Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Classici
N. 5
COMITATO SCIENTIFICO
Simona Chiodo
Paolo D’Angelo
Pina De Luca
Elio Franzini
Tonino Griffero
Giovanni Matteucci
Salvatore Tedesco
John Dewey
Arte come esperienza
a cura di Giovanni Matteucci
Aesthetica Edizioni
2020 Aesthetica Edizioni
Collana: Classici, n. 5
www.aestheticaedizioni.it
info@aestheticaedizioni.it
Tel: +39 02 24861657 / 24416383
L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al ne di identi care gli
aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie
obbligazioni.
Presentazione
1 Non solo convenzionalmente, è con la pubblicazione del volume del 1903 Studies in Logical
Theory che si considera de nitivamente compiuta l’adesione di Dewey al pragmatismo. Tutte le
opere di Dewey sono raccolte nell’edizione critica integrale avviata nel 1967 a cura di Jo Ann
Boydston per la Southern Illinois University Press (Carbondale) e articolata in tre sezioni: The
Early Works, 1882-1898; The Middle Works, 1899-1924; The Later Works, 1925-1953. A questa
edizione si rinvia per tutti i testi deweyani ricordati.
2 Mentre sono del tutto assenti saggi di estetica nelle produzioni dei padri del pragmatismo,
Charles S. Peirce e William James, prima del 1934 gli interventi di Dewey su questi argomenti
sono sporadici e occasionali (cfr. la bibliogra a infra). – Lo sviluppo di qualche rilievo più
recente dell’estetica pragmatista, che tiene ampiamente conto della ri essione deweyana, è R.
Shusterman, Pragmatist Aesthetics. Living Beauty, Rethinking Art (1992), nuova ed. Rowman &
Little eld, Lanham ecc. 2000.
3 J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, a cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1965 2, p.
157.
4 Id., Rifare la loso a, a cura di A. Massarenti, Donzelli, Roma 1998, p. 74.
5 A ben vedere, ciò si deve a istanze af ni a quanto, tra ne Ottocento e inizio Novecento,
veniva elaborato nelle prospettive più genuine e meno ideologiche di loso a della vita e,
soprattutto, di antropologia loso ca Il fatto di non aver sempre colto questo parallelismo ha
creato supplementari dif coltà di comprensione e di interpretazione del pensiero di Dewey in
generale, e di Art as Experience in particolare.
6 J. Dewey, The Development of American Pragmatism (1925; versione inglese di Le
développement du pragmatisme américain, “Revue de métaphysique et de morale”, XXIX, 1922),
ora in The Later Works, vol. 2: 1925-1927, Southern Illinois University Press, Carbondale1988,
p. 17.
7 Ibidem. Cfr. al riguardo anche J. P. Murphy, Il pragmatismo, Il Mulino, Bologna 1997, p. 96.
8 J. Dewey, Intelligenza creativa (ma: The Need for a Recovery of Philosophy), a cura di L.
Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1957, pp. 34-37.
9 «La coscienza connota un tipo di relazione esterna [ovvero: è un modo di relazione tra
contenuti] e non denota invece una materia speciale o un modo di essere. La caratteristica
peculiare delle nostre esperienze, il fatto che non soltanto sono, ma sono conosciute, ciò che la loro
qualità “cosciente” è chiamata a spiegare, si chiarisce meglio in termini delle loro relazioni reciproche
– queste relazioni stesse essendo esperienza» (W. James, Esiste la «coscienza»?, in Saggi
sull’empirismo radicale, ed. it. parz. a cura di N. Dazzi, Laterza, Bari 1971, p. 48).
10 Dewey, Rifare la loso a, cit., p. 68.
11 Potrà sorprendere che su questa posizione speculativa si assesti un losofo essenzialmente
estraneo al travaglio disgregativo dell’eredità kantiana quale fu Dewey, il cui programma
teoretico maturò dapprima attraverso lo studio di Hegel, in seguito attraverso il confronto con
l’avvento del darwinismo (traumatico per buona parte degli ambienti intellettuali statunitensi),
in ne attraverso l’assimilazione dei Principles of Psychology di James. L’unico confronto di rilievo
con Kant risale forse alla dissertazione, ora perduta, del 1884 intitolata The Psychology of Kant.
– La ricezione di Dewey ha fortemente risentito di questa estraneità. Molti loso
“continentali” hanno infatti accusato l’agenda teoretica deweyana di ingenuità e grossolanità
poiché non vi hanno ritrovato i termini ni ed estenuati del dibattito post- e neo-kantiano a cui
si erano assuefatti. Potrebbe però essere segno di forza, e non di debolezza, aver mosso il
proprio pensiero in questa direzione prescindendo completamente dagli stilemi del
trascendentalismo. – Sui motivi loso ci e culturali che con uiscono nel pensiero di Dewey cfr.
Th. C. Dalton, Becoming John Dewey. Dilemmas of a Philosopher and Naturalist, Indiana
University Press, Bloomington 2002 (e, per le questioni toccate in questa introduzione,
soprattutto il cap. 7, pp. 149-174).
12 Dewey, Rifare la loso a, cit., p. 68.
13 Proprio in questi anni escono i tre volumi pubblicati da Dewey nel cui titolo compare il
concetto in questione: oltre a Experience and Nature e Art as Experience, si aggiunge nel 1938
Experience and Education.
14 Dewey, Rifare la loso a, cit., pp. 69-74.
15 Ivi, p. 70.
16 Sull’equivoco pragmatismo/utilitarismo cfr. H. Putnam, Il pragmatismo: una questione
aperta, trad. it. di M. Dell’Utri, Laterza, Roma-Bari (1992) 2003, pp. 14-29 e 65-84.
17 Consummation è termine tecnico in Dewey. Indica il giungere al termine dei processi
impliciti nelle cose stesse, in maniera prossima alla voce latina perfectio. Per questo si è deciso di
renderlo in questo volume con “perfezionamento”. Si tenga comunque presente che in altre
traduzioni la scelta è stata differente. In particolare, nella ed. it. di Experience and Nature curata
di P. Bairati (J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano (1973) 1990) è reso con
“consumazione”.
18 Dewey, Esperienza e natura, cit., p. 19. – D’ora in poi ci si riferirà a questa edizione con la
sigla EN, cui seguirà l’indicazione della pagina.
19 Ecco perché il pensiero di Dewey implica la possibilità di una logica materiale che sviluppa
queste forme di connessione afferenti direttamente all’empiria. Cfr. R. W. Sleeper, The Necessity
of Pragmatism. John Dewey’s Conception of Philosophy, University of Illinois Press, Urbana and
Chicago (1986) 2001 2.
20 Se ne veda la ricostruzione in Th. M. Alexander, John Dewey’s Theory of Art, Experience and
Nature. The Horizons of Feeling, State University of New York Press, New York 1987.
21 Si vedano i saggi raccolti in italiano in J. Dewey, Educazione e arte, a cura di L. Bellatalla,
La Nuova Italia, Firenze 1977. – Egualmente importante è la presenza nella collezione di Barnes
di opere che appartengono ad altre civiltà, il cui profondo signi cato viene minacciato se lo si
commisura schematicamente ai canoni convenzionali dell’esteticità occidentale matura. Questi
manufatti, documentati anche nel repertorio iconogra co dell’edizione originale di Art as
Experience a anco di capolavori dell’arte occidentale, hanno ricoperto un ruolo non marginale
nel sollecitare la critica deweyana alla musei cazione (sia nel senso della collezione di belle arti,
sia nel senso del repertorio etnogra co) che attraversa l’opera del 1934. – Entrambi i versanti
della critica alla musei cazione, e sulla base di premesse davvero molto vicine a quelle di
Dewey, si ritrovano nella recente posizione espressa da Jean-Marie Schaeffer, di cui cfr. ad
esempio Oggetti estetici?, in F. Desideri e G. Matteucci (a cura di), Dall’oggetto estetico
all’oggetto artistico, Firenze University Press, Firenze 2006, pp. 37-54.
22 Per quest’opera si cita dalla traduzione che segue nel presente volume, con la sigla AE e
l’indicazione di pagina.
23 «Un’emozione è diretta a, o derivante da o relativa a qualcosa di oggettivo, effettivamente o
idealmente. Un’emozione è implicata in una situazione il cui esito è sospeso e in cui il sé che si
muove nell’emozione è coinvolto vitalmente. Le situazioni sono deprimenti, minacciose,
intollerabili, trionfali» (AE, 88).
24 De nitive al riguardo le osservazioni di L. Russo, La polemica fra Croce e Dewey e l’arte
come esperienza, “Rivista di studi crociani”, 5, 1968, pp. 201-216.
25 Il medium è di fatto l’argomento dei capp. 9 e 10, che discutono il “sistema delle arti”
secondo gli elementi che accomunano e diversi cano i differenti media espressivi.
26 Come scrive chiaramente Dewey all’inizio di Art as Experience, anche se «nel modo comune
di vedere, l’opera d’arte viene identi cata spesso con l’edi cio, il libro, il dipinto o la statua nel
loro esistere separati dall’esperienza umana», in realtà «l’opera d’arte vera e propria è ciò che il
prodotto fa della e nella esperienza» (AE, 31). E molto più avanti precisa: «L’arte è una qualità
del fare e di ciò che viene fatto. Solo esteriormente, quindi, può essere designata con un
sostantivo nominale. Inerendo alla maniera e al contenuto del fare, essa è aggettivale per
natura» (AE, 215).
27 «L’opera d’arte vera e propria è la costruzione di un’esperienza integrale attraverso
l’interazione tra condizioni ed energie organiche e ambientali. [...] la cosa espressa viene estorta
al produttore dalla pressione esercitata da cose oggettive sugli impulsi e sulle tendenze naturali
– essendo dunque l’espressione ben altro che l’esito diretto e incontaminato di questi ultimi
elementi. [...] L’atto d’espressione che costituisce un’opera d’arte è una costruzione nel tempo,
non un’emissione istantanea. E questa affermazione signi ca assai di più che non che ci vuole
tempo perché il pittore trasferisca sulla tela la sua concezione immaginativa o lo scultore nisca
di lavorare il marmo. Signi ca che l’espressione del sé in e attraverso un medium, che è
costitutivo dell’opera d’arte, è essa stessa una interazione prolungata di qualcosa che scaturisce
dal sé con condizioni oggettive, un processo in cui entrambi questi elementi acquisiscono una
forma e un ordine che dapprima non possedevano» (AE, 86-87).
28 Che, occorre aggiungere, per Dewey è di natura sinestetica e intenzionale. Cfr., ad
esempio: «Sebbene possa essere isolato mediante dissezione anatomica, l’apparato ottico non
funziona mai isolatamente. Esso opera in connessione con la mano nel protendersi verso
qualcosa per esplorarne la super cie, nel guidare la manipolazione delle cose, nel dirigere la
locomozione. Questo fatto ne ha come conseguenza un altro: che le qualità sensoriali che ci
arrivano per il tramite dell’apparato visivo sono immediatamente legate a quelle che ci arrivano
da oggetti attraverso attività collaterali. La rotondità che si vede è quella delle palle; gli angoli
che si percepiscono sono non già il risultato di cambiamenti nei movimenti oculari, ma proprietà
di libri e scatole maneggiate; linee curve sono la volta celeste, la volta di un edi cio; si vedono
linee orizzontali come la distesa del terreno, il margine delle cose che ci circondano. Questo
fattore è implicato così di continuo e immancabilmente ogni volta che usiamo gli occhi che forse
è impossibile riferire solo all’azione degli occhi le qualità delle linee esperite visivamente» (AE,
116).
Nota all’edizione del 2020
Come nelle riedizioni precedenti del testo qui pubblicato (2010, 2012 e 2017), si è
appro ttato della nuova edizione per correggere tacitamente alcuni refusi. Questa volta gli
interventi effettuati hanno però riguardato anche la resa di alcuni termini e passaggi in infra, pp.
42, 48, 51, 52, 62, 68 e 75.
Mentre nelle precedenti riedizioni la bibliogra a in calce al volume era stata aggiornata
censendo gli studi italiani pubblicati tra il 2006 e il 2015 (cfr. infra, p. 354), nella presente
edizione si è rinunciato a proseguire in questo modo. Per una corretta integrazione sarebbe
stato ormai imprescindibile dar conto anche della letteratura internazionale, signi cativamente
cresciuta negli ultimi anni per l’ampia riconsiderazione in corso del pensiero deweyano. Ciò
avrebbe richiesto un ripensamento strutturale dell’intero apparato bibliogra co. Si è deciso di
rinviare questa operazione ad altra occasione, che magari coinciderà con una revisione globale
anche della traduzione.
Arte come esperienza
di John Dewey
Ad Albert C. Barnes
con gratitudine
Prefazione
Tra l’inverno e la primavera del 1931 venni invitato a tenere una serie di
dieci lezioni alla Harvard University. L’argomento scelto era la loso a
dell’arte. Da tali lezioni trae origine questo volume. Il ciclo di lezioni è
stato istituito alla memoria di William James e io considero un grande
onore che questo libro venga associato, sebbene indirettamente, al suo
nome insigne. E mi fa piacere anche ricordare, con le lezioni, la costante
cortesia e ospitalità dei miei colleghi del Dipartimento di Filoso a di
Harvard.
Non è semplice per me riuscire a dar atto del debito che ho contratto nei
confronti di altri che hanno scritto su questo argomento. In parte lo si può
desumere considerando gli autori menzionati o citati nel testo.
Sull’argomento ho comunque lavorato per molti anni, leggendo in maniera
abbastanza estesa la letteratura in inglese, qualcosa di meno in francese e
ancor meno in tedesco, e ho assimilato molto da fonti che ora è dif cile
ricordare. Inoltre sono debitore verso numerosi autori in misura molto
maggiore di quanto si possa arguire dalle allusioni che ho fatto ad essi
all’interno del volume.
È invece più facile stabilire il mio debito nei confronti di coloro che mi
hanno aiutato direttamente. Joseph Ratner mi ha fornito numerosi
riferimenti signi cativi. Meyer Shapiro è stato tanto gentile da leggere il
dodicesimo e il tredicesimo capitolo dandomi suggerimenti che ho in
buona misura seguito. Irwin Edman ha letto gran parte della versione
manoscritta del libro, e devo molto ai suoi suggerimenti e alle sue critiche.
Sidney Hook ha letto molti dei capitoli, e la loro forma attuale è per molti
aspetti il risultato delle discussioni che ho avuto con lui; ciò è vero in
particolare per il capitolo sulla critica e per l’ultimo capitolo. La mia
gratitudine va però soprattutto ad Albert C. Barnes1. Con lui ho esaminato
i capitoli uno ad uno; ma quanto ho ricavato dai suoi commenti e dai suoi
suggerimenti grazie a questo confronto è solo una piccola porzione del
mio debito. Per diversi anni ho avuto la fortuna di conversare con lui, e in
molte occasioni ciò è accaduto al cospetto dell’ineguagliabile raccolta di
dipinti che ha messo insieme. L’in uenza di queste conversazioni, assieme
a quella dei suoi libri, è stata un elemento cruciale per plasmare il mio
stesso pensiero sulla loso a dell’estetica. Ciò che c’è di valido in questo
volume è dovuto, più di quanto io riesca a esprimere, al grande lavoro
pedagogico svolto all’interno della Barnes Foundation. Quel lavoro, per la
sua innovativa qualità, è comparabile al meglio che è stato fatto in
qualunque campo nell’arco di vita della generazione attuale, non escluso il
campo della scienza. Mi piacerebbe pensare a questo volume come a un
momento dell’ampia in uenza che esercita la Fondazione.
Ringrazio la Barnes Foundation per il permesso di riprodurre alcune
illustrazioni, e Barbara e Willard Morgan per le fotogra e da cui sono state
ricavate le riproduzioni2.
1 – La creatura vivente
Per una delle perversità ironiche che spesso af iggono il corso delle cose,
l’esistenza delle opere d’arte da cui dipende la formazione di una teoria
estetica è diventata un ostacolo per la teoria che le concerne. Uno dei
motivi di ciò è che queste opere sono prodotti che esistono esternamente e
sicamente. Nel modo comune di vedere, l’opera d’arte viene identi cata
spesso con l’edi cio, il libro, il dipinto o la statua nel loro esistere separati
dall’esperienza umana. Visto che l’opera d’arte vera e propria è ciò che il
prodotto fa della e nella esperienza, tale conclusione non agevola la
comprensione. Inoltre la stessa perfezione di alcuni di questi prodotti, il
prestigio che essi possiedono grazie a una lunga storia di ammirazione
indiscussa, crea convenzioni che ostruiscono la strada per un’analisi senza
pregiudizi. Appena un prodotto dell’arte consegue lo status di classico,
appare in qualche modo isolato dalle condizioni umane sotto le quali è
stato generato e dalle conseguenze umane che esso determina
nell’esperienza effettiva della vita.
Quando si separano gli oggetti artistici sia dalle condizioni della loro
origine, sia dalle condizioni secondo le quali essi operano nell’esperienza,
viene costruito un muro attorno a loro che ne rende quasi opaca la
signi catività generale di cui si occupa la teoria estetica. L’arte è con nata
in un regno separato in cui viene meno la sua connessione con i materiali e
gli scopi di ogni altra forma di sforzo, di impresa e di successo dell’uomo.
A chi comincia a scrivere sulla loso a delle belle arti si impone allora un
compito primario: ripristinare la continuità tra quelle forme raf nate e
intense d’esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e i
patimenti di ogni giorno che, com’è riconosciuto universalmente,
costituiscono l’esperienza. Le cime delle montagne non uttuano senza
sostegno; e neppure poggiano sul terreno. Esse sono la terra in una della
sue attività manifeste. È problema di coloro che si occupano della teoria
della terra, geogra e geologi, rendere evidente questo fatto nelle sue varie
implicazioni. Il teorico che desidera occuparsi loso camente dell’arte
bella deve assolvere un compito simile.
Chi è disposto ad accettare questa posizione, anche se solo come ipotesi
sperimentale provvisoria, vedrà che da qui segue una conclusione a prima
vista sorprendente. Per comprendere il signi cato dei prodotti artistici
dobbiamo per un po’ dimenticarli, distoglierci da essi e rivolgerci alle forze
e alle condizioni ordinarie dell’esperienza che solitamente non
consideriamo estetica. Dobbiamo arrivare alla teoria dell’arte deviando
dalla strada diretta. La teoria si occupa infatti del comprendere, del capire,
tanto quanto delle esclamazioni di ammirazione e della sollecitazione di
quell’esplosione emotiva chiamata spesso apprezzamento. È certo possibile
godere dei ori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza
senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone
di comprendere il orire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra
suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante.
È concordemente riconosciuto che il Partenone è una grande opera
d’arte. Eppure esso possiede statuto estetico solo quando l’opera diventa
un’esperienza per un essere umano. E se si vuole andare al di là del
godimento personale cercando di elaborare una teoria che concerna
l’ampia repubblica dell’arte di cui questo edi cio è un membro, a un certo
punto delle proprie ri essioni si deve accettare di volgere lo sguardo da
esso ai cittadini ateniesi dotati di grande sensibilità, presi dai loro affari e
dalle loro dispute, ricchi di un senso civico che si identi cava con una
religione civile, della cui esperienza il tempio fu un’espressione che essi
costruirono non come opera d’arte ma come monumento civile. Volgersi a
loro signi ca volgersi a esseri umani che ebbero bisogni che si tradussero
nell’esigenza di costruire l’edi cio e che trovarono soddisfazione in esso; e
non è un’analisi del tipo di quella che potrebbe svolgere un sociologo in
cerca di materiali rilevanti per il suo scopo. Chi intende ri ettere
teoricamente sull’esperienza estetica che ha preso corpo nel Partenone
deve gurarsi con il pensiero che cosa avevano in comune le persone della
cui vita esso era parte (sia chi lo creò, sia chi ne fruì) con le persone che
vivono nelle nostre case e che circolano per le nostre strade.
Al ne di comprendere l’estetico nelle sue forme fondamentali e
riconosciute, si deve cominciare dal considerarlo allo stato grezzo; dagli
eventi e dalle scene che attirano l’occhio e l’orecchio attento dell’uomo,
suscitando il suo interesse e procurandogli piacere quando egli guarda e
ascolta: le cose che attirano gli sguardi della folla – l’auto dei pompieri che
passa; le macchine che scavano enormi buchi nel terreno; l’uomo-mosca
che si arrampica sul anco del campanile; le persone appollaiate su alte
travi sospese mentre lanciano e afferrano bulloni incandescenti. Riconosce
le fonti dell’arte nell’esperienza umana chi vede come la grazia carica di
tensione del giocatore contagia la folla che sta guardando; chi nota il
piacere che ha la padrona di casa a prendersi cura delle sue piante e
l’interesse con cui il suo buon marito si dedica alle cure del ritaglio di prato
davanti a casa; il gusto che ha chi guarda il fuoco ad attizzare la legna che
sta bruciando nel camino e a osservare le amme che guizzano e le braci
che si sgretolano. Queste persone, se interrogate sui motivi delle loro
azioni, darebbero senz’altro risposte ragionevoli. Chi attizzava il pezzetto
di legno che bruciava direbbe che lo faceva per ravvivare il fuoco; ma egli
è affascinato egualmente dal variopinto gioco di trasformazioni messo in
scena davanti ai suoi occhi a cui prende parte con l’immaginazione. Non
resta un freddo spettatore. Ciò che ha detto Coleridge del lettore di poesia
è vero a suo modo di tutti coloro che sono felicemente assorbiti nelle loro
attività della mente o del corpo: «il lettore dovrebbe essere sospinto
innanzi non già semplicemente, o principalmente, dall’impulso meccanico
della curiosità, né da un desiderio irrequieto di arrivare allo scioglimento
nale, bensì dalla piacevole attività [...] del viaggio stesso»3.
Il meccanico intelligente preso dalla sua opera, interessato a far bene e a
trovare soddisfazione nel suo lavoro manuale, che si prende cura con vera
passione dei suoi materiali e dei suoi strumenti, è impegnato in un’attività
artistica. La differenza tra un lavoratore di tal genere e un pasticcione
inetto e negligente è grande nella bottega di un artigiano così come nello
studio di un artista. Spesso il prodotto può non sollecitare il senso estetico
di chi usa il prodotto. Ma spesso non per colpa del lavoratore, bensì delle
condizioni del mercato per il quale il suo prodotto è progettato. Se ci
fossero condizioni e opportunità differenti, si produrrebbero cose tanto
signi cative per l’occhio quanto lo erano quelle prodotte da artigiani di
epoche precedenti.
Le idee che pongono l’arte su un piedistallo distante sono tanto diffuse e
così sottilmente pervasive che più di una persona proverebbe ripulsa
anziché piacere se le si dicesse che il motivo per cui ha goduto dei suoi
divertimenti occasionali è, almeno in parte, la loro qualità estetica. Le arti
che oggi hanno maggiore vitalità per l’uomo medio sono cose che egli non
considera arti: ad esempio, il cinema, la musica jazz, le strisce umoristiche
e, n troppo di frequente, i resoconti giornalistici di intrecci amorosi,
omicidi e imprese banditesche. Infatti, dal momento che ciò che egli
riconosce come arte è con nato in musei e gallerie, l’impulso indomabile
verso esperienze in se stesse godibili trova solo gli sbocchi che offre
l’ambiente di tutti i giorni. Più di una persona che protesta contro la
concezione museale dell’arte continua a condividere l’idea errata da cui
scaturisce quella concezione. Questo perché la nozione comune deriva da
una separazione dell’arte dagli oggetti e dalle scene dell’esperienza
quotidiana che molti teorici e molti critici si vantano di sostenere o
addirittura di elaborare. Nel caso in cui oggetti scelti ed eccezionali sono
strettamente connessi ai prodotti dei mestieri usuali, il relativo
apprezzamento è il più ampio e il più profondo. Quando, per la loro
lontananza, gli oggetti che le persone colte riconoscono essere opere
dell’arte bella appaiono privi di vigore alla maggioranza della popolazione,
è facile che la fame estetica vada alla ricerca di qualcosa di volgare e a
buon mercato.
I fattori che hanno consacrato l’arte bella ponendola su un lontano
piedistallo non sono sorti all’interno del regno dell’arte, né la loro
in uenza è stata circoscritta alle arti. Per molte persone un’aura di
soggezione mista a irrealtà avvolge ciò che è “spirituale” e “ideale”,
mentre “materia” è diventato per contrasto un termine spregiativo,
qualcosa da giusti care o di cui scusarsi. Le forze che sono all’opera sono
quelle che hanno eliminato sia la religione che l’arte bella dallo scopo cui
mira la vita comune o della comunità. Queste forze hanno prodotto
storicamente così tanti sconvolgimenti e così tante divisioni nella vita e nel
pensiero della modernità che l’arte non ha potuto sottrarsi alla loro
in uenza. Non dobbiamo spingerci no alla ne del globo, né risalire nel
tempo a molti millenni fa per trovare popoli per i quali qualsiasi cosa che
intensi chi il senso della vita immediata è oggetto di profonda
ammirazione. Incisioni sul corpo, penne che si agitano, tuniche vistose,
ornamenti scintillanti d’oro e d’argento, di smeraldo e di giada, formavano
i contenuti di arti estetiche, e presumibilmente privi di quella volgarità
dell’esibizionismo di classe che accompagna i loro analoghi d’oggi. Utensili
domestici, arredamenti di tende e case, tappeti, stuoie, vasi, pentole, archi,
lance, erano lavorati con una tale ne cura da renderli oggi ricercatissimi,
tanto che a loro viene dato il posto d’onore nei nostri musei di belle arti.
Eppure nel loro tempo e nel loro luogo speci co tali cose servivano a dare
enfasi agli eventi della vita quotidiana. Invece di essere innalzati e posti in
una nicchia isolata, erano parte dei modi in cui si esibivano abilità, si
manifestava l’appartenenza a un gruppo o a una tribù, si veneravano gli
dei, banchettando e digiunando, lottando, cacciando, in tutti i momenti
topici che scandiscono ritmicamente il corso della vita.
La danza e la pantomima, ossia le fonti dell’arte del teatro, sorsero come
parte di riti e celebrazioni di carattere religioso. L’arte musicale era più che
presente nel momento in cui si pizzicava una corda allungata, si
percuoteva una pelle tesa, si sof ava nelle canne. Anche nell’età delle
caverne le abitazioni umane erano ornate con gure colorate che
mantenevano desto il ricordo di esperienze sensoriali relative agli animali,
tanto strettamente legati alle vite degli esseri umani. Le strutture in cui
dimoravano i loro dei e gli strumenti che agevolavano il rapporto con le
forze superiori erano lavorate con particolare nezza. Ma in questi casi
esemplari le arti della recitazione, della musica, della pittura e
dell’architettura non erano legate in modo particolare a teatri, gallerie e
musei. Erano parte degli aspetti signi cativi della vita di una comunità
organizzata.
La vita collettiva resa manifesta nella guerra, nel culto, nel tribunale, non
prevedeva separazioni tra ciò che era caratteristico di questi luoghi e di
queste attività, e le arti che vi conferivano colore, grazia e dignità. Pittura e
scultura erano organicamente unite all’architettura, così come quest’ultima
era unita allo scopo sociale a cui servivano gli edi ci. Musica e canto erano
parti intrinseche dei riti e delle cerimonie in cui veniva celebrato il
signi cato della vita di gruppo. La recitazione era una riproposizione vitale
delle leggende e della storia della vita di gruppo. Nemmeno ad Atene si
possono sciogliere tali arti da questo contesto di esperienza diretta senza
comprometterne il carattere signi cativo. Le gare sportive, così come la
tragedia, celebravano e rafforzavano le tradizioni della stirpe e del gruppo,
istruendo la popolazione, commemorando le glorie e consolidando il loro
orgoglio civile.
In tali condizioni non sorprende che i greci di Atene, cominciando a
ri ettere sull’arte, abbiano plasmato l’idea secondo cui essa sarebbe un
atto di riproduzione, ovvero di imitazione. Ci sono molte obiezioni contro
questa concezione. Ma la fortuna della teoria testimonia la stretta
connessione delle belle arti con la vita quotidiana; l’idea non sarebbe
venuta in mente a nessuno che avesse considerato l’arte separata dagli
interessi della vita. Infatti questa dottrina non signi ca che l’arte
consisterebbe nel copiare alla lettera gli oggetti, ma che essa ri etterebbe
le emozioni e le idee associate alle istituzioni principali della vita sociale.
Platone avvertì questa connessione in modo talmente forte da essere
indotto a pensare che fosse necessario censurare poeti, drammaturghi e
musicisti. Forse esagerò quando disse che il passaggio dal modo dorico al
modo lidio in musica sarebbe stato il fatale prodromo della degenerazione
civile4. Ma nessun contemporaneo avrebbe dubitato che la musica fosse
parte integrante dell’ethos e delle istituzioni della comunità. L’idea
dell’“arte per l’arte” non sarebbe stata neppure compresa.
Ci devono essere quindi ragioni storiche perché sorga la concezione
isolazionista dell’arte. I nostri musei e le nostre gallerie d’oggi, in cui sono
relegate e depositate opere dell’arte bella, rendono evidenti alcune delle
cause che hanno fatto sì che l’arte venisse segregata e non, invece,
considerata un’ancella del tempio, del tribunale o delle altre forme della
vita associata. Un’istruttiva storia dell’arte moderna si potrebbe scrivere
considerando la formazione delle caratteristiche istituzioni moderne del
museo e della galleria per esposizioni. Potrei ricordare alcuni fatti rilevanti.
La maggior parte dei musei europei è, tra le altre cose, un monumento alla
nascita del nazionalismo e dell’imperialismo. Ogni capitale deve avere il
suo speci co museo di pittura, scultura ecc., deputato da un lato a esibire
la grandezza del suo passato artistico e, dall’altro, a esibire il bottino
acquisito dai suoi monarchi durante la conquista di altre nazioni; si pensi,
ad esempio, ai cumuli di opere depredate da Napoleone che sono nel
Louvre. Essi testimoniano la connessione tra la segregazione moderna
dell’arte e nazionalismo e militarismo. Indubbiamente questa connessione
è servita a volte a uno scopo pro cuo, come nel caso del Giappone che,
durante il processo di occidentalizzazione, salvò buona parte dei propri
tesori artistici nazionalizzando i templi che li contenevano.
La crescita del capitalismo ha esercitato una grande in uenza sullo
sviluppo del museo in quanto casa propria delle opere d’arte, e sulla
promozione dell’idea per cui le opere d’arte sono separate dalla vita
comune. I nouveaux riches5, che costituiscono un importante
sottoprodotto del sistema capitalistico, si sono sentiti soprattutto in dovere
di circondarsi di opere dell’arte bella costose perché rare. In generale, il
collezionista tipico è il capitalista tipico. Per dimostrare una buona
posizione nel regno della cultura più elevata, egli ammassa dipinti, statue,
e bijoux6 artistici alla stessa stregua in cui i suoi titoli e le sue obbligazioni
certi cano la sua posizione nel mondo economico.
Non solo individui, ma anche comunità e nazioni mettono in evidenza il
loro buon gusto culturale costruendo teatri d’opera, gallerie e musei.
Questi mostrano che una comunità non è interamente assorbita dalla
ricchezza materiale poiché è disposta a investire i propri pro tti nella
promozione dell’arte. La costruzione di questi edi ci e la raccolta dei loro
contenuti equivale, oggi, all’innalzamento di una cattedrale. Queste cose
ri ettono e istituiscono uno status culturale superiore, laddove invece la
loro segregazione dalla vita comune ri ette il fatto che esse non sono parte
di una cultura nativa e spontanea. Esse costituiscono una sorta di
controparte di un atteggiamento di superiorità spirituale esibito non nei
confronti di persone come tali, ma nei confronti degli interessi e delle
occupazioni che assorbono la maggior parte del tempo e dell’energia della
comunità.
