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STORIA DEL PENSIERO MEDIEVALE

Introduzione al pensiero medievale


La filosofia medievale
Per filosofia medievale si intende il pensiero cristiano dell’occidente latino, sviluppatosi tra dal V al XIII
secolo. I filosofi di questo periodo sono quasi tutti chierici, persone che vivono il loro essere cristiani in
nome di una verità, che è unica, e che diventa la loro ragione di vita. La storia del pensiero è ricca e varia,
anche se si sviluppa a partire da una base comune, ossia da varie interpretazioni del testo biblico.
L’obiettivo che i filosofi si sono prefissati è stato quello di cercare un’armonia tra fede e ragione e non,
come crede la vulgata, quello di opporre conflittualmente la fede alla ragione.
I filosofi pagani
I filosofi pagani, non avendo potuto conoscere la verità, hanno percepito con preoccupazione i ripetuti
fallimenti delle proprie indagini e delle contraddizioni sistematiche tra scuole. Cicerone, sulla scia degli
Accademici, persuaso che il vero fosse destinato a rimanere oscuro, giunse a pensare che compito della
filosofia fosse solamente quello di escogitare norme pragmatiche per orientarsi nella società. Ma una
filosofia ridotta a mero supporto metodologico per l’orientamento pratico tradisce le sue originarie
intenzioni e le sue aspirazioni di verità, rimanendo dunque inautentica.
Credere e intelligere
La congiunzione di credere e intelligere è una habitudo, ossia una relazione naturale tra due fonti, a cui gli
uomini possono attingere per trovare la verità. Dunque, usando bene la ragione si trova conferma della
verità rilevata, poiché la verità è ragionevole. Allo stesso tempo, solo la luce della fede permette di usare
bene la ragione e di approcciarsi in modo corretto alla realtà, dal momento che la realtà è frutto di Dio (“se
non avrete creduto, non capirete”). Dunque, per i medievali la ragione non è subordinata alla fede, ma al
contrario tentano di dare massima dignità alla ragione alla luce della fede cristiana: è una continua
circolarità tra “intelligo ut credam”, ossia capisco per credere e il “credo ut intelligam”, ossia credo per
capire.
La vera philosophia
La vera filosofia è, per Agostino, solo quella dei cristiani, i quali hanno compreso innanzitutto quale sia la
verità per poi consolidarla con gli strumenti della ratio. A questo proposito Scoto Eriugena scrive che “la
vera philosophia è la vera religio, e che la vera religio è la vera philosophia”, dato che la verità è una sola,
una vera religione e una vera filosofia non possono che sostenere le medesime tesi. Se la verità è unica, in
quanto è verità di Dio, non può esserci contraddizione tra religione e filosofia.
La Rivelazione
L’atto fondante dell’età medievale si risolve nella scelta di portare pregiudizialmente il pensiero ad aderire
a una “parola”, la cui attendibilità è verificabile soltanto sulla base di quanto essa stessa afferma, e di
muovere di qui alla ricerca delle ulteriori conoscibilità possibili. La ragione speculativa medievale conosce in
partenza la propria meta, coincidente con la Rivelazione, ma è suo compito perseguirne la dimostrabilità,
approfondirne il significato ed evidenziarne le possibili conseguenze.
Plurivocità della Scrittura
Il testo sacro si può leggere a più livelli, e i medievali l’hanno sperimentato attraverso la Bibbia. Esistono,
infatti, il senso letterale, il senso morale, il senso allegorico (le caratteristiche universali del messaggio di un
dato testo) e il senso anagogico (che riguarda le realtà ultime, il destino ultraterreno).
Sana doctrina
Quando san Paolo incontra i saggi di Atene, nonostante l'ilarità che le sue parole producono negli uditori, si
compie il primo innesto della religione cristiana, nel luogo della civiltà filosofica ellenistico-romana. La
Scrittura documenta come, grazie alla predicazione nell’areopago, sia avvenuta anche la conversione del
pagano Dionigi, figura importantissima per i medievali hanno. Il cristiano, che possiede già la verità come
concessione divina, vede nella filosofia antica uno strumento per organizzare la comprensione del dato
rivelato. La fede dev’essere consolidata in una sana doctrina: salvare la filosofia antica per salvare la Bibbia.
L’unione del rispetto dell’ordine di Dio e delle competenze naturali dei filosofi attribuisce coerenza e
correttezza circa l’indagine sulla verità. Quella dei medievali è un’esigenza di sistematicità: la sana doctrina
è tale in quanto è una e indiscutibile, la cui unicità deriva dal fatto di essere compiuta, senza lacune o
imperfezioni, grazie all’origine divina.
Concordismo
Se la verità è unica, allora, in tutte le verità c’è qualcosa di quella assoluta; dal momento che se Dio ha
creato il tutto, in tutto c’è una scintilla di Dio: c’è del buono in tutte le verità che l’uomo ha prodotto. Per i
medievali, dunque, non c’è un principio di autorità, ma solo vari livelli di autorevolezza, è la massima
valorizzazione della verità che dà piena dignità all’uomo. E proprio perché la verità è una sola, i filosofi
medievali cercano di dare dignità anche a quelli pagani. Diventa possibile, quindi, conciliare e leggere con
occhi nuovi le verità del passato per giungere ad una verità superiore. La verità si è manifestata una volta
nella Bibbia e, successivamente, in Gesù (differenza con il neoplatonismo per cui è impossibile raggiungere
Dio che è lontano e ineffabile).
Cristianesimo e filosofia antica
L’interdipendenza tra il cristianesimo e la filosofia antica è reperibile sin dal prologo del Vangelo di
Giovanni. Il Logos è ciò che si identifica e si incarna nella seconda persona divina, Cristo, il Figlio di Dio.
All’affinamento di questo nucleo concettuale hanno poi contribuito i predicatori dei primi secoli, che si sono
impadroniti del linguaggio filosofico per dialogare con gli esponenti delle scuole pagane e controbatterne le
accuse di ignoranza e superstizione (apologeti).
Rapporto con gli antichi
L’adesione dei medievali alla fede è molto critica: non si dubita mai della verità rivelata, ma se ne
evidenziano le problematiche. Il principio di autorità, dunque, non è obbedienza cieca ma consapevolezza
rispetto a chi è venuto prima. Questo perché la Bibbia è la scrittura ispirata da Dio, non dettata come il
Corano e, quindi, mentre il Corano è aldilà della storia ed immutabile, la Bibbia è cresciuta nel tempo. Il Dio
biblico si è servito di autori umani che erano a contatto con varie culture; i medievali si approcciano,
pertanto, con senso critico e della storia. Inoltre è importante, per i medievali, il principio di tradizione, dal
momento che le interpretazioni sono tutte potenzialmente valide se si armonizzano con la dottrina Chiesa.
Auctoritas e sapientia dei Padri
Il contributo teologico dei Padri viene accolto come un ampliamento della Rivelazione, della quale
costituisce la prima attendibile chiarificazione esplicativa. Per difendere l’autorevolezza dei padri è stato
addirittura stilato un elenco, il De libris recipiendis et non recipiendis, dei testi patristici autorizzati, i quali
possono costituire il materiale di supporto per la comprensione della Rivelazione. Bernardo di Chartres
spiega che i moderni sono come nani che possono issarsi sulle spalle dei giganti che li hanno preceduti.
Unanimitas
I filosofi sono parte di un patrimonio comune, si può essere originali ma è necessario sempre amare la
verità. L’originale viene ammesso solo se vi è il rispetto per l’antico, ossia l’unanimitas dev’essere edificata
sulla Scrittura e sulla tradizione.
Filosofia ancella della teologia
I protagonisti della tradizione speculativa patristica hanno fissato gli elementi portanti della terminologia
dogmatica di contro i vari tentativi di razionalizzazione eretica. E ancora, davanti alla crisi dell'Impero il
cristianesimo ha bisogno di fondarsi con ancora più vigore per resistere in quanto comunità a fronte di
un'invasione che sembra in grado di cancellare ogni traccia di civiltà: i pensatori del tempo si trovarono
dunque ad attingere alle scuole antiche e a trarne gli insegnamenti più adatti allo scopo. La scienza pagana
viene dunque vista come ancilla theologiae, ovvero come serva della vera conoscenza.
L’oro degli egiziani
Vi è un episodio biblico che ben rappresenta il rapporto tra scienza pagana e cristianesimo: l’oro degli
Egiziani rubato dagli Israeliti prima di partire per la terra promessa allude al diritto, da parte dei seguaci di
Cristo, di impadronirsi delle arti pagane. Dopo aver rubato l'oro agli Egiziani, chi usa tale ricchezza per
soddisfare le illecite aspirazioni conoscitive della razionalità forgerà l’icona idolatrica del vitello d’oro,
mentre chi la purifica e la riversa nella vera sapienza per comprendere la Rivelazione, ubbidisce alla legge
divina. Nell'ottica medievale, dunque, l'anteporre aspirazioni umane al mistero della fede non potrà che
condurre all'errore.
La moneta del re
I filosofi greci, secondo lo pseudo-Dionigi, credono di possedere la moneta del re, ma non hanno invece
nient’altro che un’ingannevole ombra. A tal proposito Boezio, dal carcere, scrive la Consolatio Philosophiae,
in cui la Filosofia gli si presenta con il vestito lacero e logoro, dicendo che la colpa sarebbe dei piccoli filosofi
pagani, che dopo averle strappato un pezzo del vestito, sono andati in giro per il mondo sostenendo di
essersi impadroniti di tutta la verità.
L’anima viene dunque innalzata verso la sublimità del vero per poi ridiscendere sul piano dianoetico più
ricca di verità, organizzandosi in forme espressive mediante le quali comunicare con la comunità dei
credenti. Questa comunicazione teologica è il fondamento su cui si basa la costruzione della Christianitas.
Come può l’uomo parlare di Dio?
Nonostante Dio si sia rivelato e incarnato, è un Dio trascendente e si rischia, quindi, di ricadere nell’accusa
di immanentismo, ossia di relegare Dio nella sua creazione. La soluzione all’immanentismo è trovata da
pseudo-Dionigi Areopagita, il Corpus Areopagiticum ebbe grande diffusione durante il medioevo. Il trattato
sui Nomi Divini, una delle opere del Corpus, pone l'accento sulla questione del linguaggio per poter
distinguere e predicare riguardo a Dio, distinguendo tre vie:
1) affermativa (o catafatica): è la possibilità di predicare di Dio tutte le perfezioni, ossia i termini che
sono desumibili dal linguaggio biblico e dalla tradizione. Ma la natura di Dio è trascendente e
sfuggente, quindi, questa teologia va corretta:
2) negativa (o apofatica): determina Dio solo procedendo per negazioni, sancisce la distanza tra la
creazione e il Creatore, portando all’impenetrabilità ultima di ciò che è vero in sé. Le due teologie si
compendiano nella:
3) superlativa (o uperbatica): super=in altro modo, è la teologia che permette di sancire la distanza
incolmabile tra Dio e le sue creature, raggiungibile solo attraverso l’abbandono mistico, perdendosi
nella migliore acquisizione possibile della verità.
Divina dispositio
Il creato è concepito come una gerarchia, composta in livelli discendenti dal creatore. Per il neoplatonismo,
il mondo è emanazione da Dio, discesa e cascata dal Sommo principio. Invece, pseudo-Dionigi distingue in
due opere omonime tra una “gerarchia celeste” e una “gerarchia ecclesiastica”. Nel cielo Dio ha costituito
gli angeli in 9 gradi discendenti divisi in 3 triadi e, in terra, la Chiesa riflette la gerarchia del celeste. Dio
comunica agli angeli la verità, i quali per azioni dello Spirito Santo la comunicano ai vescovi, i quali a loro
volta la comunicano a tutta la gerarchia ecclesiastica. Ogni cielo si avvicina un po’ più a Dio, come
specularmente l’inferno si allontana, non ci sono, però, differenze nella beatitudine delle anime, ma nella
capacità che queste hanno di riceverla: tutte le creature del cielo sono beate, ma ognuna riceve la
beatitudine come può. Allo stesso modo, il mondo creato è imitazione del Creatore per quanto può, gli
uomini possono essere felici, ma non beati, la stessa gerarchia ecclesiastica riflette come può quella celeste.
A questo processo, inoltre, presiedono tre “operazioni gerarchiche”: 1) la purificazione (liberazione dai
contatti immondi con la materialità del molteplice), 2) l’illuminazione (induzione conoscitiva che orienta i
gradi inferiori verso la bellezza e la maggiore somiglianza con il divino di quelli superiori) e 3) la perfezione
(conduzione ad atto di tutte le potenzialità creaturali, verso l’assimilazione e l’unione con Dio).
Neoplatonismo e l’Uno
La scuola neoplatonica, nata a partire dalle Enneadi di Plotino, è uno strumento di opposizione alla nuova
dilagante religiosità, soprattutto nei confronti del cristianesimo. I neoplatonici propongono di assicurare un
ritorno all’autonomia e stabilità, sulla base di una sintesi concordistica delle migliori dottrine filosofiche del
passato, da trovare intorno al nucleo dell’insegnamento metafisico di Platone. Nella teoria neoplatonica del
descensus gerarchico, il mondo è emanato, ossia deriva da Dio come il profumo esce da una boccetta
aperta, o come i raggi solari vengono irradiati dal sole. Dall’Uno deriva tutta la realtà molteplice senza che
l’Uno lo voglia, ma si diffonde per sovrabbondanza di perfezione. Quindi, l’Uno dà vita a gradi di realtà
sempre più imperfetti, per via dell’allontanamento e dispersione molteplice, causandone una continua ed
inevitabile corruzione.
La visione cristiana del mondo
Per i cristiani, invece, il mondo è creato da Dio dal nulla, (concetto nuovo perché da Parmenide il non-
essere non è concepibile) la creazione è ontologicamente nuova, non è un tutto eterno come pensavano i
greci. Infatti, la Genesi inizia dicendo “In principio era il nulla”, che sarà ripreso dal Vangelo di Giovanni con
“In principio era il verbo”. Questo assicura l’inalterabile perfezione del principio, nel dare origine al
molteplice, e il fatto che il suo atto sia scaturito volontariamente e in un istante senza tempo. Dio non ha
dovuto creare, ma l’ha voluto (diverso dall’Uno del neoplatonismo), per libera scelta divina. Il creato non è
eterno e necessario, ma è un regno di libertà, ovvero è contingente (può non essere, può essere diverso da
com’è). L’ultima grande differenza, che scaturisce necessariamente dalle prime due, è la provvidenza
divina. Per i cristiani, Dio è provvidente e si prende cura di ciò che ha creato perché l’ha voluto ed è una
cosa buona. Mentre l'escatologia cristiana dà compimento ai due momenti della dialettica neoplatonica, la
discesa (pròodos) e la conversione (epistrophé) come fasi di un processo universale, partecipato da tutto il
creato.
Il concetto del male
Per il neoplatonismo, la materia si configura come il residuo, il punto terminale del processo di derivazione
dall’Uno “come l’oscurità rispetto alla luce”. Il mondo materiale pertanto si configura come la massima
deficienza e imperfezione rispetto all’Uno. La materia, secondo Plotino, non è un’ipostasi, un principio che
esiste indipendentemente, ma soltanto il punto ultimo in cui il fluire di realtà derivante dall’Uno si dissolve
nell’oscurità. Il male presente nel mondo ha soltanto un’esistenza parassitaria, nessuna sussistenza reale,
ma grossolana privazione di essere. Per i cristiani, tutto ciò che è creato da Dio ex nihilo è buono, anche se è
imperfetto (la materia), in quanto unico parametro di bontà è Dio stesso. Il male è inteso allo stesso modo,
come una mancanza di essere e privazione di dignità, non esiste propriamente ma è dipendente
ontologicamente dal bene.
Dio come pensiero esemplaristico
Il rapporto tra Dio e le sue creature si risolve in una metafisica dell’ordine: tutto trova riscontro nelle idee
perfette di Dio, che è un esempio. L’esistere di tutte le creature, infatti, viene fatto dipendere dall’atto di
conoscenza del Verbo (il Logos), principio di intelligenza creatrice, che le progetta nelle sue idee, come
modelli eterni di ciò che è stato e che sarà, e dall’atto di amore volontario, con cui lo Spirito Santo permette
loro di esistere. Il Verbo, dunque, “ha disposto tutte le cose secondo misura, e numero, e peso”, per questo
la ricerca medievale della verità non sarà solo una riflessione sul sacro, ma anche descrizione della divina
dispositio dell’universo in quanto Dio si rivela nella Natura (creata da Dio) e nella Scrittura (parla di Dio).
Il contributo di Porfirio e Calcidio
Un contributo importante alla descrizione dell’ordine del creato viene dato da Porfirio e Calcidio. Porfirio di
Tiro, diretto discepolo di Plotino, ha schematizzato nelle Isagoge la struttura formale della discesa
metafisica del reale: il cosiddetto “albero di Porfirio”. La traduzione latina del Timeo, unico dialogo
platonico ampiamente divulgato nel Medioevo, da parte di Calcidio ha permesso, al mondo cristiano, di
acquisire una visione cosmologica a supporto della metafisica dell’ordine. I tre principi platonici, 1) il
demiurgo, 2) gli esemplari e 3) la materia, prendono le forme dei fondamenti della metafisica cristiana: 1)
Dio Padre, 2) il Logos e 3) le creature. Un’anima universale dà vita al mondo, traducendosi nella presenza
vivificante dello Spirito Santo e, dalle idee divine, scaturiscono le forme inferiori che, congiungendosi alla
materia, danno origine agli individui. Saranno poi il neoplatonismo arabo e il platonismo ebraico di
Avicebron ad arricchire questo complesso sistema di descrizioni dell’ordine cosmico.
La Trinità
Quello cristiano è un Dio uno e trino, ovvero tre persone partecipi di un'unica natura divina: c’è una
distinzione tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Gesù parla di un Dio Padre che è altro da sé e si relazione con
Lui, pur avocandosene la stessa natura, Lui è il figlio di Dio. Dopo la sua morte, nel giorno della Pentecoste
arriva lo Spirito Santo come un soffio, lo pneuma, e nonostante tutti parlassero in lingue differenti
riuscirono a capirsi. Al contrario, l’eresia critica la Trinità in quanto Dio è uno solo, inoltre, Dio non poteva
né soffrire né morire sulla croce: Gesù era solamente un uomo normale, in ottimi rapporti con Dio. Ma il
Vangelo mostra che in Gesù c’è pienezza di divinità, perché Gesù è figlio di Dio legato al Padre da un legame
d’amore: lo Spirito Santo. La Trinità non è un dogma arbitrario e questo ha distinto il cristianesimo da tutte
le altre dottrine nessuna divinità è così dinamica.
La gnoseologia di Proclo
La dottrina della conoscenza di Proclo, neoplatonico del V secolo, sarà importante per il pensiero
medievale; la sua dottrina riprende la tripartizione propria della dottrina gnoseologica platonica in: 1)
aisthesis (il senso empirico), 2) diànoia (la ragione dialettica, che opera le distinzioni e le mediazioni
dell'intelletto) e 3) nous (l'intelletto, capace di cogliere la verità mediante un'intuizione totalizzante). Le
opinioni dei filosofi sono state in contraddizione perché, pur essendo legate all’incompiutezza del sapere
dianoetico, hanno preteso di valere come se fossero state portatrici di una visione perfetta della realtà.
Cristiani e neoplatonismo
Facendo propria la tripartizione neoplatonica della conoscenza, i “nuovi” filosofi cristiani propongono,
invece, una subordinazione delle ricerche umane alla Bibbia, forti del loro strumento in più rispetto ai
neoplatonici. La ragione dianoetica, solo lasciandosi guidare dalla verità rivelata, diventerà partecipe di una
manifestazione totale del vero.
Il principio della tradizione
Per contrastare l'eccessiva libertà nell'interpretazione dei testi da parte degli eretici, il magistero
ecclesiastico ha fondato il principio della tradizione. Così da stabilire come attendibili, solo le interpretazioni
dei testi che non hanno elementi di discordia con i grandi autori del passato e con le formule sancite dalle
assemblee conciliari.
Insegnamento catholicum
Nella prima metà del V secolo tale principio del tradizionalismo è stato formalizzato in una formula da
Vincenzo di Lèrins: il requisito fondamentale che un insegnamento deve possedere per essere catholicum,
ossia universale, è di essere stato “creduto dovunque, sempre e da tutti”. Il che vuol dire che ogni
progresso speculativo deve essere riconosciuto, solo in quanto concorde con l’insegnamento dei Padri
(consensus unanimis Patrum) e con l'insegnamento della tradizione ecclesiastica universale (principium
magisterium Ecclesiae).
Litterae humanae e litterae divinae
Il nuovo programma filosofico-teologico si fonda sul binomio scriptura-natura, ossia compendia la
comprensione del dato rivelato e lo studio dei fenomeni naturali. Entrambe le attività sono improntate alla
conoscenza umana di Dio, partendo e dall’auto-rivelazione del mistero e dall’ordine imposto all’universo
dalla provvidenza divina. La comprensione del dato scritturale non può prescindere dalla Bibbia e dalle
interpretazioni patristiche, mentre la lettura del dato naturale dipende dalle competenze scientifiche, ma
anche complementari, in accordo con l’interconnessione tra fede e ragione. Una corretta esegesi biblica
non può prescindere dall’osservanza del dato naturale, ma allo stesso tempo le discipline naturali devono
subordinare il loro esito a quello della fede, che è l’ultima regula della loro veridicità (regula fidei).
Virgilio e Cassiodoro
Secondo un'immagine di Virgilio Grammatico, gli intellettuali cristiani devono ordinare i propri libri (cioè la
propria conoscenza) in due differenti biblioteche, separando così le scienze dalla teologia. Anche
Cassiodoro, articolando le sue Institutiones, espone una manualistica della sapienza cristiana in due serie
parallele di trattazioni separate: Institutiones divinarum litterarum (la scienza della Rivelazione) e
Institutiones humanarum litterarum (la scienza e le arti umane).
Secondo i medievali, il sapere umano dev’essere rigidamente organizzato e, con il supporto di questa
duplice biblioteca, compilano il sapere in forma di institutio. Da intendere come la creazione di un manuale
di sapienza teologica, formale e completo, mediante la composizione di una lectio con i risultati delle
indagini scientifiche e filosofiche.
Le sette arti liberales
Gli studi profani vengono organizzati da Varrone, anche se è Agostino il primo a darne testimonianza con
l’avvento delle sette arti liberales. Queste discipline sono disposte in senso progressivo ascendente, a
partire dalle realtà più visibili fino a quelle meno visibili, al vertice dei quali si colloca il definitivo possesso
della filosofia; si raggruppano in due parti:
 il trivio (ars discendi), che è orientato alla comprensione e allo studio delle regole del linguaggio umano
e della sua capacità di esprimere il vero. Si articola in 1) grammatica (i fondamenti del significato del
linguaggio), 2) logica (l'ars artium che ha il compito di dettare le regole che servono a discernere il vero
dal falso) e 3) retorica (lo studio degli elementi formali atti a persuadere l'ascoltatore o il lettore).
 il quadrivio (definizione di Boezio), che riguarda la descrizione rigorosamente quantitativa della
struttura intima dell'esistente. Si divide in 1) aritmetica (lo studio del numero in sé), 2) geometria (lo
studio del numero esteso nello spazio), 3) musica (lo studio teorico delle relazioni tra suoni) e 4)
astronomia (lo studio del numero nello spazio e nel tempo, cioè nel movimento).
Lo studio delle discipline
L’insegnamento di ciascuna disciplina avveniva attraverso lo studio di uno o due autori classici, che erano
considerati i fondatori di quella data disciplina, o mediante lo studio di sintesi, che potessero compendiare
le opere in una forma più fruibile. Tra queste, la più celebre è il De Nuptiis Philologiae et Mercurii di
Marziano Capella: un manuale in nove libri che riassume integralmente le competenze di ciascuna
disciplina. Quest’ultime sono personificate e invitate tra gli dei olimpici in qualità di damigelle di onore alle
nozze di Mercurio, l’intelletto divino, e Filologia, l’intelligenza umana che indaga l’ordine del cosmo. Questa
cornice è utilizzata metaforicamente dai cristiani per giustificare la veste pagana, ossia lo studio delle arti
pagane a favore di quelle teologiche, con l’assunzione della Filologia tra i numi. La lectio si svolgeva così: il
maestro leggeva un testo e poi spiegava agli studenti i tre livelli di senso, ossia la 1) littera (la
comprensione), il 2) sensus (il significato immediato) e la 3) sententia (il significato globale con rimando). Il
commento inizia come glossa sulla riga, poi sui margini (glossa interlineare o glossa marginale).
La tecnica della glossa
A partire dai classici di ogni disciplina (Donato e Prisciano per la grammatica, Aristotele per la logica,
Cicerone per la retorica, Euclide per la geometria e così via) si consolida la tecnica della glossa, ossia il
commento ragionato al testo che, partendo da una postilla a margine, può diventare esso stesso un testo.
Le arti sono infatti essenziali per comprendere il testo biblico, formato da parole, argomentazioni, forme
retoriche e costanti rimandi alla numerologia e all'ordinamento del mondo visibile. Tali glosse svolgono così
una funzione di guida alla lettura continua del testo, pertanto, la capacità organizzativa diventa sempre
maggiore e le sette arti divengono sostegno e produzione della vera philosophia: come sintesi di fede e
ragione.
Le due illuminazioni della conoscenza
Le ars permettono di comprendere il linguaggio biblico e fanno risalire l’organizzazione del mondo
all’immutabilità della logica e dei numeri. Dunque, le arti non sono state fissate per convenzione, ma sono
state riconosciute come regole in natura, frutto di un’intelligenza razionale superiore: l’intelligenza umana
anticipa e sostiene la verità divina, anche se non può mai sostituirsi ad essa. La certezza della conoscenza è,
infatti, un dono divino per effetto di un’illuminazione divina, ossia di una luce divina che si accende nella
nostra conoscenza (simile alla dottrina platonica della reminiscenza, senza dover presuppore però
un’esistenza dell’anima anteriore al corpo). Accanto all’illuminazione soprannaturale, esiste anche quella
naturale, che si realizza mediante lo studio e la pratica delle arti liberali. Dunque, la conoscenza teologica
nasce dalla confluenza della luce intellettuale e della luce della grazia.
La nascita della teologia
Nascono, inoltre, le “arti teologiche” (retorica sacra, aritmetica simbolica, tecnica esegetica), che vanno a
costituire la disciplina che sarà chiamata theologia: elaborazione metodologica della conoscenza della fede.
Il sapere cristiano assume, dunque, un ambito di indagine autonomo, dotato di uno specifico oggetto, di
uno statuto scientifico e di un metodo peculiare. Per questo motivo, anche la teologia, proprio come le arti
liberali, viene analizzata, sistemata, antologizzata e riassunta. Nascono così diversi piani di lettura perché il
testo sacro è sempre accompagnato da una rielaborazione dei Padri:
 il piano logico- descrittivo, argomentativo, deduttivo e definitorio.
 il piano della spiritualità interiore, che coinvolge i fedeli tramite la preghiera e la liturgia in genere.
 il piano dell'espressione poetica, che tocca l'intimità emotiva dei fedeli.
 il piano simbolico, in cui lo studio del testo è foriero di significati.
Questi piani non sono mai rigidamente distinti, ma spesso sono presenti in un’unica opera o in un unico
autore, dunque, coesistono e si intersecano.
La teoria della doppia creazione
Nel Libro della Genesi vengono presentati due differenti tipi di racconti sulla creazione:
 Genesi 1 racconta l’opera canonica della creazione divina svolta in 7 giorni, in cui alla fine “Dio vide
quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”.
 Genesi 2 riporta il racconto dell’albero del bene e del male, spiegando perché l’uomo è anche
malvagio se Dio ha creato una cosa buona. Dio ha creato il mondo simile a lui, solo meno perfetto, è
l’uomo che l’ha rovinato, accettando la tentazione del serpente e cadendo nel peccato.
Dal molteplice all'unità
Nel Libro della Genesi troviamo il racconto della torre di Babele: in principio tutti gli uomini comunicavano e
si comprendevano reciprocamente, e solo dopo che la loro arroganza li ebbe portati a innalzare la torre che
furono puniti con la moltiplicazione dei linguaggi. Un vescovo del IV secolo, Filastrio di Brescia, annovera in
un elenco di eresie coloro che interpretano quel racconto pensando che tutti gli uomini parlassero una sola
lingua. Filastrio sosteneva infatti che in origine fossimo in grado di comprendere ogni lingua (senza con
questo parlare tutti la stessa), dono divino che ci venne poi negato dopo l'empietà babelica. Affermare che
già prima disponessimo di un linguaggio unico porrebbe su un piano inferiore il ruolo della Chiesa
nell'unificare i popoli sotto la propria guida. Con l’avvento dello Spirito Santo, nel giorno della Pentecoste,
gli uomini tornano a comprendersi: tutti gli apostoli parlavano aramaico, ma coloro i quali li ascoltavano li
sentivano parlare nella propria lingua, permettendo loro di portare ovunque il messaggio di fede e
comunicandolo senza fatica. Questo perché il messaggio di Dio è comprensibile da tutti. I medievali
aspirano, dunque, ad un’unità nel linguaggio in quanto questa riflette l’unico ordine di Dio. Per i medievali,
quindi, il linguaggio è il riflesso dell’ordine della realtà attraverso le parole. Questo dev’essere, allora,
neutro e comprensibile da tutti.
La filosofia del linguaggio e l’unità linguistica
La filosofia del linguaggio più di altre discipline si occupava, nel Medioevo, di avvicinare umano e divino,
ovvero parole umane e verità rivelata. In questo contesto, l'unità linguistica è fondamentale per la
diffusione del messaggio: da qui l'inammissibilità delle traduzioni della Bibbia in lingue diverse dal greco e
dal latino. Per quanto riguarda il greco, tradizione vuole che settantadue ebrei bilingue lavorarono, in celle
separate, alla traduzione della Bibbia dei Settanta, producendo traduzioni esattamente identiche, grazie
all’opera dello Spirito Santo. Per quanto riguarda il latino, invece, si diffuse la Vulgata, la cui attendibilità è
consacrata dall’autorevolezza del traduttore Girolamo. Latino e greco saranno le uniche due lingue
ammesse nelle funzioni istituzionali. L’esigenza di una coesione linguistica è dimostrata anche dallo sforzo
degli intellettuali latini di studiare, aldilà della polisemia, i principi rigorosi alla base della grammatica, della
dialettica e della retorica come riflesso di una corrispondenza tra le res conoscibili. Infatti, vi dev’essere
armonia tra l’ordo rerum (res), l’ordo idearum (pensiero) e l’ordo verborum (linguaggio): manifestazione
del Logos. La realtà è ordinata in quanto frutto di un disegno intelligente e il linguaggio è espressione
ordinata di questa realtà, e le parole sono il segno più naturale che conduce l’intelligenza alla sua
comprensione.
Le parole e le immagini come signa
Le parole sono signa, conformemente alla definizione che Agostino dà di signum: “una cosa che,
considerata a prescindere dalla dimensione corporea con la quale si presenta ai sensi, introduce nel
pensiero qualcosa di altro e di diverso, che è da essa stessa suggerito”. Questa definizione di signum si
applica, in prima istanza, ai sacramenti: segno efficace dell’azione della grazia divina e intervento
soprannaturale di Dio. Per esempio, attraverso il battesimo la persona vecchia muore e nasce un nuovo
cristiano, i medievali utilizzano la semantica per giustificare i sacramenti. La loro realtà materiale è, dunque,
finalizzata ad evidenziare al credente la presenza di realtà spirituali nascoste. Parlare è una forma di
insegnamento, che permette di condividere l’apparire della verità. Infatti, parlare di Dio è, in realtà, un
parlare con Dio, una strada per conoscere il vero nella misura in cui è concesso. Parlare e comprendere il
significato delle parole, sono gli strumenti più diretti per accostarsi alle regole eterne che governano la
realtà. Tuttavia, signa di Dio non sono solo le parole, ma tutte le opere della sua creazione. Dio stesso ha
impartito un insegnamento agli uomini, parlando loro mediante i segni disseminati nella natura e quelli
rivelati nella Scrittura. Tutte le creature sono immagine di qualcosa, e tra queste l’uomo è il signum più
significante del creato. L’uomo è signum di Dio in quanto è stato creato a sua “immagine e somiglianza”.
Filosofia del bello
Ogni creatura è come una parola che rimanda a qualcosa di superiore, ed è come un’immagine che
rappresenta qualcosa di eterno. Dunque, la verità delle forme divine è da ricercarsi nelle bellezze
particolari, poiché il bello diventa strumento per raggiungere il Sommo Vero e il Sommo Bene. Per i
medievali, la bellezza è compiutezza e organicità, dal momento che la realtà è governata da leggi di bellezza
(pulchritudinis leges) imposte da Dio. Infatti, se la verità e la vita del corpo sono nell’anima, la verità e la
vita dell’anima sono in Dio, che parla attraverso i segni disseminati nella propria creazione, riconducendo
l’esteriorità del molteplice a forme perfette e unitarie. Dunque, l’uomo sarà tanto più artista quanto riuscirà
a imitare non la corporeità dell’oggetto, bensì, le leggi stabili dell’universo a cui quello stesso oggetto
appartiene. Dunque, secondo l’estetica medievale, il mondo è bello perché Dio l’ha fatto come cosa buona.
Il mondo è bello perché c’è un ordine gerarchico: ogni cosa è al suo livello, proprio come Dio l’ha pensata.
Come scrive Agostino, saranno colpiti da una grande bellezza coloro i quali comprendono autenticamente
le parole del Prologo di Giovanni sul Verbo: “bello è il Verbo, bello è Dio che lo concepisce e lo annuncia,
bello è il suo incarnarsi nelle forme del creato”. Ogni cosa nella sua singolarità e nella sua totalità si
conforma al Verbo, un’unica legge dominante che va colta e nelle parole e nelle res, poiché tutto ciò che è
creato esprime il valore della volontà divina.
La morale medievale
La giustizia è, per i medievali, l’accordo del singolo con l’ordinata armonia complessiva del cosmo. Infatti,
come scrive Ugo di San Vittore, “un’anima corrotta e deturpata tornerà ad essere bella quando, con l’aiuto
del Redentore, si rivolgerà ad apprezzare il giusto ordinamento del mondo”. Dunque, anche l’etica segue
una precisa regolamentazione di azioni: la valenza morale di un individuo è come un libro, leggibile da tutti
con chiarezza, in cui le azioni sono le parole del discorso e mostrano la responsabilità dell’individuo.
 virtuosa è ogni azione che riconduce le cose visibili a quelle invisibili, finalizzando l’uso delle prime
alle seconde.
 viziosa è ogni azione che fa vacillare l’equilibrio spirituale dell’individuo sprofondandolo nei
desideri terreni.
La risposta a qualsiasi interrogativo morale si ritrova nel Vangelo: secondo Paolo, Cristo ha liberato l’uomo
dal peccato istituendo per lui una nuova legge di ordine spirituale. E ancora, secondo Agostino, la stessa
vita di Cristo in terra rappresenta la vera disciplina morum, disciplina etica. La morale è, quindi, strumento
al servizio del sapere teologico, che nasce dal rapporto con gli antichi (in particolare Cicerone e Seneca). Ciò
serve per specificare il rapporto tra la morale cristiana e quella latina, e per giustificare la scelta di una vita
contemplativa in opposizione a quella attiva.
La filosofia pratica
Successivamente viene scoperta l’Etica Nicomachea che viene utilizzata per affrontare con rigore i temi
sollevati dall'applicabilità dei precetti cristiani. Per il cristiano la felicità terrena non è sufficiente, ma egli
aspira alla beatitudine ultraterrena: “eudaimonia” fine ultimo di ogni azione per i greci, diventa per i
cristiani “beatitudo”. La “vita beata” di cui parla Cicerone riguardo all'uomo “probus”, ovvero colui che
rispetta le leggi della propria comunità, in ambito cristiano non può che coincidere con la “beatitudo”, la
condizione di vita ultraterrena eternamente felice riservata agli uomini retti. Questo è possibile in quanto la
certezza cristiana di una remunerazione finale proviene da Dio, principio stesso della verità. La Rivelazione
se da un lato ha esplicitato i segreti della natura, dall’altro ha fissato, in comandamenti rigorosi, gli
orientamenti etici della sapienza pagana: c’è corrispondenza tra le norme evangeliche e quelle filosofiche.
Si traducono le azioni individuali in un amore condiviso per la volontà divina, trasformando le motivazioni
particolari dei singoli in leggi universali. Il “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi diviene, in realtà, un
conosci ciò che Dio ha voluto per ogni uomo: chi conosce sé stesso sa che cos’è, per quale fine è stato
creato, in quale ordine di dignità è stato collocato e quale regola di vita gli è stata imposta. Il fine ultimo
delle vicende umane è la coesione di tutte le intenzioni particolari nell’aspirazione alla stabilità del Bene
sommo. Dunque, la societas medievale supera, in prospettiva escatologica, il dualismo “città dell’uomo e
città di Dio” contrapposte per fini e scopi.
Le virtù cristiane
Ha quindi una valenza fondamentale il comandamento evangelico dell’amore per Dio e per il prossimo,
ossia la charitas: amare in Dio gli altri esseri umani e negli esseri umani amare Dio. Questa attitudine al
bene sintetizza tutte le virtù inferiori. Pietro di Blois nel De amicitia chrisitana definisce la charitas come
“lex vitae, disciplina morum [..], il compimento e il riepilogo di tutti i precetti di Dio, la virtù delle virtù e la
ricompensa stessa di ogni atto meritevole”. La moralità ha una funzione ascensionale che, in ambito
pratico, riflette la struttura gerarchica dell’universo medievale. L’ascesa è garantita da una condotta morale
che orienti la coscienza alla contemplazione del Bene: questa condotta è costituita a partire dal rispetto
delle leggi naturali fino al rispetto della volontà divina presente nella Rivelazione, entrambi dettati da un
desiderio insopprimibile di santità. All’interno di questo sistema ascensionale, è decisivo il ruolo delle virtù,
disposte in una completa scala armonica necessaria all'uomo per la realizzazione della propria natura (quid
est) e quindi del compito per cui è stato creato (ad quid factus est). Nel Medioevo sono comparsi numerosi
scritti in cui si propone un elenco delle virtù a stampo porfiriano, cioè ad albero, disposte in una scala di
valori. Queste virtù vengono contrapposte ad altrettanti vizi e riordinate entro il sistema platonici delle
quattro discipline cardinali dell’anima, in cui tutte le varianti sono ricapitolate: prudenza, fortezza,
temperanza, giustizia. Questo schema di base era già noto ai Padri della chiesa, infatti:
• Girolamo fa scaturire da queste quattro virtù altrettanti vizi: timore, desiderio, piacere, dolore
• Ambrogio indica le virtù come mezzo per conciliare l’anima con i supremi dettami della legge eterna,
che altrimenti sarebbero incomprensibili, riflettendo sullo squilibrio che esiste tra l’imperfezione umana
e la perfezione divina
• Agostino esplicita e teorizza la regola della funzione anagogica e ascensionale delle virtù, che permette
il passaggio dal particolare corporeo all’universale intelligibile. La prudenza trova nell’unità un’eticità
maggiore di qualsiasi dispersione, la temperanza sottrae l’anima all’amore della bellezza carnale e
inferiore, la fortezza sconfigge la paura delle avversità e della morte, la giustizia ordina le anime al
servizio di Dio.
Agostino IV-V secolo, vescovo d’Ippona e Padre della Chiesa.
L’adesione al manicheismo
Sin dalla lettura giovanile dell’Ortensio di Cicerone, Agostino, si chiede perché noi uomini siamo soliti fare il
male. La sua adesione al manicheismo deve essere letta come un tentativo di cercare una risposta a questa
domanda; infatti il manicheismo afferma che il male e il bene sono due principi ontologici, contrapposti ed
in lotta fra di loro. Ciò che attrae Agostino nel manicheismo è soprattutto la critica alla rappresentazione
antropomorfa di Dio nell’Antico Testamento. Tuttavia, il manicheismo non soddisfa pienamente Agostino,
in quanto non è possibile, secondo lui, che la sostanza divina subisca mutamenti e perdita di perfezione. Si
convince, allora, grazie anche alle prediche di Ambrogio, che non possono esistere due principi divini
contrapposti: Dio deve essere unico, incorruttibile, immutabile e incorporeo come avevano insegnato già
Platone e Plotino.
Il male metafisico come privazione di essere
Ma se Dio è Sommo Bene, ed è l’unico principio creatore da cui scaturiscono tutte le cose, da dove arriva il
male insito nella creazione? Per Agostino tutto ciò che esiste è bene perché proviene dal Sommo Bene, se
dunque il bene coincide con l’essere, il male dovrà coincidere con il non essere. Inoltre esiste una gerarchia
dei beni, soltanto Dio è Sommo Bene in quanto Essere perfetto e incorruttibile, le cose sensibili invece sono
contingenti e corruttibili. Per via razionale, Agostino, arriva a dimostrare che le cose sono un bene proprio
perché sono corruttibili, infatti, se fossero un male non si potrebbero corrompere. Il male non è altro che
mancanza, quindi il male metafisico, per Agostino, non esiste propriamente, non ha una realtà ontologica
indipendente dal bene (Il male sta all’essere come la cecità sta alla vista).
Il male morale e fisico
Resta da chiarire com’è possibile l’esistenza del male morale (azioni malvagie e vizi) e del male fisico
(sofferenze e dolori). Per Agostino, l’azione malvagia consiste nel dirigere la propria volontà dal Sommo
Bene (eterno) a un bene inferiore (temporale) e amarlo come se fosse il primo; proprio in questo consiste il
peccato, che rende male ciò che di per sé non è male. Orientandosi verso ciò che è inferiore a Dio, la
volontà umana si perverte e si oppone alla volontà di Dio, in essa è dunque l’origine del male. Con il
peccato non si produce del male a Dio, che è incorruttibile, ma a sé stessi e alla creazione, è quello che
fanno i demoni, in definitiva opposizione e separazione da Dio, a causa della loro volontaria perversione.
Dunque, chi commette una colpa ha già la sua punizione, in quanto si priva del Sommo Bene per rivolgersi a
beni mutevoli e corruttibili, mutando e corrompendosi a sua volta. In questo senso il male fisico non è altro
che conseguenza del male morale, una punizione per i peccati commessi.
Perché l’uomo è libero?
Da ciò nasce spontaneo chiedersi il perché Dio ha dato una tale libertà alle sue creature? La risposta di
Agostino a questo problema è, che se l’uomo non fosse libero di agire non si potrebbero definire né buone
né cattive le sue azioni. Inoltre se l’uomo pecca ciò non dipende da Dio, che non ha concesso all’uomo la
libertà per farlo peccare. In riferimento alla prescienza di Dio, che è a conoscenza della possibilità dell’uomo
di peccare, Agostino risponde che Dio prevede sì la nostra azione, ma sempre come dovuta alla nostra
libera volontà: Dio ci lascia liberi di autodeterminarci. Dio prevede, dunque, la volontà come in nostro
potere e, pertanto, la sua prescienza non ci sottrae la libertà. Che l’uomo pecchi dunque non è necessario,
ma possibile in quanto se fosse necessario non ci sarebbe neanche libertà.
Contro lo scetticismo
La conversione al cristianesimo non significa, per Agostino, abbandono della filosofia, bensì, fiducia nel
poter proseguire l’indagine intellettuale con l’aiuto di Dio. Contro lo scetticismo accademico, Agostino
ricorre alla citazione biblica “Cerca e troverai”. Nello scritto De libero arbitrio Agostino afferma che chi
esercita il pensiero deve per forza esistere e vivere: “tu sai di esistere e di ciò non puoi dubitare, perché se
tu non esistessi, non potresti neppure essere ingannato” compendiata nella celeberrima frase “si fallor,
sum” (se m’inganno, esisto e ho la certezza di esistere). Ogni dubitare presuppone l’esistenza e la vita,
dunque, il dubbio scettico sull’esistenza viene in tal modo a dissolversi. La garanzia della verità è da
ricercare, secondo tale argomentazione, non nel mondo esteriore ma nella propria interiorità. Dentro di sé
l’uomo ricava un nocciolo di verità, del quale non può ulteriormente dubitare.
L’anima e il corpo
Nello scritto Sulla vera religione Agostino, afferma che la verità è eterna, una ed immutabile, essa è la
Parola di Dio che continua a sussistere anche nell’ipotesi che il mondo vada distrutto. Infatti la verità si
determina anche fuori i confini del tempo: sarà vero che il mondo è andato distrutto, anche se il mondo è
stato distrutto. Come per i platonici, anche per Agostino, l’anima è immortale ed è il soggetto della
conoscenza ed essenza dell’uomo. Il mondo sensibile non ha autonomia è soltanto immagine del mondo
intelligibile, al quale solo l’anima può accedere essendo indipendente dal corpo. Questa impossibilità di
conoscenza diretta viene interpretata da Agostino, come il risultato della caduta nel peccato, a causa del
quale non ci è possibile conoscere neanche noi stessi pienamente; la separazione tra Dio e l’uomo è
colmata dalla Bibbia.
La dottrina dell’illuminazione
Per Agostino la vera conoscenza si può realizzare solo all’interno, dove l’anima può entrare in contatto con
Cristo “la luce del mondo” che “illumina ogni uomo che viene in questo mondo”. Grazie a questa luce
l’anima umana può recuperare, in un processo di reminiscenza, le verità immutabili ovvero le idee divine,
che Agostino chiama “regole eterne” (gli universali). Contrariamente a quanto aveva sostenuto Platone,
però, le idee non hanno una realtà ontologica indipendente, ma esistono nel Logos come modelli delle
creazioni delle cose. Per Agostino la ricerca di Dio e quella dell’anima sono la stessa cosa, come detto
l’anima, grazie a Cristo, partecipa della luce intelligibile che ha il suo fondamento in Dio stesso. Di
conseguenza l’anima che conosce sé stessa, può riconoscere in sé Dio come sua origine “non andare fuori
di te, ritorna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità”.
L’interiorità e Dio
Emerge in tal modo uno spazio in cui l’anima e Dio sono soli e l’anima può rivolgersi direttamente a Dio.
Agostino nelle Confessioni riprende la forma dialogica, ma la trasforma in un dialogo diretto fra l’uomo e
Dio, il pensiero diventa il luogo in cui poter parlare con Dio e la domanda filosofica diventa preghiera. Le
Sacre Scritture allora possono essere usate come la Parola, in risposta alle domande che Agostino pone
direttamente a Dio. Non è dunque più la filosofia ad essere la terapia dell’anima, come sostenuto da
Epicuro, ma Dio stesso che parla attraverso la Scrittura, “ci hai fatti per te Signore, e il nostro cuore non ha
posa finché non riposa in te”.
Eternità e tempo
Il punto di partenza del problema del tempo parte dalla Genesi, che presenta la creazione del mondo come
atto volontario da parte di Dio, articolato in una successione di opere. Ma se tale volontà emergesse in un
susseguirsi di eventi determinati, come da racconto, si dovrebbe ammettere che Dio in precedenza era
privo della volontà di creare, e quindi di sostanza mutevole. Se dall’altra parte si ammette che la volontà di
Dio sia eterna, sarà eterno anche tutto ciò che è creato da questa volontà: con la conseguenza dell’eternità
del mondo in contrasto con il concetto di creazione. Agostino risponde che l’errore sta nel pensare
l’eternità divina partendo dalla nozione umana di tempo, che include passato e futuro, come prova
l’assurda domanda: “che cosa faceva Dio prima di creare il Cielo e la terra?”. La risposta di Agostino è che:
“Dio prima di fare il Cielo e la terra non faceva alcunché”, infatti, la domanda presuppone Dio come
soggetto al tempo, mentre Egli si trova al di fuori del tempo, nell’eternità appunto, che è come una
simultaneità. Con la creazione del mondo Dio crea anche il tempo, che quindi non esisteva prima; eternità e
tempo si escludono a vicenda.
Il cielo e la terra
Dio crea istantaneamente, in una simultaneità, attraverso il Verbo, ma cosa significa che: “In principio Dio
creò il cielo e la terra”? Per Agostino, il cielo corrisponde alla sostanza spirituale definitivamente formata,
ovvero gli angeli, che sono come fra l’eternità e il tempo. Il fatto di essere fissi in Dio dà agli angeli una sorta
di immutabilità, tuttavia, rimangono mobili per natura. La terra corrisponde alla sostanza materiale,
assolutamente priva di forma, opposta a quella spirituale, ed è il sostrato che viene informato a partire
dalle idee divine. Per Agostino, secondo la teoria delle ragioni seminali, tutte le cose contengono come dei
germi latenti che rendono possibile il loro sviluppo, dunque, la creazione è compiuta da Dio interamente fin
dal principio. Il divenire incessante dell’universo, in cui tutti gli esseri viventi nascono e periscono, è
percepito dall’uomo come incompiuto perché soggetto alla temporalità, mentre in Dio tutti gli esseri
esistono simultaneamente. Agostino fa l’esempio del discorso che si sviluppa in una successione di suoni,
pertanto, non si avrebbe un discorso completo e sensato, se ogni parola non sparisse per lasciare il posto
alla successiva, dopo aver espresso la sua parte di suono. Questa è la limitazione della natura umana dove
tutto è soggetto alla temporalità, in Dio, invece, il Logos è eterno e ogni Parola non passa mai.
La sostanza del tempo
Da qui Agostino parte ad indagare la sostanza del tempo, che sembrerebbe ovvio considerare come la
somma di passato-presente-futuro. Ma il passato non è più e il futuro non è ancora, dunque, soltanto del
presente si può dire propriamente che è. Ma se il presente fosse sempre attuale, allora, sarebbe l’eternità,
pertanto, il presente si determina solo in virtù del passato e del futuro. Da queste considerazioni si può dire
che il tempo tende al non essere, quindi che sia privo di una realtà ontologica, ma questa nozione
contraddice l’esperienza in cui possiamo percepire il tempo e addirittura misurarlo in intervalli. Agostino
capovolge la prospettiva di assumere i moti dei corpi celesti come determinazione dello scorrere del tempo,
è piuttosto il tempo ad essere la determinazione del loro movimento.
Il tempo come distensio animi
Per cogliere la vera realtà del tempo occorre di nuovo “rientrare in sé stessi”, nella propria anima, in modo
particolare nella facoltà della memoria, in cui eventi passati-presenti-futuri sono solo in quanto sono
“presenti” in essa. Così il tempo si viene a determinare come una distensio animi, le tre dimensioni del
tempo non sono altro che tre affezioni del distendersi dell’anima. Dunque, ciò che viene misurato
dall’anima non sono le cose nel loro trascorrere, ma le affezioni che esse lasciano e che permangono in essa
anche quando sono trascorse: il passato è il ricordo, Il presente è l’attenzione del momento e il futuro è
l’attesa. In conclusione si può dire che se non ci fosse l’anima, non ci sarebbe il tempo.
Ragione e fede
La ricerca di Dio coinvolge l’intera dimensione affettiva dell’uomo e avere fede significa credere in Dio,
amarlo e desiderare di far parte della Chiesa. Tra i due poli della razionalità e della fede non esiste alcun
tipo di contrasto, infatti, Agostino cita sovente il detto del profeta Isaia: “se non crederete, non
intenderete”. Tuttavia, chi pensa non necessariamente crede, mentre chi crede necessariamente pensa, in
questo senso la ragione precede la fede nel processo conoscitivo e nella stessa comprensione di Dio.
Agostino, sottolinea il fondamento euristico della fede proclamando: “credo ut intelligam, et intelligo ut
credam” (credo per comprendere, e comprendo per credere). Sono gli enunciati di fede, espressi nella
Rivelazione, che vengono in aiuto e indicano alla ragione dove vada cercata la soluzione ai problemi.
Dunque, tanto la filosofia quanto la teologia raggiungono una forma compiuta quando coincidono nel
perseguimento del loro oggetto: Dio, supremo bene e verità.
La tripartizione dell’anima
L’esperienza che l’anima fa di sé, nella propria interiorità, consente di raggiungere conoscenze che possono
illuminare la natura stessa di Dio. In questa esperienza di sé è riscontrabile una tripartizione dell’anima in
memoria, intelligenza e volontà, alla quale corrisponde una tripartizione tra essere, sapere e amare. Le tre
dimensioni dell’anima non sussistono indipendentemente l’una dall’altra, ma sono ciò che sono in virtù
delle relazioni reciproche intercorrenti tra loro, dunque, non costituiscono tre res separate ma una sola.
Allora, l’unità dell’anima umana, nell’insieme delle sue articolazioni dinamiche, risulta essere a immagine di
Dio stesso uno e trino: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Il mistero della Trinità
Tuttavia, l’analogia tra l’anima e la Trinità è soltanto parziale, perché nell’uomo le tre dimensioni non sono
tre persone, come in Dio, ma una sola. Inoltre, bisogna identificare in Dio due piani di realtà: l’ad semet
ipsum (l’unica identica sostanza assoluta) e l’alterum (la relazione delle tre persone divine). In Dio la
relazione non è un accidente, come lo è per l’uomo, perché non diviene, pertanto, la dottrina delle
categorie aristoteliche non è applicabile. Le proprietà divine fanno un tutt’uno inscindibile con la sua
sostanza, assoluta e immutabile, per questo ogni predicazione accidentale risulta impossibile. Per questo
provare ad accostare la ragione umana a questo mistero è infattibile, in quanto significherebbe accettare
logicamente l’identità tra assoluto e relazione in Dio, cosa totalmente assurda e irragionevole. Agostino,
allora, cerca dei paragoni: se il Padre è il generante, il Figlio il generato e lo Spirito procede da entrambi,
tale relazione è conoscibile soltanto in parte, accostando la Trinità al mistero dell’amore ricorrendo
all’analogia dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore. La creazione del mondo stessa è opera comune delle tre
persone divine, non soltanto del Logos. Occorrerebbe, dunque, concludere che a incarnarsi è la stessa
Trinità, ma su questo punto Agostino arresta la sua indagine, riconoscendo che la questione è oscura.
La concezione di felicità
Agostino viene accentuando l’accusa di superbia contro i filosofi stoici e platonici, che hanno preteso di
raggiungere la virtù e la felicità secondo le proprie forze. Agostino intende la felicità come un carattere
immodificabile della natura umana, dal momento che rappresenta il fine di ogni agire. Per Agostino è la
volontà che usa, rispetto al cui uso si dividono: i mezzi, di cui ci si serve (uti) per raggiungere altre cose,
oppure i fini nei quali ci si acquieta e ne si gode (frui) una volta raggiunti. Ma dei beni mutevoli e corruttibili
non è possibile godere in quanto instabili, soltanto di Dio Bene immutabile e incorruttibile è possibile un
godimento stabile. Dunque, per Agostino, ciò che conduce alla felicità è possedere Cristo che è la saggezza
e la misura di tutte le cose. Per questo fondamentali, al centro dell’esperienza cristiana, sono l’incarnazione
e la resurrezione di Cristo, da cui non dipende solo la redenzione, ma anche la felicità in una sperata vita
futura.
Il ruolo della Chiesa
Nell’opera della redenzione la Chiesa svolge un ruolo essenziale, di mediazione tra l’uomo e Dio, essa è
un’organizzazione per le grandi masse, inclusi i peccatori. Il contrario di quanto pensano i donatisti secondo
cui la Chiesa, essendo santa, deve essere una comunità di soli eletti che evita la mescolanza con gli impuri.
Per Agostino, inoltre, determinati atti ecclesiastici, come la somministrazione dei sacramenti (eucaristia e
battesimo), sono validi indipendentemente dalla condizione morale di chi li compie. Infatti è Cristo che dà
efficacia al sacramento anche se il sacerdote, attraverso cui Egli opera, è peccatore il sacramento ha
comunque effetto.
Il peccato originale e la grazia divina
Nell’ultima fase della vita, Agostino, si va via via persuadendo che la volontà umana non gode di completa
libertà, rinnegando così le sue posizioni precedenti. Infatti, sull’agire umano esercita la grande forza
dell’abitudine, fondata sul ricordo del piacere e amplificata dalla memoria. In Agostino, diviene dominante
la convinzione che la salvezza dell’uomo, dipende esclusivamente dalla grazia concessa da Dio. Per
Agostino, la stessa fede, condizione necessaria per la salvezza, può nascere nell’uomo solo per mezzo della
grazia divina, prima che essa venga concessa la volontà non è propriamente libera. Infatti, in seguito al
peccato del progenitore, l’umanità è diventata “una massa dannata”. Per spiegare tale trasmissione,
Agostino, ricorre al traducianesimo, secondo cui l’anima è trasmessa dai genitori insieme con la
generazione del corpo. Viene così accentuato il disprezzo per la sessualità, in quanto è a causa della
concupiscenza che tutto ciò che si genera partecipa al peccato originale. Solo Cristo ne è rimasto immune
nascendo da una vergine, incontaminata dall’atto di concupiscenza, così come solo Dio può redimire, nella
sua misericordia, la natura umana maledetta. L’umanità è uscita come menomata dal peccato originale,
infatti, anche dopo il battesimo il cristiano resta un invalido bisognoso di guarigione. Questa è la condizione
umana in cui molti sono i dannati e pochi sono gli eletti.
La disputa contro Pelagio
Il suo avversario Pelagio, sosteneva l’uomo essere creato da Dio totalmente libero e responsabile delle sue
azioni, e che il peccato commesso da Adamo non poteva aver distrutto tale libertà. Quindi, secondo
Pelagio, non esiste propriamente il peccato originale, trasmesso a tutti gli uomini ereditariamente. Ogni
uomo è responsabile dei propri peccati, ed è in grado di acquisire la salvezza mediante le proprie forze e
opere buone, senza che sia necessario l’intervento della grazia divina. Agostino si oppone fortemente,
secondo lui, la libertà non significa possibilità di scegliere se compiere il bene o il male, ma l’essere slegati
da tale scelta; divide così le tre condizioni:
 adamitica, prima della caduta, consistente nel poter peccare e non peccare.
 umana, dopo la caduta, consistente nel non poter non peccare.
 eletta, per mezzo dell’intervento della grazia divina, consistente nel non poter peccare.
La vera libertà coincide con la condizione eletta, quella di essere liberi dal peccato e dalla possibilità della
scelta. La volontà che è veramente libera possiede la caritas, che fa aderire saldamente al Sommo Bene
unendosi a Lui, senza più rivolgersi ai beni molteplici inferiori. La dottrina della grazia è strettamente
connessa a quella della predestinazione, secondo cui è Dio che stabilisce coloro che si salvano e coloro che
sono dannati. Dio non induce nessuno a fare il male, ma coloro che sono privati della sua misericordia non
possono non peccare. Tuttavia il singolo non è certo della sua salvezza o meno, ciò contribuisce a far
assumere un atteggiamento combattivo.
Teologia della storia
Alcuni intellettuali pagani sostenevano che da quando erano apparsi i cristiani, gli dèi avevano abbandonato
la terra e il mondo era andato in rovina, flagellato da epidemie, guerre e carestie. Per controbattere queste
accuse, Agostino, scrive il De Civitate Dei, il cui centro è la Provvidenza divina che fa nascere e perire gli
imperi, configurando così una teologia della storia nel senso che le vicende storiche dipendono da un
ordinamento voluto da Dio, articolato in quattro momenti salienti:
1. creazione del mondo.
2. peccato originale.
3. incarnazione e resurrezione di Cristo.
4. giudizio finale.
Agostino ritiene che la storia abbia una durata limitata, egli rifiuta la dottrina ciclica dello stoicismo, in
quanto se così fosse non si potrebbe essere felici in modo stabile e duraturo. La vicenda umana ha un
andamento escatologico, che sfocia in un evento finale ultraterreno, l’unico in grado di garantire la felicità
eterna.
Le due città
Il filo storico è dato dalla lotta tra due regni, quello del bene e quello del male, che coesistono intrecciati e
confusi tra loro. Agostino opera la distinzione in due città, la cui appartenenza all’una o all’altra dipende
soltanto dalla grazia divina.
 La città di Dio, retta dall’amor Dei, costituita da uomini giusti che vivono secondo lo spirito in
conformità alla volontà divina. Essa non coincide con tutti coloro che fanno parte della Chiesa visibile,
poiché non a tutti Dio elargisce la sua grazia. La vera Chiesa è quella dei puri e sarà manifestata soltanto
nel giorno del giudizio finale.
 La città terrena, dominata dall’amor sui, costituita da uomini ingiusti che vivono secondo la carne e si
oppongono alla volontà divina. Da non identificare con lo Stato, ma piuttosto con la società che venera i
falsi dèi pagani, i demoni, una sorta di “città del diavolo” fondata sul desiderio e sulle passioni.
Solo Dio “che vede nel segreto” sa dove passano i confini fra le due città, che saranno messi in luce nell’ora
del giudizio finale, dove gli abitanti della città di Dio saranno salvati e gli altri condannati.
La svalutazione dello Stato
Sullo sfondo della sua concezione negativa dell’umanità in quanto segnata dal peccato, si comprende anche
la svalutazione del governo terreno, sintetizzabile nella celebre espressione: “Tolta di mezzo la giustizia, che
cosa sono i regni, se non grandi latrocini?”. Agostino ammette la liceità del dominio dell’uomo su altri
uomini, in quanto questo è diventato necessario con la caduta di Adamo, l’autorità e l’obbedienza sono
necessarie per impedire violenze reciproche. Tuttavia non sarà mai possibile conquistare la vera pace,
quella raggiunta in terra, infatti, è soltanto strumentale ed effimera, conseguita attraverso l’imposizione
forzata. Solo la resurrezione finale apporterà la risoluzione di ogni conflitto tra la carne e lo spirito e tra il
genere umano. Allora si realizzerà pienamente la vera pace e la vera libertà, e finalmente il bene trionferà,
alla scomparsa della storia, nel “sabato che non ha sera”.

