica. Inoltre, ciascuno di questi
termini possiede signi cati differenti che gli vengono attribuiti da
differenti scuole psicologiche. La “sensazione”, ad esempio, è stata trattata
in modi disparati che vanno dalla concezione per cui essa sarebbe il solo
costituente originale dell’esperienza all’idea per cui essa sarebbe un’eredità
di forme basse di vita animale, e dunque qualcosa da minimizzare in seno
all’esperienza umana. Le teorie estetiche sono zeppe di fossili di psicologie
antiquate e soffocate da macerie di controversie psicologiche. Discutere
l’aspetto psicologico dell’estetica è inevitabile.
Naturalmente la discussione deve limitarsi ai tratti più generali
dell’apporto umano. Tenuto conto dell’interesse e dell’atteggiamento
individuale dell’artista, e del carattere individuale di ogni opera d’arte
concreta, l’apporto speci camente personale va cercato nelle stesse opere
d’arte. Ma nonostante l’immensa disparità tra questi prodotti unici, c’è una
costituzione comune a tutti gli individui normali. Essi hanno mani, organi,
dimensioni, sensi, affetti, passioni che sono gli stessi; si nutrono degli stessi
alimenti, vengono feriti dalle stesse armi, sono soggetti alle stesse malattie,
vengono curati dagli stessi rimedi, riscaldati e rinfrescati dalle stesse
variazioni climatiche.
Per comprendere i fattori psicologici di base e proteggerci dagli errori di
false psicologie che rovinano le loso e estetiche, torniamo ai nostri
principi basilari: l’esperienza è una questione di interazione dell’organismo
con l’ambiente circostante, un ambiente che è umano oltre che sico, che
include i materiali della tradizione e delle istituzioni oltre a ciò che ci sta
intorno spazialmente. L’organismo vi apporta con la propria struttura,
innata e acquisita, forze che giocano un ruolo nell’interazione. Il sé agisce
oltre a subire, e quanto subisce non sono impressioni calcate su una cera
inerte ma dipende dal modo in cui l’organismo reagisce e risponde. Non
c’è esperienza in cui l’apporto umano non sia un fattore che contribuisce a
determinare ciò che effettivamente succede. L’organismo è forza, non
trasparenza.
Poiché ogni esperienza è costituita dall’interazione tra “soggetto” e
“oggetto”, tra un sé e il suo mondo, in sé non è meramente sica né
meramente mentale, a prescindere da quanto predomini un fattore o
l’altro. Le esperienze che, dominando l’apporto interiore, vengono
chiamate enfaticamente “mentali” si riferiscono, in modo diretto o remoto,
a esperienze di carattere più oggettivo; sono i prodotti di una
discriminazione, e di conseguenza possono essere comprese solo tenendo
conto dell’esperienza normale totale in cui fattori sia interni che esterni
sono incorporati in modo da perdere ciascuno il proprio carattere speciale.
In un’esperienza, cose ed eventi che appartengono al mondo, sico e
sociale, vengono trasformati in virtù del contesto umano in cui entrano,
mentre la creatura vivente muta e si sviluppa in virtù del suo rapporto con
cose che prima le erano esterne.
Questa concezione della produzione e della struttura di un’esperienza è
dunque il criterio che si userà per interpretare e giudicare i concetti
psicologici che hanno svolto un ruolo capitale nella teoria estetica. Dico
“giudicare”, o criticare, perché molti di questi concetti hanno la loro
origine in una separazione tra organismo e ambiente; una separazione che
si presume innata e originale. Si suppone che l’esperienza sia qualcosa che
ha luogo esclusivamente all’interno di un sé o di una mente o di una
coscienza, qualcosa che è autosuf ciente e intrattiene solo relazioni esterne
con la scena oggettiva in cui si trova inserita. Dunque tutti gli stati e i
processi psicologici non vengono pensati come funzioni di una creatura
vivente colta nel suo vivere entro l’ambiente naturale che la circonda.
Quando si spezza il legame tra il sé e il suo mondo, allora anche le diverse
modalità in cui il sé interagisce con il mondo cessano di avere una
connessione unitaria tra loro. Si riducono a frammenti separati di senso,
sentimento, desiderio, scopo, conoscenza, volizione. L’intrinseca
connessione del sé con il mondo tramite la reciprocità di subire e agire, e il
fatto che tutte le distinzioni che l’analisi può introdurre nel fattore
psicologico non sono che aspetti e fasi diversi di una continua, seppur
diversi cata, interazione tra sé e ambiente, sono le due considerazioni
principali che si faranno valere nella discussione che segue.
Prima di avviare una qualche trattazione dettagliata, vorrei però
riconsiderare il modo in cui hanno avuto origine storicamente marcate
distinzioni psicologiche. Dapprima esse erano descrizioni di differenze
riscontrate tra parti e classi della società. Platone costituisce un esempio
quasi perfetto di questo fatto. Egli ricavò esplicitamente la sua triplice
divisione dell’anima da ciò che osservò nella vita sociale del suo tempo192.
Egli fece consapevolmente ciò che molti psicologi hanno fatto nelle loro
classi cazioni senza essere consapevoli della loro fonte, basandosi su
differenze osservabili all’interno della società pur pensando di arrivarci per
pura introspezione. Dalla mente così come si manifestava nella concezione
diffusa della comunità, Platone enucleò la facoltà appetitiva e ricettiva dei
sensi che si mostrava nella classe mercantile; derivò la facoltà
“irascibile”193, della volontà e dell’impulso generoso diretto verso l’esterno,
dai cittadini-soldati fedeli alla legge e alla giusta fede, anche a spese della
loro esistenza personale; trovò la facoltà razionale in coloro che erano
adatti fare le leggi. Egli scoprì che queste stesse differenze erano
dominanti in gruppi razziali diversi, gli orientali, i barbari del nord e i greci
di Atene.
Non ci sono divisioni psicologiche intrinseche tra aspetti intellettuali e
aspetti sensoriali; tra emotivo e ideativo; tra fasi immaginative e fasi
pratiche della natura umana. Ma ci sono individui e persino classi di
individui che sono prevalentemente esecutivi o ri essivi; sognatori o
“idealisti” e fattivi; inclini ai sensi e alla compassione; egoisti e altruisti;
coloro che si impegnano nell’attività sica quotidiana e coloro che si
specializzano nell’investigazione intellettuale. In una società male ordinata
divisioni di questo genere sono ingigantite. L’uomo e la donna compiuti
sotto ogni pro lo sono l’eccezione. Ma come la funzione dell’arte è di
essere uni cante, di farsi strada attraverso distinzioni convenzionali per
andare verso gli elementi comuni soggiacenti del mondo di cui si fa
esperienza, sviluppando l’individualità quale maniera di vedere e di
esprimere questi elementi, così la funzione dell’arte nella singola persona è
di comporre le differenze, di abolire isolamenti e con itti tra gli elementi
del nostro essere, di utilizzare le opposizioni tra essi per costruire una
personalità più ricca. Da qui la straordinaria inadeguatezza di una
psicologia a compartimenti a servire da strumento per una teoria dell’arte.
Esempi estremi dei risultati della separazione tra organismo e mondo
non sono rari nella loso a estetica. Una separazione del genere si cela
dietro l’idea che la qualità estetica non appartenga agli oggetti in quanto
oggetti ma sia proiettata su di loro dalla mente. Da ciò trae origine la
de nizione della bellezza come “piacere oggettivato” invece che come
piacere nell’oggetto194, talmente in esso che l’oggetto e il piacere sono una
cosa sola e indivisa nell’esperienza. In altri campi dell’esperienza una
distinzione preliminare tra sé e oggetto è non solo legittima ma necessaria.
Un ricercatore deve costantemente distinguere meglio che può tra quelle
parti di un’esperienza che provengono da lui stesso sotto forma di idee e
ipotesi, e l’in uenza del desiderio personale di un certo risultato, e le
proprietà dell’oggetto indagato. Ci sono migliorie della tecnica scienti ca
escogitate allo scopo esplicito di facilitare questa distinzione. Pregiudizio,
preconcetti e desiderio in uenzano tendenze innate nel giudizio a tal
punto che ci si deve dare particolare pena per diventarne consapevoli e
poterli in questo modo eliminare.
Un obbligo analogo si impone a coloro che sono impegnati a manipolare
materiali e ad eseguire progetti. Per costoro è necessario mantenere
l’atteggiamento di chi dice “questo appartiene a me, mentre quello
compete agli oggetti trattati”. Altrimenti non riusciranno a tenere l’occhio
“sulla palla”. Confuso sentimentalista è chi permette ai propri sentimenti e
ai propri desideri di colorare ciò che ritiene essere l’oggetto. Un
atteggiamento indispensabile a condurre con successo il pensiero e la
piani cazione ed esecuzione pratica diventa un’abitudine radicata. Una
persona riesce a malapena ad attraversare una strada dal traf co intenso e
veloce se non tiene a mente le differenze che i loso formulano in termini
di “soggetto” e “oggetto”. Il pensatore di professione (e naturalmente è
costui a scrivere trattati sulla teoria estetica) è l’individuo più
incessantemente ossessionato dalla differenza tra sé e mondo. Egli affronta
il dibattito sull’arte con un pregiudizio consolidato, un pregiudizio che,
purtroppo, è proprio quello più fatale per la comprensione estetica. Infatti
l’aspetto che contraddistingue in modo peculiare l’esperienza estetica è
esattamente il fatto che in essa non esiste una tale distinzione tra sé e
oggetto, poiché essa è estetica nella misura in cui organismo e ambiente
cooperano per istituire un’esperienza ove entrambi sono così pienamente
integrati che ciascuno di loro scompare.
Una volta che si riconosca che un’esperienza dipende causalmente dal
modo in cui sé e oggetti interagiscono, non c’è più mistero su ciò che si
chiama “proiezione”. Quando un paesaggio è visto come giallo attraverso
occhiali gialli o con occhi itterici, non è che si spara il giallo, come un
proiettile, dal sé all’interno del paesaggio. Il fattore organico
nell’interazione causale con ciò che è nell’ambiente produce il giallo del
paesaggio, nello stesso modo in cui idrogeno e ossigeno interagendo
producono l’acqua che è bagnata. In uno scritto di psichiatria si racconta
la vicenda di un uomo che si lamentava del suono stonato delle campane
di una chiesa mentre in realtà il suono era intonato. Procedendo con
l’indagine emerse che la sua promessa sposa lo aveva piantato in asso per
sposare un ecclesiastico. C’era qui una “proiezione” ossessiva. Non, però,
perché qualcosa di psichico fosse miracolosamente espulso dal sé e sparato
all’interno dell’oggetto sico, ma perché l’esperienza del suono delle
campane dipendeva da un organismo tanto distorto da agire in maniera
anomala quando fungeva da fattore in certe situazioni. In realtà la
proiezione è una questione di valori traslati, dove la “traslazione” si ha per
la partecipazione organica di un essere che è diventato ciò che è e viene
indotto ad agire come fa per modi cazioni organiche dovute a esperienze
precedenti.
È un fatto comune che i colori di un paesaggio risultino più vividi se
vengono osservati a testa in giù. Il cambiamento della posizione sica non
causa l’iniezione di un nuovo elemento psichico, ma signi ca invece che
sta agendo un organismo un po’ diverso, e la differenza di causa di
necessità determina una differenza d’effetto. Chi insegna disegno si sforza
di far sì che venga ripristinata l’innocenza originale dell’occhio. In tal caso
si tratta di provocare una dissociazione di elementi che nell’esperienza
precedente erano talmente collegati tra loro da generare un’esperienza che
si oppone alla rappresentazione su una super cie bidimensionale.
L’organismo che è stato abituato a fare esperienza in termini tattili deve
venire ristrutturato per fare esperienza delle relazioni spaziali quanto più
strettamente possibile secondo i termini dell’occhio. Il tipo di proiezione
che di solito interviene nella visione estetica implica un rilassamento
analogo di una tensione sorta nel perseguire ni particolari, di modo che
l’intera personalità possa interagire liberamente senza deviazioni o
restrizioni come accade quando si raggiunge un esito particolare e
predeterminato. Le reazioni dapprima ostili a un nuovo stile in un’arte
sono dovute solitamente alla riluttanza a eseguire qualche dissociazione
necessaria.
In breve, il fraintendimento di ciò che si veri ca nella cosiddetta
proiezione dipende interamente dal fatto di non riuscire a vedere che sé,
organismo, soggetto, mente – qualunque termine si usi – denotano un
fattore che interagisce in modo causale con le cose circostanti per produrre
un’esperienza. Lo stesso si riscontra quando il sé viene considerato come il
latore o veicolo di un’esperienza invece che come un fattore assorbito in
ciò che si produce come, ancora, nel caso dei gas che producono acqua.
Quando è necessario il controllo della formazione e dello sviluppo di
un’esperienza, occorre considerare il sé come ciò che lo esercita; occorre
riconoscere l’ef cacia causale del sé al ne di garantire la responsabilità.
Ma questa enfasi sul sé ha uno scopo speci co e scompare nel momento in
cui non c’è più bisogno di controllo in una speci ca direzione
predeterminata – e sicuramente non ce n’è bisogno in un’esperienza
estetica, sebbene nel caso del nuovo in arte possa essere un elemento
preliminare per fare un’esperienza estetica.
Anche un critico intelligente come I. A. Richards è caduto in questo
errore. Egli scrive: «Si ha l’abitudine di dire che un quadro è bello, invece
di dire che ci dà un’esperienza che ha valore per questi o quei motivi. [...]
Mentre dovremmo dire invece che [certi oggetti] provocano in noi effetti
di vario genere, tende a persistere l’errore di proiettare l’effetto, facendone
una qualità della sua propria causa»195. A essere trascurato è il fatto che
non è il dipinto in quanto quadro (ossia l’oggetto nell’esperienza estetica)
che causa certi effetti “in noi”. Il dipinto come quadro è esso stesso un
effetto totale determinato dall’interazione di cause esterne e cause
organiche. Il fattore causale esterno sono le vibrazioni di luce provenienti
dai pigmenti sulla tela che sono variamente ri esse e rifratte. È in de nitiva
ciò che scopre la scienza sica – atomi, elettroni, protoni. Il quadro è l’esito
integrale della loro interazione con ciò che apporta la mente attraverso
l’organismo. Essendo una parte intrinseca dell’effetto totale, la sua
“bellezza” – che, concordo con Richards, non è che un modo abbreviato
di indicare determinate qualità a cui si dà valore – appartiene al quadro
esattamente quanto vi appartiene il resto delle sue proprietà.
Il riferimento all’“in noi” è un’astrazione dall’esperienza totale tanto
quanto lo sarebbe, sull’altro versante, risolvere il quadro in mere
aggregazioni di molecole e atomi. Anche la rabbia e l’odio sono in parte
causati da noi piuttosto che in noi. Non è che noi ne siamo la sola causa,
ma il nostro particolare temperamento è un fattore causale che dà il suo
contributo. È vero che molta arte, no all’epoca del Rinascimento, ci
sembra impersonale poiché tratta di fasi del mondo esperito che, se si
considera il ruolo che assume l’esperienza dell’individuo nell’arte
moderna, appaiono “universali”. Forse soltanto a partire dal
diciannovesimo secolo la coscienza della collocazione legittima del fattore
strettamente personale gioca un ruolo di un certo rilievo nelle arti plastiche
e letterarie. Il romanzo del “ usso di coscienza” segna un preciso punto di
svolta per quel che concerne il corso dell’esperienza mutevole, tanto
quanto l’impressionismo in pittura. Il cammino più lungo di ogni arte è
segnato da spostamenti d’accento. Siamo già in presenza di una reazione
verso l’impersonale e l’astratto. In arte questi spostamenti sono connessi ad
ampi ritmi interni alla storia dell’uomo. Ma anche l’arte che lascia il
minimo spazio d’azione alle variazioni individuali – come, ad esempio, la
pittura e la scultura religiose del dodicesimo secolo – non è meccanica e
reca di conseguenza l’impronta della personalità; e i dipinti classicisti del
diciassettesimo secolo ri ettono, come quelli di Nicolas Poussin, una
predilezione personale che concerne sostanza e forma, mentre i dipinti più
“individualizzati” non si allontanano mai da alcuni aspetti o momenti della
scena oggettiva.
Proprio le variazioni in quella che potremmo de nire la proporzione di
fattori personali e impersonali, soggettivi e oggettivi, concreti e astratti,
sono forse le cose che fan sì che teoria e critica estetiche travisino l’aspetto
psicologico. Gli studiosi di ogni epoca tendono a considerare ciò che è
predominante nelle tendenze artistiche del loro tempo come la base
psicologica normale di tutta l’arte. Di conseguenza quei periodi e quegli
aspetti del passato e di paesi stranieri più simili e più dissimili rispetto alle
tendenze del presente oscillano tra apprezzamento e discredito. Una
loso a aperta basata sulla comprensione della relazione costante tra sé e
mondo nel variare dei loro contenuti concreti renderebbe la fruizione più
ampia e più simpatetica. Potremmo allora fruire la scultura negra così
come quella greca; dipinti persiani così come quelli di pittori italiani del
sedicesimo secolo.
Ogni volta che si spezza il vincolo che lega la creatura vivente al suo
ambiente, non vi è nulla che tiene insieme i diversi fattori e le varie fasi del
sé. Pensiero, emozione, senso, proposito, impulso si isolano e vengono
assegnati a comparti diversi del nostro essere. Infatti la loro unità è posta
nei ruoli coef cienti da loro svolti nelle relazioni attive e ricettive con
l’ambiente. Quando gli elementi uniti nell’esperienza sono separati, la
teoria estetica che ne risulta non può che essere unilaterale. Si prenda
come esempio il successo di cui ha goduto in estetica il concetto di
contemplazione inteso in senso stretto. A prima vista “contemplazione”
sembra essere il termine meno adatto da scegliere per denotare
l’assorbimento eccitato e appassionato che spesso accompagna l’esperienza
di una rappresentazione teatrale, di una poesia o di un dipinto. L’attenta
osservazione è certamente un fattore essenziale di ogni percezione
autentica, compresa quella estetica. Ma come mai questo fattore viene
ridotto al semplice atto della contemplazione?
La risposta, per quanto riguarda la teoria psicologica, va cercata nella
Critica del Giudizio di Kant. Kant era un provato maestro nel tracciare
prima distinzioni e nell’innalzarle poi a divisioni per compartimenti. A
condizionare la teoria successiva fu il fatto di dare alla separazione
dell’estetico da altri modi d’esperienza una presunta base scienti ca posta
nella costituzione della natura umana. Kant aveva ricondotto la
conoscenza a una suddivisione della nostra natura, in quanto la facoltà
dell’intelletto opererebbe unendosi a materiali sensibili. Egli aveva
ricondotto la condotta normale, se prudenziale, al desiderio che prova
piacere per il suo oggetto, e la condotta morale alla Ragion Pura che opera
come esigenza della Volontà Pura196. Dopo aver risolto il problema della
Verità e del Bene c’era ancora da trovare una nicchia per la Bellezza, il
termine che rimaneva della triade classica. Rimaneva il Sentimento Puro,
“puro” nel senso di isolato e chiuso in sé; sentimento libero da ogni
contaminazione con il desiderio; sentimento che, in senso stretto, è non-
empirico. Kant prese allora in considerazione una facoltà di Giudizio che
non è ri essiva ma intuitiva, e tuttavia non ha a che fare con gli oggetti
della Ragion Pura. Questa facoltà si esercita nella Contemplazione e
l’elemento speci camente estetico è il piacere che accompagna tale
Contemplazione. Venne dunque aperta la strada psicologica che conduce
alla torre d’avorio della “Bellezza” lontana da ogni desiderio, azione e
turbamento dell’emozione.
Sebbene nei suoi scritti Kant non dia prova di alcuna particolare
sensibilità estetica, è possibile che la sua prospettiva teorica ri etta le
tendenze artistiche del diciottesimo secolo. Infatti in generale quel secolo
fu, n verso la sua ne, un secolo di “ragione” invece che di “passione”, e
dunque un secolo in cui l’ordine oggettivo e la regolarità, l’elemento
invariante, era in maniera quasi esclusiva la fonte dell’appagamento
estetico – una situazione che favorì l’idea per cui il giudizio contemplativo
e il sentimento ad esso connesso sono la differentia197 speci ca
dell’esperienza estetica. Ma se generalizziamo questa idea estendendola a
tutti i periodi di ricerca artistica, la sua assurdità è evidente. Non solo
trascura, ritenendoli irrilevanti, il fare e il creare implicati nella produzione
di un’opera d’arte (e i corrispondenti elementi attivi interni alla risposta
fruitiva), ma comporta un’idea estremamente unilaterale della natura della
percezione. Come chiave per comprendere la percezione essa assume ciò
che appartiene solo all’atto del riconoscimento, ampliando semplicemente
quest’ultimo no a includervi il piacere che lo accompagna quando il
riconoscimento è prolungato ed esteso. È dunque una teoria
particolarmente adeguata a un’epoca in cui viene dato risalto soprattutto
alla natura “rappresentativa” dell’arte e in cui il contenuto rappresentato è
di natura “razionale” – elementi e fasi dell’esistenza regolari e ricorrenti.
Intesa nel modo migliore, ovvero dandone un’interpretazione non
ristretta, contemplazione designa quell’aspetto della percezione in cui gli
elementi della ricerca e del pensiero sono subordinati (anche se non
assenti) al perfezionarsi del processo stesso di percezione. De nire
l’elemento emotivo della percezione estetica meramente come il piacere
che si trae nell’atto della contemplazione, indipendente da ciò che viene
suscitato dalla materia contemplata, sfocia in ogni caso in una concezione
dell’arte completamente anemica. Condotta no alla sua logica
conclusione, essa escluderebbe dalla percezione estetica la maggior parte
del contenuto di cui si fruisce quando si ha a che fare con le strutture
architettoniche, il teatro e il romanzo, insieme a tutti gli effetti che si
portano dietro.
Non è l’assenza di desiderio e di pensiero, ma la loro piena assimilazione
nell’esperienza percettiva a caratterizzare l’esperienza estetica, che così si
distingue da esperienze che sono speci camente “intellettuali” e
“pratiche”. L’unicità dell’oggetto percepito è un ostacolo e non un aiuto
per chi compie indagini. Costui vi è interessato nella misura in cui
conduce il suo pensiero e la sua osservazione verso qualcosa che è al di là
di esso; per lui l’oggetto è un dato o una prova. Neppure l’uomo la cui
percezione è dominata dal desiderio o dall’appetito ne gode di per sé; vi è
interessato a causa di un atto particolare a cui la percezione che egli ne ha
può condurre come conseguenza; è uno stimolo piuttosto che un oggetto
in cui la percezione possa sostare con soddisfazione. Chi percepisce
esteticamente è libero dal desiderio di fronte a un tramonto, a una
cattedrale o a un mazzo di ori, nel senso che i suoi desideri sono appagati
nella stessa percezione. Egli non vuole l’oggetto in funzione di
qualcos’altro.
Quando ad esempio si legge St. Agnes’s Eve di Keats198, il pensiero è
attivo ma allo stesso tempo le sue esigenze sono completamente
soddisfatte. L’alternanza ritmica di aspettativa e appagamento è così
intrinsecamente completa che il lettore non si accorge del pensiero come
elemento separato, certamente non come travaglio. Questa esperienza è
contraddistinta da una maggiore inclusività di tutti i fattori psicologici
rispetto a quella che ha luogo in esperienze ordinarie, non da una loro
riduzione a un’unica reazione. Una riduzione di tal genere è un
impoverimento. Come si può riuscire a cogliere un’esperienza che è tanto
ricca quanto unitaria passando da un processo di esclusione? Un uomo
che si trovi in un campo con un toro infuriato ha un solo desiderio e un
solo pensiero: raggiungere un luogo sicuro. Una volta al sicuro può godersi
lo spettacolo di una forza indomabile. L’appagamento riposto in questo
atto, in contrasto con quello dello sforzo di fuggire, si può de nire
appagamento contemplativo; ma quest’ultimo atto contraddistingue il
soddisfacimento di molte oscure tendenze attive, e il piacere che si trae
non sta nell’atto della contemplazione ma nel soddisfacimento di queste
tendenze nel contenuto percepito. Sono incluse più immagini e “idee” di
quante accompagnino l’atto della fuga; se poi emozione signi ca qualcosa
di cosciente e non la mera energia suscitata dalla fuga, c’è molta più
emozione.
Un problema connesso alla psicologia kantiana è che essa suppone che
tutto il “piacere” tranne quello della “contemplazione” consiste
esclusivamente nella grati cazione personale. Ogni esperienza, anche la
più generosa e idealistica, contiene un elemento di ricerca, di spinta in
avanti. Questo slancio ci abbandona solo quando siamo intorpiditi dalla
routine e sprofondiamo nell’apatia. L’attenzione si costruisce a partire da
un’organizzazione di questi fattori, e una contemplazione che non sia una
forma stimolata e intensi cata di attenzione verso il materiale che si
presenta nella percezione attraverso i sensi è un ssare il vuoto.
Le “sensazioni” sono necessariamente complesse e non sono meri
episodi estrinseci dell’atto del percepire. La psicologia tradizionale che
pone la sensazione al primo posto e l’impulso al secondo capovolge lo stato
di cose effettivo. Noi esperiamo coscientemente i colori perché si traduce
in pratica l’impulso a guardare; udiamo i suoni perché traiamo
soddisfazione nell’ascoltare. La struttura motoria e quella sensoriale
formano un unico apparato e svolgono un’unica funzione. Poiché la vita è
attività, c’è desiderio ogni volta che l’attività viene ostacolata. Un dipinto
soddisfa perché appaga la fame di scene più pienamente colorate e
luminose della maggior parte delle cose che di solito ci circondano. Nel
regno dell’arte, come in quello della virtù, a entrare sono coloro che hanno
fame e sete. Lo stesso predominio di intense qualità sensoriali in alcuni
oggetti estetici è di per sé una prova, dal punto di vista psicologico, del
fatto che qui c’è appetizione.
Ricerca, desiderio, bisogno, possono essere soddisfatti soltanto attraverso
materiale esterno all’organismo. L’orso in letargo non può vivere
inde nitamente della sua propria sostanza. I nostri bisogni sono cambiali
che si riscuotono dall’ambiente, dapprima alla cieca, poi consapevolmente
con interesse e attenzione. Per essere soddisfatti devono intercettare
energia da cose circostanti e assorbire quella di cui riescono a
impossessarsi. La cosiddetta energia eccedente dell’organismo non fa che
incrementare l’inquietudine, a meno che non possa essere alimentata da
qualcosa di oggettivo. Mentre il bisogno istintivo è impaziente e corre
veloce verso il proprio sfogo (così come un ragno a cui s’impedisca di
tessere la sua tela avvolgerà sé stesso no a morire), l’impulso che è
divenuto cosciente di se stesso indugia per accumulare, incorporare e
metabolizzare materiale oggettivo congeniale199.
La percezione, pertanto, è al suo stadio più basso e oscuro laddove agisce
solo il bisogno istintivo. L’istinto ha troppa fretta per curarsi delle sue
relazioni ambientali. Ciononostante, le esigenze e le risposte istintive
servono a un doppio scopo una volta che sia intervenuta la trasformazione
in esigenza cosciente di materia congeniale. Molti impulsi di cui non siamo
distintamente coscienti danno corpo ed estensione a ciò che è al centro
della coscienza. Ancora più importante è il fatto che il bisogno primitivo è
la fonte del nesso con gli oggetti. La percezione nasce quando la cura per
gli oggetti e le loro qualità rende consapevole questa esigenza organica di
connessione. Se si giudica a partire dalla produzione di opere d’arte e non
sulla base di una psicologia preconcetta, risulta evidente che è assurdo
ritenere che dall’esperienza estetica siano esclusi, insieme all’azione,
bisogno, desiderio e affezione, a meno che l’artista non sia la sola persona a
non fare esperienza estetica. La percezione che quando ha luogo è ne a
se stessa è piena realizzazione di tutti gli elementi del nostro essere
psicologico.
Qui, naturalmente, sta la spiegazione dell’equilibrio, della compostezza,
che caratterizza molta fruizione estetica. Finché la luce stimola solo
l’occhio, l’esperienza relativa è debole e povera. Quando la tendenza a
girare gli occhi e il capo viene assorbita in una moltitudine di altri impulsi,
diventando insieme elementi di un singolo atto, tutti gli impulsi si
mantengono in uno stato di equilibrio. Allora in luogo di una qualche
reazione speci ca si veri ca una percezione, e ciò che viene percepito si
carica di valore.
Questo stato può essere descritto come uno stato di contemplazione.
Non è pratico, se con “pratico” si intende un’azione intrapresa per un ne
particolare e speci co al di fuori della percezione o per qualche
conseguenza esterna200. In quest’ultimo caso la percezione non esiste ne
a se stessa, ma si limita a essere una ricognizione svolta in funzione di
ulteriori considerazioni. Questa concezione del “pratico”, però, ne limita il
senso. Non solo l’arte stessa è un’operazione con cui si fa e si crea – una
poiesis, come dice la parola stessa “poesia” –, ma come abbiamo visto la
percezione estetica richiede un corpo di attività organizzato, di cui sono
parte gli elementi motori necessari per una percezione piena.
L’obiezione principale alle associazioni di solito connesse al termine
“contemplazione” è certamente la sua apparente indifferenza verso
l’emozione passionale. Ho parlato di un certo equilibrio interno di impulsi
che si trova nell’atto della percezione. Ma anche il termine “equilibrio”
può generare una falsa idea. Può suggerire un bilanciamento così calmo e
pacato da escludere che un oggetto in cui siamo assorti ci rapisca. In realtà
signi ca solo che impulsi differenti si stimolano e si rinforzano a vicenda in
modo da escludere il tipo di azione esplicita che allontana dalla percezione
pregna di emozione. Dal punto di vista psicologico, è impossibile spingere
i bisogni profondamente radicati a trovare soddisfacimento nella
percezione senza un’emozione e una passione che, alla ne, determinano
l’unità dell’esperienza. E, come ho osservato in altri contesti, l’emozione
suscitata accompagna il contenuto percepito, distinguendosi così
dall’emozione grezza poiché è congiunta al movimento che fa il contenuto
verso il perfezionamento. Limitare l’emozione estetica al piacere che
accompagna l’atto della contemplazione vuol dire escludere tutto ciò che è
più caratteristico di essa.
Vale la pena di riprendere un brano di Keats in parte già citato:
«Riguardo al Carattere poetico in sé e per sé [...] non esiste in sé, non ha
un sé, è tutto e niente. Non ha carattere, gode sia della luce sia dell’ombra;
vive del gusto, che sia bello o brutto, sublime o volgare, ricco o povero,
esaltante o mediocre. Prova lo stesso piacere nel concepire Jago o
Imogene. Ciò che sconvolge il losofo virtuoso, delizia il Poeta
camaleonte. Non fa mai male, né quando si sente attratto verso il lato
oscuro delle cose, né quando gode del loro lato luminoso; perché in
entrambi i casi tutto si risolve in ri essione [percezione immaginativa]. Il
Poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità, è
continuamente intento a riempire qualche altro Corpo [...]. Se sono in
mezzo alla Gente e non sono assorto in creazioni del tutto private del mio
cervello, non riesco da me stesso a rimirar me stesso: l’identità di chi è nella
stanza comincia a premere su di me e in un attimo ne sono come
annullato, e questo non mi accade solo con gli Uomini; sarebbe lo stesso
con dei bambini»201.
Le idee di disinteresse, distacco e “distanza psichica” di cui si è fatto
gran conto nella teoria estetica recente, vanno intese nello stesso modo
della contemplazione. Il termine “disinteresse” non può signi care
indifferenza202. Ma lo si può usare come modo obliquo per indicare che
nessun interesse speci co risulta dominante. “Distacco” è un nome
negativo per qualcosa di estremamente positivo. Il sé non è separato, né
tenuto a distanza, ma partecipa pienamente. Nemmeno “adesione” riesce
a dare pienamente l’idea corretta, poiché suggerisce che il sé e l’oggetto
estetico continuino a esistere separatamente anche se in stretta
connessione. La partecipazione è talmente completa che l’opera d’arte è
distaccata o isolata dal tipo di desiderio speci co che agisce quando siamo
spinti a consumare o ad appropriarci sicamente di una cosa.
Si è parlato di “distanza psichica” per indicare un fatto assai simile. A
questo proposito è appropriata l’immagine di un uomo che si gode lo
spettacolo di un toro infuriato. Egli non è direttamente coinvolto nella
scena. Non è spinto a compiere un particolare atto speci co al di là della
percezione stessa. Il termine distanza indica una partecipazione così intima
ed equilibrata che nessun impulso particolare riesce a far sì che una
persona si tiri indietro, un completo abbandono alla percezione. La
persona che si gode una tempesta in mare unisce i suoi impulsi al dramma
del mare in burrasca, dello scoppio impetuoso e della nave che affonda. Il
“paradosso di Diderot” è esempio di una situazione simile203. Un attore in
scena non è freddo e impassibile mentre interpreta la propria parte, ma gli
impulsi che sarebbero dominanti se egli si trovasse davvero nelle situazioni
che rappresenta vengono trasformati coordinandosi con gli interessi che gli
appartengono in quanto artista. Disinteresse, distacco, distanza psichica,
esprimono tutti idee che si applicano a un desiderio e un impulso primitivi,
ma che sono irrilevanti per la materia di un’esperienza organizzata
artisticamente.
I concetti psicologici impliciti nelle loso e “razionalistiche” dell’arte
sono tutti associati a una separazione ssa tra senso e ragione. L’opera
d’arte è così palesemente sensoriale e tuttavia contiene una tale ricchezza
di signi cato da venire intesa come un annullamento di questa separazione
e come un diventare corpo attraverso il senso della struttura logica
dell’universo. Di solito, e a prescindere dall’arte bella, secondo questa
teoria il senso cela e distorce una sostanza razionale che è la realtà dietro le
apparenze – alle quali si limita la percezione sensoriale. L’immaginazione,
per mezzo dell’arte, va incontro al senso usando i suoi materiali, ma
comunque usa il senso per suggerire una verità ideale soggiacente. L’arte è
dunque un modo di avere botte piena e moglie ubriaca: la sostanza della
ragione e insieme il godimento del piacere dei sensi.
Ma in realtà la distinzione tra qualità in quanto sensoriale e signi cato in
quanto ideale non è primaria ma secondaria e di metodo. Costruendo una
situazione che è o contiene un problema, noi collochiamo su un versante
fatti che sono dati attraverso la percezione e sull’altro possibili signi cati di
questi fatti. La distinzione avviene necessariamente ad opera della
ri essione. La distinzione tra alcuni elementi del contenuto in quanto
razionali e altri in quanto sensibili è sempre intermedia e transitiva. La sua
funzione è di condurre alla ne a un’esperienza percettiva in cui sia
superata la distinzione – in cui ciò che un tempo erano concetti diventino i
signi cati inerenti a un materiale mediato dal senso. Anche i concetti
scienti ci devono prendere corpo nella percezione sensoriale per essere
recepiti come qualcosa di più che idee.
Tutti gli oggetti osservati che sono identi cati senza ri ettere (sebbene il
riconoscerli possa dare origine a ulteriore ri essione) mostrano un’unione
integrale di qualità sensoriale e signi cato in una sola tessitura compatta. È
con l’occhio che riconosciamo che il verde del mare appartiene al mare,
non all’occhio, e che è una qualità differente dal verde di una foglia; e che
il grigio di una roccia è differente per qualità da quello dei licheni che vi
crescono sopra. In tutti gli oggetti percepiti per ciò che sono senza bisogno
di un’indagine ri essiva, la qualità è ciò che essa signi ca, ossia l’oggetto a
cui essa appartiene. L’arte ha la facoltà di rendere intensa e concentrata
questa unione di qualità e signi cato vivi cando così entrambi. Anziché
annullare una separazione tra senso e signi cato (che si sostiene essere
psicologicamente normale), essa esempli ca in maniera accentuata e
perfetta l’unione che caratterizza molte altre esperienze, trovando i media
qualitativi precisi che si fondono nel modo più pieno con ciò che va
espresso. In tale contesto si può applicare il rilievo fatto in precedenza sulle
proporzioni differenti tra questi due fattori. Ci sono periodi interi dell’arte,
oltre che singole opere, in cui un elemento predomina rispetto all’altro. Ma
quando il risultato è arte, si realizza sempre la loro integrazione. Nella
pittura impressionista domina una qualità immediata. In Cézanne
dominano relazioni, signi cati, con la loro inevitabile tendenza
all’astrazione. Ma ciò nonostante, quando Cézanne ha successo sul piano
estetico è perché l’opera è interamente riuscita nei termini del medium
qualitativo e sensoriale.
L’esperienza comune soffre spesso di apatia, indolenza e stereotipo. Non
cogliamo né l’impatto della qualità attraverso il senso, né il signi cato delle
cose attraverso il pensiero. Il “mondo” ci appare troppo spesso un peso e
una distrazione. Non siamo abbastanza vitali da sentire la vibrazione del
senso né da essere sollecitati dal pensiero. Siamo oppressi dalle cose che ci
circondano oppure siamo diventati insensibili nei loro confronti. Accettare
come normale questo tipo di esperienza è la causa principale dell’accettare
l’idea per cui l’arte annulla separazioni che ineriscono alla struttura
dell’esperienza comune. Se non fosse per le oppressioni e le monotonie
dell’esperienza quotidiana, il regno del sogno e della revêrie non sarebbe
attraente. Una soppressione completa e duratura dell’emozione non è
possibile. Respinta dalla tediosità e dall’indifferenza delle cose che un
ambiente mal congegnato ci impone, l’emozione trova riparo e alimento
nelle cose della fantasia. Tali cose sono forgiate da un’energia impulsiva
che non può trovare sfogo nelle occupazioni consuete dell’esistenza. Può
essere proprio in circostanze del genere che le masse fanno ricorso alla
musica, al teatro e al romanzo per trovare facile accesso a un regno di
emozioni libere di propagarsi. Ma questo fatto non costituisce un motivo
per sostenere da parte della teoria loso ca che sussista una separazione
psicologica intrinseca tra senso e ragione, desiderio e percezione.
Tuttavia, quando la teoria elabora la propria concezione dell’esperienza
sulla base di situazioni che spingono così tante persone a cercare conforto
ed eccitazione in ciò che è puramente di fantasia, è inevitabile che l’idea
del “pratico” si ponga in opposizione alle proprietà che appartengono a
un’opera d’arte. Gran parte dell’attuale opposizione tra oggetti di bellezza
e oggetti d’uso – per servirsi dell’antitesi più frequentemente utilizzata – è
dovuta a distorsioni che hanno origine nel sistema economico. I templi
hanno un uso; i dipinti che stanno al loro interno hanno un uso; i bei
palazzi municipali che si trovano in molte città europee sono utilizzati per
governare gli affari pubblici, e non c’è bisogno di elencare la gran quantità
di cose prodotte dai popoli che chiamiamo selvaggi e rudi che affascinano
l’occhio e il tatto oltre a svolgere funzioni pratiche legate al nutrirsi e al
proteggersi. Il piatto e la scodella più comuni ed economici realizzati da
un artigiano messicano per uso domestico possiedono un loro fascino non
stereotipato.
Si è tuttavia replicato che c’è un’opposizione psicologica tra gli oggetti
impiegati per scopi pratici e oggetti che contribuiscono alla diretta
intensità e unità dell’esperienza. Si è sottolineato che c’è un’antitesi nella
struttura stessa del nostro essere tra l’azione uida della pratica e la vivida
coscienza dell’esperienza estetica. Si è detto che produzione e uso di beni
coinvolgono chi lavora e chi usa in un’azione che è uida nel senso che è
quanto possibile meccanica e automatica, mentre l’intensa e solida
coscienza di un’opera d’arte richiede la presenza di resistenze che
inibiscono tale azione204. Su quest’ultimo fatto non c’è alcun dubbio.
Si è affermato che «gli utensili, attraverso qualche pratica rituale o
qualora provengano da qualche epoca o terra lontana, possono solo
diventare fonte di un’accresciuta coscienza, poiché da un utensile si passa
tranquillamente all’azione per il quale esso è stato progettato». Quanto al
produttore di utensili, il fatto che così tanti artigiani in tutte le epoche e in
tutti i luoghi abbiano trovato e speso tempo per rendere i loro prodotti
esteticamente piacevoli, mi pare una risposta suf ciente. Non vedo come
possa esserci prova migliore del fatto che i fattori che determinano la
qualità artistica o non-artistica degli utensili sono le condizioni sociali
prevalenti in cui si esercita l’attività manifatturiera, e non un qualche
elemento intrinseco alla natura delle cose. Per quel che concerne colui che
usa l’utensile, non vedo perché quando beve del tè da una tazza gli debba
essere precluso di godere della forma di essa e della delicatezza del
materiale di cui è fatta. Nessuno trangugia ciò che mangia e beve nel
minor tempo possibile in ossequio a qualche legge psicologica necessaria.
Proprio come nelle condizioni industriali attuali ci sono molti operai che
si soffermano ad ammirare il frutto del loro lavoro, tenendolo a una certa
distanza per ammirarne forma e struttura e non solo per esaminarne
l’ef cienza per scopi pratici, e come ci sono molte sarte e modiste che si
impegnano di più nel loro lavoro perché ne apprezzano le qualità
estetiche, così chi non è vittima della pressione economica, o chi non è
ancora completamente preda delle abitudini generate dal lavoro alla
catena di montaggio di un’industria intensiva, ha una coscienza vivida del
processo stesso di utilizzazione degli utensili. Credo che ciascuno di noi
abbia sentito qualcuno vantarsi della bellezza della propria automobile e
delle qualità estetiche delle sue prestazioni, anche se il loro numero è
inferiore a quello di chi sbandiera con orgoglio quante miglia essa riesce a
percorrere in un dato tempo.
La psicologia a compartimenti che insiste su un’intrinseca ripartizione in
seno all’esperienza percettiva nel suo complesso è dunque essa stessa un
ri esso di istituzioni sociali dominanti che hanno profondamente inciso sia
sulla produzione che sul consumo o sull’uso. Laddove il lavoratore
produce in condizioni industriali differenti da quelle che prevalgono oggi,
i suoi stessi impulsi vanno nella direzione di una creazione di prodotti
d’uso che soddisfano la sua spinta a fare esperienza lavorando. Mi sembra
assurdo supporre che la preferenza per un’esecuzione meccanicamente
ef ciente ottenuta grazie a tranquilli automatismi mentali ininterrotti,
anche a spese di una viva coscienza di ciò che si sta facendo, abbia le
proprie radici nella struttura psicologica. E se il nostro ambiente, in quanto
costituito da oggetti d’uso, consistesse di cose che contribuiscono di per sé
a un’accresciuta coscienza della vista e del tatto, non penso che qualcuno
riterrebbe l’atto dell’uso tale da essere anestetico.
Una confutazione suf ciente dell’idea in questione è fornita dall’azione
dello stesso artista. Il solo fatto che pittore e scultore facciano
un’esperienza in cui l’azione non è automatica ma intrisa di emotività e
immaginazione, dà prova della non validità dell’idea per cui l’azione è
talmente scorrevole da escludere elementi di resistenza e inibizione
necessari a un’accresciuta coscienza. Ci può essere stato un tempo in cui il
ricercatore scienti co stava seduto tranquillo sulla sua seggiola a inventare
scienza. Ora la sua azione si svolge in un luogo che signi cativamente si
chiama laboratorio. Se l’azione di un insegnante è tanto uente da
escludere la percezione emotiva e immaginativa di ciò che sta facendo, egli
potrebbe facilmente essere considerato un pedagogo inespressivo e
super ciale. Lo stesso vale per qualsiasi professionista, che sia avvocato o
dottore. Non solo azioni del genere dimostrano la falsità del principio
psicologico esposto, ma le loro esperienze spesso diventano chiaramente di
natura estetica. La bellezza di un’abile operazione chirurgica è avvertita sia
da chi opera che da chi assiste.