L’industria moderna e il commercio moderno sono su scala
internazionale. I contenuti delle gallerie e dei musei testimoniano la
crescita del cosmopolitismo economico. La mobilità delle attività e delle
popolazioni, dovuta al sistema economico, ha indebolito o distrutto la
connessione tra opere d’arte e il genius loci7 di cui erano un tempo
l’espressione naturale. Avendo perso la loro condizione nativa, le opere
d’arte ne hanno acquisita una nuova – quella di essere esemplari di arte
bella e null’altro. Inoltre le opere d’arte ora sono prodotte, come altre
merci, per essere vendute sul mercato. Il patrocinio economico da parte di
individui ricchi e potenti ha giocato molte volte un ruolo nel sostenere la
produzione artistica. Probabilmente molte tribù selvagge hanno avuto un
loro Mecenate. Ma ora nell’impersonalità di un mercato mondiale è andata
perduta anche buona parte di quella profonda connessione sociale.
Oggetti che in passato erano validi e signi cativi per il loro posto nella vita
di una comunità, ora agiscono isolati dalle condizioni della loro origine.
Perciò essi sono anche distinti dall’esperienza comune, e fungono da
emblemi del gusto e da attestati di una cultura particolare.
A causa delle trasformazioni delle condizioni industriali l’artista è stato
spinto ai margini dei corsi principali dell’interesse produttivo. L’industria è
stata meccanizzata, ma un artista non può lavorare meccanicamente per
produzioni di massa. Egli è meno integrato di prima nel usso dei servizi
sociali. Ne deriva un peculiare “individualismo” estetico. Per gli artisti
diventa obbligatorio dedicarsi alla propria opera intesa come un mezzo
isolato di “espressione di sé”. Per non accondiscendere alla tendenza delle
forze economiche, spesso si sentono costretti a enfatizzare la loro
separatezza no a diventare eccentrici. Di conseguenza i prodotti artistici
assumono in misura ancora maggiore l’aspetto di qualcosa di indipendente
ed esoterico.
Se si prende nel suo complesso l’azione di tutte queste forze, ecco allora
che le condizioni che determinano lo iato che in genere esiste tra
produttore e consumatore nella società moderna riescono a creare anche
un abisso tra esperienza normale ed esperienza estetica. Da ultimo, a
testimoniare questo abisso accettato come se fosse normale, abbiamo le
loso e dell’arte che la pongono in una regione disabitata da ogni altra
creatura, e che enfatizzano oltre ogni ragionevolezza il carattere
meramente contemplativo dell’estetico. Ad accentuare la separazione
interviene la confusione dei valori. Elementi marginali, come il piacere di
collezionare, di esibire, di possedere e di apparire, si spacciano per valori
estetici. Ciò in uisce sulla critica. Si plaude molto lo stupore che segue
all’apprezzamento e ci si compiace per le glorie della bellezza trascendente
dell’arte senza prendere in grande considerazione la capacità di percepire
concretamente in maniera estetica.
Il mio scopo, comunque, non è di impegnarmi in un’interpretazione
economica della storia delle arti, e tanto meno sostenere che le condizioni
economiche sono rilevanti invariabilmente o direttamente per la
percezione e la fruizione, o anche per l’interpretazione di singole opere
d’arte. Vorrei invece mostrare come le teorie che isolano l’arte e la sua
valutazione ponendole in un regno loro proprio, separato da altre modalità
d’esperienza, non sono intrinseche all’argomento della ricerca ma sorgono
a causa di speci che condizioni estrinseche. Essendo radicate nelle
istituzioni e nelle consuetudini di vita, queste condizioni sono davvero
ef caci nella misura in cui operano inconsciamente. Ecco perché il teorico
crede che siano radicate nella natura delle cose. Tuttavia l’in uenza di
queste condizioni non è circoscritta alla teoria. Come ho già mostrato,
agisce in profondità sulla vita pratica in quanto allontana percezioni
estetiche che sono ingredienti necessari della felicità, oppure le riduce al
livello di ef mere eccitazioni piacevoli compensatorie.
Anche per i lettori che sono orientati negativamente verso ciò che è stato
detto, le implicazioni delle affermazioni fatte possono essere utili per
de nire la natura del problema: quello di ripristinare la continuità
dell’esperienza estetica con i processi normali del vivere. Non si favorisce
la comprensione dell’arte e del suo ruolo nella civiltà se si comincia
tessendo le lodi dell’arte, né se all’inizio ci si occupa esclusivamente di
grandi opere d’arte riconosciute come tali. Si arriverà alla comprensione
messa alla prova dalla teoria deviando dalla strada diretta; ritornando
all’esperienza del corso ordinario delle cose per scoprire la qualità estetica
che possiede tale esperienza. La teoria può partire con e da opere d’arte
riconosciute solo quando l’estetico è già isolato, o solo quando le opere
d’arte sono messe in una nicchia separata invece di essere celebrazioni,
riconosciute come tali, delle cose dell’esperienza comune. Anche
un’esperienza rozza, se è autenticamente un’esperienza, è più adatta a
fornire un indizio sulla natura intrinseca dell’esperienza estetica di quanto
lo sia un oggetto già separato da ogni altra modalità d’esperienza.
Seguendo questo indizio possiamo scoprire come l’opera d’arte sviluppi e
accentui ciò che è tipicamente valido nelle cose di cui godiamo ogni
giorno. E si vedrà come il prodotto dell’arte scaturisca da queste ultime
una volta che si sia espresso il pieno signi cato dell’esperienza comune,
così come le tinture vengono fuori dal carbon fossile dopo aver subito un
trattamento speciale.
Esistono già molte teorie relative all’arte. Se c’è una giusti cazione del
fatto che si proponga ancora un’altra loso a dell’estetica, bisogna trovarla
in una nuova modalità d’approccio. È facile procedere combinando e
permutando teorie già esistenti se se ne ha l’inclinazione. Ma, secondo me,
il problema con le teorie esistenti è che partono da una
compartimentazione prestabilita, o da una concezione dell’arte che la
“spiritualizza” al di fuori della connessione con gli oggetti dell’esperienza
concreta. L’alternativa a tale spiritualizzazione non è, comunque, la
svalutazione e la materializzazione listea delle opere dell’arte bella, ma
una concezione che sveli il modo in cui queste opere idealizzano qualità
trovate nell’esperienza comune. Se le opere d’arte fossero subito poste in
un contesto umano già dal momento della considerazione a livello
popolare, esse susciterebbero molto più interesse di quel che accade
quando ottengono consenso generale teorie basate sull’idea dell’arte come
nicchia.
Una concezione dell’arte bella che cominci dalla sua connessione con
qualità colte nell’esperienza ordinaria sarà in grado di individuare le forze
che favoriscono la normale evoluzione delle comuni attività umane in
elementi di valore estetico. Sarà anche in grado di mettere in rilievo quelle
condizioni che ne arrestano la crescita naturale. Chi scrive di teoria estetica
spesso pone la questione se l’estetica loso ca possa aiutare a coltivare
l’apprezzamento estetico. La questione rientra nella teoria generale della
critica che, a mio parere, non riesce ad assolvere pienamente al proprio
compito se non indica che cosa cercare e che cosa trovare in oggetti
estetici concreti. Ma in ogni caso si può senz’altro dire che una loso a
dell’arte è sterile nché non rende consapevoli della funzione dell’arte in
rapporto ad altre modalità d’esperienza, nché non indica perché questa
funzione è svolta in modo talvolta inadeguato, e nché non suggerisce
quali sono le condizioni in base alle quali il compito verrebbe assolto con
successo.
Il confronto tra l’emergere delle opere d’arte dalle esperienze comuni e il
raf nare materiali grezzi trasformandoli in prodotti apprezzabili, può
sembrare a qualcuno inopportuno, se non addirittura un tentativo di
ridurre le opere d’arte al rango di merci confezionate per scopi
commerciali. Il punto è, però, che nessuna dose di elogi estatici per opere
compiute può di per sé aiutare a comprendere o a generare tali opere. Si
può godere dei ori senza conoscere le interazioni tra suolo, aria, umidità e
semi di cui sono il risultato. Ma i ori non possono essere compresi senza
prendere in considerazione proprio queste interazioni – e una teoria ha a
che fare con la comprensione. La teoria concerne la scoperta della natura
della produzione di opere d’arte e della loro fruizione nella percezione.
Come accade che il quotidiano far cose si trasforma in quella forma di fare
che è genuinamente artistica? Come accade che il nostro quotidiano
godere di scene e situazioni si evolve nella peculiare soddisfazione che
accompagna l’esperienza enfaticamente estetica? Queste sono le domande
a cui deve rispondere una teoria. Le risposte non si trovano nché non
siamo disposti a rintracciare i germi e le radici in elementi d’esperienza che
correntemente non reputiamo estetici. Dopo aver scoperto questi semi
attivi, possiamo seguire il corso della loro trasformazione nelle forme
supreme dell’arte perfetta e raf nata.
È banale affermare che non possiamo dirigere, se non accidentalmente,
la crescita e il orire delle piante, per quanto ci attraggano e ci piacciano,
senza comprenderne le condizioni causali. Credo sia egualmente banale
affermare che la comprensione estetica – in quanto distinta dal godimento
puramente personale – deve partire dal suolo, dall’aria e dalla luce grazie a
cui nascono cose esteticamente degne d’ammirazione. E queste condizioni
sono le condizioni e i fattori che rendono compiuta un’esperienza comune.
Più riconosciamo questo fatto, più ci troveremo di fronte a un problema
anziché a una soluzione nale. Se in ogni esperienza normale è implicita
una qualità artistica ed estetica, in che modo potremo spiegare come e
perché essa di solito non riesce a diventare esplicita? Perché accade che ai
più l’arte sembri l’incursione nell’esperienza da un paese straniero, e
l’estetico sinonimo di qualcosa di arti ciale?
Non è possibile rispondere a queste domande né seguire come l’arte si
sviluppa dall’esperienza quotidiana nché non si ha un’idea chiara e
coerente di ciò che si intende quando si parla di “esperienza normale”.
Fortunatamente la strada per arrivare a tale idea è aperta e ben segnata. La
natura dell’esperienza è determinata dalle condizioni essenziali della vita.
Malgrado sia differente dall’uccello e dall’animale, l’uomo condivide con
essi funzioni vitali basilari e deve compiere il medesimo adattamento di
fondo per proseguire nel suo processo di vita. Avendo gli stessi bisogni
vitali, l’uomo trae dai suoi antenati animali i mezzi con cui respira, si
muove, guarda e ascolta, e anche il cervello con cui coordina i suoi sensi e i
suoi movimenti. Gli organi con cui si mantiene in essere non sono
esclusivamente suoi, ma si devono alle lotte e ai successi di una lunga linea
di discendenza animale.
Per fortuna una teoria relativa alla posizione dell’estetico nell’esperienza
non si deve perdere in dettagli minuti se parte dall’esperienza nella sua
forma elementare. È suf ciente una trattazione di massima. La prima
considerazione importante è che la vita si sviluppa in un ambiente; non
solo in esso, ma a causa sua, interagendo con esso. Nessuna creatura vive
solo sotto la propria pelle; i suoi organi sottocutanei sono mezzi per
connettersi con ciò che si trova al di là della sua cornice corporea, e a cui
per vivere essa si deve conformare, adattandosi e difendendosi ma anche
conquistandolo. In ogni momento la creatura vivente è esposta ai pericoli
che provengono dall’ambiente circostante, e in ogni momento essa deve
ricorrere a qualcosa nel suo ambiente circostante per soddisfare i propri
bisogni. Il corso e il destino di un essere vivente sono vincolati ai suoi
scambi con il suo ambiente, in modo non estrinseco bensì assolutamente
intrinseco.
Il ringhio di un cane accovacciato sopra il suo cibo, il suo guaito quando
è perso e solo, il suo scodinzolare al ritorno dell’amico umano, sono
espressioni dell’implicazione di un essere vivente in un medium naturale
che include l’uomo insieme agli animali che ha addomesticato. Ogni
bisogno, la voglia di aria fresca come quella di cibo, è una carenza che
denota almeno un’assenza temporanea di adattamento adeguato con
l’ambiente circostante. Ma è anche una richiesta, un tendere la mano verso
l’ambiente per colmare le lacune e ripristinare l’adattamento stabilendo
almeno un equilibrio temporaneo. La vita stessa consiste di fasi in cui
l’organismo perde il passo della marcia delle cose circostanti e poi torna
all’unisono con essa – o attraverso uno sforzo, o per un qualche caso
fortunato. E in una vita in crescita il ripristino non è mai il ritorno a uno
stato precedente, poiché essa è arricchita dallo stato di sperequazione e
resistenza attraverso il quale è dovuta passare con successo. Se la discrasia
tra organismo e ambiente è troppo ampia, la creatura muore. Se la sua
attività non è sollecitata da una temporanea alienazione, essa non fa che
sussistere. La vita cresce quando una momentanea aritmìa comporta una
transizione verso un equilibrio più ampio delle energie dell’organismo con
quelle delle condizioni sotto cui esso vive.
Queste ovvietà biologiche sono qualcosa di più che luoghi comuni;
giungono alle radici dell’estetico nell’esperienza. Il mondo è pieno di cose
che sono indifferenti o addirittura ostili alla vita; gli stessi processi
mediante cui la vita si conserva tendono a farla espellere dal suo ambiente
circostante. Eppure se la vita continua, e se continuando si espande,
vengono sopraffatti fattori di opposizione e di con itto, che vengono
trasformati in aspetti differenziati di una vita di maggior potenza e
signi catività. Ha effettivamente luogo il prodigio di ciò che è organico,
vitale: l’adattamento per espansione, anziché per contrazione e
sistemazione passiva. Vi sono qui, in germe, equilibrio e armonia ottenuti
mediante il ritmo. L’equilibrio si stabilisce non in maniera meccanica e
inerte, ma muovendo da un tensione e per sua causa.
In natura, anche al di sotto del livello della vita, c’è qualcosa di più che
mero usso e cambiamento. Si giunge alla forma ogni volta che si arriva a
un equilibrio stabile, sebbene in movimento. I cambiamenti sono
interdipendenti e si sostengono l’uno con l’altro. Ovunque vi sia questa
coerenza c’è resistenza. L’ordine non è imposto dall’esterno ma risulta
dalle relazioni di interazioni armoniose che hanno tra loro alcune energie.
Ed essendo attivo (non qualcosa di statico poiché estraneo a ciò che
succede) l’ordine sviluppa se stesso. Esso nel suo movimento equilibrato
nisce per coinvolgere un numero sempre più grande di mutamenti.
Non si può che ammirare l’ordine in un mondo costantemente
minacciato dal disordine – in un mondo in cui le creature viventi possono
continuare a vivere solo traendo vantaggio da qualunque ordine esista
intorno a loro, incorporandolo in loro stesse. In un mondo come il nostro,
ogni volta che qualsiasi creatura vivente che acquisisca sensibilità incontra
un ordine congruo attorno a sé lo saluta con favore reagendovi con un
sentimento d’armonia. Infatti, solo quando un organismo prende parte alle
relazioni ordinate del suo ambiente si garantisce la stabilità che è
essenziale al vivere. E quando la partecipazione giunge dopo una fase di
scompiglio e di con itto, essa porta con sé i germi di una perfezione simile
all’estetico.
L’alternanza tra perdita dell’integrazione con l’ambiente e ripristino
dell’unione non solo permane nell’uomo, ma con lui diventa consapevole;
le condizioni di questa alternanza sono il materiale con cui egli dà forma
agli scopi. L’emozione è il segno cosciente di una frattura, attuale o
incombente. La disarmonia è l’occasione che spinge alla ri essione. Il
desiderio del ripristino dell’unione trasforma la mera emozione in interesse
per alcuni oggetti in quanto condizioni per la realizzazione dell’armonia.
Quando si realizza l’armonia, il materiale della ri essione è incorporato
negli oggetti come loro signi cato. Poiché l’artista si cura in modo
particolare della fase dell’esperienza in cui si raggiunge l’unione, egli non
rifugge i momenti di resistenza e di tensione. Piuttosto li coltiva, non per
loro stessi ma per le loro potenzialità, portando a viva coscienza
un’esperienza che è uni cata e totale. In contrasto con chi ha uno scopo
estetico, l’uomo di scienza è interessato a problemi e situazioni in cui è
marcata la tensione tra il materiale dell’osservazione e il pensiero.
Sicuramente egli ha a cuore la soluzione di questi problemi. Ma non si
ferma a ciò; passa ad un altro problema impiegando una soluzione
conseguita solo come gradino da cui avviare ulteriori indagini.
La differenza tra l’estetico e l’intellettuale è così una differenza relativa al
luogo in cui cade l’accento nel ritmo costante che caratterizza l’interazione
della creatura vivente con il suo ambiente circostante. La materia ultima di
entrambi gli accenti nell’esperienza è la stessa, come è la stessa anche la
loro forma generale. La strana idea per cui un artista non pensa e un
ricercatore scienti co non fa che pensare deriva dal fatto di prendere una
differenza di cadenza e di accento per una differenza di genere. Il
pensatore ha il suo momento estetico quando le sue idee cessano di essere
mere idee e diventano i signi cati incarnati di oggetti. L’artista ha i suoi
problemi e pensa mentre è all’opera. Ma il suo pensiero prende corpo più
immediatamente nell’oggetto. Vista la relativa lontananza del suo ne, chi
opera scienti camente si serve di simboli, parole e segni matematici.
L’artista svolge il proprio pensiero negli stessi media qualitativi in cui
lavora, e i termini si trovano così vicini all’oggetto che sta producendo che
si fondono direttamente in esso.
L’animale vivente non deve proiettare emozioni negli oggetti di cui fa
esperienza. La natura è gentile e odiosa, dolce e scontrosa, irritante e
confortevole, molto prima di essere quali cata matematicamente o di
essere addirittura una congerie di qualità “secondarie” come i colori e le
relative sembianze. Anche parole come lungo e corto, pieno e vuoto,
implicano ancora per tutti, tranne che per coloro che sono specializzati sul
piano intellettuale, una connotazione morale ed emotiva. Il dizionario può
informare chiunque lo consulti che il primo uso di parole come dolce e
amaro non serviva a denotare qualità sensoriali come tali, ma a distinguere
le cose in favorevoli e ostili. Come potrebbe essere diversamente?
L’esperienza diretta viene dalla interazione reciproca tra natura e uomo. In
questa interazione l’energia umana si raccoglie, viene liberata, tenuta a
freno, ostacolata e resa vincente. Ci sono battiti ritmici di carenza e
soddisfazione, impulsi al fare e all’essere trattenuti dal fare.
Ogni interazione che genera stabilità e ordine nel usso vorticante del
cambiamento è ritmo. Ci sono usso e ri usso, sistole e diastole:
mutamento ordinato. Quest’ultimo si muove entro dei con ni.
Oltrepassare i limiti posti signi ca distruzione e morte, da cui peraltro
vengono creati nuovi ritmi. Quando si colgono i cambiamenti in maniera
proporzionata si stabilisce un ordine che è compaginato spazialmente e
non soltanto temporalmente: come le onde del mare, come le creste di
sabbia dove le onde sono giunte nel loro uire e ri uire, come la bianca
nuvoletta frastagliata e quella densa e scura. Il contrasto tra mancanza e
pienezza, tra lotta e successo, dell’adattamento che segue a una irregolarità
che è stata vinta, costituisce il gioco drammatico che unisce azione,
sentimento e signi cato. Ne derivano un equilibrio e controequilibrio che
non sono né statici né meccanici. Essi esprimono una forza che è intensa
perché viene misurata dal suo vincere una resistenza. Gli oggetti
circostanti servono e non servono.
Ci sono due tipi di mondi possibili in cui l’esperienza estetica non
avrebbe luogo. In un mondo di mero usso, il mutamento non sarebbe
progressivo; non si muoverebbe verso una conclusione. Non ci sarebbero
stabilità e quiete. Egualmente, però, è vero che un mondo compiuto,
nito, non avrebbe elementi di incertezza e di crisi e non offrirebbe
opportunità per una soluzione. Dove ogni cosa è già compiuta non c’è
compimento. Ci pre guriamo con piacere il Nirvana e una paradisiaca
felicità uniforme solo perché li proiettiamo sullo sfondo del nostro mondo
presente ricco di pressioni e con itti. È perché il mondo concreto, quello
in cui viviamo, è una combinazione di movimento e punti di vertice, di
fratture e ri-uni cazioni, che l’esperienza di una creatura vivente può
essere dotata di qualità estetica. L’essere vivente ricorsivamente smarrisce e
ristabilisce l’equilibrio con il suo ambiente circostante. Il momento di
passaggio dalla perturbazione all’armonia è il momento di una vita più
intensa. In un mondo compiuto non si potrebbero distinguere sonno e
veglia. In un mondo interamente perturbato ci sarebbero condizioni con
cui non si potrebbe neppure lottare. In un mondo fatto secondo il modello
del nostro i momenti di soddisfazione punteggiano l’esperienza con
intervalli di cui si gode ritmicamente.
L’armonia interna si raggiunge solo quando si scende in qualche modo a
patti con l’ambiente. Quando accade ciò su una base qualsiasi che non sia
“oggettiva”, l’armonia è illusoria – e in casi estremi giunge alla follia.
Fortunatamente grazie alla varietà presente nell’esperienza, i patti vengono
stipulati in molti modi – modi alla n ne determinati da un interesse
selettivo. Alcuni piaceri possono veri carsi per contatto e stimolazione
casuale; tali piaceri non sono da disprezzare in un mondo pieno di dolore.
Ma felicità e gioia sono un altro tipo di cose. Esse nascono per una
soddisfazione che arriva no alle profondità del nostro essere –
soddisfazione che è adattamento del nostro intero essere alle condizioni
dell’esistenza. Nel processo del vivere il raggiungimento di un periodo di
equilibrio è al tempo stesso l’avvio di una nuova relazione con l’ambiente,
che porta con sé il potenziale di nuovi adattamenti da realizzare lottando.
Il momento del perfezionamento è anche il momento in cui si ricomincia.
Ogni tentativo di perpetuare al di là dei suoi estremi il piacere che si
raggiunge nel momento della soddisfazione e dell’armonia, costituisce un
isolamento dal mondo. Quindi esso rivela abbassamento e perdita di
vitalità. Ma, attraverso le fasi della perturbazione e del con itto, si pone
qui la memoria inveterata di una soggiacente armonia, il cui senso
tormenta la vita come il senso di essere fondata su una roccia.
I mortali sono per la maggior parte consapevoli che spesso si veri ca una
spaccatura tra la loro vita presente e il loro passato e futuro. Pertanto il
passato li opprime; invade il presente con un senso di rammarico, di
opportunità non sfruttate, e di conseguenze che vorremmo annullate. Esso
poggia sul presente come qualcosa di opprimente anziché essere una
riserva di risorse grazie a cui avanzare con ducia. Ma la creatura vivente si
appropria del suo passato; può conciliarsi addirittura con le sue ottusità
usandole come moniti che fanno aumentare la cautela presente. Invece di
cercare di vivere di quel che può essere stato ottenuto nel passato, utilizza i
successi passati per dare forma al presente. Ogni esperienza vivente deve la
propria ricchezza a ciò che Santayana8 ha felicemente chiamato «taciti
riverberi»9.
Per l’essere pienamente in vita il futuro non è minaccia ma promessa;
esso avvolge il presente come un alone. Consiste di possibilità che sono
sentite come patrimonio di quel che è ora e qui. Nella vita che è veramente
vita tutte le cose si sovrappongono e si fondono. Ma troppo spesso noi
viviamo paventando ciò che può portarci il futuro e siamo divisi al nostro
interno. Anche quando non siamo esageratamente ansiosi, noi non
godiamo il presente perché lo subordiniamo a ciò che è assente. A causa
della frequenza di questo trascurare il presente per il passato e il futuro, i
periodi felici di un’esperienza che ora è compiuta poiché assorbe in sé
memorie del passato e anticipazioni del futuro niscono per costituire un
ideale estetico. Solo quando il passato cessa di af iggere e le anticipazioni
del futuro non turbano, un essere risulta unito interamente con il suo
ambiente e quindi pienamente in vita. L’arte celebra con particolare
intensità i momenti nei quali il passato rafforza il presente e nei quali il
futuro è una sollecitazione che ravviva ciò che è ora.
Per capire le fonti dell’esperienza estetica è pertanto necessario prendere
in considerazione la vita animale al di sotto del gradino dell’uomo. Le
azioni della volpe, del cane e del tordo possono almeno servire a ricordare
e a simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo quando
il lavoro è mestiere e il pensiero ci isola dal mondo. L’animale vivente è
pienamente presente, tutto qui, in tutti i suoi atti: nel suo sguardo
dif dente, nel suo ne annusare, nel suo drizzare improvvisamente gli
orecchi. Tutti i sensi sono egualmente sul “chi vive”. A guardarlo si vede
che il moto si fonde nel senso e il senso nel moto – costituendo quella
grazia animale con cui è così dif cile competere per l’uomo. Ciò che la
creatura vivente trattiene del passato e ciò che si aspetta dal futuro
operano come direzioni nel presente. Il cane non è mai pedante né
saccente; infatti queste cose sorgono solo quando il passato è staccato nella
coscienza dal presente e diventa un modello da copiare o un magazzino a
cui attingere. Il passato assimilato nel presente procede, spinge in avanti.
C’è molto di sciocco nella vita del selvaggio. Ma quando il selvaggio è
bene in vita, è un buon osservatore del mondo intorno a lui e ben teso con
energia. Quando osserva quel che si agita attorno a lui è lui stesso agitato.
La sua osservazione è sia azione che si prepara, sia previsione del futuro. È
attivo con tutto il suo essere quando guarda e ascolta così come quando
insegue la sua preda o indietreggia di soppiatto davanti a un nemico. I suoi
sensi stanno a guardia del pensiero immediato e sono gli avamposti
dell’azione, non già, come sono spesso per noi, meri sentieri lungo i quali
si raccoglie materiale da metter via per una possibilità differita e remota.
Solo l’ignoranza ci induce quindi a supporre che una connessione
dell’arte e della percezione estetica con l’esperienza comporti la
diminuzione della loro signi catività e della loro dignità. L’esperienza,
nella misura in cui è esperienza, è vitalità intensi cata. Anziché riferirsi a
un essere chiuso entro i suoi propri privati sentimenti e sensazioni,
comporta un commercio attivo e vigile con il mondo; al suo culmine
comporta una completa compenetrazione tra sé e il mondo degli oggetti e
degli eventi. Anziché comportare la resa a capriccio e disordine, fornisce la
nostra unica dimostrazione di una stabilità che non è stagnazione, ma è
ritmica e in evoluzione. In quanto soddisfazione di un organismo nelle sue
lotte e nei suoi successi in un mondo di cose, l’esperienza è arte in germe.
Anche nelle sue forme rudimentali essa contiene la promessa di quella
percezione piacevole che è l’esperienza estetica.
2 – La creatura vivente e le “cose eteree”10
Più che poesia, questi sono versi. È una descrizione secca, non lambita
dall’emozione. Come Wordsworth stesso ha detto: «questo modo di
esprimersi è debole e imperfetto». Ma egli prosegue e aggiunge: «ricordo
distintamente il luogo esatto in cui ciò mi colpì per la prima volta. Fu sulla
strada tra Hawkshead e Ambleside e mi fece un immenso piacere. Fu un
momento importante per la mia storia poetica; infatti dato da qui la mia
consapevolezza della varietà in nita delle apparenze della natura che non
era stata notata dai poeti di qualsiasi epoca o paese, per quanto ne sapessi;
e presi la risoluzione di provvedere in qualche misura a questa de cienza.
In quell’epoca potevo avere a mala pena quattordici anni»121.
Questo è un chiaro esempio di transizione dal convenzionale, da
qualcosa di astrattamente generalizzato che al tempo stesso sorgeva da e
conduceva a una percezione incompleta, al naturalistico – a un’esperienza
che corrispondeva in modo più ne e sensibile al ritmo del cambiamento
naturale. Infatti non era solo varietà, solo usso, ciò che egli desiderava
esprimere, ma varietà e usso di relazioni ordinate – il rapporto tra la
sfumatura di foglie e rami e le variazioni della luce del sole. I dettagli di
spazio e tempo, della particolare quercia, svaniscono; resta la relazione e,
peraltro, non in astratto, ma in maniera de nita, sebbene in questo caso
particolare resa concreta in modo piuttosto prosaico.
Questa analisi non ci allontana dal tema del ritmo in quanto condizione
della forma. Altre persone forse preferiscono un termine diverso da
“naturalistico” per esprimere la fuga dalla convenzione verso la
percezione. Ma qualunque parola si usi, per essere fedele al ravvivamento
della forma estetica essa deve sottolineare la sensibilità per un ritmo
naturale. E questo fatto mi porta a una breve de nizione del ritmo. Ritmo
è variazione ordinata di cambiamenti. Quando c’è anche un usso ma
uniforme, senza variazioni di intensità o velocità, non c’è ritmo. C’è
stagnazione, foss’anche stagnazione di un moto invariabile. Allo stesso
modo, non c’è ritmo quando le variazioni non sono situate. È ricca di
suggestioni la locuzione “aver luogo”. Il cambiamento non solo accade ma
ha una sede; ha un posto de nito in un intero più ampio. I casi più
evidenti di ritmo riguardano variazioni d’intensità come, ad esempio, nei
versi di Wordsworth citati, quando certe forme si sviluppano con forza in
contrasto con forme più deboli di altri rami e altre foglie. Non c’è ritmo di
alcun genere, per quanto delicato ed esteso, laddove non si veri chi una
variazione di impulso e quiete. Ma in qualsiasi ritmo complesso queste
variazioni d’intensità non sono tutto. Servono a de nire variazioni di
numero, di estensione, di velocità e di differenze qualitative intrinseche, ad
esempio di sfumatura, tono ecc. Le variazioni d’intensità sono, cioè,
relative al contenuto direttamente esperito. Ogni battito, distinguendo una
parte entro il tutto, aumenta la forza di ciò che è venuto prima creando
una sospensione che è richiesta di qualcosa a venire. Non è variazione di
un singolo aspetto, ma modulazione del sostrato qualitativo che pervade e
uni ca l’intero.
Un gas che satura uniformemente un recipiente, un diluvio torrenziale
che spazza via ogni argine, una pozza stagnante, un ininterrotto deserto di
sabbia e un boato monotono sono interi privi di ritmo. Uno stagno mosso
da increspature, una saetta spezzata, l’ondeggiare di rami al vento, il
battito delle ali di un uccello, il verticillo122 di sepali e petali, le ombre delle
nubi che cambiano sul prato, sono ritmi naturali semplici. Ci devono
essere energie che si fanno resistenza l’una con l’altra. Ciascuna cresce
d’intensità per un certo periodo, ma in tal modo comprime qualche
energia opposta nché quest’ultima non riesce a prevalere sull’altra che ha
perso vigore espandendosi. Quindi si inverte l’operazione, non
necessariamente in periodi di tempo identici ma secondo un certo
rapporto che si sente regolare. La resistenza accumula energia; riesce a
conservarsi nché non si sprigiona e non si espande. Al momento
dell’inversione c’è un intervallo, una pausa, una stasi, che de nisce e rende
percepibile l’interazione di energie opposte. La pausa è equilibrio o
simmetria tra forze antagoniste. Questo è lo schema generale di un
cambiamento ritmico, malgrado l’esposizione non riesca a tener conto di
cambiamenti minori concomitanti di espansione e contrazione che si
sviluppano in ogni fase e in ogni aspetto di un intero organizzato, e del
fatto che per quel che concerne il perfezionamento nale vengono ad
aggiungersi anche le onde e gli impulsi successivi.
Per quel che riguarda l’emozione umana, uno sfogo immediato che è
fatale per l’espressione è dannoso per il ritmo. Non c’è resistenza
suf ciente per creare tensione, e pertanto contrazione e scarica periodiche.