Severino Boezio V-VI secolo, console alla corte del re Teodorico.


Tentativo di traduzione
L'opera di traduzione e commento di Boezio è fondamentale per la conservazione e la trasmissione, al
mondo latino, della cultura filosofica greca. Il suo programma consiste nel tracciare un percorso completo
del pensiero a lui precedente, in ogni sua articolazione. L'obbiettivo che si è infatti prefissato, come si legge
nel secondo commento al De interpretatione, è di tradurre tutte le opere platoniche e aristoteliche per
mostrare che le loro teorie, contrariamente a quanto sostenuto dai più, siano concordi e convergenti.
Progetto non inedito, infatti, già i neoplatonici e i cristiani influenzati dal neoplatonismo avevano tentato di
mostrare l'inconsistenza di un contrasto tra i due grandi filosofi greci.
Logica vetus
Partendo dalla traduzione dell'Organon e arrivando a testi propri sul sillogismo, la logica boeziana ha avuto
un’influenza immensa nella storia del pensiero medievale, oltre ad essere l'unico ambito in cui il progetto di
riconciliazione filosofica tra Platone e Aristotele ha avuto compimento. Le sue opere sono state conosciute
come Logica vetus (una sintesi di logica aristotelica, stoica e neoplatonica), in opposizione a quella di
Aristotele che è stata definita Logica nova. Grazie a Boezio la terminologia logica aristotelica passa alla
lingua latina, e la tradizione filosofica medievale ne assimila le predicazioni fondative, dette quinque voces:
1) atto (actus), 2) potenza (potentia), 3) principio (principium), 4) universale (universale), 5) contingente
(contingens). Inoltre si dedica allo studio del quadrivio, grazie a cui “l'occhio dell'anima si libera attraverso
quattro gradi”, sollevandosi così verso la perfetta conoscenza filosofica.
Gli universali
La concezione della conoscenza vera come ascesa dalle apparenze sensibili all’immutabilità dei principi
intellegibili, guida Boezio nell’affrontare la domanda sulla natura di queste essenze primordiali. Egli tratta
questo tema nella traduzione latina dell’Isagoge di Porfirio alle Categorie di Aristotele: la questione è se gli
universali (i generi e le specie) sussistano indipendentemente dai singoli individui (come credeva Platone),
oppure esistano solo in questi (come credeva Aristotele). Boezio afferma che universale è ciò che è comune
a molte cose, ma poiché una cosa realmente esistente non può essere comune a molte cose, perché non
può suddividersi in pezzi tra esse, gli universali non possono esistere come sostanze autonome. Gli
universali, allora, esistono come pensieri che hanno la loro base in oggetti realmente esistenti.
La Trinità
Speculazione e Rivelazione convergono nella necessità di descrivere una sostanza divina unica nelle tre
persone della Trinità: ciascuna delle quali è al contempo la stessa cosa delle altre, ma è anche identica a sé
stessa, per cui distinta dalle altre. Questa condizione rende impossibile applicare schemi categoriali a Dio,
che non è sottoposto a una relazione trinitaria, ma è intrinsecamente la relazione trinitaria stessa. Tuttavia
Boezio, nel De Trinitate, per mettere al riparo i fedeli dalle influenze degli eretici, inserisce lo stesso i
caratteri della Trinità nelle categorie aristoteliche: per quanto riguarda Dio, che non è una sostanza come le
altre, bensì una sovra-sostanzialità, i nomi teologici attribuitigli (come grande o buono) sono significativi
della sua soprannaturalità, ovvero Dio è considerato grande o buono in maniera superiore e così via.
Tripartizione gnoseologica
Boezio si dedica a testi di argomento teologico, che affrontano il problema della pensabilità delle realtà che
superano la percezione sensibile e la conoscenza razionale. La cui esistenza può essere o intuita per mezzo
di una profonda indagine metafisica o recepita tramite una rivelazione divina. Nel primo degli Opuscola,
viene ripresa la dottrina neoplatonica della tripartizione gerarchica delle facoltà conoscitive:
1. la percezione sensibile (sensus), ambito della fisica che coglie le forme unite alla materia.
2. la ragione discorsiva (ratio), ambito della metafisica che separa la forma dalla materia, partendo dai
sensi giunge a comprendere, con un’astrazione dell’intelletto, le forme intelligibili.
3. l’intelletto noetico (intellectus), ambito della teologia che, senza l'ausilio dei sensi, comprende la
forma assoluta, l’Essere in quanto tale e gli esseri privi di materia (Dio, gli angeli e le anime).
Esse et id quod est
Il terzo degli Opuscola, il De hebdomadibus, affronta il problema di definire buone le cose che esistono,
utilizzando solo il metodo della dimostrazione razionale, senza alcun riferimento alla fede, procedendo
deduttivamente attraverso assiomi. Tra questi il più importante è la distinzione tra esse e id quod est:
“diversum est esse et id quod est”, ossia “è cosa diversa l’essere e ciò che è”. C’è una distinzione ontologica
tra l’esistenza e l’essenza, cioè tra l’essere in atto e ciò che invece è essere in sé e in quanto tale. Se, come
ricorda Agostino, tutto ciò che esiste è bene, le cose possono essere buone per partecipazione, ma in tal
caso sarebbero buone solo in relazione a ciò che le rende tali; oppure le cose possono essere buone per
loro stesse, ma ne deriverebbe che esse coincidono con la sostanza di Dio, l’unica buona per sé stessa.
Bisogna dunque concludere che le cose devono la loro bontà all'atto determinante e necessitante della
volontà di Dio: perché derivano da Dio.
Definizioni di natura e persona
Nel quinto degli Opuscola, il Contra Euthychen et Nestorium, Boezio prende posizione in un dibattito
cristologico, avvalendosi della logica argomentativa, contro il monofisismo di Eutiche (la natura divina di
Cristo ha assorbito quella umana) e il diofisismo di Nestorio (in Cristo coesistono la natura divina e umana).
Boezio affronta il problema partendo dalla definizione dei termini: 1) natura che comprende tutte le cose
che sono “predicato di tutte le cose esistenti” e che possono essere percepite “predicato di tutte le
sostanze corporee e incorporee”; 2) persona: che definisce come “sostanza individuale di natura razionale”
riferibile agli uomini, agli angeli e a Dio. Boezio fornisce così, a tutto il Medioevo occidentale, gli strumenti
essenziali per discutere e definire intorno al dibattito cristologico.
Consolatio philosophiae
All’inizio del testo Filosofia appare a Boezio in carcere, sotto l’aspetto di una donna dagli occhi sfavillanti
capace di guardare oltre. La sua statura appare di incerta definizione, sembra infatti a momenti alta quanto
gli uomini, altri pronta a toccare il cielo per la sua elevatezza. Filosofia è ornata da un vestito meraviglioso,
di cui alcuni lembi sono strappati da coloro che, tentando di trascinarla con sé, pensavano di poter entrare
in possesso di tutta la verità. Ella non è una filosofia ma la vera filosofia, una sapienza unitaria ed
indistruttibile, come la veste (che rappresenta la verità) di cui si ammanta.
Il Sommo Bene
Nel secondo libro Filosofia parla della Fortuna ricordando a Boezio quanto la sua natura sia mutevole,
quanto essa scorra secondo il ritmo di un tempo incostante, portando a sottrarre agli uomini i beni ai quali
essi stessi non dovrebbero legarsi. Il fine dell’uomo è in realtà il possesso di un bene stabile e non
mutevole, dunque è necessario rifiutare i beni materiali e rivolgersi all’unico bene che mai muta, il Sommo
Bene, ovvero Dio “che governa il mondo con una regola perpetua”.
La non esistenza del male
Il discepolo di nuovo in possesso della sua identità filosofica, chiede alla maestra, come sia possibile che
nonostante il governo illuminato di un tale imperatore dell’universo, possa esistere il male. Filosofia
argomenta per mostrare a Boezio come il male non abbia alcuna dignità ontologica, infatti il male inteso
come privazione di essere non esiste, dunque, non esistono nemmeno i malvagi in quanto non aspirano ad
una condizione ontologica stabile. I buoni al contrario tendono al bene, desiderando raggiungere la stabilità
ontologica che è propria solo del divino “il premio dei buoni è diventare dèi”.
La Provvidenza e il fato
Il trionfo del male nel mondo è, dunque, solo apparente, infatti, ciò che per Dio è Provvidenza (ordine e
progetto) per l’uomo è fato (concatenazione causale immotivata). Questo perché sono diverse le facoltà
coinvolte nel processo gnoseologico, come spiega Filosofia: tali contrasti non sono altro che il risultato
dell'originario conflitto tra conoscenza mediata e discorsiva (ratio) e conoscenza immediata ed intuitiva
(intellectus). Così l’uomo non può cogliere il piano provvidenziale divino, cadendo nell’errore di credere che
l’iniquità possa avere la meglio, fino a giungere al convincimento che il mondo non sia governato da un
ordine razionale o che l’uomo non sia dotato di libero arbitrio.
L’onniscienza divina
Boezio distingue tra:
• perpetuità: ciò che dura nel tempo infinitamente.
• eternità: ciò che è fuori dalla categoria spazio-temporale.
Dio è eterno, ossia fuori dal tempo, in una sorta di eterno presente in cui possiede interamente e
simultaneamente una scientia delle cose esaustiva ed istantanea. Ciò che per l’uomo è futuro, per Dio è,
dunque, un presente: ossia conosce nell’eternità ciò che per l’uomo appare come un evento causa/effetto
temporale. Tuttavia, pur conoscendo ciò che per l’uomo è futuro, Dio non lo conosce come necessario, ma
come libero, dunque, la decisione e la determinazione viene lasciata interamente all’uomo. Inoltre, viene
fatta la distinzione tra 1) necessità assoluta, ossia ciò che non può essere diverso da com’è, e 2) necessità
condizionale, per cui data una causa non può che esserci quell’effetto.
Boezio vero cristiano?
Il carattere laico della Consolatio philosophiae, può far dubitare della cristianità di Boezio, tuttavia, il suo
intento è stato quello di lasciare un testamento, spirituale e culturale, il più universalmente condivisibile.
L’ultima fase del processo di perfezionamento della sapientia consiste nell'accogliere la Rivelazione
cristiana, scritta secondo le regole discorsive della ratio e rivelatrice di una verità piena. La Scrittura dunque
porta l'uomo oltre ciò che sarebbe capace di fare con le sole proprie forze: la scientia fidei consiste nel
liberare la ragione dalle rappresentazioni mentali condizionate dalla sensibilità e nel far accogliere dalla
ragione stessa i misteri della fede di per sé incomprensibili.

Giovanni Filopono V-VI secolo, insegnante di filosofia cristiana ad Alessandria.


Critica ad Aristotele
La sua sintesi speculativa è caratterizzata dalla volontà di reinterpretare, in chiave cristiana, l’insegnamento
dei filosofi del passato, in particolare di Aristotele. Filopono non esita a criticare i vari aspetti delle teorie
aristoteliche, soprattutto per quanto riguarda la fisica e la cosmologia. Egli confuta la tesi che i corpi celesti
siano costituiti di etere e quindi che siano divini e imperituri, al contrario anch’essi sono costituiti dello
stesso tipo di materia che compone i corpi del mondo sublunare, quindi sono corruttibili. In tal modo
vengono inclusi anche gli astri tra le opere della creazione divina, contro la convinzione pagana che essi
fossero divinità.
Eternità del mondo e impetus
Giovanni pensa che l’idea di creazione ex nihilo, non pensabile per i greci in quanto non deducibile
dall'esperienza ed unicamente rivelata dalla Scrittura, è inseribile nella fisica aristotelica. L'eternità del
mondo è confutata sulla base della logica aristotelica: se il mondo è finito nello spazio allora è finito anche
nel tempo, poiché la temporalità coincide con la vita stessa del mondo, che occupa tutto il tempo
disponibile. Un’aporia della fisica aristotelica, sostiene che tutto è mosso da altro e non esistono cose a sé
moventi, ma se così fosse cos’è che fa muovere i proiettili quando si staccano dalla catapulta? Aristotele
risponderebbe che ciò che li fa muovere è il mezzo, ovvero l’aria; tuttavia Filopono fa notare che non è
sufficiente battere l’aria per far muovere una pietra. Dio allora non è da considerarsi come motore
immobile, ma provvidente energia motoria che presiede a tutta la vita del creato: ogni moto si può
ricondurre all’efficienza causale di Dio. Anche lo spazio è di per sé provvidente, in quanto non è un
contenitore del corpo ma una proprietà che esso ha acquisito nel momento della creazione. Dunque, ogni
corpo tende naturalmente a ritornare nella posizione originaria che è stata stabilita dalla volontà divina.
Eresie del triteismo e monofisismo
Giovanni cade nel triteismo, dottrina nella quale Dio si esprime in tre persone non consustanziali legate in
una triade divina: in pratica tre dèi. Dalle categorie applicate a questa concezione, arriva a dire che le tre
persone sono distinte ma accomunate alla natura divina, alla stessa maniera in cui gli individui di una stessa
specie ne fanno parte. Pensare la natura come genere universale fa sorgere il problema della doppia natura
di Cristo. Ma poiché ogni individuo non può che partecipare di una natura soltanto, Filopono, si avvicina
anche all’eresia del monofisismo, sostenendo che la natura divina di Cristo ha riunificato in sé quella
umana.

Alcuino di York VIII-IX secolo, intellettuale alla corte carolingia.


Il consiglio di Alcuino
Dopo aver conquistato la Sassonia, Carlo impone il battesimo ai pagani, minacciando con la pena di morte
gli oppositori. Allora Alcuino scrive una lettera al re suggerendogli di non imporre con la spada, ma di
educare al cristianesimo i popoli sottomessi: “l'uomo può essere costretto al battesimo, ma non alla fede”.
Secondo Alcuino, Carlo deve costruire scuole e inviare sapienti che vi insegnino le arti, la filosofia e la
Scrittura. Solo educando l’uomo alla verità del Vangelo sarà possibile dare vita a un regno terreno
veramente cristiano.
Admonitio generalis
Carlo attua una riforma dell'Impero mediante una serie di editti, tra cui ricordiamo l'Admonitio Generalis,
cercando di promuovere e regolamentare gli istituti scolastici e favorire l’educazione dei monaci ed
ecclesiastici. Il compito dell’imperatore è quello di formare una comunità di credenti nella quale si avveri la
coincidenza del regnum con il sacerdotium, ossia dell’organismo politico romano-carolingio con il corpo
mistico della tradizione apostolica.
Riscoperta della cultura classica
La restaurazione dell’impero è strettamente legata al realizzarsi di una rinascita della cultura e della
religione. Il rifiorire della cultura non è dovuto ad un'improvvisa riscoperta del suo valore, ma è il risultato
dell'intensificazione del processo di recupero del passato. Vengono infatti riprese le opere dei più
importanti autori: Prisciano, Donato, Isidoro e Beda (per la grammatica); Cicerone (per la retorica); Agostino
(per la dialettica). Tali letture sono finalizzate alla conoscenza e alla comprensione della Bibbia. Aumenta
vertiginosamente il numero di scritti sacri e profani presenti nelle biblioteche di abbazie e monasteri, e
Carlo apre una schola palatina presso la sua corte itinerante. I monotoni manuali tardo- antichi vengono
rielaborati in rapide successioni di domande e risposte, mentre la forma del dialogo è quella prediletta per
comporre i nuovi compendi di sapienza liberale.
L’unificazione
Gli uomini di lettere che passano alla corte di Carlo Magno si sono formati nelle regioni più remote
d’Europa. Dunque il mondo colto carolingio scaturisce dalla confluenza di molteplici tradizioni, che
necessitano di essere raggruppate in un nuovo sistema:
l’unificazione linguistica, con la correzione e la diffusione del latino ecclesiastico; l’unitarietà grafica, con
l’introduzione della minuscola carolina; la divulgazione di un comune testo della Bibbia; e una forzata
diffusione della Regola di Benedetto in tutte le comunità monastiche.

Giovanni Scoto Eriugena VIII-IX secolo, maestro di arti liberali alla corte carolingia.
Le tesi di Gotescalco
Giovanni viene coinvolto in una disputa teologica generata da Gotescalco d’Orbai, un monaco che difende
l’idea della gemina praedestinatio, ovvero della compresenza in Dio di una duplice predestinazione. Tale
tesi non solo implica uno stretto determinismo, ma mette a rischio lo stesso libero arbitrio umano. Per
sostenere la doppia predestinazione Gotescalco, utilizza argomenti grammaticali e si avvale del supporto
delle auctoritas patristiche, come l’interpretazione di alcuni passi agostiniani.
Accordo tra filosofia e religione
Giovanni Scoto, interpellato in qualità di maestro di arti liberali con il compito di confutarlo, non si limita ad
assolvere al suo compito di specialista, ma elabora un'opera il De praedestinatione. Egli parte dal principio
epistemologico che: “la vera philosophia è la vera religio, e che la vera religio è la vera philosophia”, dato
che la verità è una sola, una vera religione e una vera filosofia non possono che sostenere le medesime tesi.
La ragione, inoltre, quando procede correttamente guidata dalle regole della logica, non può che
intercettare perfettamente Dio, che l’ha creata capace di indagare e di trovare la verità.
La summa simplicitas della sostanza divina
Per questo l’argomentazione di Eriugena, sulla predestinazione contro Godescalco, è l’evidenza razionale e
di fede della summa simplicitas dell’essenza divina, in cui tutto coincide. In Dio, infatti, essere e volere
coincidono, e con essi anche gli altri attribuiti come la bontà; per questo motivo poiché Dio è uno, sarà uno
anche il suo volere, il quale non può ammettere duplicità. Da ciò deriva che Dio crea in quanto è, e che la
sua creazione pienamente volontaria, non può che essere buona. La teoria della doppia predestinazione,
comporterebbe l'introduzione di una doppia volontà in Dio e la conseguente negazione dell'assoluta
semplicità divina.
L’ordine universale
Per illustrare i rapporti tra predestinazione divina e libertà umana, Giovanni Scoto si riferisce alla teoria
dell'ordine universale, dove la prescienza divina ha come fine la preservazione ontologica della creatura
stessa. Dio non può predestinare al male, la condizione di miseria in cui una creatura può cadere col
peccato è da imputare alla creatura stessa, che sceglie nel suo libero moto/arbitrio quale posizione
dell'ordine universale occupare: una persona che si ostinasse a fissare il sole si rovinerebbe la vista, ma non
per questo il sole andrebbe additato come un male.
Il concetto di natura
Fin dall'inizio del Periphyseon, l'autore sostiene che “le cose che sono e le cose che non sono”, ossia la
totalità delle cose pensabili, hanno la loro unità in un genere universale, ovvero natura, che li raccoglie alla
stregua di specie. La natura in quanto genere universale, secondo i precetti aristotelici, non può essere
definita perché non può essere collocata in un sovra-insieme maggiore. Dunque, il genere natura dovrà
essere diviso in più specie (formae), e poiché è un compito assai arduo per l'uomo individuare tali
distinzioni all’interno di un concetto che deve includere tutto ciò che è vero, risulta necessario ricorrere al
contributo proveniente dalla Rivelazione.
Le quattro divisioni della natura
Applicando il concetto di creazione, derivato dalla Sacra Scrittura, al concetto di natura, Eriugena arriva al
fondamento della prospettiva dottrinale cristiana, cioè la divisione e la relazione tra increato e creato. Entro
questa prospettiva il genere natura viene diviso nelle quattro specie che ne esauriscono le possibilità di
divisione:
1. natura non creata creante, ovvero Dio nella sua funzione di causa creatrice, che dona l’essere alla
totalità delle cose sono.
2. natura creata creante, ovvero il Verbo, luogo del pensiero divino nel quale risiedono le idee
creatrici di Dio, modelli sostanziali delle cose.
3. natura creata non creante, ovvero la manifestazione corporea della natura creata, la discesa nella
materia delle cause creatrici.
4. natura non creata non creante, ovvero Dio come fine ultimo di tutte le cose, somma unità di ogni
natura e mèta escatologica.
Processio e reditus
Tale schema ritrae la “tensione naturale” tra increato e creato, che si sviluppa da una parte come
estensione dell'increato nel creato e dall'altra come intensione del creato verso l'increato. Questo duplice
moto è descritto attraverso i termini di: 1) discesa (processio) da Dio alle creature, e 2) ritorno (reditus)
dalle creature alla causa originaria.
La tripartizione gnoseologica
In riferimento, seppur non esplicito, alla tripartizione platonica delle facoltà conoscitive dell'uomo,
Giovanni Scoto sostiene che vi siano tre diverse forme di conoscenza, mediante le quali il soggetto coglie,
con diversi gradi di verità, un medesimo oggetto. La prima è soggettiva, dunque, non sufficientemente
rigorosa; la seconda è regolare e simmetrica in quanto fondata sulle norme della logica; la terza è di ordine
sovra-logico, una sorta di “contemplazione intelligibile della totalità”. Proprio questa terza forma,
l'intelletto superiore, è riuscita a cogliere all'inizio dell'indagine speculativa il concetto di natura.
La prima natura
Sulla scia di Agostino e Boezio, anche Eriugena, prova ad inserire Dio nelle dieci categorie aristoteliche,
senza riuscirvi: questo significa che, in ultima analisi, non vi è un significato qualitativo (non è veramente
buono), quantitativo (non è veramente grande), di azione (non ama veramente) o di relazione (non è
veramente Padre). La perfetta sapienza, dunque, non è altro che una non-conoscenza, una divina
ignoranza; Dio è inconoscibile in sé, in quanto essenza super-essenziale priva di attributi propri.
Le predicazioni categoriali
D’altra parte è evidente, secondo Eriugena, come non sia possibile fare a meno della predicazione
categoriale, se si vuole veramente esprimere e comprendere qualcosa. Egli nota, difatti, che non c’è nulla
cui l’intelligenza umana possa accostarsi adeguatamente, senza collocarlo entro coordinate spazio-
temporali: come dice la Scrittura Dio è “semper et ubique”. Tuttavia tale situazione può essere estesa
anche alle altre categorie, che sono tutte forme a priori di organizzazione della capacità conoscitiva del
soggetto. In linea con la gnoseologia neoplatonica, i termini che predicano qualcosa di Dio sono necessari
per il soggetto, che altrimenti non avrebbe modo di conoscerne la natura.
Le due teologie affermativa e negativa
Eriugena, per risolvere il problema della conoscibilità di Dio, si avvale allora delle due teologie già postulate
dallo pseudo-Dionigi: la teologia affermativa (catafatica), considerando Dio in quanto “essere increato e
creante”, lo conosce nella sua relazione con la creazione; la teologia negativa (apofatica), considerando Dio
in quanto “essere increato e non creante”, nega che Egli possa essere conosciuto in relazione alla
creazione.
Entrambe le vie mostrano evidenti limiti, la prima è incapace di cogliere, con le sue sole predicazioni
positive, l’ineffabilità dell’essenza divina che trascende il tutto; la seconda al contrario, predicando soltanto
negazioni, rischia di attribuire mancanze a Dio, cosa assurda in quanto Egli è l’essere perfetto in sé e per sé.
La teologia superlativa
Tuttavia Dio, nella Rivelazione, si è rivolto agli uomini nel loro linguaggio, come lo stesso pseudo-Dionigi
insegna; quindi sarà opportuna, per parlare di Dio, una iper-teologia sulla base della Scrittura. Si giunge così
ad una sintesi delle due posizioni precedenti, una teologia superlativa, che insieme afferma e nega,
predicando di Dio il superamento delle caratteristiche creaturali. I nomi che ne esprimono le perfezioni
vengono corretti con l’aggiunta di prefissi come plusquam o super (Dio è super-buono, è più che buono).
La conoscibilità delle cose create
Nessuna res è conoscibile in sé, nella sua profonda substantia, ma solo conoscibile a partire
necessariamente dalle categorie che il soggetto instaura per conoscerla, infatti, la verità sostanziale delle
cose sussiste soltanto nella mente eterna di Dio. In Dio la conoscenza delle cose è causa dell'essere delle
cose stesse, ma siccome in Dio tutte le cose sono conosciute prima che vengano all'essere, allora la
conoscenza che Dio ha delle cose non è una conoscenza del loro essere bensì del loro non-essere. In
quest'ottica le creature vengono intese come teofanie delle nozioni che Dio ha di tutte le cose: le creature,
presenti essenzialmente in Dio, si intendono come manifestazioni di Dio nell'ambito della molteplicità
creata.
La seconda natura
La seconda specie di natura, quella che è creata e crea, è sia Dio, in quanto pensiero divino creatore, sia
creatura, in quanto le idee sono l'essere vero e immutabile che presiede a ogni manifestazione. Eriugena
considera le idee come qualcosa in più che semplici modelli: esse stesse sono creatrici e produttrici di
realtà, coeterne al Verbo.
La triadicità nelle creature
Per comprendere il rapporto tra Dio, cause mediatrici della creazione e creature, Eriugena recupera
Massimo il Confessore, secondo cui in ogni res creata vi è una triade di componenti metafisiche, universale
vestigio della manifestazione trinitaria del divino: una sostanza (ousìa), una potenza (dynamis) e un atto
(energeia). All'uomo queste componenti appaiono come distinte e differenziate, per cui ogni sostanza
sembra passare da una infinita serie di incompiute potenze ad una infinita serie di attuazioni soltanto
parziali.
La terza natura
La terza specie di natura, dunque, quella che è creata e non crea, si manifesta in maniera frantumata, e
persino quando l'uomo cerca di conoscere sé stesso non ottiene nient'altro che qualche frammento della
propria ousìa. Nella mente di Dio, invece, tutte le res sono nozioni perfette ed eterne, in un'entelécheia,
un'attualità perfetta, un'armonia di atto e potenza. La terza natura è puro fenomeno, tuttavia, anche ciò
che è puramente fenomeno è una teophania, una manifestazione di Dio. Ogni fenomeno è ingannevole
solo in quanto il soggetto lo considera come il manifestarsi di qualcosa di singolo, di separato da Dio e di
auto-sussistente come singola res.
La creazione
I sei giorni della creazione sono raccontati da Eriugena nel suo Esamerone, dal momento che la Scrittura è
possibile di infiniti significati, egli accoglie interpretazioni diverse ma per questo motivo tutte veridiche, da
Basilio ad Agostino, per poi arrivare alla propria:
1. Il primo giorno, la creazione della luce, consiste nella discesa dalle cause agli effetti.
2. Il secondo giorno, la collocazione del firmamento tra le acque superiori e quelle inferiori descrive
l'apparizione dei quattro elementi, dello spazio e del tempo che divide creature spirituali e creature
corporee.
3. Il terzo giorno, l'emergere della terra arida allude alla composizione delle forme con la materia.
4. Il quarto giorno, la creazione dei pianeti è utilizzata da Eriugena per proporre il proprio sistema
astronomico che prevede la rotazione dei pianeti intorno al Sole, mentre quest’ultimo gira intorno
alla Terra.
5. Il quinto giorno, la moltiplicazione delle specie corporee racconta l'apparire dell'accidentalità.
6. Il sesto giorno, “Dio creò l'uomo a sua immagine... maschio e femmina li creò” la distinzione dei
sessi svela, per Eriugena, la teoria della doppia creazione, che avviene come conseguenza del
peccato originale.
Il peccato di Adamo ed Eva
Adamo è il simbolo dell'intellectus, inviato da Dio a contemplare la verità del creato dietro la promessa di
poter gustare i frutti dell'albero della Vita, che è il Verbo stesso. Ma Eva, la conoscenza inferiore, si lascia
travolgere dalle apparenze fantastiche della sensualità, il cui simbolo è il serpente, che la invita a cogliere il
frutto della Scienza del bene e del male. Il frutto rappresenta la confusione conoscitiva originaria che è
all’origine dell’imperfetta scientia naturale degli uomini; Eva trascinando con sé Adamo, l'intelletto, fa
precipitare l'anima umana nella falsa fenomenologia dell'accidentalità. Eva dovrà partorire con fatica e
dolore i conceptus, figli dell'attività dell'anima, mentre Adamo dovrà lavorare la terra, l'ousìa, la vera
sostanza delle cose, coperta dalle spine dell’apparenza, che non consentono più all’intelletto di accostarsi
alla verità primordiale.
L’impedimento del reditus
Il cammino di processio e reditus vede come protagonisti:
 il Creatore, che dispone l’uomo a sua immagine e somiglianza e come centro della creazione, per
presiedere al proprio processo di risalita.
 la creatura, che si allontana dalla volontà del Creatore, pervertendo l'immagine divina disposta in
sé, allontanandosi così dal progetto di Dio.
L’uomo è considerato come creatura centrale del cosmo, il fine dell'opera divina, verso il quale tutta la
realtà creata tende. La conoscenza dell'uomo è la più completa e complessa di tutte le creature: in questo
senso l'uomo è immagine di Dio, poiché la sua intelligenza è fondata sull'archetipo del Verbo. Il
compimento del percorso preccessio-reditus, essendo possibile soltanto come esito di un’autonoma scelta
da parte della volontà creaturale, viene interrotto dal peccato originale che svia l’uomo, e con lui tutto il
creato, dalla realizzazione della similitudo Dei.
La divisione dei sessi
La divisione dell'uomo nei due sessi costituisce, per Giovanni Scoto, l'estremo gradino della discesa della
natura umana, nella condizione più grossolana e corporea della creazione. La divisione dei sessi, infatti,
porta l'uomo a partecipare della modalità di riproduzione degli animali bruti, svilendo l'eccellenza della sua
primigenia condizione, nella quale avrebbe potuto ottemperare al comandamento di “crescere e
moltiplicarsi” secondo la condizione angelica.
L’incarnazione di Cristo
La via per il riavvicinamento dell'uomo a Dio trova il culmine nell'incarnazione del Verbo, la seconda natura.
Nella persona di Cristo si compie l’unione indissolubile tra la natura divina increata e la natura umana
creata, restituita al suo stato di perfezione primordiale mediante la resurrezione. Si rende così possibile
l'inversione del processo di discesa da Dio, cosicché l’umanità diventa nuovamente in grado di risalire i
gradi di questa discesa.
La quarta natura
Riferendosi alla quarta natura Eriugena non poteva che usare una formula negativa, in quanto
ristabilimento dell'autentico ordine della conoscenza. Essa si realizzerà alla fine dei tempi: non sarà creata
perché sarà il ritorno del creato a Dio, e non sarà creante perché Dio sarà “tutto in tutte le cose”. La
resurrezione del corpo di Cristo ha anticipato la condizione di ogni corpo al momento extrastorico del
Giudizio Universale, ovvero la condizione di un corpus spirituale, in cui la corporeità non si annulla ma torna
alla propria originaria: libera dalle scorie della molteplicità, l'anima dell’uomo si unirà al proprio corpo.
Le diverse modalità di reditus
La redenzione avverrà in diversi gradi, a seconda dei cammini terreni:
 il reditus generalis è il ritorno “delle cause e dei principi nel Verbo di Dio unigenito, nel quale sono
state fatte e sussistono tutte le cose”, in cui l’intera natura umana è salvata in Cristo.
 il reditus specialis è la perfetta unione dei soli eletti, con la natura divina e il mantenimento della
loro sostanza personale, oltre alla sostanza generale della natura umana.
Tutti saranno avvolti dal trionfo della luce divina nel sabato eterno che concluderà la storia della creazione,
anche se per i dannati trovarsi in tale condizione sarà ragione di tormento.
Le diverse espressioni della Rivelazione
Nelle Expositiones in Hierarchiam coelestem, Giovanni Scoto illustra le diverse possibili gradazioni della
conoscenza creaturale del divino, che è necessariamente imperfetta in quanto la Scrittura si esprime in
diversi modi:
1. affidandosi ai significati naturali del linguaggio.
2. in modo alogico, capace di sollevare le menti al di sopra dell’immediatezza del significato letterale
(simboli, parabole, allusioni).
3. al di sopra della stessa fruizione del testo rivelato, dove la comprensione del divino è colta
intuitivamente dall’intelligenza che si rivolge al vero.
La deificatio
Nell’Omelia sul prologo di Giovanni, l’evangelista è l'uomo deificato a cui Dio ha concesso il privilegio di
trascendere, ancora in vita, ogni condizione creaturale, di realizzare l’unione con Dio nella divinizzazione di
sé: in cui soggetto e oggetto si fondono in una perfetta unità. Così, l’apostolo Giovanni, ha potuto cogliere
non solo la visione beatifica comune (propria dei beati nel reditus generalis), ma perfino elevato alla visione
di Dio in Dio, comprendendo completamente la divinità del Verbo. Il volo celeste dell’evangelista Giovanni,
aquila spirituale, gli ha permesso di vedere Dio e il Verbo, ed in virtù di un ulteriore dono speciale è potuto
ridiscendere nel mondo della storia per raccontare agli uomini che “il Verbo si è fatto carne”.
La conclusione della storia
La conclusione della storia universale viene vista, da Eriugena e da tutta la tradizione teologica, come
necessaria ma incomprensibile: solo il deificato può comprendere la deificazione. Ma nello svolgersi
dell’indagine creaturale, la Rivelazione ed il supporto della critica filosofica consentono, ai ricercatori del
vero, di avviarsi verso la comprensione di tale mistero. Fede e ragione sono gli strumenti con cui l’uomo si
sforza di anticipare la comprensione e i contenuti della visione beatifica comune, alla resurrezione finale.
Ragione e fede
Nell’Omelia sul prologo di Giovanni, Scoto Eriugena, commenta una lettura dell'episodio biblico in cui alla
notizia della resurrezione di Cristo, Giovanni e Pietro corrono entrambi verso il sepolcro. Giovanni è più
giovane, e quindi corre più veloce di Pietro, ma una volta arrivato al sepolcro si ferma e aspetta Pietro.
Giovanni rappresenta l’intelligenza, mentre Pietro rappresenta la fede. E perciò, poiché è scritto “se prima
non avrete creduto, non potrete comprendere” è necessario che la fede penetri per prima nella Scrittura, e
che poi, seguendola, entri anche l’intelletto. La ragione naturale deve essere attivata sia prima dell’atto di
fede per giustificarlo, sia successivamente per consolidarne i contenuti.

IL CONFINE TRA ARTI LIBERALI E TEOLOGIA


Anselmo di Besate
Per il Peripatetico, è necessario distinguere gli strumenti e le finalità delle varie arti. La retorica, ad
esempio, è volta a perfezionare la capacità umana di parlare, mentre spetta alla dialettica distinguere tra il
vero e il falso. Inoltre, stila il manifesto dell’autonomia pratica delle discipline umane in una pagina in cui
racconta di esser stato portato in sogno in paradiso, dove le sue spoglie erano oggetto di una contesa
verbale e fisica tra le anime dei suoi parenti beati e le arti del trivio personificate.
Adalberone in Francia
Testimonia la necessità di operare delimitazioni delle aree di competenza di ciascun sapere, fissando i limiti
delle indagini liberali rispetto ai misteri della fede. Nel De modo recte argumentandi, sostenendo attraverso
un’argomentazione sillogistica che la mula è inutile, vuole dimostrare che talvolta la versatilità delle arti
liberali è svincolata dalla pretesa di influire su questioni di importanza teologica fondamentale e confina i
giudizi della razionalità all’interno del campo del naturale. Ancora, nel Carmen ad Rotbertum regem spiega
che l’obiettivo della retorica non è descrivere la verità, ma la verosimiglianza. Dunque, secondo Adalberone
le arti liberali devono essere ricondotte entro i limiti delle loro competenze e mettersi al servizio della
conoscenza teologica. In Summa fidei spiega ancora che l’esposizione dei contenuti della religione cristiana
dev’essere sostenuta da argomentazioni logiche, ma solo in misura parziale e allo scopo di evidenziarne
aspetti fondamentali.
Notkero
Nella traduzione alla Consolatio boeziana spiega che le scienze filosofiche si suddividono in fisica, etica e
teologia. Tuttavia, mentre i cultori delle prime due si servono della razionalità discorsiva e argomentativa, i
teologi non necessitano di argomentazioni logiche ma si servono della più efficace capacità intuitiva.
Dialettici
Pretendono di indagare in modo libero e autonomo le verità filosofiche e teologiche; sono i sostenitori di
una razionalità platonica, per cui la realtà e il pensiero devono essere isomorfi.
Antidialettici
Sostengono, invece, che la ragione è sottoposta alla Rivelazione, e che dunque non vi sia libertà di indagine
Il problema è dunque come e in quale misura si debba usare la razionalità in teologia. Nessuno rifiuta l’uso
della ragione, ma si discute circa il modo in cui essa debba essere utilizzata. Nell’opposizione tra dialettici e
antidialettici si colloca anche la disputa sull’eucarestia.

Berengario di Tours XI secolo, arcidiacono di Angers, studioso di arti liberali e teologia.