La psicologia popolare e gran parte della psicologia cosiddetta scienti ca
sono state quasi interamente contagiate dall’idea della separatezza di
mente e corpo. Risultato inevitabile di questo concetto della loro
separazione è la creazione di un dualismo tra “mente” e “pratica”, dal
momento che quest’ultima deve operare attraverso il corpo. L’idea della
separazione forse derivò, almeno parzialmente, dal fatto che gran parte
della mente in un dato momento è distante dall’azione. La separazione,
una volta fatta, conferma indubbiamente la teoria secondo cui la mente,
l’anima, e lo spirito possono esistere e portare a compimento le loro
operazioni senza alcuna interazione dell’organismo con il suo ambiente.
La concezione tradizionale del piacere è profondamente contaminata dal
contrasto con ciò che caratterizza il lavoro che costa fatica.
Mi sembra, pertanto, che l’uso idiomatico della parola “mente” fornisca
un approccio molto più autenticamente scienti co, e loso co, ai fatti
concreti in questione di quanto non faccia l’uso tecnico. Infatti nel suo uso
non-tecnico “mente” denota ogni diversa maniera di interessarsi e
occuparsi di cose: pratica, intellettuale ed emotiva. Non denota mai
qualcosa di autosuf ciente, di isolato dal mondo delle persone e delle cose,
ma si usa sempre facendo riferimento a situazioni, eventi, oggetti, persone
e gruppi. Si consideri tutto ciò che comprende. Mente signi ca memoria.
Ci si richiama alla mente205 questo e quello. Signi ca anche attenzione.
Non solo teniamo a mente le cose, ma volgiamo la nostra mente ai nostri
problemi e alle nostre perplessità. Mente signi ca anche proposito:
abbiamo in mente di fare questo e quello. Né in tali operazioni la mente è
qualcosa di puramente intellettuale. La madre “pone mente” al suo
bambino206; si prende cura di lui con affetto. La mente è cura nel senso di
sollecitudine, preoccupazione, ma anche di star dietro alle cose che hanno
bisogno di essere curate; poniamo mente all’ostacolo, al corso della nostra
azione, dal punto di vista sia dell’emozione che del pensiero. Partendo dal
prestare attenzione ad azioni e oggetti, il verbo mind giunge anche a
signi care obbedire – come quando si dice ai bambini di dar retta207 ai
loro genitori. In breve “to mind” denota un’attività che è intellettuale, il
notare qualcosa; un’attività affettiva, come avere preoccupazione e
simpatia, e l’agire volitivo, pratico, secondo uno scopo.
Mind è anzitutto un verbo. Esso denota tutti i modi in cui ci occupiamo
consapevolmente ed esplicitamente delle situazioni in cui ci troviamo.
Purtroppo una maniera in uente di pensare ha trasformato i modi di agire
in una sostanza soggiacente che compie le attività in questione. Essa ha
trattato la mente come un’entità indipendente la quale fa attenzione, si
pre gge, si prende cura, osserva e ricorda. Questa trasformazione dei modi
di reagire all’ambiente in un’entità da cui provengono le azioni è nefasta,
poiché scioglie la mente dalla necessaria connessione con gli oggetti e gli
eventi, passati, presenti e futuri, dell’ambiente con cui sono
intrinsecamente collegate le attività di reazione. La mente che intrattiene
solo una relazione accidentale con l’ambiente ha una relazione analoga
anche con il corpo. Se si rende la mente puramente immateriale (isolata
dall’organo del fare e del subire), il corpo cessa di essere vivo e diventa una
massa morta. Questa concezione della mente come essere isolato è sottesa
all’idea per cui l’esperienza estetica è solamente qualcosa “nella mente”, e
rafforza la concezione che isola l’estetico da quei modi d’esperienza in cui
il corpo è impegnato attivamente con le cose della natura e della vita.
Allontana l’arte dalla provincia della creatura vivente.
Nel senso idiomatico della parola “sostanziale”, in quanto distinto dal
senso meta sico di sostanza, vi è qualcosa di sostanziale per quel che
concerne la mente. Ogni volta che si subisce qualcosa in conseguenza di
un’azione, il sé è modi cato. La modi cazione va al di là dell’acquisizione
di maggior destrezza e abilità. Si costruiscono atteggiamenti e interessi che
incarnano in loro stessi qualche residuo del signi cato di cose fatte e
subite. Questi signi cati consolidati e conservati diventano una parte del
sé. Costituiscono il capitale con cui il sé osserva, si prende cura, fa
attenzione e si propone. In questo senso sostanziale, la mente costituisce lo
sfondo sul quale si proietta ogni nuovo contatto con le cose circostanti;
tuttavia “sfondo” è un termine troppo passivo, a meno che non ricordiamo
che è attivo e che, quando vi si proietta il nuovo, c’è assimilazione e
ricostruzione sia dello sfondo che di ciò che si recepisce e si metabolizza.
Questo sfondo attivo e inquieto sta in attesa e attacca qualunque cosa
capiti sulla sua strada così da assorbirla nel suo stesso essere. La mente
come sfondo è costituita dalle modi cazioni del sé che hanno avuto luogo
nel corso di precedenti interazioni con l’ambiente. Il suo animo è proteso
verso ulteriori interazioni. Poiché è costituita dagli scambi con il mondo ed
è orientata verso quello stesso mondo, nulla può essere più lontano dal
vero dell’idea che la considera un’entità indipendente e chiusa in se stessa.
Quando la sua attività si ripiega su se stessa, come nella meditazione e
nella speculazione ri essiva, essa si ritira dalla scena immediata del mondo
solo per il tempo necessario a considerare a fondo e riesaminare il
materiale raccolto da quel mondo.
Diversi tipi di mente vengono de niti a seconda dei differenti interessi in
base a cui si raccoglie e si assembla effettivamente il materiale che proviene
dal mondo circostante: mente di tipo scienti co, esecutivo, artistico,
economico. In ciascuno c’è una maniera precipua di selezionare,
conservare e organizzare. La costituzione innata dell’artista è
contrassegnata da una peculiare sensibilità per qualche aspetto del
multiforme universo della natura e dell’uomo e dall’urgenza di dargli
rilievo esprimendolo in un medium privilegiato. Questi impulsi
connaturati diventano mente quando si fondono con uno sfondo
esperienziale particolare. Di questo sfondo le tradizioni costituiscono una
parte cospicua. Non è suf ciente avere contatti diretti e osservazioni
dirette, per quanto siano indispensabili. Anche l’opera di una personalità
originale può essere relativamente debole, oltre che tendere alla
stravaganza, quando non è permeata da un’ampia e varia esperienza delle
tradizioni dell’arte in cui opera l’artista. Altrimenti non si riesce a rendere
consistente e valida l’organizzazione dello sfondo con cui ci si accosta alle
scene immediate. Ogni grande tradizione è infatti essa stessa
l’organizzazione di un’abitudine a vedere in un certo modo e a procedere
in alcune maniere per ordinare e trasmettere materiale. Non appena entra
a far parte del temperamento e della costituzione innati, questa abitudine
diventa un ingrediente essenziale della mente di un artista. In tal modo la
peculiare sensibilità per certi aspetti della natura si trasforma in una
capacità.
Le “scuole” artistiche sono più marcate in scultura, architettura e pittura
che nelle arti letterarie. Ma non c’è stato grande letterato che non si sia
nutrito delle opere dei maestri del teatro, della poesia e della prosa d’arte.
In questa dipendenza dalla tradizione non c’è nulla di peculiare per l’arte.
Anche il ricercatore scienti co, il losofo, il tecnico, traggono la loro
sostanza dal corso della cultura. Questa dipendenza è un fattore essenziale
nella visione originale e nell’espressione creativa. Il difetto dell’imitatore
accademico non è che egli dipende dalle tradizioni, ma che queste ultime
non sono diventate parte della sua mente; della struttura dei suoi propri
modi di vedere e creare. Restano in super cie come espedienti tecnici o
ispirazioni e convenzioni estranee rispetto alla cosa che va davvero fatta.
Mente è più che coscienza, poiché essa è lo sfondo persistente, sebbene
mutevole, di cui la coscienza è il primo piano. La mente cambia
lentamente grazie alla guida congiunta di interesse e circostanza. La
coscienza è sempre in rapido mutamento, in quanto caratterizza il luogo in
cui si toccano e interagiscono la disposizione che si è formata e la
situazione immediata. È il continuo riassestamento del sé e del mondo
nell’esperienza. La “coscienza” cresce di acutezza e intensità
proporzionalmente ai riassestamenti che sono richiesti, tendendo allo zero
quando il contatto non genera attrito e l’interazione è uida. È torbida
quando i signi cati vengono sottoposti a ricostruzione in una direzione
indeterminata, e diventa chiara quando emerge un signi cato decisivo.
“Intuizione” è quell’incontro tra il vecchio e il nuovo in cui il
riassestamento insito in ogni forma di coscienza si attua repentinamente
per mezzo di una rapida e inaspettata armonia che, nella sua luminosa
istantaneità, è come un lampo di rivelazione; sebbene sia in realtà
preparata da una lunga e lenta incubazione. Molte volte l’unione di
vecchio e nuovo, di primo piano e sfondo, si ottiene soltanto con uno
sforzo, talvolta prolungato no a recare dolore. In ogni caso, lo sfondo di
signi cati organizzati può da solo convertire la nuova situazione dallo stato
di oscurità allo stato di chiarezza e luminosità. Quando vecchio e nuovo
scattano insieme, come scintille che scoccano quando i poli sono ben
sistemati, c’è intuizione. Quest’ultima pertanto non è né un atto del puro
intelletto effettuato durante l’apprensione di una verità razionale, né un
crociano afferramento da parte dello spirito delle sue stesse immagini e
condizioni.
Poiché l’interesse è la forza dinamica nella selezione e nell’assemblaggio
di materiali, i prodotti della mente sono caratterizzati da individualità,
esattamente come i prodotti di un meccanismo sono caratterizzati da
uniformità. Per quanto notevoli, mai abilità tecnica e capacità artigianale
riescono a rimpiazzare un interesse vitale; l’“ispirazione” che ne è priva
risulta fugace e vana. Una mente super ciale e male ordinata realizza cose
a propria immagine in arte come altrove, poiché le mancano la spinta e
l’energia accentratrice dell’interesse. Le opere d’arte sono misurate in base
all’esibizione di virtuosismo quando i criteri vengono importati dal campo
dell’invenzione tecnica. Quando le si giudica sulla base della mera
ispirazione si tralascia il lungo e costante lavoro svolto da un interesse
sempre all’opera sotto la super cie. Come chi crea, anche chi percepisce
ha bisogno di uno sfondo ricco e articolato il quale, che si tratti di pittura o
che ci si trovi nel campo della poesia o della musica, non può essere
ottenuto se non alimentando costantemente l’interesse.
In ciò che precede non ho detto nulla sull’immaginazione.
“Immaginazione” condivide con “bellezza” il dubbio onore di essere
l’argomento principale di scritti estetici di ebbra ignoranza. Forse più di
ogni altro momento dell’apporto umano, è stata trattata come una facoltà
speciale e autosuf ciente, distinta da altre perché dotata di poteri
misteriosi. Se però ne giudichiamo la natura a partire dalla creazione di
opere d’arte, essa rivela una qualità che anima e pervade tutti i processi di
produzione e osservazione. È un modo di vedere e sentire le cose nel loro
costituire un tutto integrale. È l’ampia e copiosa fusione di interessi nel
punto in cui la mente entra in contatto con il mondo. Quando cose
vecchie e familiari si rinnovano nell’esperienza, c’è immaginazione.
Quando si crea il nuovo, ciò che è distante e ciò che è strano diventano le
cose comuni più naturali nel mondo. C’è sempre una certa dose di
avventura nell’incontro tra mente e universo, e questa avventura è, entro
questi limiti, immaginazione.
Coleridge ha usato il termine “esemplastico” per caratterizzare l’opera
dell’immaginazione nell’arte. Se comprendo l’uso che egli fa di questo
termine, con esso intendeva richiamare l’attenzione sulla saldatura di tutti
gli elementi, a prescindere da quanto siano diversi nell’esperienza comune,
in un’esperienza nuova e completamente uni cata. «Il poeta», ha detto, «è
colui che mette in attività tutta l’anima dell’uomo, e ne ordina
gerarchicamente le facoltà, a seconda del valore e della dignità di ciascuna.
Egli diffonde un tono, e uno spirito di unità, che le mescola, e (per così
dire) le fonde l’una nell’altra, attraverso quella capacità magica e sintetica
alla quale abbiamo imposto, in maniera esclusiva, il nome di
immaginazione». Coleridge ricorre alla terminologia della sua generazione
loso ca. Parla di facoltà che si fondono e di immaginazione come se fosse
una forza diversa che ha la funzione di riunirle208.
Ma si può sorvolare sul modo in cui si esprime e trovare in ciò che dice
un cenno non al fatto che l’immaginazione sia la capacità di fare certe
cose, ma al fatto che un’esperienza immaginativa è ciò che accade quando
materiali diversi di qualità sensoriale, emozione e signi cato convergono in
un’unione che segna una nuova nascita nel mondo. Non pretendo di
comprendere esattamente ciò che intendeva Coleridge con la distinzione
tra immaginazione e fantasia. Ma non ci può essere dubbio sulla differenza
tra il tipo di esperienza appena indicato e quello in cui una persona
intenzionalmente dà una foggia insolita a un’esperienza familiare
rivestendola con un abito inusuale, come se fosse un’apparizione
soprannaturale. In casi del genere mente e materiale non s’incontrano e
non si compenetrano con precisione. La mente resta in gran parte isolata e
si trastulla con il materiale invece di afferrarlo con risolutezza. Il materiale
è troppo lieve per sollecitare la piena energia delle maniere di agire in cui
prendono corpo valori e signi cati; non offre suf ciente resistenza e quindi
la mente vi gioca a proprio capriccio. Nel migliore dei casi, il fantasioso
resta all’interno di quella letteratura in cui con eccessiva facilità
l’immaginativo diventa immaginario. Basta soltanto pensare alla pittura –
per non parlare dell’architettura – per vedere quanto ciò sia lontano
dall’arte vera e propria. Nelle opere d’arte prendono corpo possibilità che
altrove non si attualizzano; questo prender corpo è la migliore
dimostrazione che si possa trovare di quale sia la vera natura
dell’immaginazione.
C’è un con itto vissuto dagli stessi artisti che è istruttivo per quel che
concerne la natura dell’esperienza immaginativa. Questo con itto è stato
messo in evidenza in molti modi. Un modo di enunciarlo riguarda
l’opposizione tra visione interna e visione esterna. C’è uno stadio in cui la
visione interna sembra molto più ricca e più bella rispetto a ogni
manifestazione esterna. Essa possiede un’aura ampia e seducente di
implicazioni che mancano nell’oggetto della visione esterna. Sembra
afferrare molto più di quanto riesca a trasmettere quest’ultima. Poi
sopraggiunge una reazione; il contenuto della visione interna sembra
simile a uno spettro a confronto della solidità e dell’energia della scena che
si presenta. Si sente che l’oggetto dice in modo stringato e violento
qualcosa che la visione interna rende solo vagamente, in un sentimento
disperso invece che in modo organico. L’artista è spinto a sottomettersi
umilmente alla disciplina della visione oggettiva. Ma la visione interna non
viene cacciata via. Resta come organo con cui controllare la visione esterna
e si struttura man mano che quest’ultima viene assorbita al suo interno.
L’interazione tra queste due modalità di visione è immaginazione; quando
l’immaginazione prende forma, nasce l’opera d’arte. Lo stesso accade al
pensatore loso co. Ci sono momenti in cui egli sente che le proprie idee e
i propri ideali sono più belli di qualunque cosa che esiste. Ma è costretto a
tornare agli oggetti se vuole che le sue speculazioni abbiano corpo, peso e
prospettiva. Abbandonandosi però al materiale oggettivo egli non
abbandona la sua visione; non gli interessa l’oggetto proprio in quanto
oggetto. Esso è posto nel contesto delle idee, e con questa sua collocazione
le idee acquisiscono solidità e assumono in parte la natura dell’oggetto.
Le sequenze di quelle che vengono per cortesia chiamate idee, diventano
meccaniche. Sono facili da seguire, troppo facili. L’osservazione, così come
l’azione esplicita, è soggetta a inerzia e si muove lungo la linea di minor
resistenza. Si forma un pubblico che è assuefatto a certi modi di vedere e
di pensare. Esso ama che gli venga riproposto ciò che è familiare. Svolte
inattese quindi suscitano irritazione invece di aggiungere intensità
all’esperienza. Le parole sono particolarmente soggette a questa tendenza
all’automatismo. Se la loro sequenza quasi meccanica non è troppo
prosaica, uno scrittore avrà la reputazione di essere chiaro solo perché i
signi cati che esprime sono così familiari da non richiedere pensiero da
parte del lettore. Ogni arte sfocia nell’accademico e nell’eclettico. La
qualità peculiare dell’immaginativo si comprende meglio se posta in
contrasto con l’effetto restrittivo dell’abitudine. Il tempo è il banco di
prova per distinguere l’immaginativo dall’immaginario. Quest’ultimo passa
perché è arbitrario. L’immaginativo perdura perché, benché dapprima
insolito per quel che riguarda noi, è durevolmente familiare per quel che
riguarda la natura delle cose.
La storia della scienza e della loso a, come anche delle arti belle,
documenta come il prodotto immaginativo venga all’inizio condannato dal
pubblico, e in maniera proporzionale alla sua portata e alla sua profondità.
Non è solo in religione che il profeta all’inizio viene lapidato (almeno
metaforicamente) mentre le generazioni successive gli erigono monumenti
commemorativi. Facendo riferimento alla pittura, Constable ha enunciato
con n troppa prudenza questo fatto universale quando ha detto: «
Nell’Arte [...] ci sono due modi con i quali gli uomini cercano di
distinguersi. Nel primo modo l’Artista, intento solo allo studio di una
perfezione ormai passata, o a ciò che altri hanno compiuto, diventa un
imitatore delle loro opere, oppure nisce col selezionare e combinare le
loro varie qualità; nel secondo modo egli cerca la perfezione alla sua fonte
originale, la Natura. Il primo crea uno stile sulla base dello studio dei
dipinti o della sola arte e produce arte imitativa, scolastica o, come è stata
de nita, arte eclettica; l’altro, da uno studio ugualmente e legittimamente
fondato sull’arte, ma in seguito continuato in un campo di gran lunga più
vasto, trova subito per sé innumerevoli fonti di studio, no a quel
momento inesplorate e ricche di bellezza, e poiché cerca di rivelarle per la
prima volta, crea uno stile originale, aggiungendo in questo modo all’Arte
qualità della natura che prima le erano sconosciute. I risultati della prima
maniera, in quanto ripetono semplicemente ciò che è stato fatto da altri e
hanno l’apparenza delle cose che ci sono familiari, possono essere
facilmente compresi, subito apprezzati e immediatamente accettati. Di
conseguenza il riconoscimento di un artista che operi in una propria sfera
deve essere quasi certamente rimandato e in genere le sue giuste richieste
di una fama duratura si af dano al tempo, questo per il fatto che sono
tanto pochi quelli che apprezzano una qualunque deviazione da una
traccia battuta, sanno riconoscere i segni di un talento non ancora maturo
o sono quali cati a giudicare produzioni aventi connotazioni di originalità
e genuinità e recanti di conseguenza novità stilistiche nella loro
esecuzione»209. Qui sta il contrasto tra l’inerzia dell’abitudine e
l’immaginativo; cioè la mente che cerca e accoglie ciò che è nuovo nella
percezione pur essendo duraturo tra le possibilità della natura. C’è
“rivelazione” in arte quando viene stimolata l’espansione dell’esperienza.
Si dice che la loso a abbia inizio nella meraviglia e ne nella
comprensione. L’arte parte da ciò che è stato compreso e ha ne nella
meraviglia. Alla n ne, l’apporto umano in arte consiste anche nell’opera
che la natura viene stimolata a svolgere all’interno dell’uomo.
Qualsiasi psicologia che isoli l’essere umano dall’ambiente lo stacca
anche, salvo che per contatti esteriori, dai suoi simili. Ma i desideri di un
individuo prendono forma sotto l’in uenza dell’ambiente umano. I
materiali delle sue ri essioni e delle sue convinzioni gli vengono dagli altri
con cui vive. Sarebbe più povero di un animale dei campi se non fosse per
le tradizioni che diventano parte della sua mente e per le istituzioni che, al
di sotto delle sue azioni esteriori, penetrano nei suoi scopi e nelle sue
soddisfazioni. L’espressione dell’esperienza è pubblica e comunicativa
poiché le esperienze espresse sono quel che sono grazie a esperienze di vivi
e morti che le hanno plasmate. Non è necessario che la comunicazione sia
parte dell’intento deliberato di un artista, sebbene egli non possa mai fare
a meno di pensare a un pubblico potenziale. Funzione ed effetto di ciò è
comunque che si veri chi una comunicazione, e non per un caso fortuito
ma in forza della natura che l’artista condivide con altri.
L’espressione penetra al di sotto delle barriere che separano tra loro gli
esseri umani. Essendo la forma più universale di linguaggio ed essendo
costituita, anche a prescindere dalla letteratura, dalle qualità comuni del
mondo pubblico, l’arte è la forma più universale e più libera di
comunicazione. Ogni esperienza intensa di amicizia e di affetto si
completa artisticamente. Il senso di comunione generato da un’opera
d’arte può assumere una qualità chiaramente religiosa. L’unione reciproca
tra gli uomini è l’origine dei riti che, dal tempo dell’uomo arcaico no ad
oggi, hanno commemorato i momenti decisivi di nascita, morte e
matrimonio. L’arte è l’estensione a tutti gli eventi e a tutte le situazioni
della vita della capacità che hanno riti e cerimonie di unire gli uomini
attraverso una celebrazione condivisa. Tale funzione è la ricompensa e il
suggello dell’arte. Che l’arte unisca uomo e natura è un fatto noto. L’arte
rende anche gli uomini consapevoli della loro reciproca unione nell’origine
e nel destino.
12 – La s da alla loso a

L’esperienza estetica è immaginativa. Questo fatto, unito a una


concezione sbagliata della natura dell’immaginazione, ha messo in ombra
un fatto più ampio: che tutta l’esperienza cosciente possiede di necessità
un certo grado di qualità immaginativa. Infatti, mentre le radici di ogni
esperienza si trovano nell’interazione di una creatura vivente con il suo
ambiente, quell’esperienza diviene cosciente, materia di percezione, solo
quando vi entrano signi cati che sono derivati da esperienze precedenti.
L’immaginazione è la sola porta attraverso cui questi signi cati possono
passare per entrare in un’interazione presente; o piuttosto, come abbiamo
appena visto, l’adattamento cosciente tra nuovo e vecchio è
immaginazione. L’interazione di un essere vivente con un ambiente si
trova nella vita vegetale e animale. Ma l’esperienza che ha luogo è umana e
cosciente solo quando ciò che si dà qui e ora si amplia grazie a signi cati e
valori tratti da ciò che di fatto è assente ed è presente solo
immaginativamente210.
C’è sempre un divario tra il qui e ora dell’interazione diretta e le
interazioni passate il cui risultato consolidato dà luogo ai signi cati tramite
i quali noi afferriamo e comprendiamo ciò che sta accadendo al momento.
A causa di questo divario, ogni percezione cosciente comporta un rischio;
è un’avventura nell’ignoto poiché, assimilando il presente al passato,
determina anche una qualche ricostruzione del passato. Quando passato e
presente si adattano perfettamente l’uno all’altro, quando c’è solo
ripetizione, totale uniformità, l’esperienza che ne risulta è di routine e
meccanica; non giunge alla coscienza nella percezione. L’inerzia
dell’abitudine sovrasta l’adattamento del signi cato del qui e ora a quello
di esperienze senza di cui non c’è coscienza, la fase immaginativa
dell’esperienza.
La mente, ossia il corpo di signi cati organizzati grazie a cui eventi del
presente hanno signi catività per noi, non entra sempre nelle attività e nei
momenti di passività che succedono qui e ora. Talvolta viene deviata e
bloccata. In tal caso il usso dei signi cati messo in attività dal contatto
presente rimane isolato. Esso diventa allora materia di rêverie, di sogno; le
idee uttuano, non sono ancorate a qualcosa di esistente in quanto sua
proprietà, sua dotazione di signi cati. A queste idee si agganciano
emozioni egualmente sciolte e uttuanti. Il piacere che procurano è la
ragione per cui vengono trattenute e per cui gli si concede di occupare la
scena; si uniscono all’esistenza solo in un modo che, nché si è sani di
mente, si sente essere meramente fantasioso e irreale.
In ogni opera d’arte, tuttavia, questi signi cati prendono effettivamente
corpo in un materiale che diventa pertanto il medium della loro
espressione. Questo fatto costituisce la peculiarità di ogni esperienza che
sia chiaramente estetica. La sua qualità immaginativa è dominante poiché
mediante le espressioni, anche se non mediante un oggetto sicamente
ef cace in relazione ad altri oggetti, vengono realizzati signi cati e valori
più ampi e profondi del particolare qui e ora a cui essi sono ancorati.
Senza l’intervento dell’immaginazione non si produce neanche un oggetto
utile. Quando è stata inventata la macchina a vapore, qualche materiale
esistente è stato percepito alla luce di relazioni e possibilità no ad allora
non colte. Ma quando le possibilità immaginate hanno preso corpo in un
nuovo assemblaggio di materiali naturali, la macchina a vapore ha assunto
il suo posto in natura come un oggetto che ha gli stessi effetti sici di quelli
che pertengono a ogni altro oggetto sico. Il vapore svolgeva il lavoro sico
e generava le conseguenze che accompagnano ogni gas in espansione in
determinate condizioni siche. L’unica differenza è che le condizioni in
cui esso opera sono state stabilite da un’invenzione dell’uomo.
A differenza della macchina, l’opera d’arte non è però solo l’esito
dell’immaginazione, ma anche agisce immaginativamente piuttosto che nel
regno delle esistenze siche. Quel che fa è concentrare e ampliare
un’esperienza immediata. In altri termini, la materia formata
dell’esperienza estetica esprime direttamente i signi cati che sono evocati
immaginativamente; non fornisce semplicemente, come il materiale
inserito in nuove relazioni in una macchina, mezzi con cui poter realizzare
scopi che stanno al di sopra e al di là dell’esistenza dell’oggetto. E tuttavia i
signi cati raccolti, assemblati e integrati immaginativamente prendono
corpo in una cosa che esiste materialmente e che interagisce qui e ora con
il sé. L’opera d’arte è quindi una s da a effettuare un atto simile di
evocazione e organizzazione, attraverso l’immaginazione, da parte di colui
che ne fa esperienza. Non è solo stimolo e mezzo di un processo attivo
palese.
Questo fatto determina l’unicità dell’esperienza estetica, e questa unicità
è a sua volta una s da al pensiero. In particolare, è una s da a quel
pensiero sistematico che si chiama loso a. Infatti l’esperienza estetica è
esperienza nella sua integrità. Se nella letteratura loso ca non si fosse così
spesso abusato del termine “puro”, se questo termine non fosse stato
utilizzato così di frequente per alludere al fatto che ci sarebbe qualcosa di
contaminato, impuro, nella natura stessa dell’esperienza e per denotare
qualcosa al di là dell’esperienza, potremmo dire che l’esperienza estetica è
esperienza pura. Essa è infatti esperienza liberata dalle forze che
ostacolano e confondono il suo sviluppo in quanto esperienza; liberata,
cioè, da fattori che subordinano un’esperienza così come essa viene fatta
direttamente a qualcosa posto al di là di essa. È all’esperienza estetica,
dunque, che deve rifarsi il losofo per comprendere che cos’è l’esperienza.
Per questa ragione la teoria dell’estetica proposta da un losofo, oltre a
essere una veri ca della capacità del suo autore di fare l’esperienza che
costituisce il contenuto della sua analisi, è anche molto più di ciò. È una
veri ca della capacità del sistema che egli propone di cogliere la natura
dell’esperienza stessa. Non c’è banco di prova che riveli in maniera
altrettanto certa l’unilateralità di una loso a come il suo modo di trattare
l’arte e l’esperienza estetica. La visione immaginativa è la forza che uni ca
tutti gli elementi che costituiscono la materia di un’opera d’arte, formando
da questi in tutta la loro varietà un intero. E ancora, nell’esperienza
estetica si fondono tutti gli elementi del nostro essere che in altre
esperienze si mostrano con accenti particolari e in realizzazioni parziali. E
sono fusi in modo così pieno nell’immediata interezza dell’esperienza che
ciascuno di essi si è inabissato: – non si presenta nella coscienza come un
elemento distinto.
Tuttavia le loso e dell’estetica sono spesso partite da un solo fattore che
prende parte alla costituzione dell’esperienza e hanno tentato di
interpretare o “spiegare” l’esperienza estetica per mezzo di un unico
elemento; in termini di senso, emozione, ragione, di attività; la stessa
immaginazione non viene vista come ciò che contiene in soluzione tutti gli
altri elementi, ma come una facoltà speciale. Le loso e dell’estetica sono
molte e varie. È impossibile darne anche un résumé211 in un capitolo. Ma
per la critica c’è un lo che, se seguito, fornisce una guida sicura attraverso
questo labirinto. Si può chiedere quale elemento interno alla formazione
dell’esperienza venga assunto come centrale e caratteristico da ciascun
sistema. Se si parte da questo punto, si scopre che le teorie rientrano
naturalmente in certi tipi, e che il particolare lo conduttore
dell’esperienza che si presenta svela, al cospetto della stessa esperienza
estetica, la debolezza della teoria. Infatti diviene palese che il sistema in
questione ha sovrimposto una qualche idea preconcetta all’esperienza
invece di sollecitare l’esperienza estetica a raccontare la propria storia, o
almeno di permettere che lo faccia.
Poiché l’esperienza diviene cosciente per mezzo di quella fusione di
vecchi signi cati e nuove situazioni che tras gura entrambi
(trasformazione che de nisce l’immaginazione), la teoria secondo cui l’arte
è una forma di nzione si candida a essere quella con cui è naturale
cominciare. Questa teoria ha origine e dipende dal contrasto tra l’opera
d’arte come esperienza e l’esperienza del “reale”. Ora non c’è dubbio che,
essendo dominata dalla qualità immaginativa, l’esperienza estetica sia
avvolta in una luce che mai si vide su terra o mare212. Anche l’opera più
“realistica”, se è un’opera d’arte, non è una riproduzione imitativa delle
cose che chiamiamo reali perché sono familiari, regolari e pressanti.
Allontanandosi da teorie dell’arte che de niscono quest’ultima “imitativa”
e che considerano il piacere che l’accompagna dovuto al mero
riconoscimento, la teoria della nzione ha afferrato un aspetto peculiare
dell’estetico.
Inoltre, non penso che si possa negare che nella creazione di un’opera
d’arte intervenga un elemento di rêverie, prossimo allo stato onirico, né
che l’esperienza di un’opera quando è intensa spesso getti una persona in
uno stato del genere. Anzi, si può certo dire che le idee “creative” in
loso a e in scienza vengono solo alle persone che si rilassano no alla
rêverie. Il capitale inconscio di signi cati immagazzinato nei nostri modi di
fare non ha alcuna possibilità di diffondersi quando compiamo uno sforzo
pratico o intellettuale. Infatti la parte di gran lunga maggiore di questa
riserva in tal caso è tenuta a freno, perché le esigenze di un problema
particolare e di uno scopo particolare inibiscono tutto tranne che gli
elementi direttamente rilevanti. Immagini e idee ci vengono non perché ce
lo siamo posti come scopo, ma per lampi, e i lampi sono intensi e
illuminanti, ci in ammano, solo quando siamo sgravati da preoccupazioni
particolari.
L’errore della teoria artistica della nzione, o dell’illusione, non deriva
quindi dal fatto che l’esperienza estetica sia priva degli elementi sui quali è
costruita questa teoria. La sua erroneità deriva dal fatto che, isolando un
solo costituente, essa nega in modo esplicito o implicito altri elementi
egualmente essenziali. Indipendentemente da quanto sia immaginativo il
materiale per un’opera d’arte, esso sgorga dallo stato di rêverie per divenire
la materia di un’opera d’arte solo quando viene ordinato e organizzato, e
questo effetto si produce soltanto quando lo scopo controlla selezione ed
elaborazione del materiale.
La caratteristica di sogno e rêverie è l’assenza di controllo da parte dello
scopo. Immagini e idee si susseguono l’una all’altra obbedendo alla loro
pura volontà, e questa purezza della successione rispetto al sentimento è
l’unico controllo esercitato. In termini loso ci, il materiale è soggettivo. Si
ha un prodotto estetico solo quando le idee cessano di uttuare e
prendono corpo in un oggetto, e chi fa esperienza dell’opera d’arte si
perde in una inutile rêverie nché anche le sue immagini ed emozioni non
si legano all’oggetto, nel senso di fondersi con la materia dell’oggetto. Non
basta che vengano suscitate dall’oggetto: per essere un’esperienza
dell’oggetto esse devono essere impregnate delle sue qualità. Impregnarsi
signi ca immergersi così a fondo che le qualità dell’oggetto e le emozioni
che esso suscita non hanno esistenza separata. Spesso le opere d’arte
innescano un ritmo d’esperienza piacevole di per sé, e questa è talvolta
un’esperienza che vale la pena di fare, non solamente un indulgere in futili
sentimentalismi. Ma un’esperienza del genere non è una percezione
dell’oggetto della quale si gode semplicemente perché è provocata da esso.
L’importanza dello scopo in quanto fattore di controllo tanto nella
produzione quanto nella fruizione spesso non viene colta poiché lo scopo
viene identi cato con il pio desiderio e con ciò che talvolta viene chiamato
motivo. Uno scopo esiste solo nei termini del contenuto trattato.
L’esperienza che ha dato origine a un’opera come la Joie de Vivre di
Matisse è altamente immaginativa213; una scena simile non si è mai
veri cata. Questo è un esempio straordinario a favore della teoria dell’arte
come sogno. Ma il materiale immaginativo non è rimasto né poteva
rimanere simile al sogno, a prescindere da quale origine avesse. Per
diventare la materia di un’opera, doveva essere concepito in termini di
colore inteso come medium espressivo; l’immagine e il sentimento
uttuanti di una danza dovevano essere tradotti in ritmi di spazio, linea e
in distribuzioni di luce e colori. L’oggetto, il materiale espresso, è non
semplicemente lo scopo realizzato, ma in quanto oggetto è lo scopo stesso
n dall’inizio. Anche se dovessimo pensare che l’immagine si è presentata
dapprima in un vero e proprio sogno, resterebbe vero che si è dovuto
organizzare il suo materiale nei termini di materiali e operazioni oggettivi
che hanno spinto coerentemente e continuativamente verso la conclusione
raggiunta nel quadro quale oggetto pubblico che si trova in un mondo
comune.
Allo stesso tempo, lo scopo implica nel modo più organico un sé
individuale. È negli scopi che ha in mente e mette in pratica che un
individuo esibisce e realizza più pienamente il suo intimo sé. Il controllo di
materiale da parte di un sé viene effettuato da qualcosa in più che non la
“mente” soltanto; è controllo da parte della personalità che al suo interno
ha incorporata la mente. Ogni interesse è un’identi cazione di un sé con
qualche aspetto materiale del mondo oggettivo, della natura che
comprende l’uomo. Lo scopo è questa identi cazione nell’azione. Il suo
operare in e attraverso condizioni oggettive è un banco di prova della sua
autenticità; la capacità dello scopo di superare e utilizzare resistenze, di
amministrare materiali, ne rivela struttura e qualità. Infatti, come ho già
detto, l’oggetto creato alla ne è lo scopo, sia come obiettivo consapevole
che come realtà compiuta. La totale integrazione di ciò che la loso a
distingue come “soggetto” e “oggetto” (parlando in modo più diretto,
organismo e ambiente) è la caratteristica di ogni opera d’arte. La
completezza dell’integrazione dà la misura del suo rango estetico. Infatti il
difetto di un’opera è sempre riconducibile in fondo a un eccesso da un lato
o dall’altro, così da nuocere all’integrazione tra materia e forma. Non è
necessaria una critica dettagliata della teoria della nzione, poiché essa si
basa sulla violazione dell’integrità dell’opera d’arte. Essa nega
esplicitamente o ignora di fatto quell’identi cazione tra materiale oggettivo
e operazione costruttiva che è l’essenza stessa dell’arte.
La teoria per cui l’arte è gioco è simile alla teoria dell’arte come sogno.
Essa, però, si avvicina di un passo alla realtà dell’esperienza estetica perché
riconosce la necessità dell’azione, di fare qualcosa. Si dice spesso che i
bambini ngono quando giocano. Ma i bambini che giocano sono quanto
meno impegnati in azioni che danno una manifestazione esteriore al loro
immaginario; mentre giocano idea e azione sono completamente fuse. Gli
elementi di forza e di debolezza di questa teoria si possono scorgere
rilevando un ordine di progressione che contraddistingue forme di gioco.
Un gattino gioca con un rocchetto o una palla. Il gioco non è del tutto
casuale essendo controllato dall’organizzazione strutturale dell’animale,
anche se non, presumibilmente, da un intento consapevole, poiché il
gattino riproduce il tipo di movimenti che il gatto esegue quando caccia
una preda. Ma il gioco del gattino, pur avendo un certo ordine come
attività, in consonanza con i bisogni strutturali dell’organismo, non
modi ca l’oggetto del gioco tranne che cambiandone la posizione spaziale,
questione più o meno accidentale. Il rocchetto, l’oggetto, è lo stimolo e
l’occasione, quasi il pretesto, di un piacevole esercizio libero di attività, ma
non ne è la materia se non in modo esteriore.
Le prime manifestazioni ludiche in un bambino non sono molto diverse
da quelle di un gattino. Ma col maturare dell’esperienza, le attività sono
sempre più regolate da un ne da conseguire; lo scopo diventa un lo che
si snoda attraverso una successione di azioni; le trasforma in una vera e
propria serie, in un segmento di attività che ha un determinato inizio e un
movimento costante verso una meta. Appena si riconosce il bisogno di
ordine, il gioco diventa una partita; ha delle “regole”. C’è anche una
transizione graduale, tale per cui il gioco comporta non soltanto che si
ordinino attività in vista di un ne, ma anche che si ordinino dei materiali.
Giocando con le costruzioni il bambino costruisce una casa o una torre.
Egli diventa cosciente del signi cato dei suoi impulsi e dei suoi atti
attraverso la differenza che essi producono su materiali oggettivi.
Esperienze passate conferiscono in misura crescente signi cato a ciò che
viene fatto. La torre o il fortino da costruire non solo regolano la selezione
e la sequenza degli atti eseguiti, ma vengono a esprimere valori
dell’esperienza. Il gioco come evento è ancora immediato. Ma il suo
contenuto consiste in una mediazione di materiali presenti mediante idee
tratte dall’esperienza passata.
Questa transizione genera una trasformazione del gioco in opera, sempre
che non si identi chi l’opera con la fatica o il lavoro che si compie. Ogni
attività diventa infatti opera quando è diretta dalla realizzazione di un
determinato risultato materiale, ed è lavoro solo quando le attività sono
gravose, e vengono vissute come meri mezzi con cui ottenere un risultato.
Il prodotto dell’attività artistica si chiama signi cativamente opera d’arte.
La verità della teoria dell’arte come gioco sta nel suo sottolineare il
carattere non forzato dell’esperienza estetica, non nel suo alludere a una
qualità presente nell’attività che sarebbe priva di regole relativamente
all’oggetto. La sua erroneità sta nel suo non riuscire a riconoscere che
l’esperienza estetica comporta una determinata ricostruzione di materiali
oggettivi; una ricostruzione che contraddistingue le arti della danza e del
canto come anche le arti formative. La danza, per esempio, implica l’uso
del corpo e dei suoi movimenti così da trasformarne lo stato “naturale”.
L’artista è preso dall’esercizio di attività che hanno un preciso riferimento
oggettivo; un effetto sul materiale tale da convertirlo in un medium
espressivo. Il gioco resta un gesto di libertà dalla subordinazione a un ne
imposto da necessità esterne, ed è perciò contrapposto al lavoro; ma si
trasforma in opera in quanto l’attività è subordinata alla produzione di un
risultato oggettivo. Nessuno ha mai visto un bambino preso dal suo gioco
accorgersi della completa fusione di ludicità e serietà.
Le implicazioni loso che della teoria del gioco si rivelano nel suo
contrapporre libertà e necessità, spontaneità e ordine. Tale
contrapposizione risale allo stesso dualismo tra soggetto e oggetto che
af igge la teoria della nzione. La sua nota di base è l’idea che l’esperienza
estetica sia una liberazione e una fuga dalla pressione della “realtà”. Si
presume qui che la libertà si possa trovare solo quando l’attività personale
viene svincolata dal controllo di fattori oggettivi. L’esistenza stessa di
un’opera d’arte prova che non c’è una contrapposizione del genere tra la
spontaneità del sé e ordine e legge oggettivi. In arte l’atteggiamento ludico
diventa interesse per la trasformazione del materiale utile allo scopo di
un’esperienza in sviluppo. Desiderio e bisogno possono essere soddisfatti
solo mediante materiale oggettivo, e in tal senso la ludicità è anche
interesse per un oggetto.
Una forma della teoria dell’arte come gioco attribuisce il gioco
all’esistenza di un surplus di energia nell’organismo che ha bisogno di
sfogo. Ma quest’idea trascura una domanda che bisogna porre. Come si
misura l’eccesso di energia? Rispetto a cosa c’è un surplus? La teoria del
gioco presume che l’energia sia in eccesso rispetto ad attività che sono rese
necessarie dalle esigenze dell’ambiente che vanno soddisfatte
praticamente. Ma i bambini non hanno coscienza di alcuna opposizione
tra gioco e lavoro necessario. L’idea di questo contrasto è un prodotto
della vita adulta, in cui alcune attività sono ricreative e divertenti in virtù
del loro contrasto con il lavoro che è gravato da una responsabilità che
costa fatica. Quella dell’arte non è spontaneità in opposizione a qualcosa,
ma segna il completo assorbimento in uno sviluppo ordinato. Questo
assorbimento è caratteristico dell’esperienza estetica; ma è un ideale per
ogni esperienza, e questo ideale si realizza nell’attività del ricercatore
scienti co e del professionista quando i desideri e le urgenze del sé sono
completamente coinvolti in ciò che si fa oggettivamente.
Il contrasto tra attività libera e attività imposta dall’esterno è un fatto
empirico. Ma esso è in larga parte determinato dalle condizioni sociali ed è
qualcosa da eliminare quanto più possibile, non qualcosa da elevare a una
differentia214 con cui de nire l’arte. C’è un posto per la farsa e la
divagazione nell’esperienza; «un po’ di stupidaggine di tanto in tanto è
gradito anche al migliore degli uomini»215. Oltre alla commedia, spesso ci
sono opere d’arte divertenti. Ma questi fatti non costituiscono una ragione
per de nire l’arte in termini di divertimento. Questa concezione getta le
sue basi nell’idea secondo cui sussiste un antagonismo così intrinseco e
profondamente radicato tra l’individuo e il mondo (per mezzo del quale
un individuo vive e si sviluppa) che la libertà si può raggiungere solo con
la fuga.