L’energia non viene conservata in modo da contribuire a uno sviluppo
ordinato. Si fa un singhiozzo o un grido, una smor a, si corruga la fronte,
ci si contorce, si batte il pugno furiosamente. Il libro di Darwin intitolato
Expression of Emotions123 – che concerne, più precisamente, lo sfogo
delle emozioni – è pieno di esempi di ciò che capita quando un’emozione
è semplicemente uno stato organico lasciato libero di agire sull’ambiente in
modo diretto e palese. Quando l’intera scarica è posticipata e vi si giunge
alla ne attraverso una successione di periodi ordinati di contrazione e
conservazione, scanditi in intervalli da ricorrenti pause d’equilibrio, la
manifestazione di un’emozione diventa vera espressione e acquisisce
qualità estetica – e solo allora.
L’energia emotiva continua a operare, ma ora compie un lavoro effettivo;
realizza qualcosa. Evoca, assembla, accoglie e respinge memorie,
immagini, osservazioni, e le elabora in un intero completamente accordato
dallo stesso sentimento emotivo immediato. Di conseguenza si presenta un
oggetto che risulta unito e distinto in ogni sua parte. È proprio la
resistenza contro l’espressione immediata dell’emozione a costringere
quest’ultima ad assumere una forma ritmica. Ed è appunto così che
Coleridge spiega il metro nel verso. La sua origine, egli dice, «la farei
risalire all’equilibrio che produce nella mente la tensione spontanea che si
sforza di tenere a freno le operazioni della passione. […] Questo salutare
antagonismo è favorito proprio da quello stato contro il quale esso
reagisce; e questo equilibrio di forze antagonistiche si è organizzato in
metro […] per l’azione sopravveniente della volontà e della ragione,
consapevolmente e con il proposito calcolato del piacere». C’è una
«interpenetrazione di passione e volontà, di impulso spontaneo e proposito
volontario». Il metro quindi «tende ad accrescere la vivacità e la prontezza
tanto dei sentimenti in genere, quanto dell’attenzione. Quest’effetto lo
produce mediante la continua eccitazione del senso di sorpresa, e il rapido
alternarsi di movimenti rispettivamente di soddisfazione e di riaccensione
della curiosità, troppo impercettibili per essere distintamente oggetto di
consapevolezza precisa in un momento dato, ma tuttavia considerevoli
dell’in uenza congiunta che sono capaci di esercitare»124. La musica
rende più complesso e intenso il processo della reciproca sollecitazione
geniale di antagonismo, sospensione e rafforzamento, quando le varie
“voci” contemporaneamente si oppongono e rispondono l’una all’altra.
Santayana ha giustamente osservato: «le percezioni non restano passive e
immutate nella mente nché il tempo non ne smussa gli orli scabri
facendole sbiadire, come sembra suggerire il vieto paragone del sigillo e
della cera. No, le percezioni cadono piuttosto nel cervello come cadono i
semi in un campo arato o addirittura le scintille in un barilotto di polvere
da sparo. Ogni immagine ne genera centinaia di altre, talvolta lentamente
e sottotraccia, talvolta (come quando prende il via una successione
passionale) con un scoppio improvviso della fantasia»125. Anche nei
processi astratti del pensiero la connessione con l’apparato motorio
primario non è completamente recisa, e il meccanismo motorio è collegato
a riserve d’energia nel sistema simpatico ed endocrino. Un’osservazione,
un’idea che balena nella mente, dà il via a qualcosa. Il risultato può essere
uno sfogo troppo diretto per riuscire ritmico. Si può manifestare una
grezza forza indisciplinata. Ci può essere una debolezza che fa sì che
l’energia si dissipi nel futile sognare a occhi aperti. Alcuni canali possono
essere troppo aperti a causa di abitudini che sono diventate cieca routine –
quando l’attività assume la forma che talvolta si identi ca in senso
esclusivo con il fare “pratico”. Timori inconsapevoli per un mondo ostile
verso i desideri prevalenti provocano l’inibizione di ogni azione oppure la
costringono entro canali familiari. Ci sono molti modi, che oscillano tra i
poli della tiepida apatia e della violenta impazienza, in cui l’energia, una
volta destata, non riesce a muoversi in una relazione ordinata di
accumulazione, opposizione, sospensione e pausa, verso il
perfezionamento nale di un’esperienza. Quest’ultima è, allora, abbozzata,
meccanica, oppure irregolare e dispersa. Tali casi de niscono, per
contrasto, la natura di ritmo ed espressione.
Dal punto di vista sico, se si apre solo un po’ un rubinetto la resistenza
al usso costringe a conservare l’energia nché la resistenza non è vinta.
L’acqua esce allora a singole gocce e a intervalli regolari. Se un getto
d’acqua cade da una distanza suf ciente, come in una cascata, la tensione
di super cie fa sì che il getto raggiunga il fondo in singole bolle. La
polarità, l’opposizione tra energie, è sempre necessaria per quella
de nizione, delimitazione, che scompone masse e distese altrimenti
uniformi in forme individuali. Al tempo stesso, la distribuzione equilibrata
di energie opposte dà la misura, o l’ordine, che impedisce alla variazione di
diventare eterogeneità disordinata. Come musica, teatro e romanzo, anche
i dipinti sono caratterizzati dalla tensione. Lo si vede, per quel che
concerne le loro forme evidenti, nell’uso dei colori complementari, nel
contrasto tra primo piano e sfondo, tra oggetti centrali e periferici. Nei
dipinti moderni il contrasto e il rapporto necessario tra luce e buio non si
ottiene usando chiaroscuro, terre d’ombra e bruni, ma con colori puri
ciascuno dei quali in se stesso brillante. Per de nire contorni si usano
curve simili tra loro ma con direzioni opposte, in alto e in basso, avanti e
indietro. Anche singole linee esprimono tensione. Come ha osservato Leo
Stein, «la tensione in una linea può essere colta seguendo il pro lo di un
vaso e notando la forza che ci vuole per piegare la linea di un contorno.
Ciò dipenderà dall’elasticità visibile della linea, dalla direzione e
dall’energia determinate dalla parte precedente, e così via»126.
L’universalità dell’uso di intervalli in opere d’arte è signi cativo. Non sono
interruzioni, dal momento che danno luogo sia a una delimitazione delle
singole parti sia a una distribuzione proporzionata. Speci cano e correlano
al tempo stesso.
Il medium attraverso il quale agisce l’energia determina l’opera che ne
risulta. La resistenza da vincere in canto, danza e rappresentazione teatrale
è in parte interna all’organismo stesso (imbarazzo, paura, goffaggine,
consapevolezza critica, mancanza di vitalità), e in parte nel pubblico a cui
ci si rivolge. La declamazione lirica e la danza, i suoni emessi da strumenti
musicali scuotono l’atmosfera o il terreno. Non devono far fronte
all’opposizione che si incontra quando si riplasma del materiale esterno.
La resistenza è della persona e le conseguenze sono direttamente personali
sul versante sia del produttore che del fruitore. Tuttavia una declamazione
enfatica non è scritta nell’acqua. Gli organismi, le persone coinvolte, sono
in una certa misura riplasmati. Il medium in cui operano compositore,
scrittore, pittore, scultore è più esteriore e distante dal pubblico rispetto a
quello in cui operano attore, danzatore ed esecutore. Essi rimodellano un
materiale esterno che fa resistenza e provoca tensioni al suo interno,
mentre sono esentati dalla pressione esercitata da un pubblico
direttamente presente. È una differenza profonda. Comporta differenze di
temperamento e talento e disposizioni differenti nel pubblico. Pittura e
architettura non possono ottenere il plauso simultaneo suscitato
direttamente che provocano il teatro, la danza e il concerto musicale. Il
contatto personale diretto stabilito dalla recitazione, dalla musica e dalla
rappresentazione teatrale è sui generis127.
L’effetto immediato delle arti plastiche e architettoniche non è organico,
ma rientra nel mondo durevole che ci circonda. È al tempo stesso più
indiretto e più persistente. La canzone e la rappresentazione teatrale
registrate in forme letterarie, la musica scritta, si collocano tra le arti
formative. L’effetto delle modi cazioni oggettive che intervengono nelle
arti formative è duplice. Da un lato, c’è una diretta diminuzione della
tensione tra l’uomo e il mondo. L’uomo si sente più a casa, dal momento
che è in un mondo che ha contribuito a fare. Vi si abitua e ci si trova
abbastanza a suo agio. In alcuni casi ed entro certi limiti, il conseguente
maggiore adeguamento reciproco tra uomo e ambiente è sfavorevole a
ulteriori creazioni estetiche. In tal caso le cose sono troppo levigate; non
c’è irregolarità suf ciente a far rinnovare la richiesta di rendere manifesto e
possibile un nuovo ritmo. L’arte diventa stereotipata e si accontenta di
effettuare variazioni secondarie su vecchi temi secondo stili e maniere che
sono gradevoli in quanto veicolano piacevoli reminiscenze. Da un punto di
vista estetico, in tal caso l’ambiente è esaurito, logoro. Il ricorrere
dell’elemento accademico ed eclettico nelle arti è un fenomeno che non va
ignorato. E se di solito associamo l’elemento accademico con pittura e
scultura invece che, ad esempio, con poesia e prosa, è comunque vero che
quando queste ultime si af dano a scene consuete, a variazioni di
situazioni familiari e al mascheramento di tipi di personaggi facili da
riconoscere, possiedono tutti i tratti che ci fanno chiamare accademico un
quadro.
Ma col tempo questa stessa familiarità genera resistenza in alcune menti.
Le cose familiari vengono assorbite e diventano un deposito in cui i semi o
le scintille di nuove condizioni provocano scompiglio. Quando il vecchio
non è stato assimilato, l’esito è solamente l’eccentricità. Invece i grandi
artisti originali si impossessano di una tradizione. Non l’hanno evitata, ma
metabolizzata. Allora lo stesso con itto generato tra tale tradizione e ciò
che è nuovo al loro interno e nel loro ambiente crea la tensione che esige
una nuova modalità di espressione. Shakespeare forse ne sapeva «poco di
latino, e ancor meno di greco»128, ma fu un divoratore talmente insaziabile
del materiale accessibile che sarebbe diventato un plagiario se il materiale
non avesse al tempo stesso combattuto contro e cooperato con la sua
visione personale grazie a una curiosità egualmente insaziabile per la vita
che lo circondava. I grandi innovatori nella pittura moderna hanno
studiato con maggiore assiduità i quadri del passato di quanto abbiano
fatto gli imitatori che dettavano la moda del tempo. Ma i materiali della
loro maniera personale di vedere hanno agito contrapponendosi alle
vecchie tradizioni, e da questo reciproco con itto e rafforzamento sono
sorti ritmi nuovi.
Nei fatti indicati ci sono le fondamenta di una teoria estetica basata
sull’arte e non su preconcetti estranei. La teoria si può basare solo sulla
comprensione del ruolo centrale dell’energia all’interno e all’esterno, e di
quella interazione di energie che dà luogo all’opposizione accanto ad
accumulazione, conservazione, sospensione e intervallo, e al movimento
concorde verso il compimento in un’esperienza ordinata, ovvero ritmica.
Allora l’energia interna riesce a scaricarsi in un’espressione e il corpo
esterno che assume l’energia nella materia si dota di una forma. Abbiamo
qui un caso più pieno e più esplicito di quella relazione tra fare e subire di
organismo e ambiente il cui prodotto è un’esperienza. Il ritmo speci co di
differenti relazioni tra fare e subire è il principio di distribuzione e
ripartizione degli elementi che contribuisce a far sì che l’esperienza sia
diretta e unita. La mancanza di relazione e distribuzione adeguata
produce una confusione che ostacola l’unicità della percezione. Proprio la
relazione genera l’esperienza in virtù della quale un’opera d’arte al tempo
stesso eccita e calma. Il fare agita mentre le conseguenze subite provocano
una fase di tranquillità. Un subire continuo e combinato causa un
accumulo di energia da cui prende origine un ulteriore sfogo pratico. La
percezione che ne risulta è ordinata e chiara, e al tempo stesso intonata
emotivamente.
È possibile sottolineare troppo la qualità della serenità in arte. Non c’è
arte senza quella compostezza che corrisponde al disegno e alla
composizione nell’oggetto. Ma non c’è arte nemmeno senza resistenza,
tensione ed eccitazione; altrimenti la calma suscitata non è quella del
compimento. All’atto della concezione sono tenute distinte cose che nella
percezione e nell’emozione si coappartengono. Le distinzioni, che nella
ri essione loso ca diventano antitesi, tra sensuale e ideale, super cie e
contenuto o signi cato, eccitazione e calma, non esistono nelle opere
d’arte; e non semplicemente perché le opposizioni concettuali sono state
superate, ma perché l’opera d’arte esiste a un livello d’esperienza in cui tali
distinzioni del pensiero ri essivo non si presentano. La varietà può
suscitare eccitazione, ma nella pura e semplice varietà non ci sono
resistenze da superare e fare tacere. Nulla di più vario c’è del mobilio
sparso sul marciapiede in attesa del furgone per il trasloco. Tuttavia non è
che emergono ordine e serenità quando queste cose sono stipate insieme
nel furgone. Devono essere distribuite secondo una loro relazione
reciproca, come quando si arreda una stanza, formando un intero.
Quando distribuzione e uni cazione cooperano si genera quel moto di
cambiamento che eccita e il compimento che calma.
C’è una vecchia formula per la bellezza nella natura e nell’arte: unità
nella varietà. Tutto dipende da come si intende la preposizione “in”. Ci
possono essere molti elementi in una scatola, molte gure in un solo
quadro, molte monete in una tasca e molti documenti in una cassaforte.
L’unità è esteriore e i molti sono irrelati. Il punto rilevante è che unità e
molteplicità sono sempre più o meno così quando l’unità dell’oggetto o
della scena è morfologica e statica. La formula assume signi cato solo
quando si intende che i suoi termini si riferiscono a una relazione di
energie. Non c’è pienezza, non ci sono molte parti, senza differenziazioni
peculiari. Ma queste hanno qualità estetica, come nel caso della ricchezza
di una frase musicale, solo quando le distinzioni dipendono da resistenze
reciproche. C’è unità solo quando le resistenze creano una tensione che si
risolve con l’interazione concorde delle opposte energie. L’“uno” della
formula è la realizzazione mediante parti interagenti delle loro rispettive
energie. Il “molti” è la manifestazione delle individualizzazioni de nite
dovute a forze opposte che alla ne si tengono in equilibrio. Il prossimo
argomento sarà allora l’organizzazione delle energie in un’opera d’arte.
Infatti l’unità nella varietà che caratterizza un’opera d’arte è dinamica.
8 – L’organizzazione delle energie
Si è ripetutamente suggerito che c’è una differenza tra il prodotto
artistico (statua, dipinto o quant’altro) e l’opera d’arte. Il primo è sico,
potenziale; la seconda è attiva e se ne fa esperienza. Essa è ciò che il
prodotto fa, è il suo operare. Infatti nulla penetra nell’esperienza senza
rivestimento e accompagnamento, che sia un accadimento
apparentemente informe, un tema intellettualmente sistematizzato o un
oggetto elaborato con ogni amorevole cura di pensiero ed emozione uniti.
Il suo stesso entrare in scena dà inizio a un’interazione complessa; dalla
natura di questa interazione dipende il carattere della cosa come viene
esperita alla ne. Quando la struttura dell’oggetto è tale da far sì che la sua
forza interagisca felicemente (ma non con semplicità) con le energie che si
sprigionano dall’esperienza stessa; quando le loro reciproche af nità e i
muti antagonismi operano insieme per determinare una sostanza che si
sviluppa progressivamente e costantemente (ma non in maniera troppo
rigida) verso la soddisfazione di impulsi e tensioni, solo allora c’è un’opera
d’arte.
Nel capitolo precedente ho sottolineato come tale opera nale dipenda
dall’esistenza di ritmi in natura; come ho messo in rilievo, essi sono
condizioni della forma nell’esperienza, e pertanto dell’espressione. Ma
un’esperienza estetica, l’opera d’arte nella sua attualità, è percezione. Solo
laddove questi ritmi, seppur incarnati in un oggetto esterno che è esso
stesso un prodotto dell’arte, diventano un ritmo interno all’esperienza
stessa, essi sono estetici. E tale ritmo interno a ciò di cui si fa esperienza è
qualcosa di molto diverso dal riconoscimento intellettuale del fatto che
esiste un ritmo nella cosa esterna: tanto diverso quanto per un ricercatore
scienti co godere nella percezione di colori armoniosi e brillanti è
differente dalle equazioni matematiche che li de niscono.
Comincio sfruttando tale considerazione per sgombrare il campo da una
falsa nozione di ritmo che ha in qualche modo infettato gravemente la
teoria estetica. L’equivoco, infatti, ha origine dall’incapacità di considerare
il fatto che il ritmo estetico è questione di percezione, quindi coinvolge
tutto ciò che con cui il sé contribuisce al processo attivo del percepire.
Inoltre, in modo piuttosto inconsueto, l’errore in questione sussiste accanto
ad affermazioni secondo le quali l’esperienza estetica riguarderebbe
l’immediatezza della percezione. La nozione a cui mi riferisco identi ca il
ritmo con la regolarità di qualcosa che ricorre tra elementi in mutamento.
Prima di occuparmi direttamente di tale concezione, voglio sottolinearne
l’effetto sulla comprensione dell’arte. L’ordine degli elementi di oggetti
spaziali, in quanto spaziali e sici, cioè a prescindere dal fatto di rientrare
in quell’interazione che è causa di un’esperienza, è, almeno relativamente,
sso. Al di là di un lento processo di logoramento, le linee e i piani di una
statua rimangono immutati, e così accade alle con gurazioni e agli
intervalli di un edi cio. Da ciò si è tratta la conclusione che esistano due
generi di arti belle, quelle spaziali e quelle temporali, e che soltanto queste
ultime siano contraddistinte dal ritmo; corrispettivo di tale errore è che
soltanto gli edi ci e le statue possiederebbero simmetria. L’errore sarebbe
grave pur se colpisse solo la teoria. Difatti, negare ritmo a quadri ed edi ci
impedisce di percepire qualità che sono assolutamente indispensabili nel
loro effetto estetico.
Quando si identi ca il ritmo con una ricorrenza in senso letterale, con un
regolare ripresentarsi di elementi identici, si concepisce la ricorrenza in
maniera statica o anatomica anziché funzionale; in quest’ultimo caso,
infatti, si interpreta la ricorrenza sulla base di un avanzamento, grazie
all’energia degli elementi, di un’esperienza completa ed esauriente. Poiché
uno degli esempi privilegiati da coloro che sostengono quella teoria è il
ticchettio di un orologio, potremmo chiamarla la teoria del tic-tac. Per
quanto dovrebbe risultare evidente, dopo una breve ri essione, che se
fosse possibile fare esperienza di una serie uniforme di tic-tac l’effetto
sarebbe di farci addormentare o di spingerci all’esasperazione, la
concezione di tale regolarità viene assunta come il piano di fondo che si
suppone poi complicato dalla sovrapposizione di una quantità di altri
ritmi, ciascuno in sé egualmente regolare. Naturalmente, si può analizzare
per via matematica un ritmo effettivamente esperito scomponendolo in
una combinazione di una regolarità fondamentale a cui si sovrappone un
certo numero di ripetizioni uniformi minori. Il risultato di tale analisi,
tuttavia, è una mera approssimazione meccanica a qualsiasi ritmo vitale o
espressivo. È analogo al risultato che si otterrebbe tentando di costruire
linee curve esteticamente soddisfacenti (come quelle di un vaso greco)
combinando un certo numero di linee curve, ciascuna costruita secondo
un rigido calcolo matematico.
Servendosi di uno strumento di registrazione uno studioso intraprese una
ricerca sulla voce di alcuni cantanti. Si scoprì che la voce degli artisti di
successo, posti in una categoria superiore, erano registrate leggermente al
di sopra o leggermente al di sotto delle linee che indicavano il tono esatto,
mentre i cantanti ancora in formazione sembravano produrre suoni che
coincidevano esattamente con i registri degli intervalli esatti. Lo studioso
sottolineò come gli artisti sempre “si prendessero delle libertà” con la
musica. Sono proprio queste “libertà” a segnare la differenza tra
costruzione meccanica, o puramente oggettiva, e produzione artistica. Il
ritmo, infatti, comporta una variazione costante. Nella de nizione data del
ritmo come variazione ordinata della manifestazione dell’energia, la
variazione non soltanto è importante quanto l’ordine, ma risulta un
coef ciente indispensabile dell’ordine estetico. Maggiore è la variazione,
più interessante è l’effetto, posto che l’ordine venga mantenuto – un fatto
che dimostra che l’ordine in questione non va stabilito in termini di
regolarità oggettive, ma va interpretato sulla base di un altro principio.
Tale principio è ancora una volta quello della progressione continua verso
il compimento di un’esperienza intesa come integrità dell’esperienza stessa
– qualcosa che non si può misurare in termini esterni, malgrado non si
possa conseguire senza impiegare materiali esterni, osservati o immaginati.
Posso delucidare la mia posizione mediante alcuni versi poetici scelti in
modo piuttosto arbitrario, prendendo intenzionalmente un brano che,
benché interessante, non è tra i migliori. Al mio scopo basteranno alcuni
versi del Prelude di Wordsworth:
[…] il vento e la pioggia mista a neve
e tutta l’inquietudine degli elementi,
la pecora sola, e l’albero rinsecchito,
e la musica desolata di quel vecchio muro di pietra,
il suono di bosco e di acqua, la nebbia
che sulla linea di entrambe quelle strade
avanzava in forme tanto indisputabili.129
C’è sempre qualcosa di sciocco nel volgere la poesia in una prosa che si
crede possa spiegarne il signi cato. Ma qui il mio scopo, nello svolgerne
un’analisi in prosa, non è di spiegare i versi, ma di rafforzare un punto
della teoria. Si noti, quindi, in primo luogo come non vi sia una sola parola
che ripeta il tipo di contenuto semantico convenzionale che si potrebbe
trovare in un dizionario. Il signi cato di “vento, pioggia, pecora, albero,
muro di pietra, nebbia” è una funzione dell’intera situazione espressa ed è
dunque una variabile di quella situazione e non una costante esterna. Lo
stesso vale per gli aggettivi: mista, sola, rinsecchito, desolata, indisputabili.
Il loro senso è determinato dall’esperienza individuale di desolazione che si
sta formando; ciascuno contribuisce a farne progredire la realizzazione,
sebbene ciascuno a sua volta sia quali cato dall’esperienza nella cui
costruzione interviene quale fattore energizzante. C’è poi la variazione
negli oggetti, alcuni relativamente immobili contrapposti a quelli in moto;
cose viste e cose sentite, pioggia e vento; muro e musica; albero e rumore.
Poi c’è l’andatura relativamente lenta nché dominano gli oggetti, che
cambia e accelera seguendo gli eventi, con il “suono di bosco e di acqua”,
e culmina nella spinta della nebbia che avanza inesorabilmente. È questa
variazione che in uisce su ogni dettaglio a stabilire la differenza tra versi
come questi e un ritornello. Nonostante ciò si mantiene “ordine”, non
tanto quello della ripetizione interna alla sostanza o alla forma, ma in senso
attivo, poiché ogni elemento contribuisce a costruire una situazione che
viene esperita integralmente, a costruirla senza scarti, e senza
incongruenze che collidano e siano distruttive. A ni estetici, l’ordine
viene de nito e misurato per il tramite di tratti funzionali e operativi.
Contrapponiamo a questi versi, per esempio, un inno gospel che ha un
ritmo cadenzato e incalzante da cui moltissime persone hanno tratto una
rudimentale soddisfazione estetica. Il carattere relativamente esteriore e
sico di quest’ultimo si manifesta nella tendenza a rispondere tenendo
sicamente il tempo; la povertà del sentimento si deve alla relativa
uniformità sia della materia che del suo arrangiamento. Anche in una
ballata i ritornelli non hanno nell’esperienza l’uniformità che hanno
quando sono isolati. Infatti, entrando in contesti differenti essi hanno un
effetto differente che dà prosecuzione a un’accumulazione progressiva. È
possibile che un artista impieghi qualcosa che esteriormente è pura
ripetizione per comunicare un senso di destino inesorabile. Ma l’effetto
dipende da una somma che è più di un’addizione quantitativa. Per questo
in musica la ripetizione di una frase, come potrebbe essere la prima che ci
viene presentata all’inizio di una sinfonia, prende forza nella misura in cui
i nuovi contesti in cui la si ritrova le danno colore e le conferiscono un
nuovo valore, anche se solo quello dovuto a una enunciazione più
insistente, precisa e cumulativa del tema.
Naturalmente non c’è ritmo senza ripetizione. Ma quando la ricorsività
viene interpretata come ripetizione letterale o di un materiale o di un
intervallo esatto, all’esperienza dell’arte si sostituisce l’analisi ri essiva della
scienza sica. La ricorsività meccanica è quella delle unità materiali. La
ricorsività estetica è quella delle relazioni che si sommano e fanno andare
avanti. In sé le unità che ricorrono richiamano l’attenzione su loro stesse
come parti isolate e pertanto avulse dall’intero. Per tale motivo esse
riducono l’effetto estetico. Le relazioni che ricorrono servono a de nire e
delimitare le parti, dando loro un’individualità propria. Oltre a ciò, però,
connettono; le entità individuali che esse demarcano esigono, a causa delle
relazioni, l’associazione e l’interazione con altri individui. Di conseguenza
le parti hanno una funzione vitale nella costruzione di un insieme esteso.
Anche nel battito del tamburo del selvaggio si è visto un modello del
ritmo, trasformando la teoria del tic-tac nella teoria del tam-tam. E pure in
questo caso si è detto che lo schema è costituito da una ripetizione di
battiti semplice e piuttosto monotona, e che tale schema viene variato
aggiungendo altri ritmi, ciascuno dei quali a sua volta uniforme, mentre si
aggiunge vivacità quando si introduce un cambiamento aritmico.
Purtroppo per le presunte basi oggettive di questa teoria, i battiti del tam-
tam non si presentano da soli ma come fattori in un insieme molto più
complesso di differenti canti e danze. E invece che ripetizione c’è uno
sviluppo, un crescere no a picchi più alti di una eccitazione, forse
frenetica, che ha avuto inizio con movimenti relativamente lenti e calmi.
Fatto ancora più importante, la storia della musica mostra come in realtà i
ritmi primitivi, come quelli dei negri d’Africa, presentano variazioni più
sottili, meno uniformi, rispetto ai ritmi della musica dei popoli civilizzati,
così come quelli dei negri che vivono negli Stati Uniti del nord sono
generalmente più convenzionali rispetto a quelli del sud. Le esigenze della
musica d’insieme e le potenzialità dell’armonia hanno fatto sì che venisse
molto più uniformata quella fase del ritmo che consiste in variazioni dirette
dell’intensità, mentre secondo la teoria in questione si sarebbe dovuto
veri care un movimento inverso.
La creatura vivente esige ordine per vivere, ma anche novità. La
confusione è spiacevole, ma anche la noia lo è. Il “tocco di disordine” che
riveste di fascino una scena regolare crea disordine solo rispetto a uno
schema esterno. Dal punto di vista dell’esperienza concreta aggiunge
enfasi, distinzione, purché non impedisca di procedere progressivamente
da una parte all’altra. Se lo si esperisse come disordine produrrebbe un
contrasto insolubile e risulterebbe spiacevole. D’altro canto, un contrasto
temporaneo può essere l’elemento che suscita una resistenza tale da
richiamare l’energia a progredire nel modo più attivo e trionfante. Solo alle
persone viziate n dall’infanzia piacciono cose sempre concilianti; le
persone di carattere, che preferiscono vivere e non si accontentano di
sopravvivere, provano ripugnanza per ciò che è troppo facile. Ciò che è
dif cile diventa deplorevole solo quando, invece di generare energia, la
soffoca e la blocca. Alcuni prodotti estetici hanno immediatamente
successo; sono i “best sellers” del loro tempo. Sono “facili” ed esercitano
quindi un fascino istantaneo; la loro popolarità richiama imitatori e per un
certo periodo essi dettano la moda negli ambiti del teatro, del romanzo,
della canzone. Ma la grande rapidità con cui vengono assimilati
nell’esperienza ben presto li svuota; da essi non derivano nuovi stimoli.
Hanno un giorno di gloria – e solo un giorno.
Confrontiamo un quadro per esempio di Whistler con un quadro di
Renoir. Nella maggior parte dei casi, nel primo si troveranno tratti
consistenti di colore il più possibile uniformi. I ritmi, con i loro necessari
fattori di contrasto, sono costituiti solo dalla contrapposizione di grandi
blocchi. In un solo pollice quadrato del quadro di Renoir non si potranno
trovare due linee contigue che abbiano esattamente la stessa qualità.
Possiamo non esserne consapevoli mentre guardiamo il quadro, ma siamo
consapevoli dell’effetto che ciò determina. Questo fatto contribuisce alla
ricchezza immediata dell’intero e determina le condizioni perché a ogni
approccio successivo vengano ancora suscitate nuove risposte. È tale
elemento di continua variazione – nel rispetto delle relazioni dinamiche di
rafforzamento e conservazione – a rendere durevole un quadro o una
qualsiasi opera d’arte.
Ciò che è vero in grande lo è anche in piccolo. La ripetizione di unità
uniformi a intervalli uniformi non solo non è ritmica, ma si oppone
all’esperienza del ritmo. L’effetto di una scacchiera è più piacevole di un
grande spazio vuoto oppure riempito con linee che vanno a caso e che,
invece di de nire gure, interferiscono con l’incedere della visione. Infatti,
l’esperienza della disposizione a scacchiera non è regolare quanto l’oggetto
considerato dal punto di vista sico e geometrico. Con il muoversi
dell’occhio in essa rientrano super ci nuove e più forti, e un’attenta
osservazione dimostrerà come vengano costruiti quasi automaticamente
nuovi schemi. I quadrati corrono ora in verticale, ora in orizzontale, ora
lungo una diagonale, ora lungo l’altra; e i quadrati più piccoli costruiscono
non solo quadrati più grandi, ma anche rettangoli e gure che hanno un
contorno a forma di scala. L’esigenza di varietà dell’organismo è tale da
imporsi all’esperienza anche in assenza di una forte occasione esterna. Lo
stesso tic-tac dell’orologio quando lo si sente varia perché ciò che si ode è
un’interazione tra l’evento sico e le pulsazioni mutevoli della risposta
dell’organismo. Il paragone che spesso si stabilisce tra musica e
architettura si basa sul fatto che queste arti, più direttamente di altre,
esempli cano ricorsività organiche dovute a relazioni progressive piuttosto
che alla ripetizione di unità. La volgarità estetica di tanti nostri edi ci,
specialmente quelli delle grandi città americane, si deve alla monotonia
causata da una sistematica ripetizione di forme, disposte a intervalli
uniformi, che vengono diversi cate dall’architetto solo facendo ricorso a
elementi ornamentali posticci. Esempio ancor più impressionante sono i
nostri terribili monumenti della guerra civile e la maggior parte della
nostra statuaria civica.
Ho detto che l’organismo desidera sia varietà che ordine. Tale
affermazione, tuttavia, è troppo debole poiché fa riferimento a una
proprietà secondaria invece che al fatto principale. Il processo della vita
organica è variazione. Esso, con parole usate spesso da William James,
rappresenta un esempio di “sempre, non del tutto”. Il desiderio come tale
sorge solo quando questa tendenza naturale è ostacolata da una
circostanza avversa, dalla monotonia dovuta a un eccesso di povertà o da
un eccesso di abbondanza. Ogni movimento che l’esperienza fa per
raggiungere il proprio completamento torna al suo principio, essendo
soddisfacimento del bisogno che ha agito all’inizio. Ma la ricorsività è
accompagnata da una differenza; si carica di tutte le differenze che ha
generato il lungo viaggio compiuto partendo dalla posizione iniziale. Si
considerino, tra i vari esempi, il ritorno dopo molti anni alla casa
d’infanzia; la proposizione dimostrata attraverso una serie di ragionamenti
e la proposizione enunciata all’inizio; l’incontro con un vecchio amico
dopo una separazione; la ricorsività di una frase in musica, o di un
ritornello in poesia.