Le armi della logica
Berengario è noto per la polemica del 1046 con Lanfranco da Pavia sull’eucaristia, in particolare sulla
modalità con cui Cristo, sarebbe presente nel pane e nel vino consacrato dal sacerdote. Berengario nel De
sacra coena adversus Lanfrancum, riportando le nozioni aristoteliche di sostanza e accidente, afferma che
se una sostanza muta, mutano anche le sue proprietà, che sono intrinsecamente legate ad essa. Dunque se
nell'eucaristia le sostanze del pane e del vino mutassero realmente, dovrebbero mutare anche le proprietà
accidentali (sapore-odore-colore).
La disputa sull’eucaristia
Ma dal momento che questo non avviene durante la consacrazione, per Berengario, il pane e il vino sono
soltanto un simbolo di realtà spirituale, un signum sacrum, un sacramento nel senso agostiniano: un segno
visibile che ci permette di afferrare, al di là dell'apparenza sensibile, l'idea della Passione di Cristo. Egli è
morto nella carne una volta sola e, dopo la Resurrezione, il suo corpo è incorruttibile e non può dunque
soffrire ancora.
Spiritualismo eucaristico
Berengario aggiunge che proprio perché il corpo e il sangue di Cristo si trovano realmente sull’altare,
devono essere considerati esenti da qualsiasi mutevolezza. Dunque, il corpo e il sangue di Cristo la vera res
sacramentale (essenza eterna, invisibile, immutabile) e non il pane e il vino. Sostenendo una posizione
antirealista, Berengario, sottolinea che è proprio la ragione, che conduce a tale conclusione, anzi la impone
poiché essa è lo strumento che Dio ha fornito all’uomo per indagare la realtà: non sfruttarla significherebbe
misconoscere tale dono e la sua preziosità.
Condanna
Berengario viene condannato a più riprese in una serie di concili tenuti a Roma, viene costretto a rinnegare
la propria dottrina e a professare la verità di formule eucaristiche di matrice realista. Numerosi esponenti
parteciparono questo attacco, trai i quali Lanfranco di Pavia.
Lanfranco di Pavia XI secolo, arcivescovo di Canterbury, studioso di arti liberali e teologia.
Le armi della fede
Nel De corpore et sanguine Domini, in conflitto contro Berengario, Lanfranco sostiene che, dopo la
consacrazione, il pane e il vino si trasformano realmente nel corpo e nel sangue di Cristo, pur conservando
le primitive apparenze. A questa conclusione non giunge però con le armi della logica ma con quelle della
fede e con l'autorità dei Padri della Chiesa, alla quale è necessario che la dialettica si sottometta.
La priorità della Rivelazione
Lanfranco rimprovera a Berengario di aver anteposto la verità della logica a quella della fede, ossia di aver
prima indagato con la pura razionalità la natura del sacramento e successivamente aver imposto tali
risultati alla Rivelazione. Berengario ha invertito la corretta relazione tra ragione e fede, il mistero è tale
perché non è conciliabile con nessuna delle aspettative della scienza, e dunque l’atto di fede dev’essere
libero da qualsiasi preconcetto logico-filosofico. La ragione è necessaria, quindi, solo dopo che la fede è già
consolidata nel credente ma non per spiegare come sia possibile che una determinata cosa sia avvenuta.
Realismo eucaristico
Il miracolo è un’effettiva alterazione delle realtà naturale e delle leggi di natura, una deroga che va
accettata come dato di fede. Infatti, mentre nel mondo sensibile l’alterazione della cosa avviene mediante
un variare degli aspetti accidentali, ma la sostanza in sé invisibile non muta, nell’eucaristia mutano
miracolosamente le sostanze del pane e del vino ma le loro apparenze accidentali permangono e restano
visibili dopo l’avvenuta trasformazione (dottrina della transustanziazione). In Lanfranco prende forma la
consapevolezza che la ragione è sì capace di cogliere le leggi che governano il mondo sensibile, ma non è in
grado di penetrare i misteri divini, come gli eventi sacramentali e la natura di Dio, che si svolgono
nell’ambito intelligibile.
Verità di fede
La tesi di Lanfranco viene approvata nel sinodo del 1079 e imposta quale spiegazione ufficiale e autentica
dell’eucarestia nel concilio ecumenico lateranense del 1215, e nel concilio di Trento del 1551. Lanfranco ha
dunque distinto due piani di razionalità diversi, e se sul piano naturale Berengario aveva ragione, su quello
soprannaturale no.

Pier Damiani XI secolo, vescovo e cardinale di Ostia, azione riformatrice contro corruzione del clero.
Impegno contro la corruzione del clero
Pier Damiani è uno dei promotori della correzione morale del clero, la caratteristica della sua vita è stata un
impegno incondizionato per la riforma della Chiesa. Inoltre, vede nella solitudine del monachesimo il
modello ideale di santità e di vita perfetta, una santità che il monaco deve perseguire per tutta la sua vita
terrena senza mai poterla considerare acquisita. Allo stesso modo, anche la comprensione spirituale della
Scrittura è l’esito mai concluso di un percorso che conduce al perfezionamento della fede. Tuttavia, tale
percorso di conoscenza dev’essere sempre subordinato alla fede, la quale non deve mai cedere a
compromessi con la scienza umana.
La vanità della conoscenza umana
La sete di scienza è per Damiani, una forma di idolatria, che distoglie l'uomo dal vero bene, che è la
contemplazione di Dio. È il tema della vana curiositas, dove il mondo è solo la manifestazione di Dio, una
teofania, non c'è necessità di indagare il creato in quanto tale, ma solo di ammirarlo come "traccia" della
potenza divina. La cupidigia del sapere è paragonata ad una tentazione diabolica, come quella che spinse
Eva a mangiare il frutto dell'Albero della Conoscenza.
La sancta simplicitas
Con accenti polemici, Damiani sostiene nel De sancta simplicitate scientiae inflanti anteponenda, che se la
filosofia fosse stata indispensabile per la salvezza degli uomini, Dio avrebbe mandato filosofi, e non
pescatori, ad annunciare il Vangelo. Contrapponendo i "pescatori" ai "filosofi" Damiani vuole accentuare la
necessità della forza e della magnanimità per la conduzione di una perfetta vita cristiana, piuttosto che
della sottigliezza intellettuale.
La divina onnipotenza
Nel De divina omnipotentia, Pier Damiani mette alla prova lo strumento filosofico della dialettica su un
problema teologico centrale, quello dell’onnipotenza divina. I dialettici affermano che Dio non può far sì
che ciò che è accaduto non sia accaduto (per esempio ridare la verginità ad una donna che l'abbia perduta,
o far sì che Roma non sia mai stata fondata), cioè non può ciò che è logicamente impossibile. Pier Damiani
critica questa posizione affermando che, non si possono applicare le regole della nostra logica a Dio, tali
necessità valgono solo per l’essere umano: le regole della logica sono applicabili solo all’interno di un
sistema chiuso di realtà. La logica ha solamente il compito di giudicare ciò che può sussistere nelle cose
create, ma non nella natura superiore che le ha prodotte.
La differenza ontologica fra Dio e la creazione
Dio, infatti, precede ontologicamente la creazione e il tempo, perché di essi ne è la causa efficiente:
 L’uomo vive nella temporalità, soggetta al divenire e alla contingenza, mentre Dio vive nell’eternità
scegliendo eternamente e perfettamente ciò che vuole.
 L’uomo ha un'idea di natura come corso regolare delle cose, mentre per Dio natura è la
manifestazione della propria volontà, in questo secondo senso il miracolo non è "contro natura".
L’unica limitazione all’onnipotenza divina è volere il male, poiché nel male c’è qualcosa di contrario alla
volontà divina. Se, al contrario, anche Dio volesse il male, questo diventerebbe un bene non è da intendersi
come una impotenza, bensì come perfezione della volontà divina.
Le invincibili ragioni della fede
Damiani argomenta che non solo Dio può far risorgere “nel merito” una vergine caduta, ma anche “nella
carne”, cioè fisicamente. La sua critica della dialettica trova compimento, nell’affermazione che la validità
del principio di non contraddizione è limitata all'intelletto umano, sicché la vera natura delle cose non è
condizionata da tale principio, ma unicamente dalla volontà divina. Si ribadisce così la radicale contingenza
del mondo, contro la presunzione dei dialettici, che credono di poter asserire che Dio sia sottoposto alle
limitazioni delle creature. Dio è al di sopra dei principi della logica e della legge naturale, e rende quindi
impossibile per l'uomo, che è invece soggetto all'ordine razionale, la comprensione piena del divino.
Dio trascende il principio di non contraddizione
Il principio logico di non contraddizione, fondamentale per la correttezza del discorso umano, non può
essere applicato a Dio, la cui potenza è infinita. L'affermazione dell'onnipotenza divina trova in Pier Damiani
il più ardito dei suoi sostenitori. Ciò che soprattutto gli preme è arrestare l'arroganza di quei teologi che
pongono la divinità al di sotto della logica, dimenticando la totale trascendenza di Dio.

Roscellino di Compiegne XI - XII secolo, maestro di dialettica, conosciuto indirettamente.


Il nominalismo di Roscellino
Anselmo d’Aosta nell’Epistola de incarnatione Verbi, spiega che la nota più caratteristica del pensiero di
Roscellino è rappresentata dalla sua concezione degli universali, secondo cui i generi e le specie (gli
universali) non rimandano all’esistenza di essenze reali, ma altro non sono che delle emissioni vocali “flatus
vocis”: provenienti dalla bocca di chi pronuncia parole come “uomo”. In contrapposizione al realismo, che
nella sua forma più estrema considera gli universali delle sostanze realmente esistenti, questa dottrina
viene solitamente designata come nominalismo.
Le critiche di Anselmo e Abelardo
Anselmo attacca duramente questa posizione che nega dignità ad ogni indagine teologica, affermando che
la ragione, dono eminente concesso da Dio, descrive efficacemente la configurazione profonda del reale.
Abelardo nella Dialectica aggiunge che il nominalismo di Roscellino non si limita agli universali, ma si
estende anche alla dialettica e alle altre arti. Se la ragione può usare il linguaggio solo per indicare gli
individui, allora è impossibile qualsivoglia scienza. Roscellino è dunque per Anselmo un “eretico della
dialettica”, poiché il suo errore proviene dalla logica, e per Abelardo uno “pseudochristianus”.
L’accusa di triteismo
Se per Roscellino gli universali sono quindi soltanto delle semplici voces, la realtà si costituisce unicamente
da enti individuali, e dalle voci che a questi enti rinviano. Applicata in ambito teologico questa dottrina non
può non avere delle forti ripercussioni. Se infatti non si riesce a comprendere l’unità dei singoli uomini nella
specie “uomo”, come si potrà comprendere che tre persone diverse sono unificate in un’unica sostanza
divina? Allo stesso modo non riuscendo ad ammettere nient’altro oltre agli individui, come si potrà
ammettere che l'individuo Cristo sia il risultato della congiunzione di due nature: umana e divina? Dunque.
anziché sostenere una sola res, si dovrà necessariamente sostenere che ci sono tre res.

La difesa di Roscellino
Roscellino allora si giustifica in toni aggressivi, nell’Epistola contra Abaelardum, in cui afferma di essere
stato riconosciuto in tutto il mondo come maestro stimato e che la sua dottrina trinitaria è armonizzabile
con il dato della Rivelazione. Anzi, la sua è l’unica lettura del mistero che evita di concludere che il Padre e
lo Spirito Santo si siano incarnati e abbiano patito con il Figlio sulla croce. Affermando che la ragione umana
non può rappresentarsi il divino se non in tre res distinte, vuole sottolineare l'incapacità di esprimere un
giudizio sull'ineffabilità dei misteri teologici, sempre in virtù della differenza incolmabile tra i piani.
Antiqui contro moderni
Tra il secolo XI e secolo XII si esprime una contraddizione tra antiqui, che difendono la possibilità di una
collaborazione tra fede e ragione, e moderni, che “non credono se non a ciò che possono comprendere per
mezzo di indagini sensibili”. In questa disputa si colloca il conflitto tra Oddone di Turnai, insegnante di
logica in re alla maniera degli antiqui, e il maestro nominalista Raimberto di Lilla, che invece interpretala
logica in voce, secondo la dottrina dei moderni. Oddone scrive il De peccato originali, spiegando che il
peccato originale si è trasmesso in quanto peccarono Adamo ed Eva, gli unici esseri umani allora esistenti.
Non peccarono, dunque, solo i singoli individui, ma in loro peccò il genere umano, ossia l’universale
“uomo”, la cui pena è condivisa da tutti gli individui che partecipano del genere umano.
La duplice natura di Roscellino
In questo quadro culturale, Roscellino non è stato un avventato razionalista ma un teologo radicale,
avverso a ogni contaminazione di fede e ragione, dotto però di una profonda competenza nel campo delle
arti liberali, in particolare della dialettica. Roscellino appare dunque un pensatore piuttosto complesso, da
una parte competente e coerente maestro di arti liberali, dall'altra l’intransigente defensor fidei. Inoltre,
non è mai stato un vero difensore del triteismo, il fatto che la mente umana non possa che rappresentarsi
la realtà del divino come tre res distinte è volto solo a sottolineare l’incapacità di esprimere giudizi circa
l’ineffabilità dei misteri teologici. Roscellino ha facilmente accettato di ritrattare le proprie formule trinitarie
per la certezza che il linguaggio umano non è che una labile convenzione, è la divina onnipotenza l’unico
principio che può spiegare i misteri della fede.

Anselmo d’Aosta XI-XII secolo, monastero e successivamente priore e poi abate al monastero di Bec.
Il metodo per sola ratione
La prima opera di Anselmo è il Modello di meditazione sulle ragioni della fede, inviato a Lanfranco di Pavia,
suo maestro, il quale inizialmente nutre dubbi sull’opera dell’allievo: difatti nell'opera si riflette in maniera
puramente razionale sulle verità della fede. Il trattato è un'indagine sulla natura del Dio cristiano mediante
dimostrazioni concatenate in maniera da far scaturire dall'una la necessità dell'altra, senza però alcun
riferimento all'autorità della Scrittura o dei Padri. Anselmo procede per sola ratione, pur premettendo,
all'inizio dell’opera, che le affermazioni del testo sarebbero state in accordo con le verità della fede.
Anselmo risponde al richiamo del maestro invitandolo a dare alle fiamme il suo opuscolo, ma solo dopo
aver verificato che le sue tesi non fossero in accordo con le esposizioni dottrinali dei Padri, in particolare
Agostino.
I cambi di titolo
Anselmo modifica il titolo dell’opera in Monologion, che significa “riflessione”; la stessa sorte tocca ad un
secondo opuscolo, La fede in cerca di intelligenza, diventato poi Proslogion, cioè “dialogo”. I cambi di titolo
esprimono la differenza formale delle due impostazioni: il primo un'esposizione di percorsi mentali, il
secondo un dialogo spirituale con Dio stesso, entrambi senza far dipendere la sistemazione logica delle
verità teologiche dalla fede, pur presupponendola.
La verità come rectitudo
Nel De veritate Anselmo muove dalla constatazione che un’affermazione è vera se c’è corrispondenza tra
discorso e realtà. Dunque un’affermazione è vera se il significato espresso è retto, allora la verità stessa
risiede nella sua rectitudo. Il concetto di rettitudine si può estendere, anche ai pensieri, alla volontà, alle
azioni e agli enti stessi nel senso della loro capacità di fare o di essere ciò che si deve fare o si deve essere,
coerentemente a ciò per cui sono stati creati. Dunque “l’uomo vero” è colui che è uomo nel modo in cui Dio
l’ha stabilito, ma perché questo si realizzi ed ogni cosa possa fare o essere massimamente e
compiutamente ciò che fa o è, deve partecipare necessariamente a Dio, dove la rettitudine e la verità
coincidono. Esiste dunque una configurazione dell’universo una “rectitudo universale”, voluta da Dio, alla
quale tutte le cose devono conformarsi ed aderire per potersi dire vere.
Il progetto teologico
Per Anselmo, La dialettica è la scienza della rectitudo delle cose conosciute, in quanto garantisce l’assoluta
corrispondenza tra la res, l’intellectus e la vox che la rappresenta. L’obbiettivo del progetto di Anselmo
consiste nel perseguire fino in fondo il tentativo dell’intelligenza umana di parlare di Dio. Tuttavia la ragione
umana è limitata e finita, dunque non è in grado di assegnare un significato compiuto alla parola Deus. Un
intellectus tanto perfetto da potersi rappresentare tale res coinciderebbe con la mente divina, cioè il Verbo,
che è il pensiero con cui Dio conosce tutto.
Credo ut intelligam et intelligo ut credam
Una volta compiuto l'atto di fede, la ragione creata è in grado di comprendere a partire dal credere (credo
ut intelligam) e di riconoscere la rectitudo delle argomentazioni su Dio. Per questo motivo la ragione può
anche distaccarsi dalla fede, senza utilizzarla per dimostrare ciò che è dimostrabile secondo la sola ragione,
e che non è altro che la verità di fede (intelligo ut credam).
Il modello di meditazione sulla verità di Dio
Anselmo ritiene che un argomento razionale può convincere anche un non credente o chi ignori la
Rivelazione, della veridicità dell’esistenza di Dio. La sola ratio può condurre la mente alla rappresentabilità
di ciò che la fede intende per Dio. La dimostrazione proposta parte dalla constatazione che, le cose del
mondo sono caratterizzate dalla partecipazione ad un Ente: Causa unica, comune e assoluta di tutte le
sostanze creaturali. Il percorso è esplicitato, da Anselmo, nella prima parte del Monologion.
Le quattro prove a posteriori dell’esistenza di Dio
1. La prima prova parte dalla constatazione che tutti aspirano a godere delle cose che giudicano
buone; poiché si possono confrontare beni tra loro diversi, deve esistere un fondamento comune,
un criterio di valutazione, il Sommo Bene, dal quale tutte le cose traggono la bontà per
partecipazione. Le cose sono imperfettamente buone mentre Dio è il bene più grande: il bene in sé.
2. La seconda prova si fonda sulla scala di grandezza degli enti del mondo; deve esistere un parametro
di grandezza, che è anche l’essere più grande che possa esistere, il Sommo Grande, dal quale tutto
l’ordine delle cose create riceve la grandezza. Dio è la grandezza in sé, che esiste necessariamente
in quanto rende grandi le cose.
3. La terza prova prende le mosse dalla piena comprensione della distanza ontologica fra il Creatore e
le creature; tutte le cose create esistono in virtù di un qualcos’altro che invece esiste soltanto per
sé stesso, la Somma Sostanza. Dio è l’essere in sé e tutte le cose che non sono Dio, sono tali solo in
relazione ad Esso.
4. La quarta prova si riallaccia alle prime due; considera il modo nel quale gli enti sono ordinati
secondo un grado di perfezione, è dunque necessario che vi sia qualcosa che orienti la relazione
delle perfezioni, ossia il Sommo perfetto, Dio che è la perfezione in sé. Una natura superiore a tutte
le altre senza la quale la serie di perfezioni non sarebbe pensabile.
Queste quattro prove a posteriori, ossia tratte dall’esperienza sensibile, presuppongono la superiorità
dell’essere rispetto al non essere.
Le caratteristiche divine
Nella seconda parte del Monologion, viene indicato che per descrivere le caratteristiche della sostanza
divina, bisogna totalmente prescindere dal mondo delle sostanze creaturali:
 Dio è ingenerato poiché il suo esistere non può dipendere da una causa preesistente, altrimenti
non sarebbe la Somma Essenza (creazione dal nulla).
 Dio è eterno e incorruttibile, poiché non può essere soggetto a una determinazione spazio-
temporale-materiale, che è sempre una valutazione relativa.
 Dio è infinito atto e infinita potenza, ossia è l’essenza che può essere tutto e che è tutto ciò che può
essere.
 Dio è il creatore di tutto, ossia autore di tutta la materia e di tutte le forme e ogni causalità da Lui
scaturisce.
La dimostrazione della Trinità
Dalle stesse argomentazioni Anselmo scaturisce poi la dimostrazione della Trinità. La creazione dal nulla è
incomprensibile per la mente umana, poiché ogni parola significante deve corrispondere a qualcosa che
esiste. Allora anche il nulla deve essere qualcosa, dunque le cose erano in qualcosa prima di essere
qualcosa, ossia erano in Dio, ma non erano Dio: erano pensiero divino, ossia Verbo, la parola con cui Dio
dice sé stesso e le cose che crea. Il Verbo è generato dal Padre, generato e generante sono però legati da
un amore identico da entrambe le parti, un amore perfetto, l’Amor, che è una cosa sola con la sostanza
divina, essendo esso stesso Dio: lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio.
Unum argumentum
Nel Proslogion Anselmo è spinto dall’aspirazione a ricondurre la conoscenza del divino all’efficacia di un
solo atto di pensiero, che sia unitario e immediato e che non richieda di essere consolidato da altro. Un
unum argumentum, un argomento unico e sufficiente ad ammettere, da solo, che Dio veramente esiste.
Questo argomento si pone ad un livello primordiale di intelligenza, ossia va colto intuitivamente e non per
via deduttiva; per questo, lo sforzo dell’inventio argumenti è estremo, come spiega Anselmo nel prologo del
Proslogion. La comprensione dell’argumentum è frutto di un’intuizione noetica, che è antecedente alla
traduzione discorsiva con cui esso diventa argumentatio.
La “prova ontologica” dell’esistenza di Dio
Questo argomento è stato successivamente definito come la celebre “prova ontologica” dell’esistenza di
Dio. In realtà in Anselmo, il significato del nome di Dio, ossia il concetto corrisponde alla natura di Dio dal
quale far derivare la necessità della sua esistenza, deriva esclusivamente dalla fede. Solo chi crede può
escogitare l’argomento, il quale però ha un’efficacia dimostrativa propria, a prescindere dalla fede. Dopo
averlo escogitato, esso diventa valido e indubitabile per ogni mente che ne capisce il significato. Il fatto che
soltanto la fede suggerisce alla mente quale sia l’oggetto che essa deve ricercare nel suo dialogo con Dio è
confermato dal precedente titolo dato all’opera: Fides quaerens intellectum, ossia “la fede in cerca di
intelligenza”.
Quo maius cogitari nequit
Per mezzo della fede la ragione può così, intuitivamente, comprendere l’identità tra Dio (Deus) e “qualcosa
di cui non è possibile pensare nulla di maggiore” (quo maius cogitari nequit). Lo stolto (insipiens) biblico
dice in cuor suo: “Dio non esiste”, ma perfino lui, che nega l’esistenza di Dio deve riconoscere di possedere
in sé l’idea di Dio, ovvero l’idea di un “qualcosa di cui non è possibile pensare nulla di maggiore”. Ora,
secondo Anselmo se si ammette che l’idea di Dio esiste nell’intelletto (in intellectu), è necessario
ammettere che esista anche nella realtà (in re). Infatti, Dio deve avere in sé tutte le perfezioni possibili, e
dato che l’esistenza nel mondo reale è una perfezione, è impossibile non attribuirgliela, perché in tal caso
sarebbe possibile immaginare qualcosa che, in virtù della sua esistenza reale, è più perfetto di Dio.
La difesa dell’insipiente
Un monaco di nome Gaunilone, assume la posizione dell’insipiente per portare avanti le sue obiezioni alle
teorie di Anselmo, e scrive un breve opuscolo intitolato Liber pro insipiente. Secondo Gaunilone è
impossibile stabilire una sovrapposizione reale, ossia ontologica, tra l’essere in intellectu e l’essere in re
(utilizza l’esempio di un’isola sperduta, piena di tutte le perfezioni ma che non necessariamente esiste).
Come i teologi moderni, infatti, rifiuta una corrispondenza tra l’ordo rerum e l’ordo verborum, ritenendo,
come Roscellino, che l’intelligenza umana sia in grado di riconoscere la verità solo nelle informazioni
ricevute dall’esperienza, mentre nella mente umana ci sono solo parole e significati e non res. La res
individuale che è Dio non potrà mai essere colta in quanto tale, come oggetto di un’intellezione umana,
dunque, anche il quo maius è concetto puramente astratto che non potrà mai corrisponde a cosa realmente
Dio è.
La replica di Anselmo
Anselmo replica a Gaunilone con una Responsio, che inserisce come appendice al Proslogion insieme al
Liber pro insipiente. Secondo Anselmo, Gaunilone non è stato in grado di comprendere l’intuizione della
formula quo maius, dal momento che nell’obiezione ha utilizzato la formula maius omnibus “la cosa più
grade tra quelle che sono”. Anche una creatura, infatti potrebbe apparire come corrispondente a tale
definizione, ossia “massima nel suo genere”, ma soltanto il quo maius è qualcosa cui la necessaria esistenza
è rivelata dal fatto che non potrebbe essere pensato nulla di più perfetto. L’esistenza del quo maius è
implicata nella sua stessa pensabilità e, se non fosse realmente esistente, non potrebbe nemmeno essere
pensato. Gaunilone e Anselmo non stanno qui dibattendo realmente sulla questione della fede
nell’esistenza di Dio, il punto di disaccordo è il modo di considerare il linguaggio, la natura del legame fra
parole e cose.
Il sistema della verità cristiana
Nel De grammatico Anselmo difende la capacità umana di esprimere verità eterne ed immutabili mediante
una corretta organizzazione del linguaggio. Inoltre, chiarisce che tutti i termini logici significanti possono
avere sia una valenza individuale che universale, ed è compito della logica stabilire a quale livello si collochi
il significato di ciascun termine. La ragione umana, infatti, può utilizzare nelle proprie argomentazioni solo
elementi logicamente determinati, la cui rectitudo sia stata precedentemente verificata. Lungo tutta la sua
trattazione, Anselmo ricerca continuamente tali principi eterni della verità, ossia le necessariae rationes.
Le ragioni necessarie
Il reperimento di queste necessariae rationes assicura la corrispondenza oggettiva del pensiero umano alla
volontà divina del Verbo, e alla descrizione offerta dalla Sacra Scrittura. Anche la Parola divina gode di una
sua rectitudo, ossia una corrispondenza delle cose che dice con la realtà:
 se dice la natura divina, il Verbo gode di una rectitudo assoluta.
 se dice le cose create, esse avranno rectitudo nella misura in cui si realizzeranno per ciò che
l’archetipo divino ha stabilito per loro.
Il male come privazione
Nel De casu diaboli Anselmo prende in considerazione Lucifero, il quale avendo ricevuto in principio da Dio
una certa misura di esistenza e una libera volontà, scelse di allontanarsi dalla volontà divina e di non
preservare tale condizione retta nella quale era stato creato, la sola ad avere realtà e dignità in quanto
buona. Il termine male infatti non indica nessuna realtà che abbia dignità ontologica, ma al contrario una
sottrazione di realtà, una mancanza d’essere, un “nulla” inteso come privazione di esistenza. Anselmo fa
così propria la concezione già espressa da Agostino, come bisogna parlare della cecità come privazione
della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Del male non si può reperire nel Verbo alcuna
necessaria ratio della sua realtà, Dio pertanto, non può essere la causa del male, ma semplicemente egli fa
sì che abbiano realtà le conseguenze del peccato.
La definizione di libertà
Nel De libertate arbitrii Anselmo rifiuta la definizione della libertà come: la possibilità di poter scegliere se
fare il male (peccare) o fare il bene (non peccare). Infatti in tal caso ne risulterebbe la conclusione assurda
che Dio, non potendo fare il male (non potendo peccare), non sarebbe libero. Al contrario è proprio Dio ad
essere libero nel non poter compiere il male, mentre l’uomo è costretto a scegliere fra queste due
condizioni, dunque la vera libertà consiste nella liberazione da tale scelta.
Il libero arbitrio e il peccato
Anselmo sostiene che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé, quanto a una degenerazione della
libertà. Il peccato altro non è che l’attuarsi della non-rectitudo di qualcosa, ossia il suo essere in modo
diverso da come Dio vuole che sia. In questo senso agli angeli e all’uomo è stato concesso un arbitrio meno
libero di quello divino, perché potenzialmente capace di orientarsi alla perdita di rectitudo. Tale
potenzialità non ha determinato necessariamente la caduta, ma ha soltanto permesso loro di agire
liberamente, infatti entrambi pur essendo caduti, continuano a conservare il libero arbitrio.
La grazia divina e la libertà
Ma in seguito alla caduta all'uomo è preclusa la possibilità di agire rettamente con le sue sole forze, è solo
per mezzo della grazia divina che la libertà si può esplicare al massimo delle sue potenzialità e può
realmente condurre l'uomo verso Dio. La volontà è comunque incerta anche dopo aver ricevuto la grazia, e
può cedere in ogni momento rivolgendosi al peccato anziché rimanere salda nella propria rectitudo,
passando così da una condizione di libertà alla corruzione della libertà. Dunque la libertà si configura come:
la possibilità di realizzare le perfezioni previste dalle necessariae rationes, stabilite dall’archetipo del Verbo.
Perché Dio si è fatto uomo?
Nel Cur Deus homo Anselmo si interroga circa le ragioni e la libertà che hanno portato Dio ad attuare la
redenzione del genere umano, affrontando così il tema dell’Incarnazione. Anselmo procede a spiegare il
carattere necessario della volontà divina, non soggetta a costrizioni e ad impedimenti, stabile nella sua
assoluta immutabilità. Proprio per via dell’assoluta immodificabilità del piano divino, predisposto per
l'uomo in principio, che in seguito alla caduta di Adamo, si è reso necessario un intervento di Dio per
redimere l'uomo dalla sua condizione peccaminosa. Infatti acconsentendo alla tentazione del diavolo,
l’uomo ha perso la sua rectitudo sottraendo a Dio ciò che gli è dovuto in quanto creatore.
Il disordine del peccato originale
Resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio, restituire a Dio ciò che gli è
dovuto significa ripristinare la rectitudo venuta meno con il peccato originale. Per riparare all’errore l’uomo
stesso allora dovrebbe ripristinare, in sé stesso, la condizione nella quale è stato creato, ma il peccato
originale che ne caratterizza la condizione decaduta e mortale lo impedisce rendendo così apparentemente
impossibile la redenzione. Risulta anche necessario che la remissione dei peccati dell'uomo passi attraverso
un'effettiva espiazione, se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il
peccato ricevesse una giusta punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine
e la legalità morale dell'universo risulterebbe compromessa.
La redenzione dell’uomo
Tuttavia l'uomo in quanto creatura incapace di compiere il bene, se non in virtù della partecipazione al
Sommo Bene, non è in grado di espiare la sua colpa da solo, perché il merito della bontà di ogni azione di
riparazione sarebbe comunque da ricondurre Dio. Così Anselmo dimostra che il Salvatore deve essere
necessariamente un Dio-uomo, ovvero un individuo di natura divina non soggetto al peccato originale.
Risulta infatti che nessun essere inferiore a Dio poteva attuare la riconciliazione con Dio stesso, e d'altra
parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo.
Vero Dio e vero uomo
Il mediatore non poteva essere un angelo o un’altra creatura più vicina a Dio dell’uomo, perché questo
avrebbe determinato un assoggettamento dell’umanità al suo redentore e non solo a Dio, verso cui la
servitù non è in realtà dipendenza ma la realizzazione della libertà di ogni creatura. Pertanto le
caratteristiche che le Scritture attribuiscono a Gesù, vero Dio e vero uomo, partecipe in ugual modo e nello
stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la
redenzione dell'umanità.
Necessità logica e causale
Nel De concordia Anselmo spiega che è inadeguato parlare di Dio facendo riferimento a necessità,
possibilità o impossibilità. Tali termini sono relativi al modo imperfetto di agire delle creature e non sono
attribuibili alla perfezione divina. Viene, inoltre, affrontata la difficoltà di coniugare la possibilità della
libertà umana con la prescienza divina, distinguendo in:
 necessità logica o conseguente (sequens: l’ordine che sottende tutte le cose create, che
rappresenta l’essere libero di Dio nel creare la natura e le sue leggi).
 necessità causale o precedente (praecedens: la successione temporale degli eventi e delle scelte
umane).
Solo la necessità causale va ad interferire con la libertà umana, quindi non c’è alcun conflitto con la
prescienza divina, che concerne l’ordine della necessità logica.
Dio opera nell’eternità
l’Incarnazione per redimere l’umanità, infatti, non è necessaria in senso causale ma logico: nasce da una
libera scelta di Dio che sta al di là dell’ordine temporale degli eventi. Anselmo propone una tesi già
affermata da Agostino e da Boezio: Dio conosce e determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e
futuri dall’eternità. In questa prospettiva sovratemporale tali eventi sono tutti simultanei, non c'è quindi
contraddizione nel fatto che Egli conosca o determini un evento libero e non necessario.

Introduzione scuole cittadine


Nuove istituzioni d’insegnamento
Nel XII secolo i luoghi dove si può studiare sono i monasteri ed alcune case private, ma la grande
trasformazione della vita intellettuale per quanto riguarda le istituzioni d’insegnamento si verifica nelle
scuole cittadine. Mentre i monasteri tendono a chiudere le loro scuole agli esterni limitando l’attività
d’insegnamento accogliendo persone già formate, le scuole cittadine aperte da singoli maestri si
moltiplicano e rafforzano soprattutto in Francia.
La fondazione della scuola di San Vittore
Personaggio chiave in questo quadro è Guglielmo di Champeaux, che fonda la scuola di San Vittore nel
1108, inizialmente finalizzata soltanto alla preparazione del clero. Il moltiplicarsi dei corsi amplia
successivamente il suo raggio d’azione, con l’accorrere di un numero sempre maggiore di studenti da ogni
parte del mondo cristiano. Viene offerta una possibilità di sintesi tra le competenze profane e la filosofia del
clero.
La natura come teofania
La natura è, come la Scrittura, il luogo in cui Dio parla, ossia è considerata come l’altro libro scritto da Dio,
che è messo a disposizione delle intelligenze umane affinché possono risalire alle realtà invisibili. Dunque, la
corrispondenza tra ordo rerum e ordo idearum va indagata attraverso una verifica delle concatenazioni
naturali, attraverso l’ausilio delle arti del quadrivio, che forniscono un’ulteriore struttura formale del
sapere.
La natura come disvelamento
La natura è un integumentum (involucro), che copre gli aspetti divini celati nella realtà, allora le leggi fisiche
e le relazioni fra le cose devono essere interpretate proprio come riflesso dei movimenti perfetti e
soprannaturali della volontà divina. Ed è compito della ragione umana penetrare sotto il velo delle
apparenze sensibili per codificare gli aspetti immutabili della realtà, compiendo un percorso a ritroso.
Sollevare l’integumentum è compito del filosofo, come è compito del filosofo coglie nella Scrittura gli
aspetti allegorico-spirituali che sottendono a quelli storico-letterari.
Le fonti della scuola di Chartres
Traduzione e commento di Calcidio al Timeo di Platone: è interessante per i medievali l’idea del demiurgo,
ossia di un potente architetto che plasma ordinatamente, ispirandosi ai modelli eterni, da cui si originano
tutte le res naturali. Commento di Macrobio al Sogno di Scipione, da cui è tratta l’idea di un ordine cosmico
creato da Dio e l’ascesa conoscitiva dell’anima dal sensibile al sovrasensibile. La Consolatio di Boezio, in cui
è manifesta l’esigenza cristiana di conciliare l’ordine della Provvidenza con il meccanico susseguirsi di eventi
casuali. Vi è, infatti, un nesso tra le cause del mondo visibile che permette il decifrarsi nella natura della
volontà creatrice di Dio.

Pietro Abelardo XI-XII secolo, filosofo di maggior rilievo dell’epoca e, successivamente, monaco.
Theologia christriana
Abelardo utilizza il termine teologia in un significato nuovo, che entra nel lessico fondamentale del pensiero
occidentale andando a designare la comprensione intellettuale della verità rivelata da Dio, conservata nella
Scrittura e tramandata dalla tradizione ecclesiastica. La vera theologia dei cristiani costituisce una possibile
alternativa all'indagine filosofica puramente razionale sul divino, sempre incompiuta e inadeguata.
Abelardo tratta questo tema nel Dialogo, che è considerato il suo testamento spirituale. In quest’opera al
cristiano spetta il compito di mostrare al filosofo la convergenza tra la verità dell’intelligenza e quella della
Rivelazione.
I principi gnoseologici del platonismo
Abelardo si allinea ai principi gnoseologici del platonismo: non è la conoscenza ad adeguarsi all’oggetto, ma
è l’oggetto che si fa conoscere in modi diversi a seconda delle facoltà conoscitive del soggetto. Così la
teologia può nascere dall’illuminazione con cui Dio consente all’uomo di ascendere alla sua visione della
verità, seppur in modo imperfetto. Per cui, se da un lato è vero che una data cosa viene percepita in
maniere differenti, è anche vero che quella data cosa è una, sebbene non sia conosciuta da tutti allo stesso
modo.
Ratio quae rei dubiae facit fidem
Abelardo arriva così a sostenere che la conoscenza intellettuale del divino sarà sempre e soltanto creaturale
(terrena philosophia), non falsa ma, semplicemente, non ancora vera in senso proprio poiché non ancora
compiuta. Il desiderio di conoscenza di Dio potrà essere esaudito completamente solo da chi si affida alla
grazia della Rivelazione, che comunque senza l'impegno dell'intelligenza non potrà dar frutti. L’impegno
dell’uomo è dunque quello di indagare dialetticamente i contenuti della sacra lectio: un’attività volta a
generare e favorire l’assenso della ratio alla fides, per sostenerla, svilupparla e difenderla.
Che cosa sono gli universali?
La questione degli universali oltre ad essere un problema logico è anche un criterio epistemologico, poiché
consente di distinguere una conoscenza vera da una falsa. Abelardo parte dall’Isagoge di Porfirio, in cui
l'autore pone tre domande: Gli universali esistono, e dunque sono realtà? Se esistono, sono separati dagli
individui? Se sono separati dagli individui, sono conoscibili a prescindere da essi?
Dalla risposta a queste tre domande conseguono la giustificazione e la possibilità di una conoscenza umana
che non si ferma al problema della sussistenza degli universali, ma si estende alla stessa corrispondenza tra
parole e realtà e, dunque, alla veridicità di ogni possibile scienza.
La critica al nominalismo di Roscellino
Abelardo si allinea con la corrente realista degli antqui, opponendosi invece al nominalismo dei moderni e
di Roscellino, i quali negano che la dialettica sia scienza del reale e affermano che l’universale non è che un
flatus voci. Per Abelardo invece la dialettica è scientia veritatis e non scientia vocum, che è invece la
grammatica, infatti la dialettica tratta del reale e di ciò che è immutabile. Dunque gli universali si riferiscono
alle cose reali, ma attraverso la mediazione dei nomi, i quali in quanto vocabolo o suono di voce sono detti
vox, in quanto entità linguistica dotata di significato sono detti sermo. Solo in quest’ultimo ambito si
trovano i termini universali, poiché si basano sulla natura comune delle cose, reali e immutabili, da esso
indicate. Questa soluzione del problema degli universali viene denominata “concettualismo”.
La critica al realismo di Guglielmo
D’altra parte, Abelardo è ben consapevole che le posizioni realiste del suo maestro, Guglielmo di
Champeaux, sono sempre sottoposte a critiche. Gugliemo di Champeaux sosteneva che gli universali
fossero il sostrato ontologico degli individui, una res spirituale, non soggetta all'accidentalità e superiore in
grado ai corpi nella gerarchia dell'essere. Se la specie è sostrato sostanziale degli individui, allora il genere
lo è della specie. Abelardo critica questa posizione poiché una res non può essere predicata di altre res.
Cambio di posizione del maestro
Di conseguenza Guglielmo modifica la sua posizione passando alla dottrina della “non differenza”: le cose
hanno ciascuna una propria essenza, che però è uguale in tutte le cose appartenenti a una medesima specie
o genere. Il cambiamento introdotto da Guglielmo di Champeaux tenta di salvare la singolarità degli
individui appartenenti ad una stessa specie, che è incompatibile con la posizione del realismo.
La quarta domanda
Abelardo aggiunge una quarta domanda alle tre dell’introduzione porfiriana: gli universali continuerebbero
ad esistere anche se cessassero di esistere i soggetti? La risposta è necessariamente affermativa, poiché
sarebbe sempre vera, se non esistessero più rose, l'asserzione “non esistono più rose”.
La definizione degli universali
Abelardo si trova quindi in armonia con la concezione platonico-agostiniana della dialettica come
ricomposizione interiore del vero stabilito da Dio. Il significato dell’universale è un’immagine confusa di
molte cose che si forma per astrazione, non a partire dalle singole cose, ma dal loro status, ossia la
condizione per cui le res possono avere una determinazione comune. L’universale è la vera realtà della
relazione tra soggetto e oggetto, ossia quando l’intellectus corrisponde allo status in cui esteriormente la
res si trova.
Gli universali come idee divine
Dunque, gli universali per essere veri devono riflettere nel migliore dei modi la maniera di essere delle cose,
ossia le leggi che governano la creazione. La verità ultima degli universali è, infatti, quella delle idee divine.
La logica è la scienza che permette di cogliere nelle cose le formae in cui si esprimono il loro modo di essere
e le loro relazioni, e di esprimerle attraverso delle voces corrispondenti.
Il ruolo dei filosofi pagani
Abelardo ritiene che i filosofi pagani hanno svolto nel popolo greco, lo stesso ruolo svolto dai profeti nei
confronti del popolo ebraico e dagli apostoli nei confronti dei cristiani. La ragione naturale a cui i filosofi
pagani hanno attinto è una manifestazione divina della Rivelazione, tanto quanto quella ricevuta dagli ebrei
prima della venuta di Cristo. I migliori tra loro hanno potuto intravedere qualcosa del mistero della Trinità
ed essere anche salvati, in quanto sono stati in grado di teorizzare un modello di città ideale ispirato alla
ricerca del bene comune.
La triade platonica della città ideale
Abelardo sostituisce alla classica triade platonica dei lavoratori-guerrieri-filosofi le classi dei fedeli-prelati-
monaci. La forma più alta di vita è quindi quella del monaco paragonata al filosofo, che si ritira nel
“deserto” lontano da ogni interesse materiale/terreno e dedito allo studio-preghiera-contemplazione; i veri
monaci e i veri filosofi hanno lo stesso ideale di vita.
Il dialogo fra le religioni
Nel Dialogo tra un filosofo un ebreo e un cristiano si giunge alla conclusione che il Sommo Bene per l’uomo
è durante la vita “il vivere secondo virtù”, secondo la tesi stoica, ma in analisi definitiva esso si realizza
soltanto come visione beatifica di Dio nell’aldilà. La contemplazione di Dio e l’esercizio della logica non sono
due pratiche distanti per Abelardo, ma un'unica espressione antropologica che vede l’uomo come l’essere
più perfetto. Abelardo interpreta la tesi giovannea secondo cui il Figlio, seconda persona della Trinità, è il
Logos; così praticare la ragione naturale logica-filosofica-teologica è dare spazio alla manifestazione del
divino nel mondo. La ragione infatti senza sostituire le fede, permette di accostarsi maggiormente ai suoi
misteri tramite similitudini verosimili.
Veri logici e veri filosofi
Abelardo esprime nel prologo della Dialettica che la stessa legittimazione alla pretesa creaturale di parlare
di Dio (teologia) e parlare con Dio (preghiera), deriva dalla logica. Quest’ultima, in quanto scienza, ha a che
fare con la verità tanto quando la fede, la quale è produttrice di scienza perché consente di conoscere la
verità; se sono veridiche logica e fede non potranno mai contraddirsi. L'uso della dialettica in teologia è
dunque non solo lecito ma indispensabile, perché permette di perseguire un fine comune: l’acquisizione
conoscitiva del vero e del bene, che avvicina l’uomo a Dio.
Le determinazioni dell’etica
Abelardo è il primo autore a dare una giustificazione speculativa dell’etica, ossia a trattare questi argomenti
in termini razionali. Egli ha sentito, infatti, l’esigenza di fissare dei principi che assicurassero non soltanto
l‘adesione formale, ma anche sostanziale alla legge di Cristo. Principio fondamentale dell’etica è scito te
ipsum, ossia “conosci te stesso”: peccare per l’uomo è porre in sé stesso il fine delle azioni anziché in Dio.
Dunque, per evitare il peccato è necessario conoscere la bontà della legge divina e orientare in modo giusto
la propria disposizione nei confronti di essa.
La distinzione tra vizio e peccato
Abelardo nell’Etica distingue:
• vizio come un’inclinazione naturale che deriva dalla complessione del corpo, ossia dal modo in cui
esso è stato “montato”. Il vizio è predisposto dalla nascita, quest’inclinazione non è una colpa ed
esserne privi non è un merito.
• peccato come acconsentire con la volontà ad un’inclinazione cattiva, frutto di una libera scelta e per
questo si configura come una colpa. Ciò che costituisce propriamente il peccato non è una qualche
realtà sostanziale, ma l’intenzione deliberata di andare contro la volontà di Dio, ovvero il disprezzo
della legge divina, conoscere quel che Dio vuole e tuttavia non volerlo.
L’intenzione malvagia
Dio in quanto onnipotente, non è offeso dall’atto cattivo in sé, ma ciò che lo offende è il non acconsentire al
bene che lui ci ha indicato. Non è la pura azione, ma l’intenzione che la orienta a determinare la
responsabilità dell’individuo. Uccidere è in ogni caso un male, ma solo uccidere volontariamente è un
peccato, mentre farlo involontariamente non lo è. Allo stesso modo, anche solo avere l’intenzione di
uccidere senza riuscire a portare a compimento l’omicidio è un peccato.
Il primato dell’intenzione morale
Se il primato è dell’intenzione, la valutazione si basa sul motivo dell’azione, ossia sull’intenzione per cui si
agisce. La valutazione morale di un’azione è legata all’intenzione di chi la compie ma questo non vuol dire
soggettività della morale: il bene e il male non sono soggettivi, ma è soggettivo il consenso all’azione. Le
azioni in sé non hanno rilievo morale e sono indifferentemente buone o cattive. Oltre al giudizio morale, è
necessario tenere in conto anche il giudizio giuridico: questi piani sono diversi ma entrambi validi. Una
madre che soffoca il bambino per evitargli di morire ibernato non commette un peccato, ossia non agisce
male dal punto di vista morale, ma è perseguibile penalmente, poiché agisce male dal punto di vista
giuridico.
La simmetria tra bontà e verità
L'intenzionalità è sostanzialmente simmetrica all'intellectus, in quanto la bontà di un'azione dipende dalla
sua intenzionalità secondo i dettami della legge divina, mentre la verità di un'asserzione dipende dal suo
conformarsi allo status dell'oggetto di cui tratta l'asserzione. La conoscenza dell'uomo è inadeguata quanto
la bontà delle sue azioni, in quanto in entrambi gli ambiti si tende all'ideale, senza però poterlo realizzare.
Come però nessuna azione non può non orientarsi nei riguardi del bene, così nessuna conoscenza non può
non orientarsi nei riguardi del vero.
La teologia trinitaria
La difficoltà di analizzare i rapporti fra le persone della Trinità, porta Abelardo ad affermare che “solo il
Padre è in sé tale da poter in sé stesso sussistere”, una posizione diametralmente opposta al triteismo del
suo maestro Roscellino. Nella Theologia Summi Boni Abelardo sostiene che, con i nomi Padre-Figlio-Spirito
Santo non si intende altro che Potenza-Sapienza-Carità. il Padre genera il Figlio che è della stessa sostanza
del Padre, perché la sapienza è una forma di potenza divina, mentre lo Spirito Santo procede dal Padre e
dal Figlio, altrimenti la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza non avrebbe razionalità.
Inoltre Abelardo afferma che il mondo creato, è il migliore dei mondi possibili, e Dio non avrebbe potuto
farlo diverso da com’è.
L’indagine logica della Sacra Scrittura
Nel momento in cui Dio si è rivelato, la logica è stata autorizzata ad indagare la lectio scritturale. Le parole
della Bibbia, in quanto significanti e soprattutto in quanto vere, producono nel soggetto un intellectus.
Tuttavia l’oggetto in questione è di difficile comprensione per le capacità limitate dell’intelligenza umana,
risulta dunque necessario applicare al testo sacro una solida metodologia ermeneutica.
La teologia “scientifica”
Nella sua opera Sic et non Abelardo propone la teorizzazione di questa metodologia, in essa troviamo una
raccolta di sententiae scelte e accostate per far risaltare palesi casi di contraddizione tra le tesi dei Padri.
L'obbiettivo dell'opera è invitare l'intelligenza del lettore a superare metodicamente il contrasto, elevandosi
su un piano ermeneutico superiore, dove la molteplicità delle opinioni dovrà risolversi nell'indubitabile
unitarietà del vero:
• verificare correttezza ed autenticità dei testi; tenere conto delle possibili variazioni di pensiero di
un autore; verificare la presenza di eventuali polisemicità; classificare i testi esaminati in base
all’autorevolezza di chi li ha scritti.
Qualora da questi esami non emergano contraddizioni, l'interprete, considerando che anche quello dei
Padri è un tentativo imperfetto di comprendere la perfezione della Scrittura, sarà autorizzato ad introdurre
la ratio dialettica.

Gilberto di Poitiers XI-XII secolo, canonico e cancelliere a Chartes.