Ora, il con itto tra le esigenze e i desideri del sé e le condizioni del
mondo è suf ciente per dare un po’ di credito alla teoria della fuga.
Spenser ha detto che la poesia è «il dolce ricovero del mondo dal dolore e
dalla faticosa agitazione»216. La questione non riguarda questa
caratteristica, vera per tutte le arti, ma ha a che fare con il modo in cui
l’arte riesce a liberarci. La questione in gioco è se la liberazione si ottenga
con un narcotico ovvero trasferendosi in un regno di cose radicalmente
diverso, o se invece si compia rivelando che cosa diventa effettivamente
l’esistenza reale quando se ne esprimono appieno le possibilità. Il fatto che
l’arte sia produzione e che la produzione avvenga solo tramite un materiale
oggettivo che deve essere gestito e ordinato in accordo con le sue proprie
possibilità, sembra indicare una soluzione che va nel secondo senso. Come
ha detto Goethe: «l’arte è formativa assai prima di essere bella [...]. Infatti
l’uomo ha in sé una natura formativa che si mostra attiva appena
l’esistenza è messa al sicuro [...]. Quando l’attività formativa agisce su ciò
che la circonda, mossa da un sentimento intimo, individuale e
indipendente, senza curarsi di tutto ciò che gli è estraneo e anzi
ignorandolo, allora, che sia sorta da una rozza selvatichezza o da una
sensibilità coltivata, essa è intera e vivente»217. L’attività che è affrancata
dalla prospettiva del sé viene ordinata e disciplinata dal lato del materiale
oggettivo che subisce la trasformazione.
Per quanto concerne il piacere posto nel contrasto, come è vero che per
trovare soddisfazione passiamo dalle opere d’arte alle cose naturali, è vero
anche che da queste ultime ci volgiamo all’arte. Ogni tanto passiamo con
piacere dall’arte bella a industria, scienza, politica e vita domestica. Come
ha detto Browning:
ecco la tua Venere, ma ne siamo distolti
da quella fanciulla che guarda il ruscello.218

I soldati ne hanno abbastanza di combattere; i loso di losofare, e il


poeta va lieto al desco che condivide con i suoi compagni. L’esperienza
immaginativa esempli ca in modo più pieno di quella di qualsiasi altro
tipo che cosa è esattamente l’esperienza stessa nel suo movimento e nella
sua struttura. Ma noi vogliamo anche il gusto acre del con itto aperto e lo
scontro con condizioni avverse. Peraltro, senza ciò l’arte non ha materiale;
e questo fatto è più importante per la teoria estetica di qualsiasi contrasto
che si presume ci sia tra gioco e lavoro, spontaneità e necessità, libertà e
legge. Infatti l’arte è la fusione in una sola esperienza della pressione sul sé
di condizioni necessarie e della spontaneità e novità dell’individualità219.
L’individualità stessa è originariamente una potenzialità e si realizza solo
interagendo con condizioni circostanti. In questo processo di reciprocità,
le capacità innate, che contengono un elemento di unicità, vengono
trasformate e diventano un sé. Inoltre, attraverso le resistenze incontrate
viene scoperta la natura del sé. È interagendo con l’ambiente che il sé
viene formato e che di esso si prende coscienza. L’individualità dell’artista
non fa eccezione. Se le sue attività rimanessero mero gioco e meramente
spontanee, se non si facessero scontrare le attività libere con la resistenza
opposta da condizioni reali, nessuna opera d’arte verrebbe mai prodotta.
Dalla prima manifestazione nel bambino dell’impulso a disegnare no alle
creazioni di un Rembrandt, il sé si crea creando oggetti, fatto che richiede
l’adattamento attivo a materiali esterni, compresa una modi cazione del sé
al ne di utilizzare, e pertanto superare, necessità esterne assimilandole in
una visione ed espressione individuale.
Dal punto di vista loso co, non vedo altro modo di risolvere il continuo
con itto tra classico e romantico nelle teorie dell’arte e nella critica se non
rilevando che essi rappresentano tendenze che caratterizzano ogni vera
opera d’arte. Ciò che si chiama “classico” corrisponde all’ordine oggettivo
e alle relazioni oggettive che hanno preso corpo in un’opera; ciò che si
chiama “romantico” corrisponde alla freschezza e alla spontaneità che
derivano dall’individualità. In periodi differenti e in artisti differenti l’una o
l’altra tendenza viene portata all’estremo. Se c’è un chiaro squilibrio da
una parte o dall’altra l’opera fallisce; il classico diviene morto, monotono e
arti ciale; il romantico bizzarro ed eccentrico. Ma ciò che è genuinamente
romantico si consolida nel tempo come costituente riconosciuto interno
all’esperienza, ed è dunque esatto dire che dopo tutto il classico non
signi ca altro se non che un’opera d’arte ha ottenuto un consolidato
riconoscimento.
Il desiderio di ciò che è strano e inusuale, distante nello spazio e nel
tempo, contraddistingue l’arte romantica. Eppure la fuga dall’ambiente
familiare verso un ambiente estraneo è spesso un mezzo per ampliare
l’esperienza successiva, poiché le escursioni dell’arte creano nuove
sensibilità che nel tempo assorbono ciò che era straniero e lo rendono
naturale nell’esperienza diretta. Delacroix, pittore n troppo romantico, è
stato quanto meno un precursore degli artisti di due generazioni dopo che
hanno fatto diventare le scene arabe parte del materiale comune della
pittura e che, poiché la loro forma si adatta al contenuto trattato in modo
più appropriato rispetto a Delacroix, non suscitano un senso di qualcosa di
così distante da sembrare al di fuori dell’ambito naturale dell’esperienza.
Walter Scott viene classi cato come romantico in letteratura. Eppure
anche ai suoi tempi William Hazlitt, che denunciò duramente le opinioni
politiche reazionarie di Scott, disse che poiché i suoi racconti «vanno
indietro di un secolo o quasi e ambientano la scena in una regione remota
e incolta, tutto diventa nuovo e sorprendente nell’attuale periodo
progredito». Le parole in corsivo, insieme a un’altra frase: «tutto è fresco
come se provenisse dalla mano della natura»220, indicano la possibilità di
assimilare ciò che è romanticamente insolito al signi cato dell’ambiente
presente. In realtà, poiché tutta l’esperienza estetica è immaginativa, il
picco d’intensità che può raggiungere l’immaginativo senza diventare
outré221 e fantastico è determinato solo dal fare, non dalle regole a priori
dello pseudo-classicismo. Come ha detto Hazlitt, Charles Lamb aveva
«avversione per le nuove facce, i nuovi libri, i nuovi edi ci, i nuovi
costumi», ed era «attaccato a ciò che è poco noto e remoto»222. Lo stesso
Lamb ha detto: «Non riesco a far sì che questi tempi siano realmente i
miei». Tuttavia citando queste parole Pater ha detto che Lamb sentiva sì la
poesia delle cose vecchie, ma in quanto poesia «che sopravvive come parte
effettiva della vita del presente e come qualcosa di assai diverso dalla
poesia delle cose antiche ormai lontane da noi»223.
Le due teorie criticate (come quella dell’espressione di sé criticata nel
capitolo sull’atto dell’espressione) vengono discusse perché caratterizzano
loso e che isolano l’individuo, il “soggetto”; una di esse in quanto
trasceglie materiale che è privato, come quello di un sogno, l’altra attività
che sono esclusivamente individuali. Sotto tale aspetto queste sono teorie
moderne, essendo conformi all’eccessiva accentuazione dell’individuale e
del soggettivo della loso a moderna. La teoria dell’arte che è stata di gran
lunga quella storicamente più in voga, e che è ancora talmente forte che
molti critici considerano l’individualismo in arte un’innovazione eretica,
andava all’estremo opposto. Essa considerava l’individuo come un mero
tramite, tanto migliore quanto più trasparente, attraverso cui si trasmette
del materiale oggettivo. Questa teoria più antica concepiva l’arte come
rappresentazione, come imitazione. I sostenitori di questa teoria si
appellano ad Aristotele quale autorità suprema. Tuttavia, come sa ogni
studioso di quel losofo, Aristotele intendeva qualcosa di radicalmente
differente dall’imitazione di particolari eventi e scene – dalla
rappresentazione “realistica” nel suo senso attuale.
Per Aristotele, infatti, l’universale era meta sicamente più reale del
particolare. Si può almeno richiamare il succo della sua teoria ricordando
la ragione che egli fornisce per considerare la poesia più loso ca della
storia. «Compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma <il tipo di cose
che>224 possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o
necessità. [...] perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i
particolari»225.
Poiché è innegabile che l’arte ha a che fare con il possibile,
l’interpretazione di Aristotele in base alla quale essa ha a che fare con il
necessario o con il verosimile va enunciata nei termini del suo sistema.
Secondo Aristotele, infatti, le cose sono necessarie o probabili in base a tipi
o specie non semplicemente in quanto particolari. Per la loro stessa natura
alcuni tipi sono necessari ed eterni, mentre altri tipi sono solo verosimili. I
primi tipi sono sempre così, i secondi tipi lo sono di solito, di regola, in
generale. Entrambi i tipi sono universali, poiché diventano ciò che sono in
virtù di un’intrinseca essenza meta sica. Pertanto Aristotele completa il
passaggio appena citato dicendo: «È universale il fatto che a una persona
di <un certo carattere> capiti di dire o di fare cose di <un certo tipo>,
secondo verisimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo
poi i nomi. Il particolare invece è che cosa fece o subì Alcibiade»226.
Ora, è facile che il termine che qui si traduce con “carattere” rischi di
dare al lettore moderno un’impressione totalmente errata. Egli sarebbe
d’accordo sul fatto che le azioni e le affermazioni attribuite a un
personaggio nel racconto, nel testo teatrale o nella poesia, sono tali in
quanto sgorgano con necessità o con molta probabilità dal carattere
dell’individuo. Ma egli pensa che il carattere sia intimamente individuale,
mentre in questo passaggio “carattere” signi ca una natura universale
ovvero un’essenza. Per Aristotele la rilevanza estetica della raf gurazione
di Macbeth, Pendennis o Felix Holt consiste nella fedeltà alla natura che si
trova in una classe o specie. Per il lettore moderno essa signi ca fedeltà
all’individuo del quale si mostra la parabola; le cose fatte, subite e dette
appartengono a lui nella sua individualità unica. La differenza è radicale.
L’in uenze di Aristotele sulle successive concezioni dell’arte si può
desumere da una breve citazione tratta dalle conferenze di Joshua
Reynolds. Parlando della pittura egli ha detto che la sua funzione è di
«mostrare [...] le forme generali delle cose», perché «in ognuna di queste
classi vi è un’idea comune e una forma centrale che è il compendio delle
varie forme individuali che appartengono a quella classe». Questa forma
generale, precedentemente esistente in natura, che di fatto è natura
quando la natura è vera per se stessa, viene riprodotta o “imitata” in arte.
«L’idea di bellezza in ogni specie di esseri è immutabile»227.
La debolezza, in un senso relativo, dei dipinti di Joshua Reynolds va
attribuita senza dubbio ai difetti della sua propria capacità artistica anziché
all’adozione della teoria che espone. Diverse persone nelle arti sia plastiche
che letterarie hanno sostenuto la stessa teoria mostrandosi superiore a essa.
E no a un certo punto la teoria non è che un ri esso dello stato effettivo
delle opere d’arte per un lungo periodo, dovuto al loro cercare il tipico ed
evitare qualsiasi cosa che possa essere considerata accidentale e
contingente. Il suo prevalere nel diciottesimo secolo rispecchia non solo
canoni seguiti nell’arte di quell’epoca (a eccezione della pittura in Francia
durante la prima parte del secolo), ma anche la condanna generale del
barocco e del gotico228.
Ma la questione sollevata è generale. Non è possibile liquidarla
sottolineando semplicemente che l’arte moderna, in tutte le sue forme, ha
teso a ricercare ed esprimere i tratti distintamente individuali di oggetti e
scene, non più di quanto si possa stabilire con un ipse dixit229 che queste
manifestazioni dello spirito moderno sono deviazioni deliberate dall’arte
vera da spiegare con il desiderio della mera novità e della notorietà che
l’accompagna. Infatti, come abbiamo già visto, più un’opera d’arte dà
corpo a ciò che appartiene a esperienze comuni a molti individui, più essa
è espressiva. In realtà, proprio il non riuscire a tener conto del controllo
esercitato dal contenuto oggettivo trattato è la base della critica rivolta
contro le teorie soggettiviste messe in discussione di recente. Il problema
per la ri essione loso ca riguarda quindi non la presenza o l’assenza di
tale materiale oggettivo, ma la sua natura e il modo in cui esso opera
all’interno del movimento in cui si sviluppa un’esperienza estetica.
La questione della natura del materiale oggettivo che entra in un’opera
d’arte e quella del modo in cui esso opera non si possono separare. In
senso proprio, il modo in cui il materiale di altre esperienze entra
nell’esperienza estetica è la sua natura per l’arte. Ma si noti come siano
equivoci i termini generale e comune. Il signi cato che essi possiedono per
Aristotele e per Joshua Reynolds non è, ad esempio, il signi cato che viene
per lo più in mente con spontaneità a un lettore contemporaneo. Per i
primi, essi si riferiscono a una specie o a un tipo di oggetti e, per di più, a
un tipo che già esiste per la costituzione stessa della natura. Per un lettore
a cui manchino basi meta siche, questi due termini hanno un rilievo più
semplice, più diretto e più empirico. “Comune” è ciò che si trova
nell’esperienza di diverse persone; qualsiasi cosa alla quale partecipino
diverse persone è, per questo stesso fatto, comune. Più si radica in quel
fare e subire che forma l’esperienza, più qualcosa è generale o comune.
Viviamo nello stesso mondo; l’aspetto della natura è comune a tutti. Ci
sono impulsi e bisogni che sono comuni all’umanità. “Universale” non è
qualcosa di meta sicamente anteriore a ogni esperienza, ma è un modo in
cui funzionano le cose nell’esperienza in quanto vincolo che unisce eventi
e scene particolari. Potenzialmente ogni e qualunque cosa nella natura o
nelle associazioni umane è “comune”; il fatto che qualcosa sia o meno
effettivamente comune dipende da diverse condizioni, soprattutto da
condizioni relative ai processi di comunicazione.
È infatti grazie ad attività condivise e grazie al linguaggio e ad altri mezzi
di scambio che qualità e valori diventano comuni all’esperienza di un
gruppo di uomini. Ora, l’arte è il modo di comunicare più ef cace che
esiste. Per questa ragione la presenza di fattori comuni o generali
nell’esperienza cosciente è un effetto dell’arte. Qualsiasi cosa al mondo,
non importa quanto sia individuale nella sua esistenza particolare, come
ho detto è potenzialmente comune, perché è qualcosa che, essendo parte
dell’ambiente, interagisce con qualsiasi essere vivente. Ma diventa
proprietà comune di cui si è coscienti, ovvero viene condivisa, attraverso le
opere d’arte più che attraverso qualsiasi altro mezzo. L’idea che il generale
sia costituito dall’esistenza di tipi ssi di cose è stata distrutta peraltro dal
progresso della scienza sica e biologica. Questa idea era un prodotto delle
condizioni culturali, relative sia allo stato della conoscenza che
all’organizzazione sociale, che rendevano l’individuo sottomesso in politica
così come in arte e loso a.
La questione di come materiale comune potenziale entri nell’arte è stata
trattata in connessione con altri temi, in particolare quello della natura
dell’oggetto espressivo e del medium. Un medium in quanto distinto dal
materiale grezzo è sempre una forma di linguaggio e dunque di
espressione e comunicazione. Colori, marmo e bronzo, suoni non sono
media per sé stessi. Entrano nella formazione di un medium solo
interagendo con la mente e l’abilità di un individuo. Talvolta in un dipinto
abbiamo coscienza del tipo di pigmento usato; i mezzi sici si impongono;
non vengono assimilati unendosi a ciò a cui lavora l’artista in modo da
condurci limpidamente alla tessitura dell’oggetto, drappeggio, carne
umana, cielo o qualunque cosa sia. Anche i grandi pittori non sempre
raggiungono una completa unione; ne è un esempio rilevante Cézanne.
Dall’altro lato, ci sono artisti minori nella cui opera non giungiamo a
renderci conto dei mezzi materiali utilizzati. Ma poiché i signi cati umani
che interagiscono forniscono solo materiale inadeguato, l’opera risulta di
debole espressività.
Fatti di questo genere forniscono una prova convincente di come il
medium dell’espressione in arte non sia né oggettivo né soggettivo. È la
materia di una nuova esperienza in cui soggettivo e oggettivo hanno
cooperato in modo che nessuno dei due possiede più un’esistenza di per
sé. Il difetto fatale della teoria rappresentativa è di identi care in maniera
esclusiva la materia di un’opera d’arte con ciò che è oggettivo. Essa
trascura il fatto che del materiale oggettivo diventa la materia dell’arte solo
quando si trasforma entrando nelle relazioni dell’agire e dell’essere
sottomesso vissute da una persona individuale con tutte le sue peculiarità
di temperamento, il suo particolare modo di vedere e la sua esperienza
unica. Anche se ci fossero (e non ci sono) speciali tipi d’essere ssi a cui
sono subordinati tutti i particolari, comunque essi non sarebbero la
materia dell’arte. Al più sarebbero materiale per, e diventerebbero materia
di un’opera d’arte solo dopo essere stati tras gurati dalla fusione con
materiale sottoposto a un’assimilazione a una creatura vivente individuale.
Poiché quando si produce un’opera d’arte il materiale sico utilizzato non
è in sé un medium, non si possono stabilire regole a priori per farne un uso
adeguato. I limiti delle sue potenzialità estetiche si possono tracciare solo
sperimentalmente e attraverso ciò che gli artisti ne ricavano in pratica; altra
prova del fatto che il medium dell’espressione non è né soggettivo né
oggettivo, ma è un’esperienza in cui essi si integrano in un oggetto nuovo.
La base loso ca della teoria rappresentativa è costretta a omettere
questa novità qualitativa che caratterizza ogni autentica opera d’arte.
Questa negligenza è una logica conseguenza della negazione di fatto del
ruolo intrinseco che svolge l’individualità nella materia di un’opera d’arte.
La teoria che de nisce il reale in termini di tipi ssi è obbligata a
considerare tutti gli elementi di novità sia accidentali che esteticamente
irrilevanti, malgrado in pratica siano inevitabili. Inoltre le loso e che si
sono contraddistinte perché inclini verso nature e “caratteri” universali,
hanno sempre considerato come veramente reale solo l’eterno e
l’immutabile. Eppure nessuna opera autentica è mai stata una ripetizione
di qualcosa che esisteva in precedenza. Di fatto ci sono opere che tendono
a essere mere ricombinazioni di elementi selezionati da opere precedenti.
Ma sono opere accademiche – ossia meccaniche – invece che estetiche.
Non solo i critici, ma anche gli storici dell’arte sono stati sviati dal falso
prestigio del concetto del sso e dell’immutabile. Hanno di preferenza
cercato di spiegare opere d’arte di ogni periodo come mere ricombinazioni
di quelle precedenti, riconoscendo la novità solo laddove appariva un
nuovo “stile”, e anche allora solo a fatica. L’interpenetrazione di vecchio e
nuovo, la loro completa fusione in un’opera d’arte, è un’altra s da lanciata
dall’arte al pensiero loso co. Essa fornisce un indizio della natura delle
cose che i sistemi loso ci raramente hanno seguito.
Il senso di incremento della comprensione, di una più profonda
intelligibilità sul versante degli oggetti della natura e dell’uomo, che
produce l’esperienza estetica, ha portato i teorici in loso a a trattare l’arte
come una modalità di conoscenza e ha indotto gli artisti, soprattutto i
poeti, a considerare l’arte come una maniera di rivelarsi della natura
interna delle cose che non si riesce a ottenere in nessun altro modo. Ciò ha
portato a trattare l’arte come una modalità di conoscenza superiore non
solo a quella della vita comune, ma a quella della stessa scienza. La
concezione dell’arte come forma di conoscenza (benché non superiore a
quella scienti ca) è implicita nell’affermazione di Aristotele secondo la
quale la poesia è più loso ca della storia. Questa affermazione è stata
ribadita espressamente da molti loso . Una lettura di questi loso nelle
loro relazioni reciproche fa supporre, però, che essi non hanno mai fatto
un’esperienza estetica o che hanno lasciato che la loro interpretazione di
essa fosse condizionata da preconcetti. Infatti è improbabile che questa
presunta conoscenza possa essere allo stesso tempo quella delle specie
sse, come in Aristotele; delle idee platoniche, come in Schopenhauer;
della struttura razionale dell’universo, come in Hegel; e degli stati della
mente come in Croce; di sensazioni con immagini associate, come nella
scuola sensista; per ricordare solo alcuni dei casi loso ci più rilevanti. Le
varietà rilevate di concezioni incompatibili dimostra che i loso in
questione erano ansiosi di trasferire nell’esperienza estetica uno sviluppo
dialettico di concezioni ideate senza considerare l’arte più di quanto
fossero disposti a permettere che questa esperienza parlasse per se stessa.
Resta comunque da spiegare questo senso di disvelamento e di
aumentata intelligibilità del mondo. Che la conoscenza entri
profondamente e intimamente nella produzione di un’opera è dimostrato
dalle stesse opere. In teoria, ciò deriva di necessità dal ruolo svolto dalla
mente, dai signi cati consolidati provenienti da esperienze precedenti che
sono assimilati attivamente nella produzione e nella percezione estetica. Ci
sono artisti che nel loro lavoro sono stati chiaramente in uenzati dalla
scienza del loro tempo – come Lucrezio, Dante, Milton, Shelley e, anche
se non a vantaggio dei loro dipinti, Leonardo e Dürer nelle sue
composizioni di maggiore ampiezza. Ma c’è una grande differenza tra la
trasformazione della conoscenza che si attua nella visione immaginativa ed
emotiva, e quella nell’espressione dovuta all’unione tra materiale sensoriale
e conoscenza. Wordsworth ha dichiarato che «la poesia è il respiro e lo
spirito più sottile di tutto il sapere. È l’espressione appassionata che è
propria dell’aspetto di ogni scienza»230. Shelley ha detto: «La poesia [...] è
al tempo stesso il centro e la circonferenza della conoscenza; comprende
tutte le scienza e ad essa tutte le scienze debbono fare riferimento»231.
Ma questi uomini erano poeti e stanno parlando in maniera
immaginativa. Il «respiro e lo spirito più sottile» della conoscenza sono
lungi dall’essere conoscenza in un qualche senso letterario, e Wordsworth
prosegue dicendo che la poesia «trasporta la sensazione in mezzo agli
oggetti della stessa scienza»232. E anche Shelley dice che «la poesia [...]
risveglia e amplia la stessa mente facendone la sede di migliaia di
combinazioni sconosciute di pensiero»233. In osservazioni come queste
non riesco a trovare alcuna intenzione di affermare che l’esperienza
estetica va de nita come una modalità di conoscenza. Ciò che mi viene in
mente è che, sia nella produzione che nella percezione fruitiva delle opere
d’arte, la conoscenza è trasformata; diviene qualcosa di più che
conoscenza poiché si fonde con elementi non-intellettuali per formare
un’esperienza valida in quanto esperienza. In alcune occasioni ho
sostenuto una concezione per cui la conoscenza sarebbe “strumentale”. I
critici hanno attribuito strani signi cati a questa concezione. Il suo
effettivo contenuto è semplice: la conoscenza è strumentale rispetto
all’arricchimento dell’esperienza immediata in virtù del controllo
sull’azione che essa esercita. Non vorrei emulare i loso che ho criticato e
imporre con la forza questa interpretazione alle idee sostenute da
Wordsworth e Shelley. Ma un’idea simile a quella che ho appena esposto
mi sembra la traduzione più naturale di quel che essi intendono.
Le scene confuse della vita nell’esperienza estetica vengono rese più
intelligibili: non però perché ri essione e scienza rendano le cose più
intelligibili riducendole a una forma concettuale, ma perché presentano i
loro signi cati come la materia di un’esperienza rischiarata, coerente e
intensi cata ovvero “appassionata”. Il problema che riscontro nelle teorie
rappresentative e cognitive dell’estetico è che esse, come le teorie del gioco
e dell’illusione, isolano un elemento nella totalità dell’esperienza, un
elemento oltretutto che è quel che è in virtù dell’intera struttura di cui è
parte e in cui viene assorbito. Lo scambiano per l’intero. Teorie di questo
genere da un lato determinano una sospensione dell’esperienza estetica da
parte di coloro che le sostengono, una sospensione a cui si supplisce con
rêverie cerebrali indotte, dall’altro sono la prova di come costoro trascurino
la natura dell’esperienza concreta cercando di applicare qualche concetto
loso co già acquisito a cui si sono vincolati.
C’è un terzo tipo generale di teorie che combina la fase di fuga del primo
tipo di teorie considerato con la concezione iper-intellettualizzata dell’arte
caratteristica del secondo tipo. L’origine storica di questo terzo tipo, nel
pensiero occidentale, risale a Platone. Egli parte dal concetto di
imitazione, ma per lui c’è un elemento di simulazione e inganno in ogni
imitazione, e la vera funzione della bellezza in ogni oggetto, naturale o
artistico, è di condurci dal senso e dai fenomeni a qualcosa che è al di là.
In uno dei suoi accenni più geniali, Platone dice: «<gli elementi ritmici e
armonici dell’arte>, come un sof o di vento che porta buona salute da
luoghi bene ci, [...] sin dalla fanciullezza <possono condurci> alla
conformità, all’amicizia e all’accordo con la retta ragione [...]. Chi è stato
educato a dovere in questo campo [...] una volta acquisita la ragione, la
saluterà con affetto <riconoscendola come sua propria>»234. Secondo
questo modo di vedere, l’obiettivo dell’arte è di insegnarci ad andare
dall’arte alla percezione di essenze puramente razionali. C’è una scala di
gradini successivi che dal senso ci conduce verso l’alto. Lo stadio più basso
consiste nella bellezza di oggetti sensibili; uno stadio che è moralmente
pericoloso perché siamo tentati di rimanervi. Di qui siamo incoraggiati a
salire alla bellezza della mente, e di lì alla bellezza di leggi e istituzioni, da
cui dovremmo ascendere no alla bellezza delle scienze per poi poterci
muovere ancora no alla conoscenza intuitiva della bellezza assoluta. La
scala di Platone, inoltre, è un’ascesa a senso unico; non c’è ritorno dalla
bellezza più elevata all’esperienza percettiva.
La bellezza delle cose che sono in mutamento – come sono tutte le cose
dell’esperienza – è quindi da considerare soltanto come un potenziale
adeguarsi dell’anima all’apprensione di modelli di bellezza eterni. Anche
la loro intuizione non è de nitiva. «Pensa che soltanto in quella
comunione, contemplando la bellezza con l’occhio della mente, uno sarà
in grado di generare non mere immagini di bellezza ma la realtà stessa.
Nel far ciò, generando e nutrendo la vera virtù, egli riuscirà a diventare
caro agli dei e ad essere divino quanto può esserlo un mortale»235.
Seguendo Platone in un’epoca che Gilbert Murray ha ben de nito un
«collasso nervoso»236, Plotino ha sviluppato ulteriormente le implicazioni
logiche dell’ultima affermazione. Proporzione, simmetria e adattamento
armonico delle parti non costituiscono la bellezza di oggetti naturali e
artistici più di quanto faccia il loro fascino sensuale. La bellezza di queste
cose viene conferita a loro dall’essenza eterna, ovvero dal carattere eterno,
che risplende attraverso di loro. Il Creatore di tutte le cose è l’artista
supremo mediante il quale viene «attribuito alle creature» ciò che è
cagione della loro bellezza237. Plotino riteneva indegno di un essere
assoluto concepirlo come personale. Il cristianesimo non condivise questo
scrupolo e, nella sua versione del neoplatonismo, la bellezza della natura e
dell’arte vennero concepite come manifestazioni, entro i limiti del mondo
percepibile, dello Spirito che è al di sopra della natura e al di là della
percezione.
Un’eco di questa loso a si trova in Carlyle, quando egli dice che in arte
«l’In nito è fatto per fondersi con il Finito; per riuscire visibile e tale da
sembrare lì raggiungibile. Le vere Opere d’Arte sono di questa sorta; in
questo (purché si distingua la vera Opera dall’Abile Crosta) discerniamo
l’Eternità che guarda attraverso il Tempo, il Divino reso visibile»238. Ciò è
stato affermato in modo davvero chiaro da Bosanquet, un idealista
moderno di tradizione tedesca, quando sostiene che lo spirito dell’arte è
fede nella «vita e nella divinità da cui il mondo esterno è pervaso e
ispirato», sicché le «idealizzazioni» caratteristiche dell’arte non sono tanto
prodotti di un’immaginazione che si allontana dalla realtà quanto
rivelazioni della vita e della divinità, la sola a essere in de nitiva reale239.
I meta sici contemporanei che hanno abbandonato la tradizione
teologica hanno compreso che dal punto di vista logico le essenze possono
stare da sole e non hanno bisogno del supporto che si supponeva desse
loro il risiedere in una mente o in uno spirito. Un losofo contemporaneo,
Santayana, scrive: «La natura dell’essenza in null’altro appare meglio che
nel bello, laddove questo sia una presenza positiva per lo spirito e non un
vago titolo conferito per convenzione. In una forma che si sente bella, una
palese complessità compone una palese unità; un’intensità e
un’individualità marcate sono viste appartenere a una realtà del tutto
immateriale e incapace di esistere altrimenti se non in modo capzioso.
Questa bellezza divina è evidente, fugace, impalpabile e senza dimora in
un mondo di fatti materiali; eppure è inconfondibilmente individuale e
suf ciente a se stessa e, sebbene forse si eclissi presto, in realtà non si
estingue mai; infatti fa visita al tempo benché appartenga all’eternità». E
ancora: «Appena si sente che è bella, la cosa più materiale all’istante si
smaterializza, si eleva al di sopra delle relazioni personali esteriori, si
concentra e scava più a fondo nel suo proprio essere, in breve si sublima in
un’essenza»240. Le implicazioni di questa concezione si riassumono nel
punto in cui si dice: «il valore sta nel signi cato, non nella sostanza;
nell’ideale a cui le cose tendono, non nell’energia cui esse danno corpo»241
(il corsivo non è nel testo originale).
Credo che anche in questa concezione dell’esperienza estetica sia
implicato un aspetto empirico. Ho avuto occasione di parlare più di una
volta di una qualità di un’esperienza estetica intensa che è talmente
immediata da essere ineffabile e mistica. Una versione intellettualizzata di
questa qualità immediata dell’esperienza la traduce nei termini di una
meta sica onirica242. In ogni caso, se si raffronta questa concezione
dell’essenza ultima all’esperienza estetica concreta, si vede che essa è
af itta da due difetti fatali. Ogni esperienza diretta è qualitativa, e le
qualità sono ciò che rende immediatamente preziosa la stessa esperienza
della vita. Tuttavia la ri essione va al di là delle qualità immediate, poiché
si interessa delle relazioni e trascura lo scenario qualitativo. La ri essione
loso ca ha portato questa indifferenza nei confronti delle qualità al limite
dell’avversione. Ha trattato le qualità come oscuramenti della verità, come
veli gettati dal senso sopra la realtà. Il desiderio di sminuire le qualità
sensoriali immediate – e tutte le qualità sono mediate da qualche modalità
sensoriale – trova rinforzo nella paura del senso, di origine moralistica. Il
senso sembra, come in Platone, una seduzione che distoglie l’uomo dallo
spirituale. È tollerato solo come veicolo attraverso il quale si può essere
condotti a un’intuizione dell’essenza immateriale e non-sensoriale.
Considerato il fatto che l’opera d’arte consiste nell’impregnare materiale
sensoriale di valori immaginativi, non conosco altro modo di criticare
questa teoria se non dire che è una meta sica spettrale priva di pertinenza
all’esperienza estetica concreta.
Il termine “essenza” è estremamente equivoco. Nel discorso comune
denota il nocciolo di una cosa; noi condensiamo una serie di conversazioni
o di transazioni complicate e il risultato è ciò che è essenziale. Eliminiamo
gli elementi irrilevanti e tratteniamo ciò che è indispensabile. In questo
senso, ogni espressione autentica si muove verso l’“essenza”. Qui essenza
denota un’organizzazione di signi cati che si sono dispersi in eventi che
accompagnano diverse esperienze, venendo più o meno oscurati da essi.
Ciò che è essenziale o indispensabile lo è anche in riferimento a uno
scopo. Infatti, perché sono indispensabili certe considerazioni e non altre?
Il nocciolo di diverse transazioni non è lo stesso per un avvocato, un
ricercatore scienti co e un poeta. Un’opera d’arte può certamente
trasmettere l’essenza di una gran quantità di esperienze, e talvolta in un
modo notevolmente condensato e impressionante. Si seleziona e si
sempli ca perché si vuole esprimere l’essenziale. Courbet spesso trasmette
l’essenza di una liquidità di cui è pregno un paesaggio; Claude quella del
genius loci243 e di una scena arcadica; Constable l’essenza di semplici
scene rurali inglesi; Utrillo quella degli edi ci di una strada di Parigi.
Drammaturghi e romanzieri costruiscono personaggi che estrapolano
l’essenziale dall’accidentale.
Poiché un’opera d’arte è il contenuto di esperienze elevate e
intensi cate, lo scopo che determina ciò che è esteticamente essenziale è
esattamente la formazione di un’esperienza come esperienza. Invece di
fuggire dall’esperienza verso un regno meta sico, il materiale delle
esperienze è reso in modo tale da diventare la materia pregnante di una
nuova esperienza. Inoltre, il senso che oggi abbiamo delle caratteristiche
essenziali di persone e oggetti è in larga parte il risultato dell’arte, mentre
la teoria che si sta discutendo ritiene che l’arte dipenda e si riferisca a
essenze già in essere, invertendo così il processo reale. Se oggi siamo
consapevoli di signi cati essenziali è soprattutto perché gli artisti di tutte le
diverse arti li hanno estratti ed espressi in un contenuto percettivo vivido e
rilevante. Le forme o le Idee che per il pensiero di Platone erano modelli e
schemi di cose esistenti in realtà ebbero origine nell’arte greca, e dunque il
modo in cui Platone ha trattato gli artisti è un esempio sommo di
ingratitudine intellettuale.
Il termine “intuizione” è uno dei più ambigui nell’intero ambito del
pensiero. Nelle teorie appena considerate, si suppone che abbia per
proprio oggetto l’essenza. Croce ha combinato l’idea di intuizione con
quella di espressione244. La loro identi cazione reciproca e quella di
entrambe con l’arte ha creato molti problemi ai lettori. Se però la si
comprende sulla base dello sfondo loso co crociano, essa costituisce un
esempio eccellente di ciò che accade quando il teorico sovrappone
preconcetti loso ci a un’esperienza estetica che è stata sospesa. Croce è
infatti un losofo che crede che l’unica reale esistenza sia la mente245, che
«l’oggetto [non] potrebbe essere senza essere conosciuto», che esso non è
separabile dallo spirito conoscente246. Nella percezione comune, gli oggetti
sono colti come se fossero esterni alla mente. Pertanto la consapevolezza di
oggetti d’arte e della bellezza naturale non è un avvenimento percettivo,
ma un’intuizione che conosce oggetti come, essi stessi, stati della mente.
«Ciò che ammiriamo nelle genuine opere d’arte è la perfetta forma
fantastica, che vi assume uno stato d’animo»247. «L’intuizione è veramente
tale perché rappresenta un sentimento»248. Lo stato della mente che
costituisce un’opera d’arte è quindi espressione in quanto manifestazione
di uno stato della mente, ed è intuizione in quanto conoscenza di uno
stato della mente. Non riprendo questa teoria allo scopo di confutarla, ma
perché essa indica il punto estremo a cui può arrivare la loso a nel
sovrimporre una teoria preconcetta all’esperienza estetica, generando
travisamenti arbitrari.
Schopenhauer, come Croce, mostra in molti punti che tocca
incidentalmente una sensibilità per le opere d’arte maggiore, non minore,
della maggior parte dei loso . Tuttavia la sua versione dell’intuizione
estetica merita di essere citata come esempio ulteriore del completo
fallimento della loso a nell’affrontare la s da portata dall’arte al pensiero
ri essivo. Schopenhauer ha scritto dopo che Kant aveva impostato il
problema della loso a istituendo una netta separazione tra senso e
fenomeni, ragione e fenomeni: e impostare un problema è il modo più
ef cace di in uenzare il pensiero successivo. La teoria dell’arte di
Schopenhauer, nonostante molte acute considerazioni, non è che uno
sviluppo dialettico della sua soluzione del problema kantiano della
relazione tra conoscenza e realtà, e tra fenomeni e realtà ultima.
Kant aveva fatto della volontà morale, controllata dalla coscienza del
dovere che trascende senso ed esperienza, la sola via che porta alla
certezza della realtà ultima. Per Schopenhauer un principio attivo che egli
ha de nito “Volontà” è la fonte creativa di tutti i fenomeni sia della natura
che della vita morale, essendo la volontà una forma di lotta incessante e
insaziabile condannata a eterna frustrazione. L’unica strada che conduce a
pace e soddisfazione duratura è la fuga dalla volontà e da tutte le sue
opere. Kant aveva già identi cato esperienza estetica e contemplazione.
Schopenhauer dichiarò che la contemplazione è l’unica maniera di trovare
scampo e che, quando contempliamo opere d’arte, noi contempliamo le
oggettivazioni della volontà e di conseguenza ci liberiamo dalla presa che
la volontà ha su di noi in tutti gli altri modi dell’esperienza. Le
oggettivazioni della Volontà sono universali; sono come le forme e gli
schemi eterni di Platone. Nella pura contemplazione di esse noi quindi ci
perdiamo nell’universale e otteniamo la «beatitudine della percezione
esente da volontà»249.
La critica più ef cace nei confronti della teoria di Schopenhauer è il
modo stesso in cui la sviluppa. Egli esclude l’eccitante dall’arte, poiché
eccitante signi ca attrazione e l’attrazione è un modo di reagire con la
volontà, essendo di fatto l’aspetto positivo di quella relazione di desiderio
con l’oggetto che nel suo aspetto negativo viene espresso dal disgusto250.
Più importante è la rigida disposizione gerarchica che egli istituisce. Non
solo le bellezze della natura sono inferiori a quelle dell’arte poiché la
volontà ottiene un grado di oggettivazione più elevato nell’uomo piuttosto
che nella natura, ma un ordine dal basso all’alto attraversa sia la natura che
l’arte. L’emancipazione che otteniamo contemplando piante, alberi, ori, è
minore di quella che ci procura la contemplazione delle forme della vita
animale, mentre la bellezza degli esseri umani è la più elevata poiché in
questi ultimi modi di manifestarsi la Volontà si affranca dalla schiavitù.
Nell’ambito delle opere d’arte, l’architettura si colloca sul gradino più
basso. La ragione che egli ne dà si deduce logicamente dal suo sistema. Le
forze della Volontà da cui dipende l’architettura sono dell’ordine più
basso, cioè coesione e gravità nel loro manifestarsi nella rigidità e nel peso
delle masse. Di conseguenza nessun edi cio fatto di legno può essere
veramente bello, e tutti gli accessori umani devono essere esclusi
dall’effetto estetico perché sono legati al desiderio. La scultura è più
elevata dell’architettura, perché nonostante sia ancora legata a forme basse
della forza della Volontà, le tratta per quel che concerne il loro
manifestarsi nella gura umana. La pittura si occupa di fogge e gure e
quindi si avvicina di più alle forme meta siche. In letteratura, soprattutto
in poesia, ci eleviamo all’Idea essenziale dell’uomo stesso e in questo modo
raggiungiamo il culmine dei risultati della Volontà.
La musica è la più elevata delle arti, perché non ci offre soltanto le
oggettivazioni esterne della Volontà, ma ci pone anche davanti per
contemplarli i processi stessi della Volontà. Inoltre, «gli intervalli
determinati della scala sono paralleli ai gradi determinati di oggettivazione
della volontà, alle specie sse della natura»251. Le note gravi rappresentano
i momenti in cui operano le forze più basse, mentre le note più acute
rappresentano sul piano cognitivo la vita animale, e la melodia mostra la
vita intellettuale dell’uomo, la cosa più elevata nell’esistenza oggettiva.
Se avessi voluto informare, il mio riassunto risulterebbe inadeguato; e,
come ho già detto, molte delle osservazioni che Schopenhauer fa
incidentalmente sono corrette e illuminanti. Ma il fatto stesso che egli dia
prova spesso di un apprezzamento genuino e personale è la dimostrazione
migliore di quali cose succedono quando le ri essioni di un losofo non
sono proiezioni nel pensiero del contenuto effettivo dell’arte in quanto
esperienza, ma vengono sviluppate senza tener conto dell’arte
sostituendosi poi ad essa con la forza. La mia intenzione nel corso di
questo capitolo non è stata in sé di criticare diversi loso dell’arte, ma di
far emergere il rilievo che l’arte ha per la loso a nella sua portata più
ampia. Infatti la loso a si muove come l’arte nel medium della mente
immaginativa e, poiché l’arte è la manifestazione più diretta e completa
che ci sia dell’esperienza come esperienza, essa costituisce un modo unico
di controllare gli azzardi immaginativi della loso a.
Nell’arte in quanto esperienza attualità e possibilità, ovvero idealità,
nuovo e vecchio, materiale oggettivo e risposta personale, individuale e
universale, super cie e profondità, senso e signi cato, sono integrati in
un’esperienza in cui risultano tutti tras gurati rispetto alla signi catività
che possiedono quando vengono isolati nella ri essione. «La natura – ha
detto Goethe – non ha né nocciolo né guscio»252. Solo nell’esperienza
estetica questa affermazione è del tutto vera. Se si considera l’arte come
esperienza è vero anche che la natura non ha un essere né soggettivo né
oggettivo; non è né individuale né universale, né sensoriale né razionale.
L’importanza dell’arte come esperienza è pertanto senza pari per le
vicende del pensiero loso co.
13 – Critica e percezione

La critica è giudizio, sia dal punto di vista teorico che etimologicamente.


Comprendere il giudizio è pertanto la prima condizione di una teoria
relativa alla natura della critica. Le percezioni forniscono al giudizio il
materiale relativo, sia che i giudizi riguardino la natura sica, la politica o
la biogra a. Il contenuto della percezione è l’unica cosa che rende
differenti i giudizi che ne derivano. Il controllo del contenuto della
percezione per garantire dati appropriati al giudizio è la chiave per
cogliere la straordinaria distinzione tra i giudizi pronunciati da un
selvaggio su eventi naturali e quelli di un Newton o di un Einstein. Poiché
la materia della critica estetica è la percezione di oggetti estetici, la critica
inerente alla natura e all’arte è sempre determinata dalla qualità della
percezione di prima mano; l’ottusità della percezione non può mai essere
compensata da una qualche dose di erudizione, per quanto consistente, né
da una qualche padronanza di una teoria astratta, per quanto corretta. Né
è possibile impedire al giudizio di intervenire nella percezione estetica, o
almeno di sovrapporsi su una prima impressione qualitativa totale non
analizzata.