L’esigenza di varietà è manifestazione del fatto che essendo in vita
cerchiamo di vivere nché la paura non ci rende vili o la routine non ci
rende apatici. Il bisogno stesso della vita ci spinge verso l’ignoto. Questa è
la costante verità di ciò che è romanzesco. Esso può degenerare in uno
smisurato compiacimento per movimento ed eccitazione ni a se stessi,
trovando espressione nello pseudo-romanticismo. Invece il classicismo a
parole, quello che predica anziché agire, come fa quel che diventa davvero
classico, si basa sempre sulla paura della vita e sul tirarsi indietro dalle sue
esigenze e dalle sue s de. Il romantico diventa classico quando è ordinato
secondo il ritmo appropriato, ogni volta cioè che l’avventura intrapresa è di
portata suf ciente a mettere alla prova e in gioco le energie degli uomini:
l’Iliade e l’Odissea ne sono testimonianze immortali. Il ritmo è razionalità
tra qualità. La presa che l’ordine più basso di ritmo esercita sull’incolto
mostra che un qualche ordine viene desiderato nel tumulto dell’esistenza.
E persino le equazioni dei matematici dimostrano che la variazione è
desiderata tra la massima ripetizione, dal momento che esprimono
equivalenze e non identità esatte.
In breve, la ricorsività estetica è vitale, siologica, funzionale. Le
relazioni ricorrono, non gli elementi, e lo fanno in contesti differenti e con
conseguenze diverse, cosicché ogni ricorrenza è una novità e al tempo
stesso un ricordo. Nel soddisfare un’aspettativa suscitata essa crea anche
un’aspirazione nuova, stimola una curiosità inedita, determina una
tensione diversa. La completa integrazione di queste due funzioni, pure
opposte nella ri essione astratta, mediante gli stessi mezzi, e non usando
un espediente per stimolare l’energia e un altro per placarla, dà la misura
dell’artisticità della produzione e della percezione. Una indagine
scienti ca ben condotta scopre sperimentando, e dimostra ricercando; lo
fa grazie a un metodo che combina le due funzioni. E la conversazione,
l’opera teatrale, il romanzo e la costruzione architettonica, se c’è
un’esperienza ordinata, raggiungono uno stadio che al tempo stesso
registra e sintetizza il valore di ciò che precede, ed evoca e preannuncia ciò
che deve venire. Ogni chiusura è un risveglio, e ogni risveglio determina
qualcosa. Questo stato di cose de nisce l’organizzazione dell’energia.
Insistere sulla variazione del ritmo può sembrare un rimestare cose ovvie.
Sono però giusti cato non solo dal fatto che autorevoli teorie hanno
trascurato questa proprietà, ma anche dal fatto che c’è una tendenza a
circoscrivere il ritmo a qualche elemento particolare di un prodotto
artistico: per esempio, al tempo in musica, alle linee in pittura, alla metrica
in poesia; alle curve smussate o levigate in scultura. Tale limitazione va
sempre nella direzione di quella che Bosanquet ha chiamato «bellezza
facile»130 e, quando è sostenuta da un procedimento logico, teoricamente
o praticamente, sfocia in qualche materia che viene lasciata senza forma e
in qualche forma che viene arbitrariamente imposta a una materia.
Nella Primavera e nella Nascita di Venere del Botticelli si avverte con
facilità negli schemi ritmici il fascino dell’arabesco e della linea. Il suo
fascino può indurre facilmente uno spettatore a fare di questo elemento
ritmico, in modo più inconsapevole che esplicito, il criterio con cui
giudicare l’esperienza di altri dipinti. Ciò darà quindi luogo a una
sopravvalutazione del Botticelli rispetto ad altri pittori. Questa in sé è una
questione da poco, dal momento che è meglio avere sensibilità per un
aspetto formale che giudicare i quadri solo come illustrazioni. Più
importante è che ciò tende a generare insensibilità per i modi di realizzare
ritmi che sono al tempo stesso più solidi e più sottili: come le relazioni di
piani, di masse, di colori non nettamente delineate. Di nuovo,
l’adeguatezza della scultura greca come mezzo per esprimere la gura
umana utilizzando piani levigati e smussati merita l’ammirazione destata
dalle statue di Fidia. Non va però bene quando questo particolare modulo
ritmico viene assunto come criterio unico. In tal caso si ottunde la
percezione di ciò che è caratteristico delle opere migliori della scultura
egiziana, dovuto alla relazione tra grandi masse, della scultura negra con le
sue acute spigolosità, di opere come quelle di Epstein131 che dipendono in
maniera così ampia da ritmi di luce ottenuti frammentando continuamente
le super ci.
Gli stessi esempi chiariscono la separazione tra sostanza e forma che si
veri ca quando si circoscrive il ritmo alla variazione e al ricorrere di un
singolo tratto. Idee comuni, consigli morali consolidati, temi da romanzo
convenzionale come l’amore che un certo Darby nutre per una certa Joan,
il fascino consueto di oggetti come la rosa o il giglio, diventano più
piacevoli quando vengono rivestiti dalla rima e scanditi dall’incalzare del
metro. Ma in questi casi alla ne ci viene solamente ricordato in un modo
gradevole, che è talvolta occasione di un brivido di piacere, ciò di cui
abbiamo già fatto esperienza. Quando tutti i materiali sono pervasi dal
ritmo, il tema o “soggetto” si trasforma in un nuovo contenuto. Si veri ca
quell’improvvisa magia che ci dà il senso di una rivelazione interiore
provocata da qualche cosa che credevamo fosse nota per intero. In breve,
la reciproca compenetrazione132 di parti e intero, che come si è visto fa di
un oggetto un’opera d’arte, si ottiene quando tutte le componenti di
un’opera, si tratti di un quadro, un dramma, una poesia o un edi cio, si
trovano in una connessione ritmica con tutti gli altri elementi dello stesso
genere – linea con linea, colore con colore, spazio con spazio,
illuminazione con luce e ombra in un dipinto – e tutti questi fattori
distintivi si rafforzano a vicenda come variazioni che formano
un’esperienza complessa integrata. Sarebbe pedante oltre che ingeneroso
negare in assoluto qualità estetica a un oggetto che sia contraddistinto
sotto qualche aspetto da ritmi che consolidano e organizzano le energie in
gioco quando si fa esperienza. Ma la misura oggettiva della grandezza sta
proprio nella varietà e nella portata di fattori che, poiché sono ritmici gli
uni nei confronti degli altri, continuano progressivamente a proteggersi e a
sostenersi formando l’esperienza in atto.
È stato fatto un tentativo per difendere la distinzione tra sostanza e forma
nelle opere d’arte contrapponendo “adeguatezza” e “grandezza”. Si è
detto che l’arte è bella quando la forma è perfetta; è invece grande in forza
della portata e del peso intrinseci al contenuto trattato, malgrado la
maniera con cui lo si tratta non sia meno bella. Per illustrare questa
presunta distinzione sono stati usati i romanzi di Jane Austen e Walter
Scott. Non riesco a capire come ciò sia valido. Posto che rispetto ai romanzi
della Austen quelli di Scott siano più grandi per portata e ampiezza ma
meno belli, la causa è che, mentre nessuna fase dei mezzi impiegati viene
portata a compimento in modo altrettanto perfetto come nel solo medium
in cui eccelle Jane Austen, c’è una maggior porzione del contenuto in cui
si raggiunge un certo livello di forma. La questione non sta nella
contrapposizione forma e contenuto, ma nel numero di tipi di relazioni
formali che operano contemporaneamente. Uno stagno limpido, una
gemma, una miniatura, un manoscritto miniato, un racconto breve
possiedono una loro propria perfezione, ciascuno nel suo genere. La
singola qualità che domina in ognuno di essi può essere portata a
compimento in maniera più adeguata in oggetti di maggiore portata e
complessità rispetto a un singolo sistema di relazioni. Ma in tali oggetti è la
moltiplicazione degli effetti, ove questi conducano a un’esperienza
uni cata, a renderli “più grandi”.
Quando si tratta di tecnologia, economia domestica o di organizzazione
sociale, non è necessario che ci venga detto che la razionalità,
l’intelligibilità, si misura in base al co-adattamento ordinato di mezzi che
procedono verso un ne comune. L’assurdità è l’annullamento reciproco
portato al suo completamento, che diventa estetico o “comico” se
realizzato con successo. In modo analogo, sappiamo che l’abilità pratica di
una persona è determinata dalla sua capacità di mobilitare diversi mezzi e
strategie per ottenere un grande risultato con il massimo di pro tto; e che
l’economia diventa esteticamente sgradevole quando viene imposta
all’attenzione come fattore separato, mentre la sfera dei mezzi è sfarzosa, e
non frivola ostentazione, nel caso in cui ad essa corrisponda un risultato di
ampia portata. Sappiamo poi anche che il pensare consiste nell’ordinare
diversi signi cati in modo da indirizzarli verso una conclusione che li
giusti chi tutti e in cui tutti siano ricapitolati e conservati. Ciò di cui siamo
forse meno consapevoli è che questa organizzazione delle energie che
indirizza progressivamente verso un intero nale in cui si fondono i valori
di tutti i mezzi e di tutti i media, è l’essenza dell’arte bella.
Nella vita quotidiana, sia in pratica che in teoria, l’organizzazione è
meno diretta e il senso della conclusione o del perfezionamento giunge,
almeno relativamente, solo alla ne anziché sopravvenire ad ogni stadio. Il
fatto che il senso di completamento sia posposto, che non ci sia un
continuo perfezionarsi, ha ovviamente come effetto di ritorno la riduzione
dei mezzi impiegati allo stato di meri mezzi. Essi sono condizioni
antecedenti indispensabili, ma non componenti intrinseche del ne. In
altre parole, in tali casi l’organizzazione delle energie è frammentaria, una
energia subentra all’altra, mentre nel processo artistico tale organizzazione
è progressiva e cumulativa. E così veniamo ricondotti al ritmo. Infatti c’è
ritmo ogni volta che ciascun passo in avanti è allo stesso tempo sintesi e
compimento di ciò che precede, e ogni perfezionamento fa crescere in
tensione l’aspettativa.
Nella vita quotidiana una buona parte del nostro spingerci avanti è
determinata da necessità esterne invece che da un movimento interno
come quello delle onde del mare. Analogamente, una buona parte del
nostro riposo è recupero dall’esaurimento; anch’esso, dunque, è
determinato da qualcosa di esterno. Nell’ordinamento ritmico, ogni
chiusura e ogni sospensione, come la pausa in musica, mette in
connessione oltre a de nire limiti e individui. Una pausa in musica non è
un vuoto, ma è un silenzio ritmico che scandisce quel che si è fatto
trasmettendo, al tempo stesso, un impulso in avanti, e non arrestando il
processo al punto che de nisce. Quando guardiamo un quadro o leggiamo
una poesia o un dramma, lo stesso aspetto lo cogliamo talvolta nella sua
qualità di de nizione e conclusione, talvolta nella sua funzione transitoria.
Normalmente il modo in cui lo cogliamo dipende dalla direzione del
nostro interesse in quel punto particolare della nostra esperienza. Ci sono
però prodotti artistici in cui un elemento insiste a esser colto in un solo
modo. Allora c’è quel genere di restrizione che si riscontra in pittura
quando si sopravvaluta la linea nella scuola orentina; o la luce in
Leonardo, e in Raffaello sotto l’in uenza di Leonardo; o l’atmosfera negli
impressionisti convinti. È estremamente dif cile raggiungere un perfetto
equilibrio di miscele che fanno procedere e pause che accentuano e
de niscono, e si può trarre un’autentica soddisfazione estetica da oggetti
in cui non si realizza tale equilibrio. Ma in questi casi l’organizzazione
dell’energia è tuttavia parziale.
Il carattere attivo, in quanto distinto da quello morfologico, del ritmo di
agire e subire, di pause che de niscono e spinte in avanti, è reso evidente
in arte dal fatto che l’artista usa ciò che normalmente si considera brutto
per ottenere un effetto estetico: colori contrastanti, suoni discordanti,
cacofonie in poesia, zone apparentemente buie e scure o per no
semplicemente vuote – come in Matisse – in pittura. È il modo in cui la
cosa è connessa che conta. L’esempio consueto più adatto è il ricorso di
Shakespeare al comico nel mezzo di una tragedia. Fa più che allentare la
tensione dalla parte dello spettatore. Ha una funzione più intrinseca in
quanto dà risalto alla qualità tragica. Qualsiasi prodotto la cui qualità non
sia di un genere molto “facile” distorce e dissocia ciò che di solito è
connesso. La distorsione che si riscontra nei dipinti soddisfa l’esigenza di
qualche ritmo particolare. Ma fa di più. Spinge a de nire valori di
percezione che nell’esperienza ordinaria sono nascosti a causa
dell’abitudine. Bisogna superare la comune prevenzione per riuscire ad
attivare il grado di energia richiesto da un’esperienza estetica.
Purtroppo quando si scrive di teoria estetica si è costretti a parlare in
termini generali, poiché è impossibile presentare l’opera in cui il materiale
sussiste nella sua forma individuale. Mi occuperò però di un esempio
schematico tratto da un dipinto realmente esistente133. Guardando il
particolare oggetto che ho in mente, l’attenzione viene catturata anzitutto
dagli oggetti nei quali le masse si dirigono verso l’alto: la prima
impressione è quella del movimento dal basso verso l’alto. Dire ciò non
signi ca affermare che lo spettatore sia esplicitamente consapevole di ritmi
in senso verticale, ma che, se si ferma ad analizzare, egli si accorge che la
prima e dominante impressione è determinata da schemi costituiti in tal
modo da ritmi. Nel frattempo l’occhio si muove anche attraverso il quadro
sebbene l’interesse resti concentrato sugli schemi che vanno verso l’alto.
Poi si veri ca una interruzione, un arresto, una pausa di sospensione non
appena la visione giunge all’angolo inferiore opposto su una massa
de nita, che invece di adeguarsi agli schemi verticali sposta l’attenzione sul
peso delle masse disposte in orizzontale. Qualora la composizione del
quadro fosse cattiva, la variazione agirebbe come un’interruzione che
disturba, come una frattura nell’esperienza invece che come un
riorientamento dell’interesse e dell’attenzione che in tal modo amplia il
signi cato dell’oggetto. Così com’è, la chiusura di una fase dell’ordine dà
un nuovo assetto all’aspettativa e questa è appagata nel momento in cui la
visione torna indietro attraverso una serie di aree colorate dal carattere di
tipo prevalentemente orizzontale. Poi, non appena questa fase della
percezione raggiunge il proprio completamento, l’attenzione viene attirata
dalla variazione ordinata del colore caratteristica di queste masse.
Successivamente, quando l’attenzione si riorienta verso gli schemi verticali
– tornando al punto da cui siamo partiti – abbandoniamo il disegno
costituito dalla variazione di colore e scopriamo che l’attenzione è diretta
verso intervalli spaziali determinati da una serie di piani che arretrano e
s’intrecciano. Fin dall’inizio, nella percezione l’impressione di profondità,
certamente implicita, è resa esplicita da questo particolare ordine ritmico.
Nella formazione di questa percezione pittorica sono stati chiamati ad
agire con particolare intensità quattro tipi di energia organica, fusi
nell’impressione complessiva iniziale, e tuttavia non vi è stata alcuna
interruzione nell’esperienza. E la storia non termina qui. Quando si
diventa maggiormente consapevoli dei fattori che costituiscono la
profondità spaziale, in gran lontananza si delinea una scena. Questa scena,
secondo la relativa distanza indicata, è caratterizzata da una marcata
luminosità. La visione si adatta quindi a percepire in maniera più de nita i
ritmi di luminosità che conferiscono un valore accresciuto al quadro nel
suo complesso. Abbiamo qui più o meno cinque sistemi di ritmo. Ognuno
di essi, se lo si esaminasse ulteriormente, rivelerebbe al proprio interno
ritmi secondari. Ogni ritmo, primario o secondario, interagisce con tutti gli
altri per coinvolgere sistemi diversi di energia organica. Ma essi devono
anche interagire tra loro in modo tale che l’energia non sia solo attivata,
ma anche coerentemente organizzata. Talvolta in un oggetto di un genere
nuovo si prova una sorpresa sconcertante. Ciò accade in oggetti talmente
eccentrici da essere di scarso valore; ma capita anche con opere di elevato
valore estetico alla loro prima apparizione. Occorre tempo per capire se
l’urto è provocato da fratture intrinseche all’organizzazione dell’oggetto o
dalla mancanza di preparazione in chi percepisce.
Può sembrare che ciò che è stato detto esageri l’aspetto temporale della
percezione. Senza dubbio ho dato ampio spazio a elementi che di solito
sono in misura maggiore o minore ridotti. Ma in nessun caso ci può essere
percezione di un oggetto se non in un processo che si sviluppa nel tempo.
Mere eccitazioni, sì; non però un oggetto che sia percepito, anziché
semplicemente riconosciuto come oggetto di un genere familiare. Se la
nostra visione del mondo consistesse di una successione di occhiate
estemporanee, non ci sarebbe una visione del mondo né di alcuna cosa al
suo interno. Se il fragore e la corrente impetuosa del Niagara non fossero
altro che un rumore e un colpo d’occhio del momento, non si
percepirebbero né il suono né l’aspetto di un qualche oggetto, e ancor
meno di quel particolare oggetto chiamato Cascate del Niagara. Non lo si
coglierebbe neppure come rumore. Né la mera continuazione isolata del
rumore esterno che martella l’orecchio produrrebbe altro effetto se non
maggiore confusione. Non si percepisce nulla se non quando sensi diversi
lavorano in relazione reciproca, se non quando l’energia di un “centro” si
comunica agli altri, stimolando così nuove modalità di risposte motorie che
a loro volta suscitano nuove attività sensoriali. Non c’è scena o oggetto
percepiti nché queste diverse energie senso-motorie non sono coordinate
tra loro. Ma anche quando – in condizioni impossibili da soddisfare nella
realtà – fosse attivo solo un singolo senso. Se è l’occhio l’organo
prevalentemente attivo, allora la qualità cromatica è condizionata da
qualità di altri sensi chiaramente attivi in esperienze precedenti. In questo
senso è condizionata da una storia; c’è un oggetto con un passato. E
l’impulso degli elementi motori che sono coinvolti genera un’estensione
nel futuro, predisponendosi a ciò che deve venire e in un certo senso
preannunciando ciò che deve accadere.
Negare ritmo a quadri, edi ci e statue, o affermare che si trova in essi
solo metaforicamente, è fatto che si basa sull’ignoranza della natura
intrinseca di ogni percezione. Naturalmente talvolta si effettuano
riconoscimenti virtualmente istantanei. Tuttavia, ciò accade solo quando,
grazie a una serie di esperienze passate, il sé è diventato esperto in
determinate direzioni, magari solo nell’afferrare a colpo d’occhio che un
certo oggetto è un tavolo o che un dipinto è di un particolare artista, ad
esempio di Manet. Dal momento che la percezione attuale utilizza
un’organizzazione di energie elaborata progressivamente nel passato non
c’è motivo di eliminare la qualità temporale dalla percezione. E in ogni
caso, se la percezione è estetica, un’identi cazione immediata ne è solo
l’inizio. Non vi è alcun valore estetico intrinseco nell’identi care un
quadro come questa o quest’altra cosa. L’identi cazione può destare
l’attenzione e indurre a indugiare sul dipinto di modo che parti e relazioni
siano chiamate a comporre un intero.
Siamo appena consapevoli di qualcosa di metaforico quando di un
quadro o di un racconto diciamo che è morto e di un altro che ha vita.
Spiegare esattamente che cosa intendiamo quando diciamo ciò non è
facile. Eppure, la consapevolezza che una cosa sia debole, che un’altra
abbia la pesante inerzia delle cose inanimate, mentre un’altra sembri
muoversi dall’interno, sorge spontaneamente. Deve esserci qualcosa
nell’oggetto che la suscita. Ora, a distinguere ciò che è vivo da ciò che è
morto non è né l’agitazione né la confusione, e nemmeno un quadro si
muove in senso letterale. L’essere vivente è caratterizzato dall’avere un
passato e un presente; e dall’averli perché li possiede nel presente, non solo
esteriormente. E io affermo che è proprio quando da un prodotto artistico
ricaviamo il senso di avere a che fare con una carriera, con una storia,
percepita in un punto particolare del suo sviluppo, che abbiamo
l’impressione della vita. Ciò che è morto non si estende nel passato, né
suscita un interesse per ciò che deve venire.
L’elemento comune a tutte le arti, tecnologiche e utili, è l’organizzazione
dell’energia come mezzo per produrre un risultato. Nei prodotti che ci
colpiscono in quanto semplicemente utili abbiamo di mira solo qualcosa
che è al di là dell’oggetto, e se non siamo interessati a quest’altro prodotto
siamo indifferenti all’oggetto stesso. Ci potremmo passar sopra senza
vederlo davvero, oppure potremmo osservarlo pigramente come si guarda
senza impegno una cosa curiosa che ci è stato detto essere degna di nota.
Nel caso dell’oggetto estetico l’oggetto agisce – come ovviamente può fare
anche un oggetto che si presta a un uso esteriore – per far cooperare
energie che sono state impegnate separatamente avendo avuto a che fare
con tante cose diverse in occasioni diverse, e per conferir loro quella
particolare organizzazione ritmica che abbiamo chiamato (pensando
all’effetto e non al modo della sua produzione) chiari cazione,
intensi cazione, concentrazione. Le energie che si conservano in uno stato
potenziale in rapporto l’una all’altra, e che comunque sono attuali rispetto
a se stesse, si sollecitano e si rafforzano a vicenda direttamente in funzione
dell’esperienza che risulta.
Ciò che è vero per quel che concerne la produzione originaria è vero
anche per quel che concerne la percezione nella fruizione. Parliamo di
percezione e del suo oggetto. Ma la percezione e il suo oggetto si formano
e si completano in una sola e identica operazione continua. Quel che si
chiama l’oggetto, la nuvola, il ume, l’indumento, si carica di un’esistenza
indipendente da un’esperienza concreta; ciò è ancor più vero per la
molecola di carbonio, lo ione d’idrogeno, per le entità della scienza in
generale. Ma l’oggetto della – o meglio nella – percezione non è l’oggetto
di una specie in generale, non è un campione di nuvola o di ume, bensì
questa cosa individuale che esiste qui ed ora con tutte le peculiarità
irripetibili che accompagnano e contrassegnano tali esistenze. In quanto
oggetto-della-percezione esso esiste esattamente in quella stessa
interazione con una creatura vivente che costituisce l’attività del percepire.
Ora, per pressione di circostanze esterne o per rilassatezza interiore, gli
oggetti di gran parte della nostra percezione ordinaria mancano di
completezza. Si taglia corto quando li si riconosce; cioè quando l’oggetto
viene identi cato come oggetto di un genere, o di una specie entro quel
genere. Infatti tale riconoscimento basta a metterci in grado di utilizzare
l’oggetto per scopi consueti. Basta sapere che quegli oggetti sono nuvole
cariche di pioggia per indurci a prender su un ombrello. Rendersi
pienamente conto percettivamente di che cosa sono esattamente le singole
nuvole potrebbe addirittura impedire di utilizzarle come segno per uno
speci co, circoscritto tipo di comportamento. D’altro canto, percezione
estetica designa una percezione piena e il suo correlato, oggetto o evento.
Una percezione di tal genere è accompagnata da, o piuttosto consiste in
un rilascio di energia nella sua forma più pura; una forma che, come
abbiamo visto, è organizzata e dunque ritmica.
Non occorre pertanto avere la sensazione di parlare metaforicamente, né
occorre giusti carsi contro l’accusa di animismo quando si dice che un
dipinto è vivo e che le sue gure, o anche che forme architettoniche e
scultoree, esprimono movimento. La Deposizione di Tiziano134 fa più che
suggerire il trasporto di un peso abbandonato; lo comunica ovvero lo
esprime. Le ballerine di Degas sono davvero sulla punta dei piedi per
ballare; i bambini dei dipinti di Renoir sono intenti alle loro letture o al
loro cucito. In Constable il verde è umido; e in Courbet una piccola valle
stilla rugiada e le rocce scintillano di fresca umidità. Quando i pesci non
guizzano o non se ne stanno pigramente a mezz’acqua, quando le nuvole
non uttuano o non corrono via, quando gli alberi non ri ettono la luce,
nulla sollecita la giusta energia necessaria a realizzare l’energia piena
dell’oggetto. In tal caso, se la percezione è integrata da reminiscenze o
associazioni sentimentali derivate dalla letteratura – come solitamente
avviene in dipinti comunemente considerati poetici –, ha luogo
un’esperienza estetica simulata.
I dipinti che sembrano morti in tutto o in parte sono quelli in cui gli
intervalli non fanno che arrestare invece di spingere anche in avanti. Sono
“buchi”, spazi vuoti. Quelli che chiamiamo punti morti sono, dal lato di
chi percepisce, le cose che sottolineano un’organizzazione parziale o
fallimentare dell’energia verso l’esterno. Ci sono opere d’arte che non
fanno che eccitare, nelle quali si suscita attività senza che vi sia la
posatezza del soddisfacimento, senza raggiungere la pienezza nei termini
propri del medium. L’energia è lasciata senza organizzazione. Le opere
teatrali sono allora melodrammatiche; i dipinti di nudo sono pornogra ci;
l’opera di nzione letta ci lascia scontenti del mondo in cui siamo
purtroppo costretti a vivere senza l’opportunità dell’avventura romantica e
dell’alto eroismo suggerita dai libri delle favole. In quei romanzi in cui i
personaggi sono burattini dei loro autori la nostra avversione deriva dal
fatto che la vita è simulata, non messa in scena. La simulazione della vita
ottenuta mettendo in mostra animazione e vivacità ci lascia con lo stesso
senso irritante di incompiutezza che rimane dopo continue e futili
chiacchiere.
Forse a qualcuno è sembrato che io abbia esagerato l’importanza del
ritmo a scapito della simmetria. Stando alle parole esplicite, ho fatto così.
Ma solo per quel che concerne le parole. Infatti l’idea di energia
organizzata signi ca che ritmo ed equilibrio non possono essere separati,
sebbene possano essere distinti con il pensiero. In breve e
schematicamente, quando l’attenzione indugia soprattutto sui tratti e sugli
aspetti nei quali si manifesta l’organizzazione compiuta, diventiamo
particolarmente consapevoli della simmetria, della misura che una cosa
assume in relazione a un’altra. Simmetria e ritmo sono la stessa cosa sentita
secondo la differenza di enfasi che è dovuta a un attento interesse.
Quando i tratti che caratterizzano peculiarmente la percezione sono gli
intervalli che de niscono una pausa e il relativo riempimento, ci
accorgiamo della simmetria. Quando ci interessiamo del movimento, degli
andirivieni invece che dei punti di arrivo, prende rilievo il ritmo. Ma in
ogni caso la simmetria, essendo l’equilibrio tra energie contrastanti,
implica il ritmo, mentre il ritmo ha luogo solo quando il movimento è
intervallato da spazi di pausa, e pertanto implica la misura.
Naturalmente, a volte in un prodotto artistico i due elementi si separano.
Ma questo fatto signi ca che il prodotto non è esteticamente compiuto,
che da un lato ci sono buchi, punti morti e, dall’altro, eccitazioni
immotivate e irrisolte. Nell’esperienza ri essiva come tale, nell’indagine
sollecitata da situazioni problematiche, c’è un ritmo tra cercare e trovare,
tra la tensione verso una conclusione plausibile e l’approdo a ciò che per lo
meno è un tentativo di soluzione. Di norma, però, queste fasi sono troppo
secondarie per dotare il processo di una ingente qualità estetica. Quando
assumono importanza e si uniscono al contenuto, c’è il medesimo genere
di consapevolezza che si ha in presenza di qualsiasi costruzione artistica.
In ciò che è solo una simulazione accademica dell’arte, d’altro canto,
l’equilibrio non aderisce al contenuto ma è una posa gratuita che, essendo
isolata dal movimento, diventa col tempo estremamente tediosa.
La connessione tra intensità ed estensione e di entrambe con la tensione
non è questione di parole. Non c’è ritmo se non quando c’è un’alternarsi
di compressioni e distensioni. La resistenza impedisce lo sfogo immediato
e accumula una tensione che rende intensa l’energia. Il suo scioglimento
da questo stato di imprigionamento prende necessariamente la forma di un
progressivo distendersi. In un quadro, i colori caldi e freddi, i colori
complementari, luce e ombra, alto e basso, sfondo e primi piani, destra e
sinistra sono, parlando in modo schematico, i mezzi con cui si produce
quel tipo di contrasto in un’immagine che sfocia in un equilibrio. Nei
dipinti antichi questa simmetria si realizza principalmente per mezzo di
contrasti di posizione tra destra e sinistra, o per un’ovvia disposizione in
diagonale. Si ha così un’energia di posizione e, di conseguenza, persino in
queste immagini la simmetria non è meramente spaziale. Essa però è
debole, come nelle immagini a silhouette135 del tredicesimo e
quattordicesimo secolo, dove la gura principale è collocata al centro
esatto del quadro mentre gure tra loro pressoché identiche sono disposte
secondo una corrispondenza laterale quasi esatta. In seguito si preferirono
forme piramidali. Tali disposizioni devono gran parte della loro forza a
fattori esterni all’immagine. La stabilità degli oggetti viene ottenuta
rievocando in noi modi familiari con cui si genera equilibrio. Così l’effetto
della simmetria nell’immagine si deve a un’associazione, e non è
intrinseco. La tendenza in pittura è stata di sviluppare relazioni tali da
impedire che l’equilibrio venga indicato topogra camente selezionando
gure particolari; esso è invece una funzione dell’intera immagine. Il
“centro” dell’immagine non è spaziale, ma è l’epicentro delle forze che
interagiscono.
De nire la simmetria in termini statici corrisponde esattamente all’errore
in base al quale il ritmo viene concepito come il ricorrere di elementi.
L’equilibrio è bilanciamento, in cui il problema è di distribuire i pesi
tenendo conto del modo in cui essi agiscono l’uno sull’altro. I due piatti
della bilancia sono in equilibrio quando si aggiustano il loro spingersi e
tirarsi a vicenda. E ci sono veramente (e non potenzialmente) bilance solo
nel momento in cui i loro piatti operano combattendosi tra loro per
raggiungere un equilibrio. Poiché gli oggetti estetici dipendono da
un’esperienza che si compie progressivamente, la misura nale
dell’equilibrio ovvero della simmetria è la capacità dell’intero di tenere
insieme al suo interno la più grande varietà e quantità di elementi opposti.
La connessione tra equilibrio e pressione dei pesi è intrinseca. Un lavoro
in qualsiasi ambito viene svolto solo facendo interagire forze opposte –
come nei sistemi antagonistici dell’apparato muscolare. Pertanto in
un’opera d’arte tutto dipende dalla scala adottata – per questa ragione c’è
appena un passo dal sublime al ridicolo. Non c’è qualcosa come una forza
in sé forte o debole, grande o piccola. Miniature e quartine hanno una loro
perfezione e di per sé la grandezza è offensiva nella sua vuota
pretenziosità. Dire che è debole una parte di un dipinto, di un’opera
teatrale o di un romanzo, signi ca che qualche parte correlata è troppo
forte – e viceversa. In termini assoluti, nulla è forte o debole; forte o debole
è il modo in cui qualcosa agisce e subisce. Talvolta in uno scorcio
architettonico è sorprendente vedere come un edi cio basso
opportunamente collocato terrà insieme gli alti edi ci circostanti invece di
venirne annientato.
Il difetto più comune in opere che hanno qualche diritto a essere
chiamate opere d’arte è lo sforzo di acquisire forza esagerando un qualche
elemento. Inizialmente, come accade temporaneamente per ogni tipo di
best-seller, c’è una risposta immediata. Ma tali opere non durano. Col
passare del tempo diventa sempre più evidente che ciò che si è considerato
forza signi ca debolezza sul versante dei fattori che controbilanciano.