Il commento agli opuscoli di Boezio
L’opera teologica principale di Gilberto è il suo Commento analitico ai cinque Opuscola sacra di Boezio. Nel
prologo di quest’opera Gilberto presenta la sua concezione di teologia: una forma altissima di sapere che
tenta di rendere intelligibile il mistero del divino, che di per sé è inconoscibile. Dunque, la razionalità umana
dovrà affidarsi alla complessità del linguaggio scritturale e sperare di non raggiungere che risultati
“probabili”. Secondo Gilberto, Boezio è stato uno dei più precisi e attenti teologi: per impedire il diffondersi
delle eresie, ha proposto una serie di illustrazioni ragionevoli volte a mostrare quanto di intelligibile vi è nei
dogmi. L’esempio di Boezio insegna, dunque, che per comprendere la fede è necessario che tutti siano al
contempo competenti e ignoranti, superbi e umili, capaci di applicare le regole del linguaggio scientifico ma
consapevoli del loro infrangersi difronte al divino.
Interprete di Boezio
Boezio è un auctor, ossia un autore di cose sacre al quale è riconosciuta un’autorità però inferiore a quella
del profeta. Gilberto propone sé stesso come un lector, ossia non un semplice recitator ma un vero e
proprio interpres: un commentatore, il cui compito è quello di portare a compimento l’opera dell’auctor.
Egli, infatti, espone in modo corretto e chiaro il significato delle parole di Boezio, evidenziandone gli intenti
e approfondendone i contenuti servendosi della razionalità. Gilberto fa sì che il contributo di Boezio
all'interpretazione della fede sia accessibile a tutti, senza fraintendimenti o mistificazioni.
Il metodo della quaestio
Un commento di questo genere deve obbligatoriamente essere supportato da una metodologia rigorosa,
cui Gilberto vuole sottomettersi per evitare errori mantenendo fede al testo originale e per arricchirlo. La
tecnica di indagine è suggerita da Boezio stesso all’inizio del primo opuscolo, quando definisce il problema
trinitario una quaestio. Gilberto chiarisce il concetto e spiega che si ha una quaestio ogni qualvolta deve
essere risolta una contradictio tra due tesi, che sembrano appoggiarsi su ragioni entrambe valide. Ma dal
momento che, per il principio di non contraddizione, due tesi opposte non possono essere ugualmente
vere, una di esse lo è soltanto in apparenza a causa dell’ambiguità semantica, che deve essere individuata
ed eliminata.
Il metodo della distinctio
Si procede, allora, elencando tutte le ragioni pro e contro e successivamente si effettua una distinctio, nella
quale si evidenza l’appartenenza delle due tesi a due loci differenti, ossia a due generi semantici diversi. La
distinctio consente di evidenziare quale delle due tesi sia quella corrispondente al contesto specifico, e
vada quindi riconosciuta come veridica. Strategia importante perché chiarisce come l’ambito di conoscenze
relativo ai contenuti della fede possa essere aperto all’indagine e all’approfondimento razionale, purché
adeguatamente supportato da una strumentazione corretta. Le conclusioni ovviamente dovranno essere in
accordo con ciò che è già esplicito nella Rivelazione.
La divisione delle discipline
Gilberto inventa, dunque, un nuovo metodo di fare filosofia, che prevede un lavoro di scrutinio e di
raffinamento della questione. Nell’ambito di disciplina della filosofia teoretica sono comprese, però, tre
scienze differenti, che corrispondo ad ambiti di indagine e metodi differenti. Secondo la distinzione di
Boezio, queste sono:
• scientia naturalis (fisica), che indaga la realtà dei corpi attraverso una ratio rationabiliter.
• mathematica, che indaga le forme immutabili della realtà non separate attraverso una ratio
disciplinaliter.
• theologia, che indaga Dio, ossia l’unica forma immutabile e separata attraverso una ratio
intelletualiter.
Il metodo della transuptio
Nella maggior parte dei casi la teologia non dispone di strumenti propri adeguati e deve ricorrere agli
strumenti delle scienze inferiori. Questo vuol dire che i termini devono essere sottoposti ad una parziale
traslazione del loro significato originale, attraverso il metodo della transuptio nella loro funzionalità
semantica. La terminologia logica è portata ad assumere una valenza deviata dalle sue originali finalità
quando viene adattata al sapere teologico. In ambito teologico i termini vanno usati transumptive, ossia
quando hanno per oggetto una res che è superiore a ogni realtà naturale. Non tenendo conto di questa
transuptio si incorre negli errori degli eretici, che hanno preteso di applicare alla verità rivelata, in tutto e
per tutto, la metodologia atta invece alle scienze naturali.
La differenza dei termini nelle discipline
Tenendo conto, invece, delle alterazioni nella metodologia si può comprendere, per esempio, l’utilizzo del
termine persona nella spiegazione del dogma della Trinità. In ambito teologico, l’uso del termine persona è
differente da quello fatto negli altri ambiti disciplinari: Padre, Figlio e Spirito Santo sono tre persone senza
dover ammettere la sussistenza di essi come tre realtà individuali separate. Solo le tre persone divine sono
ciascuna Dio e diverse le une dalle altre, senza per questo essere Dio in modo differente. Il teologo, però,
dovrà operare una distinctio per comprendere quando questo termine viene applicato alle realtà naturali e
quando alla realtà divina.
La critica dei tradizionalisti
I tradizionalisti, come Anselmo, considerano il linguaggio teologico sempre univoco rispetto al normale
parlare dell’uomo, in quanto vero e immediato poiché significativo della realtà che esprime. Gilberto ha la
necessità di passare da una primitiva concezione della teologia come riflesso nella mente umana del
discorso della fede, ad un adeguato apparato strumentale che ne consenta la corretta percezione.
Il problema dell’universale
Per Gilberto, l’universale è un vero e proprio modo di essere di qualcosa di reale, che si colloca nella
posizione mediana della gerarchia ontologica che va da Dio alla creazione. Dunque, l’universale non è
solamente un puro oggetto del pensiero, ma è più reale che non. Infatti, dal momento che tutto ciò che
esiste come reale è qualcosa di singolare, non solo gli individui ma anche gli universali e la sostanza divina
sono singolari. Gilberto distingue tra:
• substantia simplex, Dio assolutamente semplice.
• dividuum, la sostanza universale divisibile.
• individuum, la sostanza individuale, che può essere irrazionale o razionale, e nell’ultimo caso si
chiama persona.
Id quod est et id quo est
Peculiarità dell’individuum è il suo non essere conforme ad altro, quello che Boezio chiama id quod est, cioè
l’esistere in un modo determinato ed irripetibile, come risultante dell’incontro tra materia e forma. Quello
che determina l’id quod est (il sussistente) nel modo in cui esso effettivamente esiste è la forma, che
orienta l’essere della materia dell’individuo. La forma non è altro che l’id quo est (la sussistenza) una realtà
che è conforme a tutti gli individui che sono da essa formati. La non-conformità è la caratteristica peculiare
degli individui, mentre la conformità è quella particolare degli universali, ossia di quelle entità che possono
essere partecipati da molti.
I due modelli ontologici degli universali
Gilberto, per spiegare come gli universali possano essere una sussistenza reale, ossia un singolare, pur
essendo partecipati da diversi individui, introduce due diversi modelli ontologici:
• sincerae substantiae, le idee divine, gli universali eterni che coincidono con il pensiero e la volontà
di Dio.
• formae nativae, le singole realtà universali, che riproducono i modelli superiori delle idee divine
per diventare a loro volta modelli, ossia le forme formatrici delle realtà inferiori. Le forme native
sono al contempo essere-sussistente (id quod est), in quanto singolari, che essenza-sussistenza dei
singoli sussistenti (id quo est) di cui le cose individuali partecipano.
L’individuo e l’articolazione delle scienze
L’individuo è il risultato di una composizione ontologica, il frutto della somma delle idee divine e di tante
forme native (altezza, peso, abilità, etc.) le quali specificano l’individuo sommandosi. La fisica, studia le
forme degli individui corporei, mentre la matematica, studia le forme native in quanto universali, come se
fossero separate dagli individui. La teologia deve, allora, trascendere tutte le forme create per portare lo
sguardo sull’essere semplice di Dio e delle forme esemplari nel suo Verbo.
La distinctio Deus e deitas
Secondo Gilberto, per comprendere Dio si deve utilizzare il linguaggio scientifico attinto alle scienze
inferiori, tenendo conto, però, di tutte le transuptiones terminologiche, ossia cercando di trascendere da
tutti i limiti che appartengono al concreto creaturale. Dio è una singolarità, cioè un id quod est, ma una
singolarità assolutamente semplice, ossia identica in tutto e per tutto all’id quo est che lo fa essere Dio. Per
questo è possibile nel linguaggio teologico distinguere Deus da deitas, proprio come nel piano fisico si
distingue l’homo dall’humanitas. Per Gilberto “Dio è Dio perché l’essere Dio lo fa essere Dio”, questa
formulazione non è però accettata dal concilio, che non ammette la liceità dell’enunciazione di una realtà,
la deitas, come se potesse essere diversa da Dio; la formula allora diventa “tutto ciò che è in Dio è Dio”.
Dalla ragione discorsiva a quella intuitiva
Non vi è un’effettiva distinzione del modus essendi del divino: la diversità dei modi significandi non dipende
che da una distinzione dei nostri modi intelligendi. Dunque, la distinzione tra deitas e Deus è funzionale
solo alla comprensione umana, ma non implica un’effettiva dicotomia nell’oggetto. Infatti, il pensiero
umano può comprendere l’essere di qualcosa soltanto grazie alla distinzione logica tra ciò che è predicato
(la deitas) e ciò di cui si predica (Dio). In caso contrario, sarebbe impossibile introdurre qualsiasi
qualificazione o determinazione all’interno dell’essere divino, poiché in teologia l’id quod est e l’id quo est
designano un’unica cosa. In Dio ogni predicazione è sempre e soltanto predicazione del suo essere Dio e lo
stesso vale per il dogma della Trinità: è la deità che fa essere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo Dio, la
sostanza divina è una sola ed è la stessa in tutte e tre le persone divine.

Ugo di San Vittore XII secolo, primo successore di Guglielmo alla direzione della scuola di San Vittore.
l’intuizione dei filosofi pagani
Ugo di San Vittore, il primo successore di Guglielmo alla direzione della scuola, sostiene nella raccolta
Sententiae de divinitate, che i grandi pensatori, Platone in testa, abbiano potuto percepire con la sola
razionalità la verità del mistero trinitario. La verità cristiana è già stata intuita, pur senza essere compresa
per via di una non ancora sopravvenuta Rivelazione, da tutta la storia delle humanarum litterarum.
L’importanza dell’apprendimento
Il Didascalicon, la sua opera principale, è un grande repertorio di elementi della dottrina cristiana. In questo
testo vi è una ricca documentazione e una grande attenzione metodologica che porta Ugo a progettare e
descrivere i successivi gradini di un’organica educazione intellettuale del clero. La conoscenza è un processo
continuo e per questo deve avvenire per gradi: non si può accedere ai piani più altri se non partendo dai più
bassi, dei quali la vita contemplativa è l’esito finale. “Impara tutto, dopo ti accorgerai che nella vita ti sarà
stato utile”: bisogna apprendere tutto perché nulla è superfluo, e più si apprende più diventa facile
continuare a farlo. Ugo realizza, quindi, una completa e sistematica pedagogia del sapere.
Il dono divino della filosofia
Secondo Ugo, dopo la cacciata dal paradiso, l’uomo ha perso i tre doni che gli avrebbero consentito di
realizzare la perfezione a cui era stato predestinato: 1) il fatto di essere stato creato a immagine di Dio, e
quindi l’immortalità; 2) la conoscenza del bene; 3) l’allontanamento del male e dell’infermità corporea. Dio,
tuttavia, ha donato all'uomo la filosofia per permettergli di ritornare alla propria originaria condizione.
La filosofia come soluzione alla deficienza umana
il rimedio a ciascuno di questi tre mali, passa attraverso lo studio delle seguenti discipline filosofiche:
• teoretica che permette la conoscenza del vero, è volta alla possibilità di costruire la sapienza.
• practica, ossia l’etica, che permette l’esercizio della virtù per il conseguimento del bene.
• mechanica, che fornisce gli strumenti contro l’infermità della natura umana.
• logica, volta a fornire la metodologia corretta per l’acquisizione umana di tutte le conoscenze.
Nessuna di queste discipline può essere sacrificata e sono tutte volte alle finalità più alte della conoscenza:
scienze profane come propedeutiche alla comprensione della verità divina.
La teologia naturale
Secondo l’insegnamento di Agostino, tutte le cose (res) possono diventare signa, ossia indicatori visibili
delle realtà invisibili. Questi segni possono essere, però, indagati solamente dalla forma più alta della
filosofia teoretica, ossia la teologia naturale o teologia mondana, che permette di arrivare a Dio dal mondo
del creato. Tuttavia, in questo processo è anche necessaria l’autorivelazione di Dio, passando così alla
teologia divina, attraverso un mutamento di procedimenti conoscitivi. Anche il rapporto tra fede e ragione
deriva dalla prospettiva etica delle conseguenze del peccato originale: l’anima dopo il peccato non è più in
grado di vedere la natura, sé stessa e Dio e dunque: “le fede è necessaria per credere le cose che non si
vedono”.
L’uomo come primo sacramento
Tuttavia la teologia naturale può anticipare la fede, per partecipazione dell’illuminazione divina, che si attua
grazie alla conoscenza di sé, ossia quando l’uomo contempla la propria somiglianza con le cose superiori.
Nel De unione corporis et spiritus, l'uomo è a metà tra spirituale e materiale, piani di esistenza che hanno
bisogno l’uno dell’altro e si completano a vicenda. In questo senso l’uomo è il principale sacramentum, la
prima manifestazione del divino. La prima forma della conoscenza è l'autocoscienza, la cognitio sui per
mezzo di cui l'uomo è in grado di risalire al divino attraverso
 la certezza agostiniana dell’anima che si scopre finita ed esige una causa creatrice esterna a sé;
 la certezza delle cose esterne che, nella loro contingenza, esigono a loro volta un Creatore.
L’immaginazione come medium
La ricerca antropologica è mossa dall’esigenza di trovare un termine intermedio tra corpo e anima, tra
senso e intelletto, tra visibile e invisibile che permetta di comprendere l’unione delle due nature dell’uomo
e il loro concorso nell’atto della conoscenza. Questo temine intermedio è per Ugo: l’immaginazione, il
grado inferiore dell’intelletto/anima e il vertice superiore del senso/corpo.
Il percorso ascensivo
L’immaginazione presta all’anima le immagini che vengono tratte dal senso e liberate dal peso della
corporeità, in una serie continua di facoltà sempre più pure e perfette man mano che ci si allontana dal
sensibile e si ascende verso l’intellegibile:
 pensiero (cogitatio), determinato dalla presenza nell’anima di una cosa in immagine, proveniente
dai sensi o suscitata dalla memoria.
 meditazione (meditatio), una sorta di penetrazione razionale del mistero, lo sforzo di penetrare ciò
che è nascosto.
 contemplazione (contemplatio), il libero e perspicace intuito dell’anima che si diffonde su tutte le
cose esaminate.
La teologia divina
Dunque, la creazione è una realtà organica in continuo perfezionamento, che è condotta dal caos originario
all’ordine mediante l’azione dello Spirito Santo, operante tra le cose finite. A questo ambito si limita la
teologia naturale e diventa necessaria la subordinazione dell’intelligere al credere, che avviene attraverso la
teologia divina, che permette una conoscenza solida della fede fondata sulla Rivelazione. L'esegesi biblica è
un elemento costitutivo del sapere teologico, anche in questo compito, il teologo si serve delle arti liberali:
1) il trivio permette di comprendere il senso letterale, storico e argomentativo; 2)il quadrivio i significati
simbolici, allegorici e morali. La penetrazione del significato della Scrittura permette, infine, una visione
intuitiva ed estatica del divino, che è anticipazione della restaurazione beatifica della somiglianza con Dio.

Riccardo di San Vittore XII secolo, priore alla scuola di San Vittore.
L’esistenza di Dio
Nel De Trinitate Riccardo propone delle argomentazioni relative all’esistenza di Dio: risalendo dalle cose
finite, che non hanno l’essere da sé, a un principio che ha l’essere da sé ed è eterno. Se questo principio
non esistesse le cose che non hanno l’essere non potrebbero mai riceverlo dal nulla. La dimostrazione della
Trinità parte ugualmente dall’esperienza, se Dio esiste gli dev’essere attribuito ciò che di meglio le creature
hanno: l’anima, che è la migliore tra le cose create, ed ha come massima virtù quella dell’amore. Dunque
Dio deve amare, ma amare è sempre amare l’altro: è necessario ammettere in Dio una trinità di persone,
poiché le prime due servono a giustificare l’amore che Dio prova verso sé stesso e la terza per giustificare
l’amore con cui Dio ama quanto sé stesso ciò che da lui è derivato.
Il percorso ascensivo
Nel Beniamin maior Riccardo, manifesta un’esplicita adesione alla gerarchizzazione scalare delle scienze
umane proposta dal maestro come principio per realizzare l’intelligenza della fede. Riccardo, però,
privilegia una lettura allegorico-spirituale, divide le potenze dell’anima in tre facoltà:
 immaginazione (cogitatio) la cui funzione è di raccogliere e conservare le percezioni sensibili.
 ragione (meditatio), la capacità del pensiero discorsivo.
 intelligenza (contemplatio) è l’occhio spirituale che vede le cose invisibili nella loro presenza reale.
Queste tre facoltà segnano la via mistica a Dio in cui l’ultimo stadio è subordinato alla purezza del cuore e
alla conoscenza di sé, la cognitio sui.
La purificazione dell’anima verso l’estasi
Nel Beniamin minor Riccardo, presenta il momento pratico della purificazione dell’anima che conduce
all’estasi mistica, presentando i dodici figli di Giacobbe: i figli avuti con Lia, che rappresenta la volontà
umana fecondata dallo spirito di Dio, sono le virtù etiche. Rachele è invece paragonata alla ragione, e
l’unione con lei genera la conoscenza più alta, Beniamino, cioè il simbolo di quello sprofondarsi dell’anima
nella conoscenza di sé. Le virtù etiche, figlie dell’affectio (Lia), saranno governate dalla discretio, figlia della
ratio (Rachele), che morirà per dare alla luce la contemplatio (Beniamino).
Il misticismo
La capacità umana di comprendere, viene meno nel momento finale di accesso al divino, la visione della
divinità comporta un’estasi (excessus mentis) conseguibile solo per intervento della grazia (ex gratia). I
gradi dell’ascesa dell’anima a Dio sono distinti anche per altre qualità:
 espansione (dilatatio) della mente senza trascendere i limiti umani; implica la sola attività umana.
 irradiazione (sublevatio) della luce divina che spinge la mente a trascendere i limiti umani; implica
l’attività umana e la grazia divina.
 alienazione (alienatio) della mente da essa stessa, con il conseguente abbandono della memoria di
tutte le cose presenti e il raggiungimento di uno stato che non ha più niente di umana; Implica la
sola grazia divina.

Bernardo di Chartres XII secolo, filosofo e maestro di retorica, tra i maggiori alla scuola di Chartres.
Nuova dottrina degli universali
Bernardo avvia una riflessione sul problema dell’esemplarismo, fondandosi sul fatto che nel Timeo il
principio ideale viene indicato prima con exemplum e poi con exemplar, e constatando la difficoltà del fatto
che le idee divine possano entrare in contatto con la chora per dare origine alle realtà visibili. Bernardo
introduce la distinzione tra le:
 idee increate ed eterne, del tutto coeterne con il principio divino.
 idee create ed eterne, non del tutto coeterne con il principio divino, ossia non del tutto identiche
con il divino.
Quest’ultime sono le formae nativae, i principi ideali intermedi tra quelli divini, di cui sono immagine e
elemento materiale: “da quelle forme che sono separate dalla materia discendono quelle forme che sono
nella materie e danno realtà ai corpi”.
Come avviene la commistione
Per spiegare tale dottrina, Bernardo trova un’esemplificazione dalle capacità del linguaggio umano,
prendendo in considerazione bianchezza, imbiancare, bianco. Dal momento che in ogni predicazione sono
sempre presenti due elementi, la sostanza e la qualità:
 bianchezza indica la qualificabilità della sostanza non ancora entrata in mescolanza con essa, come
una nobile vergine non ancora immacolata.
 imbiancare indica l’accedere della qualità nella sostanza, come una vergine che è in procinto di
entrare nel talamo.
 bianco indica la qualità che si è unita alla sostanza, come la vergine che si è ormai congiunta con
l’uomo.
La materia visibile come involucro
Questo esempio rimanda alla distinzione tra potenza e atto, in cui la potenza manifesta la perfezione ideale,
mentre l’atto la contaminazione con la materia. Il divenire naturale può essere spiegato, senza
compromettere l’immutabilità e la trascendenza, come il percorso dell’attualizzazione della forma, che di
per sé resta incontaminata perché nell’attuare la materia non perde la propria pura potenzialità, che è
frutto delle eterne idee divine. Così ogni creatura visibile non è altro che un involucro di una realtà che è in
essa nascosta ed efficace, ed è proprio lo studio delle arti liberali che accende la capacità di comprendere la
verità intelligibile.
Nani seduti sulle spalle dei giganti
Bernardo distingue tre specie di ingegno umano:
 ingenium advolans, inquieto e vivace, acquisisce le competenze con facilità ma altrettanto
facilmente le abbonda per altri stimoli.
 ingenium infimum, materialista e pigro, incapace di sollevarsi alla contemplazione del vero.
 ingenium mediocre, proprio di chi fa filosofia, capace di utilizzare la conoscenza come fondamento
a partire dal quale sublimare le proprie capacità.
È necessario quindi studiare gli antichi, con l’aspirazione di poter giungere più in profondità rispetto ai
maestri del passato, ma solo grazie alla messa in pratica del loro insegnamento. Infatti, gli intellettuali
dell’età presente rispetto ai grandi pensatori del passato sono “come dei nani seduti sulle spalle dei
giganti”. Riescono a vedere rispetto ad essi cose più lontane e più numerose proprio perché sono seduti
sulle loro spalle.

Guglielmo di Conches XII secolo, discepolo di Bernardo di Chartres, insegna tutta la vita a Chartres.
L’armonia tra filosofia e teologia
Nella Philosophia mundi è dominante l’intento di sollevare l’integumentum del mito platonico per
raggiungere una corretta spiegazione scientifica dell’origine del cosmo, accordandola con la narrazione
della Genesi. Le parole dei filosofi possono essere armonizzabili con quelle dei profeti, il rapporto tra filosofi
antichi e sapienti cristiani è completo: la sapienza antica supporta l’interprete nell’esplicitare i misteri del
dogma, mentre la fede illumina i processi razionali elaborati dai filosofi.
Le forme native come cause seconde
Lo strumento che permette di portare a compimento questa doppia operazione ermeneutica, sono le arti
del quadrivio. A questo proposito, Guglielmo spiega che l’oggetto delle indagini fisicomatematiche non
sono i principi puri di natura divina, bensì le causae secundae, ossia le forme native di Bernardo, che sono
intermedie tra Dio e la creazione. Queste forme native ordinano tutto il mondo visibile e sono volte a
portare a compimento l’opus naturae, che è distinto e assoggettato all’opus Dei.
Le cause prime distinte dalle cause seconde
Per Guglielmo la natura ha una sua specifica capacità causativa, che deriva dalla volontà divina ma dalla
quale Dio resta distinto e incontaminato: quella che Platone chiama nel Timeo anima mundi, ossia la
potenza auto-organizzativa della natura. Tuttavia, per non confondere l’anima mundi con la natura creata
distingue tra eternità e perpetuità, separando le cause divine dalle cause seconde. I principi naturali,
dunque, hanno una reale e diretta efficacia causativa, senza che per questo la potenza divina venga
sminuita, dalle forme native ai quattro elementi, fino agli atomi, indivisibili.
La quadripartizione causale in accordo con la Rivelazione
Guglielmo riesce a spiegare, attraverso la teoria filosofica delle cause, come la natura stessa dia ragione
dell’esistenza di Dio e della relazione trinitaria:
1. causa efficiente: Dio Padre Onnipotente creatore di tutto.
2. causa formale: Dio Figlio Intelletto divino in cui risiedono le idee divine ed eterne.
3. causa finale: Dio Spirito Santo emanatore della Bontà divina a cui persegue tutto il creato, che
senza alterarsi muove il mondo e le anime dei viventi.
4. causa materiale: la sostanza non divina, i quattro elementi come causa di tutto ciò che sussiste in
quanto corporeità

La creazione ex nihilo
Il fatto che i filosofi antichi considerassero impossibile la creazione ex nihilo da un punto di vista naturale
conferma la loro competenza. In quanto effettivamente non è possibile in natura, non essendo stati
informati dalla Rivelazione, essere in grado di comprendere che la causalità divina è superiore ad ogni legge
fisica e logica. Tuttavia la scienza può chiarire, mai contraddire, la verità della fede proprio perché quello
della fede è un altro ordine di verità rispetto a quello della scienza.

Teodorico di Chartres XII secolo, fratello di Bernardo di Chartres, e maestro all'omonima scuola.
La filosofia naturale
Secondo Teodorico, la filosofia naturale è l’unica prospettiva corretta per comprendere il rapporto tra
Creatore e creazione, egli dedica attenzione particolare alle arti del quadrivio, che sono costitutive della
fisica. La sapienza umana è la somma di tutti i progressi compiuti nella comprensione scientifica della
natura, base necessaria per accostarsi alla lettura e all’interpretazione della Scrittura. Teodorico riduce le
distinzioni metodologiche tra le diverse scienze, subordinandole tutte all’unica verità che è Dio.
I testi degli antichi
Nel Heptatheucon Teodorico mostra come il campo di ogni disciplina si sia dilatato moltissimo rispetto alla
precedente epoca carolingia. Le arti e i saperi tutti confluiscono in unità alla luce dei due strumenti della
filosofia: intellectus e interpretatio, che si affinano nello studio dei testi degli antichi. Tutta la
strumentazione delle arti liberali viene impiegata per togliere dagli antichi miti l’integumentum che occulta
il significato filosofico: scopo della comprensione è permettere una lettura filosofica della Sacra Scrittura.
Teodorico riprende anche da testi magico-esoterici come i trattati di Ermete Trismegisto, forte della
convinzione che la sapienza umana sia il risultato della somma dei progressi compiuti dalla ragione nella
comprensione della natura.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio
Nell’Hexameron, a completamento dell’esegesi dei sei giorni, Teodorico si sofferma su una dimostrazione
razionale dell’esistenza di Dio: così come il molteplice presuppone il semplice e i numeri presuppongono
l’unità, l’universo è un rinvio di ogni esistenza al principio indistinto da cui tutto deriva. Allora l’Uno, che
produce l’infinità dei numeri, è infinito e massimamente potente e, in quanto tale, non può che esistere in
modo necessario e sommo. Inoltre, se ogni numero presuppone l’unità e l’unità moltiplicata per ogni
numero produce una serie infinita di numeri, tutte le cose sono in Dio ma in quanto unità. Questo giustifica,
allora, la presenza in Dio delle idee, senza alcuna riduzione della sua perfetta semplicità.
L’unità e la trinità di Dio
L’unità moltiplicata per sé stessa produce sempre l’unità, così in Dio:
• La presenza dell’unità nell’unità, ovvero l’unità identica a sé stessa è il Padre, potentia assoluta e
infinita.
• La conoscenza della molteplicità nell’unità è il Figlio, la sapientia che reca in sé la nozione di tutte le
cose e alla quale le cose si conformano
• La presenza operante dell’unità nella molteplicità è lo Spirito Santo, l’anima mundi, principio
efficace della formazione dell’universale.
La lettura fisica e la causa formale
Per quanto riguarda i sei giorni della creazione Teodorico ritiene che sia necessaria una lettura
esclusivamente fisica, ossia storico-letteraria, dal momento che i Padri della Chiesa hanno già ampiamente
studiato il piano allegorico-spirituale. In questi termini, allora, il “principio” del primo versetto della Genesi
indica l’attimo che segna l’inizio storico della creazione, ossia il distaccarsi degli effetti dall’eternità
immutabile e il loro precipitare nella successione delle scansioni temporali. L’avvio del vero e proprio
processo creativo è dato, inoltre, dall’introduzione della causa materiale e Teodorico racconta come dai
quattro elementi abbia origine tutto il divenire fisico:
• il movimento dei cieli è causato dalla mobilità del fuoco.
• la formazione delle stelle dalla condensazione del vapore acqueo.
• l’emergere della terra dal calore diffuso dagli astri.
Rifiuto della distinctio Deus-deitas
Teodorico rifiuta la distinzione tra Deus e deitas difesa dai porretani, in quanto Dio non può che essere
concepito dalla mente come necessità assoluta, pura semplicità e forma non formata illimitata. La
semplicità della forma divina è garantita dal fatto di non essere assolutamente formata da altro, dunque
nella natura di Dio non è possibile alcuna distinzione tra formato e formante. Inoltre, l’esistere di Dio non è
l’attuarsi di una possibilità determinata in quanto è il puro atto di essere, che esprime in sé l’identità
assoluta (logica e ontologica), di sussistente (id quod est) e sussistenza (id quo est).

Bernardo di Clairevaux XII secolo, abate di grande influenza nella Chiesa, definito doctor mellifluus.
L’inutilità del sapere
Nella sua opera principale, Sermones super Cantica canticorum, presenta la fede come una tensione
disinteressata e pura verso il divino, nella cornice allegorica del canto d’amore tra Cristo e la sua Chiesa. Tra
questi due termini c’è una relazione reciproca inevitabile, dove la soppressione di uno dei due sarebbe la
dissoluzione dell’altro. Infatti, non c’è possibilità di fede senza amore per l’oggetto del credere e non c’è
oggetto d’amore che sia più degno della verità rivelata. Questo connubio tra amore e fede si risolve nella
riduzione di tutti i saperi alla pietà religiosa, che permette la congiunzione dell’uomo con il divino. Al
contrario, tutto ciò che non conduce ad una verità superiore non è necessario per la salvezza, ma può
rivelarsi dannoso per l’anima, in quanto distrae dalla vera scientia, che è quella della Bibbia e dei Padri.
Dunque, la ragione dev’essere utilizzata non per indagare, ma per esporre ciò che nella Rivelazione è oscuro
e non evidente: questa ratio teologica ha raggiunto la sua massima espressione con i Padri.
L’interesse per la mariologia
Un particolare interesse che Bernardo ha nutrito è quello per la mariologia, grazie al quale è stato citato nel
Paradiso da Dante: come il più abile tra i santi a rivolgere preghiere alla madre di Dio. Egli vuole presentare
Maria come modello assoluto e incontaminato della perfetta vita monastica. In lei la verginità non è solo
fisica e morale, ma è effettiva partecipazione all’amore unificante del Figlio. Questo amore viene ricambiato
da Maria in forma così sincera da far sorgere in lei contraddizioni: verginità e maternità, obbedienza e
libera scelta, amore e dolore, compassione e gioia, fragilità umana e forza soprannaturale. Maria diventa,
così, depositaria e custode di tutte le virtù che accostano l’uomo alla condizione di beatitudine eterna.
Dalla dissomiglianza all’immagine di Dio
Per Bernardo la conoscenza teologica si risolve in uno stato di contemplazione mistica della verità, che solo
la fede fa comprendere e vivere interiormente nell’anima del credente. Questo processo è visto come un
progresso del monaco dallo stato di regio dissimilitudinis, regno della dissomiglianza, nel quale l’uomo si
trova dopo la caduta di Adamo nel peccato. Infatti, inseguito al peccato originale l’uomo ha perduto la sua
similitudo Dei, che può essere ripristinata in quanto l’imago Dei si è conservata. Al termine di questo
processo, è promesso all’anima l’incontro con l’oggetto della sua speranza, in un abbraccio d’amore in cui si
compie il grado massimo dell’esperienza mistica: la totale disponibilità dell’anima a godere dell’oggetto e
fondersi con esso, raggiungendo la deificatio.

Giovanni di Salisbury XII secolo, allievo di Abelardo, Guglielmo e Gilberto, poi vescovo di Chartres.
La vita pratica
Il Polycraticus, è un approfondito manuale per l’educazione e la riforma morale dei principi terreni, ispirato
ad una concezione etico-pratica, che si basa sulla sapienza cristiana. L’opera può essere considerata la
prima che segna apertamente la nascita di una filosofia politica nel Medioevo, Giovanni è stato influenzato
dagli scritti ciceroniani, dai quali trae spunto anche per uno stile insolito, caratterizzato da un uso
equilibrato della retorica. Egli vede nel perfezionamento pratico, il fine di tutta l’attività intellettuale umana
e di tutta la ricerca filosofica, considerando la teoria astratta come inutile. Giovanni affronta il tema spinoso
del rapporto fra il potere spirituale del papa e della Chiesa, e il potere terreno e temporale del sovrano: il
potere spirituale è superiore e da questo viene emanata ogni altra autorità.
Il probabilismo della logica
Nel Metalogicon, Giovanni afferma che la logica consente all’intelligenza umana di disporsi all’acquisizione
del vero distinguendolo da ciò che è falso ed è, quindi, propedeutica a qualsiasi altra forma di sapere. La
logica non può rinunciare ad avere una finalità pratica, ma al contrario dev’essere finalizzata al
perfezionamento morale e alla pacificazione dell’umanità. Al di sopra di tutte le regole della logica c’è il
principio regolatore della sapienza pratica, ossia il Sommo Bene, che non può essere imprigionato in
immagini ridotte o parziali che ne alterano il senso. Giovanni prende le distanze da tutti coloro che
considerano che il compito della logica sia quello di assicurare il possesso di conoscenza incontrovertibili,
mentre dichiara che la logica, come ogni altra scienza, è tanto più vera quanto più riconosce che il suo
compito è quello di avvicinarsi ad una probabilitas, ossia ad una dimostrazione verosimile.
In difesa della logica
Giovanni si pone, dunque, a difesa della logica, riconducendo alla dialettica le autentiche capacità
dimostrative che le spettano per natura. Difendere la logica significa assicurare al linguaggio una vera
capacità semantica e la sua corrispondenza alle res, difendendo così la vera filosofia e la sua aspirazione a
comprendere la verità. Per difendere la logica, è però necessario conoscere la sua vera natura,
impedendole di essere preda di false accuse. La logica, per studiare il corretto significato delle parole, non
deve limitarsi alla disciplina definitoria del termine ma estendersi fino alla dottrina del ragionamento
corretto.
Il dibattito contro i cornificientes
Questa riforma del sapere logico, di forte matrice ciceroniana, muove dalla polemica contro i cornificientes,
ossia i seguaci di un maestro identificato con lo pseudonimo di Cornificio. I cornificientes, partendo dal
riconoscimento dell’insufficienza della logica, svalutavano l’intera disciplina del linguaggio, riducendola a
mero formalismo verbale. Depauperando, così, l’intero studio delle arti del trivio, in favore di un sapere
fondato sull’esperienza sensibile e sulla fruibilità del linguaggio, e alimentando dubbi circa la capacità della
ratio di stabilire una corrispondenza vera tra le parole e le cose da esse significate. Inoltre, Giovanni vede
messa a rischio da questo atteggiamento anche la moralità e la convivenza sociale, che si deve basare su
una comunicazione veridica del pensiero e della volontà.
L’estensione erronea del termine dialettica
Studiando l’Organon, i Topica e gli Analitici secondi, Giovanni apprende che il termine dialectica è stato
snaturato a tal punto da essere esteso all'intero campo di significato della logica. In origine esso indicava
solo una delle tre possibili articolazioni dell'arte della dimostrazione, ovvero la scienza della dimostrazione
probabile, che si occupa della correttezza formale di un'argomentazione senza considerarne la
corrispondenza con la realtà. Aristotele aveva inoltre individuato la scienza della dimostrazione necessaria
(l’apodittica), che studia il ragionamento non soltanto dal punto di vista della correttezza ma anche della
veridicità. Anche la scienza della dimostrazione imperfetta, (la sofistica) che insegna come l'errore nasca
dalla trasgressione delle regole dell'apodittica, disciplina che falsifica intenzionalmente la struttura delle
dimostrazioni.
La distinzione di Giovanni
Giovanni distingue la prima articolazione, quella della scienza dell'argomentazione probabile, in rhetorica e
dialectica. L’argomentazione probabile dialettica è così distinta da quella retorica, ed è legittimamente
considerabile come argomentazione probabile che tende al vero, pur non essendo mai in grado di
raggiungerlo in forma definitiva. La distinzione di Giovanni implica che tutte le ricerche umane sulla verità
delle res dovranno essere regolate solo dalle leggi della dialectica in senso stretto, che essendo scientia
probabilis, fa sì che la scienza del reale sia sempre scienza del probabile. Ogni traguardo scientifico non è
che un avvicinamento alla verità, ossia un traguardo verosimile, secondo la formula vere et probabiliter
probare.
La questione degli universali
Un esempio della vanità di ogni argomentazione che pretenda di essere necessaria, dove il necessario è
noto solamente a Dio, è dato per Giovanni dalla questione degli universali: per lui un falso problema, per
cui “si è già sprecato più tempo di quanto i Cesari ne abbiano impiegato per conquistare il mondo”. La
presunzione umana di ipostatizzare in un'entità metafisica, ciò che è soltanto per noi un oggetto di
intellezione. In realtà ogni atto della mente con il quale ci sforziamo di accostarci alla verità, in sé eterna ed
immutabile, non può che portare ad una verità mutilata: la questione degli universali è, insomma, priva di
soluzione. Dunque le risposte ad ogni quesito non potranno che essere incomplete, e questo vale per ogni
singola quaestio:
 quale sia la natura dell'anima, cosa sia la vita eterna, quale sia il modo di essere degli angeli, e gli
stessi misteri della fede.
L’importanza della fede
La fede cristiana, corroborata dalla Rivelazione, si pone in una posizione intermedia tra la scienza umana e
la scienza divina. Per questo motivo la scienza della Rivelazione è la regina delle scienze, perché consente
agli uomini di conoscere adeguatamente le verità che solo Dio conosce e, in quanto tale, rende i suoi cultori
simili a Dio. Solo lasciandosi guidare dalla fede, l'intelligenza umana può passare dall'universo concettuale
alla ratio e contemplare le rationes divinae di ogni cosa.
Pietro Lombardo XII secolo, maestro della scuola di San Vittore, giudice e vescovo di Parigi.
Le Sententiae
Pietro Lombardo non intende fare oggetto di riflessione i presupposti ontologici ed ermeneutici del suo
pensiero; gli interessa piuttosto offrire un panorama il più completo, organizzato e fruibile possibile delle
verità della fede cristiana. I quattro libri delle Sententiae sono suddivisi ricorrendo alle distinzioni
agostiniane tra cose (res) e segni (signa), e tra godere (frui) e usare (uti):
1. Il primo tratta sulla Trinità (cosa di cui godere).
2. Il secondo tratta su creazione, angeli, caduta e grazia (cose di cui fare uso).
3. Il terzo tratta su Incarnazione e virtù (cose di cui godere di cui fare uso).
4. Il quarto tratta sui sacramenti e escatologia (i segni).
Nel Concilio Lateranense del 1215 d.C. la raccolta di Pietro Lombardo viene approvata ufficialmente; in
conseguenza di ciò, diviene il libro di testo su cui si struttura l’insegnamento nella facoltà teologica delle
nascenti università. Gli studenti di teologia devono seguire le lezioni sulle Sententiae del Lombardo e poi,
come baccellieri, esercitarsi nelle dispute (quaestio) relative, prima di passare allo studio della Sacra
Scrittura.
La teologia
La visione lombardiana della condizione dell’uomo prende senso, nel contesto della sua rappresentazione
della creazione e della storia, secondo cui il tempo è scandito in tre periodi: 1) dalla creazione al peccato
originale, con la caduta degli angeli malvagi e la vittoria degli angeli santi; 2) dal peccato originale alla
resurrezione dei morti, con la redenzione dell’uomo attraverso il farsi uomo di Dio; 3) dopo la resurrezione.
Per Lombardo tutto ciò che è, per il fatto stesso di essere e di essere stato creato da un principio che è in
identità: Sommo Essere e Sommo Bene. Egli respinge la tesi abelardiana secondo cui Dio, non avrebbe
potuto creare un mondo diverso di quello che effettivamente ha creato. Lombardo afferma che una natura
umana capace di cadere e caduta per propria colpa, ma giustamente punita, è una realtà migliore rispetto a
una natura umana che non peccasse non per proprio merito, ma perché impossibilitata a farlo. Un altro
atteggiamento, è quello di un rassegnato riconoscimento dell’impossibilità per l’uomo di capire il senso
della propria storia e della propria sofferenza in questo mondo.

Incontro con il pensiero greco-arabo


L’esodo degli ultimi neoplatonici
Dopo la chiusura della scuola di Atene per ordine di Giustiniano, nel 529, gli ultimi neoplatonici (come
Simplicio e Damascio) trovarono rifugio nella città mesopotamica di Harran, dove continuano i propri studi,
specialmente su Aristotele e Platone. Con la conquista araba della Siria e della Persia, l'Islam viene a
contatto con questi filosofi pagani e si avvia una fervida opera di traduzione, che si estende anche ad altri
ambiti, come l'astronomia, la matematica e la medicina.
La diffidenza verso il sapere profano
Tuttavia questo sapere rimane riservato ad una élite di studiosi, a causa della diffidenza con cui è vista la
contaminazione della verità rivelata ad una sapienza estranea. Nel mondo islamico si viene a creare una
profonda differenza tra la riflessione filosofica e i contenuti della fede, diversamente da quanto avvenuto
nel mondo latino in cui i due aspetti si compenetrano e si completano l'un l'altro. Lo stesso nome arabo per
la ricerca razionale, falsafa, risulta grecizzante, per marcare questa differenza: intelligere e credere sono
dunque profondamente separati.
La teologia islamica o kalām
Dal momento che la religione professata da Maometto si presenta come accessibile a tutti e non
interpretabile, il nome di teologia islamica risulta inappropriato: la fede infatti non è complicata da misteri
che possano suscitare dubbi nei fedeli. Il sapere teologico islamico, che ha il nome di kalām, è un'apologia
della verità rivelata e della Legge in essa contenuta e il suo principale oggetto è la pura comprensione del
fondamento dell'unità divina, tawhīd. Essa prevede dimostrazioni ed argomentazioni fondate non su
strumenti esterni ma solo sul testo sacro: nata in un paese, l'Arabia, privo di una tradizione culturale, la
fede islamica si è sviluppata in maniera autonoma.
Il confronto con le altre religioni
Infatti, proprio come il cristianesimo, quella mussulmana è una religione universale, caratterizzata da un
totalitarismo politico-religioso, in cui il potere temporale non è distinto da quello spirituale: è ammessa la
“guerra santa”, ossia la jihad (impegno personale nella diffusione della parola divina), come dovere
permanente da parte di colui che crede di estendere la vera religione al mondo intero. La guerra santa,
però, non deve attuarsi con la forza ma favorire le condizioni politico-sociali che permettano la conversione
degli infedeli. Un atteggiamento di tolleranza e disponibilità al dialogo con le “religioni del Libro”, purché
essi accettino le condizioni di inferiorità e di sudditanza giuridico ed economica. In un primo momento
questo si è tradotto in una conversione di massa, per poi stabilizzarsi in una relativa autonomia per i non-
islamici.
La difesa della propria fede
Il confronto con la mentalità speculativa dei teologi cristiani e la necessità di difendere la propria fede da
infiltrazioni eterodosse, ha spinto i pensatori islamici ad approntare un sistema di giustificazioni teoriche
del kalām. Questo ha portato i teologi musulmani a guardare con interesse agli strumenti intellettuali non-
religiosi che risultassero utili ai propri scopi, e così, dopo la grammatica e il diritto, si incontrano la logica e
la metafisica.
I mutaziliti
I teologi che per irrobustire le proprie tesi si servirono coraggiosamente di strumenti di riflessione
provenienti da contesti estranei al Corano presero il nome di mutaziliti, e costituirono un ampio
movimento, attivo soprattutto nel corso del IX secolo. I mutaziliti diedero un contributo notevole alla
traduzione del kalām in un organico sistema di conoscenze: ancorati ad una lettura semplice del testo e
contrari alla sottigliezza speculativa. Il principio dell’unità e della trascendenza di Dio (tawhid), è raggiunto
in base ad un percorso teologico-negativo mediante la rimozione di tutti gli attributi divini di origine
antropomorfica o materialista
La teologia di al-Ash’ari
Alcuni teologi moderati, come al-Ash'arī, il vero fondatore della dottrina teologica dell'Islam ortodosso,
favorirono una mediazione tra l'ortodossia radicale e alcune posizioni del mutazilismo. L'opera principale di
al- Ash'arī, Chiarimento dei princìpi della religione, è una sapiente mediazione tra il letteralismo “esagerato”
e le rigidità dei mutaziliti. Secondo al-Ash’ari, gli attributi di Dio sono reali, ma non sono della stessa natura
di quelli umani, e il Corano è Parola increata ed eterna di Dio, ma la sua manifestazione storica, in lettere e
inchiostro, è creata.
Il sincretismo della filosofia antica
Il principale lavoro svolto dai cultori della filosofia nel mondo arabo è stato quello di elaborare una lettura
sincretistica delle informazioni provenienti da molteplici fonti greche antiche. I filosofi arabi conoscevano
bene Plotino e Proclo, anche il Timeo platonico ha favorito nell'area islamica il germogliare dell'idea di una
distinzione tra il mondo visibile e il mondo degli universali. Attraverso il De Anima, proposto da Alessandro
di Afrodisia, gli arabi hanno tratto l’idea della possibilità di innestare la psicologia aristotelica all’interno
della concezione gerarchica, di matrice neoplatonica, della distribuzione cosmica delle intelligenze celesti.
Queste ultime si trasmettono la conoscenza di grado in grado, identificando l’intelletto agente con l’ultima
intelligenza separata, unitaria per tutti gli intelletti umani, distinta dai loro intelletti personali e non
sottoposta al divenire. Risulta, quindi, una singolare armonizzazione tra pensiero di Aristotele e pensiero di
Platone.

Al-Kindi IX secolo, primo filosofo arabo, appartenente alla tribù dei Kinda.
La falsafa di al-Kindi
Lo scritto principale al-Kindi è la Filosofia prima, questo scritto è un’apologia della falsafa, mirante a
evidenziarne la natura di sapere unitario e il suo scopo è quello di delineare, con l’aiuto della speculazione
classica, le fondamentali conseguenze ragionevoli dell’affermazione teologica del tawhid. La causa prima è
principio unico e immobile di tutto il movimento dell’universo, fin dal passaggio dal non-essere all’essere in
atto (primo movimento), le sue caratteristiche (verità, unità, semplicità, incorporeità) rappresentano una
sintesi tra le due tradizioni aristotelica e neoplatonica. In quanto mossi, invece, gli esseri creati sono
molteplici e la loro unità non è unità in sé, ma deriva dalla limitazione e dal confronto. Il primo essere
causato è il principio intellettuale che, in quanto capace di pensare, contiene in sé i modelli intelligibili di
tutte le cose.
La quadripartizione dell’intelletto
Prendendo spunto dall’aristotelica distinzione tra intelletto in potenza e intelletto in atto, al-Kindi offre una
"quadripartizione dell’intelletto" che sarà ripresa e variamente elaborata dai filosofi islamici successivi:
1. Intelletto agente è sempre in atto, separato e unico per tutti gli uomini, di origine divina.
2. intelletto in potenza/possibile è la possibilità di conoscere data a ciascun uomo.
3. intelletto in atto è quello che permette il passaggio dalla potenzialità all’attualità grazie alla unione
(senza identificazione) con l’Intelletto agente.
4. intelletto acquisito/secondo rappresenta l’insieme delle conoscenze acquisite da un uomo presenti
nella memoria, e ormai sempre disponibili per essere utilizzate.
Nell’atto intellettivo si realizza una perfetta identità tra intelletto e intelligibile; sede dell’intelletto e anche
della sensazione, è l’anima che ha un’origine divina: essa proviene da Dio come la luce dal sole. L’anima è
anche il luogo degli intelligibili in potenza, in tal modo il principio della conoscenza che, secondo la
quadripartizione, sembra collocarsi soprattutto al di fuori dell’uomo (nell’Intelletto agente), viene riposto
anche all’interno dell’anima umana.

Al-Farabi IX-X secolo, pensatore di origine turca.


Temporalismo ed eternalismo
Nella sua opera, intitolata Sull’accordo fra le opinioni dei due sapienti, il divino Platone e Aristotele, al-
Farabi si concentra sulla spiegazione dell’origine del mondo. Egli cerca di conciliare l’interpretazione
islamica del Timeo, secondo cui l’universo è iniziato nel tempo e dunque creato da un principio intelligente,
e il De caelo di Aristotele, in cui si nega un inizio temporale del cosmo, partendo dalla necessità di postulare
che il movimento sia eterno. Dunque, che non vi sia un prima temporale del mondo anche se tutto è stato
creato da Dio, interpretando così i due grandi filosofi in maniera sostanzialmente unitaria.
La natura di Dio
Come per al-Kindi, anche in Al-Farabi, l’insegnamento dei falisafa parte dal presupposto della causa prima
come: primo esistente e principio dell’esistenza di tutto ciò che esiste. Infatti, proprio la derivazione del
molteplice presuppone che il principio sia semplice e autosufficiente, dal momento che la sua capacità
produttiva è inesauribile, inoltre, essendo privo di materia è intelligibile: puramente in atto è un puro atto
di intellezione. Il Dio-pensiero di Aristotele si fonde con il Dio-Uno di Plotino:
 in quanto autosufficiente, non deve pensare ad altro per essere pensiero, ma egli sarà pensiero
della sua propria essenza.
 in quanto perfetto, non può che estendersi comunicando il perfetto risultato del suo pensiero, ossia
l’unità.
Così come la fonte luminosa illumina senza alcuna diminuzione di sé tutto ciò che la circonda, il pensiero-
unità di Dio produce, per il semplice fatto di essere ciò che è, le molteplici unità derivate, che procedono
tutte dalla sua essenza. Ma, mentre l’essenza di Dio è sempre e totalmente in atto, gli esseri derivati
esistono realizzando solo in modo incompiuto la loro essenza.
La derivazione delle cose da Dio
Per al-Farabi, la prima realtà creata è l’Intelletto primo, una sostanza immateriale che si distingue da Dio in
quanto pensiero che accoglie in sé la pensabilità di altro da sé, e dunque la possibilità del molteplice. Ogni
intelligenza inferiore a Dio pensa la propria essenza e nel farlo pensa Dio da cui essa deriva; ma in quanto
pensa Dio il suo stesso pensiero diventa principio di emanazione e dà origine a una ulteriore sostanza
intellegibile inferiore. Vi è dunque un gerarchico distribuirsi di una serie di perfezioni decrescenti, come
esito del successivo allontanarsi dalla causa prima. Gli intelletti pensano e danno vita ad altri intellegibili,
fino ad esaurirsi al grado della materia, che è l’ultimo effetto in quanto non è più dotato di capacità
conoscitiva.
La divisione degli intelletti
Anche l’intelligenza umana è sottoposta alla medesima degradazione dinamica dell’efficacia conoscitiva.
Egli infatti distingue nell’anima intellettiva:
1. Intelletto agente, che agisce sulle anime umane come comune causa efficiente del loro conoscere.
2. l’intelletto in potenza/possibile, ossia la disponibilità e la possibilità di conoscere.
3. l’intelletto in atto, ossia l’operazione di acquisizione di nuove conoscenze su cui agisce l’Intelletto
agente.
4. l’intelletto acquisito, che affida alla memoria tali conoscenze e le traduce in rappresentazioni
intelligibili.
Questa dottrina garantisce l’oggettività della conoscenza vera acquisita dalle singole menti umane ed è
giustificazione dell’immortalità delle anime individuali, in quanto, a differenza dell’intelletto passivo,
l’intelletto in atto e l’intelletto acquisito sono realtà intellegibili, non corruttibili.
La filosofia politica
Le linee fondamentali della sua falsafa, emergono dallo scritto Opinioni degli abitanti della città perfetta,
un’originale rilettura della Repubblica platonica, che viene adattata alla concezione politico-religiosa
dell’Islam. In questa società, organizzata sulla distribuzione delle funzioni produttive, morali e intellettuali, i
cittadini condividono le idee teologiche dei filosofi, che offrono la migliore esplicitazione della tawhid. La
guida della città perfetta è l’Imam, cioè il profeta, colui che ha raggiunto attraverso una via immediata
l’unione con l’Intelletto agente, e che perciò conosce la verità. Questa è anche la via che conduce alla
felicità, tale congiunzione, senza fusione né identificazione, può avvenire in due modi: intuitivamente nel
caso dei profeti o razionalmente per i filosofi.