Teoricamente sarebbe pertanto possibile procedere subito dall’esperienza
estetica diretta a ciò che è implicato nel giudizio; i li da seguire sono dati,
da un lato, dalla materia formata di opere d’arte così come esse esistono
nella percezione e, dall’altro, da ciò che è implicato nel giudizio per la
natura della sua stessa struttura. Ma, in pratica, è necessario anzitutto
sgombrare il terreno. Infatti, le divergenze non superate sulla natura del
giudizio si ri ettono nelle teorie della critica, mentre tendenze diverse tra
le arti hanno fatto emergere teorie opposte che vengono sviluppate e
sostenute volendo giusti care un movimento e condannarne un altro. In
verità, c’è motivo di ritenere che le questioni più vitali della teoria estetica
vadano ricercate in generale in controversie che concernono movimenti
particolari di qualche arte, come il “funzionalismo” in architettura, la
poesia “pura” o il verso libero in letteratura, l’“espressionismo” nella
drammaturgia, il “ usso di coscienza” nel romanzo, l’“arte proletaria” e la
relazione dell’artista con le condizioni economiche e le attività sociali
rivoluzionarie. Tali controversie possono essere accompagnate da
animosità e pregiudizio. Ma è probabile che esse siano gestite con un
occhio diretto su opere d’arte concrete più di quanto lo siano
elucubrazioni in astratto di teoria estetica. Tuttavia complicano la teoria
della critica con idee e propositi che derivano da estrinseci movimenti
militanti.
Non si può assumere tranquillamente all’inizio che il giudizio sia un atto
d’intelligenza compiuto in rapporto alla materia della percezione diretta a
vantaggio di una percezione più adeguata. Infatti giudizio ha anche
signi cato e rilievo nell’ambito della legge, come nella frase di
Shakespeare, uno «sbirro e guardia notturna – un cerbero, insomma»253.
Seguendo l’indicazione di senso data dalla pratica della legge, un giudice,
un critico, è colui che pronuncia una sentenza vincolante. Sentiamo
continuamente parlare del verdetto dei critici e del verdetto che la storia
ha pronunciato sulle opere d’arte. Si pensa alla critica come se il suo
compito fosse non la spiegazione del contenuto di un oggetto nei termini
di sostanza e forma, ma un processo di assoluzione o condanna in base a
meriti e demeriti.
Il giudice – in senso forense – occupa una carica socialmente autorevole.
La sua sentenza determina il destino di un individuo, forse di una causa, e
all’occasione egli de nisce la legittimità di future linee di condotta. Il
desiderio di autorità (e il desiderio di essere ammirati) anima il cuore
dell’uomo. Gran parte della nostra esistenza è intonata sulla nota di lode e
biasimo, discolpa e disapprovazione. È così emerso sul piano teorico,
rispecchiando una tendenza ampiamente diffusa sul piano pratico, la
tendenza a dare anche alla critica un carattere “giudiziale”. È impossibile
leggere per esteso le uscite di questa scuola di critica senza notare che sono
in gran parte di tipo compensativo – fatto che ha dato origine al modo
beffardo di considerare i critici come persone che non sono state capaci di
creare. Buona parte della critica giudiziale deriva da un’inconscia s ducia
in se stessi e dal conseguente appellarsi a un’autorità per avere protezione.
La percezione è ostacolata e interrotta perché ci si richiama a una regola
in uente e al posto dell’esperienza diretta si pone qualcosa di precedente e
prestigioso. Il desiderio di una posizione autorevole spinge il critico a
parlare come se fosse l’avvocato di principi consolidati dotati di indiscussa
sovranità.
Purtroppo, tali attività hanno condizionato negativamente la concezione
stessa della critica. Il giudizio de nitivo, che sistema una questione, è più
congeniale a una natura umana sclerotizzata di quanto lo sia il giudizio
che sviluppa nel pensiero una percezione di cui si ha profonda
consapevolezza. L’esperienza adeguata originale non è facile da
raggiungere; riuscirci è una prova di innata sensibilità e di esperienza
maturata attraverso vasti contatti. Un giudizio inteso come atto di ricerca
controllata richiede un ricco bagaglio e un’intuizione disciplinata. È molto
più facile “dire” alle persone quello in cui devono credere di quanto non
lo sia distinguere e uni care. E a un pubblico che viene di per sé abituato
a sentir dire, invece che istruito a indagare con il pensiero, piace stare ad
ascoltare.
La sentenza del giudice può essere emessa soltanto sulla base di regole
generali che si suppongono applicabili a tutti i casi. Il danno compiuto da
esempi particolari di sentenze giudiziarie, in quanto particolari, è molto
meno serio del risultato nale ottenuto sviluppando l’idea per cui quando
si giudica si può contare su criteri preesistenti e su precedenti autorevoli. Il
cosiddetto classicismo del diciottesimo secolo presumeva che gli antichi
costituissero modelli da cui poter derivare regole. L’in uenza di questa
convinzione si estese dalla letteratura ad altri ambiti dell’arte. A chi
studiava arte Reynolds consigliava di attenersi alle forme artistiche dei
pittori umbri e romani e, mettendoli in guardia contro altri, diceva che le
trovate del Tintoretto erano «capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del
suo intelletto, che ha lavorato a caso, senza disegno»254.
Una concezione moderata dell’importanza dei modelli forniti dal passato
è offerta da Matthew Arnold. Egli dice che il modo migliore per scoprire
«quale poesia appartenga alla classe di ciò che è autenticamente eccellente
e possa pertanto procurarci maggior bene, è di tenere sempre presenti le
linee e le espressioni dei grandi maestri e di metterle in pratica come pietra
di paragone dell’altra poesia». Arnold nega di voler dire che l’altra poesia
dovrebbe ridursi a imitazione, ma dice che queste linee sono una «pietra
di paragone infallibile per scoprire se è presente o assente una qualità
poetica elevata»255. A prescindere dall’elemento moralistico implicito nelle
parole che mi sono preso la libertà di mettere in corsivo, l’idea di un banco
di prova “infallibile”, se la si segue, non può che limitare la reazione
diretta nella percezione, mescolando autocoscienza e ducia in sé a fattori
esterni, tutto a danno di un apprezzamento davvero vissuto. Inoltre, ciò
pone implicitamente la questione se i capolavori del passato siano ritenuti
tali in virtù di una reazione personale o per l’autorità della tradizione e
della convenzione. Matthew Arnold in effetti ipotizza una dipendenza di
fondo da una qualche capacità personale dell’individuo di percepire in
maniera adeguata.
I rappresentanti della scuola della critica giudiziale non sembrano sapere
con certezza se i maestri sono grandi perché osservano determinate regole
o se le regole da osservare oggi sono tratte dalla pratica di grandi uomini.
In generale, credo sia prudente ipotizzare che la ducia nelle regole sia
una versione indebolita, mitigata, di un’ammirazione precedente, più
diretta, divenuta alla ne pedissequa, dell’opera di personalità di rilievo.
Ma sia che emergano per proprio conto, sia che vengano desunti da
capolavori, criteri, prescrizioni e regole sono generali mentre invece gli
oggetti artistici sono individuali. I primi non hanno collocazione nel
tempo, come dimostra immediatamente il fatto che li si de nisce eterni.
Non appartengono né a un luogo né a un altro. Applicandosi a qualunque
cosa, non si applicano a nulla in particolare. Per avere concretezza devono
essere riferiti a titolo esempli cativo all’opera dei “maestri”. Quindi
incoraggiano di fatto l’imitazione. Gli stessi maestri di solito hanno bisogno
di un apprendistato, ma quando raggiungono la maturità assimilano ciò
che hanno imparato nella loro esperienza, nel loro modo di vedere e nel
loro stile individuale. Sono maestri proprio perché non seguono né modelli
né regole, ma si impadroniscono degli uni e delle altre per favorire
l’ampliamento dell’esperienza personale. Tolstoj ha parlato da artista
quando ha detto che «nulla [...] contribuisce tanto al pervertimento
dell’arte quanto queste autorità stabilite dalla critica». Una volta che un
artista viene dichiarato grande, si «considerano grandi e degne di
ammirazione [...] tutte le opere di questo artista [...]. Ogni opera falsa che
viene lodata dai critici è una porta verso la quale si precipitano subito gli
ipocriti dell’arte»256.
Se i critici che si ergono a giudici non imparano la modestia da quel
passato che dichiarano di apprezzare, non è per mancanza di materiale. La
loro storia è in larga parte la raccolta di clamorosi abbagli. L’esposizione
commemorativa di dipinti di Renoir a Parigi nell’estate del 1933 è stata
l’occasione per riesumare alcune delle sentenze emesse dai critici uf ciali
di cinquant’anni prima. I pronunciamenti variano dall’affermare che
questi dipinti provocano nausea come fa il mal di mare, che sono i prodotti
di menti malate – una delle affermazioni favorite –, che mescolano a caso i
colori più violenti, no a sostenere che essi «sono la negazione di tutto ciò
che è ammissibile [parola tipica] in pittura, di qualsiasi cosa che venga
chiamata luce, trasparenza e ombra, chiarezza e disegno»257. Non più
tardi del 1897 un gruppo di accademici (sempre i preferiti dalla critica
giudiziale) protestò contro il fatto che il Musée du Luxembourg avesse
accolto una collezione di dipinti di Renoir, Cézanne e Monet, e uno di loro
dichiarò che sarebbe stato impossibile per l’Istituto tacere di fronte allo
scandalo di aver accettato una collezione di follie, dato che esso era
custode della tradizione – un’altra idea caratteristica della critica
giudiziale258.
C’è comunque una certa leggerezza di tocco che di solito si associa alla
critica francese. L’effettiva solennità di un pronunciamento la si può
cogliere nelle dichiarazioni di un critico americano in occasione della
Armory Exhibition di New York nel 1913259. Venendo a parlare della
incapacità di Cézanne, si dice che quest’ultimo è «un impressionista di
seconda categoria che di quando in quando ebbe discreta fortuna
dipingendo quadri moderatamente buoni». Le “rozzezze” di Van Gogh
vengono liquidate come segue: «un impressionista discretamente
competente che aveva la mano pesante [!] e una scarsa idea della bellezza,
e che rovinò numerose tele con immagini rozze e senza importanza».
Matisse viene liquidato come uno che ha «abbandonato ogni rispetto per
la tecnica, ogni sensibilità per il suo medium; pago di imbrattare le sue tele
con grossolanità lineari e tonali. La loro negazione di tutto ciò che
comporta la vera arte è indicativa di un vanitoso compiacimento. [...] Non
sono opere d’arte ma sciocche impertinenze». Il riferimento alla “vera
arte” è caratteristico della critica giudiziale, mai tanto priva di giudizio
come in questo caso ove rovescia ciò che è signi cativo negli artisti
ricordati: Van Gogh è esplosivo e non certo di mano pesante; Matisse è
tecnico n quasi all’esagerazione, e intrinsecamente decorativo anziché
grossolano; mentre l’attribuzione della “seconda categoria” a Cézanne
parla da sola. Eppure a quel tempo questo critico aveva accettato la pittura
impressionista di Manet e Monet – era il 1913, non vent’anni prima; e i
suoi discendenti spirituali avrebbero senza dubbio preso Cézanne e
Matisse come criteri per condannare qualche futuro movimento nell’arte
della pittura.
La “critica” appena citata era preceduta da altre osservazioni che
mostrano la natura dell’errore che è sempre implicito nella critica di tipo
giudiziario: confondere una tecnica particolare con la forma estetica. Il
critico in questione cita un commento espresso pubblicamente da un
visitatore che non era un critico di professione, che avrebbe detto: «non ho
mai sentito un gruppo di persone parlare così tanto di signi cato e di vita e
così poco di tecnica, valori, toni, disegno, prospettiva, studi in azzurro e
bianco, ecc.». Quindi il critico che si erge a giudice aggiunge: «Siamo grati
per questa piccola dimostrazione concreta dell’errore che più di altri
minaccia di fuorviare e confondere del tutto spettatori troppo ben disposti.
Recarsi a questa mostra preoccupandosi del “signi cato” e della “vita” a
scapito delle questioni di tecnica non vuol dire semplicemente dare per
risolto il problema; vuol dire non afferrare il punto. In arte, non esistono
elementi di “signi cato” e “vita” no a che l’artista non padroneggia quei
processi tecnici mediante i quali può riuscire o meno con talento a
chiamarli [sic] all’essere».
La scorrettezza nel desumere che l’autore del commento intendesse dire
che venivano esclusi problemi di tecnica è così caratteristica della presunta
critica giudiziale da essere signi cativa solo perché indica no a che punto
la critica possa prendere in considerazione la tecnica identi candola
solamente con un singolo modello di procedimento. E questo fatto è
profondamente signi cativo. Esso indica la fonte del fallimento anche
della migliore critica giudiziale: la sua incapacità di essere all’altezza
dell’emergere di nuovi modi di vivere – di esperienze che richiedono nuovi
modi di esprimersi. Nelle loro prime opere, tutti i pittori post-
impressionisti (con la parziale eccezione di Cézanne) hanno mostrato di
avere padronanza delle tecniche dei maestri che li avevano
immediatamente preceduti. Sono pervasi dall’in uenza di Courbet,
Delacroix, persino di Ingres. Ma queste tecniche andavano bene per
rendere i vecchi temi. Quando maturarono, questi pittori ebbero nuovi
modi di vedere; guardarono il mondo in modi a cui i vecchi pittori erano
insensibili. Il loro nuovo contenuto richiedeva una nuova forma. E dato
che la tecnica è relativa alla forma, furono costretti a fare esperimenti
sviluppando nuove procedure tecniche260. Un ambiente che è mutato
sicamente e spiritualmente esige nuove forme di espressione.
Ripeto che qui si è svelato il difetto intrinseco anche alla migliore critica
giudiziale. L’autentico signi cato di un importante nuovo movimento in
qualsiasi arte è di esprimere qualcosa di nuovo nell’esperienza umana,
qualche nuovo modo di interagire tra le creature viventi e le cose che le
circondano, e di conseguenza di liberare forze precedentemente
intorpidite o inerti. Le manifestazioni del movimento quindi possono
essere non giudicate e basta, ma solo scorrettamente giudicate se si
identi ca la forma con una tecnica nota. Se il critico non è sensibile
anzitutto a “signi cato e vita” quale materia che richiede la sua propria
forma, si trova disarmato di fronte all’emergere di un’esperienza che ha un
carattere chiaramente nuovo. Ogni professionista è soggetto all’in uenza
dell’abitudine e dell’inerzia, e deve proteggersi dai suoi condizionamenti
aprendosi deliberatamente alla vita stessa. Il critico che si erge a giudice
erige a principio e norma quelle stesse cose che costituiscono i pericoli del
suo mestiere.
La grossolana inettitudine di gran parte di quella che de nisce se stessa
critica giudiziale ha provocato una reazione verso l’estremo opposto. La
protesta prende la forma di una critica “impressionista”. Essa di fatto, se
non a parole, nega che sia possibile una critica in senso di giudizio, e
sostiene che il giudizio dovrebbe essere sostituito dalla formulazione delle
reazioni suscitate dall’oggetto d’arte sul piano del sentimento e
dell’immaginario. In teoria, benché non sempre in pratica, tale critica si
muove per reazione dall’“oggettività” standardizzata di regole e
precedenti preconfezionati al caos di una soggettività che manca di
controllo oggettivo e che, se portata logicamente a compimento,
risulterebbe in un guazzabuglio di irrilevanze – come talvolta accade. Jules
Lemaitre ha dato una formulazione quasi canonica del punto di vista
impressionistico. Egli ha detto: «La critica, quali che ne siano le pretese,
non può mai andare oltre la de nizione dell’impressione che, in un dato
momento, produce in noi un’opera d’arte nella quale l’artista ha registrato
l’impressione che ha ricevuto dal mondo in un certo istante»261.
Questa formulazione racchiude un’implicazione che, se resa esplicita, va
ben oltre l’intento della teoria impressionista. De nire un’impressione
signi ca assai di più che solo esternarla. Le impressioni, effetti qualitativi
totali non analizzati che cose ed eventi producono su di noi, sono gli
antecedenti e gli inizi di ogni giudizio262. L’inizio di una nuova idea, che
forse termina in un giudizio elaborato che segue a un’ampia indagine, è
un’impressione, anche nel caso di uno scienziato o di un losofo. Ma
de nire un’impressione equivale ad analizzarla, e l’analisi può procedere
solo andando oltre l’impressione, mettendola in connessione con i motivi
su cui si basa e con le conseguenze che comporta. E questa procedura è
un giudizio. Anche se chi comunica la propria impressione circoscrive la
propria esposizione di essa, la propria de nizione di caratteri e con ni, a
motivi che risiedono nel suo temperamento e nella sua storia personale,
entrando in sincera con denza con il proprio lettore, egli comunque va al
di là della semplice impressione verso qualcosa di oggettivo in rapporto ad
essa. Egli quindi fornisce al lettore la motivazione per una sua propria
“impressione” che ha basi molto più oggettive di quanto possa avere
quella fondata su un mero “mi sembra”. Infatti al lettore esperto viene
fornito in tal caso il mezzo per distinguere tra impressioni diverse di
persone diverse sulla base dell’inclinazione e dell’esperienza di chi le vive.
Il riferimento a basi oggettive che è cominciato con la formulazione della
sua storia personale non può fermarsi qui. La biogra a di chi de nisce la
propria impressione non è situata all’interno del suo corpo e della sua
mente. È ciò che è in virtù delle interazioni con il mondo esterno, un
mondo che in alcuni suoi aspetti e momenti è comune a quello di altri. Se
il critico è accorto, giudica l’impressione che si veri ca in un certo istante
della sua storia considerando le cause oggettive che sono intervenute in
tale storia. Se non lo fa, almeno in modo implicito, il lettore sagace deve
eseguire tale compito per conto proprio – a meno che anche lui non si
af di ciecamente all’“autorità” dell’impressione stessa. In questo caso non
c’è differenza tra impressioni; l’intuizione di una mente colta e l’impeto
dell’entusiasta inesperto si collocano sullo stesso livello.
La frase citata di Lemaitre ha un’altra implicazione signi cativa.
Stabilisce un rapporto proporzionale di natura oggettiva: il contenuto
trattato sta all’artista come l’opera d’arte sta al critico. Se l’artista è
insensibile e non feconda alcune impressioni immediati con signi cati
tratti da una ricca esperienza precedente consolidata, il suo prodotto è
misero e la sua forma meccanica. Non diverso è ciò che accade al critico.
Si fa un’allusione illecita quando ci si riferisce sia all’impressione
dell’artista che si veri ca in un “certo istante” che a quella del critico che
ha luogo “in un dato momento”. L’allusione è illecita perché l’impressione
esiste in un particolare momento, il suo importo è limitato a quel breve
spazio di tempo. Questa implicazione è l’errore fondamentale della critica
impressionista. Ogni esperienza, anche quella che ha in sé una
conclusione dovuta a lunghi processi di indagine e ri essione, esiste in
“dato momento”. Desumere da questo fatto che il suo importo e la sua
validità sono relativi a quel momento di passaggio equivale a ridurre ogni
esperienza a un caleidoscopio cangiante di eventi privi di signi cato.
Inoltre il confronto tra l’atteggiamento del critico nei confronti di
un’opera d’arte e quello dell’artista nei confronti del contenuto che tratta è
talmente adeguato da essere fatale per la teoria impressionista. Infatti
l’impressione che ha l’artista non consiste di impressioni; consiste di
materiale oggettivo elaborato attraverso la visione immaginativa. Il
contenuto trattato si carica di signi cati che derivano dal rapporto con un
mondo comune. Nella più libera espressione delle sue stesse reazioni
l’artista sottostà a pesanti costrizioni oggettive. Il problema di gran parte
della critica, a prescindere dall’etichetta “impressionista”, è che la critica
nei confronti dell’opera criticata non assume un atteggiamento che assume
un artista nei confronti delle “impressioni che ha ricevuto dal mondo”. Il
critico può perdersi in cose irrilevanti e affermazioni arbitrarie molto più
facilmente dell’artista, e d’altro canto il fatto di non sottostare al controllo
del contenuto trattato è molto più evidente alla vista e all’udito di quanto
non sia una mancanza corrispondente sul versante del critico. La tendenza
del critico a situarsi in un mondo a parte è in ogni caso forte abbastanza
anche senza essere sancita da una teoria speci ca.
Se non fosse per gli errori grossolani commessi dal critico che si erge a
giudice, errori che derivano dalla teoria che egli sostiene, dif cilmente
sarebbe nata la reazione della teoria impressionista. Visto che il primo
stabilisce false nozioni di valori oggettivi e di criteri oggettivi, è diventato
facile per il critico impressionista negare che ci sono valori oggettivi in
assoluto. Visto che il primo ha praticamente adottato una concezione di
criteri di natura esterna, desunta dall’uso di criteri sviluppati per ni
pratici e de niti in termini di legge, il secondo ha assunto che non vi sono
criteri di sorta. Per quel che signi ca precisamente, un “criterio” non è
ambiguo. È una misura quantitativa. La iarda come criterio di misura della
lunghezza, il gallone come criterio di misura della capacità liquida, sono
tanto precisi quanto li può rendere tali una de nizione in termini di legge.
In Gran Bretagna, ad esempio, il criterio di misura dei liquidi è stato
de nito da una legge del Parlamento nel 1825. È un recipiente che
contiene dieci libbre “avoirdupois” di acqua distillata, pesata nell’aria con
pressione barometrica di trenta pollici e a temperatura di sessantadue gradi
Fahrenheit.
Sono tre le caratteristiche di un criterio. Il criterio è una cosa sica
particolare che esiste in speci che condizioni siche; non è un valore. La
iarda è una stecca da una iarda e il metro è una sbarra che si trova a Parigi.
In secondo luogo, i criteri sono misure di cose determinate, di lunghezze,
pesi, capacità. Le cose misurate non sono valori, sebbene essere capaci di
misurarle sia di grande valore sociale, in quanto le proprietà delle cose in
termini di dimensione, volume, peso sono importanti per lo scambio
commerciale. In ne, in quanto criteri di misura, essi de niscono le cose
rispetto alla quantità. Essere capaci di misurare quantità è di grande aiuto
per ulteriori giudizi, ma non è in sé una forma di giudizio. Il criterio,
essendo una cosa esterna e pubblica, si applica sicamente. La stecca da
una iarda viene sicamente appoggiata sulle cose misurate per
determinarne la lunghezza.
Quando dunque la parola “criterio” viene usata in riferimento al
giudizio di opere d’arte, non può prodursi altro che confusione se non si
nota la differenza radicale tra il signi cato conferito a criterio in questo
caso e quello dei criteri di misura. Il critico sta effettivamente giudicando,
e non misurando un fatto sico. Egli si occupa di qualcosa di individuale,
non di comparativo – come accade per ogni misura. Il contenuto che tratta
è qualitativo, non quantitativo. Non c’è cosa esterna e pubblica, de nita
per legge identica per tutte le operazioni, che possa essere applicata
sicamente. Il bambino in grado di utilizzare la stecca da una iarda, se
riesce a maneggiarla può misurare altrettanto bene quanto la persona più
esperta e matura, poiché misurare non è un giudizio ma un’operazione
sica eseguita allo scopo di determinare un valore in cambio o a vantaggio
di qualche altra operazione sica – come quando un carpentiere misura le
tavole che usa per costruire. Lo stesso non si può dire del giudizio di valore
relativo a un’idea o relativo a un’opera d’arte.
Visto che i critici non riescono a cogliere la differenza tra il signi cato di
criterio che si applica al misurare e quello che si usa quando si giudica o si
critica, Grudin può dire di un critico che crede a un criterio sso
relativamente a opere d’arte: «Il suo procedimento è stato di andare alla
ricerca di parole e nozioni a sostegno delle sue tesi dovunque potesse
trovarne; e ha dovuto darsi dei signi cati che poteva leggere in cose varie
già disponibili che appartengono ad ambiti diversi e vengono riuniti in una
dottrina critica improvvisata»263. E questo, aggiunge egli senza eccessiva
severità, è il procedimento seguito di solito dai critici letterari.
Dall’assenza di un oggetto esterno uniforme e pubblicamente
determinato non deriva però che una critica oggettiva dell’arte è
impossibile. Ciò che deriva è che la critica è giudizio; che come ogni
giudizio essa comporta un rischio, un elemento ipotetico; che si volge a
qualità che sono comunque qualità di un oggetto; e che si occupa di un
oggetto individuale, non di fare paragoni tra cose diverse servendosi di una
regola esterna prestabilita. Il critico, a causa dell’elemento di rischio, nelle
sue critiche rivela se stesso. Se si allontana dall’oggetto che sta giudicando,
vaga in un altro campo e confonde i valori. In nessun altro ambito i
confronti sono spiacevoli come nell’arte bella.
Si dice che l’apprezzamento si veri ca rispetto ai valori, e generalmente
si suppone che la critica sia un processo di valutazione. Naturalmente in
questa concezione c’è del vero. Ma nell’interpretazione corrente essa è
carica di un cumulo di equivoci. Dopo tutto, si è interessati ai valori di una
poesia, di una rappresentazione teatrale, di un dipinto. Si è consapevoli di
essi in quanto qualità-in-relazioni-qualitative. In quel momento non li si
classi ca come valori. Si può dichiarare una rappresentazione teatrale bella
o “disgustosa”. Se si de nisce tale caratterizzazione diretta valutare, allora
la critica non è valutare. È una cosa molto diversa da un’esclamazione
diretta. La critica è una ricerca delle proprietà dell’oggetto che possono
giusti care la reazione diretta. E dunque, se è sincera e informata,
all’inizio la ricerca non si occupa di valori ma delle proprietà oggettive di
ciò che si prende in considerazione – se si tratta di un dipinto, si occupa
dei suoi colori, delle sue luci, delle sue disposizioni, dei suoi volumi nelle
loro reciproche relazioni. È un’indagine. Alla ne il critico può o meno
pronunciarsi con chiarezza sul “valore” totale dell’oggetto. Se lo fa, la sua
dichiarazione sarà più intelligente di quanto sarebbe stata in caso diverso,
poiché il suo apprezzamento percettivo ora è più informato. Ma se è
accorto, quando ricapitola il proprio giudizio dell’oggetto lo farà in un
modo che sarà il compendio dell’esito del suo esame oggettivo. Si renderà
conto che il suo dire “buono” o “cattivo” in questo o quel grado è
qualcosa la cui bontà o cattiveria va essa stessa veri cata da altre persone
nel loro diretto rapporto percettivo con l’oggetto. La sua critica appare
come un documento sociale e può essere controllata da altre persone che
hanno a disposizione lo stesso materiale oggettivo. Il critico, pertanto, se è
avveduto, anche quando dichiara che un valore è buono o cattivo, grande
o piccolo, porrà maggiore enfasi sui tratti oggettivi che danno sostegno al
suo giudizio piuttosto che sui valori in quanto attribuzioni di eccellenza e
miseria. In tal caso le sue indagini possono essere d’aiuto nell’esperienza
diretta altrui, così come la topogra a di un paese aiuta chi lo attraversa
viaggiando, mentre invece i pronunciamenti su ciò che vale hanno l’effetto
di limitare l’esperienza personale.
Se non ci sono criteri per le opere d’arte e dunque neppure per la critica
(nel senso in cui ci sono criteri di misura), nel giudizio ci sono tuttavia
canoni264 così da impedire che la critica cada nel campo del mero
impressionismo. La discussione sulla forma in relazione alla materia, del
signi cato del medium in arte, della natura dell’oggetto espressivo, è stata
un tentativo di chi scrive di scoprire alcuni di questi canoni. Ma tali canoni
non sono regole o prescrizioni. Sono il risultato di uno sforzo volto a
scoprire che cos’è un’opera d’arte in quanto esperienza: qual è il tipo di
esperienza che la costituisce. Se le conclusioni sono valide, i canoni
servono come strumenti di esperienza personale, non come prescrizioni di
quello che dovrebbe essere l’atteggiamento di qualcuno. Stabilire che cos’è
un’opera d’arte in quanto esperienza può far sì che esperienze particolari
di particolari opere d’arte diventino più pertinenti rispetto all’oggetto di
cui si fa esperienza, più consapevoli del proprio contenuto e del proprio
intento. Ecco tutto quello che può fare un qualsiasi canone; e se, e nella
misura in cui, le conclusioni non sono valide, bisognerà stabilire canoni
migliori attraverso un esame più attento della natura delle opere d’arte in
generale in quanto modalità dell’esperienza umana.
La critica è giudizio. Il materiale da cui ha origine il giudizio è l’opera,
l’oggetto, ma in quanto diventa parte dell’esperienza del critico
interagendo con la sua propria sensibilità e conoscenza e con il deposito
consolidato che viene da esperienze passate. Quanto al loro contenuto,
dunque, i giudizi varieranno insieme al materiale concreto che li suscita e
che deve supportarli perché la critica sia pertinente e valida. Malgrado ciò,
i giudizi hanno una forma comune poiché devono svolgere tutti
determinate funzioni. Queste funzioni sono distinguere e uni care. Il
giudizio deve suscitare una coscienza più chiara delle parti costituenti e
scoprire quanto coerentemente queste parti sono collegate per formare un
intero. La teoria chiama analisi e sintesi lo svolgimento di queste funzioni.
Sono funzioni che non possono essere separate l’una dall’altra, poiché
analisi vuol dire far emergere parti in quanto parti di un intero; dettagli e
particolari in quanto appartenenti alla situazione nel suo complesso, a un
universo di discorso. Questa operazione è l’opposto dell’enucleare
frammenti o del sezionare, anche quando qualcosa di questo genere viene
richiesto per rendere possibile il giudizio. Non si può dettare nessuna
regola per l’esecuzione di un atto così delicato come la determinazione
delle parti signi cative di un intero e dei loro rispettivi posti e pesi
nell’intero. È forse per questa ragione che le dissertazioni accademiche
sulla letteratura sono così spesso meri elenchi scolastici di minuzie, e che
alcune cosiddette critiche di dipinti sono analoghe a perizie calligra che.
Il giudizio analitico è un saggio della mente del critico, poiché la mente,
ordinando secondo percezioni di signi cati che derivano dal rapporto
passato con oggetti, è l’organo che serve a distinguere. Di conseguenza a
tutelare il critico è un coltivato interesse che lo divora. “Che lo divora”
perché senza una connaturata sensibilità connessa a un’acuta predilezione
per certi contenuti un critico, pur possedendo un sapere molto esteso, sarà
così freddo da non avere alcuna possibilità di penetrare nel cuore di
un’opera d’arte. Resterà all’esterno. Finché però la passione non viene
informata dalla capacità di comprendere che deriva da un’esperienza ricca
e piena, il giudizio sarà unilaterale ovvero non si eleverà al di sopra di un
affettato sentimentalismo. Il sapere deve essere il combustibile che riscalda
l’interesse. Per il critico nel campo dell’arte, questo coltivato interesse
signi ca familiarità con la tradizione della sua arte particolare; una
familiarità che è più che conoscenza degli oggetti che hanno formato la
tradizione, poiché deriva da una personale intimità con essi. In questo
senso la familiarità con capolavori e anche con opere inferiori è una “pietra
di paragone” della sensibilità, sebbene non determini la prescrizione di
una valutazione. Infatti gli stessi capolavori possono essere apprezzati
criticamente solo se vengono inseriti nella tradizione a cui appartengono.
Non c’è arte in cui ci sia una sola tradizione. Il critico che non è
profondamente consapevole della varietà delle tradizioni è di necessità
limitato, e la sua critica sarà unilaterale tanto da diventare distorsione. Le
critiche della pittura post-impressionista che ho citato sono venute da
persone che pensavano di essere esperte avendo avuto un’iniziazione
esclusiva in una particolare tradizione. Nelle arti plastiche c’è la tradizione
dell’arte negra, persiana, egiziana, cinese e giapponese, oltre che la
tradizione orentina e quella veneziana – per ricordarne alcune delle più
importanti. È per la mancanza di senso per la varietà delle tradizioni che le
instabili oscillazioni della moda caratterizzano l’atteggiamento nei
confronti delle opere d’arte – come un tempo la sopravvalutazione di
Raffaello e della scuola romana, ad esempio, a scapito di Tintoretto e di El
Greco. Buona parte dell’interminabile e sterile controversia tra i critici che
sostengono esclusivamente “classicismo” e “romanticismo” ha un’origine
simile. Nel campo dell’arte ci sono molte dimore; sono gli artisti ad averle
costruite.
Se conosce un gran numero di condizioni il critico diventa consapevole
dell’ampia varietà di materiali che si possono usare in arte (visto che sono
stati impiegati). Evita di sentenziare in maniera affrettata che questa o
quell’opera è esteticamente sbagliata poiché ha una materia a cui è egli
non è abituato, e quando si imbatte in un’opera la cui materia non ha
alcun precedente rintracciabile sarà cauto nell’esprimere una sbrigativa
condanna. Poiché la forma è sempre integrata con la materia, se
l’esperienza stessa del critico è autenticamente estetica egli apprezzerà
anche la molteplicità di forme particolari che trova e non correrà il rischio
di identi care la forma con qualche tecnica che gli è capitato di
prediligere. In breve, non solo il suo bagaglio generale si amplierà, ma egli
acquisirà familiarità, no a divenirne pregno, con una materia più basilare
che racchiude le condizioni che consentono al contenuto di diverse
modalità d’esperienza di muoversi verso la propria pienezza. Ed è questo
movimento a costituire il contenuto oggettivo e pubblicamente accessibile
di tutte le opere d’arte.
Conoscere molte tradizioni non è di ostacolo alla distinzione. È vero che
ho parlato per lo più di condanne espresse dalla critica giudiziale, ma si
potrebbero citare con facilità errori madornali altrettanto grandi compiuti
nell’elargire lodi malposte. L’assenza di conoscenza dall’interno di molte
tradizioni porta il critico a esser pronto ad apprezzare opere d’arte
accademiche purché siano realizzate con eccellente destrezza tecnica. La
pittura italiana del diciassettesimo secolo venne accolta con un consenso
che era lungi dal meritare semplicemente perché portava all’estremo, con
abilità tecnica, fattori che l’arte italiana precedente aveva mantenuto entro
certi limiti. Conoscere un’ampia gamma di tradizioni è condizione per
distinguere in maniera esatta e rigorosa. Infatti solo grazie a tale
conoscenza il critico scopre l’intento di un artista e se è stato tradotto in
realtà in modo adeguato. La storia della critica è zeppa di accuse di
negligenza e ostinazione che non sarebbero mai state mosse se ci fosse
stata un’adeguata conoscenza delle tradizioni, proprio come è zeppa di
lodi per opere che non hanno alcun merito al di là dell’abile utilizzo dei
materiali.
Nella maggior parte dei casi, un critico nel distinguere deve essere
sostenuto dalla conoscenza dell’evoluzione di un artista che si manifesta
nella successione delle sue opere. Solo di rado un artista può essere
criticato sulla base di un singolo saggio della sua attività. Non si può non
solo perché Omero talvolta sonnecchia265, ma perché comprendere la
logica dello sviluppo di un artista è necessario per distinguere il suo intento
in ogni singola opera. Possedere questa comprensione allarga e raf na il
bagaglio senza il quale il giudizio risulta cieco e arbitrario. Le parole di
Cézanne sulla relazione tra modelli di tradizione e artista si possono
applicare al critico: lo studio dei veneti, specialmente di Tintoretto,
sollecita «alla costante ricerca dei mezzi intravisti, che [condurrà]
certamente a provare dal vero i propri mezzi espressivi […]. Il Louvre è un
buon libro da consultare, ma dev’essere solo una mediazione. Lo studio
reale e prodigioso da intraprendere è la varietà della quadro della natura
[…]. Il Louvre è il libro su cui impariamo a leggere. Non dobbiamo però
accontentarci di apprendere le belle formule dei nostri illustri predecessori.
Usciamo a studiare la bella natura, cerchiamo di liberare lo spirito e di
esprimerci secondo il nostro temperamento personale. Del resto, il tempo e
la ri essione modi cano a poco a poco la visione, e in ne giunge la
comprensione»266. Cambiate i termini da cambiare ed emergerà il modo di
procedere del critico.
Critico e artista hanno le loro predilezioni. Ci sono aspetti della natura e
della vita che sono duri, altri che sono miti; aspetti che sono austeri e
persino lugubri, e aspetti che affascinano e attraggono; aspetti che sono
eccitanti e aspetti che paci cano, e così via quasi senza ne. Gran parte
delle “scuole” artistiche mostrano una tendenza in una direzione o
nell’altra. In questi casi un qualche modo originale di vedere coglie questa
tendenza e la porta all’estremo. C’è, ad esempio, il contrasto tra
l’“astratto” e il “concreto” – ossia, ciò che è più familiare. Alcuni artisti
lavorano per sempli care al massimo, credendo che la complessità interna
spinga verso una sovrabbondanza che distrae l’attenzione; altri assumono
come problema la moltiplicazione delle speci cazioni interne no al punto
estremo compatibile con l’organicità267. C’è anche la differenza tra
l’approccio schietto e aperto e quell’approccio indiretto e allusivo a una
materia vaga che va sotto il nome di simbolismo. Ci sono artisti che
tendono verso quello che Thomas Mann chiama le tenebre e la morte268 e
altri che si godono luce e aria.
Va da sé che ogni direzione comporta dif coltà e pericoli che aumentano
quando si avvicina al suo limite. Il simbolico può perdersi
nell’inintelligibile e il metodo diretto nel banale. Il metodo “concreto”
sfocia in mera illustrazione e quello “astratto” nell’esercizio scienti co, e
così via. Eppure ciascuno risulta giusti cato quando forma e materia
raggiungono un equilibrio. Il pericolo è che il critico, guidato da una
predilezione personale o più spesso da un convenzionalismo partigiano,
assuma una qualche procedura particolare come proprio canone di
giudizio e condanni tutto ciò che diverge da essa come distacco dall’arte
stessa. In tal caso egli perde il punto essenziale dell’arte intera, l’unità di
forma e materia, e ciò perché nella sua unilateralità connaturata e acquisita
gli manca l’opportuna sintonia con l’immensa varietà di interazioni tra la
creatura vivente e il suo mondo.
Oltre alla fase della distinzione, nel giudizio c’è la fase dell’uni cazione –
tecnicamente conosciuta come sintesi distinta dall’analisi. Questa fase di
uni cazione, ancor più di quella analitica, è una funzione della risposta
creativa dell’individuo che giudica. È perspicacia. Non ci sono regole che
si possono ssare per esercitarla. È a questo punto che anche la critica
diventa un’arte – o in caso contrario un meccanismo mosso da precetti
sulla base di un progetto preconfezionato. L’analisi, la distinzione, deve
sfociare nell’uni cazione. Infatti per essere una manifestazione del
giudizio, essa deve discernere particolari e parti relativamente al loro peso
e alla loro funzione nella formazione di un’esperienze integrale. Senza un
punto di vista uni cante basato sulla forma oggettiva di un’opera d’arte, la
critica alla ne diventa un elenco di dettagli. Il critico opera al modo di
Robinson Crusoe, che si mise a sedere e compilò una lista di dare e avere
delle proprie fortune e dei propri guai269. Il critico annota tanti difetti e
tanti pregi, poi tira le somme. Ma visto che l’oggetto, niente che sia
un’opera d’arte, è un intero unitario, tale metodo risulta tanto noioso
quanto inadeguato.
Che il critico debba scoprire un lo per uni care o uno schema che
corre attraverso tutti i dettagli non signi ca che sia lui a dover produrre un
intero unitario. Talvolta anche i critici migliori sostituiscono un’opera
d’arte loro propria a quella di cui dichiarano di occuparsi. Il risultato può
essere arte, non però critica. L’unità delineata dal critico deve essere una
caratteristica che risiede nell’opera d’arte. Dire ciò non signi ca che in
un’opera d’arte ci sia solo un’idea o una forma che danno unità. Ce ne
sono molte, in misura proporzionale alla ricchezza dell’oggetto in
questione. Ciò che si vuol dire è che il critico dovrà cogliere un qualche
elemento o lo presente effettivamente nell’opera ed elaborarlo con
chiarezza in modo che il lettore abbia un nuovo faro e una nuova guida
anche per la sua esperienza.
Un dipinto può essere condotto a unità sfruttando le relazioni di luce, di
piani, di colore strutturalmente impiegate, una poesia sfruttando la qualità
lirica o drammatica prevalente. E la stessa identica opera d’arte presenta a
osservatori differenti prospetti diversi e sfaccettature diverse – così come
uno scultore può vedere gure differenti latenti in un blocco di pietra. Un
modo per uni care da parte del critico è lecito quanto un altro – purché si
soddis no due condizioni. Una è che il tema e il prospetto che l’interesse
seleziona siano davvero presenti nell’opera, e l’altra è di dare concretezza
alla seguente condizione suprema: che venga mostrato che la tesi
principale è riaffermata con coerenza in tutte le parti dell’opera.
Goethe, ad esempio, ha dato un esempio notevole di critica “sintetica”
nella sua descrizione del personaggio di Amleto270. La sua concezione
dell’essenza del personaggio di Amleto ha permesso a molti lettori di
vedere in questa tragedia cose che altrimenti sarebbero sfuggite
all’attenzione. È servita da lo conduttore, o meglio da forza centripeta.
Tuttavia tale concezione non è l’unico modo in cui si possono mettere a
fuoco gli elementi della tragedia. Chi ha visto l’interpretazione del
personaggio da parte di Edwin Booth può anzi averne ricavato l’idea che
la chiave di lettura di Amleto come essere umano si trova nei versi rivolti a
Guildenstern dopo che questi non era riuscito a suonare il auto.
«Perbacco, guarda un po’ adesso quanto mi sminuisci. Vorresti suonare su
di me, vorresti mostrare di conoscere i miei tasti, vorresti afferrare il cuore
del mio mistero, vorresti suonarmi dalla mia nota più bassa no alla più
acuta della mia estensione. E in questo piccolo strumento c’è molta
musica, una voce eccellente, e tuttavia non sai farlo parlare. Santiddio,
credi che io sia più facile da suonare di un auto?»271.
È consueto trattare giudizio ed errori in stretta connessione tra loro. I
due grandi errori della critica estetica sono ridurre e confondere categorie.
L’errore di riduzione deriva da eccessiva sempli cazione. Sussiste quando
qualche componente dell’opera d’arte viene isolato e quindi l’intero viene
ridotto ai termini di questo singolo elemento isolato. Esempi generali di
questo errore sono stati esaminati nei capitoli precedenti: ad esempio,
quando si isola una qualità sensoriale, come colore o suono, dalle relazioni;
quando si isola l’elemento puramente formale; o ancora quando si riduce
un’opera d’arte ai soli valori rappresentativi. Lo stesso principio in atto
quando si scioglie la tecnica dalla sua connessione con la forma. Un
esempio più speci co si trova nella critica condotta da un punto di vista
storico, politico o economico. Non può esserci dubbio che il milieu
culturale è tanto interno quanto esterno alle opere d’arte. Esso vi partecipa
quale componente autentico e riconoscerlo è uno degli elementi che
intervengono in un’analisi corretta. Lo sfarzo dell’aristocrazia veneziana e
l’agiatezza dei mercanti sono un elemento davvero costitutivo della pittura
di Tiziano. Ma l’errore di ridurre i suoi quadri a documenti economici,
come una volta ho sentito fare da una guida “proletaria” dell’Hermitage di
Leningrado, è n troppo evidente per doverlo riportare se non fosse
perché si tratta di un caso clamoroso di ciò che spesso accade in modi così
sottili da non essere facilmente percepibile. D’altra parte, la semplicità e
l’austerità religiosa delle statue e dei dipinti francesi del dodicesimo secolo,
che essi assorbono dal loro milieu culturale, sono considerate, al di là delle
qualità strettamente plastiche degli oggetti in questione, la loro essenziale
qualità estetica.