Nessun fascino sensuale, per quanto grande e intenso, è stucchevole se
viene contrapposto ad altri fattori. Ma isolata la sdolcinatezza è una delle
qualità che diventano più rapidamente vuote. In letteratura lo stile
“virile”136 si logora rapidamente poiché è evidente (sebbene solo
inconsciamente) che, malgrado la violenza del movimento, non si ostenta
vera forza dato che le energie che si contrappongono sono solo gure di
gesso e cartapesta. La forza apparente di un elemento va a scapito della
debolezza in altri elementi. Anche la sensazionalità di un romanzo o di
una messa in scena si deve esclusivamente a una mancanza di relazioni che
riguarda la qualità dell’intero e non un qualche episodio in se stesso. Un
critico ha osservato che le commedie di O’Neill soffrono di una mancanza
di rallentamenti; ogni cosa si muove troppo rapidamente e pertanto con
troppa facilità, e il risultato è un ingorgo. I pittori mentre lavorano sono
costretti a intervenire qua e là, non sull’intera super cie del quadro in una
volta. E sono consapevoli della necessità di “tener sotto” in ogni singolo
momento la parte su cui stanno lavorando. Ogni scrittore deve risolvere lo
stesso problema. Finché non è risolto, altre parti non vengono “messe
sotto”. Nella maggior parte dei casi l’analisi scoprirà che l’obiezione
estetica contro dosi di morale e di propaganda economica o politica nelle
opere d’arte si deve al peso eccessivo assunto da certi valori a scapito di
altri no a procurare noia invece di ristoro tranne che a chi vive uno stato
di entusiasmo unilaterale analogo.
La manifestazione di una singola forma di energia isolata sfocia in
movimenti non coordinati, poiché l’organismo umano è di fatto complesso
e pertanto richiede l’aggiustamento di molti fattori diversi. C’è una grande
differenza tra violenza e intensità d’azione. Se si osservano bambini piccoli
che intendono partecipare a un gioco, si riscontra una successione di
movimenti privi di relazione. Gesticolano, fanno capitomboli e rotolano,
ciascuno quasi esclusivamente per conto proprio, con scarso riferimento a
ciò che stanno facendo gli altri. Per no i gesti di uno stesso bambino
hanno poca consequenzialità. Un tale caso esempli ca, per contrasto, la
relazione artistica tra intensità ed estensione. Poiché l’energia non è
frenata da altri elementi che siano a un tempo antagonisti e cooperanti,
l’azione procede per scatti e contrazioni. C’è discontinuità. Quando
opposizioni reciproche rendono tesa l’energia, questa si dispiega in una
estensione ordinata. Il contrasto che è estremo nel caso, opposto a una
zuffa infantile, di un gioco ben costruito e ben eseguito si trova, in misura
minore, in tutti i casi in cui c’è un valore estetico contrappositivo. Dipinti,
edi ci, poesie, romanzi, tutti possiedono diversi gradi di volume – da non
confondere con la corposità. Dal punto di vista estetico essi sono spessi ed
esili, solidi e traballanti, ben intrecciati e sconnessi. Questa proprietà
dell’estensione, della varietà relativa, è la fase cinetica che contraddistingue
il rilascio delle energie che sono costrette in ordinati intervalli di
sospensione. Ma ancora una volta l’ordine di questi intervalli (che
costituiscono la simmetria dell’opera) non viene regolato sulla base di unità
di tempo o spazio. Quando esso è determinato in tal modo, l’effetto è
meccanico, come l’andamento altalenante di un verso dal ritmo facile. In
un prodotto artistico gli intervalli sono sempre regolari quando derivano
dal rafforzamento reciproco delle parti relativamente all’effetto di unità e
totalità. Ecco cosa si intende quando si dice che la simmetria è dinamica e
funzionale.
Quando si guarda un quadro o un edi cio si veri ca la stessa
compressione per accumulazione nel tempo che si veri ca quando si
ascolta musica, quando si legge una poesia o un romanzo, nell’assistere a
una rappresentazione teatrale. Nessuna opera d’arte può essere percepita
in un istante poiché allora non ci sarebbe modo di conservare e aumentare
la tensione, e quindi di effettuare quel rilascio e quella distensione che
danno volume a un’opera d’arte. Nella maggior parte delle opere
intellettuali, in tutte le opere salvo che in quei lampi evidentemente
estetici, dobbiamo procedere a ritroso; dobbiamo ripercorrere con
consapevolezza i passi precedenti e richiamare alla mente con chiarezza
particolari fatti e particolari idee. Andare avanti nel pensiero dipende da
queste escursioni coscienti della memoria nel passato. Ma solo quando la
percezione estetica si interrompe (per colpa dell’artista o del fruitore),
siamo costretti a tornare indietro, come quando mentre assistiamo ci
chiediamo che cosa è accaduto prima per riprendere il lo di ciò che
accade. Ciò che si ricava dal passato fa corpo in ciò che si percepisce al
momento, e lo fa in modo tale, comprimendosi così in quel punto, da
costringere la mente a protendersi verso ciò che sta per accadere. Più c’è di
compresso di ciò che viene dalle serie continue delle percezioni
precedenti, più è ricca la percezione presente e più è intenso l’impulso in
avanti. Grazie alla profondità della concentrazione, il rilascio di materiali
contenuti mentre ha luogo dà alle esperienze successive un’ampiezza
maggiore che comprende un numero più alto di certe peculiarità: è quel
che ho chiamato estensione e volume, e che corrisponde all’intensità
dell’energia dovuta al moltiplicarsi delle resistenze.
Di conseguenza separare tra loro ritmo e simmetria e dividere le arti in
temporali e spaziali è più che una maldestra ingenuità. Si basa su un
principio che, quando vi ci si attiene, risulta deleterio per la comprensione
estetica. Inoltre, esso ha ora perduto quel sostegno dal lato della scienza
che una volta si credeva che avesse. Infatti, in virtù del carattere
dell’argomento che trattano i sici sono stati costretti ad ammettere che le
loro non sono unità di spazio e di tempo, ma unità di spazio-tempo. Fin
dall’inizio l’artista ha tradotto in azioni, se non in pensieri consapevoli,
questa tarda scoperta scienti ca. Egli, infatti, ha sempre di necessità
trattato con materiale percettivo invece che concettuale, e in ciò che si
percepisce l’elemento spaziale e quello temporale vanno sempre insieme.
È interessante notare che in ambito scienti co questa scoperta venne fatta
quando ci si rese conto che il processo di astrazione concettuale non
poteva essere portato no al punto di escludere l’atto dell’osservazione
senza distruggere la possibilità della veri ca.
Pertanto, quando il ricercatore scienti co è stato costretto a considerare
le conseguenze dell’atto della percezione in rapporto al contenuto dei suoi
studi, è passato da spazio e tempo a un’unità che poteva descrivere solo
come spazio-tempo. Ha scoperto così un fatto che trova esempio in ogni
percezione comune. Infatti, l’estensione e il volume di un oggetto, le sue
proprietà spaziali, non si possono esperire – o percepire – direttamente in
un istante matematico, né le proprietà temporali degli eventi si possono
esperire se non come una qualche energia che rivela se stessa in un modo
estensivo. Quindi l’artista tratta le qualità temporali e spaziali del materiale
della percezione allo stesso modo in cui tratta l’intero contenuto della
percezione ordinaria. Seleziona, intensi ca e concentra per il tramite della
forma: ritmo e simmetria sono dunque di necessità la forma che il
materiale assume quando subisce le operazioni di chiari cazione e
ordinamento proprie dell’arte.
A prescindere dalla perdita del presunto avallo scienti co, la separazione
del temporale dallo spaziale nelle belle arti è sempre stata assurda. Come
ha detto Croce137, noi siamo speci camente (o separatamente) consapevoli
della sequenza temporale in musica e poesia e della co-esistenza spaziale in
architettura e pittura solo quando passiamo dalla percezione alla ri essione
analitica. Supporre di udire direttamente che i suoni musicali sono nel
tempo e di vedere direttamente i colori nel loro essere nello spazio,
signi ca attribuire a un’esperienza immediata un’interpretazione
successiva di essa dovuta alla ri essione. Vediamo intervalli e direzioni nei
quadri e udiamo distanze e volumi in musica. Se il movimento fosse
percepito solo in musica e la quiete solo in pittura, la musica sarebbe del
tutto priva di struttura e i quadri non sarebbero che scheletri scarni cati.
Ciò nonostante, pur essendo sbagliato tracciare una distinzione tra arti
spaziali e arti temporali dal momento che tutti gli oggetti d’arte hanno a
che fare con la percezione e la percezione non è istantanea, la musica,
nella sua evidente enfasi temporale, rende chiaro forse meglio di ogni altra
arte il senso in base a cui la forma è l’integrazione motrice di
un’esperienza. In musica, forma per la quale anche chi ne è esperto deve
trovare un linguaggio spaziale e che anche chi ne è esperto vede come una
struttura, la forma si sviluppa nel corso dell’ascolto del brano. Qualsiasi
punto dello sviluppo musicale, cioè ogni suono, è ciò che è in
quell’oggetto – o in quella percezione – musicale in virtù di ciò che c’è
stato prima e di ciò che musicalmente sta per irrompere o viene
annunciato. Una melodia viene de nita dalla tonica, rispetto a cui si
determina un’attesa di ritorno quale tensione dell’attenzione. La “forma”
del brano diviene forma mentre si sviluppa l’ascolto. Inoltre, ogni parte del
brano e ogni sua sezione trasversale ha esattamente l’equilibrio e la
simmetria, in accordi e armonie, che ha un dipinto, una statua o un
edi cio. Una melodia è un accordo che si sviluppa nel tempo.
Il termine “energia” è stato utilizzato molte volte in questa discussione.
Forse a qualche grande intellettuale sembra fuori luogo insistere sull’idea
di energia in connessione con l’arte bella. Tuttavia ci sono certi luoghi
comuni che di solito si enunciano a proposito dell’arte che non possono
essere chiariti senza considerare centrale il fatto dell’energia: la sua
capacità di commuovere ed eccitare, di calmare e tranquillizzare. E
certamente o ritmo ed equilibrio sono entrambi caratteri estranei all’arte,
oppure l’arte, visto il loro ruolo fondamentale, si può de nire solo come
organizzazione di energie. Per quel che concerne ciò che l’opera d’arte fa
a noi e per noi, non vedo che due alternative. O la sua azione si deve al
fatto che una qualche essenza trascendente (di solito chiamata “bellezza”)
scende sull’esperienza dall’esterno, oppure l’effetto estetico è dovuto alla
peculiarissima trascrizione dell’energia delle cose del mondo che compie
l’arte. Se ci si trova tra queste due alternative, non so come un semplice
ragionamento possa determinare la scelta. Ma può aiutare sapere che cosa
è in gioco in questa scelta.
Assumendo quindi la mia posizione sulla connessione tra effetto estetico
e qualità di ogni esperienza purché unitaria, chiederei: come può l’arte
essere espressiva e comunque non imitativa, ovvero pedissequamente
rappresentativa, se non selezionando e ordinando le energie grazie alle
quali le cose agiscono su di noi e ci interessano? Se l’arte è in un qualche
senso riproduttiva senza però riprodurre né dettagli né caratteristiche
generiche, ne consegue necessariamente che l’arte opera selezionando
quelle potenzialità all’interno delle cose grazie alle quali un’esperienza –
qualsiasi esperienza – ha signi catività e valore. L’eliminazione liquida le
forze che confondono, distraggono e indeboliscono. Ordine, ritmo ed
equilibrio vogliono semplicemente dire che le energie signi cative per
l’esperienza stanno agendo al loro meglio.
Il termine “ideale” è stato sminuito dal comune uso acritico e dall’uso
nel discorso loso co a scopi apologetici per mascherare i contrasti e le
crudeltà dell’esistenza. Ma c’è un senso determinato in cui l’arte è ideale –
ed è proprio il senso appena indicato. Attraverso selezione e
organizzazione, quei tratti che fan sì che ogni esperienza diventi
un’esperienza degna di essere fatta sono predisposti dall’arte a una
percezione adeguata. Malgrado tutta l’indifferenza e l’ostilità della natura
per gli interessi umani, ci deve essere una qualche rispondenza tra natura e
uomo, altrimenti la vita non potrebbe sussistere. Nell’arte vengono messe
in libertà le forze che sono congeniali, che danno sostegno non a questo o
a quello scopo particolare, ma ai processi della stessa esperienza di cui si
fruisce. Quel rilascio gli conferisce qualità ideale. Infatti, quale ideale può
francamente nutrire l’uomo se non l’idea di un ambiente in cui tutte le
cose concorrono a perfezionare e sostenere i valori esperiti in modo
occasionale e parziale?
Uno scrittore inglese, credo Galsworthy, da qualche parte ha de nito
l’arte «l’espressione immaginativa dell’energia che, attraverso una
concrezione tecnica di sentimento e percezione, tende a riconciliare
l’individuale con l’universale suscitando nell’individuo un’emozione
impersonale»138. Le energie che costituiscono gli oggetti e gli eventi del
mondo e che pertanto determinano la nostra esperienza sono
l’“universale”. La “riconciliazione” è il conseguimento, in una forma
immediata e non argomentativa, di periodi di cooperazione armoniosa tra
l’uomo e il mondo in esperienze che sono complete. L’emozione che ne
risulta è “impersonale” perché riguarda non la sorte personale ma
l’oggetto alla cui costruzione il sé si è abbandonato con devozione. La
fruizione è altrettanto impersonale nella sua qualità emotiva, poiché
anch’essa implica costruzione e organizzazione di energie oggettive.
9 – La sostanza comune delle arti
L’arte è una qualità del fare e di ciò che viene fatto. Solo esteriormente,
quindi, può essere designata con un sostantivo nominale. Inerendo alla
maniera e al contenuto del fare, essa è aggettivale per natura. Quando
diciamo che giocare a tennis, cantare, recitare e moltissime altre attività
sono arti, ci serviamo di un modo ellittico per dire che c’è arte nel modo di
svolgere tali attività e che questa arte quali ca ciò che si fa e si realizza in
modo da sollecitare in chi le percepisce attività in cui pure c’è arte. Il
prodotto dell’arte – tempio, dipinto, statua, poesia – non è l’opera d’arte.
L’opera ha luogo quando un essere umano coopera con il prodotto dando
esito a un’esperienza che piace per le sue proprietà di libertà e ordine.
Esteticamente almeno
…we receive but what we give,
And in our life alone does nature live;
Ours is her wedding garments; ours her shroud.167
Infatti questa continuità non è circoscritta alle lettere nella loro forma
scritta e stampata. La nonna che racconta le storie del “c’era una volta” ai
bambini sulle sue ginocchia, tramanda e colora il passato; prepara
materiale per la letteratura e può essere lei stessa un’artista. La capacità dei
suoni di preservare e trasmettere i valori di tutte le varie esperienze del
passato e di adattarsi con esattezza a ogni mutevole sfumatura di
sentimento e idea, dà alle loro combinazioni e trasformazioni il potere di
creare una nuova esperienza, spesso un’esperienza sentita in modo più
inteso di quella che viene dalle cose stesse. I contatti con queste ultime
rimarrebbero su un piano di collisione meramente sico nel caso in cui le
cose non avessero assimilato al loro interno signi cati sviluppati nell’arte
della comunicazione. È possibile riuscire a dare realtà intensa e viva ai
signi cati di eventi e situazioni dell’universo solo attraverso un medium già
imbevuto di signi cato. L’architettonico, il pittorico e lo scultoreo sono
sempre inconsciamente circondati e arricchiti da valori che derivano dalla
parola. Per la natura della nostra costituzione organica è impossibile
escludere questo effetto.
Mentre non c’è una differenza tra prosa e poesia che si può stabilire con
precisione, c’è un abisso tra il prosaico e il poetico in quanto termini che,
tracciando limiti estremi, indicano tendenze interne all’esperienza. Uno di
loro incarna il potere delle parole di esprimere ciò che sta in cielo e in terra
e sotto i mari per mezzo dell’estensione; l’altro per intensione. Il prosaico
ha a che fare con descrizione e narrazione, con dettagli accumulati e
relazioni elaborate. Si svolge procedendo come un documento legale o un
catalogo. Il poetico inverte il processo. Condensa e abbrevia, dando così
alle parole un’energia di espansione che è quasi esplosiva. Una poesia
presenta il materiale in modo da diventare un universo in sé che, anche
quando è un intero in miniatura, non è embrionale più di quanto sia
elaborato attraverso l’argomentazione. In una poesia c’è qualcosa di in sé
chiuso e delimitato, e questa autosuf cienza, insieme all’armonia e al ritmo
dei suoni, spiega perché la poesia è la più ipnotica delle arti dopo la
musica.
Ogni parola in poesia è immaginativa, come in realtà lo era in prosa no
a quando le parole nell’uso non si levigarono per il logorio diventando
mere cifre. Infatti quando non è puramente emotiva, una parola si riferisce
a qualcosa di assente per cui essa sta. Quando le cose sono presenti basta
ignorarle, o usarle e indicarle. Probabilmente anche le parole puramente
emotive non fanno eccezione; l’emozione cui esse danno sfogo può essere
quella relativa a oggetti assenti ammassati al punto da aver perduto
individualità. La forza immaginativa della letteratura è una intensi cazione
della funzione idealizzante svolta dalle parole nel linguaggio comune.
Anche la presentazione più realistica di una scena mediante parole dopo
tutto ci pone di fronte cose che, quanto a contatto diretto, non sono che
possibilità. Ogni idea è per sua stessa natura indicativa di una possibilità,
non di una realtà attuale. Il signi cato che trasmette può essere reale in un
dato tempo e in un dato luogo. Ma quando è coltivato come idea, il
signi cato per quell’esperienza è una possibilità; è ideale nel senso stretto
della parola: in senso stretto perché “ideale” viene usato anche per
indicare il fantasioso e l’utopico, la possibilità che è impossibile.
Se l’ideale ci è realmente presente, la sua presenza deve essere conseguita
tramite il medium del senso. Nella poesia il medium e il signi cato
sembrano fondersi come per un’armonia prestabilita, che è la “musica” e
l’eufonia delle parole. Non può esserci musica in senso stretto, poiché
manca l’intonazione. Ma c’è il musicale, in quanto le parole stesse sono
aspre e solenni, rapide e languide, solenni e romantiche, ri essive e frivole,
in accordo con il signi cato. Il capitolo sul suono delle parole del libro di
Lascelles Abercrombie The Theory of Poetry190 rende super ui i dettagli;
tuttavia inviterei a fare particolare attenzione alla sua dimostrazione del
fatto che la cacofonia è un fattore genuino quanto l’eufonia. Credo infatti
che sia giusto interpretarne la forza come prova del fatto che la uidità
deve essere bilanciata da fattori strutturali che in sé stessi sono rigidi,
altrimenti nirebbe per risultare stucchevole.
Ci sono critici che sostengono che la musica abbia la meglio sulla poesia
per la sua capacità di trasmettere un senso della vita e delle fasi della vita
quali noi vorremmo che fossero. Tuttavia, non posso che pensare che per
la natura stessa del suo medium la musica è brutalmente organica:
ovviamente, non “brutale” nel senso di “bestiale”, ma nel senso in cui si
parla di fatti bruti, di ciò che non si può negare né evitare essendo
ineluttabilmente presente. Né questa visione getta discredito sulla musica.
Il suo valore è proprio di saper prendere materiale che è organicamente
inaggirabile e apparentemente indomabile ricavandone melodia e
armonia. Come accade ai quadri, che quando sono dominati da qualità
ideali diventano deboli per l’eccesso di qualità poetica; oltrepassano la
linea di con ne e, se esaminati criticamente, rivelano una mancanza di
senso del medium – del colore. Ma nell’epica, nella lirica, nella
drammaturgia – nella commedia come nella tragedia – l’idealità in
contrasto con la realtà gioca un ruolo intrinseco ed essenziale. Ciò che
potrebbe essere o che avrebbe potuto essere si pone sempre in contrasto
con ciò che è e che è stato in un modo che solo le parole sono capaci di
comunicare. Se gli animali sono realisti rigorosi è perché a loro mancano i
segni che il linguaggio dona agli umani.
Le parole come media non si esauriscono nella loro capacità di
comunicare possibilità. Sostantivi, verbi, aggettivi esprimono condizioni
generalizzate – vale a dire un carattere191. Persino un nome proprio non
può che denotare un carattere nei limiti di un’esempli cazione
individuale. Le parole tentano di comunicare la natura delle cose e degli
eventi. In realtà è grazie al linguaggio che cose ed eventi possiedono una
natura che è al di sopra e al di là del bruto usso dell’esistenza. Che le
parole riescano a comunicare un carattere, una natura, non in un’astratta
forma concettuale, ma facendolo apparire e operare in individui, diventa
evidente nel romanzo e nel teatro, che hanno il compito di sfruttare questa
particolare funzione del linguaggio. I caratteri sono infatti presentati in
situazioni che ne evocano la natura, dando la particolarità dell’esistenza
alla generalità della potenzialità. Al tempo stesso le situazioni sono de nite
e rese concrete. Infatti tutto ciò che sappiamo di una certa situazione è ciò
che essa fa a noi e con noi: è questa la sua natura. Il nostro modo di
concepire i tipi di carattere e le molteplici variazioni di questi tipi si deve
principalmente alla letteratura. Noi osserviamo, notiamo e giudichiamo le
persone intorno a noi in termini che sono ricavati dalla letteratura,
includendo naturalmente biogra a e storia accanto a romanzo e teatro. A
confronto, i trattati etici del passato sono stati incapaci di ritrarre i caratteri
in modo da farli rimanere nella coscienza del genere umano. La
correlatività di carattere e situazione appare chiara nel fatto che, ogni volta
che le situazioni vengono lasciate in uno stato iniziale e di incertezza, si
riscontra che i caratteri sono vaghi e inde niti – sono qualcosa da
indovinare, che non ha preso corpo, in breve sono privi di carattere.
In quel che ho detto ho toccato temi a ciascuno dei quali sono stati
dedicati dei volumi. Infatti mi sono occupato delle diverse arti sotto un
aspetto soltanto. Ho voluto mostrare che, come costruiamo ponti con
pietra, acciaio o cemento, così ogni medium ha la sua propria forza, attiva
e passiva, in uscita o in entrata, e che la base per distinguere i tratti
differenti delle arti è il loro modo di sfruttare l’energia che caratterizza il
materiale usato come medium. Gran parte di ciò che viene scritto sulle
differenti arti in quanto differenti mi pare debba essere detto dall’interno –
con il che intendo che considera il medium un fatto esistente senza
chiedere perché e come esso sia ciò che è.
La letteratura dà allora forse la prova più convincente di quella offerta
dalle altre arti che l’arte è bella quando attinge al materiale di altre
esperienze e lo esprime in un medium che ne intensi ca e chiari ca
l’energia attraverso l’ordine che sopraggiunge. Le arti ottengono questo
risultato non in modo consapevolmente intenzionale, ma nel corso stesso
dell’operazione creativa, per mezzo di nuovi oggetti, di nuovi modi
d’esperienza. Ogni arte comunica perché esprime. Ci mette in grado di
essere vitalmente e profondamente partecipi di signi cati a cui eravamo
rimasti insensibili o avevamo prestato orecchio solo per permettere a
quanto detto di attraversarlo nel transito verso l’azione evidente. Infatti
comunicare non è annunciare cose, anche se dette con enfasi altisonante.
La comunicazione è il processo con cui si crea partecipazione, si rende
comune ciò che è diventato isolato e singolare; e parte del miracolo che
compie è che, nel venir comunicata, la trasmissione di signi cato dà corpo
e de nitezza sia all’esperienza di chi parla che a quella di chi ascolta.
Gli uomini si associano in molti modi. Ma la sola forma di associazione
che è autenticamente umana, e non un radunarsi in società per avere
calore e protezione, o un mero espediente per dare ef cacia dell’azione
esterna, è la partecipazione a signi cati e beni che è realizzata dalla
comunicazione. Le espressioni che costituiscono l’arte sono
comunicazione nella sua forma pura e incontaminata. L’arte spezza le
barriere che separano gli esseri umani, impermeabili nell’associazione
ordinaria. Questa forza dell’arte, comune a tutte le arti, si manifesta nella
maniera più piena in letteratura. Il suo medium è già formato dalla
comunicazione, cosa che dif cilmente si può affermare di qualsiasi altra
arte. Ci possono essere controversie elaborate in modo ingegnoso e
concepite in modo plausibile circa la funzione morale e umana di altre arti.
Nessuna ce ne può essere per quel che riguarda l’arte delle lettere.
11 – L’apporto umano
1 [La collaborazione e l’amicizia di Dewey con Albert C. Barnes fu molto stretta e pro cua. Il
18 settembre 1933 Dewey scrive in una lettera all’amico, riferendosi proprio ad Art as
Experience in via di licenziamento: «Non ci sono capitoli né sono molte le pagine, sempre che ve
ne sia qualcuna, che non ti debbano qualcosa. Dove ho citato direttamente, appena ho un po’ di
tempo posso certamente dare riferimenti speci ci. Ma la maggior parte del debito è per avere
aiutato a plasmare la mia complessiva modalità d’approccio» (la lettera è citata negli apparati di
cura dell’edizione critica di Art as Experience: cfr. J. Dewey, The Later Works, vol. 10, Southern
Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1989, p. 353). Albert C. Barnes (1872-
1951), che fece fortuna nel campo industriale farmaceutico, svolse un rilevante ruolo di
promozione della cultura artistica novecentesca negli Stati Uniti attraverso la Fondazione che
istituì nel 1922 a Merion in Pennsylvania. Di questa Fondazione Dewey venne nominato
“director for education” nel 1923, dopo che Barnes aveva frequentato un suo seminario alla
Columbia University nel 1917. Oltre alla documentazione di civiltà non-occidentali, anzitutto
native americane e africane, quasi da museo etnogra co, è notevole la collezione di capolavori
dell’arte gurativa, importati in particolare dalla Francia. Tra le opere raccolte si annoverano
lavori di Van Gogh, Gauguin, Renoir, Cézanne, Matisse (a cui Barnes commissionò anche una
versione della Danse), Picasso, De Chirico, Modigliani... Segno della collaborazione intellettuale
nell’ambito estetico tra Barnes e Dewey sono anche il discorso inaugurale per la galleria della
Fondazione nel 1925 (per cui cfr. il saggio Esperienza, natura e arte, dapprima edito nella rivista
della Fondazione), e la Prefazione che Dewey preparò per il volume scritto dallo stesso Barnes
insieme a Violette De Mazia The Art of Renoir, Scribner, New York 1935 (entrambi poi ripresi
nel 1954 in Art and Education, per la cui trad. it. cfr. J. Dewey, Educazione e arte, a cura di L.
Bellatalla, La Nuova Italia, Firenze 1977, rispettivamente alle pp. 9-18 e 3-8). Il libro più
signi cativo scritto da Barnes è The Art of Painting, Barnes Foundation Press, Merion 1925, poi
Harcourt ecc., New York 1928.]
2 [Il riferimento è alle immagini che corredano il volume nell’edizione originale e in quella
critica (J. Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., rispettivamente alle pp. V, 32, 77, 77, 124, 164,
215, 240 e 282). Le immagini in questione sono: La Vittoria alata (Parigi, Louvre); vasellame
indiano “Pueblo” del Nuovo Messico (Merion, Barnes Foundation); pittura rupestre boscimane;
monile d’oro scita (San Pietroburgo, Hermitage); El Greco, Orazione nell’orto (Londra, National
Gallery); Auguste Renoir, Le bagnanti (Merion, Barnes Foundation); Paul Cézanne, Natura
morta con pesche (Merion, Barnes Foundation); scultura negra (Merion, Barnes Foundation);
Henri Matisse, La Joie de Vivre (Merion, Barnes Foundation).]
3 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, Or Biographical Sketches of My Literary Life and
Opinions, (1817), trad. it. di P. Colaiacomo, Biographia literaria, ovvero schizzi biogra ci della mia
vita e opinioni letterarie, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 241.]
4 [Cfr. Resp., III, in particolare 398e-399c, ed. con testo greco a fronte in Platone, Tutte le
opere, Newton Compton, Roma 1997, vol. IV, p. 155, ove si esprime la condanna dei modi lidi e
di quello ionico in quanto armonie lamentose e rilassate, e si ribadisce il valore del modo dorico
(capace di «imitare le voci e gli accenti di un uomo che dimostra coraggio in un’azione di
guerra») e di quello frigio (adatto a persuadere alla saggezza e alla misura).]
5 [In francese nel testo.]
6 [In francese nel testo.]
7 [In latino nel testo.]
8 [Cfr. G. Santayana, Reason in Common Sense, (1905), in Id., The Life of Reason; Or, the
Phases of Human Progress, Scribner, New York 1905-06, (ora anche Dover, London 1982), vol. I,
p. 65.]
9 «Questi ori familiari, questi indimenticabili canti d’uccello, questo cielo con le sue volubili
ore di purezza, questi campi solcati ed erbosi, ciascuno con una sua gura segnatagli dal
capriccio delle siepi: tali cose sono il linguaggio materno della nostra immaginazione, il
linguaggio rimasto in noi con tutte le sottili, inestricabili associazioni che le fuggitive ore
dell’infanzia si son lasciate dietro di loro. La nostra delizia per questo sole che ride oggi sopra le
alte erbe non sarebbe nulla più che una languida sensazione delle nostre anime stanche, se non
ci fossero stati quel rider di sole e quell’erba degli anni lontani, che ancora vivono in noi, e
trasformano la nostra sensazione in amore» (G. Eliot, The Mill on the Floss [William Blackwood
& Sons, Edinburgh & London 1860; trad. it. di G. Dedenedetti, Il mulino sulla Floss,
Mondadori, Milano 1992³, pp. 60-61]).
10 «Il Sole, la Luna, la Terra e ciò che contiene sono materiali con cui formare cose più
grandi, cioè cose eteree [ethereal] – cose più grandi di quelle create dal Creatore stesso» (John
Keats) [Il passo è tratto da una lettera di Keats, e per intero suona: «Non conosco nessun altro
che come te sia così sensibile all’inquietudine e all’angoscia [...], capace di guardare il Sole, la
Luna, le Stelle, la Terra e ciò che contiene come materiali con cui formare cose più grandi, cioè
cose incorporee. Ma eccomi qui a parlare come farebbe un Pazzo di cose più grandi di quelle
create dal Creatore stesso!!». Cfr. John Keats a Benjamin Robert Haydon, 10-11 maggio 1817,
trad. it. in J. Keats, Lettere sulla poesia, a cura di N. Fusini, Feltrinelli, Milano 1998², pp. 57-58
(che però si è modi cata sostituendo a “incorporee” il calco “eteree” per rendere ethereal)].
11 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, (1890), ora in The Works of William James, a
cura di F. H. Burkhardt, F. Bowers e I. K. Skrupskelis, Cambridge, Harvard University Press
1981, vol. 1, p. 114. – Inutilizzabile la traduzione italiana comparsa a Milano nel 1901 realizzata
da G.C. Ferrari e A. Tamburini.]
12 [W. Shakespeare, Hamlet, atto III, scena 2, v. 369, ed. it. con testo a fronte a cura di P.
Bertinetti, Amleto, Einaudi, Torino 2005, p. 401.]
13 Ho sviluppato questo problema in Esperienza e natura, nel capitolo IX su “Esperienza,
natura e arte”. Per quel che riguarda questo punto, la conclusione si trova dove si afferma che
«l’arte – quel tipo di attività che è ripieno di signi cati suscettibili di possesso e godimento
immediato – è il culmine supremo della natura [mentre] la “scienza” non è che un’ancella che
conduce gli eventi naturali a questa felice conclusione» ([Experience and Nature, Open Court,
Chicago 1925,] p. 358) [trad. it. J. Dewey, Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia,
Milano (1973) 1990, p. 257].