Avicenna (Ibn Sīnā) X-XI secolo, filosofo di grande rilievo, posto da Dante fra gli “spiriti magni”.
Dio come causa prima
La sua opera principale è intitolata Libro della guarigione, un’enciclopedia filosofica e scientifica, che si
presenta come una complessa parafrasi degli scritti di Aristotele, non citandolo direttamente ma
esprimendo ed ampliando il suo contenuto con altre parole. Per quanto riguardo la comprensione della
metafisica, Avicenna dichiara il suo debito nei confronti di al-Farabi, attraverso un’esposizione più
organizzata di matrice aristotelica. Punto di partenza della trattazione è Dio come causa prima, principio
primo che deve essere postulato, ossia considerato come necessario, per evitare il regresso all’infinito delle
cause.
Il passaggio dall’essere al non essere
Avicenna si pone il problema di come sia possibile la creazione, ossia il passaggio del non-essere all’essere
delle cause seconde: se Dio è causa prima, come può ciò che è scaturire dal non-essere? Avicenna risponde
introducendo la distinzione aristotelica di potenza e atto: Dio è causa prima e dunque non può non essere,
perché se venisse meno verrebbe meno anche tutto l’essere, in quanto principio dell’essere Egli è essere
necessario, ossia è necessariamente in atto, in quanto non può non realizzare la potenzialità di ciò che è. Al
contrario, le creature sono contingenti, potrebbero essere o non essere, in quanto acquisiscono l’essere da
altro. La creazione è il passaggio da ciò che è possibile a ciò che è necessario, dal momento che, una volta
creato, non può più non-essere: ogni essere posteriore a Dio è un essere che viene ad atto per effetto della
creazione, diventando necessario.
La differenza tra essenza ed esistenza
In questo modo, l’esistenza conferisce necessità alle cose, mentre l’essenza è solo possibile perché non è
ancora venuta all’essere. (Tommaso D’Aquino, al contrario, considerando la creazione come un atto
volontario, vede l’essenza come necessaria, mentre l’esistenza come contingente):
• l’essenza è la natura propria di ogni cosa, il corrispettivo ontologico della definizione; la risposta alla
domanda “che cos’è?”.
• l’esistenza l’essere in atto di una cosa che realizza il suo poter essere; l’esistenza non si dà sempre.
In Dio essenza ed esistenza coincidono
Questa distinzione riguarda tutte le creature ma non Dio, in quanto la sua semplicità impone di
considerarne l’essenza come qualcosa che esiste necessariamente, senza possibilità di predicazione. Infatti,
mentre ogni essere si compone di una quiddità-possibile e di un esistere-necessario che è reso tale dalla
causalità divina, Dio non ha una quiddità diversa dal suo esistere: Egli è Essere necessario e semplicissimo
che non ammette al suo interno distinzione alcuna, la cui esistenza fa parte della sua stessa essenza. Dio
non ha nessun genere superiore e non appartiene a nessuna categoria, dunque, si può parlare di Lui solo
negando ogni somiglianza creaturale.
Gli universali in Dio come conoscenza degli esseri
Inoltre secondo Avicenna, come già sostenuto da Aristotele, Dio è puro atto di pensiero, ossia non ha in sé
alcuna potenzialità e, in quanto immateriale, è perfettamente intelligibile. Dio, dunque, è pensiero non di
qualcosa di materiale, ma di sé stesso dal momento che un intelletto puro non dipende da alcun oggetto
intelligibile esterno ad esso, ma è oggetto della sua stessa attenzione. L’intelligenza in Dio non comporta
scissione o moltiplicazione, non agisce al di fuori, ma porta l’universo a sé come termine del desiderio di
tutte le cose. Tuttavia, l’intelligenza dell’essere necessario non può ignorare l’essere di tutte le cose che
dalla sua necessità traggono l’esistenza, infatti, il principio primo avicenniano conosce le cose come
universali e non come individui particolari che sussistono separatamente da Dio.
Dio crea perché è Dio
A differenza di Aristotele, però, in Avicenna Dio non è pensiero disinteressato, poiché conosce ogni cosa in
sé, come effetti della catena di cause prodotte. Il modello aristotelico dell’eternità del mondo si concilia con
l’emanazione neoplatonica nella derivazione dell’essere creato da Dio. Avicenna non ritiene contraddittorie
tali dottrine con la teologia islamica, al contrario, il filosofo crede che ammettere il carattere necessario ed
eterno della azione di Dio sia l’unico modo per salvaguardare l’assoluta immutabilità della sua natura. Dio
non ha creato perché libero, ma nemmeno perché necessitato, Dio crea perché è Dio, e da lui scaturisce il
bene tramite un’emanazione inarrestabile e inevitabile, sebbene non condizionata, in quanto non causata
da altro. Inoltre, il creare non può avvenire senza che Dio ne abbia coscienza o che dia il suo assenso:
conoscere e volere coincidono nella sua essenza. Viceversa, le cause seconde sono necessarie in quanto
cause, e possibili in quanto creature. La creazione si esprime, pertanto, nella priorità ontologica di Dio sul
mondo, dovuta alla sua prerogativa di essere necessario:
La derivazione della molteplicità
Attraverso un atto di auto-contemplazione scaturisce da Dio il primo effetto che è l’Intelletto primo, puro e
separato dalla materia, e coincide con il suo stesso contenuto intelligibile, che è l’intellezione di tutti gli
esseri inferiori. Questo intelletto, guardando a Dio, genera un secondo Intelletto, che dal primo trae la sua
necessità, ma che guardando a sé si riconosce come capace di portare ad atto qualcosa fuori da sé, e
genera un’Anima prima, a cui è sottoposto un corpo celeste che si muove di movimento perfetto, ossia
circolare.
Il degradarsi progressivo dell’ordine gerarchico della realtà
Ogni intelligenza si conosce come necessaria e poi come possibile, generando prima un’intelligenza
inferiore, poi un’anima e un corpo celeste che viene da essa animato. Questa architettura cosmica di
mediazioni causali prevede la successione di dieci intelletti che generano ciascuno un’anima e un corpo,
fino all’ultima emanazione, che governa la Luna e la cui intelligenza è l’Intelletto agente: identificato con
l’arcangelo Gabriele della tradizione coranica. L’Intelletto agente governa i processi che avvengono nel
mondo sublunare, da lui provengono i singoli intelletti degli individui umani, che fa passare dalla potenza
all’atto, ma anche la materia dei corpi visibili, entrambi unicamente possibili e per nulla necessari, destinati
a dissolversi e sottoposti ad una continua mutevolezza.
La divisione degli intelletti
Riprendendo le dottrine di al-Kindi e di al-Farabi sull’intelletto, Avicenna aggiunge l’intelletto santo, proprio
del profeta, è quello capace di unirsi in maniera immediata con l’Intelletto agente. Quest’ultimo prescinde
dalla percezione sensibile e dai gradi della conoscenza razionale, nonché dagli altri tipi di intelletto. La
conoscenza realizzata dall’intelletto santo è di tipo intuitivo ed è interamente fondata sulla facoltà della
immaginazione che è una facoltà conoscitiva che si attiva nei momenti di indipendenza dall’esistenza
sensibile (nei sogni e nelle visioni). Colui che ha raggiunto il massimo grado della conoscenza è, secondo
Avicenna, la più adeguata guida della comunità politica e religiosa.

Al-Ghazali XI-XII secolo, professore all’Università musulmana di Baghdad.


Il kalām come supporto alla fede
Per lui il fine ultimo di ogni attività umana, kalām incluso, è la pura contemplazione estatica. Il kalām è per
al-Ghazālī la conoscenza che ha per oggetto Dio: in sé, nei suoi attributi, nelle sue azioni, nei suoi profeti, e
che si fonda su ciò che al riguardo ha insegnato Maometto. Il kalām è inutile per i credenti che hanno già la
fede per essere salvati, e per gli eretici, per i quali la discussione razionale alimenta solo l'ostinazione. La
sua utilità vale per coloro che hanno bisogno di mettere al riparo la fede dai dubbi intellettuali, dunque, un
valore curativo, come esposto nell'opera significativamente intitolata: La vivificazione delle scienze della
religione.
Distinzione della conoscenza
Anche al-Gazali distingue la conoscenza ispirata e immediata di tipo intuitivo, da quella filosofica acquisita
gradualmente e con metodo razionale. Sede della conoscenza intellettiva è l’anima, che è, al contempo, il
luogo in cui Dio ha depositato la sua immagine. Dunque dall’anima, l’uomo accede sia alla conoscenza del
mondo sensibile (mulk, dominio), attraverso la ragione, sia a quella del mondo invisibile (malaqut, regno),
attraverso un percorso ascetico che conduce all’estasi. Questa via conduce allo “svelamento”, pura
conoscenza dell’oggetto divino nella contemplazione mistica, non comunicabile con lezioni o libri. Pertanto
il teologo, deve utilizzare il kalām solo come utile supporto per la difesa della fede.

La critica alla falsafa


Nella sua opera più celebre, Autodistruzione dei filosofi, egli polemizza contro la filosofia che pretende di
porsi come autonoma conoscenza di verità, e non come strumento ausiliario. Sviluppando la critica delle
venti questioni, tripartite negli ambiti di Anima-Mondo-Dio, l’opera mostra come la filosofia dei Greci porti
a conclusioni non conciliabili con la verità della regione, quando è utilizzata per affermare anziché per
chiarire. Addirittura, le tesi di questi filosofi sono false perché, accostate le une alle altre, si confutano
reciprocamente annullandosi, infatti, una dottrina al cui interno sono riscontrabili delle contraddizioni è
falsa. Empietà di tutti i filosofi che hanno cercato di formulare ipotesi su dottrine di spettanza religiosa,
facendo così hanno sbagliato in quanto hanno applicato al divino un metro valutativo che è proprio solo
degli effetti creati. Il linguaggio umano è inadeguato ad esprime la verità di qualcosa che è primo e non
derivato.

Averroè (Ibn Rushd) XII secolo, eminente filosofo arabo, nominato “Commentator” dai latini.
I commenti al corpus aristotelico
La diffusione del suo pensiero è dovuta alla sua opera di commento all’intero corpus degli scritti aristotelici,
che gli meritò presso gli scolastici il nome di Commentator. I suoi commenti appartengono a generi
formalmente diversi e tradizionalmente sono classificati come: brevi (dedicati ai principianti), medi
(dedicati agli studenti) e lunghi (dedicati agli specialisti). Solo alcune delle opere aristoteliche, le più
importanti, sono sottoposte a tutti e tre i generi di commento. Averroè ritiene necessario individuare ed
epurare tutte le contaminazioni con il pensiero platonico e neoplatonico, che si sono sovrapposte
all’aristotelismo. Esempio ti tali devianze interpretative è proprio il pensiero avicenniano, il cui principale
difetto, è stato quello di non aver rispettato le reciproche limitazioni di teologia e filosofia.
L'accordo tra filosofia e religione
Ad Averroè spetta il compito di aver orientato i rapporti tra la conoscenza filosofica e la conoscenza fondata
sul Corano, verso una soluzione concordistica, che fosse certa e decisiva, come spiega il titolo dell’opera:
Trattato decisivo sull’accordo della religione e della filosofia. Averroè è fermamente convinto della
possibilità di un accordo tra fede e ragione, in quanto sono entrambe forme di accesso all’unica verità. I
ragionamenti degli uomini non hanno alcuna competenza per comprendere le vie per la salvezza, le quali si
aprono solamente per coloro che rispettano il tawhid. Infatti, il suo senso più profondo sta proprio
nell’unicità di Dio e nella sua alterità rispetto al mondo: la pretesa dei filosofi di penetrare questo mistero è
la radice dei loro errori.
La distinzione umana
La filosofia deve essere praticata solo da chi è in grado per formazione e capacità personali di
comprenderne i contenuti. Averroè, allora, fa corrispondere la distinzione degli uomini in tre classi,
analoghe alla tripartizione delle discipline nei Topica:
• fedeli, la grande massa degli uomini sensibile solo agli argomenti retorici, alla persuasione oratoria.
• teologi, sono tutti quanti argomentano con rigore logico ma soltanto a partire dal Corano.
• filosofi, le loro argomentazioni sono necessarie perché partono da premesse scientifiche consolidate.
Dunque, se i filosofi sconfinano dal loro ambito di indagine, interessandosi della salvezza ultima dell’uomo,
è anche vero però che i seguaci del kalam, si sostituiscono ai filosofi ogni qualvolta pretendono di affermare
giudizi sulle realtà naturali.
Il ruolo dei teologi e quello dei filosofi
Il fine perseguito da Dio è condurre gli uomini al rispetto della sua volontà, non abolire le indagini della loro
razionalità, i teologi sono: coloro che credono e presumono di poter comprendere in quanto credono.
Dunque, essi abusano dell’esegesi allegorica per piegare la rivelazione alle loro aspirazioni, portando
necessariamente ad un’insanabile opinabilità del vero, che è fonte dei principali mali del mondo, quali il
fanatismo, l’intolleranza e le guerre di religione. È, invece, il filosofo cui spetta di portare la ragione ai
risultati necessari che costituiscono il patrimonio della conoscenza scientifica e permettono la convivenza
umana.
Il contributo di Aristotele
In questi termini Aristotele, ha portato la razionalità ai suoi massimi livelli, e per questo il suo dire è
secondo solo al Corano. Tuttavia, ha sostenuto anche posizioni gravi, contrarie alla verità della religione
come l'affermazione dell'eternità del mondo. Razionalmente parlando, Aristotele ha ragione nel dire che,
dato che tutto ciò che esiste, esiste a partire da altro, non possiamo risalire ad un primo momento, dunque
il mondo è eterno; inoltre la causa della molteplicità è, secondo Averroè, la differenza, per ogni essere
esistente, delle quattro cause che lo determinano (formale, materiale, efficiente, finale). L’unione di
materia e forma, che è l’origine della esistenza di tutto, è operata direttamente da Dio, primo principio: sia
la materia sia le forme intelligibili, che sono nell’Essere supremo, esistono dall’eternità, il mondo, al
contrario, è stato creato con il tempo dall’azione divina, che ha agito su materia e forma fuori dalla
dimensione temporale.
La separazione dell’intelletto passivo
Averroè apporta una fondamentale innovazione, infatti ritiene che l’intelletto passivo non sussista nel
singolo individuo prima dell’atto di pensiero, ma che si concretizzi durante il processo di intellezione,
tramite la partecipazione all’Intelletto agente. In questa prospettiva l’intelletto passivo svolge prettamente
una funzione di mediazione, fra l’intelletto attivo e l’Intelletto agente, pertanto non può che essere
separato ed è unico per tutti gli esseri umani. Pensare per l’uomo significa, quindi, ricorrere all’intervento di
due principi intellettivi separati e universali:
 Intelletto agente che permette l’astrazione della forma.
 intelletto passivo che permette la ricezione della forma.
L’uomo non pensa
Questo carattere universale che l’intelletto passivo deve possedere, affinché si possa garantire il processo
dell’intellezione umana, comporta la sua necessaria unicità e separazione. Dunque a pensare non è
propriamente l’uomo, che si limita a dare inizio all’attività del pensiero fornendo le forme, ma l’intelletto
passivo. Questa tesi esclude l’immortalità e la sopravvivenza ultraterrena dell’anima dei singoli uomini, in
quanto scientificamente sarebbe assurdo ammetterla. Inoltre, l’immortalità individuale comporterebbe un
numero infinito di anime individuali viventi, ossia un infinito attuale, cosa impossibile. Tutto ciò confligge
con il dogma coranico della resurrezione finale e del giudizio dopo la morte, questa dottrina viene
erroneamente interpretata come una “doppia verità”.
Il rapporto tra fede e ragione
La verità della filosofia e della religione non sono contradditorie, ma rappresentano due diverse espressioni
della medesima verità. Infatti, anche le affermazioni della fede spesso non coincido con quanto detto dai
teologi, ciò è dovuto al fatto che la verità è nota soltanto a Dio, sebbene possa essere espressa ed
interpretata in gradi diversi dall’uomo. La scienza umana non è mai esauriente, ma sempre imperfetta e per
questo può contrastare con la Rivelazione: Dio ha una conoscenza ed un sapere della realtà superiore a
quello degli uomini e quindi ciò che gli uomini conoscono è vero solo limitatamente alla loro condizione
conoscitiva. Per questo, sia le verità della ragione sia quelle della fede sono sempre relative al modo di
conoscere umano. Soltanto Dio conosce in modo completo, esauriente, assoluto, mentre le facoltà
conoscitive dell’uomo sono incapaci di affrontare i problemi posti dalla natura e dalla legge divina. Infatti,
prova ne sono:
 il miracolo che può essere riconosciuto come tale e accolto solo dalla fede.
 la profezia, che annuncia cose che non si sono ancora realizzate.

Introduzione al pensiero ebraico


La teologia ebraica
Un’altra tappa fondamentale della translatio studiorum è data dalle traduzioni condotte, a partire dalla
seconda metà del XII secolo, dalle grandi scuole rabbiniche delle comunità ebraiche disseminate nei paesi
politicamente dominati dall’Islam. La teologia ebraica, costituitasi in seguito all’intreccio di diverse
tradizioni ermeneutiche, si basa sulla missione di assicurare la conservazione, la trasmissione e la corretta
interpretazione della Torah, ossia della Legge. Elemento di coesione è stata la costituzione e la diffusione
del testo del Talmud, un’illustrazione articolata della Torah nel suo insieme e nelle sue applicazioni. Questo
testo viene inteso come il sistema dottrinario in cui è stata comunicata al popolo eletto la totalità della
volontà divina. Nella sua prima fase, la sapienza talmudica si è astenuta da speculazioni sul divino, sulla
creazione e sul destino dell’uomo, privilegiando gli aspetti giurisdizionali e narrativi della Scrittura.
Un primo modello filosofico
Invece, un primo modello di riflessione circa la creazione è stato il Libro della creazione, un opuscolo di
impostazione gnostica, in cui sono descritte le trentadue Vie della sapienza, ossia i principi formali che
traducono in efficacia operativa il libero atto creatore del divino. Esse sarebbero composte simbolicamente
dalle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico e dai dieci numeri primi mistici, corrispondenti alle dieci parole
pronunciate da Dio nella Genesi. Queste trentadue vie sono i cardini dell’universo creato: proprio come la
Bibbia è composta di lettere e numeri, così il cosmo è organizzato e governato dall’efficacia di questi
principi, emanati dalla volontà divina. Il Libro della creazione è il primo segno della volontà di un accordo tra
fede e ragione. Come per l'Islam, l'approfondimento razionale è necessario per attuare una difesa della
fede dalle difficoltà dovute alla diaspora e all'incontro con l'Islam stesso.

Avicebron XI secolo, primo filosofo a portare la tradizione greco-ellenistica nell’ebraismo.


L’ilemorfismo universale
Il Libro della fonte della vita è un dialogo tra un maestro e un discepolo, privo di citazioni bibliche o
riferimenti alla Rivelazione, nell’intento di porsi come una celebrazione di Dio e del suo rapporto con il
creato. L’elemento predominante presente fin dall’inizio dell’opera è l’ilemorfismo universale (da
yle=materia e morphé=forma), ogni sostanza diversa da quella divina non è semplice ma composta, ossia
formata dall’unione di materia e forma, o meglio di una pluralità di forme, in quanto ogni entità reale è
costituita da tante componenti metafisiche: anche le sostanze intelligibili e più semplici sono costituite di
materia, sebbene si tratti di una materia spirituale. Dunque, la materia universale e la forma universale
sono le prime due creature, le più vicine alla perfetta e semplice volontà creatrice di Dio.
Il volontarismo divino
La creazione del mondo proviene da un atto volontario da parte di Dio, in cui risiedono la forma e la
materia nella loro esistenza universale. La Volontà, prima manifestazione divina ed elemento intermedio
tra materia e forma, non va considerata alla stregua delle altre ipostasi, ma è definita un mistero. Da essa
dipende l’unione tra la materia e la forma, da cui hanno origine tutte le realtà composte secondo una
gerarchia discendente:
 Intelletto.
 Anima, che si suddivide in razionale, animale e vegetativa.
 Natura, che dà origine a molteplici sostanze spirituali, dalle quali a loro volte derivano le sostanze
corporee, caratterizzate dalle nove categorie accidentali.
La forma e la materia universale
La forma universale è l’intelligibilità che essa conferisce alle cose (l’universalità logica), la materia universale
è, invece, quel comune fondo sostanziale di tutte le realtà cosmiche (l’universalità reale). Indispensabili
l’una all’altra e intrinsecamente unite, forma e materia rimangono radicalmente differenti in ragione del
fatto che:
 alla forma spetta la funzione attualizzante, che conferisce unità agli esseri determinati.
 alla materia spetta la funzione potenziale, che è l’unità che abbraccia la totalità degli esseri.
Il più alto grado di conoscenza concesso all’uomo è la comprensione della materia e della forma universale,
aldilà di esse, la ricongiunzione finale con la volontà di Dio può compiersi solo per effetto di un dono
gratuito.
Sebbene la composizione di forma e materia distingue il mondo creaturale da Dio, quest’ultimo può essere
considerato provvisto di una “materia”, come il fondo incomprensibile del mondo; e di una “forma” nella
misura in cui i suoi attributi, sono la sua manifestazione comprensibile agli uomini. Con la tradizione
neoplatonica, Avicebron, condivide l’impossibilità umana di conoscere Dio positivamente.

Mosè Maimonide XII-XII secolo, filosofo ebreo-spagnolo


La guida dei perplessi
Scrive La guida dei perplessi, ossia gli “incerti e smarriti” interpreti della Bibbia che, avendo studiato le
opere dei filosofi, si trovano tra il dato rivelato e il pensiero razionale, e non riescono ad orientarsi
correttamente nella costruzione della loro fede. In loro aiuto Maimonide, elabora una sintesi di
tradizionalismo talmudico, teologia rabbinica e riflessione filosofica greco-araba, il cui scopo è quello di
educare i credenti ad ascendere verso il significato allegorico del testo sacro. La premessa necessaria ed
indimostrabile di tutto il pensiero umano è che la Torah sia un dono certo, libero e assoluto di Dio, storico
in quanto compiuto sul monte Sinai. Tutto ciò che la ragione può fare segue da questa premessa
fondamentale: anziché fare filosofia per poi sforzarsi di concordare le proprie conclusioni con la
Rivelazione, il vero pensatore è colui che riesce a far scaturire la filosofia dalla Rivelazione stessa. Tuttavia,
la ragione naturale è debole, e deve farsi guidare necessariamente dalla Bibbia, assumendola come
principio di verifica e di conferma di ogni indagine razionale. Maimonide chiude all’interno della teologia
negativa qualsiasi affermazione scientifica, circa gli attributi di Dio, vietando ogni possibilità di esprimere
con il linguaggio della scienza la realtà trascendente.
Scala delle conoscenze umane
Al culmine della scala delle scienze c'è la filosofia, in grado di intuire “l'esistenza dell'Essere primo che dà
esistenza a tutto ciò che esiste”, dove trova il suo coronamento la coincidenza del pensiero umano con il
fondamento della fede. Aldilà di quello, ha inizio però l’ascetismo e la vera vita religiosa, poiché,
conoscendo Dio, l'uomo è in grado di amarlo nel modo più puro e disinteressato possibile. La fede,
aiutando l’uomo a non perdersi fra i dubbi, può realizzarsi in una vita virtuosa. Questa purificazione della
mente è la condizione necessaria ma non sufficiente che predispone l’uomo ad accogliere il dono della
profezia, che però è elargito liberamente e gratuitamente da Dio. La profezia ha espresso nella Legge la
Parola divina e la conoscenza della Torah conduce l’uomo a innalzarsi fino alla capacità di recepire la
capacità profetica.
La guida di Mosè
Mosè (biblico) è stato il più grade profeta e il più grande filosofo ma, in quanto profeta, è stato più di un
filosofo: ha abbandonato tutte le sue capacità conoscitive in favore dell’attrazione divina, sapendo
riformulare la verità passata, presente e futura dell’uomo e ricondurla in termini simbolici accessibili a tutti.
Ha così saputo insegnare ai credenti che Dio è in tutto, a Dio tende ogni essere che da lui riceve l’esistenza,
Dio conosce l’universo che ha creato e vi esercita la sua provvidenza, le creature sono invitate ad amare il
creato.
La Cabbala
Con Maimonide speculazione filosofica ebraica tocca il suo vertice, e come alternativa a questa emerge
sempre più la tradizione mistico-esoterica della Cabbala: i cui inizi sono testimoniati dalla stessa
composizione del Libro della creazione. Essa è una tradizione in senso proprio, cioè una dottrina trasmessa
nei secoli che ha come centro le singole lettere della Scrittura e soprattutto i Nomi di Dio: la creazione, la
contemplazione mistica, il ruolo dell'uomo nell'ordine cosmico sono tutti temi scaturiti dalla sapienza di
Mosè e degli altri profeti. Questo modello è un commento mistico al Pentateuco, da cui emergono i precetti
fondamentali che accompagnano l'uomo nell'unione con Dio. Grazie alla sua forte valenza simbolica, la
Cabbala ha resistito, essendo opposta ad ogni speculazione razionale, al peso del tempo e ha continuato nei
secoli ad ispirare gli esegeti.

La civiltà dell’universitas studiorum


Le traduzioni latine
La “marea crescente dell'aristotelismo” è stata in realtà un complessissimo intreccio di relazioni e influssi,
all’interno del quale le dottrine scavalcarono i confini politici e religiosi delle diverse civiltà, il cui flusso
crescente inizia dalla metà del XII secolo, intensificandosi nei decenni di passaggio tra il XII e il XII secolo. I
traduttori, dapprima in Sicilia, poi in Spagna e in Francia meridionale, riversarono i propri lavori nelle
biblioteche di tutta la latinità, di modo che il nuovo sapere non fosse solamente filosofico o teologico, ma
fosse invece un sapere scientifico complesso, costituito tanto da opere originali quanto da commenti. In
particolare da Toledo il lavoro di traduzione fu ampio: le traduzioni letterali, utilizzando la tecnica di
collaborazione di due persone, uno che traduce dall’arabo al volgare, uno dal volgare al latino colto.
Partendo dalle opere di al- Kindī e al-Fārābī, si arriva fino ad Alessandro di Afrodisia e Avicenna, le opere del
quale insieme al Fons vitae di Avicebron furono tradotte da Domenico Gundislavi.
Gerardo da Cremona e Michele Scoto
Tra i tanti traduttori forse il più influente fu Gerardo da Cremona, tradusse opere greche, arabe ed ebraiche
completando anche la traduzione latina dell'Organon e mostrando così ai lettori che Aristotele propone una
teoria della scienza come rigorosa dimostrazione a partire da premesse necessarie e avente sempre oggetti
universali. Infine, dopo le traduzioni del Menone e del Fedone, tuttavia non circolati in maniera significativa,
lo scozzese Michele Scoto tradusse i commenti di Averroè. Grazie alle opere di traduzione, il sapere iniziò a
circolare e a compenetrare nonostante le diverse aree di provenienza e confessioni religiose, creando così
un florido terreno di confronto per gli studiosi di quei secoli. Si intensificarono inoltre i contatti diretti con
l’Occidente Greco e i viaggi a Costantinopoli di intellettuali filosofi e traduttori latini in cerca di testi
originali.
La nascita delle Università
Il nome di universitas studiorum risale all'inizio del XIII secolo per indicare una realtà, all'inizio propria della
città di Parigi, in cui il confluire di diversi istituti diede vita ad una sorta di città scolastica e in cui la
diversificazione delle competenze dei maestri diede vita a una moltitudine di facultates (possibilità di
scelta). Tra le varie facoltà troviamo la Facoltà delle Arti liberali, di Diritto, di Diritto canonico, di Medicina e
di Teologia, ciascuna con i propri testi di riferimento (Aristotele, Giustiniano, Graziano, Ippocrate, Il Liber
sententiarum del Lombardo). L’Università era una istituzione fortemente comunitaria, in cui le iniziative
personali erano assai ridotte: il Cancelliere era l'autorità principale, rappresentante del vescovo nella
scuola, e i suoi compiti principali erano quelli di tutelare lo svolgimento regolare della didattica ed
equilibrare i dissidi interni.
Gli scontri del 1200
In seguito a scontri, nel 1200 Filippo Augusto stabilì che gli studenti e i docenti delle scuole di Parigi
dovessero essere giudicati solo da autorità vescovili o universitarie, e nel 1215 si arriva alla solenne
approvazione dei primi statuti ufficiali dell’Università di Parigi da parte del cardinale Roberto di Courçon,
legato di Innocenzo III. Influenti saranno anche Oxford, da cui si staccherà Cambridge, come Padova da
Bologna, e Napoli (la prima fondata dal potere civile) e anche nel resto d'Europa vengono aperte numerose
università.
Lo studium curiae
Nel 1245 Innocenzo IV apre lo studium curiae, specificatamente dedicato allo studio della teologia. Lo
studente medio entrava verso i 14-15 anni obbligatoriamente nella Facoltà di arti liberali, che frequentava
per quattro anni, al temine dei quali i migliori venivano promossi al grado di baccalaureatus e potevano
tenere lezioni integrative e decidere nelle quaestiones. Il grado più alto della formazione era comunque la
Teologia, al termine del cui studio il maestro riceveva la licentia ubique docendi, ossia di insegnare in
qualsiasi Università del mondo cristiano.
Philosophi e Theologi
Gli scontri sulla legittimità del proprio insegnamento scaturirono dall'incontro della Facoltà di Teologia con
quella delle Arti, a cui va aggiunto che fu quest’ultima la prima depositaria dei nuovi testi provenienti dalla
sapienza greco-araba. Il risultato di questo processo fu una riapertura, più drammatica, del problema del
rapporto tra fede e ragione. Poiché gli stessi artistae fecero un salto di qualità nelle ricerche scientifico-
filosofiche è evidente che per questo motivo si sentirono autorizzati a sconfinare, con le proprie indagini,
dall'ambito della natura a quello del soprannaturale. Gli artistae si sentirono inoltre autorizzati a imporre le
regole fondamentali che ogni altra disciplina, compresa la teologia, è tenuta a rispettare se vuole che ai suoi
enunciati venga riconosciuto valore scientifico.
La risposta dei theologi
Si spiegano così le prime plateali prese di posizione dei theologi, non soltanto riguardo le nuove fonti della
scienza e del Corpus aristotelico, ma in particolare nel metodo di utilizzo di queste fonti. Nel 1210 fu vietato
l'utilizzo, sotto minaccia di scomunica, dei libri di filosofia naturale di Aristotele, per poi, con Roberto di
Courçon, nel 1215, vietare anche la Metafisica, senza però proibire l'insegnamento delle arti liberali:
l’obbiettivo della censura non era l'aristotelismo in quanto tale, ma solo il suo utilizzo in ambito teologico.
Come conseguenza dei propri studi di arti liberali, tutti i maestri di teologia conoscevano quelle discipline, e
faticavano ad allontanarsene.
L’ammonimento di Gregorio IX
Nel 1228 papa Gregorio IX richiamava i teologi a non “travalicare i confini fissati dai Padri”, invitandoli a
“ricondurre tutte le dottrine a quella regina” e a non comportarsi come teophantes, ciarlatani che
spacciano vane opinioni sul divino. La ripetuta censura dei testi aristotelici, in seguito riadottati ma solo
dopo un'epurazione dei concetti erronei, fornisce un quadro chiaro di quale fossero i pensieri di chi aveva a
cuore la cultura cristiana. I teologi cristiani aspiravano sì ad una distinzione tra gli ambiti, ma comunque
inseriti in una scala gerarchica, al cui vertice non può che trovarsi la teologia.
Gli scontri del 1229
Nel 1229 ci fu una sospensione delle lezioni, della durata di un anno, dovuta a scontri tra cittadini e
studenti, al termine della quale tutto il corpo docenti si unì per la libertà di insegnamento. Per risolvere la
questione lo stesso Gregorio IX invitava i docenti a fornirsi di propri strumenti, si fecero strada:
• l'idea della lectio biblica, principio di ogni ulteriore acquisizione del sapere.
• l'idea, diffusa da Gilberto e dai porretani, che in ambito teologico dovesse venire attuata una
transumptio dei termini.
• l'idea, di origine abelardiana, che i contenuti della fede potessero essere organizzabili in una
struttura architettonica sistematica.

I primi maestri secolari


La rivalità con i mendicanti
Per fronteggiare la rivalità ideologica dei Mendicanti, i quali miravano a ricondurre i principi ispiratori della
loro forma vitae nella sistemazione del sapere teologico, si impegnarono per realizzare una sintesi tra fede
e ragione nell'ottica di una salvaguardia della coerenza interna dei propri insegnamenti. L’innesto della
speculazione scientifico-filosofica nel programma universitario veniva considerato imprescindibile per un
percorso di conoscenza finalizzato al possesso di un sapere sistematico. Guglielmo di Auxerre
approfondisce una teoria di Simone di Tournai, il quale affermava che in Teologia il principio fondante della
vera conoscenza è una “fede che genera razionalità”. Guglielmo, partendo dall'affermazione di Paolo
secondo cui la fede sarebbe un “argumentum delle cose che non appaiono”, ritiene che convertire gli
haeretici e orientare i simplices siano parti costitutive di un discorso teologico, contrapposto a quello della
filosofia e finalizzato ad un maggiore avvicinamento dell'anima credente ai misteri divini. Il merito dei
secolari parigini è di aver portato la concezione antica della razionalità, posta al servizio della fede, alle
nuove precisazioni metodologiche divenute necessarie in seguito all'apparire di nuove e ancora indomate
suggestioni filosofiche: la ragione ha la possibilità di esporre le grandi problematiche del pensiero cristiano,
fornendo nuove soluzioni in base agli allora recenti sviluppi degli strumenti filosofici.
La teoria dei trascendentali
La storia del termine transcendentalia, nonostante lo stesso termine comparve poi per la prima volta alcuni
anni più tardi nella Summa del domenicano Rolando da Cremona, riguarda molti pensatori della scolastica,
tra cui ricordiamo Guglielmo di Auxerre, Guglielmo di Alvernia, vescovo di Parigi, e Filippo il Cancelliere.
Quest’ultimo è stato il primo a trattare questo tema in maniera sistematica, sostenendo che i
trascendentali siano le “condizioni concomitanti dell'essere”, le nozioni più alte e universali: sia i più alti tra
i nomi divini sia i più generali tra i nomi creaturali. I trascendentali consentono alla mente di accedere alla
comprensibilità di ciò che significa l’essere. Sono transcendentalia perché rappresentano il confine ultimo
della conoscibilità, al di là del quale c'è, appunto, la trascendenza, ossia l'inconoscibile. Per Filippo i
trascendentali sono ens, unum, verum e bonum; Guglielmo introduce anche il pulchrum, di derivazione
cosmologica dallo pseudo-Aeropagita; essi sono i termini ultimi e il punto di arrivo di ogni astrazione
umana. Guglielmo di Auxerre sostiene la necessità di pensare l'esse puro come unum, e dalla sua identità
con sé stesso bonum, e dall'identità tra unum e bonum fa derivare il verum. In questo modo i maestri
secolari dimostravano che i trascendentali sono presupposti da ogni verità di fede, e quindi condizionano
ogni comprensione della Rivelazione: essi diventano il raccordo tra teologia, etica e filosofia teoretica;
difatti senza la corretta conoscenza dei trascendentali non è possibile alcuna ulteriore conoscenza
particolare.
La definizione aristotelica di scientia
Nei centri di cultura in Inghilterra, dove non vi sono proibizioni nei confronti dei libri di Aristotele e dove si
evidenziano i limiti della ragione, viene accentuato il ruolo conoscitivo dell’esperienza e l’interesse per il
versante fisico-naturalistico prevalgono, quindi, le discipline del quadrivio e le esperienze medico-
astrologiche, dalle quale si preferisce attingere per inquadrare una metodologia utile alla conoscenza della
realtà visibile. L’impostazione naturalistica permette, infatti, di riflettere in essa la celebrazione del creato,
come testimonianza dell’opera divina. Grande attenzione è rivolta al testo di Aristotele, gli Analitici secondi,
in cui il filosofo esplicita la sua concezione di scientia, che fornisce le condizioni entro le quali sarà poi
possibile definire un sapere come “scientifico”:
• avviato all’acquisizione dei dati sperimentali per mezzo dei sensi.
• assicurato dalla comprensibilità dei dati universali, ossia non sottoposti al mutamento accidentale
e sempre oggettivamente veri nell’esposizione di un significato che sarà sempre identico a sé
stesso.
• articolato per via deduttiva a partire da definizioni universali (verità assiomatiche).
• conoscenza per causas, ossia fondata su collegamenti necessari di verità.

Roberto Grossatesta XII-XIII secolo, filosofo e primo maestro della scuola francescana di Oxford.
Il contributo di Aristotele
Il primo commento latino agli Analitici secondi è di Roberto Grossatesta, dove l’avvertimento aristotelico,
secondo cui la conoscenza scientifica deve basarsi sempre sui dati forniti dalla sensazione, viene integrato
con l’osservazione riguardo all’Intelletto divino il quale possiede una conoscenza eterna di tutte le cose,
senza alcun subordinamento all’esperienza. Lo stesso vale per le intelligenze separate, che conoscono i loro
oggetti senza la mediazione dei sensi corporei, allora, è necessario ammettere che per qualsiasi intelligenza
finita sia possibile ricevere la conoscenza della verità da una fonte superiore. Come spiega Aristotele, il solo
conoscere veramente certo dell’oggetto è quello relativo all’universale, è necessario, dunque, che nella
mente umana tutte le nozioni derivate dall’esperienza sensibile siano trasportate, mediante l’astrazione, in
termini universali, purificati dalla contingenza e dalla particolarità.
Critica alla teoria dell’Intelletto agente
Per assicurare tale processo, Grossatesta, propone una via alternativa a quella dei filosofi arabi che avevano
optato per la teoria dell’Intelletto agente, che permette l’astrazione della forma dei dati sensoriali in tutti gli
intelletti particolari in modo univoco, ed è separato e unico per tutta l’umanità. Il cristianesimo stesso offre
una soluzione più semplice e condivisibile, di matrice agostiniana, in cui la certezza conoscitiva può
provenire da un’illuminazione divina e, dunque, il processo di astrazione dei dati empirici viene subordinato
alla luce interiore che discende dall’alto, la verità di ogni nozione scientifica dipenderà dalla partecipazione
alla Verità divina. Se è vero come dice Aristotele che la conoscenza è sempre conoscenza di cause (per
causas), non è possibile però ammettere una diretta partecipazione tra la mente umana e le idee divine,
che sono cause di tutto ciò che è creato, difatti è impossibile che le intelligenze creaturali partecipino
direttamente dell’assoluta superiorità della verità in Dio.
Il tramite tra esperienza sensibile e Dio
Si rende necessario un tramite tra la verità degli esemplari e l’esperienza sensibile, che per Grossatesta è la
matematica, perfetto modello di conoscenza, tramite tra l’illuminazione divina e l’esperienza sensibile, per
due ragioni:
1. attraverso la matematica i dati empirici sono assunti ad un livello astrattivo, perfettamente
conoscitivo della res corrispondente, ma al contempo in modo rigoroso e necessario, perché effetto
di un’illuminazione divina.
2. nessun’altra scienza creaturale è in grado di verificare le proprie affermazioni attraverso
collegamenti di causa e effetto, nel pieno rispetto del principio epistemologico del conoscere per
causas.
Come scrive Grossatesta, “solo nella matematica si dà scienza e dimostrazione in senso proprio”, poiché
solo nella matematica l’oggetto può essere colto come risultante di sperimentazione e astrazione (la fisica
non può farlo perché considera la natura nella sua mutevolezza, mentre la logica o la metafisica
considerano oggetti troppo sottili o troppo astratti). L’anima umana è posta al confine tra mondo materiale
e mondo spirituale, riconducendosi dal molteplice al particolare, dal naturale al matematico in progressivo
perfezionamento dell’intelletto: sensus, imaginatio, ratio, intelligentia, potentia e superscientialis.
La luce come struttura matematica dell’universo
Ogni scienza deve essere ricondotta ad una formulazione matematica, che ne assicuri certezza e necessità,
infatti la matematica è vera perché riflette un conoscere che si produce nel punto mediano tra:
un’illuminazione informativa proveniente dall’esperienza (ab intra, dalla creazione), e un’illuminazione
formativa che discende dall’alto (ab extra, da Dio). Così, anche lo studio della scienza naturale viene
completamente ricondotto all’ottica, in quanto scienza della trasmissione della luce, ossia l’applicazione
della geometria alla luce. In tutti i suoi trattati scientifici, Grossatesta, costruisce una complessa architettura
delle discipline fondata sul principio unificante della luce; nel De iride per la prima volta si attribuisce il
fenomeno dell'arcobaleno alla rifrazione della luce solare, e non alla riflessione. Anche altre manifestazioni
della luce, come il calore e il colore, e moltissimi altri fenomeni non luminosi vengono ricondotti al principio
dell'incorporazione della luce negli enti naturali e alla sua propagazione.
La dottrina dell’ilemorfismo universale
Sia nel suo Esamerone, sia nell'esplicito trattato De luce, Roberto sostiene che la luce sia la prima forma di
tutte le cose ed è anche principio di essere, la sua creazione è stata il primo atto compiuto da Dio (Dio disse:
“Sia la luce!”. E la luce fu) e da essa ha avuto inizio la discesa matematicamente ordinata del resto di ciò che
è stato creato, distinguendosi in tre momenti:
1. lux, che esprime la realtà dell’essere.
2. splendor, che la diffonde.
3. fervor, che la riflette distinguendola dalla sua fonte.
Nonostante questi tre momenti, la luce è semplice ed inestesa e si diffonde per sua stessa virtù, dunque è
capace di auto-generarsi e auto-moltiplicarsi, manifestando sé stessa e rendendo palese l'esistenza di ogni
ente, di cui è forma prima. La luce, indifferenziata e fonte di ogni differenziazione, si combina fin dal primo
istante con la materia prima (secondo principio creato da Dio), da tale commistione scaturisce l’alterità
dell’essere finito.
La metafisica della luce
Grossatesta, allora, fornisce una spiegazione razionale di come dalla luce possa scaturire tutto: la luce si
irradia sfericamente in tutte le direzioni, spingendosi fino ai suoi limiti, in corrispondenza dei quali vengono
così delineati lo spazio e il tempo. Successivamente, attraverso un processo meccanicistico di espansione e
contrazione, ossia condensazione e rarefazione, dà origine ai successivi gradi delle intelligenze e a dieci
cieli, ossia dieci gradini delle diverse progressioni che via via diventano meno pure, per poi infine,
precipitare al centro dando vita ai quattro elementi. Inoltre, traducendo e commentando il Corpus di
Pseudo-Dionigi, Roberto aggiunge che tutte le creature intelligenti hanno conoscenza della verità
partecipando della luce divina e riconoscendo la presenza della luce nel creato, allora Dio stesso è
conoscibile come luce con un’inversione del processo di discesa della luce da Dio.
Il mistero trinitario e cristologico
Grazie alla comprensione della natura della luce, la mente umana può accostarsi alla verità della natura
divina e al mistero trinitario; la concepibilità di Dio come identità nella trinità è resa possibile proprio dalla
comprensione della luce in quanto lux, splendor e fervor. Tuttavia, un’illuminazione totale è possibile solo
grazie ad un’esperienza diretta della verità, la cui fonte è la fede nella Rivelazione; così Grossatesta,
rifacendosi al Cur Deus homo, illustra la comprensione del mistero cristologico: la Rivelazione informa
sull’accadimento storico, mentre, la teologia va più a fondo spiegando che l’Incarnazione è stata
eternamente predestinata nella volontà di Dio, desideroso di unirsi all’uomo fin dal principio, in quanto suo
principale oggetto d’amore.