Una forma più estrema dell’errore di riduzione sussiste quando le opere
d’arte sono “spiegate” o “interpretate” sulla base di fattori che sono al loro
interno accidentalmente. Gran parte della cosiddetta “critica”
psicoanalitica è di questa natura. Fattori che possono – o non possono –
aver svolto un ruolo nella generazione causativa di un’opera d’arte
vengono trattati come se “spiegassero” il contenuto estetico della stessa
opera d’arte. Quest’ultima, invece, è ciò che è indipendentemente dal fatto
che nella sua produzione sia intervenuta o meno una ssazione paterna o
materna oppure una speciale attenzione per le sensibilità di una donna
sposata. I fattori di cui si parla, in quanto reali e non speculativi, sono
rilevanti per la biogra a ma non sono affatto pertinenti al carattere
dell’opera stessa. Se quest’ultima ha difetti, si tratta di imperfezioni da
individuare nella costruzione dell’oggetto stesso. Se un complesso edipico
è parte dell’opera d’arte, può essere scoperto di per sé. Ma la critica
psicoanalitica non è l’unico tipo di critica che cade in questo errore. Esso
emerge ogni volta che una presunta circostanza interna alla vita
dell’artista, un qualche evento biogra co, viene preso come se potesse in
qualche modo sostituirsi alla fruizione della poesia che ne è derivata272.
L’altro modo principale in cui prevale questo tipo di errore di riduzione
si trova nella cosiddetta critica sociologica. I Seven Gables di Hawthorne, il
Walden di Thoreau, gli Essays di Emerson, l’Huckleberry Finn di Mark
Twain, hanno un’indubbia relazione con i rispettivi milieu in cui sono stati
prodotti. Le informazioni storiche e culturali possono gettare luce sulle
cause della loro produzione. Ma alla ne dei giochi, sotto il pro lo artistico
ciascuno di essi è esattamente ciò che è, e i suoi meriti e demeriti estetici
sono all’interno dell’opera. La conoscenza delle condizioni sociali della
produzione, se è davvero conoscenza, ha intrinsecamente valore. Ma non
sostituisce la comprensione dell’oggetto nelle qualità e relazioni sue
proprie. Emicrania, affaticamento degli occhi, indigestione possono avere
avuto un ruolo nella produzione di alcune opere letterarie; potrebbero
addirittura dar conto, da un punto di vista causale, di alcune delle qualità
della letteratura prodotta. Ma averne conoscenza signi ca far crescere le
cognizioni mediche di causa ed effetto, non il giudizio su ciò che è stato
prodotto, sebbene tale conoscenza determini una benevolenza morale nei
confronti dell’autore che altrimenti non potremmo condividere.
Giungiamo così all’altro grande errore del giudizio estetico che di fatto si
fonde con l’errore di riduzione: la confusione di categorie. Lo storico, il
siologo, il biografo, lo psicologo, hanno tutti i loro problemi particolari e i
loro particolari concetti guida che regolano le ricerche che intraprendono.
Le opere d’arte forniscono loro dati rilevanti per lo sviluppo delle loro
indagini speci che. Lo storico che si occupa della vita in Grecia non può
comporre il proprio quadro della vita greca se non prendendo in
considerazione i monumenti dell’arte greca; essi sono rilevanti e preziosi
per il suo obiettivo almeno quanto le istituzioni politiche di Atene e Sparta.
Le interpretazioni loso che dell’arte date da Platone e Aristotele sono
documenti indispensabili per lo storico che si occupa della vita intellettuale
di Atene. Ma il giudizio storico non è un giudizio estetico. Ci sono
categorie – ossia concetti che regolano la ricerca – appropriate alla storia, e
si produce solo confusione quando le si usa per regolare la ricerca
nell’ambito dell’arte, pure dotata di sue speci che idee.
Quel che vale per l’approccio storico vale anche per le trattazioni di altro
genere. Ci sono aspetti matematici della scultura e della pittura oltre che
dell’architettura. Jay Hambidge ha scritto un trattato sulla matematica dei
vasi greci273. È stata scritta un’opera ingegnosa sugli elementi
matematicamente formali della poesia274. Il biografo di Goethe o di
Melville si sentirebbe perduto se non utilizzasse i loro prodotti letterari nel
costruire il quadro delle loro vite. I processi personali coinvolti nella
costruzione di opere d’arte sono dati preziosi per lo studio di certi processi
mentali così come le documentazioni di procedure utilizzate da ricercatori
scienti ci sono rilevanti quando si studiano le operazioni intellettuali.
L’espressione “confusione di categorie” suona intellettualistica. Il suo
corrispettivo in ambito pratico è la confusione di valori275. Sia i critici che i
teorici sono propensi a tentare di tradurre ciò che è speci camente estetico
nei termini di qualche altro tipo di esperienza. La forma più comune di
questo errore è supporre che l’artista cominci con materiale che già
possiede uno status riconosciuto, morale, loso co, storico o quant’altro, e
poi lo renda più palatabile condendolo con l’emozione e rivestendolo con
l’immaginazione. L’opera d’arte è trattata come se fosse una riedizione di
valori già correnti in altri campi d’esperienza.
Non ci può essere dubbio, ad esempio, che valori religiosi abbiano
esercitato sull’arte un’in uenza pressoché senza pari. Per un lungo
periodo della storia europea le leggende ebraiche e cristiane hanno
costituito il materiale primario di tutte le arti. Ma questo fatto di per sé non
ci dice nulla sui valori speci camente estetici. I dipinti bizantini, russi,
gotici e i primi dipinti italiani sono tutti egualmente “religiosi”. Ma dal
punto di vista estetico ciascuno ha le sue proprie qualità. Senza dubbio le
forme differenti sono in relazione con la differenza di pensiero religioso e
di pratica religiosa. Ma sul piano estetico l’in uenza della forma mosaico è
un fattore più pertinente. La questione toccata è la differenza tra materiale
e materia a cui si è fatto spesso riferimento nelle indagini precedenti. A
essere importanti sono il medium e l’effetto. Per questa ragione, opere
d’arte più tarde che non hanno contenuto religioso hanno un effetto
profondamente religioso. Immagino che l’arte maestosa del Paradise Lost
sarà più, non meno, riconosciuta, e che il poema sarà letto più
diffusamente, quando il ri uto dei suoi temi di teologia protestante sarà
caduto nell’indifferenza e nella dimenticanza. E questa opinione non
implica che la forma sia indipendente dalla materia. Implica che la
sostanza artistica non è identica al tema – non più di quanto la forma
dell’Ancient Mariner sia identica alla storia che ne costituisce il tema. Per il
lettore moderno la mise-en-scène276 con cui Milton raf gura l’azione
drammatica di grandi forze non deve di necessità porre problemi sul piano
estetico, più di quanto non lo faccia quella dell’Iliade. C’è una profonda
differenza tra il veicolo di un’opera d’arte, il vettore intellettuale attraverso
il quale un artista riceve il contenuto di cui tratta e lo trasmette al suo
pubblico immediato, e sia la forma che la materia di tale opera.
L’in uenza diretta dei valori scienti ci su quelli artistici è assai minore di
quella della religione. Sarebbe audace per un critico affermare che le
qualità artistiche delle opere di Dante o di Milton sono guastate
dall’accettazione di una cosmogonia che non ha più reputazione
scienti ca. Quanto al futuro, penso che Wordsworth abbia detto il vero
quando ha affermato: «[...] se le fatiche degli uomini di scienza creeranno
mai una rivoluzione materiale, diretta o indiretta, nella nostra condizione e
nelle impressioni che noi attualmente percepiamo, il poeta allora non
dormirà più di quanto faccia adesso: [...] sarà al [loro] anco, trasportando
la sensazione in mezzo agli oggetti della stessa scienza. Le più lontane
scoperte del chimico, del botanico, del mineralogista saranno oggetti
appropriati all’arte del poeta quanto ogni altro a cui si può rivolgere, se
mai verrà il giorno in cui queste cose ci saranno familiari e le relazioni sotto
cui vengono osservate dai seguaci di queste diverse scienze diverranno
manifestamente e tangibilmente concrete per noi, come esseri che
gioiscono e soffrono»277. Ma la poesia non sarà in quel senso una
volgarizzazione della scienza, né i suoi valori caratteristici saranno quelli
della scienza.
Ci sono critici che confondono valori estetici e valori loso ci,
specialmente con quelli stabiliti dai loso morali. T. S. Eliot, ad esempio,
sostiene che «la loso a più vera è il materiale migliore per il poeta più
grande»278, e suggerisce che ciò che fa il poeta è rendere il contenuto
loso co più praticabile aggiungendovi qualità sensoriali ed emotive.
Proprio che cosa sia la “ loso a più vera” è oggetto di disputa. Ma i critici
di questa scuola su questo punto non mancano di convinzioni precise, per
non dire dogmatiche. Senza alcuna particolare competenza speci ca nel
pensiero loso co, sono disposti a pronunciare giudizi ex cathedra279
facendo riferimento a qualche concezione della relazione dell’uomo con
l’universo orita in epoche passate. Ritengono che restaurare questa
concezione sia essenziale per redimere la società dal suo malvagio stato
attuale. Le loro critiche sono fondamentalmente ricette morali. Poiché i
grandi poeti hanno seguito loso e differenti, accettare il loro punto di
vista vuol dire che approvare la loso a di Dante è di necessità
condannare la poesia di Milton, e accettare la loso a di Lucrezio è di
necessità trovare la poesia degli altri due deprecabilmente difettosa. E dove
inserire Goethe sulla base di una qualsiasi di queste loso e? E tuttavia
questi sono i nostri grandi poeti “ loso ci”.
In de nitiva ogni confusione di valori deriva dalla medesima origine: –
trascurare l’intrinseca signi catività del medium. L’uso di un medium
particolare, di uno speciale linguaggio dotato di caratteristiche sue proprie,
è la sorgente di ogni arte, loso ca, scienti ca, tecnologica ed estetica. Le
arti della scienza, della politica, della storia, e quelle della pittura e della
poesia, da ultimo hanno tutte lo stesso materiale; quello costituito
dall’interazione della creatura vivente con il suo ambiente circostante. Esse
differiscono per i media attraverso i quali veicolano ed esprimono questo
materiale, non per il materiale in sé. Ciascuna trasforma in nuovi oggetti
una certa fase del materiale grezzo dell’esperienza a seconda dello scopo, e
ogni scopo esige un medium particolare per essere attuato. La scienza
utilizza il medium che è adatto allo scopo della veri ca e della previsione,
dell’aumento di potenza; è un’arte280. In particolari condizioni, la sua
materia può anche essere estetica. Poiché lo scopo dell’arte estetica è di
accrescere la stessa esperienza diretta, essa utilizza il medium adatto per
raggiungere quel ne. L’attrezzatura necessaria del critico è anzitutto di
avere l’esperienza e quindi di ricavarne i costituenti nei termini del
medium utilizzato. Il fallimento sotto uno di questi pro li ha per esito
inevitabile la confusione dei valori. Trattare la poesia come se avesse come
materiale peculiare una loso a, e addirittura una loso a “vera”,
equivale a credere che la letteratura abbia come materiale la grammatica.
Un artista può naturalmente avere una loso a e quella loso a può
in uenzare il suo lavoro artistico. A causa del medium costituito dalle
parole, che sono già il prodotto di un’arte sociale e già pregne di signi cati
morali, in letteratura l’artista è in uenzato da una loso a più spesso di
quanto non lo siano artisti che lavorano con un medium plastico.
Santayana è un poeta che è anche losofo e critico. Inoltre ha spiegato il
canone che impiega nella critica, e il canone è proprio quello che per la
maggior parte i critici non spiegano e di cui apparentemente non sono
neppure consapevoli. Di Shakespeare egli dice: «[…] il cosmo gli sfugge;
egli non sembra sentire il bisogno di strutturare quell’idea. Dipinge la vita
umana in tutta la sua ricchezza e varietà, ma lascia quella vita senza uno
scenario e di conseguenza senza un signi cato». Poiché le diverse scene e i
vari personaggi che Shakespeare presenta possiedono ciascuno il proprio
scenario, il passaggio evidentemente allude alla mancanza di uno scenario
particolare, ossia di uno scenario cosmico totale. Che sia questa assenza ciò
a cui si allude non è una congettura; viene spiegato con chiarezza. «Non
c’è alcuna concezione ssa di nessuna forza, naturale o morale, che domini
e trascenda le nostre energie mortali». Ci si lamenta per la mancanza di
“totalità”; pienezza non è interezza. «Indispensabile per l’interezza
teoretica non è questo o quel sistema ma un qualche sistema».
Diversamente da Shakespeare, Omero e Dante avevano una fede che
«aveva avvolto il mondo dell’esperienza in un mondo di immaginazione in
cui gli ideali della ragione, della fantasia e del cuore avevano
un’espressione naturale» (nessun corsivo si trova nel testo originale). Il
punto di vista loso co di Santayana è forse sintetizzato nel modo migliore
in una frase che si trova in una critica di Browning: «Il valore
dell’esperienza non è nell’esperienza ma negli ideali che essa rivela». E di
Browning si dice che il suo «metodo è di penetrare con partecipazione
anziché di ritrarre con intelligenza» – una frase che si potrebbe supporre
essere la mirabile descrizione di un poeta drammatico piuttosto che la
critica negativa che intendeva essere281.
Ci sono loso e e loso e, così come ci sono critiche e critiche. Ci sono
punti di vista secondo i quali Shakespeare aveva una loso a, e aveva una
loso a più pertinente all’opera di un artista rispetto a una che ritenga che
l’ideale della loso a racchiuda al suo interno l’esperienza e che a
governarne la multiforme pienezza sia un ideale trascendente che solo la
ragione, al di là dell’esperienza, può concepire. C’è una loso a secondo
cui la natura e la vita offrono nella loro pienezza molti signi cati e possono
esser rese in molti modi attraverso l’immaginazione. Nonostante la portata
e la dignità dei grandi sistemi loso ci storici, un artista può essere
istintivamente respinto dai vincoli che determina l’accettazione di un
qualche sistema. Se la cosa importante è “non questo o quel sistema ma un
qualche sistema”, perché non accettare, con Shakespeare, il sistema libero
e vario della natura stessa che opera e si muove nell’esperienza in tante e
diverse organizzazioni di valore? Se la si confronta con il muoversi e il
mutare della natura, la forma che si dice che venga prescritta dalla
“ragione” è forse quella di una tradizione particolare che è una sintesi
prematura e unilaterale sulla base di un aspetto singolo e limitato
dell’esperienza. L’arte che è fedele alle molte possibilità di organizzazione
offerte dalla natura imperniate su diversi interessi e scopi – come fu quella
di Shakespeare – può avere non solo una pienezza, ma anche un’interezza
e un equilibrio assenti da una loso a della chiusura, della trascendenza e
della ssità. La questione per il critico è l’adeguatezza tra forma e materia,
e non quella della presenza o dell’assenza di una particolare forma. Il
valore dell’esperienza non risiede solo negli ideali che essa rivela, ma nella
sua capacità di svelare molti ideali, un potere più fecondo e più
signi cativo di qualsiasi ideale rivelato, poiché procedendo li riprende, li
frantuma e li ricompone. Si può anche capovolgere questa affermazione e
dire che il valore degli ideali è posto nelle esperienze a cui essi stessi
conducono.
C’è un problema che artista, losofo e critico devono egualmente
affrontare: la relazione tra permanenza e cambiamento. L’inclinazione
della loso a nella sua fase più ortodossa attraverso le epoche è stata verso
il non-cambiamento, e tale inclinazione ha in uenzato i critici più seri –
forse è stata questa a dare origine alla critica giudiziale. Si trascura il fatto
che in arte – e in natura, nella misura in cui la si può giudicare per il
tramite dell’arte – la permanenza è una funzione, una conseguenza, di
cambiamenti nelle loro relazioni reciproche, non già un principio che
viene prima. Nel saggio di Browning su Shelley si può trovare quanto
secondo me come critica può avvicinarsi di più a un’adeguata
enunciazione delle relazioni tra ciò che viene uni cato e il “totale”; tra ciò
che si diversi ca e si muove, l’“individuale”, e l’“universale”. Citerò
dunque un lungo brano di questo saggio. «Benché il soggettivo possa
sembrare l’esigenza ultima di ogni epoca, l’oggettivo nel suo senso più
stretto deve ancora conservare il proprio valore originale. Infatti è pur
sempre di questo mondo, in quanto insieme punto di partenza e base, che
dovremmo preoccuparci; non è che il mondo va conosciuto e poi messo da
parte, ma occorre tornarci sopra e conoscerlo di nuovo. La comprensione
spirituale può essere af nata all’in nito, ma la sua materia prima deve
rimanere».
«C’è un tempo in cui l’occhio di tutti ha, per così dire, assorbito appieno
i fenomeni che lo circondano, quelli spirituali come quelli materiali, e
desidera apprendere il signi cato più esatto di ciò che possiede anziché
vederne aumentare in qualche modo la quantità. Allora il poeta dotato di
un modo di vedere più elevato ha l’opportunità di innalzare i suoi simili,
con quel che hanno parzialmente colto, no alla sua stessa sfera,
intensi cando il rilievo dei dettagli e arricchendo il signi cato universale.
L’incidenza di una simile impresa non svanirà presto. Una schiera di
successori (gli Omeridi) che lavorano più o meno con il medesimo spirito
si sofferma sulle sue scoperte e rafforza la sua dottrina, nché
all’improvviso si scopre che il mondo si regge interamente sull’ombra di
una realtà, sui sentimenti diluiti dalle passioni, sulla tradizione di un fatto,
sulla convenzione di una morale, sui residui del raccolto dell’anno passato.
È allora che si richiede in maniera perentoria che compaia un altro tipo di
poeta, che sostituisca immediatamente questa ruminazione intellettuale di
cibo ingerito molto tempo prima con una scorta di erba fresca e ancora
viva; che trovi nuova sostanza frantumando gli interi già assimilati in parti
che hanno valore indipendente e fuori dagli schemi, senza curarsi delle
leggi sconosciute per ricombinarle (sarà compito di un altro poeta ancora
quello di suggerire queste leggi in un secondo momento), che dispensi
oggetti per la visione esterna e non interna degli uomini, che plasmi per i
loro usi una creazione nuova e diversa dall’ultima che egli rimpiazza in
virtù del diritto della vita sulla morte – per durare no a quando, in base a
un processo inevitabile, la sua stessa autosuf cienza richiederà, alla lunga,
che se ne illustri l’af nità con qualcosa di più elevato – qualora i fatti
positivi seppur con ittuali dovessero di nuovo convergere
precipitosamente sotto una legge armonizzante […]».
«Si troverà che tutta la cattiva poesia nel mondo (che, cioè, si considera
poesia per alcune af nità) deriva da uno degli in niti gradi di discrepanza
tra gli attributi dell’anima del poeta, determinando un’esigenza di
corrispondenza tra la sua opera e le varietà della natura – sfociando in una
poesia, falsa sotto qualsiasi forma, che mostra una cosa non così com’è per
l’umanità in generale, né com’è per la persona particolare che la descrive,
ma come si suppone che sia per qualche stato d’animo irreale e neutro, a
metà tra i due e di nessun valore per entrambi, e vivendo il suo breve
istante semplicemente per l’indolenza di chiunque l’accetti essendo
incapace di denunciare un inganno»282.
Natura e vita mostrano non usso ma continuità, e la continuità
comporta forze e strutture che perdurano attraverso il cambiamento; o
almeno, quando cambiano lo fanno più lentamente di quanto lo facciano
gli accadimenti in super cie e sono perciò, relativamente, costanti. Ma il
cambiamento è inevitabile anche se non è per il meglio. Occorre tenerne
conto. Inoltre, i cambiamenti non sono tutti graduali; culminano in
mutazioni improvvise, in trasformazioni che lì per lì sembrano
rivoluzionarie, sebbene secondo una prospettiva successiva trovino posto
entro un sviluppo logico. Tutte queste cose sono valide per l’arte. Il critico
che non è sensibile a segni di cambiamento nella stessa misura in cui è
sensibile a ciò che ricorre e che è duraturo, utilizza il canone della
tradizione senza comprenderne la natura, e ricerca criteri e modelli nel
passato senza accorgersi che ogni passato è stato un tempo il futuro
imminente del proprio passato e ora è il passato non in senso assoluto, ma
come passato di quel cambiamento che costituisce il presente.
Ogni critico, come ogni artista, ha un’inclinazione, una predilezione, che
è in stretta relazione con l’esistenza stessa dell’individuo. Suo compito è di
convertirla in un organo per percepire in maniera sensibile e capire in
maniera intelligente, senza in ciò sacri care la preferenza istintiva da cui
derivano orientamento e sincerità. Ma quando al suo modo peculiare e
selettivo di rispondere viene permesso di irrigidirsi in uno schema sso, il
critico diventa incapace di giudicare anche le cose verso cui lo spinge la
sua inclinazione. Infatti esse vanno viste nella prospettiva di un mondo così
multiforme e pieno da contenere una varietà in nita di altre qualità che
attraggono e di altri modi di rispondere. Anche gli aspetti sconcertanti del
mondo in cui viviamo sono materiale per l’arte quando trovano la forma
attraverso cui essere concretamente espressi. Una loso a dell’esperienza
fortemente sensibile alle innumerevoli interazioni che sono il materiale
dell’esperienza è la loso a da cui un critico può trarre la propria
ispirazione nel modo più sicuro e certo. C’è un altro modo in cui un critico
possa essere animato da quella sensibilità per i molteplici movimenti verso
il completamento in diverse esperienze totali che lo metterà in grado di
dirigere le percezioni di altri verso una fruizione più piena e ordinata del
contenuto oggettivo delle opere d’arte?
Infatti il giudizio critico non solo ha origine dall’esperienza che il critico
fa della materia oggettiva, e non solo dipende da quella per essere valido,
ma ha la funzione di rendere profonda in altri quella stessa esperienza. I
giudizi scienti ci non solo terminano in un maggiore controllo, ma per chi
li comprende aggiungono signi cati più ampi alle cose percepite e trattate
nel contatto quotidiano con il mondo. La funzione della critica è di
rieducare la percezione delle opere d’arte; ha un ruolo ausiliario nel
processo, dif cile, in cui si impara a vedere e a udire. L’idea che il suo
compito sia di stimare il valore, di giudicare in senso giuridico e morale,
blocca la percezione di coloro che sono in uenzati dalla critica che si
assume questo compito. La funzione morale della critica viene svolta
indirettamente. Chi fa un’esperienza più ampia e viva dovrebbe effettuare
da sé la propria valutazione. Lo si può aiutare estendendo la sua propria
esperienza mediante l’opera d’arte rispetto a cui la critica ha un ruolo
sussidiario. La funzione morale dell’arte stessa è di eliminare il pregiudizio,
di sopprimere le incrostazioni che impediscono all’occhio di vedere, di
strappare i veli dovuti all’uso e all’abitudine, di af nare la capacità di
percepire. La funzione del critico è promuovere questo lavoro svolto
dall’oggetto d’arte. Introdurre le proprie approvazioni e le proprie
condanne, le proprie stime e le proprie classi cazioni, è segno di non
riuscire a capire e a svolgere la funzione di diventare un fattore di sviluppo
di una genuina esperienza personale. Afferriamo per intero il rilievo di
un’opera d’arte solo quando ripercorriamo nei nostri processi vitali i
processi dai quali è passato l’artista producendo l’opera. È il privilegio del
critico contribuire a promuovere questo processo attivo. La sua condanna
è di bloccarlo troppo spesso.
14 – Arte e civiltà

L’arte è una qualità che permea un’esperienza; non è l’esperienza stessa,


se non parlando in modo gurato. L’esperienza estetica è sempre più che
estetica. In essa materie e signi cati raggruppati, che di per sé non sono
estetici, diventano estetici entrando in un movimento ritmico ordinato che
tende al proprio perfezionamento. Il materiale stesso è umano in senso
ampio. Torniamo così al tema del primo capitolo. Il materiale
dell’esperienza estetica, essendo umano – umano in connessione con la
natura di cui è una parte – è sociale. L’esperienza estetica è una
manifestazione, una testimonianza e una celebrazione della vita di una
civiltà, un mezzo per promuoverne lo sviluppo, ed è anche il giudizio
de nitivo sulla qualità di una civiltà. Infatti, sebbene essa venga prodotta e
fruita da individui, tali individui sono ciò che sono nel contenuto della loro
esperienza in virtù delle culture a cui partecipano.
La Magna Charta è considerata il grande elemento di stabilizzazione
politica della civiltà anglosassone. Tuttavia essa ha funzionato nel
signi cato che le è stato attribuito con l’immaginazione piuttosto che sulla
base del suo contenuto letterale. In una civiltà ci sono elementi transitori e
ci sono elementi duraturi. Le forze durature non sono separate; sono
funzioni di molti eventi passeggeri nel loro essere organizzati nei signi cati
che formano le menti. L’arte è la grande forza che interviene quando si
effettua questo consolidamento. Gli individui dotati di menti muoiono uno
dopo l’altro. Le opere in cui i signi cati hanno ricevuto un’espressione
oggettiva perdurano. Esse diventano parte dell’ambiente, e l’interazione
con questo momento dell’ambiente è l’asse di continuità nella vita della
civiltà. I decreti della religione e il potere della legge sono ef caci se
mettono vesti fastose, con una dignità e una maestà che sono opera
dell’immaginazione. Se i costumi sociali sono qualcosa di più che modi
esteriori costanti di agire, è perché essi sono saturi di storia e di signi cato
trasmesso. Ogni arte è in qualche modo un mezzo per compiere questa
trasmissione, mentre i suoi prodotti sono parti tutt’altro che trascurabili
della materia saturante.
Per molti di noi, probabilmente per tutti tranne che per lo studioso di
storia, «la gloria che fu la Grecia, l’alma grandezza di Roma»283
riassumono quelle civiltà; gloria e grandezza sono estetiche. Per tutti
tranne che per l’archeologo, l’antico Egitto è i suoi monumenti, i suoi
templi e la sua letteratura. La continuità della cultura nel passaggio da una
civiltà all’altra, come pure all’interno della cultura, è determinata dall’arte
più che da qualsiasi altra cosa. Troia vive per noi solo nella poesia e negli
oggetti d’arte che sono stati recuperati dalle sue rovine. La civiltà minoica
consiste oggi nei suoi prodotti d’arte. Gli dèi e i riti pagani appartengono a
un passato remoto, eppure perdurano nell’incenso, nelle luci, nelle vesti e
nelle festività del presente. Se le lettere inventate, presumibilmente, allo
scopo di facilitare le transazioni commerciali, non si fossero evolute
diventando letteratura, sarebbero ancora attrezzature tecniche, e noi stessi
potremmo vivere in una cultura dif cilmente più elevata di quella dei
nostri antenati selvaggi. Se si prescindesse da rito e cerimonia, da
pantomima e danza e dalla rappresentazione teatrale che da loro si è
sviluppata, da danza, canto e musica strumentale di accompagnamento,
dagli utensili e dagli oggetti d’uso della vita quotidiana formati su modelli
e recanti le insegne della vita della comunità che erano simili a quelli che
sono mostrati nelle altre arti, gli eventi del lontano passato sarebbero ora
sprofondati nell’oblio.
Non si può certo far più che suggerire in un mero schema la funzione
delle arti nelle civiltà più antiche. Le arti con cui i popoli primitivi
commemoravano e trasmettevano i loro costumi e le loro istituzioni, arti
che erano comuni, sono comunque le origini dalle quali si sono sviluppate
tutte le belle arti. I disegni caratteristici di armi, tappeti e coperte, cesti e
giare, erano segni dell’unione tribale. Oggi l’antropologo fa assegnamento
sul disegno inciso su una clava, o dipinto su una scodella, per stabilirne
l’origine. Rito e cerimonia, come pure la leggenda, legano i vivi e i morti in
una società comune. Erano estetici, ma erano più che estetici. I riti del
lutto esprimevano più che cordoglio; la danza di guerra e la danza per il
raccolto erano più che un raccogliere energia per i compiti da svolgere; la
magia era più che una maniera di imporre alle forze della natura di
eseguire l’ordine dell’uomo; i banchetti erano più che soddisfacimento
dell’appetito. Ognuno di questi modi comuni di agire univa il pratico, il
sociale e l’educativo in un intero unitario dotato di forma estetica.
Introducevano nell’esperienza valori sociali nel modo più capace di
suscitare impressioni. Mettevano in connessione cose importanti per tutti e
per tutti in armonia con la vita sostanziale della comunità. L’arte era in
loro, poiché queste attività erano conformi ai bisogni e alle condizioni
dell’esperienza più intensa, più prontamente afferrata e più a lungo
ricordata. Erano però più che solo arte, sebbene la componente estetica
fosse presente ovunque.
Come ho già osservato, ad Atene, che noi consideriamo la patria par
excellence284 della poesia epica e lirica, delle arti del teatro,
dell’architettura e della scultura, l’idea dell’arte per l’arte non sarebbe stata
compresa. La severità di Platone nei confronti di Omero ed Esiodo sembra
forzata. Ma essi erano i maestri morali del popolo. I suoi attacchi contro i
poeti sono simili a quelli che alcuni critici di oggi rivolgono contro brani
dei testi cristiani per la cattiva in uenza morale che gli viene imputata. La
pretesa di Platone di censurare poesia e musica è un tributo all’in uenza
sociale e persino politica esercitata da quelle arti. Le opere teatrali
venivano rappresentate nei giorni di festa religiosa285; assistervi era un
gesto simile per natura a un atto di culto civile. L’architettura in tutte le sue
forme signi cative era pubblica, non privata, e si occupava molto di meno
di industria, nanza o commercio.
Il declino dell’arte nel periodo alessandrino, il suo degenerare in
imitazioni scadenti di modelli arcaici, è un segno della generale perdita di
coscienza civile che ha accompagnato il tramonto delle città-stato e l’alba
di un imperialismo composito. Le teorie dell’arte e lo studio di grammatica
e retorica presero il posto della creazione. E le teorie dell’arte furono
dimostrazioni del grande cambiamento sociale che si era veri cato. Invece
di collegare le arti a un’espressione della vita della comunità, la bellezza
della natura e dell’arte veniva considerata come un’eco e un memento di
qualche realtà celeste il cui essere era al di fuori della vita sociale, e di fatto
al di fuori del cosmo stesso – l’origine fondamentale di tutte le teorie
successive che trattano l’arte come qualcosa che è stato importato
nell’esperienza dall’esterno.
Con lo sviluppo della Chiesa le arti furono di nuovo poste in connessione
con la vita umana e divennero un legame per unire gli uomini. Nelle sue
funzioni e nei suoi sacramenti, la Chiesa fece rivivere e riadattò in forma
solenne quanto vi era di più commovente in tutti i riti e in tutte le
cerimonie precedenti.
La Chiesa, ancor più dell’Impero romano, funse da centro di unità
durante la disintegrazione seguita la caduta di Roma. Lo storico della vita
intellettuale metterà in evidenza i dogmi della Chiesa; lo storico delle
istituzioni politiche, invece, lo sviluppo della legge e dell’autorità per
mezzo dell’istituzione ecclesiastica. Ma si può supporre con certezza che
l’in uenza che pesò nella vita quotidiana di gran parte della gente dandole
un senso di unità fosse costituita, più che da qualsiasi altra cosa, da
sacramenti, canti e immagini, riti e cerimonie, dotati tutti di una
componente estetica. Scultura, pittura, musica, lettere, si trovavano nel
luogo in cui veniva praticato il culto. Per i fedeli che si riunivano nel
tempio questi oggetti e questi atti erano molto più che opere d’arte. Con
ogni probabilità per loro erano opere d’arte assai meno di quanto non lo
siano oggi per credenti e non credenti. Ma per via della componente
estetica, gli insegnamenti religiosi erano trasmessi con la maggiore facilità e
il loro effetto era il più duraturo. In virtù dell’arte al loro interno, si
trasformarono da dottrine in esperienze vive.
Che la Chiesa fosse pienamente consapevole di questo effetto extra-
estetico dell’arte è reso evidente dall’attenzione con cui disciplinò le arti.
Così, nell’anno 787, il secondo Concilio di Nicea decretò uf cialmente
quanto segue: «Il contenuto delle scene religiose non è lasciato
all’iniziativa degli artisti; deriva dai principi stabiliti dalla Chiesa Cattolica
e dalla tradizione religiosa […]. L’arte soltanto appartiene al pittore; la sua
organizzazione e composizione appartiene al clero»286. La censura
auspicata da Platone assunse pienamente il controllo.
C’è un’affermazione di Machiavelli che mi è sempre sembrata
emblematica per lo spirito del Rinascimento. Egli ha scritto che, dopo aver
sbrigato le faccende del giorno, si ritirava nel suo studio e si lasciava
assorbire dalla letteratura classica dell’antichità287. Questa affermazione è
doppiamente simbolica. Da un lato, la cultura antica non veniva vissuta.
Poteva solo essere studiata. Come ha detto giustamente Santayana, la
civiltà greca oggi è un ideale da ammirare, non da realizzare288. Dall’altro
lato, la conoscenza dell’arte greca, soprattutto di architettura e scultura,
rivoluzionò la pratica delle arti, compresa la pittura. Venne riscoperto il
senso delle forme naturali degli oggetti e della loro collocazione nel
paesaggio naturale; nella scuola romana la pittura fu quasi il tentativo di
produrre i sentimenti suscitati dalla scultura, mentre la scuola orentina
sviluppò i valori peculiari intrinseci alla linea. Il cambiamento condizionò
sia la forma che la sostanza estetica. La mancanza di prospettiva, la qualità
delle super ci e dei pro li propria dell’arte ecclesiastica, il suo utilizzo
dell’oro e molte altre caratteristiche non si devono a una mera mancanza
di abilità tecnica. Si connettevano in modo organico alle particolari
interazioni interne all’esperienza umana che si desiderava che l’arte
generasse. Le esperienze secolari che stavano emergendo all’epoca del
Rinascimento e che si nutrivano di cultura antica, comportarono di
necessità la produzione di effetti che richiedevano una nuova forma
nell’ambito dell’arte. Ne derivò inevitabilmente l’estensione della sostanza
da soggetti biblici e vite di santi a raf gurazioni di scene della mitologia
greca e, quindi, a scene di vita contemporanea che risultavano
inevitabilmente capaci d’effetto sul piano sociale289.
Queste osservazioni sono intese semplicemente a illustrare il fatto che
ogni cultura ha la sua propria individualità collettiva. Come l’individualità
della persona da cui scaturisce un’opera d’arte, questa individualità
collettiva lascia la sua impronta indelebile sull’arte che viene prodotta.
Espressioni come arte delle isole dei Mari del Sud, degli indiani del Nord
America, dei negri, arte cinese, cretese, egiziana, greca, ellenistica,
bizantina, musulmana, gotica, rinascimentale, hanno davvero senso. Il
fatto innegabile dell’origine e della portata culturale collettiva delle opere
spiega il fatto, ricordato in precedenza, che l’arte è una tendenza interna
all’esperienza e non un’entità in se stessa. Questo fatto è stato però
trasformato in problema da una recente scuola di pensiero. Si afferma che,
poiché non possiamo riprodurre effettivamente l’esperienza di un popolo
lontano nel tempo e straniero per cultura, non possiamo fruire in modo
genuino l’arte che esso ha prodotto. Addirittura parlando dell’arte greca, si
sostiene che l’atteggiamento ellenico nei confronti della vita e del mondo
fosse così diverso dal nostro che il prodotto artistico della cultura greca è di
necessità per noi un libro chiuso dal punto di vista estetico.
Una replica a questa tesi è stata in parte già fornita. È senza dubbio vero
che l’esperienza globale dei greci davanti, diciamo, alla loro architettura,
scultura e pittura è tutt’altro che identica alla nostra. Alcune caratteristiche
della loro cultura erano transitorie; oggi non esistono, e queste
caratteristiche hanno preso corpo nella loro esperienza delle loro opere
d’arte. Ma l’esperienza è una questione che riguarda l’interazione del
prodotto artistico con il sé. Pertanto nemmeno oggi è uguale due volte per
persone diverse. Cambia con la medesima persona in momenti diversi
poiché la persona aggiunge qualcosa di diverso a un’opera. Ma non c’è
ragione per cui, per essere estetiche, queste esperienze debbano essere
identiche. Nella misura in cui in ciascun caso c’è un movimento ordinato
della materia dell’esperienza verso un compimento, c’è una qualità estetica
dominante. Au fond290, la qualità estetica è la medesima per greci, cinesi e
americani.
Ma questa replica non percorre la strada no in fondo. Infatti non fa
riferimento al complessivo effetto umano che esercita l’arte di una cultura.
Il problema, benché impostato in maniera sbagliata per quel che concerne
ciò che è distintamente estetico, fa emergere la domanda relativa a quel
che può signi care l’arte di un altro popolo per la nostra esperienza
complessiva. La tesi di Taine e della sua scuola, secondo cui bisogna
comprendere l’arte in termini di «razza, ambiente e momento»291, s ora la
questione, ma non fa che s orarla. Infatti tale comprensione può essere
puramente intellettuale, e pertanto a livello delle informazioni geogra che,
antropologiche e storiche da cui è accompagnata. Resta aperta la
questione del rilievo dell’arte straniera per l’esperienza caratteristica della
civiltà presente.
La natura del problema è suggerita dalla teoria di Hulme sulla differenza
fondamentale tra arte bizantina e musulmana da un lato, e arte greca e
rinascimentale dall’altro. Quest’ultima, dice Hulme, è vitale e naturalistica.
La prima è geometrica. Questa differenza, egli prosegue nella spiegazione,
non è connessa a differenze di capacità tecnica. L’abisso è costituito da una
differenza fondamentale di atteggiamento, di desiderio e scopo. Oggi
siamo abituati a provare soddisfazione in una certa maniera e riteniamo
che il nostro modo particolare di concepire desiderio e scopo sia così
intrinseco a tutta la natura umana da fornire la misura di tutte le opere
d’arte, costituendo l’esigenza a cui tutte le opere d’arte vanno incontro e
che tutte dovrebbero soddisfare. Noi abbiamo desideri radicati
nell’aspirazione a far crescere la vitalità esperita attraverso un rapporto
piacevole con le forme e i movimenti della “natura”. L’arte bizantina, e
certe altre forme di arte orientale, scaturiscono da un’esperienza che non
trae piacere dalla natura e non tende alla vitalità. Esse «esprimono un
senso di separazione nei confronti della natura esterna». Questo
atteggiamento caratterizza oggetti tanto diversi come la piramide egizia e il
mosaico bizantino. La differenza tra l’arte di questo genere e quella che è
caratteristica del mondo occidentale non può essere spiegata con
l’interesse per le astrazioni. Essa rende evidente l’idea di separazione, di
disarmonia, tra uomo e natura292.
Hulme ricapitola dicendo che «l’arte [...] non si può capire se presa a sé,
ma deve essere considerata come un elemento di un processo generale di
adattamento tra l’uomo e il mondo esterno»293. A prescindere dalla verità
della spiegazione di Hulme della differenza caratteristica tra gran parte
dell’arte orientale e occidentale (comunque dif cilmente applicabile
all’arte cinese), il suo modo di porre la questione mi sembra che sollevi il
problema generale nel suo giusto contesto suggerendone la soluzione.
Proprio perché l’arte, parlando dal punto di vista dell’in uenza della
cultura collettiva sulla creazione e sulla fruizione delle opere d’arte, dà
espressione a un atteggiamento di adeguamento profondamente radicato,
a un’idea e a un ideale basilare di atteggiamento umano in generale, l’arte
caratteristica di una civiltà è il mezzo per accedere in modo simpatetico
agli elementi più profondi interni all’esperienza di civiltà remote e
straniere. Con ciò si spiega pure l’importanza umana che le loro arti hanno
anche per noi. Esse provocano un ampliamento e un approfondimento
anche della nostra esperienza, rendendola meno locale e provinciale via via
che, per loro tramite, afferriamo gli atteggiamenti che sono alla base di
altre forme di esperienza. Quando non giungiamo agli atteggiamenti
espressi nell’arte di un’altra civiltà, i suoi prodotti sono d’interesse
unicamente per l’“esteta” oppure sono tali da non colpirci esteticamente.
In tal caso l’arte cinese sembra “bizzarra” per via dei suoi inconsueti
schemi prospettici; l’arte bizantina rigida e sgraziata; l’arte negra grottesca.
In riferimento all’arte bizantina ho messo il termine natura tra virgolette.
L’ho fatto perché nella letteratura estetica la parola “natura” ha un
signi cato particolare, indicato soprattutto dall’uso dell’aggettivo
“naturalistico”. Ma “natura” possiede anche un signi cato in base a cui
essa comprende l’intero piano delle cose – nel quale ha la forza della
parola immaginativa ed emotiva “universo”. Nell’esperienza relazioni,
istituzioni e tradizioni umane sono anch’esse parte della natura in cui e di
cui viviamo, al pari del mondo sico. La natura in questo signi cato non è
“esterna”. Essa è in noi e noi siamo in e di essa. Ma ci sono molti modi di
partecipare alla natura, e questi modi sono caratteristici non solo di diverse
esperienze del medesimo individuo, ma di modi di concepire aspirazione,
bisogno e successo che appartengono alle civiltà nel loro aspetto collettivo.
Le opere d’arte sono mezzi con cui, attraverso l’immaginazione e le
emozioni da loro suscitate, penetriamo all’interno di forme di relazione e
partecipazione diverse dalle nostre.
L’arte del tardo diciannovesimo secolo era caratterizzata dal
“naturalismo” in senso stretto. Le produzioni più caratteristiche dell’inizio
del ventesimo secolo erano segnate dall’in uenza dall’arte egiziana,
bizantina, persiana, cinese, giapponese e negra. Questa in uenza è
marcata in pittura, scultura, musica e letteratura. L’effetto dell’arte
“primitiva” e del primo medio evo è parte del medesimo movimento
generale. Il diciottesimo secolo ha idealizzato il buon selvaggio e la civiltà
di popoli lontani. Ma a prescindere dalle cineserie e da alcune fasi della
letteratura romantica, il senso di ciò che sta dietro le arti dei popoli
stranieri non ha avuto alcun effetto sull’arte effettivamente prodotta. Vista
in prospettiva, la cosiddetta arte pre-raffaellita in Inghilterra è quella più
tipicamente vittoriana di tutta la pittura di quel periodo. Invece negli
ultimi decenni, a partire dagli anni ’90, l’in uenza delle arti di culture
distanti è diventata parte intrinseca della creazione artistica.
Per molti, l’effetto è molto probabilmente super ciale in quanto limitato
all’offerta di un tipo di oggetti che sono piacevoli in parte per la loro novità
individuale e in parte per una qualità decorativa aggiunta. Ma l’idea di
spiegare la produzione di opere contemporanee con il mero desiderio
dell’insolito, o dell’eccentrico o magari del fascino, è più super ciale di
questo genere di piacere. La forza motrice è la partecipazione autentica, in
una certo grado e stadio, al tipo di esperienza di cui sono espressione gli
oggetti artistici primitivi, orientali e del primo medio evo. Laddove si
limitano a imitare opere straniere, le opere sono transitorie e banali. Ma
quando raggiungono il loro meglio esse provocano una fusione organica
tra atteggiamenti caratteristici dell’esperienza della nostra epoca e quelli di
popoli lontani. Infatti le nuove caratteristiche non sono mere aggiunte
decorative ma fanno parte della struttura delle opere d’arte e dunque
determinano un’esperienza più ampia e più piena. L’effetto duraturo che
esse producono su coloro che percepiscono e fruiscono sarà di ampliare in
loro sensibilità, immaginazione e senso.