14 [W. H. Hudson, Far Away and Long Ago: A History of My Early Life, Dutton, New York
1918, pp. 3, 331, 231 e 232; trad. it. di A. Motti, Un mondo lontano, Adelphi, Milano 1990², pp.
4-5, 318-319, 223.]
15 [R. W. Emerson, The Nature, (1836), ora in The Collected Works of Ralph Waldo Emerson,
vol. 1, introd. e note di R.E. Spiller, a cura di A. R. Ferguson, Belknap Press of Harvard
University Press, London 1981, p. 9.]
16 [Il riferimento è a H. Adams, Mont-Saint-Michel and Chartres, (1905), ora in Id., Novels,
Mont Saint Michael, The Education, a cura di E. Samuels e J. N. Samuels, New York 1983, pp.
367-68.]
17 [W. Pater, Aesthetic Poetry, in Id., Appreciations; With an Essay on Style, Macmillan, London
1889 (ora in Id., Three Major Texts: The Renaissance, Appreciations and Imaginary Portraits, a cura
e con introd. di W. E. Buckler, New York University Press, New York & London 1986), pp. 215
e 218-19.]
18 [W. Pater, The Child in the House, in Id., Miscellaneous Studies: A Series of Essays, a cura di
C. L. Shadwell, Macmillan, London 1895 (poi anche 1924), pp. 186 e 187.]
19 [John Keats a George e Georgiana Keats, 19 marzo 1919, in Lettere sulla poesia, cit., pp.
151, 153.]
20 [J. Keats a George e Thomas Keats, 21 dicembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., p. 75.]
21 [J. Keats a Benjamin Bailey, 22 novembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., pp. 70, 71.]
22 [J. Keats, Ode on a Grecian Urn (1820), trad. it. di A. Frassineti, Ode sopra un’urna greca, in
J. Keats, Poesie, a cura di M. Rof , Einaudi, Torino 1983, p. 77.]
23 [J. Keats a Benjamin Bailey, 22 novembre 1817, in Lettere sulla poesia, cit., p. 70.]
24 [J. Keats a John Hamilton Reynolds, 25 marzo 1818, in The Complete Works of John Keats,
vol. 4, The Letters, 1814-1821 , a cura di H. Buxton Forman, Gowars & Gray, Glasgow 1900-
1901 (ultima ristampa AMS Press, New York 1970), vol. 4, p. 96.]
25 [Cfr. Eth. Nic., 1106a24-1106b24 (per il medio in rapporto a virtù e arti, da non prendere
«secondo la proporzione aritmetica») e 1131b 9-10 («ciò che è proporzionale è medio, e il
giusto è proporzionale»), ed. con testo greco a fronte, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M.
Zanatta, Rizzoli, Milano 1986, pp. 163-164 e 339.]
26 [“The Unlearner” è in realtà la gura centrale dell’ultimo racconto raccolto nel volume di
Charles Howard Hinton Scienti c Romances, 2.nd series, Sonnenschein, London 1896; il
racconto, del 1885, è intitolato però An Un nished Communication.]
27 [Dewey ha affrontato questa distinzione anche in The Study of Ethics: A Syllabus, (1894),
ora in J. Dewey, The Early Works, vol. 4, Southern Illinois University Press, Carbondale &
Edwardsville 1971, pp. 301-02.]
28 [Cfr. The Oxford English Dictionary, Clarendon Press, Oxford 1933, vol. I, p. 467.]
29 [J. S. Mill, Inaugural Address: Delivered to the University of St. Andrews, (1867), ora in
Collected Works, a cura di J.M. Robson, Univeristy of Toronto Press, Routledge & Kegan Paul,
Toronto 1984, vol. 21, p. 256.]
30 [M. Arnold, Guide English Litterature, in Id., Mixed Essays (1879), in The Works of Matthew
Arnold, vol. X, MacMillan, London 1903-1904, p. 193.]
31 [Nel testo: It is Gusto, taste.]
32 [Nel testo: work, che signi ca anche “lavoro”.]
33 [Il dipinto ad olio su tela Hendrickje in veste di Flora venne realizzato da Rembrandt nel
1654 circa, ed è conservato al Metropolitan Museum di New York.]
34 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, p. 236.]
35 [In latino nel testo.]
36 [In latino nel testo.]
37 [Nel testo: expressed ; si è preferita questa traduzione al più immediato “spremuto” per
restituire il gioco con gli etimi su cui è costruito il passo.]
38 [Nel testo: to ex-press.]
39 [S. Alexander, Art and the Material. The Adamson Lecture for 1925 , University Press,
Manchester 1925, pp. 11 e 12.]
40 Nel suo interessante volume The Theory of Poetry [Secker, London 1924, pp. 50 e 54],
Lascelles Abercrombie oscilla tra due concezioni dell’ispirazione. Una riprende ciò che a me
sembra l’interpretazione corretta. Nell’opera poetica un’ispirazione «de nisce in maniera
perfetta ed eccellente se stessa». Altre volte dice che l’ispirazione è l’opera poetica: «qualcosa di
autonomo e autosuf ciente, un tutto compiuto ed integrale». Egli dice che «ogni ispirazione è
qualcosa che non esisteva e non poteva esistere originariamente in forma di parole». Senza
dubbio ciò è giusto; neppure una funzione trigonometrica esiste solo in forma di parole. Ma se è
già autosuf ciente e autonoma, perché cerca e trova parole come medium per esprimersi?
41 [Nel testo i termini correlati sono com-pression e ex-pressed .]
42 [W. Wordsworth, Observations Pre xed to the Second Edition of “Lyrical Ballads” (1800),
trad. it. di F. Marucci in W. Wordsworth e S. T. Coleridge, Ballate liriche, Mondadori, Milano
2000, p. 276.]
43 [In francese nel testo.]
44 [Nel testo: self-movement.]
45 [J. Keats a Benjamin Robert Haydon, 8 aprile 1818, in Lettere sulla poesia, cit., p. 92.]
46 [Van Gogh a Theo, 22-29 luglio 1888, trad. it. in V. Van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura,
a cura di T. Gianotti, Tea, Milano 1994, p. 122. Per l’epistolario di Van Gogh, anche nei
riferimenti successivi, Dewey cita Further Letters of Vincent van Gogh to His Brother, 1886-1889 ,
Constable, London 1929, ove però la datazione delle lettere è diversa rispetto all’edizione critica
più recente.]
47 [W. James, The Variety of Religious Experience: A Study in Human Nature, (1902), trad. it. di
P. Paletti, Le varie forme dell’esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana, Morcelliana,
Brescia 1998, pp. 191-92.]
48 [Nel testo: cast of mind .]
49 [E. A. Poe, The Philosophy of Composition (1846), trad. it. in Id., Il corvo e La loso a della
composizione, a cura di M. Praz, Rizzoli, Milano 1997, p. 34.]
50 Speculations, p. 266 [cfr. Th. E. Hulme, Mana Aboda, in Speculations: Essays on Humanism
and Philosophy of Art, a cura di H. Read, Routledge, London & New York (1924) 1987, p. 266].
51 [Cfr. A. Tennyson, In Memoriam (1850), trad. it. di C. Dapino, Einaudi, Torino 1975.]
52 [S. Johnson, Milton, in Id., The Lives of the English Poets (1781), a cura di G. Birkbeck Hill,
Clarendon Press, Oxford 1905, vol. 1, p. 163.]
53 [Riferimento a D. Diderot, Paradoxe sur le comédien (1773-78), trad. it. e cura di R. Rossi,
Il paradosso sull’attore, Abscondita, Milano 2002.]
54 [Nel testo: expressed .]
55 [Cfr. H. Matisse in una conversazione del 1909 con Estienne: «Cosa hanno fatto i Realisti,
cosa gli Impressionisti? La copia della natura. Tutta la loro arte consiste nella verità,
nell’esattezza della rappresentazione [...]. Noi vogliamo altro: miriamo alla serenità attraverso la
sempli cazione delle idee e della plastica. L’insieme è il nostro solo ideale. I dettagli
diminuiscono la purezza delle linee, danneggiano l’intensità emotiva: perciò li respingiamo. [...]
Quanto ai dettagli il pittore non deve più preoccuparsene. C’è la fotogra a per rendere cento
volte meglio e più rapidamente la moltitudine dei particolari. L’arte plastica invece renderà
l’emozione con i mezzi più diretti e più semplici», in H. Matisse, Écrits et propos sur l’art, a cura
di D. Fourcade, Hermann, Paris 1972; trad. it. di M. Lamberti, Scritti e pensieri sull’arte,
Einaudi, Torino 1988², p. 18 (ora anche nell’ed. Abscondita, Milano 2003, pp. 28-29).]
56 [Cfr. W. Wordsworth, Lines Written a Few Miles Above Tintern Abbey (1798), trad. it. in
Ballate liriche, cit., pp. 254-64.]
57 [Van Gogh a Theo, Arles 28 giugno 1888 (con la data 22-29 luglio 1888, in Further Letters,
cit., p. 94). È il periodo in cui Van Gogh sta lavorando alla composizione del Ponte a
Trinquetaille, ora Collection Joseph Hackmey, Israele.]
58 [R. Fry, The Artist’s Vision (1919), trad. it. di E. Cannata in Id., Visione e disegno,
Minuziano, Milano 1947, pp. 85-86.]
59 [In realtà il riferimento non va a Fry, ma a Clive Bell (Art, Chatto & Windus, London – F.
A. Stokes, New York 1914: «l’elemento rappresentativo in un’opera d’arte può essere dannoso
o meno; comunque è sempre irrilevante», p. 25), che Dewey senz’altro conosceva, come mostra
anche una sua lettera a Barnes dello stesso periodo di Art as Experience (20 febbraio 1931; cfr. J.
Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., 356). Va inoltre ricordato che Fry non era d’accordo con
le posizioni più estreme di Bell (cfr. R. Fry, Retrospect, (1920): «Penso che l’osservazione di
questi casi di reazione della forma pura» – Fry si riferisce al postimpressionismo – «abbia
indotto Clive Bell ad avanzare, nel suo libro Art, l’ipotesi che, per quanto le emozioni della vita
possano in apparenza avere una parte importante nell’opera d’arte, in realtà l’artista non ha
alcuna relazione con esse, bensì soltanto con l’espressione di un genere speciale e unico
d’emozione: l’emozione estetica. Un’opera d’arte ha la caratteristica proprietà di tradurre questa
emozione e compie quest’azione in virtù della sua forma signi cativa. Il Bell dichiarava pure che
la rappresentazione della natura ha una parte del tutto irrilevante in questo procedimento e che
un quadro può essere del tutto antirappresentativo. Ritenni sempre che quest’ultima idea fosse
troppo spinta, dal momento che anche la più semplice suggestione della terza dimensione, in un
quadro, è necessariamente dovuta a qualche elemento rappresentativo» (R. Fry, Retrospettiva, in
Visione e disegno, cit., p. 363. Cfr. anche L’arte e la vita, (1917), ivi, pp. 16-38, Un saggio
d’estetica, (1909), ivi, pp. 29-45, e I postimpressionisti francesi, (1912), ivi pp. 296-303).]
60 [R. Fry, The Artist’s Vision, trad. it. cit., pp. 87, 88.]
61 [Nel testo: that there is no re-presentation of.]
62 [Sia nelle prime edizioni che nelle opere complete di Dewey questa parola non è
interamente corsivata: presumibilmente per un refuso, si legge «self-abnegation».]
63 [W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, p. 1085. – La tavola dipinta a olio
L’Assunta è stata realizzata tra il 1516 e il 1518 da Tiziano. Dal 1919 è stata ricollocata nella
Chiesa veneziana di Santa Maria Gloriosa dei Frari, dopo che nel 1818 era stata spostata al
museo dell’Accademia, sempre a Venezia.]
64 [Nel testo: Drawing is drawing out. – Dewey sfrutta la parentela etimologica tra drawing
(che indica qui il disegnare ovvero il disegno) e drawing out (che indica l’atto del tirar fuori). –
Analogamente nel periodo successivo Dewey sottolineerà «drawn into» (reso con: “inserito
all’interno”), mentre nel capoverso successivo parla di linee che sono «drawn» (“tracciate”, oltre
che semplicemente disegnate).]
65 [Nel testo: drawn into.]
66 Barnes, The Art in Painting [cit.], pp. 86 e 126, e The Art of Matisse, [scritto insieme a V.
De Mazia, Scribner, New York & London 1933, poi Barnes Foundation Press, Marion 1959]
capitolo sul disegno, in particolare pp. 81-82.
67 The Art in Painting, [cit.,] pp. 53 e 52. L’origine di questa idea risale a Buermeyer [cfr. L.
L. Buermeyer, The Aesthetic Experience, Barnes Foundation Press, Marion 1924 (1929 2)].
68 Mi è impossibile non pensare che la quantità di ri essione spesa per trovare spiegazioni
ingegnose dell’idea aristotelica della catarsi sia dovuta più al fascino dell’argomento che a una
qualche sottigliezza da parte di Aristotele. Risultano super ui i sessanta e più signi cati che le
sono stati attribuiti se si considera che lui stesso ha esplicitamente affermato che le persone
sono inclini a emozioni eccessive, e che come la musica religiosa cura chi è in preda al delirio
mistico «alla pari di persone curate con una droga», così chi è eccessivamente timido e
compassionevole, e chiunque patisca emozioni troppo intense, è puri cato da melodie, e il
sollievo è piacevole. [Cfr. Polit., VIII, 7, 1342a 1-15. Propriamente, secondo la trad. it. di C. A.
Viano (Politica, Rizzoli, Milano 2002), il passo 1342a 10-11, recita: «quando alcuni […] odono
canti sacri che trascinano l’anima, allora si calmano come se fossero nelle condizioni di chi è
risanato o puri cato». – Dewey sembra ricavare la citazione dalla traduzione di B. Jowett (The
Politics of Aristotle, Clarendon Press, Oxford 1885) riportata da Edgar Frederick Carritt nel
volume a sua cura Philosophies of Beauty from Socrates to Robert Bridges, Oxford University
Press, Oxford 1931, fonte di molte citazioni deweyane di classici in Art as Experience.]
69 [S. Colvin, Fine Arts, in The Encyclopædia Britannica, Eleventh Edition, 1910-1911, New
York, vol. 10, p. 360. Samuel Johnson è citato nella stessa pagina, ma senza riferimenti
bibliogra ci.]
70 [In francese nel testo.]
71 [In tedesco nel testo.]
72 [Vernon Lee (pseud. di Violet Piaget) e C. Anstruther-Thompson, Beauty and Ugliness, in
“Contemporary Review”, 72, 1897; poi pubblicato in Vernon Lee e C. An-
struther-Thompson, Beauty and Ugliness and Other Studies in Psychological Aesthetics, John
Lane, London & New York 1912, p. 9. – Interessante sull’opera di Vernon Lee il passo di una
lettera di Dewey a Barnes (20 febbraio 1931): «grazie al modo in cui Vernon Lee nel suo piccolo
saggio Beauty and Ugliness formula concretamente il principio di Clive Bell della “forma
signi cante” in termini di immaginario motorio coinvolto nella percezione di “ gure”, linee e
nella loro combinazione, senza menzionare le parole o essere al corrente di Clive Bell – essa
almeno lo riduce da un principio mistico a termini psicologici» (J. Dewey, The Later Works, vol.
10, cit., p. 357).]
73 [Vernon Lee, The Beautiful: An Introduction to Psychological Aesthetics, University Press,
Cambridge 1913, pp. 27-28, 34, 80-81.]
74 [Vernon Lee e C. Anstruther-Thompson, Beauty and Ugliness, cit., p. 7.]
75 [Nel testo: in-habit, in connessione con il precedente habits (“abitudini”).]
76 [Il riferimento è a L. N. Tolstoj, Che cosa e l’arte? (1897), trad. it. a cura di T. Perlini,
Gallone, Milano 1997. – Dewey riprende qui, e cita anche più avanti, la trad. ingl. di A. Maude
(What Is Art?, Oxford University Press, London 1930, pp. 227-28). I passi cui si riferisce sono i
seguenti: «La caratteristica che distingue la vera arte da quella contraffatta è una sola e
indubitabile: il contagio dell’arte. Se un uomo senza alcuno sforzo da parte sua e senza il minimo
cambiamento della sua posizione, dopo aver letto, sentito o visto l’opera di un altro uomo, prova
uno stato d’animo che lo unisce a quell’uomo e agli altri, che come lui hanno accolto
quell’opera, allora l’oggetto che suscita tale stato è un oggetto d’arte. [...] La qualità principale
del sentimento estetico è che colui che lo prova si fonde con l’artista al punto che gli sembra che
l’oggetto percepito non sia fatto da un altro, ma da lui stesso, e che tutto ciò che viene espresso
mediante questo oggetto sia proprio ciò che egli stesso già da tempo voleva esprimere. [...] Se
proviamo questo sentimento, se veniamo contagiati dallo stato d’animo nel quale si trova
l’autore e se ci sentiamo fusi con le altre persone, l’oggetto che provoca questo stato appartiene
all’arte; se non c’è questo contagio, se non c’è questo fondersi con l’autore e con gli altri che
vengono in contatto con l’opera, allora non c’è nemmeno l’arte. Di più: non solo la capacità di
stabilire questo contatto è il sicuro segno dell’arte, ma il grado di questa capacità è l’unico
criterio del valore artistico. Più forte è il contagio e migliore è l’arte, indipendentemente dal
contenuto, cioè dal valore dei sentimenti che essa comunica» (cfr. trad. it. cit., pp. 117 e 118).]
77 [Referenza non reperibile. La fonte potrebbe essere la viva voce del pittore poiché, come
informano i curatori dell’edizione critica di Art as Experience (The Later Works, vol. 10, cit., p.
356), nel dicembre del 1930 Dewey incontrò Matisse, allora impegnato negli studi per La Danse
(1932-33), un pannello commissionato da Albert C. Barnes per decorare il salone della Barnes
Foundation – da non confondere con il celebre capolavoro omonimo del 1909-1910 conservato
all’Hermitage di San Pietroburgo. Matisse parla a lungo di questo pannello, che peraltro dovette
rifare essendo errate le prime dimensioni, e del suo rapporto con Barnes in Écrits et propos sur
l’art (cfr. ora l’ed. it. cit. del 2003, pp. 107-120): questa particolare committenza è stata infatti
occasione di una ri essione sui rapporti tra i valori plastici e i valori architettonici. Dal canto
suo, Dewey parla dei suoi colloqui con Matisse in tre lettere a Barnes, il 13 e 26 dicembre 1930
e il 2 gennaio 1931.]
78 [In latino nel testo.]
79 [A. C. Bradley, Oxford Lectures on Poetry, Macmillan, London (1909) 1965, p. 4.]
80 [Cfr. A. C. Bradley, Poetry for Poetry’s Sake, An inaugural lecture delivered on June 5, 1901;
poi in Id., Oxford Lectures on Poetry, cit.]
81 [The Rhyme of the Ancient Mariner, cfr. S. T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, a
cura di G. Bompiani, Rizzoli, Milano 1996.]
82 [In questo periodo si ritrovano quasi tutti i termini tecnici impiegati da Dewey per indicare
i diversi aspetti che prendono forma in un’opera d’arte, e che si sono dovuti tenere distinti nella
traduzione anche a costo di operare forzature: subject-matter (“contenuto” o, in alcuni casi,
“contenuto trattato”), substance (“sostanza”), matter (“materia”), topic (“argomento”), theme
(“tema”), a cui sono da aggiungere subject (“soggetto”) e material (“materiale”).]
83 [In francese nel testo.]
84 [Ovvio il riferimento all’Op. 60 che Beethoven compose nel 1806.]
85 [Il riferimento non è univoco, poiché più di un’opera di Tiziano è nota con questo nome.
L’ed. critica di riferimento (J. Dewey, The Later Works, vol. 10, cit., p. 358) rinvia alla
Deposizione del 1525 conservata al Louvre, basandosi sul fatto che questo museo venne
sicuramente visitato da Dewey; i tratti evidenziati nella rapida descrizione dell’opera schizzata
più avanti da Dewey in questo stesso volume, a p. 192, in cui si parla di «trasporto di un peso
abbandonato», confermano l’ipotesi.]
86 [Probabile riferimento a La sposa ebrea (Isacco e Rebecca), dipinto da Rembrandt
presumibilmente nel 1666 e conservato ad Amsterdam al Rijksmuseum.]
87 [A. C. Bradley, Oxford Lectures on Poetry, cit., p. 10.]
88 [L’aneddoto gura sia in un testo che Barnes inviò a Dewey il 19 novembre 1931, sia nel
saggio di Barnes e De Mazia, The Art of Henri Matisse, cit., p. 179.]
89 [Vista la sinonimia sottolineata qui da Dewey tra shape e gure (che in questo contesto si è
reso con “con gurazione”), anche a costo di qualche forzatura nel seguito del capitolo si
tradurrà sempre shape con “ gura”, riservando “forma” per form.]
90 [Cfr. H. Spencer, The Principles of Psychology, (1855; ed. rivista in 2 voll.: 1870-72), ora in
The Works of Herbert Spencer, Otto Zeller, Osnabruck 1966, vol. V, §§ 533-540, pp. 693-714.]
91 The Art of Painting, [cit.], pp. 85 e 87. Cfr. il cap I del libro II. La forma nel senso de nito
è, come si mostra qui, «il criterio del valore» [cfr. ivi, p. 93].
92 Cfr. il capitolo sui «valori traslati» nel volume The Art of Henri Matisse; la citazione è tratta
da p. 31. In questo capitolo Barnes mostra come buona parte dell’effetto emotivo immediato dei
quadri di Matisse venga inconsciamente traslato da valori emotivi dapprima connessi con
tappezzerie, stampe, rosette (compresi i motivi oreali), piastrelle, strisce e bande, come quelle
di bandiere e molti altri oggetti.
93 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, pp. 238-39.]
94 Per quel che riguarda questo argomento, che concerne non solo questi problemi particolari
ma tutte le questioni connesse all’intelligenza che caratterizza ogni artista, rinvio al saggio sul
pensiero qualitativo compreso nel volume Philosophy and Civilization [ora in J. Dewey, The Later
Works, vol. 5, Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1984, pp. 243-62].
95 [É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, Michel, Paris 1926, p. 37. Il passo in inglese è non
del tutto coincidente con la dichiarazione di Cézanne citata da Émile Bernard nell’originale
Souvenirs sur Paul Cézanne et lettres inédites (“Mercure de France”, 1 e 16 ottobre 1907):
«disegno e colore non sono distinti; mano a mano che si dipinge, si disegna, più il colore si
armonizza, più il disegno si precisa. Quando il colore è al più elevato grado di ricchezza, la
forma è alla sua pienezza. I contrasti e i rapporti di tono, ecco il segreto del disegno e del
modellato»; trad. it. di N. Zandegiacomi in M. Doran (a cura di), Cézanne. Documenti e
interpretazioni, Donzelli, Roma 1998, pp. 53-85 (la stessa citazione torna a p. 40 e a p. 67).]
96 [É. Bernard, Souvenirs sur Paul Cézanne, cit., p. 144.]
97 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 1, pp. 195-96.]
98 [W. H. Hudson, Un mondo lontano, ed. it. cit., pp. 18, 219.]
99 [In francese nel testo, con allusione alla celebre tela di Matisse citata in seguito da Dewey
in questa stessa opera.]
100 Geoffrey Scott, nel suo saggio The Architecture of Humanism [A Study in the History of
Taste, Constable, London 1924; trad. it. di E. Croce, L’architettura dell’umanesimo, Testo &
Immagine, Torino 1999], ha esposto e spiegato bene questo errore.
101 [La tela Infanta Margarita Teresa in veste rosa venne dipinta da Diego Velázquez tra il 1653
e il 1654 ed è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.]
102 [In francese nel testo.]
103 [Referenza non reperibile.]
104 [W. Wordsworth, Lucy Gray, Or Solitude, (1799), in Id., The Complete Poetical Works, vol.
I., a cura di E. De Selincourt, Clarendon Press, Oxford 1952, vv. 57-64, p. 236.]
105 [W. Wordsworth, The Prelude, libro I, vv. 230-231; trad. it. e cura di M. Bacigalupo, Il
Preludio, Mondadori, Milano 1990, pp. 44-45. – Il testo riportato a fronte in questa edizione
italiana fa riferimento all’edizione del 1805 stabilita da J. C. Maxwell, e talvolta si discosta
lievemente da quello riportato da Dewey.]
106 [J. Keats, Ode to a Nightingale, (1819), trad. it. di M. Rof in J. Keats, Poesie, a cura di V.
Gentili, Einaudi, Torino, 1983.]
107 [Cfr. M. Eastman, Enjoyment of Poetry, Elkin Mathews, London 1913 (edizione rivista:
Scribner, New York 1921), p. 3. – Dewey recensì l’opera di Eastman (cfr. J. Dewey, The Middle
Works, vol. 7, Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1979, p. 179).]
108 Da Notes d’un peintre, pubblicato nel 1908 [trad. it. di M. Lamberti, Note di un pittore, in
H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, ed. cit., p. 9]. In un altro contesto ci si potrebbe soffermare
sulle implicazioni della frase relativa alla necessità di «mettere ordine nelle idee».
109 [F. Bacon, Of Beauty, trad. it. di A. M. Ancarani in Saggi, Sellerio, Palermo 1996, p. 167.]
110 [G. Santayana, The Sense of Beauty: Being the Outlines of Aesthetic Theory, (1896), trad. it.
a cura di G. Patella, Il senso della Bellezza, Aesthetica, Palermo 1997, p. 39.]
111 [Cfr. ivi, trad. it. cit., pp. 163-64.]
112 [Nel testo: Feti.]
113 [In francese nel testo.]
114 [Cfr. J. Keats, On First Looking into Chapman’s Homer, (1816), trad. it. di M. Rof , Alla
prima lettura dell’Omero di Chapman, in J. Keats, Poesie, cit., pp. 8-9.]
115 [Referenza non reperibile.]
116 Cfr. infra, cap. 13.
117 [In latino nel testo.]
118 [W. Wordsworth, Lines Composed a Few Miles Above Tintern Abbey, trad. it. in Ballate
liriche, cit., p. 257.]
119 [Cfr. G. W. F. Hegel, Estetica, ed. it a cura di N. Merker, nuova ed., Einaudi, Torino 1997,
pp. 88 ss.]
120 [Nel testo: poetic diction.]
121 [W. Wordsworth, An Evening Walk, (1787), in The Complete Poetical Works, cit., vv. 193-
194, p. 22.]
122 Il fatto che lo chiamiamo “verticillo [whorl]” indica che avvertiamo inconsapevolmente la
tensione di energie coinvolte.
123 [Cfr. Ch. Darwin, The Expression of the Emotions in Man and Animals, (1872), trad. it.
L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, a cura di P. Ekman, Bollati Boringhieri,
Torino 1999.]
124 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, trad. it. cit., pp. 289-290, 291.]
125 [G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, (1900), ediz. critica a cura di W. G.
Holzlerger e H. J. Saatkamp Jr., in The Works of George Santayana, The Mit Press, Cambridge &
London 1990, vol. III, pp. 7- 8.]
126 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, Boni & Liveright, New York 1927, pp. 144-45.]
127 [In latino nel testo.]
128 [B. Johnson, To the Memory of my Beloved, Master William Shakespeare, in The Works of
Ben Jonson, Scolar Press, London 1976 (riproduzione dell’ed. orig. R. Bishop, London 1640),
vol. 8, p. 319.]
129 [W. Wordsworth, The Prelude, libro XI, vv. 376-383; trad. it. cit., p. 461.]
130 [B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, Macmillan, London 1915 (ora in The Collected
Works of Bernard Bosanquet, Thoemmes, Bristol 1999, vol. 17), pp. 85-87.]
131 [Jacob Epstein (1880-1959), scultore espressionista di ritratti e gure monumentali. Nato
a New York, studia a Parigi alla École del Beaux Arts ed è allievo di Auguste Rodin. Trasferitosi
in Inghilterra nel 1905, dal 1910 assume la nazionalità inglese. Le sue gure voluminose, quasi
sempre in bronzo, tradiscono l’in uenza della scultura arcaica ed egizia.]
132 [Nella prima edizione dell’opera, per evidente refuso, si legge interpretation in luogo di
interpenetration.]
133 In The Art in Painting [cit.], French Primitives and Their Forms, e The Art of Henry-Matisse
[cit.] di Barnes si trovano molte analisi dettagliate di quadri.
134 [Per il riferimento cfr. supra, nota 85.]
135 [In francese nel testo.]
136 [Nel testo: “he-man” style.]
137 [Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), ed. a cura
di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, p. 7.]
138 [J. Galsworthy, Vague Thoughts on Art, in The Works of John Galsworthy, a cura di W.
Heinemann, Manatan, London 1923-1936, vol. 17, p. 260.]
139 [Cfr. Sir Joshua Reynolds, Discourses on Art, trad. it. di P. Prestini, Discorsi sull’arte, note
di B. Lotti, introduzione di A. Gatti, Nike, Segrate 1997, pp. 42-43 e 47.]
140 [Cfr. Poet., IV, 24-27, e V, 33-34, ed. con testo greco a fronte, Aristotele, Poetica, a cura di
D. Lanza, Rizzoli, Milano 1994, pp. 127 e 131.]
141 [Cfr. D. Diderot, Entretiens avec Dorval sur le ls naturel (1757), ora in Id., Œuvres,
Gallimard, Paris 1951, p. 1431 ss.]
142 [Cfr. A. E. Housman, The Name and Nature of Poetry, Cambridge University Press,
Cambridge 1933, p. 13.]
143 [S. T. Coleridge, Biographia Literaria, trad. it. cit., p. 236.]
144 [Peuple: in francese nel testo.]
145 [L. N. Tolstoj, Che cos’è l’arte?, trad. it. cit., p. 72.]
146 [Schiller a Goethe, 18 marzo 1796, in Schillers Werke, vol. 38, Briefwechsel: Schillers Briefe,
dall’1/7/1795 al 31/10/1796, H. Bohlau Nachfolger, Weimar 1969.]
147 Colgo l’occasione per citare ancora il saggio sul Pensiero qualitativo a cui mi sono riferito
in precedenza [cfr. supra, nota 94].
148 [A. Tennyson, Ulysses, (1833), ora in The Poems of Alfred Tennyson, a cura di C. Ricks,
Longman, Harlow 1987², p. 217.]
149 [E. A. Poe, Marginalia, (1844), trad. it. di C Mennella, Marginalia, introd. di O. Fatica,
Theoria, Roma 1994, p. 47.]
150 [Cfr. S. T. Coleridge, Anima Poetæ, in Select Poetry and Prose, a cura di S. Potter,
Nonesuch Press, London 1933, p. 156.]
151 [Citazione criptica da W. Shakespeare, Macbeth, atto V, scena 5, vv. 24-27; trad. it. con
testo a fronte di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 1989, pp. 153-55.]
152 [Nel testo, anche nell’edizione critica di riferimento (p. 205), si legge psychical presence
(“presenza psichica”). La correzione proposta ipotizza un refuso per physical presence anche alla
luce della frase con cui si chiude questo stesso capoverso.]
153 [J. Marin, Here It Is, in Letters of John Marin, a cura di H. J. Seligmann, stampa
privata, New York 1931 (ora Greenwood Press, Westport 1970), pp. 69-70.]
154 [In latino nel testo.]
155 [Testo canonico sono i Principes de la Nature et de la Grâce, fondés en raison del 1714 (per
cui cfr. G. W. Leibniz, Principi della loso a, o Monadologia; Principi razionali della natura e della
grazia, ed. it. a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001.]
156 La spiegazione del fatto che le cose in se stesse brutte possono contribuire all’effetto
estetico di un intero, spesso viene senza dubbio dal fatto che esse vengono usate in modo da
contribuire a individualizzare parti all’interno di un intero.
157 [Staccato: in italiano nel testo.]