Bonaventura di Bagnoregio XIII secolo, maestro di teologia a Parigi e ministro dell’ordine francescano.
Le quattro cause aristoteliche nella prospettiva divina
Con alcune parole scritte in margine al Breviloquium, Bonaventura definisce il sapere teologico come
scientia e doctrina altissima, ossia che unisce in essa la scienza profana e la dottrina cristiana:
• dottrina in quanto Dio è il subiectum delle sue indagini, e per questo è superiore a tutte le altre
conoscenze umane.
• scienza in quanto è un discorso sul primo e più alto principio di tutto ciò che è.
In quanto scienza, la teologia deve mostrare le condizioni che permettono di esprime un giudizio razionale
su un oggetto, ossia assegnare le rationes ad esso relative, mostrando come ogni vero teologico si risolve
nel principio primo (Dio). La teologia è riducibile a Dio sotto ogni aspetto, riassumendo le quattro cause che
secondo la metafisica aristotelica sono alla base dell’essere:
1. causa efficiente, ha Dio come origine (a Deo).
2. causa materiale, la natura di Dio (de Deo).
3. causa formale, regolata e condizionata dalla verità di Dio (secundum Deum).
4. causa finale, ha Dio come ultimo scopo (propter Deum)
La teologia come scienza divina e del vero
La teologia è una scientia divina, unitaria e una sola, ordinata e organizzata metodologicamente, poiché ha
Dio come oggetto e come soggetto. Bonaventura chiarisce che cosa sia la verità per il cristiano: la teologia è
vera se il suo conoscere è vero, ossia se proviene dal vero e se è ad esso orientata. Ma la verità in sé è
superiore alle verità particolari, ossia alla verità di qualcosa, perché è il motivo che la fa essere tale. Se la
verità in sé è Dio, allora la teologia, scienza di Dio, è anche scienza della verità in sé e per questo superiore
a qualsiasi altra disciplina. Per questo Bonaventura spiega che la missione del vero teologo è “ricondurre gli
uomini spirituali dalla sapienza mondana alla sapienza cristiana”. L’unico fine del cristiano sono la vita e la
dottrina di Cristo, perché in lui sono nascosti tutti i tesori della scienza e della sapienza di Dio, il centro di
convergenza di tutte le scienze.
La reductio ad unum della teologia
Bonaventura teme che la dissensio che ha lacerato la filosofia antica possa tornare a serpeggiare tra i
credenti, e affida alla conoscenza teologica il compito di assicurare l’unità di tutte le opinioni sulla verità,
non solo di quelle della fede. Votato a Francesco, Bonaventura diventa teologo poiché persuaso che la
teologia è il più alto strumento per avvicinare gli uomini alla Verità, ossia per operare la reductio ad unum
del sapere e della volontà. Quest’unum è la perfetta e unitaria sapienza di Cristo, che unisce divino e umano
e congiunge l’uomo alla propria divinità, le forze di questa via teologica sono l’intelligibilità e l’amore:
intelligibile è tutto l’universo perché creato dal Logos divino, oggetto di amore, invece, è ciò che viene
conosciuto come bene. Prerogativa entro quest’ottica è la reductio ad concordiam, la riduzione della
molteplicità delle tesi all’armonia della Sacra Scrittura, in cui la verità divina è presente in tutta la sua
pienezza.
La croce intelligibile
Nel prologo del Breviloquium Bonaventura esplicita il suo progetto di fondare la ricerca della verità sulla
Scrittura, che racchiude tutto l’universo secondo le quattro dimensioni della croce e per questo è detta
“croce intelligibile”, poiché in essa si trova descritta l’intera costruzione del mondo:
• larghezza: le parti di cui si compone la Bibbia, ossia Vecchio e Nuovo Testamento.
• lunghezza: la storia sacra, dalla creazione al giudizio universale.
• altezza: le gerarchie, ossia ecclesiastica, celeste e sopra-celeste.
• profondità: il moltiplicarsi dei diversi piani di lettura della parola scritturale, ossia letterale,
allegorico, morale e anagogico.
Il subiectum trinitario
A proposito del senso letterale Bonaventura, riprendendo una teoria di pseudo-Dionigi, enuncia la dottrina
della Trinità: ogni cosa è composta da essenza (substantia), potenza (virtus) e atto (operatio). Allora, il
subiectum della teologia è Dio secondo l’essenza, Cristo secondo la potenza e l’opera di redenzione
secondo l’atto. Ma dal momento che queste tre parti sono distinte in un’unità, il subiectum è il dato di fede,
ossia il credibile. Questa meditazione dottrinaria è anche un’illustrazione del metodo argomentativo
bonaventuriano, che si fonda su un rigido schematismo formale. Questo procedimento è, infatti, una vera e
propria metodologia che permette un’organizzazione mentale della verità scritturale che facilita l’accesso
della razionalità, e trova la sua massima espressione nell’Itinerarium.
La teologia come determinatio distrahens
La meta della ricerca della verità è la scientia Christi, ossia la “scienza che si ha di Cristo”, che è il riflesso
nella mente umana della “scienza che ha Cristo”. La scientia Christi è la vera teologia, che porta a
compimento la sintesi di fede e ragione. Il punto di partenza di questa ricerca è la lettura meditata del testo
biblico, che è preliminare ed essenziale. Questa prima tappa coincide con il lavoro svolto durante il
baccellierato, ossia la funzione di baccelliere biblico e baccelliere sentenziario. Frutto di questa attività
didattica sono note intercalate al testo che si sviluppano successivamente in commenti marginali e in
questiones; successivamente, si ha la determinatio teologica, ossia la soluzione alla questio. La lectio biblica
e la determinatio teologica hanno il medesimo oggetto, ossia il vero rivelato: mentre nel primo caso, però,
si ha un’esposizione chiarificatrice del vero, nel secondo si ha una comprensione scientifica che va oltre la
pura enunciazione del credibile, in quanto lo trasforma per effetto della grazia divina e dell’intelligenza
umana in un intelligibile. Il sapere teologico è una determinatio distrahens, in cui distahens significa “che
conduce altrove”, ossia trasforma il credibile in un oggetto di conoscenza intellettuale. Tuttavia, se
nell’ordine conoscitivo la scienza teologica va oltre la Rivelazione, nell’ordine epistemologico la teologia
segue sempre la Rivelazione, ossia non può mai andare contro di essa, che è fonte di tutte le verità. La
ragione che opera nella Rivelazione è uno strumento estraneo alla fede che è, però, finalizzato al
perfezionamento di essa.
Dalla deiformitas alla deformitas
Le scienze sono tanto più degne quanto più incidono nell'esistenza dell'uomo e nella possibilità per
quest'ultimo di conquistare la felicità. L'unica scienza che soddisfi pienamente questo requisito è la scientia
Christi, che sola può essere chiamata sapientia. Le scienze che presumono di poter condurre le proprie
indagini indipendentemente dalla teologia introducono nel sapere la diversificazione degli obbiettivi e,
dunque, un'imperfezione nei risultati, dal momento che vanno a contraddire l'Unum, che irradia la verità.
Nello stato primordiale dell’umanità nel paradiso terrestre, la mente di Adamo partecipava in modo diretto
della deiformitas, ossia della verità divina, anche se poteva cogliere solo in modo parziale la sua natura
eterna. Dopo il peccato, l’umanità è stata condannata alla deformitas, ossia ad una conoscenza
frammentaria e irrisolta, che è la scienza naturale. Tuttavia, nell’uomo la consapevolezza di tale condizione
gli impone di non fermarsi alla deformitas, ma di tendere a realizzare quella conoscenza completa che si
compie con la beatitudine. L’umanità deve subordinare le indagini su Dio alla Scrittura, dunque,
fondamentale non fermarsi alla filosofia ma correggerla con la fede, in modo da rinforzare successivamente
la fede con la filosofia. Bonaventura attacca fortemente l’inversione dell’ordine delle verità di cui si sono
macchiati i filosofi universitari, Cristo è l’unico vero magister e, dunque, la Facoltà di teologia dev’essere la
sede della vera Sapienza, contrapposta alle false scuole di filosofia dell’uomo.
Sermo scientia e sermo sapientia
Tuttavia, il teologo può servirsi dei contributi della filosofia per sostenere o spiegare razionalmente alcuni
contenuti della dottrina di Cristo; la filosofia può essere riconosciuta come portatrice di verità, ma deve
sempre essere reducta alla teologia in uno stato servile, dal momento che tutte le verità sono subordinate a
quella che è la più alta di tutte, ossia la Rivelazione. Al contrario, la filosofia abbandonata a sé stessa è
causa di errore, l’unica vera filosofia è quella che si presenta come critica teologica della ragione. Secondo
un famoso passaggio del Christus unum omnium magister, Bonaventura ritiene che Platone abbia colto
tramite un’intuizione l’infinità della verità trascendente (sermo sapientiae), demolendo il linguaggio della
scienza. Aristotele, in seguito, ha ristabilito l’indagine scientifica (sermo scientiae), abbandonando però la
via superiore della trascendenza. Ad Agostino, invece, in quanto si è rivolto alla Scrittura gli sono stati dati,
come una cosa sola dallo Spirito Santo, entrambi gli aspetti: il linguaggio della scienza e della sapienza.
La dottrina dell’ilemorfismo universale
Bonaventura riprende la dottrina dell’ilemorfismo enunciata da Avicebron, tutte le cose create sono
composte di materia e forma. Pertanto una materia deve essere attribuita non solo agli esseri corporei, ma
anche a quelli spirituali. Al contrario di Aristotele, l’anima risulta non essere affatto semplice, ma composta
di potenza ed atto, traducibile con materia e forma. La materia spirituale non è soggetta, però, alla
privazione e alla corruzione, non è estesa e non è quantitativa, essa è pura potenza e costituisce con la
materia corporea, un’unica materia omogenea. La prima forma di tutti i corpi è la luce, di essa partecipano
anche i corpi celesti, composti di una quinta essenza (l’etere), i corpi terrestri sono invece caratterizzati dai
quattro elementi. Grazie alla luce i corpi sono preparati a ricevere determinazioni e forme successive, i
corpi viventi dapprima si configurano come elementi e solo dopo come composti. In questa prospettiva
s’innesta la dottrina della pluralità delle forme, in cui ogni essere appare proteso a ricevere ulteriori
perfezioni. I corpi viventi sono quelli che hanno la disposizione di ricevere la forma: vegetativa (piante),
sensitiva (animali) e razionale (uomini). L’anima razionale è dove il mondo corporeo raggiunge la sua
perfezione, quest’ultima è creata direttamente da Dio insieme con il corpo, e pertanto gode di
incorruttibilità e di immortalità. Al di sopra dell’uomo si collocano gli angeli, sostanza puramente spirituali,
ma che sono anch’esse dotate di materia, in quanto create e quindi non assolutamente semplici ma
composte da potenza e atto.
La teologia speculativa
Le otto Questiones disputatae de mystero Trinitatis propongo un’esemplificazione della metodologia
teologico-speculativa, ossia della razionalità applicata alla fede. La ricerca è in questo luogo affine ad
Anselmo, Bonaventura cerca infatti le rationes necessariae che soggiacciono alla formulazione del dogma.
Nella prima quaestio Bonaventura riassume l’esistenza di Dio nella sua forma più sintetica, autentica ed
essenziale, l'argomento a priori di Anselmo: “si Deus est Deus, Deus est”. Nella seconda affronta il tema
dell'unità di Dio, dimostrando che non è incompatibile con la Trinità. Nella terza la semplicità di Dio, nella
quarta l'infinità di Dio, nella quinta l'eternità d Dio, nella sesta l'immutabilità di Dio e nella settima la
necessità di Dio. Infine, nell'ottava quaestio Bonaventura mostra come fede e ragione costituiscano un
circulus intelligibilis, una circolarità intelligibile del medesimo elemento divino presente nel credere.
La nozione di primitas
La teologia speculativa di Bonaventura ha come base un fondamento intellettivo, che scaturisce dalla
convergenza di fede e razionalità: la nozione di primitas divina. La primalità divina è la necessita di
postulare l’esistenza dell’essere di cui non si può pensare che non sia ciò che è, ossia il principio primo e
perfetto dell’essere e anche della conoscenza. In Dio, infatti, coincidono essere ed essenza (esse ed esse
aliquid), questi due aspetti ontologici sono il presupposto di ogni possibilità di comprensione, pertanto in
tutte le cose create in cui esistenza ed essenza sono distinti, non si può avere alcuna conoscenza se non
partecipando, in modo imperfetto, della primalità dell'essere perfetto. Per questo, la mente umana non
comprende il proprio essere ed è così spinta, dalla sua finitezza, a cercare la perfezione divina che, essendo
primalità, è necessariamente esistente e produttiva. Infatti, l’essere divino non può che essere produttivo e
tale perfezione si attua nella perfezione della conoscenza del produrre e dell’amore per il produrre, ossia
nel Verbo e nello Spirito Santo.
L’esemplarismo e la creazione
Bonaventura riprende la concezione della creazione platonico-agostiniana, detta esemplarismo, sostenendo
che nel Verbo esistono le idee, i modelli esemplari di tutte le cose. In Dio la conoscenza dell’essenza di una
cosa attraverso l’idea di essa è al tempo stesso creazione, ossia conferimento di esistenza a tale essenza.
Negare l’esistenza delle idee nella mente di Dio, significa negare la conoscenza divina del mondo e la sua
provvidenza, per cui tutto quanto avverrebbe solo per necessità. Bonaventura respinge tutte le dottrine
dell’emanazione, un processo di derivazione che procede per gradi; la creazione è opera di un atto di
volontà libero di Dio, che ha il suo unico limite nel principio di non contraddizione. Bonaventura prende una
posizione netta anche contro la tesi dell’eternità del mondo, infatti Dio creando dal nulla, fa passare le cose
dal non essere all’essere, pertanto la creazione deve essere concomitante con il costituirsi del tempo.
La dottrina dell’illuminazione della conoscenza
Infine viene ripresa anche la teoria dell’illuminazione di Agostino, che permette di accogliere e perfezionare
la dottrina dell’Intelletto agente, la cui funzione diventa quella di recepire e fare proprie, grazie a una
illuminazione, le regole fondanti della conoscenza. Dunque è l’illuminazione divina che garantisce
l’attualizzazione della conoscenza, e non l’intelletto agente che si identifica semplicemente come una
disposizione dell’anima umana insieme a quello possibile. L’uomo può così riconoscere l’essere nell’altro e
in sé stesso e riconoscerlo come compresenza di triadicità esistenziali: essenza, potenza e atto. Nella
primalità si giustificano così tutte le successive proprietà divine: unità, semplicità, infinità, eternità,
immutabilità, necessità. Questa conoscibilità è anche il termine di ogni desiderio dell’intelligenza finita, il
terzo documento della manifestazione divina: il liber vitae, sintesi di perfezione di intelletto e perfezione di
volontà. Come il liber naturae e il liber scripturae, anche il liber vitae è stato scritto nell’eternità del mistero
trinitario dal Verbo, che è “via, verità e vita”, ossia maestro di conoscenza, di fede e di contemplazione
affettiva: la vita francescana ha come scopo la realizzazione di questa perfetta vita immortale, che è la vita
cristiana.
Il raggruppamento delle scienze
In un sermone per l’epifania, Bonaventura descrive la scalarità della razionalità filosofica, su modello della
via percorsa dai magi per contemplare l’immagine di Cristo, in un percorso dall’intelligenza umana alla
verità della Rivelazione lungo 9 gradi, i quali corrispondono ad altrettante scienze:
• naturalis: fisica, meccanica, matematica; rationalis: grammatica, retorica, logica; moralis:
monastica, politica, economica.
Il medesimo tema è ripreso nella terza delle Collationes in Hexameron, ma qui le scienze sono raggruppate
secondo la divisione in res, signa e actiones. Il punto in comune è la prospettiva gerarchica e ascensiva
verso l’ulteriore grado, il quale si colloca al di sopra del sapere umano: la teologia. La scienza filosofica è sì
“la via a ogni altra scienza” ma “chi vuole trattenersi in essa cade nelle tenebre”, la descensio ad
philosophiam consiste nella discesa dall’uno alla molteplicità, dunque, non ci si può limitare ad essa ma è
necessario andare oltre, evitando di seguire Adamo nella “regione della dissomiglianza”.
Riconduzione delle arti alla teologia
La reductio artium è l’inverso della descensio ad philosophiam, in cui “ricondurre” non significa
sottovalutare o reprime, ma esaltare al massimo grado le capacità intellettuali dell’uomo che sono così
predisposte a ritornare alla loro condizione naturale, antecedente al peccato di Adamo. La luce divina,
diffondendosi, ha prodotto vari riflessi, che corrispondono alle varie scienze. Dunque, le scienze derivano
dalla medesima fonte, non sono luci distinte. Ed è compito dell’intelligenza umana risalire lungo il percorso
inverso, dai diversi gradi di apparizione della luce fino alla sorgente divina, per riscoprire la Verità in sé
stessa. Questo sforzo immesso è confortato dalla manifestazione della verità nella natura e nella scriptura.
Le luci iniziano così ad ordinarsi in:
• luce inferiore, quella dei cinque sensi, che fa conoscere i corpi per comprenderli.
• luce esteriore, che conduce allo studio delle arti meccaniche, capaci di trasformare gli oggetti in
strumenti utili per soddisfare le necessità del corpo.
• luce interiore, quella della conoscenza filosofica che indaga cause, formula principi, articola
l’ordine razionale dei discorsi.
• luce superiore, che deriva dalla verità salvifica della Sacra Scrittura.
Itinerario della mente verso Dio
L’itinerarium è la guida narrativa del percorso che compie l’intelligenza in cerca della deiformitas, l’esempio
da seguire per compiere questo percorso è Francesco d’Assisi, a partire dal racconto dell'esperienza mistica
della visione del Serafino. Il fine di questa ricerca è la pace, che diventa oggetto di una consideratio, al
termine di un percorso di ascesa della mente verso Dio. Questo transitus permette di accedere alla vita
beata, di uscire momentaneamente fuori di sé godendo, in un momento intellettivo e volitivo insieme, la
pace della verità. I gradi necessari all’ascesa sono sette (come i capitoli in cui lo scritto è suddiviso), di cui i
primi sei, che rappresentano la contemplazione indiretta, sono a due a due congiunti, in corrispondenza di
tre diversi atteggiamenti della conoscenza e tre forme di manifestazione della luce:
• luce esteriore (extra nos), in cui la conoscenza di Dio è descritta come vestigium:
1. senso (sensus), che considera le cose nel loro ordine, nella loro bellezza e nella loro origine divina a
partire dalla percezione sensibile.
2. Immaginazione (imaginatio), in cui si considerano le cose nell’anima umana astratte dalle condizioni
sensibili, e purificate negli intellegibili.
• luce interiore (intra nos), in cui la conoscenza di Dio è descritta come imago:
3. ragione (ratio), che contempla l’immagine di Dio nella memoria, intelletto e volontà, poteri naturali
dell’anima.
4. Intelletto (intellectus), in cui si contempla Dio nell’anima umana, illuminata e perfezionata dalle tre
virtù teologali.
• luce superiore (super nos), in cui la conoscenza di Dio è descritta come similitudo:
5. intelligenza (intelligentia), in cui Dio è contemplato nel suo primo attributo, l’essere.
6. sinderesi (apex mentis), in cui Dio è contemplato nella sua massima potenza, il bene, per il quale si
diffonde nelle tre persone della Trinità (in ipsa luce).
La fine del processo della mente verso Dio
Al di sopra di ogni conoscenza e al termine di tale processo ascensivo, si compie il rapimento (transitus)
dell'anima in Dio, in cui l’intelletto conclude la sua opera e raggiunge la pace (requie). L’anima completa e
perfeziona la sua ascesa mistica attraverso l’attuazione di una sorta di trascendenza radicale rispetto alle
cose e a sé stessa, e tramite l’abbandono di tutte le operazioni intellettuali per porre tutto l’affetto in Dio.
Questa è la condizione di estasi (excessus mentis), descritta da Bonaventura con le parole dello Pseudo-
Dionigi: una sorta di docta ignorantia, un momento non più intellettuale, ma unione vivente dell’uomo con
Dio, attraverso la quale l’uomo è ammesso a penetrare l’essenza del suo Creatore.

Alberto Magno XIII secolo, provinciale dell’ordine domenicano e vescovo di Ratisbona maestro di Tom.
Filosofia aristotelica e teologia cristiana
L’aspirazione di Alberto Magno è un metodo nuovo di fare filosofia, aperto e inclusivo, che si fonda
essenzialmente sul desiderio di “rendere intelligibile Aristotele ai latini”. Alberto progetta di leggere,
parafrasare e commentare in modo sistematico l’intero Corpus aristotelico, iniziando con l’Etica
Nicomachea e seguendo poi l’ordine classico della successione delle singole opere. Alberto, infatti,
considera la speculazione aristotelica come l’espressione compiuta dell’organicità del sapere scientifico-
filosofico, ossia un sistema di pensiero che, dotato di una metodologia propria (la logica), è orientato a tutte
le sfere di indagine della ricerca umana, sia teoretiche che pratiche. Alberto rappresenta una strana
inversione di tendenza riguardo all’andamento ufficiale degli studi: dapprima maestro di teologia, si dedica
alla filosofia solo in seguito al suo trasferimento in Germania, da lui considerata come propedeutica
essenziale al sapere teologico. La forte rivalutazione del sapere naturale porta, nel 1259, insieme ad una
commissione di domenicani a imporre l’obbligo a tutto l’Ordine di considerare l’aristotelismo come studio
propedeutico alla teologia. In gran parte dell’Occidente lo studio delle arti diventa così studio della filosofia,
distinto dalla ricerca teologica ma introduttivo ad essa.
L’indipendenza della metafisica
Secondo Alberto, metafisica e logica condividono il titolo di scienza dei principi primi, con alcune differenze:
• la logica ha il compito di evidenziare questi principi e proporli come premesse, delle successive
articolazioni del discorso vero.
• la metafisica ha il compito di studiare i principi primi per far conoscere alla ragione le leggi
immutabili che governano l’ordine naturale, senza fare riferimento alla volontà divina.
Questa capacità della metafisica permette alla filosofia di proporsi come una scientia vera e autonoma, del
tutto indipendente dal confronto con la fede. D’accordo con Averroè, Alberto dichiara che secondo le leggi
della natura, il movimento, la generazione e la corruzione non hanno mai avuto inizio né avranno mai fine.
Anche se questo contrasta con la verità della fede, semplicemente, il discorso scientifico-dimostrativo è
l’unico che il filosofo debba prendere in considerazione: infatti, per essere vera la filosofia deve godere di
un’assoluta libertà di giudizio, senza sottomettersi ad alcuna autorità esterna. Riconoscendo i propri limiti,
però, la filosofia è anche in grado di ammettere che una forza esterna, quale la volontà divina, possa
interrompere l’ordine naturale: di modo che all'universo possa essere posto un inizio e una fine.
Il miracolo come interruzione esterna
Ammettendo la possibilità del miracolo come una interruzione esterna (e non una alterazione come voleva
Lanfranco) della necessità naturale, Alberto consente che l’autonomia della filosofia sia salvaguardata e che
sia messa al riparo dall’errore teologico. Questo è il principale vantaggio del filosofo credente rispetto al
pagano, che la filosofia ora gode di una nuova possibilità, grazie al confronto con le certezze della fede:
distinguere tra gli insegnamenti giusti e quelli sbagliati dei filosofi, sulla base di una critica puramente
razionale. Alberto rifiuta, così, Avicebron nel suo radicale volontarismo divino e nella nozione di materia
spiritualis, che svaluta il sistema aristotelico delle cause seconde, e l’ilemorfismo universale, che può
scadere facilmente nell’immanentismo (o panteismo).
Il sistema filosofico della realtà
Nel De causis et processu universitatis, Alberto, elabora un sistema razionale della realtà facendo ricorso a
formule diverse, per spiegare la distinzione ontologica fra Creatore e creature. Al vertice del suo sistema
pone il principio primo (Dio) assolutamente semplice e trascendente, in cui non c’è distinzione fra esse e id
quod est, ovvero fra la sua esistenza e la sua essenza le quali coincidono: Dio è essere originario ma anche
ente, e per questo puro intelletto e libera volontà operante. Riprendendo la visione del mondo avicenniana,
la creazione viene considerata un processo di emanazione, in cui la causa prima viene trasmessa nel creato
da una gerarchia ordinata di cause seconde, la mediazione consiste nella trasmissione di influssi formali,
che determinano l’essere nelle realtà inferiori facendolo apparire come un quod est circostanziato
(ilemorfismo).
La dottrina dell’inchoatio formae
Tale influenza formale avviene senza modificare la natura del causante, ma solo quella del causato e questo
è possibile, secondo Alberto, grazie all’inchoatio formae: un appetito o desiderio di tendere alla forma
presente in qualsiasi essere indeterminato, ossia una disponibilità ad essere formato di tutti gli esseri
corporei, per cui essi sono orientati a realizzare quelle forme che sono attivate per effetto delle cause
superiori. Dunque, Dio è l’Intelligenza pura che contiene le forme esemplari delle cose create, le quali
tendono a lui necessariamente per mezzo dell’attrazione esercitata dalle cause superiori. Attraverso tale
attrazione, Dio regola l’ordine dell’universo in un sistema di dipendenza dalla causalità di una forma
superiore che agisce in assoluta libertà: il movimento dei corpi è un tendere subordinato a quello dei cieli,
che si muovono tendendo alle intelligenze seconde, le quali sono a loro volta subordinate all’intelligenza
prima. Dunque, Dio comunica le forme al creato ma non è responsabile del modo in cui vengono recepite
dalla materia, si può allora parlare di fatum senza cadere in una prospettiva deterministica. Infatti gli influssi
formali provenienti dall’alto sono in sé necessari, ma la diversa disponibilità delle imperfezioni materiali li
recepisce e li rende efficaci in maniera del tutto imprevedibile e contingente.
L’essenza dell’anima è unica
Nel De natura et origine animae, Alberto sostiene contro la dottrina della pluralità delle forme, che l’anima
razionale, concepita come perfezione dell'uomo, è unica nell’essenza poiché racchiude in sé tutte le facoltà
naturali. L’anima, almeno in parte, è edotta dalla potenzialità della materia, la quale viene portata a dare
origine alle funzioni vegetative e sensitive, l’uomo è così inserito nei processi causali del fatum:
• l’anima vegetativa è in potenza nella virtus formativa del seme paterno e diventa atto per mezzo
degli agenti naturali.
• l’anima sensitiva è in potenza in quella vegetativa e si sviluppa non appena l’embrione ha formato
gli organi adatti.
• l’anima razionale, pur essendo potenzialmente presente nell’anima sensitiva, non può derivare
solamente dal corpo in quanto è dotata di una libertà di conoscere e di agire che ne assicura
l’indipendenza dal sistema causale.
La posizione intermedia dell’anima
L’anima è, quindi, originata ab intrinseco e ab estrinseco, si trova come collocata “sulla linea dell’orizzonte
che separa l’eternità e il tempo”, libera rispetto al fato, è in parte dipendente e in parte indipendente dalla
corporeità. Nel trattato De Unitate intellectus contra Averroem, Alberto, considera l’essenza dell’anima
razionale simile a quella delle intelligenze separate (angeli) ed è a immagine di Dio. Tuttavia l’unione con il
corpo la indebolisce legandola alla molteplicità spaziotemporale, pertanto non è in grado di contemplare
direttamente le forme universali, come fanno le intelligenze superiori. Per far ciò, si necessita l’azione
dell’Intelletto agente, concepita come un’irradiazione di luce, che rende possibile la conoscenza delle forme
universali, sollecitandole interiormente nell’anima tramite rappresentazioni: tale disposizione ricettiva è
determinata dall’intelletto passivo.
L’opposizione contro l’averroismo latino
Alberto prende, a questo punto, le distanze dalla concezione averroistica dell’intelletto passivo, quale
separato e universale, e optando per una correzione teologica, postula un intelletto passivo singolare e
personale: esso è parte operativa dell’anima individuale e vera sostanza dell’uomo. Conseguente sarà un
importante risvolto etico: Alberto invita gli uomini a liberare progressivamente l'intelletto passivo singolare
dai limiti della corporeità per orientarsi verso quello agente e ad assimilarsi ad esso, solo progredendo dal
corporeo all'intellegibile puro delle forme, da qui alle sostanze separate e infine alla Causa prima si potrà
arrestare definitivamente il desiderio di sapere. L’esito finale di questa ascesi è la copulatio dell’anima con
Dio, il compiersi di una visione in cui l’anima può guardare all’interno della fonte stessa della verità e della
vita, una visione mistica in cui si compie la perfetta coincidenza di scienza filosofica e sapienza religiosa, in
una conoscenza che sarà perfetta sotto tutti e due i punti di vista. In conclusione, ciò che sopravvive alla
morte del corpo non è un presunto intelletto unico e impersonale, bensì l’anima dei singoli individui, in tal
modo con queste precisazioni, Alberto rende Aristotele accettabile all’interno della cristianità.
Il sistema della verità teologica
Il progetto riguardo alla distinzione, subordinazione e conciliazione della conoscenza filosofica e teologica è
stato fortemente influenzato dal Corpus areopagitico, commentandolo, Alberto, descrive le tappe della
conoscenza scalare dell’anima verso la verità, collocando al vertice l’adesione ai contenuti della Rivelazione.
In particolare, commentando una frase dello pseudo-Dionigi nel terzo libro delle Sententiae, Alberto
definisce la fede come: immobile principium. La fede non solo è la più alta fonte della verità, ma anche il
principio e il fondamento di qualsiasi approfondimento su di essa. La luce della fede è principio regolativo
della conoscenza teologica, ossia la sua forma a priori, che pur trascendendo dal riconoscimento razionale
del vero, ne regola tutte le applicazioni. Dunque, è compito del teologo capire come la discesa della verità
dal principium della fede all’anima, possa essere considerata come una scientia, ossia un’acquisizione di
conoscenza inalterabile e universale. Necessario, allora, è confrontare il criterio messo in atto dai filosofi
nella divisione delle scienze con la fede, disciplina che pone il proprio principium nel trascendente e nel non
verificabile.
Il subiectum della teologia
Alberto spiega che il subiectum della teologia, ossia il suo sostrato e contenuto, è direttamente Dio
(subiectum speciale), ossia il fine ultimo a cui la fede tende senza mai raggiungerlo completamente in
questa vita. Avendo per oggetto Dio, la teologia è volta anche a descriverne tutte le proprietà
caratterizzanti, ossia i credibilia (subiectum specialiter), gli oggetti del credere. In ultima analisi, la teologia
tratta di tutto ciò che in qualche modo esprime la verità contenuta nella Rivelazione, ossia indaga le res e i
signa (subiectum generaliter) contenuti nella Rivelazione. Nonostante la molteplicità di contenuti, la
teologia è sempre scientia una, in quanto Dio è causa unica, efficiente e finale, di tutto ciò che ha che fare
con il credere. Essa è caratterizzata da una circolarità del vero che si riflette nello schema del descensio-
reditus, l’estensione dottrinale della teologia è compresa tra: Dio come creatore da cui tutto deriva, e Dio
come termine del processo di ritorno dell’essere alla sua fonte. Al contrario, la metafisica ha come
subiectum l’essere, dunque, è una scienza con una dignità inferiore rispetto alla teologia, dal punto di vista
dell’oggetto che colma, però, con un maggiore rigore metodologico.
La teologia come scienza affettiva
La teologia, infatti, non è una scienza completa ma una scientia pratica non speculativa, dal momento che il
subiectum della teologia, ossia Dio, non è un oggetto conoscibile in quanto tale, ma piuttosto un fine verso
cui tutte le affermazioni della teologia tendono. Quello della teologia non è un conoscere fine a sé stesso,
ma un conoscere per amare, essa è una scientia affectiva ossia invita a cercare la verità nella speranza di un
finale ricongiungimento con Dio. Tuttavia, quest’unione non è solamente un’aspirazione, ma la finalità certa
della conoscenza della fede, dunque, la teologia può essere ammessa come scienza speculativa proprio
perché è affettiva, ma tale statuto sarà sempre subordinato a quello della scienza pratica: Dio nella visione
beata non sarà conoscibile come essenza in sé, ma come fine dell’orientamento dell’affetto di ogni
creatura. Come culmine di tutte le scienze, la teologia può condurre l’intelligenza a immergersi nel
gaudium, che scaturisce dalla pienezza di verità che è voluta e desiderata e che è resa possibile dalla
discesa del Verbo nell’anima. La conoscenza della fede è, per Alberto, la conoscenza del Logos, ed è quindi
principio di una vera e propria logica della verità, che consente ai credenti di essere i veri philosophi, il cui
fine naturale è di congiungere l’intellectus umano con l’Intellectus divino (doctrina ad perfectionem
intellectus ordinata).

Tommaso d’Aquino XIII secolo, maestro di teologia dell’ordine domenicano, detto il “il bue grasso”.
La definizione di verità
Nel Super Boetium De Trinitate, Tommaso si domanda se la mente umana è in grado di conoscere la verità
solo se partecipa dell’illuminazione divina. In Aristotele, si capisce che c’è un lume insito naturalmente
nell’uomo, ossia l’efficacia dell’Intelletto agente, e che l’anima è in grado di recepire la verità. Ma, dal
momento che la conoscenza umana è finita, ci sono aspetti della verità che non può concepire, tra questi le
verità della fede, le quali eccedono le capacità della ragione. Nel De veritate Tommaso chiarisce il
significato di verità come: “adeguazione della cosa all’intelletto” (adaequatio rei et intellectus). L’intelletto
umano è indeterminato se non intende un oggetto, il pensiero è tale se è di qualcosa. Esso non può avere
coscienza diretta di sé stesso, se non nell’atto in cui intende e si rivolge a qualcosa di determinato, dunque,
ci sono tante verità quante cose l’intelletto può conoscere. Ciò significa che la conoscenza umana è
discorsiva, procede attraverso passaggi e formulando ragionamenti, i quali non sono altro che una
concatenazione di atti di affermazione e negazione. Nessuna cosa è di per sé falsa, perché la falsità altro
non è che l’inequalitas tra la cosa e l’intelletto, che nasce dagli errori compiuti nell’affermare o nel negare
qualcosa. La teologia è vera se consente all’uomo di conoscere, con l’intelletto, ciò che è oggetto di fede.
Magister in Sacra Pagina
Tommaso scrive glosse bibliche, ossia documenti iniziali di quella che doveva essere un’opera esegetica, e
postille su testi profetici. Divenuto maestro in teologia, Tommaso, commenta analiticamente la Bibbia con
molteplici esposizioni approfondite. Compone, inoltre, trattati di ampio respiro, come le due Summae, o
opuscoli dedicati a problematiche specifiche. Tutte le sue opere sono basate su una solida conoscenza della
Scrittura: la cultura biblica è la ragione stessa dell’esistenza della scienza teologica, in quanto offre e ne
delimita il contenuto, oltre ad esserne il fine ultimo ed essenziale. Questo profondo radicamento nel testo
scritturale caratterizza la produzione universitaria dell’Ordine dei Mendicanti, per orientare e sostenere il
credente nel suo rapporto con la Rivelazione.
L’importanza della lectio biblica
La collocazione della lectio biblica a fondamento della speculazione teologica, giustifica l’importanza
decisiva che Tommaso accorda al senso letterale della Bibbia. Egli ritiene che il senso storico e letterale sia
necessario per fondare una prima, indispensabile comprensione teologica della Rivelazione, nonostante
non ne sminuisca il valore figurativo, simbolico e allegorico. Per Tommaso, colei che ha realizzato al
massimo grado lo studio meditativo e costante della Bibbia è la Vergine Maria, attraverso la disponibilità
all’ascolto della Parola divina, al momento dell’annunciazione e del concepimento del Verbo divino.
La lettura della Bibbia attraverso le quattro cause aristoteliche
Nel prologo del Commento ai Salmi, Tommaso sottolinea la funzionalità della lectio biblica a fondamento
dello studio teologico fondandosi sulla teoria aristotelica delle quattro cause:
• la causa materiale è l'opera di salvezza realizzata dall’Incarnazione di Cristo.
• la causa efficiente è Dio stesso che ha ispirato gli scrittori.
• la causa finale è la preghiera e l’elevazione dell’anima a Dio.
• la causa formale è la forma dello scritto che permette di comprendere la differenza tra la
Rivelazione e il discorso teologico.
Un’organizzazione unitaria della teologia
Lo Scriptum super Sententiis è la prima grande sintesi teologica di Tommaso, che si articola attraverso
molteplici questiones. Uno degli elementi che caratterizzano maggiormente questo scritto è l’utilizzazione
di autorità filosofiche, aprendo così un dialogo tra le fonti della dottrina cristiana e quelle della filosofia
greco-arabo ed ebraica. Tommaso è persuaso che la ricerca della sapienza debba essere sostenuta da tutti
gli strumenti utili per consolidarla, nella certezza che non può esserci contraddizione tra manifestazioni
distinte di un’unica verità. Nelle pagine dello Scriptum, Tommaso cita in primis Aristotele, sempre nel
rispetto del pensiero dei Padri, e ancora Agostino, pseudo-Dionigi, Gregorio Magno e filosofi
contemporanei come Alberto Magno e Bonaventura. Il ruolo delle fonti si giustifica con l’intento del
Lombardo, di proporre un’organizzazione unitaria della materia teologica, intorno alla centralità della
nozione di Dio che è origine e fine del creato.
Sancti e philosophi
Questo comporta per Tommaso una connessione tra: la produzione trinitaria e quella dell’opera creatrice e
redentrice divina. La genesi delle creature non è che l’effetto della generazione del Verbo nel quale il Padre
progetta la creazione, mentre il ritorno delle creature a Dio operato dalla grazia è l’esito della processione
dello Spirito Santo. Questa dottrina può essere, dunque, spiegata razionalmente attraverso la filosofia
neoplatonica con i concetti di: descensio dall’Uno nel molteplice e reversio all’Uno dal molteplice. Il
patrimonio filosofico non è soltanto un metodo di supporto all’argomentazione, ma una proposta di
valutazione dell’analisi razionale della realtà, che consente di mettere a confronto soluzioni diverse, spesso
compatibili e conciliabili: i philosophi diventano fonte di pensiero legittima accanto ai sancti.
La metafisica come scientia
Forte della certezza che il possesso della verità assoluta è assicurato dalla Rivelazione, Tommaso propone
una nuova fondazione della metafisica. Quest’ultima è un solido sistema di verità acquisito con la sola forza
della razionalità naturale, in accordo con la verità rivelata. La metafisica, per essere considerata veramente
scienza, non può rimanere assoggettata alle variazioni e all’incompiutezze, perché l’amore per la verità
autorizza a riconoscerla ovunque essa possa manifestarsi. Per Tommaso, l’autentico teologo non può non
sentire la necessità di essere anche un autentico metafisico, dunque di portare a compimento
l’organizzazione del vero razionale, così da poter aprire un fruttuoso dialogo con le certezze della fede.
Essere essenza ed ente
Il De principiis naturae può essere considerato come una preparazione all’approccio tematico e agli sviluppi
del De ente et essentia. Esso è un’esposizione compendiaria sull’essere e il divenire delle cose, partendo
dalle basi poste da Aristotele, ossia le coppie potenza-atto, sostanza-accidente, materia-forma, la divisione
del genere in specie e individui e la dottrina delle quattro cause. Queste molteplici strutture complicano
notevolmente la spiegazione razionale della natura dell’essere, allora, Tommaso ritiene che sia necessario
risolvere un’ulteriore distinzione concettuale a tutte anteriore: quella tra essere ed essenza, di stampo
avicenniano. Tommaso tratta questa distinzione nel De ente et essentia, che inizia con l’avvertimento
aristotelico secondo cui: “da un piccolo errore iniziale segue sempre un grande errore finale”. È necessario,
dunque, fondare basi solide, ossia far chiarezza su quelli che, secondo Avicenna, sono i primi concetti
dell’intelletto: ens ed essentia. Questa distinzione è necessaria perché il significato dell’essere è
estremamente complicato, esso non solo si dice in molti modi, come sosteneva Aristotele con la dottrina
delle categorie, ma vi sono anche, secondo Tommaso, diversi gradi di esistenza, ossia una gerarchia
dell’essere in atto dalla perfezione divina al più banale e caduco tra gli accidenti:
• essere (esse): è la realizzazione compiuta dell’essenza di una cosa.
• essenza (essentia): è la definizione di una cosa, ciò che una cosa propriamente è; il modo d’essere
di una cosa più pieno, ciò che risponde alla domanda “che cos’è?” (natura-quiddità).
• ente (ens): è ciò di cui si predica l’essenza in atto, tutto ciò di cui si può predicare correttamente
l’atto di essere, ossia che esiste ed è qualcosa (composto di essenza ed esistenza).
Rispetto all’essere, l’essenza è soltanto potenza, possibilità di essere, mentre l’essere è atto dell’essenza: il
passaggio dall’essenza all’essere, si configura come passaggio dalla potenza all’atto.
La materia signata quantitate
Le sostanze composte risultano dalla combinazione di forma e materia, dunque la loro essenza comprende
sia la forma che la materia. Tuttavia, non sempre la combinazione di materia e forma produce un individuo,
ma solamente quando interviene il principio di individuazione, che permette la differenziazione degli
individui. Per esempio, l’uomo è definito dal fatto di avere una forma (anima razionale) e una materia (ossa,
carne e così via), ma l’avere carne ed ossa è prerogativa di tutti gli uomini, in questo senso tale materia è
comune a tutti. Ciascun uomo, invece, si distingue dagli altri per il fatto di avere questa carne qui e queste
ossa qui. Dunque, il principio di individuazione è riposto, da Tommaso, non nella materia comune, ma in
quella che chiama: materia signata quantitate, cioè la materia contrassegnata da precise dimensioni.
L’essenza uomo, in quanto costituita di materia e forma comune, è universale e propria per tutti gli uomini,
ma grazie alla materia signata quantitate si determina nei singoli individui, in una particolare attualizzazione
dell’ens: sia Socrate, sia l’uomo sono una essenza, ma solo Socrate è una essenza determinata in atto, cioè
un ente. Ciò significa che l’essenza uomo, esiste soltanto nel singolo uomo individuato dalla materia signata
quantitate.
Le sostanze separate
Le sostanze separate sono le intelligenze angeliche e l’animo umano, che hanno come essenza soltanto la
forma (Tommaso rifiuta l’ilemorfismo di Avicebron) poiché la capacità intellettiva, che è il modo stesso di
essere delle intelligenze, non può essere affetta dalla materia, altrimenti sarebbe incapace di cogliere
l’universalità. Tuttavia, non sono neanche forma pura, la loro forma si realizza in un determinato modo che
non coincide con l’essenza in sé, perché altrimenti sarebbero Dio. Dunque, le sostanze separate sono il
risultato di una composizione di forma ed essere, e la loro essenza sarà solo la forma: ente ed essenza non
coincidono. Inoltre, non si danno il loro esistere da sé, ma esso deriva da una libera creazione di Dio,
dunque non è assoluto ma “ricevuto”, e per questo sarà limitato e finito. Caso particolare è, però, quello
dell’anima umana, che viene individuata da un suo habitus, ossia una sua predisposizione ad unirsi con un
determinato corpo, acquisendo il suo atto di essere nell’unione con il corpo, di cui è la forma. Pur essendo
composta di essenza ed esistenza, l’anima umana viene individuata perché il suo atto di essere è
predisposto a realizzare l’essenza solo in unione con un corpo individuale.
La sostanza di Dio
La sostanza semplice è Dio, la Causa Prima, Lui solo gode di un’esistenza che realizza in atto, in modo pieno
e assoluto, la sua essenza. Solo in Dio l’essenza fa un tutt’uno con la sua esistenza, che non è separabile,
Egli esiste in virtù della sua stessa essenza (ipsum esse per se subsistens) “la sua essenza è il suo stesso
essere”. Non avendo un’essenza distinta dalla sua esistenza, Dio non può essere un individuo facente parte
di un genere o di una specie, né la “deità” si può realizzare in atto in una specie o in un individuo, ma è
l’essere stesso di Dio che realizza tutta la sua essenza in atto, e non ha bisogno di aggiungere alcunché al
suo essere. Come sostenuto da Aristotele, infatti, Dio è atto puro e questo significa che la sua essenza non
contiene potenzialità e, dunque, per esistere non ha bisogno di passare dalla potenza all’atto. Dio è Ens in
forma totale e assoluta, senza alcuna potenzialità irrisolta, non ha carenza di nulla, ma possiede tutte le
perfezioni che possono essere realizzate in atto nell’essere. In quanto esiste da sempre è Dio che fa passare
tutte le cose dalla potenza all’atto, cioè le fa esistere.
Gli accidenti
Tommaso passa poi a studiare l'essenza degli accidenti, dato che anche di essi viene predicata una
definizione, devono avere un'essenza. Nella definizione dell'accidente, però, deve venire inserito anche
qualcos'altro, poiché l'accidente esiste sempre in quanto inerisce a una sostanza. Quindi ogni definizione di
un accidente sarà incompleta, poiché l'essere di un accidente è una determinazione esistenziale in atto,
un'esistenza, non un'essenza: l'accidente non è ontologicamente autonomo. L’accidente è un ente che non
ha un’essenza propria ma deve appoggiarsi all’essenza di qualcos’altro, dunque, la definizione degli
accidenti è imperfetta e la loro essenza è incompleta e relativa.
La distinzione tra metafisica e teologia
Nel Super Boetium De Trinitate viene evidenziata la distinzione tra metafisica e teologia, per Tommaso
esistono due tipi di teologia: quella filosofica (metafisica) e quella fondata sulla fede (teologia cristiana).
Entrambe hanno come subiectum “ciò che è separato della materia ed immobile”, ma si occupano di esso
in maniera differente:
• la metafisica, chiamata da Aristotele philosophia prima, ma anche scientia divina o theologia, è la
scienza di competenza del filosofo. Essa studia l’ente in quanto ente, ossia scevro di qualsiasi
dimostrazione, e ha il compito di trattare della sostanza divina non in quanto tale, ma solo in
relazione all’essere creato. Dunque, tratta di Dio solo in relazione alle creature e si occupa dei
principi di verità a partire dai loro effetti: in cui le cose divine sono principi dei suoi subiecta e non il
subiectum. La metafisica si occupa, quindi, di “ciò che è separato dalla materia ed è immobile”, in
cui l’immaterialità e l’immobilità non sono caratteristiche proprie, in quanto possono questi enti
trovarsi nella materia e nel movimento che sono: essere, sostanza, potenza e atto.
• la teologia propriamente detta, ossia la theologia cristiana, identificabile con la sacra pagina, ha
come subiectum il divino in sé. Ossia, essa si occupa di “ciò che è separato dalla materia e immobile”
in senso proprio, in cui l’immaterialità e l’immobilità sono proprie dell’oggetto di studio, che sono
Dio e gli angeli.
Prospettiva rivoluzionaria
Nonostante il suo statuto di verità non sia scaturito dalla ragione, la teologia è necessariamente una scienza
poiché ha un suo oggetto di indagine peculiare: la realtà divina in quanto principio, ossia a partire dal suo
essere principio. Dopo aver rifondato la metafisica entro l’orbita della conoscenza cristiana, Tommaso, si
propone di fondare la scienza cristiana entro il paradigma delle scienze razionali e al di sopra di esse. Nella
Summa contra Gentiles porta all’evoluzione il dialogo con le altre religioni; quest’opera è vista come uno
strumento apologetico-razionale per convincere coloro che appartengono alle altre religioni (ossia i
“gentili”) a convertirsi o consolidare la fede di coloro i quali già credono in Cristo, dimostrando la necessità
razionale di alcune delle verità rivelate. Infatti, dal momento che la teologia è fondata sul lume della fede e
la filosofia sul lume della ragione, le verità della ragione non potranno mai essere in contraddizione con
quelle della fede. Se ci fosse un qualche contrasto Dio ci starebbe ingannando, cosa impossibile, ed in
questo senso la verità non può che essere unica.
La dottrina dei preambula fidei
Dunque, come spiega Tommaso, in tre modi è possibile utilizzare la filosofia nella teologia:
1. dimostrare le anticipazioni della fede, ossia tutte le cose che possiamo dire di Dio mediante la
ragione naturale (come il fatto che esista e che sia uno)
2. mostrare la ragionevolezza delle verità rivelate, rendendole note per mezzo di similitudini.
3. confutare pagani ed eretici e tutto ciò che viene detto contro la fede, mostrando la necessaria
falsità delle loro dottrine.
Tommaso distingue le verità “che sono proprie della fede” (ea quae sunt fidei) da quelle “che sono proprie
della filosofia” (ea quae sunt philosophiae), e poi tra quest’ultime individua in particolare quelle “che sono
precorritrici rispetto alla fede” (ea quae sunt preambula fidei). Dunque, i preambula fidei non sono ancora
articoli di fede, ma nozioni fisico-naturali, introduttive e propedeutiche rispetto alla fede e alla teologia. Per
questo, esse sono condivisibili da tutte le intelligenze umane, indipendentemente dal credo religioso a cui
sono state educate.
Il ruolo che spetta alla filosofia
La teologia porta a compimento ciò che la filosofia avvia, dunque, è lecito per il teologo evidenziare la
necessità di tali verità, in quanto intelligibilia, allo scopo di dialogare anche con i non credenti, permettendo
una comprensione razionale delle stesse verità in cui credono i cristiani. La verità delle cose divine, che in sé
è una e semplice, è duplice nel modo in cui gli uomini sono in grado di recepirla: la verità dimostrata
razionalmente e la verità cui si arriva solo con la fede. Dunque, il vero sapiens è al contempo metafisico e
teologo, aristotelico e cristiano.
La divisione della Summa
La Summa contra Gentiles si divide in quattro parti, di cui le prime tre, dedicate rispettivamente a Dio in sé,
al rapporto tra Creatore e creato e alla relazione tra Dio come Bene e la vita morale, infine si apre la strada
alla quarta, in cui sono affrontati direttamente i misteri della Rivelazione. Se la ragione ha anticipato la fede
nelle prime tre parti, nella quarta non basta più e si fa superare dalla fede: come l’allegoria eriugeriana
della corsa dei due apostoli al sepolcro di Cristo. L’opera culmina, allora, con la celebrazione dello studium
sapientiae, l’antico nome della filosofia, ora utilizzata anche per indicare la teologia, intesa come la migliore
utilizzazione possibile della ragione filosofica. Tra tutte le dimostrazioni quella dell’esistenza di Dio è la
prima e fondamentale, il necessario “fondamento dell’opera intera, senza il quale svanisce ogni possibilità
di parlare delle cose divine”. Le rationes introdotte a sostegno della dimostrabilità dell’esistenza di Dio
anticipano le cinque vie della Summa theologiae, insistendo in particolare sulla considerazione di Dio come
motore primo di ogni mutamento creaturale. Da qui, derivano tutte le altre condizioni della sua
conoscibilità: se è motore è immobile, se è immobile è eterno, se è eterno è privo di potenzialità, se è privo
di potenzialità è privo di materia, se è privo di materia è puro spirito, se è puro spirito è privo di passività.
La via analogica
Tuttavia, sia il discorso rivelato che quello filosofico possono parlare di Dio, come insegna lo pseudo-Dionigi,
soltanto presupponendo una radicale alterazione del valore semantico originario dei termini che utilizzano.
Non si tratta, però, come voleva Maimonide, di termini equivoci, ossia di termini teologici portatori di un
significato totalmente diverso, altrimenti non sarebbe possibile neanche la via negativa che è l’unico modo
in cui Dio può essere esprimibile. Siccome sussiste una qualche somiglianza tra Dio e le cose create, si
giustifica la possibilità stessa di argomentare sulle perfezioni divine a partire dal creato. Inoltre, risulta
necessario concludere che ogni denominazione divina non può essere né univoca, né equivoca, ma è
sempre e soltanto analogica. L'analogia consiste nel predicare uno stesso nome di cose distinte: è sano un
corpo, è sano un cibo o è sana una medicina. La stessa parola viene utilizzata per motivi diversi, sempre
però in riferimento alla salute. Allo stesso modo si parla di Dio riferendosi ad uno stesso significato
complessivo, ma senza presumere che la parola possa avere lo stesso significato particolare. Questa
dottrina permette di ricorrere in modo più agevole a strumenti e termini espressivi, propri della filosofia
naturale o della metafisica per descrivere la perfezione divina.
L’angelogia
Nell’esposizione della Summa theologiae, Tommaso affronta il problema antropologico secondo l’ordine
proprio della teologia, partendo dal fatto che la creazione degli angeli ha preceduto quella degli uomini.
Dato che il fine ultimo della creazione è l’assimilazione delle creature al Creatore, questo fine deve
realizzarsi in tutte le sue attuazioni. Ma, poiché, l'intelligenza non è una funzione del corpo, devono esistere
entità in grado di redire a Dio per mezzo di un'intelligenza assolutamente spirituale, ossia gli angeli. Essi
sono pure sostanze spirituali, esenti da materia e corporeità, dotati di volontà ed intelletto, e la loro
determinazione è data dalla composizione di essenza ed esistenza, senza alcun mutamento accidentale. Ma
la materia come si è visto, è principio d’individuazione, dunque tali sostanze spirituali essendone prive, non
si distinguono in una molteplicità di individui come per gli uomini. Ciascuna sostanza angelica è come una
specie, la cui unione può derivare soltanto da Dio, se appaiono, come nei racconti biblici, in forme sensibili
e visibili, è solo perché gli uomini fanno intervenire la propria capacità immaginativa. Gli angeli sono la
miglior testimonianza della ordinata gerarchia divina, che fa sì che esistano tutte le possibili forme di
partecipazione alla sua perfezione.
L’antropologia
Anche l’uomo è dotato di una sostanza intellettiva e spirituale come sono gli angeli, ovvero l’anima, che
svolge alcune funzioni vitali astratte, come quelle legate alla conoscenza e al pensiero. Queste operazioni,
in quanto sono svolte con “intellectus” non dipendono dalla corporeità. Inoltre, dal momento che non è
corporeo l’oggetto di conoscenza, ossia l’universale, non deve essere corporeo nemmeno il soggetto che
compie l’atto di conoscere. L’anima è forma perché conosce come una sostanza intellettiva, dotata di
volontà ed intelletto, e la sua determinazione sostanziale è data dalla composizione di essenza ed esistenza.
Ma le anime umane non sono della medesima specie degli angeli, e ogni intellezione è diversa in ciascun
individuo umano (“hic homo intelligit”), dal momento che ogni anima entra in composizione con il proprio
corpo individuale.
Rifiuto dell’ilemorfismo universale
Tommaso, respinge la dottrina dell’ilemorfismo universale, secondo cui anche nell’anima c’è una qualche
materia spirituale. Tommaso, come Aristotele, considera l’anima la forma del corpo, essa è una forma
sussistente, ossia ha un essere autonomo dal corpo: tale carattere formale deriva dalla sua propria natura
intellettiva non dalla capacità di formare il corpo, che non è ragione del suo essere formale ma
conseguenza di questo. Tommaso ritiene che un composto non può avere più di una forma sostanziale,
quindi, anche le diverse facoltà dell’anima umana sono potenze di un’unica forma. La forma sostanziale
unica è l’anima intellettiva, la quale come già notato da Aristotele, assorbe in sé anche le funzioni inferiori e
più semplici (sensitiva e vegetativa). Senza questa unicità e complessità della forma l'uomo non sarebbe un
individuo, se venisse cioè considerato come corpo a sé stante a cui viene aggiunta in seguito l'anima.
Anima e corpo
L’uomo secondo Tommaso, è costituito di anima e di corpo, e anche quest’ultimo fa parte della sua
essenza; per questo aspetto riprende l’insegnamento aristotelico, differenziandosi dal platonismo che
identifica l’essenza dell’uomo con la sola anima. Dunque, anima e corpo non sono due sostanze
accidentalmente unite ed esistenti anche quando sono separate, ma sono i principi costitutivi dell’unitaria
sostanza individuale esistente in atto. Nella gerarchia degli esseri corporei, si verifica un prevalere della
forma sulla materia, in quanto la prima è formatrice della seconda in ciascun individuo. Tuttavia a
differenza delle altre forme, l’anima razionale ha la prerogativa di essere separabile dal corpo. Se è così,
allora essa non può venire all’esistenza allo stesso modo delle altre forme, ovvero prodotta e trasmessa dal
seme nell’atto della procreazione. Per venire all’essere in atto l’anima razionale richiede l’intervento di un
Agente causale superiore ai genitori, infatti è Dio stesso che crea l’anima dal nulla. Ciò non significa che Dio
crei l’anima fuori dall’embrione ed in seguito la immetta in esso, Dio crea l’anima direttamente nel ventre
materno e, in tal modo, risulta individuata dalla materia signata quantitate nella quale è creata.
La gnoseologia tomista
Secondo Tommaso, il processo della conoscenza umana può essere spiegato tenendo conto di questa
connessione tra anima e corpo. Proprio in quanto l’anima dell’uomo è legata a un corpo, la conoscenza
umana non può prescindere dai sensi e non può che partire dall’esperienza sensibile. Questa consente di
avere la percezione delle singole entità sensibili, ma non è ancora la conoscenza vera e propria, che ha per
oggetto le forme che sono di ordine universale. Per Tommaso l’uomo può arrivare a conoscere gli universali
soltanto partendo dalle cose individuali (l’oggetto di percezione), nelle quali essi si trovano potenzialmente.
Questa conoscenza è possibile mediante un’operazione intellettuale detta astrazione, la quale consiste nel
considerare le forme prescindendo la materia. La materia infatti è principio d’individuazione delle cose,
sicché se si prescinde da essa, rimane appunto solo la forma. Ma l’operazione astrattiva riguarda soltanto la
materia signata quantitate, altrimenti non si potrebbe distinguere un individuo umano da un altro, perché
uniti da una materia generica.
La confutazione dell’intelletto unico
A livello della conoscenza sensibile l’uomo si distingue dall’animale, per la capacità di elaborare
rappresentazioni provenienti dalle percezioni sensibili. Questo per mezzo dell’intelletto passivo che,
tuttavia, non possiede già in atto la conoscenza delle forme intelligibili, ma garantisce la possibilità di
conoscerle all’uomo. Ad un livello superiore, perché si passi all’atto e abbia luogo la conoscenza, occorre un
principio che sia già in atto, ovvero l’Intelletto agente, da cui dipendono le operazioni di astrazione delle
forme universali. Tommaso non identifica l’Intelletto agente con la teoria dell’illuminazione divina, ma
soprattutto si oppone alla tesi di Averroè che indica l’Intelletto agente come una sostanza separata unica
per tutti gli uomini. Infatti, secondo Tommaso, se così fosse non si potrebbe spiegare come sia possibile che
ogni singolo uomo pensi: se l’atto intellettivo fosse dovuto a un Intelletto agente unico e separato per tutta
la specie umana, non ci potrebbero essere due uomini distinti che compiono quell’atto. Inoltre qualora due
o più individui pensassero contemporaneamente la stessa cosa, essi verrebbero a coincidere in un unico
atto intellettivo; ma dall’esperienza stessa risulta che ciascun uomo pensa di per sé. Risulta quindi assurdo
ammettere un solo Intelletto agente per tutta la specie umana, in quanto, se così fosse dovrebbe esistere
un solo individuo uomo e non la moltitudine di esseri individuali umani. La conclusione di Tommaso è che
l’intelletto passivo e l’intelletto agente appartengono entrambi all’anima individuale umana. L’anima
intellettiva dell’uomo è forma sostanziale propria di ogni individuo e, pertanto, non è unica né separata,
dato che è ciò che rende “uomo” l’uomo, dunque, è moltiplicata e presente nei singoli individui.
L’immortalità dell’anima
l’immortalità individuale dell'anima è fondata sulla capacità, della forma intellettiva (ciò che fa essere la
sostanza “uomo”), di conoscere gli universali indipendentemente dalle rappresentazioni corporee. Inoltre
solo la materia, cioè il corpo, può corrompersi perché la forma può separarsi da essa; ma la forma, cioè
l’anima, non può separarsi da sé stessa e dunque non può corrompersi. Quando si separa dal corpo, l'anima
continua a conoscere, ormai rivolgendosi direttamente agli esemplari universali, cosa non possibile prima
per via del proprio legame con la corporeità. L’anima incorruttibile non perde la propria individualità con la
morte corporale, e conserva la sua natura di forma, ossia la capacità di dare vita, movimento e conoscenza
al corpo anche quando è separato da esso. L’anima da sola, però, non può costituire l’integralità della
persona umana, in quanto il fine delle creature è compiere la perfezione divina, ma tale perfezione
nell’uomo comprende l’unione di anima e corpo, dunque, la loro separazione risulta innaturale. Infatti
questa condizione non potrà essere definitiva, ma troverà un punto di arresto nella resurrezione dei corpi
nel quale ogni anima riprendere il proprio corpo, che verrà anch’esso coinvolto nella salvezza o nella
dannazione. L'antropologia di Tommaso raggiunge qui un livello elevatissimo di coniugazione di fede e
ragione, in cui la resurrezione dei corpi, apparentemente inaccettabile razionalmente, risulta un corollario
della dottrina aristotelica dell'anima.
La dimostrazione della creazione dal nulla
Nonostante la prova della resurrezione del corpo consolidi la certezza della convergenza di verità teologica
e razionale, l’accostamento dell’intelligenza alla fede non è privo di limiti. Il concetto limite è quello della
creazione, poiché, per quanto sia razionalmente dimostrabile che ogni ens, diverso da Dio, è creato da Dio,
la ragione non riconosce come evidente il fatto che il mondo abbia avuto un inizio. Nel De potentia Dei, a
dimostrazione della creazione dal nulla, Tommaso introduce anche l’argomentazione che, quando due o più
cose hanno qualcosa in comune, deve esserci una causa comune. Ma l’essere nella misura in cui è comune
a tutte le cose non può provenire da esse o dal loro rapporto, dal momento che ogni cosa in quanto è, è
separata dall’altra, dunque, l’essere deve provenire da una causa diversa, ovvero Dio. Inoltre, dire che tutte
le cose sono create dal nulla equivale a riconoscere la contingenza del mondo; risulta pertanto dimostrabile
per ragione e credibile per fede, che tutte le cose sono create da Dio.
La distanza infinità fra Creatore e creature
Tommaso si schiera contro ogni forma di panteismo in quanto, secondo lui, Dio non entra nella materia per
costituire le cose, ma le crea dal nulla, e ciò può essere dimostrato a partire dalle cose sensibili. Nell’ambito
della natura nessun agente nasce totalmente dal nulla, infatti ha bisogno di una materia già esistente su cui
operare per poter generare un altro essere vivente. Inoltre è determinato nel genere e nella specie e,
pertanto, può generare soltanto altri individui simili a lui. Solo un Agente totalmente ed esclusivamente in
atto può produrre dal nulla l’essere nella sua totalità, tale appunto è Dio, atto puro, da cui proviene
l’essere. Ma ciò non può avvenire per emanazione attraverso intermediari, come sostenuto dalla tradizione
neoplatonica-araba, infatti, la capacità creatrice essendo infinita non è comunicabile alle creature, che sono
dotate soltanto di capacità finite. Pertanto, esse non possono creare dal nulla neppure come intermediari
rispetto alla potenza infinita di Dio.
Ciò che deve essere accettato per fede
Nel De aeternitate mundi Tommaso, spiega che non è invece dimostrabile né che il mondo sia eterno, né
che esso abbia avuto inizio nel tempo. Contrariamente a Bonaventura, Tommaso, ritiene che la tesi
dell’eternità del mondo non sia in contrasto con quella della creazione dal nulla di tutte le cose. La nozione
di una “creazione eterna” non è di per sé contraddittoria, come non lo è il fatto che una cosa possa essere
“creata e al tempo stesso essere eterna”. In quanto la tesi dell’eternità del mondo si riferisce, secondo la
tradizione aristotelica, principalmente alla premessa che il moto è eterno, e non se ne può concepire
razionalmente l’inizio. Tuttavia, il racconto biblico della Genesi rivela che il mondo ha avuto inizio nel
tempo, ma se è impossibile formulare argomenti filosofici a favore o contro l’eternità del mondo, allora
sarà impossibile formularne anche sul fatto che il mondo abbiamo avuto un inizio nel tempo. Dunque, la
filosofia può arrogarsi il diritto di affermare verità nell’ambito di indagine che le è proprio, senza però poter
porre alcun veto ad affermazioni contrarie scaturite dalla fede. Per Tommaso è importante non insistere nel
cercare di dimostrare ciò che non può essere dimostrato e deve invece essere accettato per fede. Tuttavia
questo caso limite, anziché indebolire la sintesi tra ragione e fede, la rinforza, in quanto evidenzia le
distinzioni e l’autonomia di entrambe le discipline.
La Causa prima e le cause seconde
Nella creazione Dio comunica la sua bontà a una molteplicità di creature, Egli infatti crea esseri simili a sé in
quanto dotati della capacità di agire. Ciò significa che le cose create da Dio, come gli enti naturali, hanno la
capacità di agire, in maniera meno perfetta, come cause. Dio non interviene direttamente in tutte le
operazioni e i processi naturali, poiché se intervenisse in ogni evento naturale ne annullerebbe ogni
causalità intrinseca e, pertanto, anche la loro dignità ontologica. Tommaso, invece, riconosce che
nell’ambito della natura, operano liberamente le cosiddette cause seconde, le quali possono essere
studiate dalla fisica, attraverso l’osservazione degli effetti che regolarmente producono. Ciò non vuol dire
che la natura sia un dominio totalmente indipendente da Dio, perché è Dio che ha conferito agli enti
naturali la capacità di operare come agenti causali. Dunque, quando si afferma che Dio opera in tutta la
natura, ciò non significa che solo Lui agisce e la natura non agisce, bensì soltanto che Dio è il principio o
causa prima da cui dipendono tutte le attività.
La struttura della Summa theologiae
La Summa theologiae occupa gli ultimi sette anni della vita di Tommaso, è un’esposizione completa della
teologia, con uno stile rigoroso, segue una metodologia conforme a quella della disputatio, quaestio,
obiectiones e responsio; l’opera si snoda in tre parti:
1. prima pars (periodo romano): tratta di Dio, della sua natura, della Trinità, della creazione e della
natura creaturale.
2. secunda pars (periodo parigino): tratta del relazionarsi delle creature razionali a Dio, e quindi della
beatitudine e dei mezzi per raggiungerla.
3. tertia pars (periodo napoletano): tratta della redenzione e della grazia.
Quest’ultima parte rimane incompiuta al sacramento della penitenza, ma verrà completata da discepoli e
amici con il Supplementum, in cui viene terminato l’intero progetto con l’escatologia e la resurrezione
finale.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio
Che Dio esista non è una cosa evidente di per sé infatti ci sono uomini, come l’insipiente biblico già
ricordato da Anselmo, i quali dicono in cuor loro che Dio non esiste. Se l’esistenza di Dio fosse un atto
evidente, non sarebbe necessario dimostrarlo, ma evidenti sono solo i principi assiomatici. Inoltre gli
uomini non possono avere una percezione diretta di Dio, né una nozione di Dio tale da far scaturire
necessariamente il fatto che Egli esista o non esista. Tommaso non ammette la validità della prova
ontologica di Anselmo, in quanto solo chi ha fede nella Rivelazione può accettare che Dio è “ciò di cui non si
può pensare nulla di maggiore”. Per dimostrare l’esistenza di Dio l’uomo deve partire da ciò che è più vicino
a lui, ossia dalle cose sensibili, di cui ha conoscenza diretta mediante i sensi. Solo assumendo come punto di
partenza ciò che è primo per l’uomo è possibile arrivare a conoscere ciò che è primo per sé, cioè Dio. Tale
dimostrazione deve essere a posteriori e rientra nei preambula fidei, pertanto, secondo Tommaso, "che Dio
esista si può provare per cinque vie"
La prima via
Via cosmologica o del movimento, di origine aristotelica, fondata sulla nozione che il movimento consiste in
un passaggio dalla potenza all’atto. Il suo presupposto è che una cosa non può essere simultaneamente in
potenza e in atto, per cui tutto ciò che si muove, richiede che ci sia qualcosa in atto come causa del suo
movimento, ossia un motore. Quindi tutto ciò che si muove deve essere mosso da un motore in atto e
questo a sua volta, da un altro motore in atto ancora e così via. Ma non è possibile andare indietro nella
ricerca dei motori all’infinito, occorre invece ammettere l’esistenza di un primo motore che muove senza
essere mosso. Infatti se non ci fosse un motore immobile non ci potrebbe essere neanche il movimento, in
quanto mancherebbe la prima causa motrice. Ma noi vediamo che di fatto le cose si muovono nella realtà
sensibile, dunque è necessario ammettere l’esistenza di un primo motore immobile, cioè Dio.
La seconda via
Via causale, di origine aristotelica, fondata sulla nozione di causa efficiente. Nell’esperienza non è possibile
percepire oggetti in grado di generarsi e prodursi da sé stessi, ma è possibile constatare solo effetti prodotti
da cause, le quali sono sempre antecedenti agli effetti. Anche in questo caso non è possibile andare
all’infinito nella ricerca di cause antecedenti: occorre dunque ammettere l’esistenza di una causa prima,
detta Dio. Dio è causa prima non causata, nel senso che non dipende a sua volta da una causa che lo
produca. Dunque rispetto a Dio, causa prima non causata, tutto il resto si configura come effetto, ma è
appunto dagli effetti che l’uomo può risalire alle loro cause, per dimostrarne l’esistenza. Tuttavia data la
sproporzione fra la perfezione della causa prima e dei suoi effetti, non è possibile avere una conoscenza
adeguata dell’essenza di Dio.
La terza via
Via contingente o del possibile e del necessario, formulata da Avicenna, fondata sulla contingenza del
mondo. Le cose dell’universo sono caratterizzate dal fatto di generarsi e corrompersi, cioè di essere
contingenti ovvero di poter essere e non essere. Ma se tutto fosse contingente, dovrebbe necessariamente
esserci stato un tempo passato in cui nulla sarebbe potuto esistere, ma così non si potrebbe spiegare come
nel tempo presente esista qualcosa, dal momento che nulla viene ad essere se non in virtù di qualcosa che
già esiste. Deve dunque esistere un Essere necessario, che ha in sé e non in altro la ragione della sua
esistenza, tale Essere è necessario per sé e in sé, e da lui dipendono tutti gli altri esseri, ovvero Dio.
La quarta via
Via dei gradi, di origine platonica e ripresa anche da Anselmo, fondata sulla considerazione del grado di
perfezione degli enti. In tutte le cose ci sono gradi perfezione, ma il più o il meno si dicono sempre in
relazione, all’avvicinarsi o all’allontanarsi, rispetto a qualcosa che è parametro di massima perfezione:
ovvero la perfezione assoluta. Non è quindi possibile che esista una serie di enti che partecipano in vario
grado della perfezione, senza che esista ciò di cui essi partecipano. Dunque, è necessario ammettere
l’esistenza di un Ente che è al massimo grado perfetto per ogni categoria, ovvero Dio, causa dell’essere e di
qualsiasi perfezione degli altri enti.
La quinta via
Via finalistica: di origine aristotelica, fondata sulla considerazione dell’ordine finalistico dell’universo.
Nell’universo noi scorgiamo corpi privi di intelligenza, i quali sempre o per lo più sono orientati verso un
fine ed operano in vista di esso, che è la realizzazione massima della loro natura. Questo orientamento non
può essere dovuto ai corpi naturali, che sono privi di intelligenza, ma deve essere necessariamente guidato
da un Intelligenza distinta da essi, che ordina ogni cosa al suo fine, cioè Dio.
La via remotionis e la via analogia
Dunque, il primum principium a cui si riconduce tutta la causalità universale è Dio, che è potenza assoluta,
motrice, ordinatrice e governatrice. Questo è il massimo grado di consapevolezza a cui giunge, da sola, la
ragione dei filosofi, ma non è ancora la conoscenza di ciò che Dio è. Per avvicinarsi alla natura di Dio, è
necessario procedere per via remotionis e per analogia giungendo, dunque, a stabilire che:
• Dio è privo di ogni composizione, sommamente semplice e sommamente buono.
• Dio è infinito ed esiste in tutte le cose, non come parte di esse bensì come causa del loro essere.
• Dio è immutabile ed eterno, in quanto è ovunque e sempre.
• Dio è uno, in quanto realizza in atto puro la sua perfetta natura.
La razionalità, dunque, deve affidare ogni conoscenza teologica al discorso analogico, perché nel momento
in cui coglie le perfezioni di Dio le conosce come “invisibilia”. Infatti, nessun concetto formabile a partire da
ciò che è visibile può essere esaustivo di ciò che non è visibile.
L’onnipotenza divina
Tutto rientra nell’ordine della provvidenza e onnipotenza divina, inoltre, Dio avrebbe anche potuto creare
un mondo diverso da quello effettivamente creato. L’unica impossibilità per Dio e ciò che è contradditorio:
 Dio non può volere un quadrato rotondo, altrimenti si contraddirebbe.
 Dio non può peccare, altrimenti muterebbe sostanza.
 Dio non può annullare ciò che è stato compiuto, altrimenti non ci sarebbe libertà.
La teologia dell’Esodo
Tommaso giunge a definire Dio, riprendendo le parole bibliche rivolte a Mosè, come “Io sono Colui che
sono” (“Ego sum qui sum”) ovvero l’essere sussistente di per sé. Questa formulazione afferma a un tempo
l’essere divino e la sua assoluta semplicità, un essere privo di determinazioni in quanto assolutamente
esistente, dunque privo di tutti gli ordini di qualificazione dell’essere, necessario in quanto assoluto est.
Questo è l’unico nome che si possa attribuire a Dio in quanto significante di ciò che Dio è, per tre ragioni:
1. universale, poiché tutto ciò che è in Dio è in questo nome, al contrario, tutti gli altri nomi
introdurrebbero forme e determinazioni in Dio.
2. comune, poiché tra questo nome e Dio non c’è alcuna differenza, in quanto significa l’essere stesso.
3. con-significa ogni cosa, ossia è l’unico nome possibile per ciò che esprime secondariamente nel suo
significato, ossia l’essere nel presente.
La prescienza divina
Nella seconda parte della Summa theologiae, Tommaso affronta i problemi legati all’etica che ha il suo
fondamento teologico nella nozione, rivelata nella Scrittura, che l’uomo è fatto a immagine di Dio. In
quanto tale l’uomo è un essere razionale dotato di libero arbitrio e, quindi, responsabile delle proprie
azioni; la provvidenza divina non comporta un annullamento della libertà umana. Dio ha prescienza dei
futuri contingenti, ha conoscenza, certa e infallibile, delle azioni future degli uomini in una sorta di eterno
presente. Egli vede simultaneamente in atto le azioni che, invece, per gli uomini risultano imprevedibili
poiché possibili e future. Ciò non significa che Dio predetermini e costringa l’agire degli uomini come una
forza esterna, infatti, nel disegno divino rientra il fatto che l’uomo agisca liberamente, secondo la propria
volontà.
La concezione del male
Tommaso descrive la volontà come: un appetito o desiderio, che coinvolge un ragionamento pratico
concernente i mezzi per conseguire un certo fine. Qui si innesta il libero arbitrio che porta a un atto di scelta
tendente a qualcosa che è buono o meno buono, ed è a causa di ciò che esiste il male nel mondo. Tommaso
condivide la concezione agostiniana del male come mancanza di bene, infatti tutto ciò che è, in quanto è, è
bene e bello. Ma tra le cose esistenti sussiste una gerarchia di perfezioni, sicché le cose inferiori appaiono
deficienti rispetto alle superiori. Inoltre, le cose producono piacere nell’essere contemplate e, perciò,
testimoniano che esse sono opera di Dio.
Il male può assumere due aspetti:
1. pena, il male sofferto, consiste nella mancanza o deficienza di una forma o parte di una cosa, che
risulta quindi priva della sua integrità; come la cecità rispetto alla vista.
2. colpa, il male peggiore, consiste in una deficienza riguardante l’azione omessa o compiuta non nel
modo dovuto; in ciò si configura anche la nozione di peccato, con cui si sceglie deliberatamente il
male.