Questo nuovo movimento dell’arte spiega l’effetto che sempre produce la
vera familiarità con l’arte creata da altri popoli. La comprendiamo nella
misura in cui la rendiamo parte dei nostri stessi atteggiamenti, non solo
grazie a una conoscenza condivisa relativa alle condizioni in cui è stata
prodotta. Otteniamo tale risultato quando, prendendo in prestito un
termine di Bergson, ci installiamo294 in modi di cogliere la natura che a
prima vista ci sono estranei. Fino a un certo grado anche noi diventiamo
artisti quando avviamo questa integrazione e, nel portarla a compimento,
la nostra stessa esperienza viene ri-orientata. Quando penetriamo nello
spirito dell’arte negra o polinesiana le barriere si dissolvono, i pregiudizi
restrittivi dileguano. Questa fusione impercettibile è molto più ef cace del
cambiamento determinato dal ragionamento, poiché entra direttamente
all’interno dell’atteggiamento.
La possibilità che si veri chi una comunicazione autentica è una
questione assai vasta di cui quella appena trattata non è che un caso
particolare. È un fatto che essa abbia luogo, ma che natura abbia la
condivisione dell’esperienza è uno dei problemi più seri della loso a –
talmente serio che alcuni loso negano questo fatto. L’esistenza della
comunicazione è così in contrasto con la nostra reciproca separazione
sica e con la vita mentale interna degli individui, che non sorprende che
al linguaggio sia stata attribuita una forza sovrannaturale e che a quella
condivisione sia stato dato valore sacramentale.
Inoltre, gli eventi familiari e consueti sono quelli sui quali siamo meno
inclini a ri ettere; li diamo per scontati. Essendoci tanto vicini, attraverso
gestualità e mimica, sono anche i più dif cili da osservare. La
comunicazione mediante il discorso, orale e scritto, è l’aspetto familiare e
costante della vita sociale. Di conseguenza, tendiamo a considerarla come
un semplice fenomeno tra altri di ciò che dobbiamo comunque accettare
senza discutere. Sorvoliamo sul fatto che sia la base e la fonte di ogni
attività e relazione che contraddistingue l’intima unione reciproca tra
esseri umani. I nostri contatti reciproci sono in gran parte esterni e
meccanici. C’è un “campo” in cui essi hanno luogo, un campo de nito e
perpetuato da istituzioni giuridiche e politiche. Ma la coscienza di questo
campo non penetra nella nostra azione congiunta come sua forza di
integrazione e controllo. Le relazioni reciproche delle nazioni, le relazioni
tra chi investe e chi lavora, tra produttori e consumatori, sono interazioni
che costituiscono solo in misura limitata forme di rapporto comunicativo.
Ci sono interazioni tra le parti coinvolte, ma sono talmente esterne e
parziali che ne subiamo le conseguenze senza integrarle in un’esperienza.
Sentiamo parlare, ma è quasi come se stessimo ascoltando una babele di
lingue. Non ci accorgiamo di signi cato e valore. In questi casi non c’è
comunicazione, né alcun risultato della condivisione dell’esperienza che si
ha solo quando il linguaggio in tutta la sua portata vince isolamento sico
e contatto esteriore. L’arte è una modalità di linguaggio più universale di
quanto non lo sia il discorso che esiste in una molteplicità di forme
incomprensibili l’una per l’altra. Il linguaggio dell’arte deve essere
acquisito. Ma non è in uenzato dagli eventi della storia che segnano le
diverse modalità del discorso umano. In particolare, la capacità della
musica di fondere individualità differenti in un abbandono, in una
dedizione e ispirazione comuni, capacità sfruttata sia in religione che in
guerra, testimonia l’universalità relativa del linguaggio dell’arte. Le
differenze tra lingua inglese, francese e tedesca creano barriere che
vengono travolte quando parla l’arte.
Parlando loso camente, il problema che abbiamo affrontato è la
relazione tra discreto e continuo. Entrambi sono fatti irriducibili e tuttavia
devono incontrarsi e fondersi in una qualche associazione umana che si
eleva al di sopra del puro e semplice rapporto. Per giusti care la
continuità, gli storici spesso hanno fatto ricorso a un metodo erroneamente
de nito “genetico”, in cui non c’è autentica genesi poiché ogni cosa si
risolve in ciò che è accaduto prima. Ma la civiltà e l’arte egizie non furono
solo una preparazione dell’arte e della civiltà greche, né il pensiero e l’arte
dei greci furono meramente la riedizione di versioni delle civiltà alle quali
attinsero a piene mani. Ogni cultura possiede una propria individualità e
uno schema che lega insieme le sue parti.
Ciò nonostante, quando l’arte di un’altra cultura entra a far parte degli
atteggiamenti che determinano la nostra esperienza, si realizza una vera
continuità. In tal caso la nostra propria esperienza non perde la sua
individualità, ma assume in sé e sposa elementi che ne ampliano la
signi catività. Si creano una comunione e una continuità che non esistono
sicamente. Il tentativo di stabilire continuità con metodi che risolvono
una serie di eventi e una serie di istituzioni in serie che le l’hanno
preceduta nel tempo, è condannato al fallimento. Solo se l’esperienza
viene ampliata assimilando al suo interno i valori esperiti in forza di
atteggiamenti vitali diversi da quelli che derivano dal nostro speci co
ambiente umano, l’effetto della discontinuità svanisce.
Il problema in questione non è diverso da quello con cui ci misuriamo
quotidianamente quando ci sforziamo di comprendere un’altra persona
che frequentiamo abitualmente. Ogni amicizia è una soluzione di questo
problema. Amicizia e profondo affetto non sono il risultato di quanto
sappiamo di un’altra persona sebbene la conoscenza possa favorirne la
formazione. Ma lo fa solo quando diventa parte integrante della simpatia
attraverso l’immaginazione. È quando i suoi desideri e le sue intenzioni, i
suoi interessi e i suoi modi di reagire diventano un ampliamento del nostro
stesso essere che noi comprendiamo un’altra persona. Impariamo a vedere
con i suoi occhi, a udire con le sue orecchie, e ciò che ne risulta è davvero
istruttivo poiché fa corpo con la nostra stessa struttura. Ho scoperto che
per no il dizionario evita di de nire il termine “civiltà”. De nisce la civiltà
come lo stato di essere civilizzati e “civilizzato” come «essere in uno stato
di civiltà». Peraltro il verbo “civilizzare” viene de nito come «istruire nelle
arti della vita e pertanto innalzare nella scala della civiltà»295. Istruire nelle
arti della vita è qualcosa di diverso dal trasmettere informazioni su di esse.
Ha a che fare con il comunicare e partecipare valori di vita attraverso
l’immaginazione, e le opere d’arte sono il mezzo più profondo e potente
per aiutare gli individui a condividere le arti del vivere. La civiltà è incivile
nella misura in cui gli esseri umani sono divisi in sette, razze, nazioni, classi
e consorterie che non comunicano.
La breve descrizione sommaria di alcune fasi storiche della connessione
tra arte e vita della comunità delineata precedentemente in questo capitolo
fa emergere un contrasto con le attuali condizioni. Non basta dire che
l’assenza di palese connessione organica tra le arti e altre forme di cultura
si spiega con la complessità della vita moderna, con le sue molteplici
specializzazioni e con l’esistenza contemporanea di molti centri diversi di
cultura in nazioni differenti, che si scambiano i rispettivi prodotti senza
però formare le parti di un intero sociale complessivo. Queste cose sono
abbastanza reali ed è facile rilevarne l’effetto sulla situazione dell’arte in
relazione alla civiltà. Ma il fatto signi cativo è la diffusa disgregazione.
Noi ereditiamo molto dalle culture del passato. L’in uenza della scienza
e della loso a greca, del diritto romano, della religione di origine ebraica,
sulle nostre istituzioni, credenze e maniere di pensare e di sentire attuali è
n troppo nota per dovervi fare più che un accenno. A rafforzare l’azione
di questi fattori sono intervenute due forze la cui origine è chiaramente
tarda e che costituiscono il “moderno” nell’epoca presente. Queste due
forze sono la scienza naturale e la sua applicazione nell’industria e nel
commercio attraverso le macchine, e l’uso di forme di energia non umane.
La questione del posto e del ruolo dell’arte nella civiltà contemporanea
esige dunque che si presti attenzione alle sue relazioni con la scienza e con
le conseguenze sociali dell’industria meccanizzata. L’isolamento dell’arte
cui oggi si assiste non va inteso come un fenomeno isolato. È una delle
manifestazioni della mancanza di coesione della nostra civiltà prodotta da
nuove forze, così nuove che gli atteggiamenti che esse determinano e le
conseguenze che ne derivano non sono stati assimilati e metabolizzati in
elementi che integrano l’esperienza.
La scienza ha portato con sé una concezione radicalmente inedita della
natura sica e della nostra relazione con essa. Questa nuova concezione
tuttavia si af anca alla concezione del mondo e dell’uomo ereditata dal
passato, in particolare da quella tradizione cristiana attraverso la quale si è
formata l’immaginazione sociale tipica dell’Europa. Le cose del mondo
sico e quelle del regno morale si sono separate, mentre la tradizione greca
e quella medievale le tenevano strettamente unite – sebbene in questi due
periodi tale unione fosse ottenuta con mezzi differenti. L’opposizione a cui
oggi si assiste tra gli elementi spirituali e ideali della nostra eredità storica e
la struttura della natura sica svelata dalla scienza è la fonte ultima del
dualismo di cui ha parlato la loso a a partire da Descartes e Locke.
Questi modi di esprimersi ri ettono a loro volta un con itto in atto
ovunque nella civiltà moderna. Da un certo punto di vista, il problema di
restituire un posto organico all’arte all’interno della civiltà è simile al
problema di riorganizzare la nostra eredità del passato e ciò che ha colto la
conoscenza attuale in una unione immaginativa coesa e integrata.
Il problema è così acuto e ha in uenze di così ampia portata, che
qualsiasi soluzione proponibile è un’anticipazione che, al meglio, può
trovare realizzazione solo nel corso degli eventi. Il metodo scienti co
attualmente praticato è troppo nuovo per essere naturalizzato
nell’esperienza. Ci vorrà molto tempo prima che penetri nel sottosuolo
della mente diventando così parte integrante della credenza e del modo di
pensare collettivo. Finché ciò non accade, sia il metodo che le conclusioni
resteranno proprietà di esperti specializzati ed eserciteranno la loro
in uenza generale solo producendo un impatto estrinseco e più o meno
disgregante sulle credenze e applicazioni pratiche egualmente estrinseche.
Ma anche oggi l’effetto deleterio esercitato dalla scienza
sull’immaginazione può essere ampli cato. È vero che la scienza sica
priva i suoi oggetti delle qualità che danno piena intensità e pieno pregio
agli oggetti e alle situazioni dell’esperienza comune, lasciando il mondo,
stando a come lo presenta la scienza, privo dei tratti che ne hanno sempre
costituito il valore immediato. Ma il mondo dell’esperienza immediata in
cui opera l’arte resta esattamente ciò che era. Né è possibile utilizzare il
fatto che la scienza sica ci ponga davanti oggetti totalmente indifferenti al
desiderio e all’aspirazione degli uomini per annunciare che è imminente la
morte della poesia. Gli uomini sono sempre stati consapevoli che nella
situazione in cui si trovano le loro vite molto si oppone a ciò che loro si
pre ggono. Le masse dei diseredati non si sarebbero mai sorprese
sentendo affermare che il mondo attorno a loro è indifferente alle loro
speranze.
Il fatto che la scienza tenda a mostrare che l’uomo è parte della natura ha
un effetto favorevole, non sfavorevole, per l’arte nel momento in cui se ne
coglie il senso intrinseco e non se ne interpreta più il signi cato in base al
contrasto con le credenze che ci derivano dal passato. Infatti, più l’uomo
viene avvicinato al mondo sico, più chiaro diventa che i suoi impulsi e le
sue idee sono decretati dalla natura che è in lui. Nelle sue attività vitali
l’umanità ha sempre agito in base a tale principio. La scienza dà supporto
intellettuale a questo modo di agire. Il senso della relazione tra natura e
uomo è sempre stato in qualche modo lo spirito che ha animato l’arte.
Inoltre, resistenza e con itto sono sempre stati fattori presenti nella
generazione dell’arte; e come abbiamo visto, sono una parte necessaria
della forma artistica. Né un mondo completamente ostile e astioso nei
confronti dell’uomo, né un modo congeniale ai suoi voleri al punto da
grati care tutti i desideri, è un mondo in cui può nascere arte. I racconti
abeschi che narrano di situazioni di questo tipo smetterebbero di piacere
se non fossero più racconti abeschi. L’attrito è necessario per generare
energia estetica tanto quanto lo è per fornire l’energia che aziona le
macchine. Una volta che le credenze più antiche abbiano perduto la loro
presa sull’immaginazione – e hanno fatto sempre presa qui, non sulla
ragione – la scoperta da parte della scienza della resistenza che l’ambiente
oppone all’uomo fornirà nuovi materiali alle belle arti. Anche oggi è grazie
alla scienza se lo spirito umano è più libero. Essa ha suscitato una curiosità
più avida e ha fortemente risvegliato, almeno in alcuni, un vivo interesse
per l’osservazione relativamente a cose della cui esistenza prima non
eravamo nemmeno consapevoli. Il metodo scienti co tende a suscitare
rispetto per l’esperienza e, benché sia ancora circoscritta a quei pochi,
questa nuova considerazione porta in sé la promessa di un nuovo tipo di
esperienze che richiederà espressione.
Chi può prevedere che cosa accadrà quando la prospettiva sperimentale
si sarà completamente acclimatata in una cultura comune? Acquisire una
prospettiva che si proietti sul futuro è un compito assai dif cile. Di solito
consideriamo gli aspetti più notevoli e problematici in un dato momento
come indizi del futuro. Pensiamo quindi all’effetto futuro della scienza in
termini tratti dalla situazione presente in cui essa occupa una posizione di
con itto e di disgregazione rispetto alle grandi tradizioni del mondo
occidentale, come se tali termini ne de nissero il posto necessariamente e
per sempre. Ma per giudicare in maniera corretta dobbiamo guardare alla
scienza per come saranno le cose quando l’atteggiamento sperimentale
sarà completamente naturalizzato. E l’arte sarà in particolare sempre
confusa, se non addirittura debole ed eccessivamente ricercata, se non
troverà come suo materiale cose familiari.
Fin qui l’effetto della scienza per quel che concerne pittura, poesia e
romanzo è stato di diversi carne materiali e forme invece che di dare
origine a una sintesi organica. Dubito che ci sia mai stato in qualsiasi
tempo un certo numero di persone che «abbia visto la vita con fermezza e
per intero»296. E, nel caso peggiore, è già qualcosa essere stati liberati da
sintesi dell’immaginazione che andavano nella direzione opposta a quella
delle cose. Avere acquisito un rinnovato senso del valore per l’esperienza
estetica di moltissime cose in precedenza tenute fuori dalla porta, è una
sorta di compensazione per chi si trova nel miscuglio odierno di oggetti
d’arte. Le spiagge per bagnanti, gli angoli delle strade, i ori e i frutti, i
bimbi e i banchieri della pittura contemporanea sono dopo tutto più che
meri oggetti sparsi e sconnessi. Infatti sono i frutti di un nuovo modo di
vedere297.
In ogni epoca gran parte dell’“arte” prodotta mi sembra sia stata banale
e aneddotica. La mano del tempo ne ha spazzata via molta, mentre oggi in
una mostra ce la troviamo davanti en masse298. Malgrado ciò il fatto che la
pittura e le altre arti si siano ampliate no a includere materia che un
tempo era considerata o troppo comune o troppo eccentrica per meritare
riconoscimento artistico, è un guadagno permanente. Questo ampliamento
non è direttamente effetto della nascita della scienza. È però un prodotto
delle medesime condizioni che hanno portato a rivoluzionare la prassi
scienti ca.
Una dispersione e una mancanza di coesione come quelle a cui
assistiamo oggi in arte sono la manifestazione della disgregazione
dell’accordo sulle credenze. La maggiore integrazione nella materia e nella
forma delle arti dipende di conseguenza da un cambiamento generale
nella cultura in direzione di atteggiamenti che si crede risiedano
naturalmente alla base della civiltà e che formano il sottosuolo di credenze
e sforzi coscienti. Una cosa è certa; l’unità non si può raggiungere
predicando il bisogno di ritornare al passato. La scienza è qui, e una nuova
integrazione deve tenerne conto e includerla.
La presenza più diretta e diffusa della scienza nella civiltà attuale si trova
nelle sue applicazioni nell’industria. Qui ci si imbatte in un problema
relativo alla relazione dell’arte con la civiltà attuale e con la sua prospettiva
che è più serio che non nel caso della scienza stessa. Il divorzio tra arte
utile e arte bella è anche più signi cativo del distacco della scienza dalle
tradizioni del passato. La loro differenza non ha avuto inizio in tempi
moderni. Essa risale no ai greci, quando le arti utili venivano prodotte da
schiavi e “vili meccanici” e condividevano la bassa stima in cui erano
tenuti questi ultimi. Architetti, costruttori, scultori, pittori ed esecutori
musicali erano artigiani. Solo coloro che operavano nel medium delle
parole erano apprezzati come artisti, poiché le loro attività non
comportano l’uso di mani, attrezzi e materiali sici. Ma la produzione di
massa mediante mezzi meccanici ha impresso una svolta decisamente
nuova all’antica separazione tra utile e bello. Questa divisione è accentuata
dalla maggiore importanza oggi attribuita a industria e commercio
nell’organizzazione complessiva della società.
Il meccanico si colloca al polo opposto rispetto all’estetico, e la
produzione di beni oggi è meccanica. La libertà di scelta di cui godeva
l’artigiano che lavorava manualmente è quasi svanita con l’uso generale
della macchina. La produzione di oggetti da cui trae piacere direttamente
nella propria esperienza chi possiede in qualche misura la capacità di
produrre cose utili che esprimono valori individuali, è diventata una
questione speci ca distinta dal generale processo di produzione. Questo
fatto probabilmente è il fattore più importante per lo statuto dell’arte nella
civiltà attuale.
Ci sono, tuttavia, certe considerazioni che dovrebbero impedire di
concludere che le condizioni industriali rendono impossibile integrare
l’arte nella civiltà. Non riesco a essere d’accordo con chi pensa che un
effettivo ed economico adattamento reciproco delle parti di un oggetto in
funzione dell’uso abbia come esito automatico la “bellezza” o l’effetto
estetico. Ogni oggetto ben costruito, ogni macchina ben costruita, ha una
forma, ma c’è forma estetica solo quando l’oggetto dotato di questa forma
esterna si confà a un’esperienza più ampia. Non si può non tenere conto
dell’interazione del materiale di questa esperienza con l’utensile o la
macchina. Ma un’adeguata relazione oggettiva delle parti in funzione
dell’uso più ef ciente determina quanto meno una condizione che è
favorevole alla fruizione estetica. Elimina ciò che è fortuito e super uo.
C’è qualcosa di armonioso in senso estetico in un pezzo meccanico che ha
una struttura logica che lo rende adeguato alla sua funzione, e la
lucentezza dell’acciaio e del rame essenziale per una buona prestazione è
intrinsecamente piacevole nella percezione. Se si confrontano i prodotti
commerciali attuali con quelli di anche vent’anni fa, si resta colpiti dal
grande miglioramento per quel che concerne forma e colore. Il passaggio
dai vecchi vagoni di legno della Pullman, con le loro decorazioni
inutilmente ingombranti, alle attuali carrozze d’acciaio, rende bene ciò che
intendo. L’architettura esterna degli appartamenti di città continua ad
assomigliare a una scatola, ma all’interno si assiste quasi a una rivoluzione
estetica dovuta a un miglior adattamento alle necessità.
Una considerazione più importante è che le condizioni ambientali
dell’industria concorrono a creare quell’esperienza più ampia al cui
interno particolari prodotti si inseriscono in modo da acquisire qualità
estetica. Naturalmente questa osservazione non si riferisce alla distruzione
delle bellezze naturali del paesaggio dovuta a orrendi stabilimenti e ai loro
dintorni anneriti, né ai quartieri poveri che si sono formati attorno alle città
sulla scia della produzione meccanizzata. Voglio dire che le abitudini
dell’occhio come strumento di percezione si stanno lentamente
modi cando per l’abitudine a fogge tipiche di prodotti industriali e ad
oggetti che appartengono alla vita urbana in quanto distinta da quella
rurale. I colori e i piani ai quali l’organismo risponde abitualmente
sviluppano nuovo materiale per l’interesse. Il ruscello che scorre, i verdi
tappeti, le forme associate a un ambiente rurale, stanno perdendo il posto
di materiale primario dell’esperienza. Almeno una parte del cambio di
atteggiamento che nell’ultima ventina d’anni in pittura ha portato a gure
“moderniste” è il risultato di questa trasformazione. Anche gli oggetti del
paesaggio naturale niscono con l’essere “appercepiti” nei termini delle
relazioni spaziali caratteristiche di oggetti il cui disegno si deve a
produzioni di tipo meccanico; edi ci, mobili, merci. In un’esperienza
satura di questi valori, gli oggetti che hanno al loro interno modi peculiari
di adattarsi alla propria funzione si riveleranno adeguati in modo tale da
produrre risultati estetici.
Ma poiché l’organismo per sua natura ha fame di appagamento nel
materiale dell’esperienza, e poiché gli ambienti prodotti dall’uomo, sotto
l’in uenza dell’industria moderna, sono meno soddisfacenti e più
repellenti che in qualsiasi epoca precedente, è n troppo evidente che c’è
ancora un problema da risolvere. La fame che ha l’organismo di trovare
appagamento attraverso l’occhio è a mala pena inferiore al suo pressante
bisogno di cibo. In effetti molti contadini hanno prestato cura maggiore
alla coltivazione di un’aiuola orita che non alla produzione di ortaggi da
mangiare. In tal caso devono essere attive forze che agiscono sui mezzi
meccanici di produzione che sono esterne al funzionamento delle stesse
macchine. Queste forze si trovano, ovviamente, nel sistema economico
della produzione per il vantaggio privato.
Il problema della mano d’opera e dell’occupazione di cui siamo tutti
fortemente consapevoli non si può risolvere solo modi cando salari, orari
di lavoro e condizioni sanitarie. Non è possibile alcuna soluzione duratura
che non passi da una trasformazione sociale radicale che incida sul grado e
sul tipo di partecipazione del lavoratore alla produzione e alla
distribuzione sociale delle merci che egli produce. Solo un cambiamento
di questo genere modi cherà sul serio il contenuto dell’esperienza in cui
rientra la creazione di oggetti prodotti per l’uso. E questa modi cazione
della natura dell’esperienza è l’elemento che da ultimo determina la
qualità estetica dell’esperienza delle cose prodotte. L’idea che il problema
di base possa risolversi solo aumentando le ore di svago è assurda. Un’idea
simile non fa che perpetuare la vecchia divisione dualistica tra lavoro e
piacere.
La questione importante è un cambiamento che riduca la forza della
pressione esterna e aumenti quella del senso di libertà e di interesse
personale negli atti produttivi. Il controllo oligarchico dall’esterno sui
processi e sui prodotti del lavoro è la principale forza che impedisce al
lavoratore di nutrire quell’interesse personale in ciò che egli fa e realizza
che è un prerequisito essenziale della soddisfazione estetica. Non c’è nulla
nella natura della produzione meccanica per se299 che costituisca un
ostacolo insormontabile a che i lavoratori abbiano coscienza del signi cato
di ciò che fanno e godano delle soddisfazioni dell’agire insieme e dello
svolgere bene un lavoro utile. Sono le condizioni psicologiche dovute al
controllo da parte di un singolo del lavoro di altri uomini al ne di un
pro tto personale, e non leggi psicologiche o economiche sse, le forze
che sopprimono e limitano la qualità estetica nell’esperienza che
accompagna processi di produzione.
Finché l’arte sarà il salone di bellezza della civiltà, né l’arte né la civiltà
saranno al sicuro. Perché l’architettura delle nostre grandi città è così
indegna di una civiltà bella? Non è per mancanza di materiali, né per
mancanza di capacità tecnica. Eppure non solo i quartieri poveri ma anche
gli appartamenti dei benestanti sono esteticamente ripugnanti poiché privi
di immaginazione. Il loro carattere è determinato da un sistema economico
in cui la terra viene utilizzata – e tenuta inutilizzata – in funzione del
guadagno, per il pro tto che deriva da af tto o vendita. Finché la terra
non sarà liberata da questo peso economico, si potranno erigere
occasionalmente edi ci belli, ma ci saranno poche speranze che si
comincino a costruire in generale strutture architettoniche degne di una
nobile civiltà. La limitazione che grava sul costruire incide indirettamente
su un gran numero di arti apparentate, mentre le forze sociali che
in uiscono sugli edi ci dove viviamo e svolgiamo il nostro lavoro agiscono
su tutte le arti.
Auguste Comte disse che il grande problema del nostro tempo è di
organizzare il proletariato all’interno del sistema sociale300. È
un’osservazione ancor più vera oggi di quando è stata fatta. Questo
compito non può essere assolto da una rivoluzione che si arresti prima di
colpire l’immaginazione e le emozioni dell’uomo. I valori che portano a
produrre l’arte e a goderne in maniera intelligente devono essere assimilati
nel sistema delle relazioni sociali. Mi sembra che buona parte della
discussione sull’arte non centri il punto poiché confonde l’intento
personale e deliberato di un artista con la posizione e la funzione dell’arte
nella società. In verità l’arte stessa non sarà al sicuro nelle condizioni
moderne nché la massa di uomini e donne che svolgono il lavoro utile del
mondo non avrà l’opportunità di essere libera di guidare i processi di
produzione e non sarà pienamente dotata della capacità di godere dei
frutti del lavoro collettivo. Che il materiale per l’arte debba essere tratto da
ogni e qualunque fonte, e che i prodotti dell’arte debbano essere
accessibili a tutti, è un’esigenza al cospetto della quale l’intenzione politica
personale dell’artista risulta insigni cante.
È possibile discutere con intelligenza la funzione morale e quella umana
dell’arte solo nel contesto della cultura. Una particolare opera d’arte può
avere un effetto determinato su una persona particolare o su diverse
persone. L’effetto sociale dei romanzi di Dickens o di Sinclair Lewis è
tutt’altro che trascurabile. Ma dall’ambiente complessivo che si crea con
l’arte collettiva di un’epoca deriva un adattamento costante dell’esperienza
che è meno cosciente e più di massa. Esattamente come la vita sica non
può esistere senza il supporto di un ambiente sico, così la vita morale non
può procedere senza il supporto di un ambiente morale. Anche le arti
tecnologiche, complessivamente, fanno qualcosa di più che fornire alcuni
beni e servizi distinti. Esse danno una forma a occupazioni collettive
determinando così la direzione di interesse e attenzione, e quindi
condizionano desideri e scopi.
Il più nobile degli uomini che vivesse in un deserto assorbirebbe
qualcosa della sua durezza e sterilità, mentre la nostalgia dell’uomo
cresciuto sulle montagne che è stato strappato al suo ambiente è la prova
di quanto profondamente l’ambiente è divenuto parte del suo essere. Né il
selvaggio né l’uomo civilizzato sono ciò che sono per costituzione innata,
ma per la cultura a cui partecipano. La misura decisiva della qualità di
quella cultura è il orire delle arti. Per quel che concerne l’in uenza che
esercitano, le cose insegnate direttamente attraverso parola e precetto sono
deboli e inef caci. Shelley non esagerava quando diceva che la scienza
morale semplicemente «ordina gli elementi che la poesia ha creato»301,
purché si ampli “poesia” includendovi tutti i prodotti dell’esperienza
immaginativa. La somma totale dell’effetto di tutti i trattati che ri ettono
sulla morale è insigni cante a confronto dell’in uenza sulla vita di
architettura, romanzo, teatro, e diventa importante quando i prodotti
“intellettuali” mettono in formula le tendenze di queste arti dandovi una
base intellettuale. Un esame razionale “interno” è segno di fuga dalla
realtà, sempre che non sia un ri esso di potenti forze circostanti. Le arti
della politica e dell’economia che possono procurare sicurezza e
competenza non garantiscono una vita umana ricca e abbondante, a meno
che non siano accompagnate dal orire delle arti che sono decisive per la
cultura.
Le parole forniscono una testimonianza di ciò che è avvenuto e,
mediante richieste e ordini, danno una direzione a particolari azioni
future. La letteratura trasmette il signi cato del passato che è rilevante
nell’esperienza attuale e preannuncia il movimento più ampio del futuro.
Solo la visione immaginativa fa emergere le possibilità che sono intrecciate
nel tessuto del presente. Nelle opere d’arte si trovano sempre i primi
sintomi di insoddisfazione e i primi presagi di un futuro migliore. Il fatto
che l’arte tipicamente nuova di un periodo sia pregna di un senso di valori
differenti da quelli prevalenti, è la ragione per cui un conservatore trova
tale arte immorale e vile, ed è la ragione per cui egli ricorre ai prodotti del
passato per trovare appagamento estetico. La scienza che si occupa di fatti
può raccogliere statistiche e redigere tabelle. Ma le sue previsioni, come è
stato giustamente detto, non sono che storia passata a rovescio. Il
cambiamento di clima dell’immaginazione precorre i cambiamenti che
interessano più che i dettagli della vita.
Le teorie che attribuiscono all’arte effetto e intento morale diretto sono
inadeguate perché non tengono conto della civiltà collettiva che costituisce
il contesto in cui le opere d’arte vengono prodotte e fruite. Non direi che
tendono a trattare le opere d’arte come una sorta di favola di Esopo
sublimata. Ma tendono tutte a estrarre opere particolari, ritenute
particolarmente edi canti, dal loro milieu e a concepire la funzione morale
dell’arte nei termini di una relazione strettamente personale tra le opere
scelte e un particolare individuo. Tutta la loro concezione della morale è
talmente individualistica che perdono il senso del modo in cui l’arte
esercita la propria funzione umana.
Il detto di Matthew Arnold secondo cui «la poesia è critica della vita»302
è un esempio appropriato. Esso suggerisce al lettore un intento morale da
parte del poeta e un giudizio morale da parte del lettore. Non riesce a
vedere, o comunque a dire, come la poesia sia una critica della vita; ossia,
non per via diretta ma rivelando, rivolgendo la visione immaginativa
all’esperienza immaginativa (non a un giudizio prestabilito) di possibilità
che contrastano con le condizioni reali. Sentire possibilità che sono
irrealizzate e che potrebbero realizzarsi è, se posto in contrasto con le
condizioni reali, la “critica” più penetrante che si possa fare di queste
ultime. È sentendo possibilità che si aprono davanti a noi che diventiamo
consapevoli delle costrizioni che ci accerchiano e dei pesi che ci
opprimono.
Garrod, sotto più di un aspetto seguace di Matthew Arnold, ha
argutamente affermato che ciò che ci irrita della poesia didattica non è il
fatto che insegna, ma il fatto che non insegna, ossia la sua incompetenza.
A tal riguardo Garrod ha aggiunto che la poesia insegna come fanno gli
amici e la vita, essendo, e non esprimendo un intento. Altrove dice: «I
valori poetici sono, dopotutto, valori in una vita umana. Non li si riesce a
distinguere da altri valori, come se la natura dell’uomo fosse costruita a
scomparti»303. Non penso che si possa superare quel che ha detto Keats in
una delle sue lettere sul modo in cui agisce la poesia. Egli chiede quale
risultato si otterrebbe se ogni uomo, come fa il ragno quando tesse la sua
tela, costruisse con la sua esperienza immaginativa una «cittadella fatta
d’aria», riempiendo «l’aria delle proprie circolari volute di squisita
bellezza». Infatti, dice, «l’uomo non dovrebbe mettersi a discutere né a
fare affermazioni, ma dovrebbe sussurrare ciò che ha scoperto al proprio
vicino e così succhiando da ogni germe di spirito la linfa della matrice
immateriale, ogni uomo si farebbe grande, e l’Umanità invece di essere
una landa sconsolata di eriche e di rovi con qua e là un raro Pino o una
lontana Quercia sarebbe una grande democratica Foresta di Alberi»304.
È per il modo di comunicare che l’arte diventa l’organo supremo
dell’istruzione, ma questo modo è così distante da quello solitamente
associato all’idea di istruzione, è un modo che eleva l’arte così al di sopra
di ciò che abitualmente si crede sia l’istruzione, che ci infastidisce ogni
traccia di insegnamento e apprendimento collegata all’arte. Ma il nostro
fastidio è di fatto ri esso di un’educazione che procede con metodi tanto
prosaici da escludere l’immaginazione e che non tocca i desideri e le
emozioni degli uomini. Come ha detto Shelley, «il grande strumento del
bene morale è l’immaginazione; e la poesia raggiunge l’effetto agendo sulla
causa». Da ciò deriva, egli prosegue, che «un poeta farebbe male a dar
corpo alle sue concezioni delle cose giuste e delle cose errate, che sono di
solito quelle del suo tempo e del suo luogo, in creazioni poetiche [...]. Con
l’assunzione del compito più modesto [...] egli rinuncerebbe alla gloria di
partecipare alla causa» – l’immaginazione. Sono i poeti minori che «hanno
ostentato spesso uno scopo morale, e l’effetto della loro poesia è diminuito
esattamente in proporzione al grado in cui essi ci costringono a far
riferimento a questo scopo». Ma la forza della proiezione immaginativa è
talmente grande che Shelley de nisce i poeti «i fondatori della società
civile»305.
Il problema della relazione tra arte e morale troppo spesso viene trattato
come se riguardasse esclusivamente l’arte. In pratica si suppone che la
morale sia convincente in teoria se non nei fatti, e che l’unica questione sia
se e in quali modi l’arte debba conformarsi a un sistema morale già
sviluppato. Invece ciò che ha affermato Shelley va al cuore della questione.
L’immaginazione è lo strumento principale del bene. È quasi un luogo
comune dire che i modi in cui una persona considera e tratta i propri simili
dipendono dalla sua capacità di mettersi con l’immaginazione al loro
posto. Ma il primato dell’immaginazione si estende ben oltre la portata
delle relazioni personali dirette. Eccetto laddove il termine “ideale” si usa
per ossequio alla convenzione o per designare una rêverie sentimentale, i
fattori ideali delle prospettive morali e della lealtà umana sono sempre
immaginativi. L’alleanza storica tra religione e arte affonda le sue radici in
questa qualità comune. Da ciò deriva che l’arte è più morale dei sistemi
morali. Infatti questi ultimi sono, o tendono a diventare, consacrazioni
dello status quo306, ri essi del costume, sostegni dell’ordine costituito. I
profeti morali dell’umanità sono sempre stati poeti anche se parlavano in
versi liberi o per parabole. Di regola, però, la loro intuizione di possibilità è
stata convertita presto in una proclamazione di fatti già esistenti e
consolidata in istituzioni semi-politiche. Gli ideali da loro esposti con
l’immaginazione intesi a tenere sotto controllo pensieri e desideri sono stati
trattati come norme politiche. L’arte è stata il mezzo per tenere vivo il
senso di scopi che superano l’evidenza e di signi cati che trascendono
abitudini irrigidite.
Alla morale viene assegnato un compartimento particolare nella teoria e
nella pratica poiché ri ette le divisioni che hanno preso corpo nelle
istituzioni economiche e politiche. Ovunque esistano divisioni e barriere
sociali, pratiche e idee che vi corrispondono determinano mete e limiti,
sicché l’azione libera viene sottoposta a restrizioni. L’intelligenza creativa è
considerata con dif denza; le innovazioni che sono l’essenza
dell’individualità sono temute, e allo slancio generoso si pongono vincoli di
modo che non turbi la pace. Se l’arte fosse un potere riconosciuto nella
società umana e non fosse trattata come ciò che procura piacere in un
momento di svago o come strumento di esibizione ostentata, e se si
comprendesse che la morale coincide con ogni aspetto di valore che è
condiviso nell’esperienza, il “problema” della relazione tra arte e morale
non esisterebbe.
L’idea e la pratica della moralità sono infarcite di concetti che derivano
da lode e biasimo, ricompensa e punizione. L’umanità si divide in pecore e
capre, corrotti e virtuosi, rispettosi della legge e criminali, buoni e cattivi.
Essere al di là del bene e del male è qualcosa di impossibile per l’uomo,
eppure nché il bene signi cherà solo ciò che si loda e si premia, e il male
ciò che generalmente si condanna o si mette fuori legge, i fattori ideali
della moralità saranno sempre e dovunque al di là del bene e del male.
Essendo completamente priva di idee che derivano da lode e biasimo,
l’arte è guardata con occhi sospettosi dai custodi del costume, oppure
viene approvata con riluttanza solo l’arte in sé tanto vecchia e “classica” da
ricevere lodi convenzionali, posto che, come ad esempio nel caso di
Shakespeare, dall’opera dell’autore si possano ingegnosamente estrarre
segni di rispetto per la moralità convenzionale. Ma è questa indifferenza
per lode e biasimo dovuta all’interessamento per l’esperienza
dell’immaginazione a costituire il cuore della potenza morale dell’arte. Da
essa viene il potere liberatorio e uni catore dell’arte.
Come ha detto Shelley, «il grande segreto della morale è l’amore, o la
facoltà di venir fuori dalla propria natura e di identi carsi con il bello che
esiste in altri pensieri, azioni, persone. Per essere realmente buono, un
uomo deve avere un’immaginazione intensa e pregnante»307. Quel che è
vero dell’individuo è vero dell’intero sistema della morale in teoria e in
pratica. Mentre percepire l’unione del possibile con il reale in un’opera
d’arte è di per sé un gran bene, il bene non termina con l’occasione
immediata e particolare in cui lo si consegue. L’unione che si presenta
nella percezione persiste nella riproduzione di impulso e pensiero. Le
prime tracce di ampi e vasti riorientamenti di desiderio e scopo sono
necessariamente immaginative. L’arte è un tipo di predizione che non si
trova in tabelle e statistiche, e delinea possibilità di relazioni umane che
non si trovano in regole e precetti, ammonimenti e controlli.
But Art, wherein man speaks in no wise to man,
Only to mankind – Art may tell a truth
Obliquely, do the deed shall breed the thought.308
Note

1 [La collaborazione e l’amicizia di Dewey con Albert C. Barnes fu molto stretta e pro cua. Il
18 settembre 1933 Dewey scrive in una lettera all’amico, riferendosi proprio ad Art as
Experience in via di licenziamento: «Non ci sono capitoli né sono molte le pagine, sempre che ve
ne sia qualcuna, che non ti debbano qualcosa. Dove ho citato direttamente, appena ho un po’ di
tempo posso certamente dare riferimenti speci ci. Ma la maggior parte del debito è per avere
aiutato a plasmare la mia complessiva modalità d’approccio» (la lettera è citata negli apparati di
cura dell’edizione critica di Art as Experience: cfr. J. Dewey, The Later Works, vol. 10, Southern
Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1989, p. 353). Albert C. Barnes (1872-
1951), che fece fortuna nel campo industriale farmaceutico, svolse un rilevante ruolo di
promozione della cultura artistica novecentesca negli Stati Uniti attraverso la Fondazione che
istituì nel 1922 a Merion in Pennsylvania. Di questa Fondazione Dewey venne nominato
“director for education” nel 1923, dopo che Barnes aveva frequentato un suo seminario alla
Columbia University nel 1917. Oltre alla documentazione di civiltà non-occidentali, anzitutto
native americane e africane, quasi da museo etnogra co, è notevole la collezione di capolavori
dell’arte gurativa, importati in particolare dalla Francia. Tra le opere raccolte si annoverano
lavori di Van Gogh, Gauguin, Renoir, Cézanne, Matisse (a cui Barnes commissionò anche una
versione della Danse), Picasso, De Chirico, Modigliani... Segno della collaborazione intellettuale
nell’ambito estetico tra Barnes e Dewey sono anche il discorso inaugurale per la galleria della
Fondazione nel 1925 (per cui cfr. il saggio Esperienza, natura e arte, dapprima edito nella rivista
della Fondazione), e la Prefazione che Dewey preparò per il volume scritto dallo stesso Barnes
insieme a Violette De Mazia The Art of Renoir, Scribner, New York 1935 (entrambi poi ripresi
nel 1954 in Art and Education, per la cui trad. it. cfr. J. Dewey, Educazione e arte, a cura di L.
Bellatalla, La Nuova Italia, Firenze 1977, rispettivamente alle pp. 9-18 e 3-8). Il libro più
signi cativo scritto da Barnes è The Art of Painting, Barnes Foundation Press, Merion 1925, poi
Harcourt ecc., New York 1928.]
2 [Il riferimento è alle immagini che corredano il volume nell’edizione originale e in quella
critica (J. Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., rispettivamente alle pp. V, 32, 77, 77, 124, 164,
215, 240 e 282). Le immagini in questione sono: La Vittoria alata (Parigi, Louvre); vasellame
indiano “Pueblo” del Nuovo Messico (Merion, Barnes Foundation); pittura rupestre boscimane;
monile d’oro scita (San Pietroburgo, Hermitage); El Greco, Orazione nell’orto (Londra, National
Gallery); Auguste Renoir, Le bagnanti (Merion, Barnes Foundation); Paul Cézanne, Natura
morta con pesche (Merion, Barnes Foundation); scultura negra (Merion, Barnes Foundation);
Henri Matisse, La Joie de Vivre (Merion, Barnes Foundation).]
3 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, Or Biographical Sketches of My Literary Life and
Opinions, (1817), trad. it. di P. Colaiacomo, Biographia literaria, ovvero schizzi biogra ci della mia
vita e opinioni letterarie, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 241.]
4 [Cfr. Resp., III, in particolare 398e-399c, ed. con testo greco a fronte in Platone, Tutte le
opere, Newton Compton, Roma 1997, vol. IV, p. 155, ove si esprime la condanna dei modi lidi e
di quello ionico in quanto armonie lamentose e rilassate, e si ribadisce il valore del modo dorico
(capace di «imitare le voci e gli accenti di un uomo che dimostra coraggio in un’azione di
guerra») e di quello frigio (adatto a persuadere alla saggezza e alla misura).]
5 [In francese nel testo.]
6 [In francese nel testo.]
7 [In latino nel testo.]
8 [Cfr. G. Santayana, Reason in Common Sense, (1905), in Id., The Life of Reason; Or, the
Phases of Human Progress, Scribner, New York 1905-06, (ora anche Dover, London 1982), vol. I,
p. 65.]
9 «Questi ori familiari, questi indimenticabili canti d’uccello, questo cielo con le sue volubili
ore di purezza, questi campi solcati ed erbosi, ciascuno con una sua gura segnatagli dal
capriccio delle siepi: tali cose sono il linguaggio materno della nostra immaginazione, il
linguaggio rimasto in noi con tutte le sottili, inestricabili associazioni che le fuggitive ore
dell’infanzia si son lasciate dietro di loro. La nostra delizia per questo sole che ride oggi sopra le
alte erbe non sarebbe nulla più che una languida sensazione delle nostre anime stanche, se non
ci fossero stati quel rider di sole e quell’erba degli anni lontani, che ancora vivono in noi, e
trasformano la nostra sensazione in amore» (G. Eliot, The Mill on the Floss [William Blackwood
& Sons, Edinburgh & London 1860; trad. it. di G. Dedenedetti, Il mulino sulla Floss,
Mondadori, Milano 1992³, pp. 60-61]).