158 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, cit., p. 144. – I due versi di Shakespeare sono tratti
rispettivamente da The Second Part of King Henry the Fourth, atto III, scena 5, v. 20 (ed. it. a cura
di G. Melchiori, Enrico IV, in Il Teatro completo di William Shakespeare, Mondadori, Milano
1996, vol. VII, pp. 652-53: «Facendo per lui culle del moto imperioso delle onde») e Love’s
Labour’s Lost, atto V, scena 1, v. 904 (ed. it. a cura di G. Melchiori, Pene d’amor perdute, in Il
teatro completo di William Shakespeare, cit., vol. I, p. 829: «Or che i ghiaccioli si staccano dal
tetto»).]
159 [L. Stein, The A-B-C of Aesthetics, cit., p. 144.]
160 [W. Blake, Descriptive Catalogue of Pictures, Poetical and Historical Inventions, A Descriptive
Catalogue, (1809), in The Writings of William Blake, a cura di G. Keynes, Nonesuch Press,
London 1925, vol. 3, pp. 103 e 119.]
161 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, pp. 776-78.]
162 [Si tratta di un ciclo di cinque tele dipinte da Cézanne a partire dal 1890: una a cinque
personaggi, una a quattro, l’altra a tre, e due con una sola coppia di giocatori. La prima è
conservata alla Barnes Foundation.]
163 [Nel testo: Space is room, Raum, and room is roominess. – Il passo è costruito sul rinvio tra
space e il sassone room (da cui roominess, “spaziosità”), sottolineato anche dall’impiego di Dewey
del termine tedesco Raum.]
164 [Il ritratto di Giovanni Arnol ni e di sua moglie Giovanna Cenami fu dipinto da Jan van
Eyck nel 1434, ed è conservato alla National Gallery di Londra.]
165 [Il romanzo di Mann venne pubblicato nel 1924 (Der Zauberberg, C. Fischer, Berlin 1924)
e tradotto in inglese nel 1927 da H. U. Lowe-Porter (The Magic Mountain, Martin Secker,
London 1927).]
166 [Il Bush Terminal Tower Building venne progettato nel 1916-18 da Harvey Wiley Corbett
e Frank J. Melmle.]
167 [S. T. Coleridge, Dejection: An Ode (1802), in Select Poetry and Prose, cit., stanza 4, vv. 47-
49, p. 107 («...noi non riceviamo che ciò che diamo, | ed è solo nella nostra vita che la natura
vive; | nostri sono i suoi abiti da sposa; nostro il suo sudario»).]
168 [Cfr. A. E. Housman, The Name and Nature of Poetry, cit., pp. 45 e 46.]
169 [Cfr. W. James, The Principles of Psychology, ed. cit., vol. 2, pp. 1069-70.]
170 [Cfr. Lewis Carroll, Alice in Wonderland (1865), ed. it. con testo a fronte, Alice nel paese
delle maraviglie, a cura di A. Busi, Feltrinelli, Milano 2002, p. 30 ss.]
171 [S. Colvin, Fine Arts, in The Encyclopædia Britannica, cit., vol. X, p. 362.]
172 [In latino nel testo.]
173 Da una lettera privata di Barnes all’autore.
174 [Polit., 1340a, ed. it. cit., pp. 641-43. Per il passaggio cfr. anche E.F. Carritt, Philosophies
of Beauty, cit., p. 34.]
175 [In latino nel testo.]
176 [H. Parkhurst, Beauty: An Interpreattion of Art and the Imaginative Life, Brace, New York
1930, pp. 194-95.]
177 [In latino nel testo.]
178 [In francese nel testo, forse per richiamo a H. Bergson, Le rire, (1900), trad. it., Il riso.
Saggio sul signi cato del comico, a cura di B. Placido, Laterza, Roma-Bari 1994.]
179 [In latino nel testo.]
180 Santayana, nella sua opera Reason in Art, credo sia stato il primo a spiegare l’importanza
di questa distinzione [cfr. G. Santayana, Reason in Art (1905), in Id., The Life of Reason; Or: the
Phases of Human Progress, cit., vol. IV, p. 65.]
181 [Cfr. ad esempio Eth. Nic., 1140a, ed. cit., pp. 593-594, ma anche Phys., 194a-b, ed. con
testo greco a fronte, Aristotele, Fisica, a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995, p. 69.]
182 [Per i passi citati cfr. W. Pater, The School of Giorgione, in Id., The Renaissance: Studies in
Art and Poetry, MacMillan, London 1910, pp. 135-139; trad. it. a cura di M. Praz, Il
Rinascimento, Abscondita, Milano 2000, pp. 136-39.]
183 [Con Elgin Marbles si indicano le opere che Thomas Elgin portò da Atene in Inghilterra
tra il 1803 e il 1812 e che vennero poi cedute al British Museum. Tra queste spicca il fregio del
Partenone.]
184 [Edwin Austin Abbey (1852-1911) dipinse spesso lavori con soggetti tratti da eventi
pubblici.]
185 [Nel testo: the plain is the ex-plained .]
186 [Cfr. H. Ellis, Studies in the Psychology of Sex, vol. 4, Sexual Seletion in Man (1905), trad.
it. di A. M. Amari, Psicologia del sesso, vol. 4, La selezione sessuale umana, Newton Compton,
Roma 1970.]
187 [A. Schopenhauer, Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di V.
Palanga riveduta da A. Vigliani, Mondadori, Milano 1999, p. 1328.]
188 [Cfr. Molière, Le bourgeois gentilhomme, trad. it. Il borghese gentiluomo, in Id., Le
Commedie, a cura di L. Lunari, Rizzoli, Milano 2006, p. 430. – Il personaggio menzionato è il
ricco mercante Jourdain che, ambendo a un titolo nobiliare, vuole imparare le belle maniere e
perciò prende lezioni di musica, di danza, di scherma e di loso a. Egli è innamorato della
marchesa Dorimena e, nella scena a cui accenna Dewey, si rivolge al maestro di loso a per
scriverle un biglietto d’amore. Alla domanda del losofo, se volesse scrivere della prosa o dei
versi, e avute delucidazioni sulla differenza, Monsieur Jourdain si avvede dunque di non essere
del tutto ignorante avendo in n dei conti parlato “in prosa” per tutta la vita.]
189 [W. Wordsworth, It is not to Be Thout of the Flood , (1803), in Poetical Works,
Bartleby.com, New York 1999, vv. 11-13 («...parlano la lingua | che parlava Shakespeare; hanno
la fede e la morale | che aveva Milton»).]
190 [L. Abercrombie, The Theory of Poetry, cit.]
191 [Si tenga presente, in tutto il capoverso, che il termine character (per uniformità reso qui
sempre con “carattere”) designa in inglese anche il soggetto dell’azione letteraria talvolta
mantenendo accezione morale; il suo spettro semantico varia quindi da “personaggio” a “tipo”,
quasi come il latino persona.]
192 [Cfr. Resp., lib. IV, 439b ss., ed. cit., p. 225 ss.]
193 [Nel testo: “spirited”, reso qui con il tradizionale termine platonico.]
194 [In inglese la costruzione è “to take pleasure in something”, laddove in italiano si direbbe
“provar piacere per qualcosa”; visto però il rilievo effettuato da Dewey si è preferito ricalcare,
pur forzando, la costruzione inglese anche in italiano.]
195 [I. A. Richards, Principles of Literary Criticism (1925), trad. it. (leggermente modi cata), I
fondamenti della critica letteraria, a cura di E. Chinol, Einaudi, Torino 1972, pp. 16-17.]
196 L’effetto sul pensiero tedesco dell’uso delle maiuscole non ha ricevuto adeguata
attenzione.
197 [In latino nel testo.]
198 [Cfr. J. Keats, The Eve of St. Agnes (1819), in The Poems, a cura di M. Allott, Longman,
London 1995², pp. 450-80.]
199 Il lettore noterà che qui esprimo con termini diversi quanto si è scoperto essere intrinseco
all’“atto espressivo”.
200 Si veda ciò che si è detto sulla differenza tra mezzi esterni e medium.
201 [J. Keats a Richard Woodhouse, 27 ottobre 1818, in Lettere sulla poesia, cit., pp. 126-27.
L’aggiunta interpolata nel testo è di Dewey]
202 [“Disinteresse” e “indifferenza” traducono qui, rispettivamente, disinterestedness e
uninterestedness.]
203 [Cfr. D. Diderot, Il paradosso sull’attore, ed. it. cit.]
204 La divisione tra arte bella e arte utile ha molti sostenitori. L’argomentazione psicologica a
cui si riferisce il testo è quella esposta da Max Eastman nel suo Literary Mind [Scribner, New
York 1936], pp. 205-06. Quanto alla natura dell’esperienza estetica, sono felice di trovarmi
pienamente d’accordo con quanto dice Eastman.
205 [Nel testo: remind , verbo che contiene mind (“mente”).]
206 [Nel testo: the mother minds her baby, ove il verbo mind signi ca “occuparsi di”; anche
poco dopo “por mente” traduce questa accezione di mind .]
207 [Nel testo: mind .]
208 [Per i riferimenti a Coleridge cfr. Biographia Literaria, trad. it. cit., pp. 225, 242-243, 59-
76.]
209 Può darsi che Constable stia qui usando il termine “natura” in un senso in qualche modo
limitato, in corrispondenza al proprio interesse di pittore di paesaggi. Ma il contrasto tra
l’esperienza di prima mano e quella imitativa di seconda mano resta anche se si estende il
termine “natura” no a includervi tutte le fasi, gli aspetti e le strutture dell’esistenza. [Dewey
trae la citazione di Constable da C. R. Leslie, Memoirs of the Life of John Constable, Longman
ecc., London 1845, p. 195; per la trad. it. ci siamo però riferiti al testo originale: J. Constable,
English Lanscape Scenary: A Series of Forty Mezzotint Engravings on Stell, by D. Lucas from Pictures
Peinted by John Constable (London 1830), trad. it. a cura di R. Hoozee in L’opera completa di
Constable, Rizzoli, Milano 1979, p. 86.]
210 «Mente indica un intero sistema di signi cati in quanto incarnati nelle operazioni della
vita organica […]. La mente è una luminosità costante; la coscienza è intermittente, una serie di
lampi di differente intensità» – Experience and Nature, [cit.] p. 303 [trad. it. (leggermente
modi cata), Esperienza e natura, cit., pp. 221-22].
211 [In francese nel testo.]
212 [Nel testo: light that never was on land or sea; citazione implicita da Wordsworth, Elegiac
Stanzas, Suggested by a Picture of Peele Castle, in a Storm, Painted by Sir George Baumont, (1805),
stanza 4 (cfr. The Complete Poetical Works, cit.).]
213 [L’olio su tela La Joie de Vivre venne realizzato da Matisse nel 1905-06 ed è conservato alla
Barnes Foundation.]
214 [In latino nel testo.]
215 [Fonte anonima.]
216 [E. Spenser, Faerie Queene, lib. II, canto 12, stanza 32, (ora Longman, London 2006).]
217 [Dewey riprende questa citazione da B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, cit., pp.
115-116. Essa è tratta dal saggio di Goethe Von deutscher Baukunst del 1772. La traduzione è
stata ricostruita tenendo anche conto del testo tedesco, mentre troppo diversa è parsa la pagina
di Goethe nella più recente traduzione italiana (cfr. J. W. Goethe, Scritti sull’arte e sulla
letteratura, a cura di S. Zecchi, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 37).]
218 [R. Browning, The Last Ride Together (1855), strofa 8, vv. 80-81, trad. it. con testo
originale a fronte a cura di A. Righetti, in Id., Poesie, Mursia, Milano 2001, p. 185.]
219 La più esplicita esposizione loso ca di ciò che comporta la teoria del gioco è quella di
Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Kant aveva limitato la libertà
all’azione morale controllata dalla concezione razionale (sovra-empirica) del Dovere. Schiller ha
avanzato l’idea secondo cui gioco e arte occupano un posto di passaggio intermedio tra i regni
dei fenomeni necessari e della libertà trascendente, educando l’uomo a riconoscere e ad
assumersi le responsabilità di quest’ultima. Le sue opinioni rappresentano un coraggioso
tentativo da parte di un artista di sottrarsi al rigido dualismo della loso a kantiana pur
restando all’interno del quadro da essa delineato. [Per l’opera di Schiller cfr. la trad. it. in Id.,
L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2005, pp. 23-106.]
220 [W. Hazlitt, Sir Walter Scott, in Id., The Spirit of the Age: Or Contemporary Portraits,
(1825), ora in The Select Works of William Hazlitt, vol. 7, Pickering & Chatto, London 1998, pp.
62 e 61.]
221 [In francese nel testo.]
222 [W. Hazlitt, Sir Walter Scott, ed. cit., pp. 180 e 181.]
223 [W. Pater, Appreciations, cit., pp. 114, 118.]
224 [La traduzione inglese da cui cita Dewey (cfr. E. F. Carritt, Philosophies of Beauty, cit., pp.
32-33), che spesso non trova pieno riscontro nel testo, ricorre qui alla locuzione kind of thing,
su cui in seguito Dewey costruisce la propria argomentazione. Non c’è corrispondenza con la
trad. it. di riferimento qui impiegata. Per questo motivo, come anche nella citazione successiva,
si è tradotta tra <...> la locuzione inglese, adattando di conseguenza i passi. Si è inoltre reso,
come spesso anche sopra, kind con “tipo” onde evitare sovrapposizioni con la terminologia
tecnica platonico-aristotelica relativa a concetti come “genere” e “specie”. – Allo stesso modo,
nella seconda citazione si è messo in rilievo il termine “carattere”, al posto di “qualità” che si
incontra nella trad. it. di riferimento.]
225 [Poet., 51a-51b, ed. it. cit., p. 147.]
226 [Poet., 51b, ivi.]
227 [J. Reynolds, Discourses on Art, trad. it. cit., pp. 38 e 33.]
228 Non è inutile notare che il buon vescovo Berkeley, quando vuole condannare qualcosa di
eccentrico e fantastico in forma di opinione e di azione, o anche in arte, ne parla come di una
cosa “gotica”.
229 [In latino nel testo.]
230 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 alle Ballate liriche, in Id., Sul sublime e sulla poesia.
Saggi di estetica e di poetica, trad. it. di M. Bacigalupo e F. Nasi, Alinea, Firenze 1992, p. 138.]
231 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry (1821), ed. it. con testo a fronte, Difesa della poesia,
trad. it. di A. Mazzola Rusconi, Milano 1999, p. 131.]
232 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 , trad. it. cit., p. 137.]
233 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 87.]
234 [Anche in questo caso la traduzione da cui cita Dewey (cfr. Carritt, Philosophies of Beauty,
cit., p. 18) non trova pieno riscontro nel testo platonico. Sulla base dell’ed. it. cit. di Resp. 401c-
402a (pp. 159-61), si sono aggiunte tra <...> le interpolazioni signi cative riscontrate nel testo
inglese.]
235 [Il passo citato da Dewey (per cui cfr. The Dialogues of Plato, Macmillan, New York 1892,
vol. 1, p. 335) riproduce in qualche modo Simp., 212a, ed. con testo greco a fronte in Platone,
Tutte le opere, cit., vol. II, p. 403. Data la notevole difformità tra i testi, si è qui restituita la
versione utilizzata da Dewey.]
236 [G. Murray, Five Stages of Greek Religion, Columbia University Press, New York 1912, pp.
103-54 (cap. 4: The Failure of Nerve).]
237 [Cfr. Plotino, Enneadi, I, 6, 2; trad. it. di R. Radice, a cura di G. Reale, Mondadori, Milano
2002, p. 183 s.]
238 [Th. Carlyle, Sartor Resartus, a cura di A. MacMechan, Ginn & Co., Boston 1896, pp. 199,
203.]
239 [B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetics, cit., pp. 63, 55.]
240 [G. Santayana, The Realm of Essence, Scribner, New York 1927, pp. 153-54, 8.]
241 [G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, ed. cit., p. 169.]
242 [Nel testo: dream-metaphysics.]
243 [In latino nel testo.]
244 [Luogo classico è il primo capitolo di B. Croce, Estetica, ed. cit., pp. 3-16.]
245 [In questo contesto il termine mind potrebbe di per sé essere reso con “spirito”. Tuttavia
nella citazione immediatamente successiva si incontra anche il termine spirit. Lecito quindi
mantenere la traduzione di mind n qui utilizzata. Si tenga poi presente che nella traduzione dei
testi crociani utilizzata da Dewey mind viene anche usato per rendere “animo” (state of mind per
“stato d’animo”).]
246 [Dewey inserisce tra virgolette una citazione ripresa da E. F. Carritt, The Theory of Beauty,
Meuthen, London (1928) 1931 4, p. 192: «the object does not exist unless it is known, that it is
not separable from the knowing spirit». Il passo viene desunto dalla Logica di Croce, e lo si è
qui ricostruito n dove possibile, mettendo però fuori virgolette una parafrasi irriducibile al
dettato crociano. Per la citazione diretta: B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909),
Laterza, Bari 1964, p. 110.]
247 [Id., Breviario di estetica (1912), ora anche Adelphi, Milano 1990, p. 45.]
248 [Ivi, p. 44]
249 [A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 291. – Nella
traduzione citata da Dewey si trova perception in luogo di “contemplazione”.]
250 [Probabile il riferimento al § 40 di Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 304-
05).]
251 [Ivi, p. 374 (trad. it. lievemente modi cata).]
252 [J. W. Goethe, Allerdings (Dem Physiker) (1820), e Ultimatum (1821), in Tutte le poesie, a
cura di R. Fertonani ed E. Ganni, vol. I, t. 2, Mondadori, Milano 1989, pp. 1030-31.]
253 [W. Shakespeare, Loves’s Labour’s Lost, atto III, scena 1, v. 178, ed. it. cit., p. 683.]
254 [J. Reynolds, Discourses on Art, trad. it. cit., p. 51.]
255 [M. Arnold, The Study of Poetry, introduzione a The English Poets (1880), poi in Id., Essays
in Criticism, in The Works of Matthew Arnold, vol. IV, MacMillan, London 1903-04, pp. 15-16.]
256 [L. N. Tolstoj, Che cos’è l’arte?, trad. it. cit., pp. 86-87.]
257 [Fonte anonima.]
258 La maggior pare di questa collezione oggi è al Louvre – e ciò basta a commentare la
competenza della critica uf ciale. [La collezione in questione è quella che Gustave Caillebotte,
lui stesso pittore impressionista, donò alla stato francese nel 1894.]
259 [Il riferimento è a R. Cortissoz, The Post-Impressionist and Cubist Vagaries, “New York
Tribune”, 23 febbraio 1913, pt. 2, p. 6; ripubblicato e modi cato in R. Cortissoz, Art and
Common Sense, Scribner, London-New York 1913, pp. 149-59.]
260 Cfr. supra, cap. 7, pp. 151-52.
261 [J. Lemaitre, Anatole France, in Id., Les Contemporains: Études et Portraits Littéraires,
Deuxieme series, Société Française d’Imprimerie, Paris 1902, p. 85.]
262 Cfr. supra, cap. 9, p. 135.
263 [L. Grudin, Mr. Eliot Among the Nightingales, Lawrence Drake, Paris 1932, p. 35.]
264 [Nel testo: criteria. La scelta traduttiva è dettata dall’opportunità di distinguere questo
grecismo da “criterio”, che traduce tecnicamente il termine standard .]
265 [Nel testo: Homer sometimes nods. Il detto è ricavato dal verso 359 dell’Ars poetica di
Orazio: ...quandoque bonus dormitat Homerus.]
266 [Cézanne a Émile Bernard, lettere del 23 dicembre 1904, 12 maggio 1904 e del 1905,
trad. it. in P. Cézanne, Lettere, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1985, pp. 136, 132 e 139.]
267 I due casi di arte animale, pur servendo anzitutto a indicare la natura dell’“essenza” nel
campo dell’arte, costituiscono anche un esempio di questi due metodi.
268 [Il riferimento è a Der Zauberberg, trad. it. di E. Pocar, La montagna incantata, Tea,
Milano 2005, di cui cfr. in particolare p. 615.]
269 [Cfr. D. Defoe, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, ed. it. a cura
di O. Previtali, Rizzoli, Milano 1976, vol. I, pp. 116-17.]
270 [Cfr. J. W. Goethe, Wilhelm Meister, libri 4 e 5, trad. it. di E. Castellani, in Id., Romanzi,
Mondadori, Milano 2006², pp. 324-445.]
271 [W. Shakespeare, Hamlet, atto III, scena 2, vv. 354-361, trad. it. cit., pp. 225-27.]
272 Martin Schütze, nel suo Academic Illusions [University Press of Chicago, Chicago 1933],
fornisce pertinenti esempi dettagliati di questo tipo di errore e mostra come essi costituiscano
ciò che hanno da offrire intere scuole di interpretazione estetica. [Sul testo di Schütze cfr. la
recensione ora in J. Dewey, The Later Works, vol. 8, Southern Illinois University Press,
Carbondale & Edwardsville 1987, pp. 360-63.]
273 [J. Hambidge, Dynamic Symmetry: The Greek Vase (1920), Kessinger Pubblishing,
White sh 2003.]
274 [Il riferimento potrebbe essere a S. Buchanan, Poetry and Mathematics, John Day Co.,
New York 1929, visto che questo autore è noto a Dewey, che ne recensì il libro del 1927
Possibility (cfr. J. Dewey, The Later Works, vol. 8, cit., pp. 311-15).]
275 C’è un signi cativo capitolo con questo titolo in The Aesthetic Experience di Buermeyer
[cit.].
276 [In francese nel testo.]
277 [W. Wordsworth, Prefazione del 1802 , trad. it. cit., p. 138.]
278 [T. S. Eliot, Poetry and Propaganda, in Bookman 70/6, Hodder & Stoughton, London,
February 1930, p. 601.]
279 [In latino nel testo.]
280 Ho sottolineato questo punto in The Quest for Certainty [Balch & Co., New York 1929],
cap. 4 [trad. it. di E. Becchi e A. Rizzardi, La ricerca della certezza. Studio del rapporto fra
conoscenza e azione, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 77-111].
281 [Per i passi citati cfr. G. Santayana, Interpretations of Poetry and Religion, ed. cit., pp. 95,
100, 95, 96, 121, 128.]
282 [R. Browning, Shelley and the Art of Poetry, in The Prelude to Poetry: The English Poets in
Defence and Praise of their own Art, a cura di E. Rhys, Everyman’s Library, London-New York
1927, pp. 259-261, 262.]
283 [Parafrasi di E. A. Poe, To Helen (1831), strofa 2 (cfr. Id., Opere Scelte, ed. it. con testo
orig. a fronte a cura di G. Manganelli, Mondadori, Milano 2006², p. 1173).]
284 [In francese nel testo.]
285 [Nel testo: on holy-days.]
286 Si cita da W. Lippmann, A Preface to Morals, [Macmillan, New York 1929] p. 98. Il testo
del capitolo da cui è tratto questo passo fornisce esempi delle regole particolari che
disciplinavano l’opera del pittore. La distinzione tra “arte” e “sostanza” è simile a quella
tracciata da alcuni fautori della dittatura proletaria dell’arte tra tecnica o mestiere che
appartiene all’artista e contenuto dettato dalle esigenze della “linea del partito” a sostegno della
causa. Viene stabilito un duplice criterio. C’è letteratura che è buona o cattiva in quanto mera
letteratura, e letteratura che è buona o cattiva a seconda della sua posizione nei confronti della
rivoluzione economica e politica. [Per i documenti di Nicea cfr. Vedere l’invisibile. Nicea e lo
statuto dell’immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1997, in particolare ad esempio a
p. 76.]
287 [Il riferimento è alla celebre lettera indirizzata a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513
(per cui cfr. ad esempio N. Machiavelli, La Mandragola. Belfagor. Lettere, a cura di M.
Bonfantini, Mondadori, Milano 1991, in particolare p. 97).]
288 [Cfr. G. Santayana, Reason in Science, in The Life of Reason, cit., vol. V, pp. 225-26.]
289 Cfr. supra, cap. 7, p. 151.
290 [In francese nel testo.]
291 [H. A. Taine, Introduction a l’histoire de la litterature anglaise (1863), trad. it. in Id., Scritti
estetici: metodo e dottrina, a cura di D. Drudi, Alinea, Firenze 1996, p. 156.]
292 T. E. Hulme, Speculations [cit.], pp. 83-87, passim.
293 [Per i passi riportati: T. E. Hulme, Modern Art and Its Philosophy, in Speculations: Essays
on Humanism and the Philosophy of Art, cit., pp. 85-87; trad. it. di E. Re (leggermente
modi cata), L’arte moderna e la sua loso a, in Id., Meditazioni, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 77-
78.]
294 [Nel testo: install – cfr.: «[...] il nostro spirito [...] può installarsi nella realtà mobile [il
peut s’installer dans la réalité mobile]...» (H. Bergson, Introduction à la métaphysique, (1903), trad.
it. a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 83-84).]
295 [The Oxford English Dictionary, cit., sub voces “civilisation”, “civilize” e “civilized” (vol. III,
p. 257).]
296 [M. Arnold, To a Friend , in Id., The Strayed Reveller, and Other Poems (1849), ora in The
Poetical Works of Matthew Arnold, a cura di C. B. Tinker e H. F. Lowry, Oxford University
Press, London 1969, v. 12, p. 2.]
297 Così ha scritto Lippmann: «Chi va a un museo esce con la sensazione di aver osservato un
bizzarro assortimento di corpi nudi, pentole di rame, arance, pomodori e zinnie, bimbi, angoli di
strada e spiagge di bagnanti, banchieri e signore alla moda. Non dico che questa o quella
persona non possa trovare un quadro immensamente signi cativo per sé. Ma l’impressione
generale per chiunque, credo, sia di un caos di aneddoti, percezioni, fantasie e brevi cronache,
che sono tutti forse suf cientemente buoni a loro modo, e tuttavia che sono privi di sostanza e
di cui si potrebbe fare a meno senza problemi». – A Preface to Morals [cit.], pp. 103-104.
298 [In francese nel testo.]
299 [In latino nel testo.]
300 [Cfr. A. Comte, Systeme de politique positive (1851), ora in Œuvres, vol. 7, Antrophos,
Paris 1969 (se ne veda la trad. it. in appendice a E. Vidal, Saint-Simon e la scienza politica,
Giuffrè, Milano 1959).]
301 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 87.]
302 [M. Arnold, The Study of Poetry, cit., p. 4.]
303 [H. W. Garrod, Poetry and the Criticism of Life, Oxford Univerisity Press, London 1931,
pp. 15 e 11.]
304 [J. Keats a Reynolds, 19 febbraio 1818, in Lettere sulla poesia, cit., p. 83.]
305 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit. (trad. lievemente modi cata), pp. 89, 91, 75.]
306 [In latino nel testo.]
307 [P. B. Shelley, A Defence of Poetry, ed. it. cit., p. 89.]
308 [R. Browning, The Ring and the Book (1868), lib. XII, vv. 855-857, in The Poetical Works of
Robert Browning, vol. 9, a cura di S. Hawlin e T. A. J. Burnett, Clarendon Press, Oxford 2004
(«Tuttavia l’arte, in cui l’uomo non parla affatto all’uomo, | ma solo all’umanità – l’arte può dire
una verità | obliquamente, compiendo l’azione che nutrirà il pensiero»).]
Appendice biobibliogra ca
1. Pro lo biogra co
John Dewey nasce a Burlington, nel Vermont, il 20 ottobre 1859, da Archibald Sprague e
Lucina Artemisia Rich. Compie gli studi di base e superiori nella città natale, per poi iscriversi
nel 1875 all’Università del Vermont, al corso classico, dove frequenta in particolare i corsi di
James Marsh e quelli kantiani di H. A. P. Torrey. Conseguito il bachelor of arts, nel 1879 si
trasferisce a Oil City (Pennsylvania) dove insegna alla High School e al tempo stesso
approfondisce lo studio della loso a tedesca privatamente con Torrey. In questi anni studia
con attenzione la loso a di Spinoza, come documentano anche i suoi primi saggi pubblicati nel
1882 sul “Journal of Speculative Philosophy”. Seguendo il consiglio di Torrey, sempre nel 1882
si iscrive alla Johns Hopkins University di Balitmore come graduate student ove, più che i corsi
del «troppo matematico» Charles S. Peirce, segue le lezioni di psicologia di G. Stanley Hall e
quelle di storia della loso a di George Sylvester Morris, le une molto in uenzate dall’opera di
Wundt e le altre improntate a un idealismo organicista. I lavori pubblicati in questo periodo
mostrano il polarizzarsi del suo interesse verso Hegel.
Nel 1884, ottenuto il dottorato discutendo una tesi (perduta) sulla psicologia di Kant, grazie
all’iniziativa di Morris viene chiamato all’Università del Michigan con la quali ca di instructor of
philosophy. Qui compie una rapida carriera accademica anche in virtù del fatto che Morris si
trasferisce presto nella medesima Università. In questi anni si accentua il suo interesse per la
psicologia, con cui cerca di coniugare l’impostazione idealistica mutuata da Morris (si veda la
Psychology del 1887, che venne comunque criticata da William James e dal vecchio maestro
Hall per l’indebita combinazione di psicologia e loso a). Ciò gli vale il sospetto degli ambienti
idealistici più ortodossi. Inoltre, sempre durante il suo lavoro all’Università del Michigan,
cresce la sua attenzione per la problematica educativa. Nel 1886 si sposa con Hariet A.
Chipman, e nel 1887 nasce il loro primogenito.
Il 1894 è l’anno del trasferimento a Chicago, la cui Università lo chiama come docente di
loso a e come direttore del locale Dipartimento, che prevede al suo interno anche una sezione
psicologica e pedagogica. L’intenso lavoro come direttore è volto anzitutto a far dotare di un
laboratorio sperimentale proprio questa sezione; ciò dà vita alla nota scuola sperimentale
descritta in The School and Society (1899), alla cui attività partecipa anche la moglie.
Proseguono inoltre gli studi di psicologia (spicca il saggio The Re ex Arc Concept in Psychology
del 1896), di etica e di analisi della vita emotiva, sollecitati peraltro da una posizione religiosa
oramai non più confessionale maturata nel contesto del confronto duro tra darwinismo e
comunità religiose americane (cfr. anche Evolution and Ethics del 1898). La rottura de nitiva
con l’idealismo avviene con la pubblicazione nel 1903 degli Studies in Logical Theory, in cui
Dewey de nisce la propria posizione «strumentale» e mostra ormai un convinto approccio
pragmatista. Il periodo vede crescere decisamente la sua notorietà: nel 1899 è presidente
dell’American Psychological Association; viene invitato a tenere corsi nel 1901 a Berkeley e nel
1904 alla Columbia Univesity; nel 1905 diventa presidente dell’American Philosophical
Association. L’anno prima, nel 1904, si trasferisce de nitivamente alla Columbia University. In
questa università svolgerà tutto il resto della sua carriera accademica, diventando professore
emerito “residente” tra il 1930 e il 1939 e mantenendo in seguito il titolo di professore emerito.
Il clima del nuovo ambiente accademico lo sollecita sui molti fronti in cui ormai si articola la
sua attività di ri essione, come testimoniano i numerosi saggi gran parte dei quali compaiono
d’ora in poi sul “Journal of Philosophy”. In particolare, per quel che concerne il pensiero
pedagogico, elabora in questo periodo due opere cruciali come How We Think (1910) e,
soprattutto, Democracy and Education (1916), mentre nel 1910 vede la luce la raccolta di saggi
The In uence of Darwin on Philosophy. Ma questi sono anche gli anni del travaglio dei
democratici statunitensi intorno alla questione dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale.