Il concetto di grazia
Gli uomini sono liberi non in quanto indipendenti da Dio, ma in quanto Dio li crea liberi, cioè tali da non
dover dipendere necessariamente sempre dall’azione delle altre cose create. In Dio conoscere e anche
volere, oggetto della sua volontà è necessariamente sé stesso, che è il bene e causa di tutto ciò che è bene
(bonum est diffusivum sui). Egli vuole quindi il bene delle sue creature e le ama, ma al tempo stesso è
giusto, nel senso che rispetta il bene delle creature e assegna ad esse ciò che spetta a loro. In questo senso
la pena è lo strumento di cui la provvidenza divina si serve per eliminare o correggere una colpa. Ma la
giustizia di Dio è compatibile con la sua misericordia, perché il bene delle creature non è qualcosa di dovuto
ad esse, ma un dono di Dio. In questo senso dipende da Lui la scelta a chi elargire la grazia, e, quindi, se
alcuni acquisiscono beatitudine e vita eterna e altri no.
Le virtù
L’uomo è caratterizzato da un habitus naturale, ossia una disposizione a cogliere immediatamente principi
morali generali, per esempio “che il bene deve essere fatto e il male evitato”. Di qui si formano le virtù, che
sono disposizioni costanti consolidate da una scelta ripetuta. Tommaso indica due tipologie di virtù sulla
linea aristotelica, la prima assimilabile alle morali:
1. virtù cardinali (fondamentali): la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
2. virtù teologali (infuse da Dio): la fede, la speranza e la carità.
I pagani hanno potuto acquisire solo le virtù cardinali, ma esse da sole non sono in grado di condurre alla
beatitudine eterna, che consiste nella visione diretta di Dio. L’uomo infatti non può giungere ad essa con le
sue solo forze naturali, per tale scopo sono necessarie anche le virtù teologali.
La contemplazione di Dio
Ogni azione è orientata verso un fine che può essere, a sua volta, mezzo per un altro fine, ma non ci
possono essere fini all’infinito, altrimenti ci sarebbe un’insoddisfazione inestinguibile. Occorre dunque che
ci sia un fine ultimo, che per l’uomo consiste nella felicità perpetua, perciò essa si può solo realizzare nella
contemplazione di Dio. Anche la filosofia indica il fine supremo dell’uomo nella contemplazione, ma non
precisa che si tratta della contemplazione di Dio. Solo la Rivelazione mostra che in Dio poggia la vera felicità
umana, perché solo possedere il Sommo Bene per l’eternità può realizzare tale desiderio. Per i francescani
la vera felicità e nell’amore che è una facoltà della volontà, per Tommaso invece, l’amore è frutto della
conoscenza “se non vuol essere cieco”. Questa visione beatifica di Dio si configura come un atto
intellettuale, per questo Tommaso, accetta la tesi della superiorità della vita contemplativa. A suo avviso,
però, in questa vita è realizzabile soltanto un certo grado di felicità, in quanto la sua pienezza è
raggiungibile solo nella vita eterna, ma in tal caso si configura come un dono che dipende totalmente da
Dio. La forma più alta di vita religiosa è propria di chi dona i frutti della sua contemplazione attraverso la
predicazione, l’insegnamento e l’ascolto delle confessioni. L’ordine dei domenicani, che con la predicazione
mira alla salvezza delle anime, raggiunge, dunque, una perfezione simile a quella dei vescovi.
La politica
Nel De regimine principum Tommaso, diversamente da Agostino, non pensa che lo stato sia una condizione
necessaria per tenere a freno l’uomo dopo la caduta nel peccato. Per Tommaso il peccato originale non ha
corrotto completamente la natura umana a stato di “massa dannata”, egli condivide, piuttosto, con
Aristotele la tesi che l’uomo è un animale politico. Alla società politica (civitas) spetta il compito di ordinare
le leggi, ovvero prescrizioni generali che hanno come fine il bene comune, non puramente privato del
singolo individuo (la pace, e le condizioni per vivere bene). La politica è scienza, concernente gli strumenti
necessari, per realizzare il bene comune nell’ambito delle cose umane, su questo piano l’uomo non può
raggiungere da solo il proprio bene. La forma di governo che meglio consente di raggiungere tale obbiettivo
è la monarchia, il governo di uno solo che è in grado di garantire al meglio l’ordine e l’unità dello Stato:
forma che più assomiglia al governo divino del mondo.
La legge naturale
Ogni creatura è naturalmente incline al suo bene naturale, in primo luogo alla autoconservazione e agli atti
insegnati dalla natura stessa, propri anche degli altri animali. Nel caso dell’uomo, dotato di anima razionale,
la legge naturale consiste anche al vivere in società e alla conoscenza della verità. Una legge umana che non
si conformi alla legge naturale non è per Tommaso una vera e propria legge, e pertanto, non può
legittimamente pretendere obbedienza. Ma la legge naturale che esiste negli uomini non è altro che una
partecipazione alla legge eterna, la quale coincide con l’ordine dell’universo stabilito e realizzato da Dio. Il
fondamento della legge eterna è la ragione divina (Logos) che governa tutte le cose, negarne l’esistenza
equivarrebbe a negare l’esistenza della provvidenza.
La legge soprannaturale
Tommaso distingue ancora la legge divina, la quale è necessaria per indirizzare l’uomo al suo fine
soprannaturale, cioè alla beatitudine eterna. Mentre la legge naturale e la legge eterna possono essere
conosciute dalla ragione umana, la legge divina può essere conosciuta soltanto grazie alla Rivelazione. Solo
la legge divina consente all’uomo di uscire dalla sfera fluttuante e, talvolta, contradditoria delle sue
valutazioni, fornendo così una guida sicura ed esente da errori, per orientarlo verso il suo fine
soprannaturale. Inoltre, le leggi umane possono punire solo le azioni esterne, non sono in grado di scrutare
le intenzioni che non si traducono in azione, Dio può invece premiare o punire anche in base alle intenzioni
poiché “vede nel segreto”. La legge divina supplisce e perfeziona quella umana, che risulta essere
imperfetta, in quanto lo Stato non è in grado di orientare verso il superiore fine soprannaturale. Questo
compito spetta alla Chiesa, fondata da Dio stesso, di conseguenza il potere temporale deve subordinarsi a
quello spirituale.
La teologia come scientia
L’ultima fondamentale domanda che si pone Tommaso riguarda la teologia in quanto scientia: è possibile
una scienza del credibile? E in quale misura è veramente possibile definire la teologia come una scienza?
Tommaso, trattando tale questione, riflette così sulla possibilità di incorporare la teologia all’interno della
concezione aristotelica delle scienze. I fondamenti epistemologici di tale quaestio sono tracciati nel suo
commento agli Analitici posteriori:
1. il conoscere scientifico comprende solo la comprensione di verità universali.
2. tali verità sono sempre espresse da proposizioni dimostrate, ossia ottenute come conclusioni di
sillogismi apodittici, la cui validità è tratta dalle premesse.
3. le premesse devono, a loro volta, essere proposizioni dimostrate e valide.
4. per evitare il regresso all’infinito, è necessario ammettere come principio delle dimostrazioni alcuni
fondamenti evidenti, e dunque universalmente noti e indimostrabili, ossia i principi primi,
proposizioni per sé note.
5. la verità di tali proposizioni è assicurata dal fatto che in esse il predicato è contenuto nella definizione
del soggetto, sono proposizioni essenziali che si riferiscono in modo certo alla struttura della realtà.
L’epistemologia incerta
Tuttavia, questo ideale di scienza aristotelica non è però realizzabile in tutti gli ambiti disciplinari, infatti, a
parte la logica e la matematica, in tutte le altre scienze è necessaria l’introduzione di dati provenienti
dall’esperienza (discipline subalterne), oggetto di una conoscenza fattuale. Questa situazione impone, così,
una deroga al rigore dei criteri epistemologici di base, che è inevitabile per tutte le forme di conoscenza che
hanno a che fare con il mondo della contingenza. Proprio dall’alterarsi del quadro epistemologico di base,
secondo Tommaso, è possibile definire la teologia come scienza.
La sacra doctrina
Il De sacra doctrina assume così l’aspetto di un discorso sul metodo teologico, in cui è essenziale definire il
concetto, il contenuto e l’estensione di tale scienza, che Tommaso chiama sacra doctrina o sacra scriptura.
Egli intende, dunque, un ambito di conoscenze che include tutte le possibili forme di insegnamento
cristiano, strettamente dipendenti dalla Rivelazione. La prima condizione per essere una scienza è che la
sacra doctrina deve derivare da principi di per sé noti, spetta agli articoli di fede la funzione di principi primi.
Infatti, la fides svolge in questo ambito conoscitivo la stessa funzione che nelle altre scienze svolge
l’intelletto, in quanto è produttiva di proposizioni di per sé note. Ma l’evidenza di tali proposizioni non è
intrinseca ma estrinseca, poiché indotta dal lume divino infuso nella mente per opera della grazia.
Teoria della subalternazione
In logica si chiamano “subalterne” quelle proposizioni che traggono la loro veridicità da proposizioni a esse
superiori. Tommaso spiega che, allo stesso modo, ci sono delle scienze che traggono la loro veridicità da
principi noti per la luce dell’intelletto naturale e altre che procedono da principi resi noti dalla luce di una
scienza superiore, nei confronti della quale esse sono “subalterne” (ex. L’ottica deriva dai principi della
geometria e la musica da quelli della matematica). La sacra doctrina è scienza in questo secondo modo,
ossia procede per principi resi noti da una scienza superiore, alla quale è subalternata; questa scienza, però,
non è umana ma è la scienza di Dio e dei beati, che viene trasmessa agli uomini attraverso la Rivelazione.
Dunque, così come il musico “crede” ai principi trasmessi dalla matematica senza doverli continuamente
verificare, il teologo “crede” ai principi a lui rivelati da Dio. Il fatto che la teologia sia fondata su una
conoscenza che derivi da una fonte esterna non sminuisce la sua scientificità.
Il metodo artificialis
Questa metodologia della scienza teologica ammette, quindi, dei procedimenti che le sono peculiari
(metaforico, simbolico, narrativo, …) e dà ragione delle molteplici stratificazioni dei sensi scritturali. Inoltre,
l’utilizzazione di un metodo particolare dà ragione anche del fatto che la sacra doctrina, pur trattando verità
che sembrano essere singolari, le quali contraddirebbero l’universalità del sapere scientifico, possa essere
definita come scienza. Infatti, in quanto subordinata alla scienza divina, la teologia accoglie al suo interno i
dati singolari non in quanto tali, ossia come accadimenti relativi, ma come dati esemplari: un avvenimento
eccezionale e unico come un miracolo non è universale in un senso fisico-attuale, ma in un senso
esemplare, come universali sono gli esempi nelle discipline morali.
Scienza pratica e speculativa
La sacra doctrina è una scienza pratica, in quanto incide sull’orientamento etico degli uomini per farli
partecipare dei frutti della redenzione, ma allo stesso tempo è anche una scienza speculativa, in quanto è
interessata alle realtà divine, nella misura in cui esse sono rese conoscibili dall’illuminazione divina. Questa
duplicità non compromette, però, la sua natura unitaria: la teologia fa rispettare Dio e le sue leggi proprio
partendo dalla scienza che Dio ha di sé stesso. Inoltre, l’unità è anche assicurata dal fatto che è la sola che
sia fondata sulla Rivelazione e che abbia come oggetto tutto ciò che è fondato su di essa.
Teologia sacra e teologia filosofica
A questo proposito, è necessario evidenziare la distinzione naturale tra teologia sacra e filosofica; ambedue
hanno per oggetto Dio, ma non secondo la stessa ratio formalis, poiché la teologia filosofica non parte dai
presupposti della fede. Per tale confronto, bisogna distinguere tra:
• subiectum: ogni scienza è sempre scienza di qualcosa, e questo qualcosa è il subiectum.
• obiectum: ciò che è effettivamente conseguibile nel corso della ricerca.
Teologia sacra e teologia filosofica hanno il medesimo subiectum, ma si differenziano per la ratio formalis
del rispettivo obiectum: i risultati ottenuti dall’una e dall’altra disciplina nell’avvicinarsi al subiectum
variano in riferimento alla distinzione metodologica che le caratterizza, in quanto l’una è fondata sulla
Rivelazione mentre l’altra no. In generale, il subiectum della sacra doctrina è in tutto e per tutto Dio,
dunque, il suo intero studio si concretizza in progressive acquisizioni conoscitive che corrispondo
all’obiectum della teologia, e che sono strumentali alla verità del subiectum, che è di per sé un soggetto
infinito e inesauribile.
Il mistero dell’eucaristia
Necessario è, inoltre, accettare possibili alterazioni delle leggi naturali descritte dalle scienze razionali, per
spiegare cosa accada in caso di evento miracoloso o ammettere una diversa applicazione di queste leggi per
trovare la verità nel dato rivelato. Questo è ciò che accade nella spiegazione che Tommaso dà della
transustanziazione: mentre in ogni forma di alterazione naturale cambiano gli accidenti ma la sostanza non
muta, nel sacramento eucaristico avviene un effettivo mutamento delle sostanze del pane e del vino in
quelle del corpo e del sangue con il permanere, però, degli accidenti visibili di queste sostanze trasformate.
In conclusione, la teologia trae dalla collaborazione con le scienze umane gli strumenti e l’attuazione dei
criteri epistemologici che convalidano la sua aspirazione a essere scienza, ma allo stesso tempo la filosofia
vede riconosciuta la sua più alta autonomia nella definizione dei limiti e dei diritti del suo ambito di
indagine. Tuttavia, la filosofia deve ammettere l’impossibilità di fissare in modo definitivo la realtà
superiore, che è conoscibile nella misura in cui è possibile all’intelligenza umana.

Enrico di Gand XII secolo, maestro di teologia a Parigi dopo la condanna del 1277.
Rifondazione dell’epistemologia cristiana
Dopo esser divenuto maestro reggente alla Facoltà teologica di Parigi dal 1277, Enrico è autore di numerosi
scritti volti a fondare la scientificità del sapere teologico sulla basa di un ordine epistemologico distinto da
quello aristotelico. In linea con ciò che veniva sostenuto dai maestri secolari del tempo (seconda metà del
XIII secolo). Questa posizione risulta contrapposta ad entrambi gli Ordini dei Mendicanti: da un lato ai
domenicani, con Tommaso e la sua concezione di scienza teologica in quanto tale perché subordinata ad un
principio superiore; dall'altro ai francescani, con la loro idea di teologia come sapientia superiore alla
scienza naturale. La mancanza di una concordia teologica, ossia l’accentuarsi di conflitti ideologici e
dottrinari, è causa della paralisi dell’attività universitaria.
I fondamenti teologici
Enrico spiega, che la posizione di Tommaso comporta un ingiustificato condizionamento delle possibilità
conoscitive, che sono assicurate dalla Rivelazione, a schemi mentali estranei alla teologia. Le deduzioni
teologiche non hanno bisogno, sostiene Enrico, di fondatezza argomentativa, in quanto, confrontare i dati
teologici con quelli delle scienze naturali porterebbe all'errore. I postulati di fede, infatti, appartengono ad
un sistema di pensiero che trova in sé stesso la propria giustificazione, in quanto è il pensiero con cui Dio
conosce sé stesso e che ha comunicato all’uomo per farsi conoscere.
La teologia come regina disciplinorum
Dio dunque è sì l'oggetto della scienza teologica, ma è anche il soggetto, perché fa sapere e sa ciò che deve
essere saputo su sé stesso. La teologia torna regina disciplinorum, ossia la regola su cui si basa la veridicità
delle altre discipline, orientandole e determinandole, come regola superiore della loro veridicità. Tuttavia,
la teologia è una scienza che per diventare metafisica necessita di una traduzione, ossia di uno slittamento
di punto di vista. Il problema fondamentale di Enrico di Gand diventa, allora, sostanzialmente quello di
riuscire a portare la teologia al livello degli uomini, ossia di condurre, mediante la Rivelazione, la
conoscenza che Dio ha di sé e della verità a essere praticabile e praticata da parte dell’intelligenza umana.
La composizione intenzionale dell’essere
Nella nona quaestio del Quodlibet, Enrico, affronta la tematica dell’essere e di quale sia la sua conoscibilità,
modificando la distinzione tomista tra essenza ed esistenza. Enrico critica Tommaso per la possibilità di
intendere i due concetti come due res separate: una necessaria in sé, ossia l’essenza, e l’altra possibile o
derivata dall’essenza, ossia l’esistenza. Ma questo porta ad un necessitarismo deterministico che limita la
libertà divina e umilia le creature, che dovrebbero avere piena dignità ontologica in quanto esito singolare e
irripetibile dell’onnipotenza divina.
La distinzione dell’essere
La composizione dell’essere va dunque intesa non come la differenziazione di qualcosa che è in modo
autentico e di qualcosa che è soltanto in modo derivato e secondario, ma come la distinzione di due
maniere entrambe autentiche di essere: l'essere in sé, Dio, e l'essere come Dio ritiene che sia giusto che sia,
il creato. All’essere di Dio la mente umana giunge con la più immediata considerazione: Dio è l'essere che è
per il solo fatto di essere (aliquid quod est ipsum esse), mentre le creature sono perché l'essere viene loro
attribuito (aliquid cui convenit esse). In Enrico di Gand, diversamente da tutta la tradizione, l'essere non è
univoco, bensì ha due modi altrettanto validi di essere inteso, in quanto nelle creature l’essere si realizza
come frutto di un processo creativo: un esistere che può compiersi in molti modi.
La distinzione intenzionale
In conclusione, la distinzione tra essenza ed esistenza nelle creature non è la distinzione di due res: ogni
atto creativo della volontà divina produce una e una sola res, che esiste in modo autonomo, irripetibile e
distinto, ossia la fa essere un suppositum, una realtà che si distingue da tutto il resto. Dunque, la distinzione
tra essenza ed esistenza è soltanto un’operazione di ordine conoscitivo, ossia una distinzione intenzionale.
L’intelletto separa, in teoria ma non in concreto, l’unità della cosa reale in due intentiones: ossia due
percezioni dirette del contenuto essenziale della res. Anche nella mente divina essenza ed esistenza
vengono concepite come due intentiones distinte: il Creatore prima pensa l’essenza, poi porta ad atto
l’esistenza con la propria onnipotente volontà creatrice.
La dottrina gnoseologica
Per conoscere la verità delle cose create, l’intelletto umano deve poter cogliere direttamente la
corrispondenza della loro essenza con le idee divine, da cui esse derivano. Ma affinché l'uomo possa
conoscerle risulta necessario un intervento divino, Enrico di Gand, dunque, giustifica filosoficamente la
dottrina dell'illuminazione. Essa non è, come ritengono i francescani, una funzione regolativa del pensiero
umano, ma un orientamento aprioristico della conoscenza e dell'agire umani, consentito da una mistica
congiunzione dell’anima con il Verbo. Enrico le dà il nome di illustratio specialis e la pone a fondamento di
un assoluto realismo conoscitivo, in cui interiormente si verifica sempre, grazie all'intervento divino, la
convergenza di nozione: sensibile e intellegibile della cosa. Ogni scienza è tale nella misura in cui nel suo
specifico ambito di indagine è assicurata dall’illustratio specialis.
La superiorità della teologia
La dottrina dell’illuminazione permette, a Enrico, di sostenere la scientificità e la superiorità normativa della
teologia rispetto alle altre scienze. Posta l’illuminazione, infatti, i criteri epistemologici aristotelici risultano
adeguati limitatamente alle scienze naturali, che sono nettamente inferiori rispetto alla teologia. La scienza
cristiana è aperta ad un’illuminazione superiore, che mette in contatto l’intelligenza con la realtà
soprannaturale. Dunque, il subiectum della teologia, ossia Dio, non può in alcun modo essere indagato con
gli strumenti della scientificità naturale. Tutto il sapere dipende dalla fede nella Rivelazione, con la quale
Dio ha comunicato all’uomo ciò che conosce e ciò assicura una perfezione epistemologica assoluta: il dato
acquisibile a posteriori (scritturale) e quello acquisibile a priori (la nozione che Dio ha di sé stesso)
coincidono con certezza, perché è Dio stesso a fornirci il primo.
La teologia simpliciter speculativa
Dunque, data la sua assoluta superiorità, la teologia è capace di valere come regola di tutte le inferiori
acquisizioni di conoscenza scientifica, dal momento che la sua verità è talmente sicura da estendersi a tutti
gli oggetti conoscibili. Addirittura la teologia è superiore alla fede stessa, in quanto arricchisce l’acquisizione
del credere con un intelligere che deriva dall’illustratio specialis, ossia rende intelligibilia i credibilia della
fede (come vuole Bonaventura). Se la teologia dà veridicità alle scienze inferiori, queste con la fede
preparano la mente umana ad accogliere i gradi superiori della scienza teologica. Per Enrico, la teologia è
una scienza assolutamente veridica, che predispone l’uomo a partecipare della verità divina, di per sé
ineffabile. Soltanto la teologia, dunque, può realizzare la perfezione gnoseologica che la rende simpliciter
speculativa, ossia speculativa in modo assoluto e perfetto come voleva Aristotele.

Egidio Romano XIII-XIV secolo, generale dell’ordine eremitano di Sant’Agostino e arcivescovo di Bourges.
La ripresa di Agostino
Egidio, si propone di fondare un sapere autenticamente agostiniano reso solido dalla ragione speculativa
filosofica, che Tommaso ha contribuito a rendere compatibile con la fede. Agostino va, dunque, confrontato
con le nuove prospettive filosofiche con le quali non aveva potuto confrontarsi. Si tratta di rivalutare
l'esasperato aristotelismo averroista, confrontandolo con l'esemplarismo platonizzante, che sta alla base
della filosofia di Agostino. In questo quadro, Egidio, propone un radicale ontologismo della distinzione,
tomista, tra essenza ed esistenza.
Essenza ed esistenza come due res
Per Egidio, essenza ed esistenza sono effettivamente due vere e proprie res, due elementi metafisicamente
differenti da cui ogni creatura è composta. La loro unione non produce una effettiva unità, ma una
congiunzione per accidens delle due res. Dunque, l’atto creativo divino che è azione immediata e uniforme,
coincide con la connessione delle esistenze alle essenze. Ma ridurre le essenze agli esemplari eterni e le
esistenze agli effetti che ne partecipano sarebbe banalizzante. La composizione di essenza ed esistenza è,
inoltre, un connotato della realtà di ciascuna natura e questo vieta di considerare l’essenza come qualcosa
di autosufficiente e, dunque, di necessario ed eterno.
La gnoseologia
Per Egidio, la conoscenza vera è il giudizio sulla composizione reale di essenza ed esistenza in ogni essere.
Tuttavia, l'uomo non può conoscere questa composizione, ma soltanto rappresentarne diversi gradi di
manifestazione, in quanto solo Dio può conoscere pienamente l'esistenza dell'essenza. Nell’uomo, il cui
conoscere muove sempre dall’esperienza del singolare per passare all’astrazione dell’universale, la
percezione dell’effettivo esistere dell’essenza è possibile soltanto attraverso la mediazione del senso
corporeo. Dunque, è impossibile, per il pensiero umano, cogliere la composizione effettiva di essenza ed
esistenza in una determinata res, ma soltanto rappresentare di essa diversi gradi di manifestazione.
La concezione dell’anima
Egidio si discosta dalla dottrina aristotelica dell'anima per avvicinarsi a quella platonico-agostiniana. L'anima
si articola in molteplici facoltà, ed è la forma del corpo perché ne porta ad attuazione le molteplici
potenzialità. L'anima è composta da tre facoltà dominanti: anima vegetativa, anima sensitiva (che
comprende senso comune, immaginazione, fantasia, memoria, ecc.) e anima intellettiva (che comprende
intelletto attivo e passivo). Ciascuna facoltà è in grado di esprimere un giudizio peculiare sulla composizione
reale dell’essere, la cui veridicità è comunque relativa, legata all’ambito specifico in cui viene espresso.
Dunque, la conoscenza è l’esito del riflettersi nell’anima dei diversi modi di essere della res. Ogni atto
conoscitivo ha a che fare con la medesima realtà, ma coglie in essa diversi modi di presenzialità dell’essenza
nell’esistenza. Non vi è, contro Tommaso, un punto d'arrivo in cui si conosca attualmente la res, né vi è,
contro Enrico, un presupposto aprioristico proveniente dall'alto. Semplicemente, rifiutando l'illuminazione
e riconducendo la conoscenza all'intelletto attivo, Egidio recupera la vera gnoseologia agostiniana. La sua
gnoseologia è fondata sulla moltiplicazione e la distinzione delle facoltà conoscitive. Dunque, il medesimo
oggetto appare con forme diverse alle varie facoltà conoscitive e appare in tutta la sua realtà soltanto nella
pura contemplazione dell’intelletto divino.
I limiti delle scienze
Come ogni atto conoscitivo, allora anche ogni scienza ha una sua maniera speciale di rappresentare il
relativo oggetto. Se sia la metafisica che la teologia si occupano di Dio, allora, entrambe non possono
aspirare a una perfetta considerazione dell’attualità divina in quanto ogni conoscenza è sempre
riconduzione della verità dell’oggetto alla misura delle capacità di accoglierle proprie del soggetto.
L’inconoscibilità di Dio
Come ogni atto conoscitivo, allora anche ogni scienza ha una sua maniera speciale di rappresentare il
relativo oggetto. Se sia la metafisica che la teologia si occupano di Dio, allora, entrambe non possono
aspirare a una perfetta considerazione dell’attualità divina. In quanto ogni conoscenza è sempre
riconduzione della verità dell’oggetto alla misura delle capacità di accoglierle proprie del soggetto. Così
come i beati non possono cogliere la perfezione divina in tutti i suoi aspetti, la teologia in vita non può
considerare Dio nell’infinità dei suoi attributi. Infatti, ciò dipende sempre relativamente alle capacità ridotte
del soggetto conoscente, non si può considerare Dio subiectum della teologia come se fosse una res
conoscibile.
Dio come fine della teologia
Dio è il fine irraggiungibile di un continuo impulso di conoscenza e desiderio dell’anima umana. la teologia,
che accompagna e orienta questo impulso, è dunque una scientia affectiva, inoltre, è sia speculativa sia
pratica: Dio non è l'oggetto di una scienza finita in senso aristotelico. La natura di scienza affectiva colloca
d’altra parte la teologia al di sopra di tutte le altre scienze e ne proietta senz’altro gli esiti in una prospettiva
escatologica, in quanto solo nella beatitudine l’amore per Dio potrà giungere a un grado di compimento
tale da colmare i limiti propri della conoscenza.

L'aristotelismo degli artistae e la condanna del 1277


Il dibattito
Tra il 1260 e il 1270 si moltiplicano gli interventi polemici dei docenti della Facoltà di teologia contro la
spregiudicatezza dei maestri delle Arti. Gli artistae conducevano dimostrazioni che sfociavano in posizioni
dottrinarie inconciliabili con la Rivelazione: l'eternità del mondo, la creazione tramite intermediari, il
fatalismo deterministico, la negazione dell’immortalità dell’anima e della resurrezione dei corpi. Queste
tesi, di orientamento aristotelico-averroistico, vengono progressivamente consolidate e radicalizzate fra gli
artistae con la volontà di difendere l’autonomia e la liceità della loro attività speculativa.
Sigieri di Brabante
Uno fra i più accaniti degli artisti parigini è Sigieri di Brabante, il cui commento al terzo libro del De Anima di
Aristotele diventa bersaglio diretto del De unitate intellectus tomista. In questo commento, le conclusioni di
Sigeri vengono volontariamente dimostrate come necessarie a prescindere da qualsiasi confronto con i
fondamenti teologici della psicologia cristiana: l'intelletto possibile, con cui l'uomo pensa, non è forma del
corpo come lo sono l'anima vegetativa e l'anima sensitiva, perché altrimenti sarebbe incapace di separarsi
dalle immagini sensibili. L'intelletto possibile, dunque, è separato dal corpo ed è universale in quanto
comune a tutti gli individui, e appartiene ad una natura spirituale dell’intelligenza superiore. A partire dalla
metà del XIII secolo, dunque, cominciano a presentarsi le prime preoccupazioni, soprattutto riguardo al
monopsichismo avveroista, fino ad arrivare alle esplicite denunce di Bonaventura e Tommaso
La condanna del 1270
Nel 1270 il vescovo di Parigi, Stefano Tampier, emana un decreto censorio attraverso il quale viene vietato
l’insegnamento di tredici tesi filosofiche, riconducibili a tre tematiche fondamentali, ossia l’eternità del
mondo, determinismo, negazione della provvidenza e unicità dell’anima intellettiva. Più in generale, la
condanna si inquadra in contesto di discussione circa il ruolo della ricerca puramente filosofica e della sua
compatibilità con la fede cristiana. L’intervento del vescovo è stato così motivato da diverse esigenze:
• porre un freno all’incontrollata estensione delle prerogative della filosofia.
• frenare i teologi stessi nell’assunzione di atteggiamenti troppo concilianti verso la sapienza mondana.
• avviare un chiarimento risolutivo nelle questioni interne all’Università.