10 «Il Sole, la Luna, la Terra e ciò che contiene sono materiali con cui formare cose più
grandi, cioè cose eteree [ethereal] – cose più grandi di quelle create dal Creatore stesso» (John
Keats) [Il passo è tratto da una lettera di Keats, e per intero suona: «Non conosco nessun altro
che come te sia così sensibile all’inquietudine e all’angoscia [...], capace di guardare il Sole, la
Luna, le Stelle, la Terra e ciò che contiene come materiali con cui formare cose più grandi, cioè
cose incorporee. Ma eccomi qui a parlare come farebbe un Pazzo di cose più grandi di quelle
create dal Creatore stesso!!». Cfr. John Keats a Benjamin Robert Haydon, 10-11 maggio 1817,
trad. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, a cura di N. Fusini, Feltrinelli, Milano 1998², pp. 57-58
(che però si è modi cata sostituendo a “incorporee” il calco “eteree” per rendere ethereal)].
11 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, (1890), ora in The Works of William James, a
cura di F. H. Burkhardt, F. Bowers e I. K. Skrupskelis, Cambridge, Harvard University Press
1981, vol. 1, p. 114. – Inutilizzabile la traduzione italiana comparsa a Milano nel 1901 realizzata
da G.C. Ferrari e A. Tamburini.]
12 [W. Shakespeare, Hamlet, atto III, scena 2, v. 369, ed. it. con testo a fronte a cura di P.
Bertinetti, Amleto, Einaudi, Torino 2005, p. 401.]
13 Ho sviluppato questo problema in Esperienza e natura, nel capitolo IX su “Esperienza,
natura e arte”. Per quel che riguarda questo punto, la conclusione si trova dove si afferma che
«l’arte – quel tipo di attività che è ripieno di signi cati suscettibili di possesso e godimento
immediato – è il culmine supremo della natura [mentre] la “scienza” non è che un’ancella che
conduce gli eventi naturali a questa felice conclusione» ([Experience and Nature, Open Court,
Chicago 1925,] p. 358) [trad. it. J. Dewey, Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia,
Milano (1973) 1990, p. 257].
14 [W. H. Hudson, Far Away and Long Ago: A History of My Early Life, Dutton, New York
1918, pp. 3, 331, 231 e 232; trad. it. di A. Motti, Un mondo lontano, Adelphi, Milano 1990², pp.
4-5, 318-319, 223.]
15 [R. W. Emerson, The Nature, (1836), ora in The Collected Works of Ralph Waldo Emerson,
vol. 1, introd. e note di R.E. Spiller, a cura di A. R. Ferguson, Belknap Press of Harvard
University Press, London 1981, p. 9.]
16 [Il riferimento è a H. Adams, Mont-Saint-Michel and Chartres, (1905), ora in Id., Novels,
Mont Saint Michael, The Education, a cura di E. Samuels e J. N. Samuels, New York 1983, pp.
367-68.]
17 [W. Pater, Aesthetic Poetry, in Id., Appreciations; With an Essay on Style, Macmillan, London
1889 (ora in Id., Three Major Texts: The Renaissance, Appreciations and Imaginary Portraits, a cura
e con introd. di W. E. Buckler, New York University Press, New York & London 1986), pp. 215
e 218-19.]
18 [W. Pater, The Child in the House, in Id., Miscellaneous Studies: A Series of Essays, a cura di
C. L. Shadwell, Macmillan, London 1895 (poi anche 1924), pp. 186 e 187.]
19 [John Keats a George e Georgiana Keats, 19 marzo 1919, in Lettere sulla poesia, cit., pp.
151, 153.]
20 [J. Keats a George e Thomas Keats, 21 dicembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., p. 75.]
21 [J. Keats a Benjamin Bailey, 22 novembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., pp. 70, 71.]
22 [J. Keats, Ode on a Grecian Urn (1820), trad. it. di A. Frassineti, Ode sopra un’urna greca, in
J. Keats, Poesie, a cura di M. Rof , Einaudi, Torino 1983, p. 77.]
23 [J. Keats a Benjamin Bailey, 22 novembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., p. 70.]
24 [J. Keats a John Hamilton Reynolds, 25 marzo 1818, in The Complete Works of John Keats,
vol. 4, The Letters, 1814-1821 , a cura di H. Buxton Forman, Gowars & Gray, Glasgow 1900-
1901 (ultima ristampa AMS Press, New York 1970), vol. 4, p. 96.]
25 [Cfr. Eth. Nic., 1106a24-1106b24 (per il medio in rapporto a virtù e arti, da non prendere
«secondo la proporzione aritmetica») e 1131b 9-10 («ciò che è proporzionale è medio, e il
giusto è proporzionale»), ed. con testo greco a fronte, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M.
Zanatta, Rizzoli, Milano 1986, pp. 163-164 e 339.]
26 [“The Unlearner” è in realtà la gura centrale dell’ultimo racconto raccolto nel volume di
Charles Howard Hinton Scienti c Romances, 2.nd series, Sonnenschein, London 1896; il
racconto, del 1885, è intitolato però An Un nished Communication.]
27 [Dewey ha affrontato questa distinzione anche in The Study of Ethics: A Syllabus, (1894),
ora in J. Dewey, The Early Works, vol. 4, Southern Illinois University Press, Carbondale &
Edwardsville 1971, pp. 301-02.]
28 [Cfr. The Oxford English Dictionary, Clarendon Press, Oxford 1933, vol. I, p. 467.]
29 [J. S. Mill, Inaugural Address: Delivered to the University of St. Andrews, (1867), ora in
Collected Works, a cura di J.M. Robson, Univeristy of Toronto Press, Routledge & Kegan Paul,
Toronto 1984, vol. 21, p. 256.]
30 [M. Arnold, Guide English Litterature, in Id., Mixed Essays (1879), in The Works of Matthew
Arnold, vol. X, MacMillan, London 1903-1904, p. 193.]
31 [Nel testo: It is Gusto, taste.]
32 [Nel testo: work, che signi ca anche “lavoro”.]
33 [Il dipinto ad olio su tela Hendrickje in veste di Flora venne realizzato da Rembrandt nel
1654 circa, ed è conservato al Metropolitan Museum di New York.]
34 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, p. 236.]
35 [In latino nel testo.]
36 [In latino nel testo.]
37 [Nel testo: expressed ; si è preferita questa traduzione al più immediato “spremuto” per
restituire il gioco con gli etimi su cui è costruito il passo.]
38 [Nel testo: to ex-press.]
39 [S. Alexander, Art and the Material. The Adamson Lecture for 1925 , University Press,
Manchester 1925, pp. 11 e 12.]
40 Nel suo interessante volume The Theory of Poetry [Secker, London 1924, pp. 50 e 54],
Lascelles Abercrombie oscilla tra due concezioni dell’ispirazione. Una riprende ciò che a me
sembra l’interpretazione corretta. Nell’opera poetica un’ispirazione «de nisce in maniera
perfetta ed eccellente se stessa». Altre volte dice che l’ispirazione è l’opera poetica: «qualcosa di
autonomo e autosuf ciente, un tutto compiuto ed integrale». Egli dice che «ogni ispirazione è
qualcosa che non esisteva e non poteva esistere originariamente in forma di parole». Senza
dubbio ciò è giusto; neppure una funzione trigonometrica esiste solo in forma di parole. Ma se è
già autosuf ciente e autonoma, perché cerca e trova parole come medium per esprimersi?
41 [Nel testo i termini correlati sono com-pression e ex-pressed .]
42 [W. Wordsworth, Observations Pre xed to the Second Edition of “Lyrical Ballads” (1800),
trad. it. di F. Marucci in W. Wordsworth e S. T. Coleridge, Ballate liriche, Mondadori, Milano
2000, p. 276.]
43 [In francese nel testo.]
44 [Nel testo: self-movement.]
45 [J. Keats a Benjamin Robert Haydon, 8 aprile 1818, in Lettere sulla poesia, cit., p. 92.]
46 [Van Gogh a Theo, 22-29 luglio 1888, trad. it. in V. Van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura,
a cura di T. Gianotti, Tea, Milano 1994, p. 122. Per l’epistolario di Van Gogh, anche nei
riferimenti successivi, Dewey cita Further Letters of Vincent van Gogh to His Brother, 1886-1889 ,
Constable, London 1929, ove però la datazione delle lettere è diversa rispetto all’edizione critica
più recente.]
47 [W. James, The Variety of Religious Experience: A Study in Human Nature, (1902), trad. it. di
P. Paletti, Le varie forme dell’esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana, Morcelliana,
Brescia 1998, pp. 191-92.]
48 [Nel testo: cast of mind .]
49 [E. A. Poe, The Philosophy of Composition (1846), trad. it. in Id., Il corvo e La loso a della
composizione, a cura di M. Praz, Rizzoli, Milano 1997, p. 34.]
50 Speculations, p. 266 [cfr. Th. E. Hulme, Mana Aboda, in Speculations: Essays on Humanism
and Philosophy of Art, a cura di H. Read, Routledge, London & New York (1924) 1987, p. 266].
51 [Cfr. A. Tennyson, In Memoriam (1850), trad. it. di C. Dapino, Einaudi, Torino 1975.]
52 [S. Johnson, Milton, in Id., The Lives of the English Poets (1781), a cura di G. Birkbeck Hill,
Clarendon Press, Oxford 1905, vol. 1, p. 163.]
53 [Riferimento a D. Diderot, Paradoxe sur le comédien (1773-78), trad. it. e cura di R. Rossi,
Il paradosso sull’attore, Abscondita, Milano 2002.]
54 [Nel testo: expressed .]
55 [Cfr. H. Matisse in una conversazione del 1909 con Estienne: «Cosa hanno fatto i Realisti,
cosa gli Impressionisti? La copia della natura. Tutta la loro arte consiste nella verità,
nell’esattezza della rappresentazione [...]. Noi vogliamo altro: miriamo alla serenità attraverso la
sempli cazione delle idee e della plastica. L’insieme è il nostro solo ideale. I dettagli
diminuiscono la purezza delle linee, danneggiano l’intensità emotiva: perciò li respingiamo. [...]
Quanto ai dettagli il pittore non deve più preoccuparsene. C’è la fotogra a per rendere cento
volte meglio e più rapidamente la moltitudine dei particolari. L’arte plastica invece renderà
l’emozione con i mezzi più diretti e più semplici», in H. Matisse, Écrits et propos sur l’art, a cura
di D. Fourcade, Hermann, Paris 1972; trad. it. di M. Lamberti, Scritti e pensieri sull’arte,
Einaudi, Torino 1988², p. 18 (ora anche nell’ed. Abscondita, Milano 2003, pp. 28-29).]
56 [Cfr. W. Wordsworth, Lines Written a Few Miles Above Tintern Abbey (1798), trad. it. in
Ballate liriche, cit., pp. 254-64.]
57 [Van Gogh a Theo, Arles 28 giugno 1888 (con la data 22-29 luglio 1888, in Further Letters,
cit., p. 94). È il periodo in cui Van Gogh sta lavorando alla composizione del Ponte a
Trinquetaille, ora Collection Joseph Hackmey, Israele.]
58 [R. Fry, The Artist’s Vision (1919), trad. it. di E. Cannata in Id., Visione e disegno,
Minuziano, Milano 1947, pp. 85-86.]
59 [In realtà il riferimento non va a Fry, ma a Clive Bell (Art, Chatto & Windus, London – F.
A. Stokes, New York 1914: «l’elemento rappresentativo in un’opera d’arte può essere dannoso
o meno; comunque è sempre irrilevante», p. 25), che Dewey senz’altro conosceva, come mostra
anche una sua lettera a Barnes dello stesso periodo di Art as Experience (20 febbraio 1931; cfr. J.
Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., 356). Va inoltre ricordato che Fry non era d’accordo con
le posizioni più estreme di Bell (cfr. R. Fry, Retrospect, (1920): «Penso che l’osservazione di
questi casi di reazione della forma pura» – Fry si riferisce al postimpressionismo – «abbia
indotto Clive Bell ad avanzare, nel suo libro Art, l’ipotesi che, per quanto le emozioni della vita
possano in apparenza avere una parte importante nell’opera d’arte, in realtà l’artista non ha
alcuna relazione con esse, bensì soltanto con l’espressione di un genere speciale e unico
d’emozione: l’emozione estetica. Un’opera d’arte ha la caratteristica proprietà di tradurre questa
emozione e compie quest’azione in virtù della sua forma signi cativa. Il Bell dichiarava pure che
la rappresentazione della natura ha una parte del tutto irrilevante in questo procedimento e che
un quadro può essere del tutto antirappresentativo. Ritenni sempre che quest’ultima idea fosse
troppo spinta, dal momento che anche la più semplice suggestione della terza dimensione, in un
quadro, è necessariamente dovuta a qualche elemento rappresentativo» (R. Fry, Retrospettiva, in
Visione e disegno, cit., p. 363. Cfr. anche L’arte e la vita, (1917), ivi, pp. 16-38, Un saggio
d’estetica, (1909), ivi, pp. 29-45, e I postimpressionisti francesi, (1912), ivi pp. 296-303).]
60 [R. Fry, The Artist’s Vision, trad. it. cit., pp. 87, 88.]
61 [Nel testo: that there is no re-presentation of.]
62 [Sia nelle prime edizioni che nelle opere complete di Dewey questa parola non è
interamente corsivata: presumibilmente per un refuso, si legge «self-abnegation».]
63 [W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, p. 1085. – La tavola dipinta a olio
L’Assunta è stata realizzata tra il 1516 e il 1518 da Tiziano. Dal 1919 è stata ricollocata nella
Chiesa veneziana di Santa Maria Gloriosa dei Frari, dopo che nel 1818 era stata spostata al
museo dell’Accademia, sempre a Venezia.]
64 [Nel testo: Drawing is drawing out. – Dewey sfrutta la parentela etimologica tra drawing
(che indica qui il disegnare ovvero il disegno) e drawing out (che indica l’atto del tirar fuori). –
Analogamente nel periodo successivo Dewey sottolineerà «drawn into» (reso con: “inserito
all’interno”), mentre nel capoverso successivo parla di linee che sono «drawn» (“tracciate”, oltre
che semplicemente disegnate).]
65 [Nel testo: drawn into.]
66 Barnes, The Art in Painting [cit.], pp. 86 e 126, e The Art of Matisse, [scritto insieme a V.
De Mazia, Scribner, New York & London 1933, poi Barnes Foundation Press, Marion 1959]
capitolo sul disegno, in particolare pp. 81-82.
67 The Art in Painting, [cit.,] pp. 53 e 52. L’origine di questa idea risale a Buermeyer [cfr. L.
L. Buermeyer, The Aesthetic Experience, Barnes Foundation Press, Marion 1924 (1929 2)].
68 Mi è impossibile non pensare che la quantità di ri essione spesa per trovare spiegazioni
ingegnose dell’idea aristotelica della catarsi sia dovuta più al fascino dell’argomento che a una
qualche sottigliezza da parte di Aristotele. Risultano super ui i sessanta e più signi cati che le
sono stati attribuiti se si considera che lui stesso ha esplicitamente affermato che le persone
sono inclini a emozioni eccessive, e che come la musica religiosa cura chi è in preda al delirio
mistico «alla pari di persone curate con una droga», così chi è eccessivamente timido e
compassionevole, e chiunque patisca emozioni troppo intense, è puri cato da melodie, e il
sollievo è piacevole. [Cfr. Polit., VIII, 7, 1342a 1-15. Propriamente, secondo la trad. it. di C. A.
Viano (Politica, Rizzoli, Milano 2002), il passo 1342a 10-11, recita: «quando alcuni […] odono
canti sacri che trascinano l’anima, allora si calmano come se fossero nelle condizioni di chi è
risanato o puri cato». – Dewey sembra ricavare la citazione dalla traduzione di B. Jowett (The
Politics of Aristotle, Clarendon Press, Oxford 1885) riportata da Edgar Frederick Carritt nel
volume a sua cura Philosophies of Beauty from Socrates to Robert Bridges, Oxford University
Press, Oxford 1931, fonte di molte citazioni deweyane di classici in Art as Experience.]
69 [S. Colvin, Fine Arts, in The Encyclopædia Britannica, Eleventh Edition, 1910-1911, New
York, vol. 10, p. 360. Samuel Johnson è citato nella stessa pagina, ma senza riferimenti
bibliogra ci.]
70 [In francese nel testo.]
71 [In tedesco nel testo.]
72 [Vernon Lee (pseud. di Violet Piaget) e C. Anstruther-Thompson, Beauty and Ugliness, in
“Contemporary Review”, 72, 1897; poi pubblicato in Vernon Lee e C. An-
struther-Thompson, Beauty and Ugliness and Other Studies in Psychological Aesthetics, John
Lane, London & New York 1912, p. 9. – Interessante sull’opera di Vernon Lee il passo di una
lettera di Dewey a Barnes (20 febbraio 1931): «grazie al modo in cui Vernon Lee nel suo piccolo
saggio Beauty and Ugliness formula concretamente il principio di Clive Bell della “forma
signi cante” in termini di immaginario motorio coinvolto nella percezione di “ gure”, linee e
nella loro combinazione, senza menzionare le parole o essere al corrente di Clive Bell – essa
almeno lo riduce da un principio mistico a termini psicologici» (J. Dewey, The Later Works, vol.
10, cit., p. 357).]
73 [Vernon Lee, The Beautiful: An Introduction to Psychological Aesthetics, University Press,
Cambridge 1913, pp. 27-28, 34, 80-81.]
74 [Vernon Lee e C. Anstruther-Thompson, Beauty and Ugliness, cit., p. 7.]
75 [Nel testo: in-habit, in connessione con il precedente habits (“abitudini”).]
76 [Il riferimento è a L. N. Tolstoj, Che cosa e l’arte? (1897), trad. it. a cura di T. Perlini,
Gallone, Milano 1997. – Dewey riprende qui, e cita anche più avanti, la trad. ingl. di A. Maude
(What Is Art?, Oxford University Press, London 1930, pp. 227-28). I passi cui si riferisce sono i
seguenti: «La caratteristica che distingue la vera arte da quella contraffatta è una sola e
indubitabile: il contagio dell’arte. Se un uomo senza alcuno sforzo da parte sua e senza il minimo
cambiamento della sua posizione, dopo aver letto, sentito o visto l’opera di un altro uomo, prova
uno stato d’animo che lo unisce a quell’uomo e agli altri, che come lui hanno accolto
quell’opera, allora l’oggetto che suscita tale stato è un oggetto d’arte. [...] La qualità principale
del sentimento estetico è che colui che lo prova si fonde con l’artista al punto che gli sembra che
l’oggetto percepito non sia fatto da un altro, ma da lui stesso, e che tutto ciò che viene espresso
mediante questo oggetto sia proprio ciò che egli stesso già da tempo voleva esprimere. [...] Se
proviamo questo sentimento, se veniamo contagiati dallo stato d’animo nel quale si trova
l’autore e se ci sentiamo fusi con le altre persone, l’oggetto che provoca questo stato appartiene
all’arte; se non c’è questo contagio, se non c’è questo fondersi con l’autore e con gli altri che
vengono in contatto con l’opera, allora non c’è nemmeno l’arte. Di più: non solo la capacità di
stabilire questo contatto è il sicuro segno dell’arte, ma il grado di questa capacità è l’unico
criterio del valore artistico. Più forte è il contagio e migliore è l’arte, indipendentemente dal
contenuto, cioè dal valore dei sentimenti che essa comunica» (cfr. trad. it. cit., pp. 117 e 118).]
77 [Referenza non reperibile. La fonte potrebbe essere la viva voce del pittore poiché, come
informano i curatori dell’edizione critica di Art as Experience (The Later Works, vol. 10, cit., p.
356), nel dicembre del 1930 Dewey incontrò Matisse, allora impegnato negli studi per La Danse
(1932-33), un pannello commissionato da Albert C. Barnes per decorare il salone della Barnes
Foundation – da non confondere con il celebre capolavoro omonimo del 1909-1910 conservato
all’Hermitage di San Pietroburgo. Matisse parla a lungo di questo pannello, che peraltro dovette
rifare essendo errate le prime dimensioni, e del suo rapporto con Barnes in Écrits et propos sur
l’art (cfr. ora l’ed. it. cit. del 2003, pp. 107-120): questa particolare committenza è stata infatti
occasione di una ri essione sui rapporti tra i valori plastici e i valori architettonici. Dal canto
suo, Dewey parla dei suoi colloqui con Matisse in tre lettere a Barnes, il 13 e 26 dicembre 1930
e il 2 gennaio 1931.]
78 [In latino nel testo.]
79 [A. C. Bradley, Oxford Lectures on Poetry, Macmillan, London (1909) 1965, p. 4.]
80 [Cfr. A. C. Bradley, Poetry for Poetry’s Sake, An inaugural lecture delivered on June 5, 1901;
poi in Id., Oxford Lectures on Poetry, cit.]
81 [The Rhyme of the Ancient Mariner, cfr. S. T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, a
cura di G. Bompiani, Rizzoli, Milano 1996.]
82 [In questo periodo si ritrovano quasi tutti i termini tecnici impiegati da Dewey per indicare
i diversi aspetti che prendono forma in un’opera d’arte, e che si sono dovuti tenere distinti nella
traduzione anche a costo di operare forzature: subject-matter (“contenuto” o, in alcuni casi,
“contenuto trattato”), substance (“sostanza”), matter (“materia”), topic (“argomento”), theme
(“tema”), a cui sono da aggiungere subject (“soggetto”) e material (“materiale”).]
83 [In francese nel testo.]
84 [Ovvio il riferimento all’Op. 60 che Beethoven compose nel 1806.]
85 [Il riferimento non è univoco, poiché più di un’opera di Tiziano è nota con questo nome.
L’ed. critica di riferimento (J. Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., p. 358) rinvia alla
Deposizione del 1525 conservata al Louvre, basandosi sul fatto che questo museo venne
sicuramente visitato da Dewey; i tratti evidenziati nella rapida descrizione dell’opera schizzata
più avanti da Dewey in questo stesso volume, a p. 192, in cui si parla di «trasporto di un peso
abbandonato», confermano l’ipotesi.]
86 [Probabile riferimento a La sposa ebrea (Isacco e Rebecca), dipinto da Rembrandt
presumibilmente nel 1666 e conservato ad Amsterdam al Rijksmuseum.]
87 [A. C. Bradley, Oxford Lectures on Poetry, cit., p. 10.]
88 [L’aneddoto gura sia in un testo che Barnes inviò a Dewey il 19 novembre 1931, sia nel
saggio di Barnes e De Mazia, The Art of Henri Matisse, cit., p. 179.]
89 [Vista la sinonimia sottolineata qui da Dewey tra shape e gure (che in questo contesto si è
reso con “con gurazione”), anche a costo di qualche forzatura nel seguito del capitolo si
tradurrà sempre shape con “ gura”, riservando “forma” per form.]
90 [Cfr. H. Spencer, The Principles of Psychology, (1855; ed. rivista in 2 voll.: 1870-72), ora in
The Works of Herbert Spencer, Otto Zeller, Osnabruck 1966, vol. V, §§ 533-540, pp. 693-714.]
91 The Art of Painting, [cit.], pp. 85 e 87. Cfr. il cap I del libro II. La forma nel senso de nito
è, come si mostra qui, «il criterio del valore» [cfr. ivi, p. 93].
92 Cfr. il capitolo sui «valori traslati» nel volume The Art of Henri Matisse; la citazione è tratta
da p. 31. In questo capitolo Barnes mostra come buona parte dell’effetto emotivo immediato dei
quadri di Matisse venga inconsciamente traslato da valori emotivi dapprima connessi con
tappezzerie, stampe, rosette (compresi i motivi oreali), piastrelle, strisce e bande, come quelle
di bandiere e molti altri oggetti.
93 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, pp. 238-39.]
94 Per quel che riguarda questo argomento, che concerne non solo questi problemi particolari
ma tutte le questioni connesse all’intelligenza che caratterizza ogni artista, rinvio al saggio sul
pensiero qualitativo compreso nel volume Philosophy and Civilization [ora in J. Dewey, The Later
Works, vol. 5, Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1984, pp. 243-62].
95 [É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, Michel, Paris 1926, p. 37. Il passo in inglese è non
del tutto coincidente con la dichiarazione di Cézanne citata da Émile Bernard nell’originale
Souvenirs sur Paul Cézanne et lettres inédites (“Mercure de France”, 1 e 16 ottobre 1907):
«disegno e colore non sono distinti; mano a mano che si dipinge, si disegna, più il colore si
armonizza, più il disegno si precisa. Quando il colore è al più elevato grado di ricchezza, la
forma è alla sua pienezza. I contrasti e i rapporti di tono, ecco il segreto del disegno e del
modellato»; trad. it. di N. Zandegiacomi in M. Doran (a cura di), Cézanne. Documenti e
interpretazioni, Donzelli, Roma 1998, pp. 53-85 (la stessa citazione torna a p. 40 e a p. 67).]
96 [É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, cit., p. 144.]
97 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, pp. 195-96.]
98 [W. H. Hudson, Un mondo lontano, ed. it. cit., pp. 18, 219.]
99 [In francese nel testo, con allusione alla celebre tela di Matisse citata in seguito da Dewey
in questa stessa opera.]
100 Geoffrey Scott, nel suo saggio The Architecture of Humanism [A Study in the History of
Taste, Constable, London 1924; trad. it. di E. Croce, L’architettura dell’umanesimo, Testo &
Immagine, Torino 1999], ha esposto e spiegato bene questo errore.
101 [La tela Infanta Margarita Teresa in veste rosa venne dipinta da Diego Velázquez tra il 1653
e il 1654 ed è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.]
102 [In francese nel testo.]
103 [Referenza non reperibile.]
104 [W. Wordsworth, Lucy Gray, Or Solitude, (1799), in Id., The Complete Poetical Works, vol.
I., a cura di E. De Selincourt, Clarendon Press, Oxford 1952, vv. 57-64, p. 236.]
105 [W. Wordsworth, The Prelude, libro I, vv. 230-231; trad. it. e cura di M. Bacigalupo, Il
Preludio, Mondadori, Milano 1990, pp. 44-45. – Il testo riportato a fronte in questa edizione
italiana fa riferimento all’edizione del 1805 stabilita da J. C. Maxwell, e talvolta si discosta
lievemente da quello riportato da Dewey.]
106 [J. Keats, Ode to a Nightingale, (1819), trad. it. di M. Rof in J. Keats, Poesie, a cura di V.
Gentili, Einaudi, Torino, 1983.]
107 [Cfr. M. Eastman, Enjoyment of Poetry, Elkin Mathews, London 1913 (edizione rivista:
Scribner, New York 1921), p. 3. – Dewey recensì l’opera di Eastman (cfr. J. Dewey, The Middle
Works, vol. 7, Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1979, p. 179).]
108 Da Notes d’un peintre, pubblicato nel 1908 [trad. it. di M. Lamberti, Note di un pittore, in
H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, ed. cit., p. 9]. In un altro contesto ci si potrebbe soffermare
sulle implicazioni della frase relativa alla necessità di «mettere ordine nelle idee».
109 [F. Bacon, Of Beauty, trad. it. di A. M. Ancarani in Saggi, Sellerio, Palermo 1996, p. 167.]
110 [G. Santayana, The Sense of Beauty: Being the Outlines of Aesthetic Theory, (1896), trad. it.
a cura di G. Patella, Il senso della Bellezza, Aesthetica, Palermo 1997, p. 39.]
111 [Cfr. ivi, trad. it. cit., pp. 163-64.]
112 [Nel testo: Feti.]
113 [In francese nel testo.]
114 [Cfr. J. Keats, On First Looking into Chapman’s Homer, (1816), trad. it. di M. Rof , Alla
prima lettura dell’Omero di Chapman, in J. Keats, Poesie, cit., pp. 8-9.]
115 [Referenza non reperibile.]
116 Cfr. infra, cap. 13.
117 [In latino nel testo.]
118 [W. Wordsworth, Lines Composed a Few Miles Above Tintern Abbey, trad. it. in Ballate
liriche, cit., p. 257.]
119 [Cfr. G. W. F. Hegel, Estetica, ed. it a cura di N. Merker, nuova ed., Einaudi, Torino 1997,
pp. 88 ss.]
120 [Nel testo: poetic diction.]
121 [W. Wordsworth, An Evening Walk, (1787), in The Complete Poetical Works, cit., vv. 193-
194, p. 22.]
122 Il fatto che lo chiamiamo “verticillo [whorl]” indica che avvertiamo inconsapevolmente la
tensione di energie coinvolte.
123 [Cfr. Ch. Darwin, The Expression of the Emotions in Man and Animals, (1872), trad. it.
L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, a cura di P. Ekman, Bollati Boringhieri,
Torino 1999.]
124 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, trad. it. cit., pp. 289-290, 291.]
125 [G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, (1900), ediz. critica a cura di W. G.
Holzlerger e H. J. Saatkamp Jr., in The Works of George Santayana, The Mit Press, Cambridge &
London 1990, vol. III, pp. 7- 8.]
126 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, Boni & Liveright, New York 1927, pp. 144-45.]
127 [In latino nel testo.]
128 [B. Johnson, To the Memory of my Beloved, Master William Shakespeare, in The Works of
Ben Jonson, Scolar Press, London 1976 (riproduzione dell’ed. orig. R. Bishop, London 1640),
vol. 8, p. 319.]
129 [W. Wordsworth, The Prelude, libro XI, vv. 376-383; trad. it. cit., p. 461.]
130 [B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, Macmillan, London 1915 (ora in The Collected
Works of Bernard Bosanquet, Thoemmes, Bristol 1999, vol. 17), pp. 85-87.]
131 [Jacob Epstein (1880-1959), scultore espressionista di ritratti e gure monumentali. Nato
a New York, studia a Parigi alla École del Beaux Arts ed è allievo di Auguste Rodin. Trasferitosi
in Inghilterra nel 1905, dal 1910 assume la nazionalità inglese. Le sue gure voluminose, quasi
sempre in bronzo, tradiscono l’in uenza della scultura arcaica ed egizia.]
132 [Nella prima edizione dell’opera, per evidente refuso, si legge interpretation in luogo di
interpenetration.]
133 In The Art in Painting [cit.], French Primitives and Their Forms, e The Art of Henry-Matisse
[cit.] di Barnes si trovano molte analisi dettagliate di quadri.
134 [Per il riferimento cfr. supra, nota 85.]
135 [In francese nel testo.]
136 [Nel testo: “he-man” style.]
137 [Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), ed. a cura
di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, p. 7.]
138 [J. Galsworthy, Vague Thoughts on Art, in The Works of John Galsworthy, a cura di W.
Heinemann, Manatan, London 1923-1936, vol. 17, p. 260.]
139 [Cfr. Sir Joshua Reynolds, Discourses on Art, trad. it. di P. Prestini, Discorsi sull’arte, note
di B. Lotti, introduzione di A. Gatti, Nike, Segrate 1997, pp. 42-43 e 47.]
140 [Cfr. Poet., IV, 24-27, e V, 33-34, ed. con testo greco a fronte, Aristotele, Poetica, a cura di
D. Lanza, Rizzoli, Milano 1994, pp. 127 e 131.]
141 [Cfr. D. Diderot, Entretiens avec Dorval sur le ls naturel (1757), ora in Id., Œuvres,
Gallimard, Paris 1951, p. 1431 ss.]
142 [Cfr. A. E. Housman, The Name and Nature of Poetry, Cambridge University Press,
Cambridge 1933, p. 13.]
143 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, trad. it. cit., p. 236.]
144 [Peuple: in francese nel testo.]
145 [L. N. Tolstoj, Che cos’è l’arte?, trad. it. cit., p. 72.]
146 [Schiller a Goethe, 18 marzo 1796, in Schillers Werke, vol. 38, Briefwechsel: Schillers Briefe,
dall’1/7/1795 al 31/10/1796, H. Bohlau Nachfolger, Weimar 1969.]
147 Colgo l’occasione per citare ancora il saggio sul Pensiero qualitativo a cui mi sono riferito
in precedenza [cfr. supra, nota 94].
148 [A. Tennyson, Ulysses, (1833), ora in The Poems of Alfred Tennyson, a cura di C. Ricks,
Longman, Harlow 1987², p. 217.]
149 [E. A. Poe, Marginalia, (1844), trad. it. di C Mennella, Marginalia, introd. di O. Fatica,
Theoria, Roma 1994, p. 47.]
150 [Cfr. S. T. Coleridge, Anima Poetæ, in Select Poetry and Prose, a cura di S. Potter,
Nonesuch Press, London 1933, p. 156.]
151 [Citazione criptica da W. Shakespeare, Macbeth, atto V, scena 5, vv. 24-27; trad. it. con
testo a fronte di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 1989, pp. 153-55.]
152 [Nel testo, anche nell’edizione critica di riferimento (p. 205), si legge psychical presence
(“presenza psichica”). La correzione proposta ipotizza un refuso per physical presence anche alla
luce della frase con cui si chiude questo stesso capoverso.]
153 [J. Marin, Here It Is, in Letters of John Marin, a cura di H. J. Seligmann, stampa
privata, New York 1931 (ora Greenwood Press, Westport 1970), pp. 69-70.]
154 [In latino nel testo.]
155 [Testo canonico sono i Principes de la Nature et de la Grâce, fondés en raison del 1714 (per
cui cfr. G. W. Leibniz, Principi della loso a, o Monadologia; Principi razionali della natura e della
grazia, ed. it. a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001.]
156 La spiegazione del fatto che le cose in se stesse brutte possono contribuire all’effetto
estetico di un intero, spesso viene senza dubbio dal fatto che esse vengono usate in modo da
contribuire a individualizzare parti all’interno di un intero.
157 [Staccato: in italiano nel testo.]
158 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, cit., p. 144. – I due versi di Shakespeare sono tratti
rispettivamente da The Second Part of King Henry the Fourth, atto III, scena 5, v. 20 (ed. it. a cura
di G. Melchiori, Enrico IV, in Il Teatro completo di William Shakespeare, Mondadori, Milano
1996, vol. VII, pp. 652-53: «Facendo per lui culle del moto imperioso delle onde») e Love’s
Labour’s Lost, atto V, scena 1, v. 904 (ed. it. a cura di G. Melchiori, Pene d’amor perdute, in Il
teatro completo di William Shakespeare, cit., vol. I, p. 829: «Or che i ghiaccioli si staccano dal
tetto»).]
159 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, cit., p. 144.]
160 [W. Blake, Descriptive Catalogue of Pictures, Poetical and Historical Inventions, A Descriptive
Catalogue, (1809), in The Writings of William Blake, a cura di G. Keynes, Nonesuch Press,
London 1925, vol. 3, pp. 103 e 119.]
161 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, pp. 776-78.]
162 [Si tratta di un ciclo di cinque tele dipinte da Cézanne a partire dal 1890: una a cinque
personaggi, una a quattro, l’altra a tre, e due con una sola coppia di giocatori. La prima è
conservata alla Barnes Foundation.]
163 [Nel testo: Space is room, Raum, and room is roominess. – Il passo è costruito sul rinvio tra
space e il sassone room (da cui roominess, “spaziosità”), sottolineato anche dall’impiego di Dewey
del termine tedesco Raum.]
164 [Il ritratto di Giovanni Arnol ni e di sua moglie Giovanna Cenami fu dipinto da Jan van
Eyck nel 1434, ed è conservato alla National Gallery di Londra.]
165 [Il romanzo di Mann venne pubblicato nel 1924 (Der Zauberberg, C. Fischer, Berlin 1924)
e tradotto in inglese nel 1927 da H. U. Lowe-Porter (The Magic Mountain, Martin Secker,
London 1927).]
166 [Il Bush Terminal Tower Building venne progettato nel 1916-18 da Harvey Wiley Corbett
e Frank J. Melmle.]
167 [S. T. Coleridge, Dejection: An Ode (1802), in Select Poetry and Prose, cit., stanza 4, vv. 47-
49, p. 107 («...noi non riceviamo che ciò che diamo, | ed è solo nella nostra vita che la natura
vive; | nostri sono i suoi abiti da sposa; nostro il suo sudario»).]
168 [Cfr. A. E. Housman, The Name and Nature of Poetry, cit., pp. 45 e 46.]
169 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, pp. 1069-70.]
170 [Cfr. Lewis Carroll, Alice in Wonderland (1865), ed. it. con testo a fronte, Alice nel paese
delle maraviglie, a cura di A. Busi, Feltrinelli, Milano 2002, p. 30 ss.]
171 [S. Colvin, Fine Arts, in The Encyclopædia Britannica, cit., vol. X, p. 362.]
172 [In latino nel testo.]
173 Da una lettera privata di Barnes all’autore.
174 [Polit., 1340a, ed. it. cit., pp. 641-43. Per il passaggio cfr. anche E.F. Carritt, Philosophies
of Beauty, cit., p. 34.]
175 [In latino nel testo.]
176 [H. Parkhurst, Beauty: An Interpreattion of Art and the Imaginative Life, Brace, New York
1930, pp. 194-95.]
177 [In latino nel testo.]
178 [In francese nel testo, forse per richiamo a H. Bergson, Le rire, (1900), trad. it., Il riso.
Saggio sul signi cato del comico, a cura di B. Placido, Laterza, Roma-Bari 1994.]
179 [In latino nel testo.]
180 Santayana, nella sua opera Reason in Art, credo sia stato il primo a spiegare l’importanza
di questa distinzione [cfr. G. Santayana, Reason in Art (1905), in Id., The Life of Reason; Or: the
Phases of Human Progress, cit., vol. IV, p. 65.]
181 [Cfr. ad esempio Eth. Nic., 1140a, ed. cit., pp. 593-594, ma anche Phys., 194a-b, ed. con
testo greco a fronte, Aristotele, Fisica, a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995, p. 69.]
182 [Per i passi citati cfr. W. Pater, The School of Giorgione, in Id., The Renaissance: Studies in
Art and Poetry, MacMillan, London 1910, pp. 135-139; trad. it. a cura di M. Praz, Il
Rinascimento, Abscondita, Milano 2000, pp. 136-39.]
183 [Con Elgin Marbles si indicano le opere che Thomas Elgin portò da Atene in Inghilterra
tra il 1803 e il 1812 e che vennero poi cedute al British Museum. Tra queste spicca il fregio del
Partenone.]
184 [Edwin Austin Abbey (1852-1911) dipinse spesso lavori con soggetti tratti da eventi
pubblici.]
185 [Nel testo: the plain is the ex-plained .]
186 [Cfr. H. Ellis, Studies in the Psychology of Sex, vol. 4, Sexual Seletion in Man (1905), trad.
it. di A. M. Amari, Psicologia del sesso, vol. 4, La selezione sessuale umana, Newton Compton,
Roma 1970.]
187 [A. Schopenhauer, Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di V.
Palanga riveduta da A. Vigliani, Mondadori, Milano 1999, p. 1328.]
188 [Cfr. Molière, Le bourgeois gentilhomme, trad. it. Il borghese gentiluomo, in Id., Le
Commedie, a cura di L. Lunari, Rizzoli, Milano 2006, p. 430. – Il personaggio menzionato è il
ricco mercante Jourdain che, ambendo a un titolo nobiliare, vuole imparare le belle maniere e
perciò prende lezioni di musica, di danza, di scherma e di loso a. Egli è innamorato della
marchesa Dorimena e, nella scena a cui accenna Dewey, si rivolge al maestro di loso a per
scriverle un biglietto d’amore. Alla domanda del losofo, se volesse scrivere della prosa o dei
versi, e avute delucidazioni sulla differenza, Monsieur Jourdain si avvede dunque di non essere
del tutto ignorante avendo in n dei conti parlato “in prosa” per tutta la vita.]
189 [W. Wordsworth, It is not to Be Thout of the Flood , (1803), in Poetical Works,
Bartleby.com, New York 1999, vv. 11-13 («...parlano la lingua | che parlava Shakespeare; hanno
la fede e la morale | che aveva Milton»).]
190 [L. Abercrombie, The Theory of Poetry, cit.]
191 [Si tenga presente, in tutto il capoverso, che il termine character (per uniformità reso qui
sempre con “carattere”) designa in inglese anche il soggetto dell’azione letteraria talvolta
mantenendo accezione morale; il suo spettro semantico varia quindi da “personaggio” a “tipo”,
quasi come il latino persona.]
192 [Cfr. Resp., lib. IV, 439b ss., ed. cit., p. 225 ss.]
193 [Nel testo: “spirited”, reso qui con il tradizionale termine platonico.]
194 [In inglese la costruzione è “to take pleasure in something”, laddove in italiano si direbbe
“provar piacere per qualcosa”; visto però il rilievo effettuato da Dewey si è preferito ricalcare,
pur forzando, la costruzione inglese anche in italiano.]
195 [I. A. Richards, Principles of Literary Criticism (1925), trad. it. (leggermente modi cata), I
fondamenti della critica letteraria, a cura di E. Chinol, Einaudi, Torino 1972, pp. 16-17.]
196 L’effetto sul pensiero tedesco dell’uso delle maiuscole non ha ricevuto adeguata
attenzione.
197 [In latino nel testo.]
198 [Cfr. J. Keats, The Eve of St. Agnes (1819), in The Poems, a cura di M. Allott, Longman,
London 1995², pp. 450-80.]
199 Il lettore noterà che qui esprimo con termini diversi quanto si è scoperto essere intrinseco
all’“atto espressivo”.
200 Si veda ciò che si è detto sulla differenza tra mezzi esterni e medium.
201 [J. Keats a Richard Woodhouse, 27 ottobre 1818, in Lettere sulla poesia, cit., pp. 126-27.
L’aggiunta interpolata nel testo è di Dewey]
202 [“Disinteresse” e “indifferenza” traducono qui, rispettivamente, disinterestedness e
uninterestedness.]
203 [Cfr. D. Diderot, Il paradosso sull’attore, ed. it. cit.]
204 La divisione tra arte bella e arte utile ha molti sostenitori. L’argomentazione psicologica a
cui si riferisce il testo è quella esposta da Max Eastman nel suo Literary Mind [Scribner, New
York 1936], pp. 205-06. Quanto alla natura dell’esperienza estetica, sono felice di trovarmi
pienamente d’accordo con quanto dice Eastman.
205 [Nel testo: remind , verbo che contiene mind (“mente”).]
206 [Nel testo: the mother minds her baby, ove il verbo mind signi ca “occuparsi di”; anche
poco dopo “por mente” traduce questa accezione di mind .]
207 [Nel testo: mind .]
208 [Per i riferimenti a Coleridge cfr. Biographia Literaria, trad. it. cit., pp. 225, 242-243, 59-
76.]
209 Può darsi che Constable stia qui usando il termine “natura” in un senso in qualche modo
limitato, in corrispondenza al proprio interesse di pittore di paesaggi. Ma il contrasto tra
l’esperienza di prima mano e quella imitativa di seconda mano resta anche se si estende il
termine “natura” no a includervi tutte le fasi, gli aspetti e le strutture dell’esistenza. [Dewey
trae la citazione di Constable da C. R. Leslie, Memoirs of the Life of John Constable, Longman
ecc., London 1845, p. 195; per la trad. it. ci siamo però riferiti al testo originale: J. Constable,
English Lanscape Scenary: A Series of Forty Mezzotint Engravings on Stell, by D. Lucas from Pictures
Peinted by John Constable (London 1830), trad. it. a cura di R. Hoozee in L’opera completa di
Constable, Rizzoli, Milano 1979, p. 86.]
210 «Mente indica un intero sistema di signi cati in quanto incarnati nelle operazioni della
vita organica […]. La mente è una luminosità costante; la coscienza è intermittente, una serie di
lampi di differente intensità» – Experience and Nature, [cit.] p. 303 [trad. it. (leggermente
modi cata), Esperienza e natura, cit., pp. 221-22].
211 [In francese nel testo.]
212 [Nel testo: light that never was on land or sea; citazione implicita da Wordsworth, Elegiac
Stanzas, Suggested by a Picture of Peele Castle, in a Storm, Painted by Sir George Baumont, (1805),
stanza 4 (cfr. The Complete Poetical Works, cit.).]