Con una celebre conferenza, che poi divenne German Philosophy and Politics (1915), Dewey di
fatto giusti ca la guerra, creando dissenso tra i suoi stessi allievi, alcuni dei quali lo
abbandoneranno orientandosi con maggior decisione verso posizioni socialiste. Finita la guerra,
nel 1918 si reca in Giappone, e poi tra il 1920 e il 1922 soggiorna in Cina, dove conosce
Bertrand Russell. È in questi viaggi che matura il libro Reconstruction in Philosophy (1920), in
cui si avverte ormai il mutamento di clima del pensiero deweyano dopo il dif cile periodo
bellico. Alcune altre circostanze segnano questa fase del suo pensiero. Nel 1924 compie un
viaggio in Turchia per studiare il locale sistema educativo. Nel 1927 subisce il grave lutto della
morte della moglie, che lo colpisce duramente. Nel 1928, in ne, dovendo recarsi in Unione
Sovietica per analizzarne il sistema educativo, compie un viaggio attraverso alcune grandi città
europee (Londra, Parigi e Berlino) potendo così visitarne i musei. A questi anni risalgono opere
capitali. Del 1922 è il trattato di psicologia sociale Human Nature and Conduct. Nel 1925 esce
la prima edizione di Experience and Nature, che verrà ripubblicato nel 1929 con l’aggiunta di una
introduzione e il completo rifacimento del primo capitolo sul metodo della loso a. Nel 1929
pubblica anche The Quest for Certainty.
Negli anni Venti si avvia la sua stretta collaborazione con Albert C. Barnes, che ha conosciuto
nel 1917, della cui Fondazione guida i progetti educativi a partire dal 1923. Sempre in quel
decennio è signi cativa la sua presenza nel dibattito politico: sostiene la candidatura,
fallimentare, del socialista La Follette alle elezioni del 1924, e si schiera a difesa di Sacco e
Vanzetti nel 1927, lo stesso anno in cui muore la moglie (sposerà in seconde nozze Roberta
Lowitz Grant nel 1946). Nel 1931 inaugura all’Università di Harvard le William James Lectures
con un ciclo di lezioni intitolato Art and Aesthetic Experience. Si tratta del materiale che –
assieme a quello elaborato a vivo contatto con le collezioni di arte contemporanea e di reperti di
civiltà non-occidentali presenti alla Barnes Foundation – sta alla base di Art as Experience, che
vede la luce nel 1934. In quello stesso anno pubblica A Common Faith, mentre l’anno
precedente aveva pubblicato una nuova edizione, assai modi cata, di How We Think. Attende in
questi anni ad approfondimenti e sistemazioni di diversi temi: ristampa in nuova edizione la
Ethics del 1908 (1932), pubblica Liberalism and Social Action (1935), Logic: The Theory of
Inquiry (1938), Experience and Education (1938) e Freedom and Culture (1939). In alcuni di
questi volumi e in saggi coevi riprende la polemica con la forma sovietica del socialismo,
consolidata anche dall’esperienza della commissione di inchiesta sul caso Trotzkij che egli
presiede nel 1937, ma anche con forme poco radicali di liberalismo democratico, prendendo le
distanze dal New Deal roosveltiano a partire dal 1936. Nel 1940 interviene a favore di Russell,
designato per una cattedra newyorkese di loso a e al centro di vivaci polemiche per le sue
opinioni morali. Negli ultimi anni, all’interesse per questioni etico-politiche (del 1946 è
Problems of Men), si af anca una costante attenzione per temi logici e gnoseologici affrontati
talvolta in collaborazione con Arthur F. Bentley, con cui pubblica Knowing and the Known nel
1949, ossia l’anno dopo aver ristampato, con una nuova e lunga introduzione, Reconstruction in
Philosophy, quasi a sigillare l’idea di ricostruzione in senso loso co dopo la Seconda Guerra
Mondiale, così come aveva fatto con la prima edizione dello stesso volume dopo la catastrofe
della Prima Guerra Mondiale. Muore a New York l’1 giugno 1952.
2. Opere di Dewey
Tutti gli scritti di Dewey sono raccolti nell’edizione critica avviata nel 1967 a cura di Jo Ann
Boydston per la Southern Illinois University Press (Carbondale) e articolata in tre sezioni: The
Early Works, 1882-1898; The Middle Works, 1899-1924; The Later Works, 1925-1953.
Per le opere principali citate nel pro lo in traduzione italiana, cfr.: The School and Society
(1899) = Scuola e società, a cura di E. Codignola e L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1949;
How We Think (1910; 1933) = Come pensiamo, a cura di A. Guccione Monroy, La Nuova Italia,
Firenze 1961; Democracy and Education (1916) = Democrazia e educazione, La Nuova Italia,
Firenze 1949 (ora anche Sansoni, Firenze 2004); Reconstruction in Philosophy (1920; 1948) =
Rifare la loso a, a cura di A. Massarenti, Donzelli, Roma 1998; Experience and Nature (1925;
1929) = Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia, Milano (1973) 1990; The Quest for
Certainty (1929) = La ricerca della certezza, a cura di A. Visalberghi, La Nuova Italia, Firenze
1966; A Common Faith (1934) = Una fede comune, a cura di G. Calogero, La Nuova Italia,
Firenze 1949; Liberalism and Social Action (1935) = Liberalismo e azione sociale, a cura di F.
Fistetti, Ediesse, Roma 1997; Logic: The Theory of Inquiry (1938) = Logica, teoria dell’indagine, a
cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1949 e 1965; Experience and Education (1938) =
Esperienza e educazione, trad. it. di E. Codignola, La Nuova Italia, Firenze 1967; Freedom and
Culture (1939) = Libertà e cultura, trad. it. di E. Enriques Agnoletti, La Nuova Italia, Firenze
1953; Problems of Men (1946) = Problemi di tutti, a cura di G. Preti, Mondadori, Milano 1950;
Knowing and the Known (1949) = Conoscenza e transazione, trad. it. di E. Mistretta, La Nuova
Italia, Firenze 1974.
Per le bibliogra e generali di e su Dewey e per la storia della critica si rinvia ai due pro li,
purtroppo non aggiornati né per la cronologia né per l’approccio teorico, tuttora esistenti in
italiano: A. Granese, Introduzione a Dewey, Laterza, Roma-Bari 1973; A. De Maria, Invito al
pensiero di Dewey, Mursia, Milano 1990. – Per la critica cfr. però la raccolta in 4 voll. John
Dewey. Critical Assessments, a cura di J. E. Tiles, Routledge, London & New York 1992.
3. Art as Experience e scritti di estetica
Art as Experience è uscito nel 1934 per i tipi della Minton, Balch & Co. di New York. In
seguito è stato più volte ristampato, e nel 1980 è stato inserito nel catologo dei Perigee Books
editi da G. P. Putnam’s Sons sempre di New York. All’interno dell’edizione delle opere di
Dewey è pubblicato nel vol. 10 della terza serie (The Later Works, 1925-1953 , cura del volume
di Harriet Furst Simon, con una introduzione di Abraham Kaplan, Southern Illinois University
Press, Carbondale, (1987) 1989). L’apparato critico in calce al volume è ricco, ma non risolve il
problema delle fonti di diverse citazioni esplicite o implicite che occorrono nel testo.
Che Art as Experience sia un classico della ri essione estetica del Novecento è attestato dalle
sue traduzioni nelle principali lingue moderne. La prima traduzione è stata effettuata in
spagnolo: El Arte como experiencia, a cura di Samuel Ramos, Fondo de Cultura Económica,
Mejico 1949. In tedesco la traduzione è più recente: Kunst als Erfahrung, a cura di Christa
Velten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980. In francese è recentissima, e costituisce il terzo vol. del
piano di traduzione organica delle opere loso che di Dewey: L’art comme experience, a cura di
Jean-Pierre Cometti, con una Introduzione di Richard Shusterman e una Postfazione di Stewart
Buettner, Farrago, Pau 2005. Nessuna di queste traduzioni sviluppa tuttavia l’apparato critico.
Di quest’opera esiste un’oramai obsoleta trad. it. di Corrado Maltese pubblicata dalla Nuova
Italia di Firenze, dapprima nel 1951 con una Presentazione del traduttore, e poi nel 1995 a cura
e con un saggio di Alberto Granese, che ha aggiunto al volume un’appendice con altri saggi di
Dewey.
Dewey si è occupato di questioni estetiche anche in alcuni interventi minori. Alcuni di essi
sono tradotti nell’edizione del 1995 di Arte come esperienza, cit. (alle pp. 407-467), e in
particolare: Poetry and Philosophy (1890); The Aesthetic Element in Education (1897); Tolstoi’s
Art (1910-1911); Art in Education – and Education in Art (1926); Subject-Matter in Art (1937);
The Philosophy of Fine Arts (1938); Aesthetic Experience as a Primary Phase and as an Artistic
Development (1950); Introduction ai Selected Poems di Claude McKay (1952). Il saggio del 1950
Aesthetic Experience as a Primary Phase... chiude anche la raccolta di scrtti deweyani Art and
Education edita dalla Barnes Foundation nel 1954 e pubbicata in italiano con il titolo Educazione
e arte, a cura di Luciana Bellatalla, con una Prefazione di Lamberto Borghi, La Nuova Italia,
Firenze 1977. Accanto a quel saggio si trovano, ma non in ordine cronologico: Experience,
Nature and Art (1925); Individuality and Experience (1926); Affective Thought in Logic and
Painting (1926); Foreword a A. C. Barnes e V. De Mazia, The Art of Renoir (1935).
Oltre a questi interventi vi sono, mai raccolti in italiano: rec. a B. Bosanquet, A History of
Aesthetics (1893); Naturalism in Art (1902); Affective Thought (1926); Qualitative Thought
(1930); Art in vacuum (1934; ripreso come primo capitolo di Art as Experience); The Meaning of
Architecture (1935; riprende parti di Art as Experience); The Educational Function of a Museum of
Decorative Arts (1937); Experience, Knowledge and Value (1939); Foreword a A. Dorner, The Way
beyond «Art» (1946; trad. id. in Il superamento dell’«arte», a cura di E. Fubini e L. Fabbri,
Adelphi, Milano 1964, pp. IX-XIV); Foreword a H. Schaefer-Simmern, The Unfolding of Artistic
Acrivity (1948); A Comment on the Foregoing of Criticism (1948); Experience and Existence: A
Comment (1949).
4. Letteratura critica sulla ri essione estetica in Dewey
Il rilievo della dimensione estetica nel pensiero di Dewey è stato presto oggetto di analisi.
Alcuni saggi di studiosi statunitensi della ne degli anni Venti vi sono infatti già dedicati, e anche
un artista come Josef Albers recepì con straordinaria prontezza Art as Experience. In Italia, poi,
è celebre la repentina polemica con Croce. Tuttavia gli approfondimenti monogra ci sono
relativamente poco numerosi. Negli stessi Stati Uniti ha pesato l’ostracismo contro Dewey e, in
generale, contro il pragmatismo da parte della loso a analitica (emblematico il giudizio
lapidario di Arnold Isenberg, che de nisce Art as Experience «un guazzabuglio di metodi
contraddittori e di speculazioni indisciplinate» nel saggio Analytic Philosophy and the Study of
Art, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 46, 1987, p. 128). Solo di recente, con la nascita
del neo-pragmatismo da costole della loso a analitica, si è ripreso a considerare meno
sbrigativamente l’opera estetica di Dewey, come testimonia il fatto che nel recente Companion
to Aesthetics della Routledge (a cura di B. Gaut e D. McIver Lopes, London & New York 2001)
vi sia un capitolo scritto da Richard Shusterman dedicato esclusivamente a Dewey (pp. 97-106).
Segno di questa ripresa è anche l’importanza accordata alla dimensione estetica in opere degli
anni Ottanta che ricostruiscono complessivamente il pensiero di Dewey (cfr.: R. J. Bernstein,
John Dewey, Atascadero (Calif.) 1981; R. W. Sleeper, The Necessity of Pragmatism. John Dewey’s
Conception of Pilosophy, Urbana and Chicago (1986) 2001; J. E. Tiles, Dewey, London & New
York 1988). In Italia la ri essione estetica di Dewey è argomento di una ventina di interventi,
ma non è mai stato oggetto di ampie ricostruzioni critiche monogra che. È peraltro
signi cativo, forse anche di una generale disattenzione nei confronti della loso a anglofona,
che il confronto della cultura estetica italiana con Dewey si sia quasi completamente esaurito
con la ne degli anni Sessanta. In Germania si assiste invece di recente a un timido risveglio di
interesse, grazie a pochi ma signi cativi studi. Davvero scarsi, in ne, i contributi che vengono da
altre aree linguistiche.
La seguente bibliogra a è suddivisa in due parti (I. volumi e dissertazioni; II. saggi e parti di
volumi), e censisce solamente i lavori tematicamente dedicati alla ri essione estetica deweyana.
I. volumi e dissertazioni. – Wyckoff, H. W., A Study on the Esthetics of J. Dewey , Leland 1936;
Brandenburg, K. H., Kunst als Qualität der Handlung. John Deweys Grundlegung der Ästhetik,
diss., Königsberg 1942; Leander, F., Estetik och kunskapsteori. Croce, Cassirer, Dewey, Göteborg
1950; Mathur, D. C., The Signi cance of «Qualitative Thought» in Dewey’s Philosophy of Art,
diss., New York 1955; Pesce, D., Il concetto dell’arte in Dewey e Berenson: saggi sull’estetica
americana contemporanea, Firenze 1956; Tamme, A. M., A Critique of Dewey’s Theory of Fine Arts
in the Light of the Principles of Thomism, Washington 1956; De Maria, A., Croce e Dewey, Torino
1958; Suits, B. H., The Aesthetic Object in Santayana and Dewey, diss., Chicago 1958; Loo, E. D.
van, Jung und Dewey and the Nature of Artistic Experience, diss., Tulane 1973; Zeltner, P. M.,
John Dewey’s Aesthetic Philosophy, (Amsterdam 1975) Atlantic Highlands (N. J.) 1977; Kupfer,
J. H., Experience as Art: Aesthetics in Everyday Life, Albany 1983; Alexander, T. M., John Dewey’s
Theory of Art, Experience, and Nature. The Horizons of Feeling, Albany 1987; Lehmann, D., Das
Sichtbare der Wirklichkeiten: Die Realisierung der Kunst aus ästhetischer Erfahrung (Dewey,
Cézanne, Rothko), Essen 1991; Engler, U., Kritik der Erfahrung. Die Bedeutung der ästhetischen
Erfahrung in der Philosophie John Deweys, Würzburg 1992; Marolda, P., Linguaggio ed estetica in
Dewey, Arezzo 1994; Raters-Mohr, M.-L., Intensität und Widerstand: Metaphysik,
Gesellschaftstheorie und Ästhetik in John Deweys «Art as Experience», Bonn 1994; Eldridge, M.,
Transforming Experience: John Dewey’s Cultural Instrumentalism, Nashville (TN) 1998; Jackson,
Ph. W., John Dewey and the Lessons of Art, New Haven 1998; Chateau, D., John Dewey et Albert
C. Barnes, philosophie pragmatique et arts plastiques, Paris 2003.
II. saggi e parti di volumi. – Ducasse, C. J., The Instrumentalist Theory of Art, in Aa.Vv., The
Philosophy of Art, New York 1929, pp. 84-94; Edman, I., A Philosophy of Experience as a
Philosophy of Art, in Aa.Vv., Essays in Honor of John Dewey, New York 1929; Albers, J., Art as
Experience, “Progressive Education”, 12, 1935, pp. 391-393; Shearer E. A., Dewey’s Aesthetic
Theory: Parts I and II, “Journal of Philosophy”, 32, 1935, pp. 617-27 e 650-64; Mc Williams, J.
A., Dewey’s Esthetic Experience as a Substitute for Religion, “Modern Schoolman”, 15, 1937, pp.
9-13; Melvin, G., The Social Philosophy Undelying Dewey’s Theory of Art, “Mills College Faculty
Studies”, 1937, pp. 124-136; Vivas, E., A De nition of Experience, “Journal of Philosophy”, 34,
1937, pp. 628-634; Vivas, E., A Note on the Emotion in Mr. Dewey’s Theory of Art,
“Philosophical Review”, 47, 1938, pp. 527-31 (trad. it. in Id., Creazione e scoperta, Bologna
1958, pp. 269-76); Barnes, A. C., Art as Experience, “The Educational Frontier”, 13, 1939,
pp.13-25; Warbeke, J. M., Esthetic Form and Criteria in Croce and Dewey, “Journal of
Philosophy”, 36, 1939, p. 679; Pepper, S. C., Some Questions on Dewey’s Esthetics, in Aa.Vv., The
Philosophy of J. Dewey, New York 1939 e 1951, pp. 369-389; Croce, B., Intorno all’estetica del
Dewey, “La critica”, 38, 1940, pp. 348-53; Zink, S., The Concept of Continuity in Dewey’s Theory
of Esthetics, “Philosophical Review”, 52, 1943, pp. 392-400; Fiess, E., Dewey’s View of Art, “The
Humanist”, 4, 4, 1945; Barnes, A. C., Dewey and Art, “New Leader”, 32, 22 ottobre 1949, p. 4;
Ramos, S., La estética de John Dewey, “Cuadernos Americanos”, 8, 1949, pp. 113-30; Romanell,
P., A Comment on Croce’s and Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 8,
1949, pp. 125-28; Croce, B., Intorno all’estetica e alla teoria del conoscere del Dewey, “Quaderni
della critica”, 16, 1950, pp. 60-8; Edman, I., Dewey and Art, in Aa.Vv., John Dewey: Philosopher
of Science and Freedom, New York 1950, pp. 47-65; Formaggio, D., L’estetica di John Dewey,
“Rivista critica di storia della loso a”, 6, 1951, pp. 360-72; Maltese, C., Presentazione. L’estetica
di John Dewey, in J. Dewey, L’arte come esperienza, Firenze 1951, pp. VII-XXXI; Cantoni, R., John
Dewey e l’estetica, “Il pensiero critico”, 2, 1952, pp. 1-14; Paci, E., Sull’estetica di Dewey, “aut
aut”, luglio 1952, pp. 317-330 (poi in Id., Tempo e relazione, Torino 1954, pp. 184-197);
Petruzzellis, N., L’arte come esperienza nella concezione del Dewey, in Aa.Vv., Estetica. Atti del VII
congresso di studi loso ci cristiani tra professori universitari, Padova 1952, pp. 254-5; Ames, V.
M., John Dewey as Aesthetician, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12, 1953, pp. 145-68;
Boas, G., Communication in Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12,
1953, pp. 177-83; Pepper, S. C., The Concept of Fusion in Dewey’s Aesthetic Theory, “Journal of
Aesthetics and Art Criticism”, 12, 1953, pp. 169-76; Scalia, G., Dewey e la più recente cultura
estetica italiana, “Galleria”, 5-6, 1954, pp. 269-82; Ballard, E. G., An Estimate of Dewey’s Art as
Experience, in Aa.Vv., Studies in American Philosophy, New Orleans 1955; Kaminsky, J., Dewey’s
Concept of an Experience, “Philosophy and Phenomenological Research”, 17, 1957, pp. 216-30;
Kennedy, G., Dewey’s Concept of Experience: Determinate, Indeterminate, and Problematic,
“Journal of Philosophy”, 56, 1959, pp. 801-4; Pasch, A., Dewey and the Analytical Philosophers,
“Journal of Philosophy”, 56, 1959, pp. 814-26; Ames, V. M., Art for Zen and Dewey, in Aa.Vv.,
Proceedings of the IV International Congress on Aesthetics, Athens 1960, pp. 745-48; Metelli di
Lallo, C., Il signi cato del termine esperienza nelle opere di J. Dewey, “Rivista di Filoso a”, 5s1,
1960, pp. 303-21; Raggiunti, R., Esperienza artistica e esperienza scienti ca nel pensiero di John
Dewey, «Filoso a», 11, 1960, pp. 69-92; Semenzato, C., A propos d’une œuvre de J. Dewey: Art
as Experience, “Comprendre”, 1960, pp. 346-349; Gauss, C. E., Some Re ections on John Dewey’s
Aesthetics, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 19, 1960-61, pp. 127-32; Jacobsen, L., Art
as Experience and American Visual Art Today, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 19,
1960-61, pp. 117-126; Graña, C., J. Dewey’s Social Art and the Sociology of Art, “Journal of
Aesthetics and Art Criticism”, 20, 1961-62, pp. 405-412; Barilli, R., Per un’estetica mondana,
Bologna 1964, pp. 25-131; Gotshalk, D. W., On Dewey’s Aesthetics, “Journal of Aesthetics and
Art Criticism”, 23, 1964-65, pp. 131-138; Dickie, G., Beardsley’s Phantom Aesthetic Experience,
“Journal of Philosophy”, 62, 1965, pp. 129-36; Mueller, G. E., John Dewey’s Aesthetics, in Id.,
Origins and Dimensions of Philosophy: Some Correlations, New York 1965, pp. 572-583; Petock,
S. J., Dewey and Gotshalk on Criticism, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 25, 1967, pp.
387-94; Mathur, D. C., A Note on the Consummatory Experience in Dewey’s Aesthetics, “Journal
of Philosophy”, 63, 1968, pp. 225-31; Russo, L., La polemica tra Croce e Dewey e l’arte come
esperienza, “Rivista di studi crociani”, 5, 1968, pp. 201-216; Kuspit, D. P., Dewey’s Critique of Art
for Art Sake, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 27, 1968-69, pp. 91-8; Douglas, G. H.,
A Reconsideration of the Dewey-Croce Exchange, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 27,
1969, pp. 497-504; Morris, B., Dewey’s Theory of Art, in Aa. Vv., Guide to the Works of John
Dewey, Carbondale 1970; Morris, B., Dewey’s Aesthetics: The Tragic Encounter with Nature,
“Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 32, 1971, pp. 189-96; Smith, C. M., The Aesthetics of
John Dewey and Aesthetic Education, “Educational Theory”, 21, 1971, pp. 131-45; Buettner, S.,
J. Dewey and the Visual Arts in America, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 35, 1974-75,
pp. 189-196; Madenfort, D., The Aesthetic as Immediately Sensous: An Historical Perspective,
“Studies in Art Education”, 16, 1974-75, pp. 5-17; Lipman, M., Can Non Aesthetic Consequences
Justify Aesthetic Values, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 33, 1975, pp. 117-23;
Haessler, G., A Note on John Dewey’s Work in Aesthetics, “Insights”, 14, 1977, pp. 2-3; Jarret, J.
L., Art as Cognitive Experience, (1953), ora in Aa. Vv., Dewey and his Critics, New York 1977;
Kadish, M. H., John Dewey and the Theory of the Aesthetic Practice, in Aa. Vv., New Studies on
the Philosophy of John Dewey, Hanover 1977, pp. 75-116; Alexander, T. M., The Pepper-Croce
Thesis on Dewey Idealist Aesthetics, in “Southwest Philosphical Studies”, 4, 1979, pp. 21-32;
Stewart, M. J., Dewey’s Aesthetic Theory: Art as a Special Kind of Practice, in Aa. Vv.,
Philosophical Studies and Education: Proceedings of the 1981 Annual Meeting of the Ohio Valley
Philosophy Education Societies, Bloomington 1982, pp. 102-109; Ziller, R.L., Toward the
Experience of Aesthetic Quality: A Response to Stewart, in Aa. Vv., Philosophical Studies and
Education: Proceedings of the 1981 Annual Meeting of the Ohio Valley Philosophy Education
Societies, Bloomington 1982, pp. 110-113; Baumeister, Th., Kunst als Erfahrung: Bemerkungen zu
Deweys «Art as Experience», “Zeitschrift für Philosophische Forschung”, 37, 1983, pp. 616-624;
Innis, R. E., Dewey’s Aesthetic Theory and the Critic of Technology, “Phänomenologische
Forschungen”, 15, 1983, pp. 7-42; Musik, G., Pragmatische Ästhetik – John Dewey: Kunst als
Erfahrung, in Id., Die erkenntnistheoretische Grundlage der Äesthetik Walter Benjamins, Bern
1985; Dennis, L. J., Did Dewey Dance?: An Artistic Assay. I. Critic as Teacher, “Proceedings of
the Midwest Philosophy Education Society”, 1986, pp. 155-68; Aissen-Crewett, M., Kunst als
Erfahrung. Zu John Deweys Ästhetik, “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine
Kunstwissenschaft”, 32, 1987, pp. 200-226; Chaloupka, W., John Dewey’s Social Aesthetics as a
Precedent for Environmental Thought, “Environmental Ethics”, 9, 1987, pp. 243-260; Gilmour, J.
C., Dewey and Gadamer on the Ontology of Art, “Man and World”, 20, 1987, pp. 205-219;
Kaplan, A., Introduction a J. Dewey, The Later Works, vol. 10: 1934 (Art as Experience),
Carbondale (1987) 1989, pp. VII-XXXIII; Manns, J., Intentionalism in John Dewey’s Aesthetics,
“Transactions of the Charles S. Peirce Society”, 23, 1987, pp. 411-23; Dennis L. J., Did Dewey
Dance?: An Artistic Assay. II. Or the Subjective Element in Aesthetic Experience, “Proceedings of
the Midwest Philosophy Education Society”, 1987-88, pp. 84-95; Burnett, J.R., The Relation of
Dewey’s Aesthetics to his Overall Philosophy, “Journal of Aesthetic Education”, 23, 1989, pp. 51-
54; Kalnickà, S., Concerning some Conceptions of Aesthetic Experience in Contemporary Aesthetics,
“Musaica”, 22, 1989, pp. 43-55; Mitchell, J., Danto, Dewey and the Historical End of Art,
“Transactions of the Charles S. Peirce Society”, 25, 1989, pp. 469-501; Alexander, T. M., The
Technology of Desire: Dewey, Social Criticism, and the Aesthetics of Human Existence, in Aa. Vv.,
Europe, America and Technology: Philosophical Perspectives, Dordrecht 1991, pp. 109-126;
Haskins, C., Dewey’s Art as Experience: The Tension between Aesthetic and Aestheticism,
“Transactions of the Charles S. Peirce Society”, 28, 1992, pp. 217-59; Shusterman, R.,
Pragmatist Aesthetics: Living Beauty, Rethinking Art, (Cambridge (Mass.) 1992) Lanham 2000,
pp. 3-61; Alexander, T. M., John Dewey, in Aa. Vv., A Companion to Aesthetics, Cambridge
(Mass.) 1993, pp. 118-22; Kleiman, J., Art and Social Change: The Aesthetic Theory of Theodor
Adorno and John Dewey, “Research and Society”, 6, 1993, pp. 26-53; Saxena, S. K., Art as
Experience: Dewey, in Id., Art and Philosophy: Seven Aestheticians, New Delhi 1994, pp. 83-174;
Jackson, Ph. W., If We Took Dewey’s Aesthetics Seriously, How Would the Arts Be Taught?,
“Studies in Philosophy and Education”, 13, 1994-95, pp. 193-202; Granese, A., Arte ed estetica
nel pensiero contemporaneo. Analisi e interpretazione del contributo deweyano, in J. Dewey, Arte
come esperienza, Firenze 1995, pp. VII-CXX; Jenson, J., Questioning the Social Powers of Art –
Toward a Pragmatic Aesthetics, “Critical Studies in Mass Communication”, 12, 1995, pp. 365-79;
Greene, M., A Rereading of Dewey’s Art as Experience: Pointers Toward a Theory of Learning, in
Aa. Vv., Handbook of Education and Human Development, Cambridge (Mass.) 1996, pp. 56-74;
Marsoobian, A., Aesthetic Form Revisited: John Dewey’s Metaphysics of Art, in Aa. Vv., Philosophy
in Experience: American Philosophy in Transition, New York 1997, pp. 195-221; Simmons, M.,
Certainty, Harmony, and the Centering of Dewey’s Aesthetics, in Aa. Vv., Philosophy of Education,
Urbana 1997, pp. 474-77; Alexander, T. M., The Art of Life: Dewey’s Aesthetics, in Aa.Vv.,
Reading Dewey: Intepretations for a Postmodern Generation, Bloomington and Indianapolis 1998,
pp. 1-22; Alexander, T. M., John Dewey and the Aesthetics of Human Experience, in Aa. Vv.,
Classical American Pragmatism, Urbana and Chicago 1999, pp. 160-73; Shusterman, R., Dewey
on Experience: Foundation or Reconstruction?, in Aa. Vv., Dewey Recon gured: Essays on Deweyan
Pragmatism, Albany 1999, pp. 169-219; Tan, Sor-Hoon, Experience as Art, “Asian Philosophy”,
9, 1999, pp. 107-22; Wood, R. E., Dewey, in Id., Placing Aesthetics: Re ections on the Philosophic
Tradition, Athens 1999, pp. 231-62; Sawyer, R. K., Improvisation and the Creative Process: Dewey,
Collingwood, and the Aesthetics of Spontaneity, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 58,
2000, pp. 149-61; Shusterman, R., Dewey, in Aa.Vv., The Routledge Companion to Aesthetics,
London & New York 2001, pp. 97-106; Alexander, T. M., The Aesthetics of Reality: The
Development of Dewey’s Ecological Theory of Experience, in Aa. Vv., Dewey’s Logical Theory: New
Studies and Interpretations, Nashville (TN) 2002; Marolda, P., Filoso a del sentire nel naturalismo
americano, Roma 2003, pp. 55-92 e 143-158; De Simone, A., Esperienza, arte, vita della mente.
Sulla loso a estetica di John Dewey, in Aa. Vv., Dewey e l’educazione della mente, Milano 2004;
Travaglini, R., L’arte educativa: da Dewey all’estetica cognitiva, in Aa. Vv., Dewey e l’educazione
della mente, Milano 2004; Raters-Mohr, M.-L., Wozu Kunst? Zur Rolle des Kunstwerks im John
Deweys System der Erfahrung, “Musik & Ästhetik”, 8, 2004, pp. 49-62; Shusterman, R., Préface,
in J. Dewey, L’art comme experience, a cura di J.-P. Cometti, Pau 2005, pp. 7-16; Bufalo, R.,
L’esperienza precaria. Filoso e del sensibile, Genova 2006, pp. 141-205; Dreon, R., Il sentire e la
parola. Linguaggio e sensibilità tra loso e ed estetiche del Novecento, Milano 2007, pp. 49-73 e
165-207; Russo, L. (a cura di), Esperienza estetica. A partire da John Dewey, “Aesthetica Preprint.
Supplementa”, 21, 2007 (www.unipa.it/~estetica/download/Dewey.pdf); Dreon, R., Il
radicamento naturale delle arti: John Dewey nel dibattito contemporaneo, “Aisthesis”, 2009/1, pp.
23-47; Matteucci, G., L’antropologia dell’esperienza estetica in Dewey, in Id., Il sapere estetico come
prassi antropologica, Pisa 2010, pp. 127-40; Dreon, R., Fuori dalla torre d’avorio. L’estetica
inclusiva di John Dewey oggi, Genova-Milano 2012; Ottobre, A., Arte, esperienza e natura. Il
pensiero estetico di John Dewey, Milano 2012; Shusterman, R., Riabilitare la ri essione somatica.
La loso a del corpo-mente in John Dewey, in Id., Coscienza del corpo, Milano 2013 (ed. or. 2008),
pp. 181-220; Cecchi, D., Il continuo e il discreto. Estetica e loso a dell’esperienza in John Dewey,
Milano 2014; Cecchi, D., Introduzione, in J. Dewey, Esperienza natura e arte, Milano 2014, pp. 7-
19; Cometti, J.-P. e Matteucci, G. (a cura di), Dall’arte all’esperienza. John Dewey nell’estetica
contemporanea, Milano 2015; Matteucci, G., Il sensibile rimosso. Itinerari di estetica sulla scena
americana, Milano 2015, pp. 31-50.
Table of Contents
1. Presentazione
2. Prefazione
3. 1 – La creatura vivente
4. 2 – La creatura vivente e le “cose eteree”
5. 3 – Fare un’esperienza
6. 4 – L’atto dell’espressione
7. 5 – L’oggetto espressivo
8. 6 – Sostanza e forma
9. 7 – La storia naturale della forma
10. 8 – L’organizzazione delle energie
11. 9 – La sostanza comune delle arti
12. 10 – La sostanza differente delle arti
13. 11 – L’apporto umano
14. 12 – La sfida alla filosofia
15. 13 – Critica e percezione
16. 14 – Arte e civiltà
17. Note
18. Appendice biobibliografica