213 [L’olio su tela La Joie de Vivre venne realizzato da Matisse nel 1905-06 ed è conservato alla
Barnes Foundation.]
214 [In latino nel testo.]
215 [Fonte anonima.]
216 [E. Spenser, Faerie Queene, lib. II, canto 12, stanza 32, (ora Longman, London 2006).]
217 [Dewey riprende questa citazione da B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, cit., pp.
115-116. Essa è tratta dal saggio di Goethe Von deutscher Baukunst del 1772. La traduzione è
stata ricostruita tenendo anche conto del testo tedesco, mentre troppo diversa è parsa la pagina
di Goethe nella più recente traduzione italiana (cfr. J. W. Goethe, Scritti sull’arte e sulla
letteratura, a cura di S. Zecchi, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 37).]
218 [R. Browning, The Last Ride Together (1855), strofa 8, vv. 80-81, trad. it. con testo
originale a fronte a cura di A. Righetti, in Id., Poesie, Mursia, Milano 2001, p. 185.]
219 La più esplicita esposizione loso ca di ciò che comporta la teoria del gioco è quella di
Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Kant aveva limitato la libertà
all’azione morale controllata dalla concezione razionale (sovra-empirica) del Dovere. Schiller ha
avanzato l’idea secondo cui gioco e arte occupano un posto di passaggio intermedio tra i regni
dei fenomeni necessari e della libertà trascendente, educando l’uomo a riconoscere e ad
assumersi le responsabilità di quest’ultima. Le sue opinioni rappresentano un coraggioso
tentativo da parte di un artista di sottrarsi al rigido dualismo della loso a kantiana pur
restando all’interno del quadro da essa delineato. [Per l’opera di Schiller cfr. la trad. it. in Id.,
L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2005, pp. 23-106.]
220 [W. Hazlitt, Sir Walter Scott, in Id., The Spirit of the Age: Or Contemporary Portraits,
(1825), ora in The Select Works of William Hazlitt, vol. 7, Pickering & Chatto, London 1998, pp.
62 e 61.]
221 [In francese nel testo.]
222 [W. Hazlitt, Sir Walter Scott, ed. cit., pp. 180 e 181.]
223 [W. Pater, Appreciations, cit., pp. 114, 118.]
224 [La traduzione inglese da cui cita Dewey (cfr. E. F. Carritt, Philosophies of Beauty, cit., pp.
32-33), che spesso non trova pieno riscontro nel testo, ricorre qui alla locuzione kind of thing,
su cui in seguito Dewey costruisce la propria argomentazione. Non c’è corrispondenza con la
trad. it. di riferimento qui impiegata. Per questo motivo, come anche nella citazione successiva,
si è tradotta tra <...> la locuzione inglese, adattando di conseguenza i passi. Si è inoltre reso,
come spesso anche sopra, kind con “tipo” onde evitare sovrapposizioni con la terminologia
tecnica platonico-aristotelica relativa a concetti come “genere” e “specie”. – Allo stesso modo,
nella seconda citazione si è messo in rilievo il termine “carattere”, al posto di “qualità” che si
incontra nella trad. it. di riferimento.]
225 [Poet., 51a-51b, ed. it. cit., p. 147.]
226 [Poet., 51b, ivi.]
227 [J. Reynolds, Discourses on Art, trad. it. cit., pp. 38 e 33.]
228 Non è inutile notare che il buon vescovo Berkeley, quando vuole condannare qualcosa di
eccentrico e fantastico in forma di opinione e di azione, o anche in arte, ne parla come di una
cosa “gotica”.
229 [In latino nel testo.]
230 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 alle Ballate liriche, in Id., Sul sublime e sulla poesia.
Saggi di estetica e di poetica, trad. it. di M. Bacigalupo e F. Nasi, Alinea, Firenze 1992, p. 138.]
231 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry (1821), ed. it. con testo a fronte, Difesa della poesia,
trad. it. di A. Mazzola Rusconi, Milano 1999, p. 131.]
232 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 , trad. it. cit., p. 137.]
233 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 87.]
234 [Anche in questo caso la traduzione da cui cita Dewey (cfr. Carritt, Philosophies of Beauty,
cit., p. 18) non trova pieno riscontro nel testo platonico. Sulla base dell’ed. it. cit. di Resp. 401c-
402a (pp. 159-61), si sono aggiunte tra <...> le interpolazioni signi cative riscontrate nel testo
inglese.]
235 [Il passo citato da Dewey (per cui cfr. The Dialogues of Plato, Macmillan, New York 1892,
vol. 1, p. 335) riproduce in qualche modo Simp., 212a, ed. con testo greco a fronte in Platone,
Tutte le opere, cit., vol. II, p. 403. Data la notevole difformità tra i testi, si è qui restituita la
versione utilizzata da Dewey.]
236 [G. Murray, Five Stages of Greek Religion, Columbia University Press, New York 1912, pp.
103-54 (cap. 4: The Failure of Nerve).]
237 [Cfr. Plotino, Enneadi, I, 6, 2; trad. it. di R. Radice, a cura di G. Reale, Mondadori, Milano
2002, p. 183 s.]
238 [Th. Carlyle, Sartor Resartus, a cura di A. MacMechan, Ginn & Co., Boston 1896, pp. 199,
203.]
239 [B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, cit., pp. 63, 55.]
240 [G. Santayana, The Realm of Essence, Scribner, New York 1927, pp. 153-54, 8.]
241 [G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, ed. cit., p. 169.]
242 [Nel testo: dream-metaphysics.]
243 [In latino nel testo.]
244 [Luogo classico è il primo capitolo di B. Croce, Estetica, ed. cit., pp. 3-16.]
245 [In questo contesto il termine mind potrebbe di per sé essere reso con “spirito”. Tuttavia
nella citazione immediatamente successiva si incontra anche il termine spirit. Lecito quindi
mantenere la traduzione di mind n qui utilizzata. Si tenga poi presente che nella traduzione dei
testi crociani utilizzata da Dewey mind viene anche usato per rendere “animo” (state of mind per
“stato d’animo”).]
246 [Dewey inserisce tra virgolette una citazione ripresa da E. F. Carritt, The Theory of Beauty,
Meuthen, London (1928) 1931 4, p. 192: «the object does not exist unless it is known, that it is
not separable from the knowing spirit». Il passo viene desunto dalla Logica di Croce, e lo si è
qui ricostruito n dove possibile, mettendo però fuori virgolette una parafrasi irriducibile al
dettato crociano. Per la citazione diretta: B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909),
Laterza, Bari 1964, p. 110.]
247 [Id., Breviario di estetica (1912), ora anche Adelphi, Milano 1990, p. 45.]
248 [Ivi, p. 44]
249 [A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 291. – Nella
traduzione citata da Dewey si trova perception in luogo di “contemplazione”.]
250 [Probabile il riferimento al § 40 di Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 304-
05).]
251 [Ivi, p. 374 (trad. it. lievemente modi cata).]
252 [J. W. Goethe, Allerdings (Dem Physiker) (1820), e Ultimatum (1821), in Tutte le poesie, a
cura di R. Fertonani ed E. Ganni, vol. I, t. 2, Mondadori, Milano 1989, pp. 1030-31.]
253 [W. Shakespeare, Loves’s Labour’s Lost, atto III, scena 1, v. 178, ed. it. cit., p. 683.]
254 [J. Reynolds, Discourses on Art, trad. it. cit., p. 51.]
255 [M. Arnold, The Study of Poetry, introduzione a The English Poets (1880), poi in Id., Essays
in Criticism, in The Works of Matthew Arnold, vol. IV, MacMillan, London 1903-04, pp. 15-16.]
256 [L. N. Tolstoj, Che cos’è l’arte?, trad. it. cit., pp. 86-87.]
257 [Fonte anonima.]
258 La maggior pare di questa collezione oggi è al Louvre – e ciò basta a commentare la
competenza della critica uf ciale. [La collezione in questione è quella che Gustave Caillebotte,
lui stesso pittore impressionista, donò alla stato francese nel 1894.]
259 [Il riferimento è a R. Cortissoz, The Post-Impressionist and Cubist Vagaries, “New York
Tribune”, 23 febbraio 1913, pt. 2, p. 6; ripubblicato e modi cato in R. Cortissoz, Art and
Common Sense, Scribner, London-New York 1913, pp. 149-59.]
260 Cfr. supra, cap. 7, pp. 151-52.
261 [J. Lemaitre, Anatole France, in Id., Les Contemporains: Études et Portraits Littéraires,
Deuxieme series, Société Française d’Imprimerie, Paris 1902, p. 85.]
262 Cfr. supra, cap. 9, p. 135.
263 [L. Grudin, Mr. Eliot Among the Nightingales, Lawrence Drake, Paris 1932, p. 35.]
264 [Nel testo: criteria. La scelta traduttiva è dettata dall’opportunità di distinguere questo
grecismo da “criterio”, che traduce tecnicamente il termine standard .]
265 [Nel testo: Homer sometimes nods. Il detto è ricavato dal verso 359 dell’Ars poetica di
Orazio: ...quandoque bonus dormitat Homerus.]
266 [Cézanne a Émile Bernard, lettere del 23 dicembre 1904, 12 maggio 1904 e del 1905,
trad. it. in P. Cézanne, Lettere, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1985, pp. 136, 132 e 139.]
267 I due casi di arte animale, pur servendo anzitutto a indicare la natura dell’“essenza” nel
campo dell’arte, costituiscono anche un esempio di questi due metodi.
268 [Il riferimento è a Der Zauberberg, trad. it. di E. Pocar, La montagna incantata, Tea,
Milano 2005, di cui cfr. in particolare p. 615.]
269 [Cfr. D. Defoe, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, ed. it. a cura
di O. Previtali, Rizzoli, Milano 1976, vol. I, pp. 116-17.]
270 [Cfr. J. W. Goethe, Wilhelm Meister, libri 4 e 5, trad. it. di E. Castellani, in Id., Romanzi,
Mondadori, Milano 2006², pp. 324-445.]
271 [W. Shakespeare, Hamlet, atto III, scena 2, vv. 354-361, trad. it. cit., pp. 225-27.]
272 Martin Schütze, nel suo Academic Illusions [University Press of Chicago, Chicago 1933],
fornisce pertinenti esempi dettagliati di questo tipo di errore e mostra come essi costituiscano
ciò che hanno da offrire intere scuole di interpretazione estetica. [Sul testo di Schütze cfr. la
recensione ora in J. Dewey, The Later Works, vol. 8, Southern Illinois University Press,
Carbondale & Edwardsville 1987, pp. 360-63.]
273 [J. Hambidge, Dynamic Symmetry: The Greek Vase (1920), Kessinger Pubblishing,
White sh 2003.]
274 [Il riferimento potrebbe essere a S. Buchanan, Poetry and Mathematics, John Day Co.,
New York 1929, visto che questo autore è noto a Dewey, che ne recensì il libro del 1927
Possibility (cfr. J. Dewey, The Later Works, vol. 8, cit., pp. 311-15).]
275 C’è un signi cativo capitolo con questo titolo in The Aesthetic Experience di Buermeyer
[cit.].
276 [In francese nel testo.]
277 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 , trad. it. cit., p. 138.]
278 [T. S. Eliot, Poetry and Propaganda, in Bookman 70/6, Hodder & Stoughton, London,
February 1930, p. 601.]
279 [In latino nel testo.]
280 Ho sottolineato questo punto in The Quest for Certainty [Balch & Co., New York 1929],
cap. 4 [trad. it. di E. Becchi e A. Rizzardi, La ricerca della certezza. Studio del rapporto fra
conoscenza e azione, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 77-111].
281 [Per i passi citati cfr. G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, ed. cit., pp. 95,
100, 95, 96, 121, 128.]
282 [R. Browning, Shelley and the Art of Poetry, in The Prelude to Poetry: The English Poets in
Defence and Praise of their own Art, a cura di E. Rhys, Everyman’s Library, London-New York
1927, pp. 259-261, 262.]
283 [Parafrasi di E. A. Poe, To Helen (1831), strofa 2 (cfr. Id., Opere Scelte, ed. it. con testo
orig. a fronte a cura di G. Manganelli, Mondadori, Milano 2006², p. 1173).]
284 [In francese nel testo.]
285 [Nel testo: on holy-days.]
286 Si cita da W. Lippmann, A Preface to Morals, [Macmillan, New York 1929] p. 98. Il testo
del capitolo da cui è tratto questo passo fornisce esempi delle regole particolari che
disciplinavano l’opera del pittore. La distinzione tra “arte” e “sostanza” è simile a quella
tracciata da alcuni fautori della dittatura proletaria dell’arte tra tecnica o mestiere che
appartiene all’artista e contenuto dettato dalle esigenze della “linea del partito” a sostegno della
causa. Viene stabilito un duplice criterio. C’è letteratura che è buona o cattiva in quanto mera
letteratura, e letteratura che è buona o cattiva a seconda della sua posizione nei confronti della
rivoluzione economica e politica. [Per i documenti di Nicea cfr. Vedere l’invisibile. Nicea e lo
statuto dell’immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1997, in particolare ad esempio a
p. 76.]
287 [Il riferimento è alla celebre lettera indirizzata a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513
(per cui cfr. ad esempio N. Machiavelli, La Mandragola. Belfagor. Lettere, a cura di M.
Bonfantini, Mondadori, Milano 1991, in particolare p. 97).]
288 [Cfr. G. Santayana, Reason in Science, in The Life of Reason, cit., vol. V, pp. 225-26.]
289 Cfr. supra, cap. 7, p. 151.
290 [In francese nel testo.]
291 [H. A. Taine, Introduction a l’histoire de la litterature anglaise (1863), trad. it. in Id., Scritti
estetici: metodo e dottrina, a cura di D. Drudi, Alinea, Firenze 1996, p. 156.]
292 T. E. Hulme, Speculations [cit.], pp. 83-87, passim.
293 [Per i passi riportati: T. E. Hulme, Modern Art and Its Philosophy, in Speculations: Essays
on Humanism and the Philosophy of Art, cit., pp. 85-87; trad. it. di E. Re (leggermente
modi cata), L’arte moderna e la sua loso a, in Id., Meditazioni, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 77-
78.]
294 [Nel testo: install – cfr.: «[...] il nostro spirito [...] può installarsi nella realtà mobile [il
peut s’installer dans la réalité mobile]...» (H. Bergson, Introduction à la métaphysique, (1903), trad.
it. a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 83-84).]
295 [The Oxford English Dictionary, cit., sub voces “civilisation”, “civilize” e “civilized” (vol. III,
p. 257).]
296 [M. Arnold, To a Friend , in Id., The Strayed Reveller, and Other Poems (1849), ora in The
Poetical Works of Matthew Arnold, a cura di C. B. Tinker e H. F. Lowry, Oxford University
Press, London 1969, v. 12, p. 2.]
297 Così ha scritto Lippmann: «Chi va a un museo esce con la sensazione di aver osservato un
bizzarro assortimento di corpi nudi, pentole di rame, arance, pomodori e zinnie, bimbi, angoli di
strada e spiagge di bagnanti, banchieri e signore alla moda. Non dico che questa o quella
persona non possa trovare un quadro immensamente signi cativo per sé. Ma l’impressione
generale per chiunque, credo, sia di un caos di aneddoti, percezioni, fantasie e brevi cronache,
che sono tutti forse suf cientemente buoni a loro modo, e tuttavia che sono privi di sostanza e
di cui si potrebbe fare a meno senza problemi». – A Preface to Morals [cit.], pp. 103-104.
298 [In francese nel testo.]
299 [In latino nel testo.]
300 [Cfr. A. Comte, Systeme de politique positive (1851), ora in Œuvres, vol. 7, Antrophos,
Paris 1969 (se ne veda la trad. it. in appendice a E. Vidal, Saint-Simon e la scienza politica,
Giuffrè, Milano 1959).]
301 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 87.]
302 [M. Arnold, The Study of Poetry, cit., p. 4.]
303 [H. W. Garrod, Poetry and the Criticism of Life, Oxford Univerisity Press, London 1931,
pp. 15 e 11.]
304 [J. Keats a Reynolds, 19 febbraio 1818, in Lettere sulla poesia, cit., p. 83.]
305 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit. (trad. lievemente modi cata), pp. 89, 91, 75.]
306 [In latino nel testo.]
307 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 89.]
308 [R. Browning, The Ring and the Book (1868), lib. XII, vv. 855-857, in The Poetical Works of
Robert Browning, vol. 9, a cura di S. Hawlin e T. A. J. Burnett, Clarendon Press, Oxford 2004
(«Tuttavia l’arte, in cui l’uomo non parla affatto all’uomo, | ma solo all’umanità – l’arte può dire
una verità | obliquamente, compiendo l’azione che nutrirà il pensiero»).]
Appendice biobibliogra ca

1. Pro lo biogra co
John Dewey nasce a Burlington, nel Vermont, il 20 ottobre 1859, da Archibald Sprague e
Lucina Artemisia Rich. Compie gli studi di base e superiori nella città natale, per poi iscriversi
nel 1875 all’Università del Vermont, al corso classico, dove frequenta in particolare i corsi di
James Marsh e quelli kantiani di H. A. P. Torrey. Conseguito il bachelor of arts, nel 1879 si
trasferisce a Oil City (Pennsylvania) dove insegna alla High School e al tempo stesso
approfondisce lo studio della loso a tedesca privatamente con Torrey. In questi anni studia
con attenzione la loso a di Spinoza, come documentano anche i suoi primi saggi pubblicati nel
1882 sul “Journal of Speculative Philosophy”. Seguendo il consiglio di Torrey, sempre nel 1882
si iscrive alla Johns Hopkins University di Balitmore come graduate student ove, più che i corsi
del «troppo matematico» Charles S. Peirce, segue le lezioni di psicologia di G. Stanley Hall e
quelle di storia della loso a di George Sylvester Morris, le une molto in uenzate dall’opera di
Wundt e le altre improntate a un idealismo organicista. I lavori pubblicati in questo periodo
mostrano il polarizzarsi del suo interesse verso Hegel.
Nel 1884, ottenuto il dottorato discutendo una tesi (perduta) sulla psicologia di Kant, grazie
all’iniziativa di Morris viene chiamato all’Università del Michigan con la quali ca di instructor of
philosophy. Qui compie una rapida carriera accademica anche in virtù del fatto che Morris si
trasferisce presto nella medesima Università. In questi anni si accentua il suo interesse per la
psicologia, con cui cerca di coniugare l’impostazione idealistica mutuata da Morris (si veda la
Psychology del 1887, che venne comunque criticata da William James e dal vecchio maestro
Hall per l’indebita combinazione di psicologia e loso a). Ciò gli vale il sospetto degli ambienti
idealistici più ortodossi. Inoltre, sempre durante il suo lavoro all’Università del Michigan,
cresce la sua attenzione per la problematica educativa. Nel 1886 si sposa con Hariet A.
Chipman, e nel 1887 nasce il loro primogenito.
Il 1894 è l’anno del trasferimento a Chicago, la cui Università lo chiama come docente di
loso a e come direttore del locale Dipartimento, che prevede al suo interno anche una sezione
psicologica e pedagogica. L’intenso lavoro come direttore è volto anzitutto a far dotare di un
laboratorio sperimentale proprio questa sezione; ciò dà vita alla nota scuola sperimentale
descritta in The School and Society (1899), alla cui attività partecipa anche la moglie.
Proseguono inoltre gli studi di psicologia (spicca il saggio The Re ex Arc Concept in Psychology
del 1896), di etica e di analisi della vita emotiva, sollecitati peraltro da una posizione religiosa
oramai non più confessionale maturata nel contesto del confronto duro tra darwinismo e
comunità religiose americane (cfr. anche Evolution and Ethics del 1898). La rottura de nitiva
con l’idealismo avviene con la pubblicazione nel 1903 degli Studies in Logical Theory, in cui
Dewey de nisce la propria posizione «strumentale» e mostra ormai un convinto approccio
pragmatista. Il periodo vede crescere decisamente la sua notorietà: nel 1899 è presidente
dell’American Psychological Association; viene invitato a tenere corsi nel 1901 a Berkeley e nel
1904 alla Columbia Univesity; nel 1905 diventa presidente dell’American Philosophical
Association. L’anno prima, nel 1904, si trasferisce de nitivamente alla Columbia University. In
questa università svolgerà tutto il resto della sua carriera accademica, diventando professore
emerito “residente” tra il 1930 e il 1939 e mantenendo in seguito il titolo di professore emerito.
Il clima del nuovo ambiente accademico lo sollecita sui molti fronti in cui ormai si articola la
sua attività di ri essione, come testimoniano i numerosi saggi gran parte dei quali compaiono
d’ora in poi sul “Journal of Philosophy”. In particolare, per quel che concerne il pensiero
pedagogico, elabora in questo periodo due opere cruciali come How We Think (1910) e,
soprattutto, Democracy and Education (1916), mentre nel 1910 vede la luce la raccolta di saggi
The In uence of Darwin on Philosophy. Ma questi sono anche gli anni del travaglio dei
democratici statunitensi intorno alla questione dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale.
Con una celebre conferenza, che poi divenne German Philosophy and Politics (1915), Dewey di
fatto giusti ca la guerra, creando dissenso tra i suoi stessi allievi, alcuni dei quali lo
abbandoneranno orientandosi con maggior decisione verso posizioni socialiste. Finita la guerra,
nel 1918 si reca in Giappone, e poi tra il 1920 e il 1922 soggiorna in Cina, dove conosce
Bertrand Russell. È in questi viaggi che matura il libro Reconstruction in Philosophy (1920), in
cui si avverte ormai il mutamento di clima del pensiero deweyano dopo il dif cile periodo
bellico. Alcune altre circostanze segnano questa fase del suo pensiero. Nel 1924 compie un
viaggio in Turchia per studiare il locale sistema educativo. Nel 1927 subisce il grave lutto della
morte della moglie, che lo colpisce duramente. Nel 1928, in ne, dovendo recarsi in Unione
Sovietica per analizzarne il sistema educativo, compie un viaggio attraverso alcune grandi città
europee (Londra, Parigi e Berlino) potendo così visitarne i musei. A questi anni risalgono opere
capitali. Del 1922 è il trattato di psicologia sociale Human Nature and Conduct. Nel 1925 esce
la prima edizione di Experience and Nature, che verrà ripubblicato nel 1929 con l’aggiunta di una
introduzione e il completo rifacimento del primo capitolo sul metodo della loso a. Nel 1929
pubblica anche The Quest for Certainty.
Negli anni Venti si avvia la sua stretta collaborazione con Albert C. Barnes, che ha conosciuto
nel 1917, della cui Fondazione guida i progetti educativi a partire dal 1923. Sempre in quel
decennio è signi cativa la sua presenza nel dibattito politico: sostiene la candidatura,
fallimentare, del socialista La Follette alle elezioni del 1924, e si schiera a difesa di Sacco e
Vanzetti nel 1927, lo stesso anno in cui muore la moglie (sposerà in seconde nozze Roberta
Lowitz Grant nel 1946). Nel 1931 inaugura all’Università di Harvard le William James Lectures
con un ciclo di lezioni intitolato Art and Aesthetic Experience. Si tratta del materiale che –
assieme a quello elaborato a vivo contatto con le collezioni di arte contemporanea e di reperti di
civiltà non-occidentali presenti alla Barnes Foundation – sta alla base di Art as Experience, che
vede la luce nel 1934. In quello stesso anno pubblica A Common Faith, mentre l’anno
precedente aveva pubblicato una nuova edizione, assai modi cata, di How We Think. Attende in
questi anni ad approfondimenti e sistemazioni di diversi temi: ristampa in nuova edizione la
Ethics del 1908 (1932), pubblica Liberalism and Social Action (1935), Logic: The Theory of
Inquiry (1938), Experience and Education (1938) e Freedom and Culture (1939). In alcuni di
questi volumi e in saggi coevi riprende la polemica con la forma sovietica del socialismo,
consolidata anche dall’esperienza della commissione di inchiesta sul caso Trotzkij che egli
presiede nel 1937, ma anche con forme poco radicali di liberalismo democratico, prendendo le
distanze dal New Deal roosveltiano a partire dal 1936. Nel 1940 interviene a favore di Russell,
designato per una cattedra newyorkese di loso a e al centro di vivaci polemiche per le sue
opinioni morali. Negli ultimi anni, all’interesse per questioni etico-politiche (del 1946 è
Problems of Men), si af anca una costante attenzione per temi logici e gnoseologici affrontati
talvolta in collaborazione con Arthur F. Bentley, con cui pubblica Knowing and the Known nel
1949, ossia l’anno dopo aver ristampato, con una nuova e lunga introduzione, Reconstruction in
Philosophy, quasi a sigillare l’idea di ricostruzione in senso loso co dopo la Seconda Guerra
Mondiale, così come aveva fatto con la prima edizione dello stesso volume dopo la catastrofe
della Prima Guerra Mondiale. Muore a New York l’1 giugno 1952.

2. Opere di Dewey
Tutti gli scritti di Dewey sono raccolti nell’edizione critica avviata nel 1967 a cura di Jo Ann
Boydston per la Southern Illinois University Press (Carbondale) e articolata in tre sezioni: The
Early Works, 1882-1898; The Middle Works, 1899-1924; The Later Works, 1925-1953.
Per le opere principali citate nel pro lo in traduzione italiana, cfr.: The School and Society
(1899) = Scuola e società, a cura di E. Codignola e L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1949;
How We Think (1910; 1933) = Come pensiamo, a cura di A. Guccione Monroy, La Nuova Italia,
Firenze 1961; Democracy and Education (1916) = Democrazia e educazione, La Nuova Italia,
Firenze 1949 (ora anche Sansoni, Firenze 2004); Reconstruction in Philosophy (1920; 1948) =
Rifare la loso a, a cura di A. Massarenti, Donzelli, Roma 1998; Experience and Nature (1925;
1929) = Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia, Milano (1973) 1990; The Quest for
Certainty (1929) = La ricerca della certezza, a cura di A. Visalberghi, La Nuova Italia, Firenze
1966; A Common Faith (1934) = Una fede comune, a cura di G. Calogero, La Nuova Italia,
Firenze 1949; Liberalism and Social Action (1935) = Liberalismo e azione sociale, a cura di F.
Fistetti, Ediesse, Roma 1997; Logic: The Theory of Inquiry (1938) = Logica, teoria dell’indagine, a
cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1949 e 1965; Experience and Education (1938) =
Esperienza e educazione, trad. it. di E. Codignola, La Nuova Italia, Firenze 1967; Freedom and
Culture (1939) = Libertà e cultura, trad. it. di E. Enriques Agnoletti, La Nuova Italia, Firenze
1953; Problems of Men (1946) = Problemi di tutti, a cura di G. Preti, Mondadori, Milano 1950;
Knowing and the Known (1949) = Conoscenza e transazione, trad. it. di E. Mistretta, La Nuova
Italia, Firenze 1974.
Per le bibliogra e generali di e su Dewey e per la storia della critica si rinvia ai due pro li,
purtroppo non aggiornati né per la cronologia né per l’approccio teorico, tuttora esistenti in
italiano: A. Granese, Introduzione a Dewey, Laterza, Roma-Bari 1973; A. De Maria, Invito al
pensiero di Dewey, Mursia, Milano 1990. – Per la critica cfr. però la raccolta in 4 voll. John
Dewey. Critical Assessments, a cura di J. E. Tiles, Routledge, London & New York 1992.
3. Art as Experience e scritti di estetica
Art as Experience è uscito nel 1934 per i tipi della Minton, Balch & Co. di New York. In
seguito è stato più volte ristampato, e nel 1980 è stato inserito nel catologo dei Perigee Books
editi da G. P. Putnam’s Sons sempre di New York. All’interno dell’edizione delle opere di
Dewey è pubblicato nel vol. 10 della terza serie (The Later Works, 1925-1953 , cura del volume
di Harriet Furst Simon, con una introduzione di Abraham Kaplan, Southern Illinois University
Press, Carbondale, (1987) 1989). L’apparato critico in calce al volume è ricco, ma non risolve il
problema delle fonti di diverse citazioni esplicite o implicite che occorrono nel testo.
Che Art as Experience sia un classico della ri essione estetica del Novecento è attestato dalle
sue traduzioni nelle principali lingue moderne. La prima traduzione è stata effettuata in
spagnolo: El Arte como experiencia, a cura di Samuel Ramos, Fondo de Cultura Económica,
Mejico 1949. In tedesco la traduzione è più recente: Kunst als Erfahrung, a cura di Christa
Velten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980. In francese è recentissima, e costituisce il terzo vol. del
piano di traduzione organica delle opere loso che di Dewey: L’art comme experience, a cura di
Jean-Pierre Cometti, con una Introduzione di Richard Shusterman e una Postfazione di Stewart
Buettner, Farrago, Pau 2005. Nessuna di queste traduzioni sviluppa tuttavia l’apparato critico.
Di quest’opera esiste un’oramai obsoleta trad. it. di Corrado Maltese pubblicata dalla Nuova
Italia di Firenze, dapprima nel 1951 con una Presentazione del traduttore, e poi nel 1995 a cura
e con un saggio di Alberto Granese, che ha aggiunto al volume un’appendice con altri saggi di
Dewey.
Dewey si è occupato di questioni estetiche anche in alcuni interventi minori. Alcuni di essi
sono tradotti nell’edizione del 1995 di Arte come esperienza, cit. (alle pp. 407-467), e in
particolare: Poetry and Philosophy (1890); The Aesthetic Element in Education (1897); Tolstoi’s
Art (1910-1911); Art in Education – and Education in Art (1926); Subject-Matter in Art (1937);
The Philosophy of Fine Arts (1938); Aesthetic Experience as a Primary Phase and as an Artistic
Development (1950); Introduction ai Selected Poems di Claude McKay (1952). Il saggio del 1950
Aesthetic Experience as a Primary Phase... chiude anche la raccolta di scrtti deweyani Art and
Education edita dalla Barnes Foundation nel 1954 e pubbicata in italiano con il titolo Educazione
e arte, a cura di Luciana Bellatalla, con una Prefazione di Lamberto Borghi, La Nuova Italia,
Firenze 1977. Accanto a quel saggio si trovano, ma non in ordine cronologico: Experience,
Nature and Art (1925); Individuality and Experience (1926); Affective Thought in Logic and
Painting (1926); Foreword a A. C. Barnes e V. De Mazia, The Art of Renoir (1935).
Oltre a questi interventi vi sono, mai raccolti in italiano: rec. a B. Bosanquet, A History of
Aesthetics (1893); Naturalism in Art (1902); Affective Thought (1926); Qualitative Thought
(1930); Art in vacuum (1934; ripreso come primo capitolo di Art as Experience); The Meaning of
Architecture (1935; riprende parti di Art as Experience); The Educational Function of a Museum of
Decorative Arts (1937); Experience, Knowledge and Value (1939); Foreword a A. Dorner, The Way
beyond «Art» (1946; trad. id. in Il superamento dell’«arte», a cura di E. Fubini e L. Fabbri,
Adelphi, Milano 1964, pp. IX-XIV); Foreword a H. Schaefer-Simmern, The Unfolding of Artistic
Acrivity (1948); A Comment on the Foregoing of Criticism (1948); Experience and Existence: A
Comment (1949).
4. Letteratura critica sulla ri essione estetica in Dewey
Il rilievo della dimensione estetica nel pensiero di Dewey è stato presto oggetto di analisi.
Alcuni saggi di studiosi statunitensi della ne degli anni Venti vi sono infatti già dedicati, e anche
un artista come Josef Albers recepì con straordinaria prontezza Art as Experience. In Italia, poi,
è celebre la repentina polemica con Croce. Tuttavia gli approfondimenti monogra ci sono
relativamente poco numerosi. Negli stessi Stati Uniti ha pesato l’ostracismo contro Dewey e, in
generale, contro il pragmatismo da parte della loso a analitica (emblematico il giudizio
lapidario di Arnold Isenberg, che de nisce Art as Experience «un guazzabuglio di metodi
contraddittori e di speculazioni indisciplinate» nel saggio Analytic Philosophy and the Study of
Art, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 46, 1987, p. 128). Solo di recente, con la nascita
del neo-pragmatismo da costole della loso a analitica, si è ripreso a considerare meno
sbrigativamente l’opera estetica di Dewey, come testimonia il fatto che nel recente Companion
to Aesthetics della Routledge (a cura di B. Gaut e D. McIver Lopes, London & New York 2001)
vi sia un capitolo scritto da Richard Shusterman dedicato esclusivamente a Dewey (pp. 97-106).
Segno di questa ripresa è anche l’importanza accordata alla dimensione estetica in opere degli
anni Ottanta che ricostruiscono complessivamente il pensiero di Dewey (cfr.: R. J. Bernstein,
John Dewey, Atascadero (Calif.) 1981; R. W. Sleeper, The Necessity of Pragmatism. John Dewey’s
Conception of Pilosophy, Urbana and Chicago (1986) 2001; J. E. Tiles, Dewey, London & New
York 1988). In Italia la ri essione estetica di Dewey è argomento di una ventina di interventi,
ma non è mai stato oggetto di ampie ricostruzioni critiche monogra che. È peraltro
signi cativo, forse anche di una generale disattenzione nei confronti della loso a anglofona,
che il confronto della cultura estetica italiana con Dewey si sia quasi completamente esaurito
con la ne degli anni Sessanta. In Germania si assiste invece di recente a un timido risveglio di
interesse, grazie a pochi ma signi cativi studi. Davvero scarsi, in ne, i contributi che vengono da
altre aree linguistiche.
La seguente bibliogra a è suddivisa in due parti (I. volumi e dissertazioni; II. saggi e parti di
volumi), e censisce solamente i lavori tematicamente dedicati alla ri essione estetica deweyana.
I. volumi e dissertazioni. – Wyckoff, H. W., A Study on the Esthetics of J. Dewey , Leland 1936;
Brandenburg, K. H., Kunst als Qualität der Handlung. John Deweys Grundlegung der Ästhetik,
diss., Königsberg 1942; Leander, F., Estetik och kunskapsteori. Croce, Cassirer, Dewey, Göteborg
1950; Mathur, D. C., The Signi cance of «Qualitative Thought» in Dewey’s Philosophy of Art,
diss., New York 1955; Pesce, D., Il concetto dell’arte in Dewey e Berenson: saggi sull’estetica
americana contemporanea, Firenze 1956; Tamme, A. M., A Critique of Dewey’s Theory of Fine Arts
in the Light of the Principles of Thomism, Washington 1956; De Maria, A., Croce e Dewey, Torino
1958; Suits, B. H., The Aesthetic Object in Santayana and Dewey, diss., Chicago 1958; Loo, E. D.
van, Jung und Dewey and the Nature of Artistic Experience, diss., Tulane 1973; Zeltner, P. M.,
John Dewey’s Aesthetic Philosophy, (Amsterdam 1975) Atlantic Highlands (N. J.) 1977; Kupfer,
J. H., Experience as Art: Aesthetics in Everyday Life, Albany 1983; Alexander, T. M., John Dewey’s
Theory of Art, Experience, and Nature. The Horizons of Feeling, Albany 1987; Lehmann, D., Das
Sichtbare der Wirklichkeiten: Die Realisierung der Kunst aus ästhetischer Erfahrung (Dewey,
Cézanne, Rothko), Essen 1991; Engler, U., Kritik der Erfahrung. Die Bedeutung der ästhetischen
Erfahrung in der Philosophie John Deweys, Würzburg 1992; Marolda, P., Linguaggio ed estetica in
Dewey, Arezzo 1994; Raters-Mohr, M.-L., Intensität und Widerstand: Metaphysik,
Gesellschaftstheorie und Ästhetik in John Deweys «Art as Experience», Bonn 1994; Eldridge, M.,
Transforming Experience: John Dewey’s Cultural Instrumentalism, Nashville (TN) 1998; Jackson,
Ph. W., John Dewey and the Lessons of Art, New Haven 1998; Chateau, D., John Dewey et Albert
C. Barnes, philosophie pragmatique et arts plastiques, Paris 2003.
II. saggi e parti di volumi. – Ducasse, C. J., The Instrumentalist Theory of Art, in Aa.Vv., The
Philosophy of Art, New York 1929, pp. 84-94; Edman, I., A Philosophy of Experience as a
Philosophy of Art, in Aa.Vv., Essays in Honor of John Dewey, New York 1929; Albers, J., Art as
Experience, “Progressive Education”, 12, 1935, pp. 391-393; Shearer E. A., Dewey’s Aesthetic
Theory: Parts I and II, “Journal of Philosophy”, 32, 1935, pp. 617-27 e 650-64; Mc Williams, J.
A., Dewey’s Esthetic Experience as a Substitute for Religion, “Modern Schoolman”, 15, 1937, pp.
9-13; Melvin, G., The Social Philosophy Undelying Dewey’s Theory of Art, “Mills College Faculty
Studies”, 1937, pp. 124-136; Vivas, E., A De nition of Experience, “Journal of Philosophy”, 34,
1937, pp. 628-634; Vivas, E., A Note on the Emotion in Mr. Dewey’s Theory of Art,
“Philosophical Review”, 47, 1938, pp. 527-31 (trad. it. in Id., Creazione e scoperta, Bologna
1958, pp. 269-76); Barnes, A. C., Art as Experience, “The Educational Frontier”, 13, 1939,
pp.13-25; Warbeke, J. M., Esthetic Form and Criteria in Croce and Dewey, “Journal of
Philosophy”, 36, 1939, p. 679; Pepper, S. C., Some Questions on Dewey’s Esthetics, in Aa.Vv., The
Philosophy of J. Dewey, New York 1939 e 1951, pp. 369-389; Croce, B., Intorno all’estetica del
Dewey, “La critica”, 38, 1940, pp. 348-53; Zink, S., The Concept of Continuity in Dewey’s Theory
of Esthetics, “Philosophical Review”, 52, 1943, pp. 392-400; Fiess, E., Dewey’s View of Art, “The
Humanist”, 4, 4, 1945; Barnes, A. C., Dewey and Art, “New Leader”, 32, 22 ottobre 1949, p. 4;
Ramos, S., La estética de John Dewey, “Cuadernos Americanos”, 8, 1949, pp. 113-30; Romanell,
P., A Comment on Croce’s and Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 8,
1949, pp. 125-28; Croce, B., Intorno all’estetica e alla teoria del conoscere del Dewey, “Quaderni
della critica”, 16, 1950, pp. 60-8; Edman, I., Dewey and Art, in Aa.Vv., John Dewey: Philosopher
of Science and Freedom, New York 1950, pp. 47-65; Formaggio, D., L’estetica di John Dewey,
“Rivista critica di storia della loso a”, 6, 1951, pp. 360-72; Maltese, C., Presentazione. L’estetica
di John Dewey, in J. Dewey, L’arte come esperienza, Firenze 1951, pp. VII-XXXI; Cantoni, R., John
Dewey e l’estetica, “Il pensiero critico”, 2, 1952, pp. 1-14; Paci, E., Sull’estetica di Dewey, “aut
aut”, luglio 1952, pp. 317-330 (poi in Id., Tempo e relazione, Torino 1954, pp. 184-197);
Petruzzellis, N., L’arte come esperienza nella concezione del Dewey, in Aa.Vv., Estetica. Atti del VII
congresso di studi loso ci cristiani tra professori universitari, Padova 1952, pp. 254-5; Ames, V.
M., John Dewey as Aesthetician, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12, 1953, pp. 145-68;
Boas, G., Communication in Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12,
1953, pp. 177-83; Pepper, S. C., The Concept of Fusion in Dewey’s Aesthetic Theory, “Journal of
Aesthetics and Art Criticism”, 12, 1953, pp. 169-76; Scalia, G., Dewey e la più recente cultura
estetica italiana, “Galleria”, 5-6, 1954, pp. 269-82; Ballard, E. G., An Estimate of Dewey’s Art as
Experience, in Aa.Vv., Studies in American Philosophy, New Orleans 1955; Kaminsky, J., Dewey’s
Concept of an Experience, “Philosophy and Phenomenological Research”, 17, 1957, pp. 216-30;
Kennedy, G., Dewey’s Concept of Experience: Determinate, Indeterminate, and Problematic,
“Journal of Philosophy”, 56, 1959, pp. 801-4; Pasch, A., Dewey and the Analytical Philosophers,
“Journal of Philosophy”, 56, 1959, pp. 814-26; Ames, V. M., Art for Zen and Dewey, in Aa.Vv.,
Proceedings of the IV International Congress on Aesthetics, Athens 1960, pp. 745-48; Metelli di
Lallo, C., Il signi cato del termine esperienza nelle opere di J. Dewey, “Rivista di Filoso a”, 5s1,
1960, pp. 303-21; Raggiunti, R., Esperienza artistica e esperienza scienti ca nel pensiero di John
Dewey, «Filoso a», 11, 1960, pp. 69-92; Semenzato, C., A propos d’une œuvre de J. Dewey: Art
as Experience, “Comprendre”, 1960, pp. 346-349; Gauss, C. E., Some Re ections on John Dewey’s
Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 19, 1960-61, pp. 127-32; Jacobsen, L., Art
as Experience and American Visual Art Today, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 19,
1960-61, pp. 117-126; Graña, C., J. Dewey’s Social Art and the Sociology of Art, “Journal of
Aesthetics and Art Criticism”, 20, 1961-62, pp. 405-412; Barilli, R., Per un’estetica mondana,
Bologna 1964, pp. 25-131; Gotshalk, D. W., On Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and
Art Criticism”, 23, 1964-65, pp. 131-138; Dickie, G., Beardsley’s Phantom Aesthetic Experience,
“Journal of Philosophy”, 62, 1965, pp. 129-36; Mueller, G. E., John Dewey’s Aesthetics, in Id.,
Origins and Dimensions of Philosophy: Some Correlations, New York 1965, pp. 572-583; Petock,
S. J., Dewey and Gotshalk on Criticism, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 25, 1967, pp.
387-94; Mathur, D. C., A Note on the Consummatory Experience in Dewey’s Aesthetics, “Journal
of Philosophy”, 63, 1968, pp. 225-31; Russo, L., La polemica tra Croce e Dewey e l’arte come
esperienza, “Rivista di studi crociani”, 5, 1968, pp. 201-216; Kuspit, D. P., Dewey’s Critique of Art
for Art Sake, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 27, 1968-69, pp. 91-8; Douglas, G. H.,
A Reconsideration of the Dewey-Croce Exchange, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 27,
1969, pp. 497-504; Morris, B., Dewey’s Theory of Art, in Aa. Vv., Guide to the Works of John
Dewey, Carbondale 1970; Morris, B., Dewey’s Aesthetics: The Tragic Encounter with Nature,
“Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 32, 1971, pp. 189-96; Smith, C. M., The Aesthetics of
John Dewey and Aesthetic Education, “Educational Theory”, 21, 1971, pp. 131-45; Buettner, S.,
J. Dewey and the Visual Arts in America, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 35, 1974-75,
pp. 189-196; Madenfort, D., The Aesthetic as Immediately Sensous: An Historical Perspective,
“Studies in Art Education”, 16, 1974-75, pp. 5-17; Lipman, M., Can Non Aesthetic Consequences
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Table of Contents
1. Presentazione
2. Prefazione
3. 1 – La creatura vivente
4. 2 – La creatura vivente e le “cose eteree”
5. 3 – Fare un’esperienza
6. 4 – L’atto dell’espressione
7. 5 – L’oggetto espressivo
8. 6 – Sostanza e forma
9. 7 – La storia naturale della forma
10. 8 – L’organizzazione delle energie
11. 9 – La sostanza comune delle arti
12. 10 – La sostanza differente delle arti
13. 11 – L’apporto umano
14. 12 – La sfida alla filosofia
15. 13 – Critica e percezione
16. 14 – Arte e civiltà
17. Note
18. Appendice biobibliografica

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