La ritrattazione di Sigeri
Tra il 1272 e il 1273 Sigeri pubblica il De anima intellectiva in cui rivede parzialmente la propria psicologia,
manifestando rispetto per l’autorità di Alberto e di Tommaso. Nel 1276 un decreto del collegio della Facoltà
proibisce agli artisti di tenere lezioni in luoghi privati. Lo stesso anno, Sigeri viene convocato davanti al
tribunale dell’Inquisizione come responsabile di alcuni disordini interni alla Facoltà, ma aveva lasciato la
Francia prima di questa misura censoria
La condanna del 1277
Papa Giovanni XXI incaricò Stefano Tempier di stilare una lista degli errori commessi dagli artistae,
pertanto, nel 1277 il vescovo di Parigi pubblicò una lista di 219 proposizioni considerate erronee che se
professate avrebbero portato alla condanna per eresia. La condanna era rivolta a tutti gli artistae che
“ardiscono travalicare i limiti spettanti alla loro Facoltà”, affermando una generale contraddizione tra verità
della fede e verità filosofiche. Come se potessero esserci due verità tra loro contraddittorie e come se gli
scritti dei pagani dannati potessero esprimere una verità contraria a quella della Sacra Scrittura. Tra queste
tesi condannate, molte sono di matrice averroista, alcune delle quali assolutamente inconciliabili con la
fede, altre sono esplicitamente anti-teologiche. Vengono condannati il De amore di Andrea Cappellano,
sull'amor cortese, ossia extraconiugale, e altri libri di geomanzia e negromanzia.
Il sistema di Sigieri
La condanna del 1277 ebbe effetti concreti e la carriera di Sigeri di Brabante venne interrotta. Infatti, è
possibile riscontrare nei suoi scritti molte delle tesi incriminate. Il sistema filosofico di Sigieri è un
programma di integrale recupero del metodo e del modo di pensare aristotelico, intenzionalmente
perseguito senza mai subordinare gli esiti ad alcuna verifica di compatibilità con i contenuti della
Rivelazione. Al vertice del suo sistema c'è Dio, la causa prima, la cui esistenza è dimostrata secondo vie a
posteriori prese in prestito da Tommaso. L’effetto immediato del divino è un principio puramente
intellegibile ed è la prima di una complessa gerarchia di intelligenze inferiori che attuano l’efficacia
produttiva della prima causa, funzionando da intermediari. La prima causa agisce solamente sul primo
effetto, portando ciascuna intelligenza a muovere quella inferiore, fino al Cielo della Luna che presiede ai
moti di generazione e corruzione. Ogni intelligenza, in quanto immateriale, è unica nella sua specie e
individuata dalla sua stessa quiddità. Sigieri esclude altre forme di composizione ontologica, come essenza
ed esistenza, sovrabbondanti rispetto alla semplicità della pura legge della causalità naturale. Tutto ciò che
accade nell'universo creato è un effetto necessario, facente parte di un meccanicistico circolo eterno di
avvenimenti, che è però caratterizzato dalla contingenza. Questa scaturisce dall’impotenza naturale della
materia a ricevere efficacemente le forme necessarie provenienti dalle sfere superiori. L'anima è la forma
del corpo e il suo compito è vivificarlo, l’anima superiore è quella cogitativa che entra in contatto con
l'ultima intelligenza separata, l'anima intellettiva, comprendente intelletto passivo e intelletto attivo.
Le distinzioni epistemologiche
Un altro maestro della Arti sotto accusa è Beozio di Dacia, poiché sono state reperite significative
coincidenze con alcuni articoli della condanna. In particolare, quelli relativi all’eternità del mondo e della
creazione, alla possibilità di conseguire la beatitudine durante la vita terrena, mediante l’esercizio delle
virtù etiche. In nessuna delle pagine scritte da Sigeri o da Boezio, si trova difesa la possibilità di coesistenza
di verità diverse e contraddittorie.
• Se da una parte gli aristotelici delle Arti si arrogano il diritto a operare con la pura razionalità senza
mai subordinare gli esiti a nient’altro che la scienza,
• Dall’altra non dichiarano mai di considerare le conclusioni così raggiunte, qualora siano contrarie
alla fede, come se fossero ad essa alternative, ossia portatrici di una verità filosofica diversa da
quella teologica, ma avente lo stesso diritto.
Sigeri non si ritiene in contrasto con la tradizione teologica cristiana, ma dichiara di volersi affidare alla
verità rivelata come criterio ultimo delle sue indagini. Inoltre, egli stesso denuncia il dissenso tra i filosofi e
desidera appellarsi alla ragione aristotelica per risanarlo. Quando, invece, le questioni sono incerte
(intelletto universale, eternità del mondo) e nessuna argomentazione, favorevole o contraria, può essere
considerata decisiva l’adesione alla fede. Infatti, “dinanzi al dubbio della razionalità è sempre necessario
aderire alla fede”, che è sempre superiore alla ragione.

Boezio di Dacia
Le linee di Sigeri, in Boezio di Dacia, diventano più precise e metodologicamente giustificate. Boezio
stabilisce un parallelo tra:
• l’errore “ereticale”, di chi introduce la razionalità in temi che possono essere solamente oggetto di
fede.
• l’errore “filosofico”, di chi rifiuta di accogliere come vere dimostrazioni su cose che possono essere
indagate dalla ragione.
L’intenzione di Boezio è, dunque, quella di “reducere ad concordiam” la Rivelazione e Aristotele. Boezio
ritiene che non sia possibile costruire argomenti validi contro la tesi dell’eternità del mondo, ciò non
significa escludere la creazione del mondo, ma solo il suo inizio nel tempo. Il filosofo naturale non può
ammettere, in base ai principi propri della sua disciplina, l’esistenza di un movimento iniziale del tutto
nuovo. Per Boezio le dottrine alle quali la fisica perviene, in base ai propri principi, sono vere e pertanto
risulta illegittima ogni interferenza della teologia. In tal modo riconosce l’autonomia dei vari campi del
sapere, tuttavia il fisico è consapevole di svolgere le sue indagini su un insieme finito di cause puramente
naturali. Egli non può quindi escludere la possibilità che altre cause intervengano, ma ciò esula dal dominio
della fisica e delle cose naturali. Boezio di fatto non esclude il dominio del soprannaturale, ciò che egli
esclude e che esso sia di pertinenza della filosofia naturale. Così che il mondo sia eterno o ha avuto origine
nel tempo dipende soltanto dalla volontà di Dio, la quale può essere conosciuta dall’uomo soltanto se è Dio
stesso a rivelarla.
La doppia verità
Le verità della fisica sono dunque vere soltanto relativamente ai propri principi, non in assoluto, e quindi
non contrastano le verità della fede. Non, dunque, una doppia verità, ma il riconoscimento di diversi ordini
di verità. Dunque, la fede, che è fondata sulla Rivelazione e retta da causa soprannaturali non indagabili con
la ragione, non può mai essere in contraddizione con la filosofia naturale, fondata sulla conoscenza logica
delle conclusioni razionali. Per questo, non è possibile reperire nelle argomentazioni dei filosofi
argomentazioni che siano contraddittorie rispetto alla fede. Infatti, tra i fondamenti del pensiero filosofico
vi è anche il divieto di ammettere che la verità possa essere contraddittoria. Allo stesso modo, chi sostiene
che il cristiano non possa essere filosofo dice il falso: le leggi naturali vanno studiate e comprese per quello
che sono, proprio perché la fede travalica la necessità naturale, in quanto è oggetto di credere e non di un
semplice intelligere.

Ruggero Bacone XIII secolo, inglese e facente parte dell’ordine francescano spirituale.
L’enciclopedia del sapere
Nell’Opus maius, compendiato nei più brevi Opus minus e Opus tertium, confluiscono materiali e dottrine
scientifiche e filosofiche con l’obiettivo di una enciclopedia del sapere. Tale progetto non può essere
realizzato da una persona sola e richiede vasti mezzi economici, inoltre, l’impesa non può collocarsi
all’interno delle Università, considerati ambienti chiusi e saturi all’interno che non muovono alla conquista
dei segreti inesplorati della natura. Per Bacone il sapere e la conoscenza sono gli strumenti fondamentali
per combattere l’Anticristo e instaurare il regno di Dio in terra: bisogna elaborare una nuova enciclopedia
filosofica e scientifica capace di penetrare nei segreti della natura. Deve, pertanto, cessare ogni ostilità da
parte cristiana nei confronti della scienza, essa è dotata del potere di trasformare la realtà (finalità sacra).
Bacone include nel progetto, anche il ricorso alle scienze segrete come l’alchimia e la vera magia, che si
differenzia dai sortilegi e gli incantesimi. La vera magia opera in conformità con la natura e la tecnica, e può
dare un contribuito alla scienza, essa è fondamentale per diffondere il suo sapere ed educare il mondo dei
simplices. Il sapiente deve ricoprire di un velo i principi del progresso scientifico e trasmettere, al mondo
degli incolti, soltanto i risultati, in modo che possano essere canalizzati e usati bene sotto la guida della
Chiesa.
I peccati della teologia
Il suo programma teoretico consiste in una totale reformatio di tutti gli ambiti della conoscenza cristiana:
filosofia, scienza e teologia. Ruggero identifica sette peccati nella teologia a lui contemporanea:
1. invasione del metodo degli artistae (aristotelico) nelle trattazioni teologiche.
2. ignoranza delle vere scienze utili allo studio della Scrittura (greco, ebraico, matematica, retorica).
3. ignoranza e la presunzione dei maestri, che hanno conoscenze solamente parziali e limitate.
4. perdita di interesse nella Scrittura in favore delle Sententiae di Lombardo.
5. corruzione del testo sacro, dovuta ad una pessima traduzione latina.
6. l'incapacità di produrre una corretta esegesi biblica.
7. verbosità e noiosità dei maestri universitari.
In primo luogo è errato aver fondato il sapere sull'astrazione, che, pur essendo utile, allontana chi conosce
dalla verità immediata di un oggetto comunicata dai sensi. Un altro errore consiste nella supposizione
ingiustificata dell’esistenza degli universali, mentre l’essere creato appare sempre come un centro di
energia singolare e atomistico.
Gli offendicula sapientiae
La critica del sapere viene considerata da Ruggero come gli ultimi effetti del peccato originale, la cui radice
era la presunzione di conoscere la verità con una sapienza assoluta, simile a quella con cui la conosce Dio.
Da questo primordiale errore derivano allora altri tre offendicula sapientiae, che sono ostacoli per
l’acquisizione del vero da parte dell’uomo:
1. falso principio dell’auctoritas ossia un sapere è tanto più certo tanto più l’ha sostenuto un autore
autorevole, che serve solo a nascondere l’ignoranza.
2. eccessivo appoggio alla tradizione, che solleva l’individuo dalla responsabilità di impegnarsi in una
ricerca personale.
3. richiamo all’opinione comune, ossia idea nata in una maggioranza di soggetti che viene ritenuta
veridica come se fosse frutto dell’esperienza di tutti.
L’intento di Bacone è quello di sottoporre l’intera conoscenza ad un rinnovamento della prospettiva
epistemologica, che elimini la presunzione e l’astrattezza di quella che è stata, secondo lui, falsamente
attribuita ad Aristotele.
La scientia experimentalis
Secondo Bacone, invece, la vera scienza è soltanto la scientia experimentalis, fondata sull’osservazione
diretta e sulla razionalizzazione dei dati dell’esperienza. Solo questo tipo di scienza, infatti, permette
l’immediata verifica delle sue connotazioni ed è una scienza primaria. I suoi fondamenti metodologici
devono essere applicati a tutte le altre scienze inferiori affinché queste siano attendibili. Essa gode quindi di
tre prerogative: 1) intuitiva perviene alle conclusioni in modo immediato, passando dall’esperienza subito
alla necessità degli enunciati; 2) sottoponibile ad una verifica diretta; 3) dal momento che è sottoponibile a
verifica, può determinare i principi primi e per questo è assolutamente autonoma. La scienza
experimentalis è l’unica scienza a non dipendere da alcun’altra: come la logica (scienza del ragionamento
corretto) smaschera i trucchi dei sofisti, così la scienza experimentalis smaschera i trucchi ingannatori dei
falsi maghi.
Il ruolo della tecnica
Questa impostazione collega Bacone alla tradizione scientifico-sperimentale, il quale si ispira
principalmente a Roberto Grossatesta e Pietro di Maricourt. Grazie a quest’impostazione scientifica,
Bacone profetizza così la possibilità per l’uomo di dotarsi di strumenti per dominare la natura (come navi
senza remi e vele). Se fondata sulla scientia experimentalis, dunque, la conoscenza contribuisce a
migliorare le condizioni dell’uomo e ad avviare la società verso la salute eterna. Il filosofo, secondo,
Ruggero è dominus experimentorum, capace a un tempo di compiuta osservazione empirica e di diretta
traduzione di essa in capacità tecnica. La scienza e la tecnica servono tanto per portare l'uomo verso la
salvezza eterna, quanto per ricucire lo strappo causato dalla presunzione di Adamo e partecipare
nuovamente alla perfezione della scienza divina. Questo è il fine della rifondazione epistemologica di
Ruggero: attuare un’onnicomprensiva riconduzione dell’intelligenza umana entro i termini del metodo
sperimentale, “porta e chiave di tutte le scienze”, dotando così l’umanità di una sapientia concreta.
Il ruolo della matematica
Bacone inverte i rapporti di subordinazione delle scienze inferiori a quelle superiori: la disciplina che
sostiene tutte le altre non è per lui quella più astratta e il cui oggetto è il più universale, ma la più diretta e
concreta. Essa indaga le proprietà delle cose e le fa conoscere alle altre scienze come qualcosa di nuovo ed
esterno alle loro competenze, funzionando come virtus regolatrice. Dunque, la scientia experimentalis è al
contempo ambito di conoscenza e metodo per le altre scienze. Per Bacone, la scienza fondamentale è
allora la matematica, che mette in contatto l’intelligenza con il modus essendi in sé delle cose. Sulla
matematica si basano, allora, tutte la tre scienze:
• l’ottica, che ha per oggetto la natura e la trasmissione della luce, e poi
• l’astronomia e la magia “buona”, che è in grado di penetrare il reale al di sotto della sua
manifestazione visibile.
• l’etica, il cui oggetto coincide con la finalità stessa dell’uomo, ossia la felicità.

La scienza morale
Tuttavia, è proprio nella scienza morale che la razionalità umana diventa consapevole dei propri limiti,
evidenziando la incapacità dell’uomo di ricongiungersi con la pienezza del sapere divino. Dal peccato di
Adamo in poi, l’uomo non può comprendere e conseguire la vera felicità separatemene da Dio. La
conoscenza umana troverà piena realizzazione solo grazie alla Rivelazione, dunque, l’ascesa conoscitiva
dalla scientia experimentalis trova il suo punto di arrivo nella teologia cristiana: dottrina appagante e
definitiva. Inoltre, dal momento che la conoscenza che Dio ha del vero è il frutto della più intuitiva e diretta
acquisizione sperimentale del modus essendi delle cose, la teologia è la più vera e compiuta forma di
scientia experimentalis possibile per l’uomo. Bacone spiega questa affermazione con l’esempio del
magnete: se qualcun desidera comprendere il fenomeno di attrazione tra magnete e ferro, deve prima
avere fede nella testimonianza che lo mette in contatto con ciò. Dunque, la scienza morale è il
coronamento del sapere perché indica il fine verso cui tutto deve essere indirizzato.
La fede
Allo stesso modo, le fede è una forma di conoscenza sostitutiva di quella sperimentale, quando questa non
è possibile, ma preparatoria ad essa nella misura in cui consente di riprodurre le condizioni che la rendono
possibile. La fede è un’experientia altissima del vero, che è completiva delle carenze di quella sensibile. La
fede, infatti, realizza una piena illuminazione conoscitiva, che mette l’anima del credente in contatto con le
più alte verità soprannaturali attraverso un’adesione intuitiva, ossia sperimentale. Inoltre, dal momento
che la teologia è la più alta forma di scientia experimentalis, ne condivide le tre prerogative (intuitiva,
verificabile, autonoma). Dunque, la teologia è una scienza autenticamente matematica, e per questo può
essere definita sapientia, in quanto è perfettamente informativa del suo oggetto.
Il percorso della sapientia
Tuttavia, il percorso di avvicinamento dell’umanità alla sapientia è stato lungo e contorto. Dopo il peccato
di Adamo, Dio comunica in forma profetica la sapientia solo ai Patriarchi, che dovevano avviare la
riconduzione dell’umanità dopo la dispersione religiosa. Dopo la sapientia venne trasmessa per via
sotterranea tra i soli iniziati, venendo però progressivamente corrotta dai peccati degli uomini. Con Mosé
essa venne affidata alla conservazione scritturale, dunque, la sapientia riemerge pubblicamente, ma ormai
irrimediabilmente corrotta, con l’insegnamento dei filosofi (Zoroastro, Prometeo, Atlante), che ne
dimenticarono l’origine divina. Un’illuminazione divina la rivelò nuovamente a Salomone, da cui attinsero i
filosofi greci, tra i quali Aristotele, che venne ripreso dai filosofi arabi e da Michele Scoto, che lo fece
conoscere alla latinità. Con la rivelazione cristiana, l’umanità è tornata a poter partecipare della sapientia
perfecta, di cui tutte le precedenti non erano che una configurazione.
Il ruolo della Scrittura
Dunque, se è vero che nella Scrittura è racchiusa tutta la Sapienza divina, allora nella Scrittura è compreso
tutto lo scibile umano. La nuova sapienza umana deve muovere necessariamente da una corretta esegesi
della verità della Scrittura: scopo ultimo di tutta la sapientia è la conoscenza della salvezza. Bacone assimila,
allora, l’esplicazione esegetica del testo scritturale ad un palmo di mano aperto, mentre la sapientia che
scaturisce da esso ad un pugno chiuso. Diventano così fondamentali tutte quelle scienze subalterne che, in
qualche modo, possono aiutare l’esegesi in quanto strumenti complementari per l’interpretazione. Tra
queste indispensabili saranno quelle la cui mancanza era stata descritta, come la lingua ebraica e greca e la
comprensione del contesto giuridico-storico della narrazione, (Bacone inizia un progetto di correzione della
Vulgata).
L’illuminazione divina
Le imperfezioni della filosofia teoretica e di quella pratica vengono superata da un’illuminazione divina, che
comunica tutte le notizie utili. Questo perfezionamento conoscitivo si compie lungo sette gradi, con una
simmetria inversa rispetto ai sette peccati della teologia:
1. secondo i soli modi della scienza.
2. secondo le virtù.
3. secondo i doni dello Spirito Santo.
4. secondo le beatitudini.
5. secondo i sensi spirituali.
6. secondo i frutti spirituali.
7. secondo il conseguimento degli stadi di conoscenza estatica.
Giovanni Duns Scoto XIV secolo, maestro dell’ordine Francescano, soprannominato “Doctor subtilis”
La theologia in sé e in nobis
La teologia è al contempo sapere di Dio e sapere su Dio, dunque, tutte le verità teologiche sono
virtualmente
presenti in Dio, che, allo stesso tempo, è il primo oggetto del sapere teologico. L’essenza di Dio, però, in
quanto perfetta e infinita, non è circoscrivibile in alcuna limitazione, dunque, solo un intelletto capace di
conoscere l’infinita essenza divina può essere un intelletto adeguatamente teologico. Ma nessun intelletto
creato, né l’angelo, né l’uomo, può commisurarsi a ciò che è infinito: l’essenza divina è proporzionale solo
all’intelletto divino. A questo proposito Scoto introduce la distinzione fondamentale:
• theologia in sé: la conoscenza che l’oggetto teologico, ossia Dio, suscita in un intelletto a essa
proporzionato, dunque, che ha di sé stesso. Soltanto Dio può essere, in modo adeguato, ad un
tempo soggetto e oggetto del sapere teologico in sé (sub ratione deitatis).
• theologia in nobis: è la conoscenza relativa di questo medesimo oggetto, cioè Dio, che il nostro
intelletto è idoneo a ricevere. Ma nell’unico modo possibile, ossia pensando a ciò che
massimamente significa: ens infinitum.
Quest’ultimo concetto è pienamente accessibile alla ragione naturale, dal momento che in esso rientra
tutto ciò che la mente umana concepisce, quando tenta di rappresentarsi la perfezione del divino: preso
nella sua purezza e semplicità massima. Dunque, l’ens infinitum dovrà essere considerato come portatore
di ogni perfezione, ossia comprensivo di tutto ciò che entra in relazione con il divino privo però di qualsiasi
imperfezione: ens perfectissimum.
La Sacra Scrittura in aiuto della theologia in nobis
Su questa base la mente umana presuppone di considerare l’oggetto della teologia nostra come identico a
quello della teologia in sé, tuttavia l’oggetto è presente ai soggetti in modalità differenti: quella di Dio è una
conoscenza intuitiva, evidente ed essenziale, mentre quella dell’intelletto umano è astrattiva, negativa e
indiretta. Con la sola ricerca filosofica, dunque, l’intelletto umano non potrebbe mai esaurire la pensabilità
delle perfezioni dell’essere, in quanto ogni oggetto della finitudine rimanda a qualcosa che è sempre meno
imperfetto. Perciò, risulta necessaria la Sacra Scrittura, che contiene in sé tutte le possibili e perfette
relazioni di Dio con il creato: l’uomo dal testo scritturale viene informato della loro pensabilità e raffina la
propria capacità di riconoscere il concetto di ens infinitum. L’aspirazione della teologia nostra dovrà essere,
dunque, la comprensione dell’oggetto infinito con la massima estensione della sua pensabilità in quanto
tale. La theologia in nobis viene informata, dalla Rivelazione, sulle perfezioni dell’essere infinito ed è quindi
in grado di coglierle come oggetti di una conoscenza argomentativa e dimostrativa. La theologia nostra non
è la fede, anche se dalla fede si alimenta necessariamente per poter sussistere quale conoscenza.
Teologia e filosofia
La metafisica pretende di conoscere l’essere come oggetto determinato per trovare i principi primi e i
rapporti di causa-effetto che lo governano, collocandolo così all’interno di un ordine naturale perfetto e in
sé chiuso. La teologia, invece, considera l’essere come orientato ad un fine, presupponendo però
l’impossibilità di cogliere tale fine tramite una conoscenza interna alla natura, perché altrimenti non
sarebbe il fine ultimo a cui tutto il creato è orientato. Questo impone ai teologi il loro aprirsi
all’indispensabile acquisizione di una conoscenza supplementare della verità, che va oltre quella naturale
della metafisica. La Rivelazione, funzionante come un’illuminazione globale, ha il compito di supplire
l’inadeguatezza delle capacità naturali, permettendo all’uomo di spingersi oltre. La Rivelazione mette in
atto la potenza passiva dell’intelletto umano con una informazione attuativa di ordine soprannaturale,
permette di aprirsi ad informazioni di ordine superiore, che provengono sotto forma di dono gratuito. Scoto
dà a tale potenza passiva il nome di potentia oboedentialis, ossia capace di divenire ciò che Dio vuole o
vorrà che essa diventi.
Al di sopra della conoscenza naturale
Le nozioni provenienti dalla Rivelazione sono sempre complexiones (verità complesse), ossia proposizioni
costituite dalla congiunzione di termini concettuali. L’intelletto umano può avere conoscenza dei singoli
termini che lo costituiscono, ma non potrà mai conoscere il loro significato naturale in quanto proposizioni.
La theologia in nobis è l’analisi strumentale dei contenuti di ogni complexum della Rivelazione e, per
questo, introduce nel sapere teologico una conoscenza ulteriore rispetto a quella naturale: perché
permette all’intelletto umano di cogliere ciò che gli sarebbe impossibile per via naturale. Dunque, la
teologia in nobis innalza la conoscenza umana al massimo grado di perfezione, consentendole di conoscere
anche al di sopra della percezione sensibile. Tale incremento di conoscenze è inesauribile, dal momento che
non ha altro limite se non la volontà divina che lo informa. La teologia, attraverso la Rivelazione, diventa
così portatrice di una conoscenza del tutto diversa da quella della metafisica, che può spingersi a una
accezione generalissima e vaga dell’essere infinito. La teologia nostra si colloca supra fidem sed infra
visionem e ha come oggetto Dio, in quanto rivelazione conoscibile dall’uomo.
Lo statuto scientifico della teologia
Scoto si interroga, quindi, sullo statuto scientifico della teologia e spiega che:
1. Dio in quanto essenza infinta è subiectum della teologia in sé, che non può essere considerata scienza.
Nella theologia in sé è escluso qualsiasi incremento di conoscenza, ossia qualsiasi passaggio dal non
sapere al sapere e qualsiasi procedimenti discorsivo o sillogistico, che sono le condizioni fondamentali
richieste dall’epistemologia aristotelica.
2. Dio come essere perfetto conoscibile per via d’illuminazione è subiectum della teologia degli angeli e
dei beati, che sarà la più perfetta teologia possibile sul piano creaturale. Secondo Scoto, in questo caso
si può parlare di scienza in senso pieno, in quanto in essa il soggetto sarà sempre capace di distinguere
l’oggetto divino in quanto tale dalle sue proprietà.
3. Dio in quanto rivelato è il subiectum della theologia in nobis, che non può fare a meno della
Rivelazione. In questo caso è impossibile applicare il concetto di scienza, lo stesso Aristotele vieta che
possa includere la conoscenza del contingente, imponendole di far riferimento solo ai principi primi.
Anche se, la Rivelazione, contiene elementi contingenti e storici che sono fondamentali.
La theologia come sapientia
Riprendendo l’Etica Nicomachea, se scientia significa, piuttosto, un sapere vero contrapposto all’opinione,
allora la conoscenza dei contingenti in teologia dovrà essere accolta come un elemento integrativo
imprescindibile. Meglio ancora, riprendendo Agostino, la teologia è sapientia, in ragione del fatto che
conduce l’intelletto umano a partecipare della certezza e della nobiltà dell’oggetto conosciuto. Per questo
non si può essere aristotelici in teologia e non vi è alcun motivo per esserlo, poiché la teologia dipende
direttamente dalla Rivelazione. Nessuna verità, che non sia di origine rivelata, può avere qualche incidenza
orientativa sulle verità della teologia. Ma allo stesso tempo, le verità della teologia non hanno alcuna
potenza di far scaturire da sé affermazioni veritiere appartenenti a scienze subordinate. Si scindono così
nuovamente i piani di scientificità propri dell’ordine naturale e di quello soprannaturale: dissolvimento
della subalternazione. La metafisica non è ancella della teologia, ossia viene meno la strumentalità delle
scienze filosofiche in favore della teologia, dal momento che queste parlano di cose differenti. In teologia la
conoscenza non è fine a sé stessa, ma serve ad amare, dal momento che parla di un Dio che è bene e verso
il quale proviamo amore. La teologia orienta la volontà dell’uomo verso il Sommo Bene e ha come esito la
salvezza della redenzione e l’acquisizione della vita eterna.
Oggetto e limiti della metafisica
Scoto, nella prima delle Quaestiones super Metaphysicam si domanda quale sia l’oggetto della metafisica
dopo essere stata svincolata da qualsiasi subalternazione ad un sapere superiore, ed esclusa da qualsiasi
dipendenza rispetto alla Rivelazione. Duns riprende Avicenna, per il quale l’oggetto della metafisica è
l’essere in quanto essere, che assicura alla metafisica uno statuto scientifico distinto e peculiare. La
metafisica, dunque, considera l’oggetto infinito prescindendo, però, dal supporto di qualsiasi informazione
esterna alla pura indagine razionale. In questo modo la metafisica può anche parlare di Dio senza diventare
portatrice dei preambula fidei: dirà su Dio tutto ciò che è possibile dire per via razionale, senza dover essere
sottoposta al vaglio della regula fidei. La metafisica può aspirare ad avere il primum come oggetto proprio,
perché esso è il primo oggetto dell’intelletto: rifiuto della tesi agostiniana dell’illuminazione e tesi tomistica
dell’astrazione (per cui il primo oggetto dell’intelligere è la quidditas).
L’essere univoco
Duns Scoto, rivendica per la metafisica la prerogativa di conoscere un oggetto che le è sempre e
immediatamente noto, in ogni atto di intellezione, ovvero l’ens commune. Dunque, dal momento che tutto
ciò che è intelligibile include in sé la nozione di ente, l’essere è coestensivo alla ragione. Questo vuol dire
che tutto ciò che la ragione conosce è essere, e la ragione può conoscere tutto ciò che è: l’essere è univoco,
ha un solo significato e si dice in un solo senso di tutto ciò che è. Questa dottrina si differenzia nettamente
da quella sostenuta da Tommaso, per il quale tra l’essenza potenziale di un ente e il suo essere vi è
un’analogia, quindi un rapporto per lo meno di similitudine. Per Scoto, invece, non si può parlare
dell'essere ricorrendo a delle analogie, un concetto analogo di essere sarebbe un altro concetto e, quindi,
se riferito alle creature, non potrebbe più essere usato in relazione a Dio. La via analogica non è possibile
perché non si ha realmente conoscenza dell’essenza divina e si rischierebbe di introdurre in Dio analogiche
imperfezioni. Inoltre, non consente l’argomentazione per via sillogistica, perché implica l’introduzione di un
termine medio non univoco. L’essere viene colto dalla metafisica in tutta la sua univocità, come concetto
unitario, ossia capace di sostenere sia l’affermazione sia la negazione del proprio significato. L’essere
univoco si estende, dunque, a tutto ciò che è ed è il concetto primo dell’intelletto (finitudine e infinità),
precedendo qualsiasi determinazione e qualsiasi differenziazione: così da potersi predicare sia per le
creature (enti creati e finiti), sia per Dio (ente increato e infinito).
L’essere infinito
Dal momento che l’essere univoco comprende le proprietà generali sia dell’essere finito che di quello
infinito, l’esplorazione metafisica degli attributi di Dio, che ha inizio con l’infinità, dovrà avvenire a priori,
ossia puntando sulla considerazione dell’ens infinitum in quanto tale. La dimostrazione dell’esistenza di Dio,
proposta da Scoto, si articola in passaggi logici successivi determinati dalle condizioni di concepibilità
dell’essere infinito. Infatti, l’esistenza di Dio non è una verità evidente, di per sé nota, perché se così fosse
non sarebbe dimostrabile, ma è una nozione conseguente alla sua concepibilità come infinito, dunque è
dimostrabile. Scoto propone una triplice argomentazione: 1) verificare la pensabilità di tale concetto e
valutarne il senso, 2) quindi esaminare fino a che punto sia razionalmente evidente la possibilità della sua
esistenza, 3) infine, riconoscerne come razionalmente evidente la necessità.
• L’infinito è pensabile solo se non viola le leggi del pensiero, ossia se segue il principio di identità e di
non-contraddizione. Dunque, l’infinito deve essere l’unico possibile perché due infiniti si limiterebbero
l’un l’altro, quindi immutabile e perciò eterno, ubiquo, invisibile, ineffabile, in atto e in potenza,
possibile e necessario. In sostanza l’infinito è tutto ciò che trascende rispetto ai modi di essere del
finito. Queste caratteristiche si riscontrano talvolta anche nelle creature, ma in Dio sono infinite l’essere
infinito è l’intelligibile più perfetto
• L’infinito è razionalmente possibile se è possibile pensarlo come causa efficiente assoluta, fine ultimo e
somma perfezione. Queste tre primarietà sono il limite che il pensiero pone ad un percorso all’infinito,
che sarebbe non solo inutile ma anche contraddittorio. Infatti, ogni essere finito ha una causa e, se non
ci fosse una causa prima, il processo sarebbe inesauribile e in quanto tale potrebbe risolversi nella non-
esistenza. Allo stesso modo, l’esistenza di fini particolari rimanda alla loro dipendenza da un fine ultimo,
mentre l’esistenza di perfezioni graduabili rinvia alla perfezione in sommo grado.
La dimostrazione dell’esistenza di Dio
Duns Scoto, per dimostrare la necessaria esistenza di Dio, non prende in considerazione le vie di Tommaso,
in quanto risalire a Dio partendo dal mondo sensibile limiterebbe di molto la sua onnipotenza, dalla quale
potrebbero sgorgare effetti infiniti non immaginabili dai dati dell’esperienza. Propone, allora, una nuova via
suggerendo di procedere per viam eminentiae: basta pensare all’infinita varietà degli intelligibili che il
nostro intelletto trova progressivamente conoscendo, per scoprire che se essi sono veri è perché sono tutti
pensabili e pensati in un intelletto perfetto infinito. Si arriva così a una coloratio Anselmi, ovvero valorizzare
l’unum argumentum modificandolo e sottoponendolo a un perfezionamento formale. Dunque, ciò di cui
non si può pensare nulla di maggiore (quo maius cogitari nequi) esiste necessariamente, se lo si può
pensare senza contraddizione. Ma l’essere infinito è veramente infinito, perché il finito ammette sempre
qualcosa di superiore, dunque, l’idea di infinità non è contraddittoria. Proprio perché pensabile come
sommo ed infinito, e in quanto tale come punto d’arrivo delle aspirazioni conoscitive dell’intelletto, Dio
esiste.
L’onnipotenza divina
L’essere finito esiste solo per distinzione da ciò che è infinito: perché la causa infinita lo fa essere, sic et
nunc, nella sua immediatezza e irripetibilità. Dunque, non è qualcosa di dimostrabile, dal momento che è
evidente e indeducibile; così sparisce tutta l’articolata gerarchia delle cause seconde. La causa divina, se è
infinita, deve essere infinitamente libera, dunque solo l’onnipotenza divina porta le cose a passare dalla
loro pensabilità nell’intelletto divino alla loro realtà storica spazio-temporale. Ma proprio in quanto del
tutto libera, la volontà divina sfugge a ogni necessità e ad ogni possibilità di essere conosciuta
razionalmente. L'onnipotenza di Dio è pertanto articolo di fede: essa consiste nel potere di creare
immediatamente, cioè senza agenti intermediari (le cause seconde), tutto ciò che è creabile. Creare vuol
dire causare liberamente degli esseri possibili finiti, la cui esistenza non è necessaria. Prima della creazione
nulla esiste e ciò che esiste in virtù della creazione è contingente, può essere come non essere.
Potentia ordinata e absoluta
Dio ha fissato nell’universo due legislazioni:
1. potentia ordinata corrisponde alle leggi naturali che ha creato per realizzare il suo libero volere. In
quanto ordinata, dunque, la potenza divina è il principio causale dell’insieme particolare di
determinazioni che costituisce il mondo.
2. potentia absoluta riflette il volere stesso in modo assoluto e diretto. In quanto absoluta è
condizionata soltanto da sé stessa e dal principio di non contraddizione: è principio causale di
qualsiasi evento alternativo all’ordine del creato.
La potenza assoluta è più ampia di quella ordinata, perché riguarda un ambito più esteso di possibilità: un
re, per esempio, può anche graziare un individuo condannato in base alla legge. La potenza ordinata ha una
funzione limitante riguardo alla potenza assoluta, ma Dio essendo infinito non può essere limitato da nulla.
Volontarismo divino
Tutto ciò di stabilito e causato da Dio, in quanto deriva dalla sua volontà, è necessariamente buono. Dio
può comandare una cosa è il suo contrario: se volesse, potrebbe stabilire per gli uomini una legge diversa
da quella che ha stabilito e, in tal caso, sarebbe buona quest’ultima. L'unico contrassegno della bontà di un
ordine è la sua dipendenza dalla volontà divina: qui è il nocciolo di quello che è stato definito volontarismo
divino. (Platone risponde che le cose piacciono alla divinità perché sono belle; Scoto risponde che le cose
sono belle perché piacciono a Dio). In questa prospettiva Dio appare come un sovrano assoluto, libero di
volere oggetti opposti e di causare effetti opposti (potenza assoluta). L’unica restrizione consiste nel fatto
che Dio non può comandare a qualcuno di odiarlo, difatti l’agire umano è veramente buono solo quando
accompagnato dall’amore per Dio, dal quale dipende l'amore per sé stessi e per il prossimo. Da ciò deriva,
inoltre, che l’attuale ordine del mondo non è l’unico possibile, infatti, tutto ciò che Dio decide di fare ha
valore di legge (potenza ordinata), ed in quanto proviene dalla sua volontà è il meglio. Per Tommaso,
invece, Dio trova un vincolo nella propria perfezione: Dio può fare tante cose, ma di fatto Egli fa il meglio (è
moralmente necessitato).
L’individuazione haecceitas
Le cose create da Dio sono entità individuali distinte, le quali tuttavia presentano proprietà comuni.
Socrate, Platone e gli altri individui hanno qualcosa che li distingue da un cavallo o da una pietra: esso è
appunto l’essenza (o natura) comune, consistente nell'essere uomini. Per Duns Scoto, l’essenza comune
non è distinta dalle cose individuali e non è pertanto dotata di esistenza a parte, ma non è neppure una
semplice entità mentale, come gli universali pensati dall'intelletto. Essa non è di per sé né universale né
singolare, ma indifferente sia all'universalità sia alla singolarità. Secondo Duns Scoto, che su questo punto si
stacca dalla tradizione aristotelica, la materia non è pura passività, ma ha una sua attualità, perché
altrimenti non si distinguerebbe dal nulla: quindi anche la materia è dotata di individualità propria. L'ente
individuale deve contenere in sé qualcosa che non è contenuto nella nozione di essenza comune, ma che la
contrae in modo da essere una cosa determinata nella sua individualità (ad esse hanc rem). Nei Reportata
parisiensia questa determinazione è detta haecceitas, ovvero ciò che fa sì che una cosa sia questa cosa qui.
Anch’essa non ha esistenza distinta dalla cosa singola, ma non è neppure dotata di esistenza puramente
mentale: essa appartiene a ciascun ente realmente. La causa dell'individualità è, dunque, una differenza
ultima, in base alla quale ciascuna cosa si distingue da ogni altra, voluta come tale dal Creatore
(volontarismo divino), che fa essere ogni ente particolare nel modo in cui è. In tal modo, Duns Scoto
riconosce a pieno titolo l'originalità e irriducibilità di ogni ente individuale, facendo a meno della materia
signata quantitate di Tommaso.
La conoscenza intuitiva e astrattiva
L'anima intellettiva è la forma sostanziale dell'uomo, in quanto il pensiero non dipende da organi corporei,
ma il corpo è dotato di una forma della corporeità che lo predispone all’unione con l'anima, creata da Dio e
unita immediatamente. Così anche la resurrezione dei corpi, in quanto unione di essi all’anima, può essere
operata soltanto da Dio. Ma Duns Scoto ritiene che né l'immortalità dell'anima né la resurrezione possano
essere dimostrate, e pertanto sono verità di fede. L’essenza (o natura) comune, che si individualizza nelle
entità reali, si universalizza invece nell'intelletto. Ciò avviene mediante le species intelligibili, che sono gli
oggetti della conoscenza intellettuale. Mentre le immagini degli oggetti colti dai sensi li presentano nella
loro singolarità, le specie intelligibili li presentano sotto l'aspetto dell'universalità. Duns Scoto distingue due
forme di conoscenza:
1. intuitiva (superiore), sufficiente al riconoscimento dell’esistenza attuale della cosa individuale, la
visione diretta di un oggetto.
2. astrattiva (inferiore), prescinde dall’esistenza attuale non curandosene, e tenta di cogliere l’essenza
(o natura) comune, presentandola in forma di species.
Prima della caduta nel peccato originale non era necessaria la conoscenza astrattiva, ma tutto era colto
intuitivamente in una visione diretta, anche Dio stesso, e così sarà nella visione beatificata ultraterrena.
La nuova concezione della scienza
Duns Scoto può, dunque, capovolgere il paradigma scientifico, inaugurando una nuova concezione di
scienza, orientata a una considerazione probabilistica ma possibile dei fenomeni. Gli oggetti di questo tipo
di scienza sono le relazioni di compossibilità tra le res, espresse mediante proposizioni la cui evidenza è
sostenuta dalla semplice intuizione. In questa nuova concezione della natura contingente, l’entità materiale
ha una sua predisposizione a essere formata da tutte le possibili forme, che entrano in combinazione con
essa (in tal modo, Duns Scoto, fa propria la dottrina della pluralità delle forme). Le diverse forme possono
essere sottoposte a misurazione all’interno del composto, i cui elementi costitutivi sono distinguibili perché
rispondono a definizioni diverse e svolgono funzioni diverse. Tuttavia, non sono distinti in modo reale
perché la loro realtà è qualcosa di unico e inseparabile: tra gli elementi costitutivi di ogni cosa c’è una
distinctio formalis.
La distinctio formalis
L’impossibilità per il nostro intelletto di rappresentare e comprendere l’ente infinito, trova un primo
soccorso proprio nel delinearsi di una distinctio formalis tra le perfezioni divine, che pur essendo un’unica
realtà rispondono a distinte definizioni formali. Ma questa distinctio viene estesa anche alle operazioni
divine ad extra, cosicché non comporta alcuna alterazione dell’unità divina il fatto che il Verbo si relazioni
formalmente in modo particolare alla Creazione. La Creazione è una conseguenza della predestinazione di
Cristo, infatti, il mondo viene creato allo scopo di accogliere il Verbo che si distingue formalmente dalle
altre due persone trinitarie, in quanto caratterizzato dal perfetto relazionarsi ad extra dell’amore divino. Il
Verbo incarnato scende in terra anche per correggere l’orientamento deviante della storia umana causato
dal peccato di Adamo. La stessa Maria certamente è esente dal peccato in quanto predestinata ad
accogliere il Cristo: immacolata concezione e assunzione.
La libera volontà umana
La volontà umana, il cui fine è raggiungere Dio, è superiore all'intelletto; su questo punto Duns si
contrappone nettamente al primato dell'intelletto e della vita teoretica, sostenuto da Tommaso e dalla
tradizione aristotelica. L'intelletto, infatti è determinato dai suoi oggetti, dipende da essi, mentre la volontà
è libera, non ha altra causa che sé stessa e si serve dell'intelletto come di uno strumento conoscitivo.
L'assenso della volontà non è causato necessariamente dalla bontà dell'oggetto, essa è libera di sceglierlo
come di rifiutarlo. La volontà nel tendere al bene infinito, attraverso beni particolari, non è dipende
necessariamente dalla graduatoria imposta dall’intelletto. Anche sul piano morale vi sono due legislazioni:
1. la legge naturale corrispondente alla potentia ordinata.
2. la suprema legge divina corrispondente a quella absoluta.
La Rivelazione guida la volontà nel suo perfezionamento, dal rispetto della legge naturale (perseguire
sempre il bene) a quello della legge divina, che aiuta l’uomo con normative superiori (il decalogo e il
comandamento dell’amore a Dio e al prossimo). Solo la Rivelazione può mostrare cine orientarsi nella
scelta dei beni particolari in coerenza con il Bene supremo. La virtù più alta è per Duns Scoto la carità, ad
essa Dio risponde con la grazia, ossia con il suo amore e con il premio della beatitudine, conferito
liberamente per i meriti che gli sembrano degni di essere premiati.

Gugliemo di Ockham XIV secolo, maestro allo studium francescano di Londra, detto “Venerabilis
Inceptor”.
La teoria della conoscenza
Il suo scritto più importante, la Summa totus logicae, segue l'ordine dei trattati logici aristotelici,
affrontando in successione il problema dei termini, delle proposizioni e dei ragionamenti o sillogismi:
termine è ciò che entra o può entrare a far parte di una proposizione. Ockham distingue fra termini mentali
(pensiero) ed extra-mentali (linguaggio e realtà): tutti questi termini designano direttamente le cose.
Tuttavia, quelli extra-mentali sono convenzionali, in quanto possono variare i suoni o le lettere con i quali
una stessa cosa può essere designata in lingue diverse. Invece, il termine mentale è il segno naturale di una
cosa e non ha pertanto alcuna convenzionalità, le cui proprietà convengono anche per gli altri due tipi di
termini. La sua riflessione logica parte dal presupposto che il fondamento della corrispondenza tra il
significare mentale e il significato extra-mentale, è da ricercare nella corrispettiva singolarità dell’elemento
concettuale atomico. Lo studio della logica comincia con quello dei significanti, immediati e semplici, nel
quale va ricercata la condizione di corrispondenza tra pensiero, linguaggio e realtà. Guglielmo comprende,
come Duns Scoto, che soltanto l’intuizione possa essere preliminare a ogni acquisizione del sapere. Ma, a
differenza di Scoto, ritiene che non soltanto è evidenza intuitiva la percezione diretta della presenza esterna
dell’oggetto, ma anche i propri atti interiori, le operazioni intellettuali e i moti immediati dell’anima. E in
questa sfera dell’interiorità intuitiva primeggiano i principi primi logici: A è A; A è diverso da -Non A; Oltre A
e -Non A non è possibile un terzo. Dai principi primi scaturiscono per via deduttiva anche proposizioni
universali necessarie, oggetto immediato della scienza ed evidenti.
La differenza tra intuizione e astrazione
Secondo Ockham è:
• intuitiva ogni apprensione semplice che permette di sapere se una cosa esiste.
• astrattiva una conoscenza che prescinde dall’esistenza o meno dell’oggetto in questione.
La differenza tra i due tipi di conoscenza riguarda soltanto l’habitus da parte del soggetto di cogliere
l’oggetto, non la diversità dell’oggetto. Quando la conoscenza intuitiva ha a che fare soltanto con i termini
logici incomplexa (ossia non ancora congiunti in proposizioni), la sua capacità di essere vera è
esclusivamente relativa alla semplice connotazione significativa del soggetto, non ancora alla sua realtà. La
conoscenza dei complexa (termini logici congiunti in proposizioni) richiede, invece, anche l’assenso e le
proposizioni saranno vere quando saranno confermate dal riconoscimento intuitivo, della sua
corrispondenza con la realtà esterna. Sono vere tutte le proposizioni singolari necessarie, quelle universali
necessarie, quelle singolari contingenti, non vere quelle universali contingenti, prodotte dalla conoscenza
astrattiva non più supportata da quella intuitiva. La possibilità umana di formulare un discorso scientifico,
ossia corrispondente alla realtà, è subordinata a una valutazione della capacità significativa dei termini,
all’interno delle proposizioni che possono pretendere di essere vere.
Le tre forme di suppositio
Pietro Ispano distingueva termini categorematici, capaci di esprimere autonomamente un significato
compiuto, da quelli sincategorematici, incapaci di stare da soli. Quando un categorematico viene inserito in
una proposizione, è necessario specificare per quale delle tante cose di cui è predicativo svolga la funzione
di significare, ovvero di essere messo al posto di qualcosa per indicarlo (supponere pro) e si distinguono vari
tipi di suppositiones. Ockham esclude tutte le suppositiones improprie, secondo le quali il termine è usato
con finalità indiretta, individua così tre forme di suppositio proprie:
1. materialis, quando il termine sta a significare la sua stessa materialità grafica, vocale o verbale.
2. personalis, quando il termine sta per ciò che esso è chiamato a significare, ovvero quando il
termine sta per il suo significato.
3. simplex, quando il termine non sta per il suo significato naturale e primario, ma tende a esprimere
qualcosa di comune alle cose che rientrano nel suo significato personale: diverso da ciò che esse
sono (es. l’uomo è una specie).
Semplice è, dunque, la supposizione che fa corrispondere al termine una proprietà logica, che si presenta
come aliquid commune alle cose significate, ma non è tali cose. Ne segue che quando nella proposizione il
termine svolge una:
 suppositio personalis a esso corrisponde qualcosa di reale.
 suppositio simplex a esso corrisponde sì qualcosa, ma mai una res, bensì sempre un puro prodotto
del pensiero.
Dalla suppositio simplex alla suppositio personalis si ha una discesa verso la concretezza.
I categorematici e sincategorematici
I termini si distinguono in:
 categorematici, dotati di significato definito (per esempio il termine "uomo", che significa tutti i
singoli uomini).
 sincategorematici, che posseggono significato solo in connessione ai primi. Sono sincategorematici
quelli che oggi sono chiamati quantificatori, come "tutto", "nessuno", "qualche", e connettivi
proposizionali, come "e", "o", "se", "poiché", ecc.
Questi ultimi termini, infatti, da soli non hanno significato, ma lo assumono in connessione a termini
categorematici. Un'ulteriore distinzione è tra termini di: 1) prima imposizione, che significano direttamente
le cose e non altri termini del linguaggio (orale e scritto). 2) seconda imposizione, i quali invece designano
termini o parti del linguaggio (per esempio i termini "sostantivo" o "coniugazione"). A loro volta i termini di
prima imposizione si distinguono in termini di prima intenzione, che designano oggetti esistenti realmente
fuori dalla mente, come "uomo", "cane", "cavallo" ecc., e i termini di seconda intenzione, i quali designano
invece concetti della mente, come "universali", "specie", "genere", e così via. Un termine singolo, in quanto
segno di una cosa, ha significatio, la quale si distingue dalla suppositio: la proprietà dei termini di stare al
posto di qualcosa, in veste di soggetto o predicato. Ockham distingue vari tipi di suppositio:
1. personale, quando il termine sta soltanto per il suo significato proprio, ossia significa solamente
una realtà individuale, come nella proposizione "l'uomo corre" , dove "l'uomo" può significare solo
individui reali (Socrate, Platone, ecc.), gli unici in grado di correre.
2. semplice, quando il termine sta al posto di un concetto che non è il segno naturale di quel termine,
come nella proposizione "l'uomo è una specie", dove "uomo" non sta per individui singoli (ossia per
il suo significato vero e proprio), ma per un concetto mentale (quello di specie).
3. materiale, quando il termine sta al posto non di un concetto o termine mentale, ma di un termine
scritto o orale, come nella proposizione "uomo è un nome di 4 lettere", dove "uomo" sta al posto
del termine scritto "uomo".
Sulla base della teoria della suppositio è possibile affrontare il problema della verità o falsità delle
proposizioni. Intanto, Ockham precisa che la verità non è una entità dotata di esistenza indipendente dalla
proposizione: la verità di una proposizione coincide con la proposizione vera; e così è per la falsità.
Gli universali
Diversamente dalle parole, che sono suoni convenzionali, i termini mentali o concetti sono segni naturali
predicabili di più cose. In questo senso essi sono universali: tale universalità dipende soltanto dal fatto che
questi segni possono essere predicati di più cose. Di per sé, invece, ogni concetto è un’entità individuale;
Ockham rifiuta tutte le forme di realismo, che considerano l'universale esistente realmente, anche se solo
in potenza nelle cose. Per descrivere la posizione di Ockham è stata usata dai moderni l'etichetta di
nominalismo, ma occorre avvertire che essa non coincide con il nominalismo di un Roscellino, per il quale
gli universali sono solo suoni. Per Ockham, invece, gli universali sono segni, non istituiti deliberatamente,
ma naturali in quanto sono prodotti nell'anima: essi hanno un’esistenza mentale come segni di più cose
particolari. L'universale è segno nel modo in cui il fumo è segno del fuoco o il lamento è segno del dolore.
L’universale è tale soltanto nell’anima, dunque, non ha realtà ma quando, con la suppositio personalis,
viene utilizzato per indicare qualcosa fuori dell’anima, allora significa la realtà di tutti gli individui concreti.
Fuori dell’anima non esiste alcun prodotto dell’anima, l’universale non è altro che un’intentio che orienta il
conoscente verso la somiglianza tra due o più cose. Esso ha una natura intenzionale, nel senso che "tende
verso" (intendit) l'oggetto di cui è segno. Così il termine universale “uomo” è segno non di una presunta
entità universale uomo o umanità, bensì di Socrate, Platone e i singoli individui umani. Ciò è reso possibile
da una somiglianza che intercorre fra Socrate, Platone e i singoli individui umani distinguendoli, per
esempio, da un cane o da una pietra. Ma ciò non vuol dire che la somiglianza sia un' entità dotata di
esistenza autonoma, la quale viene ad aggiungersi alle entità singole tra le quali intercorre: la somiglianza
tra Socrate e Platone significa soltanto che, per esempio, Socrate è bianco e Platone è bianco. Anche i
concetti di relazione, quindi come quello di somiglianza, non sono dotati di esistenza autonoma.
I “rasoi di Ockham”
La logica è lo strumento per conoscere l’opera di Dio, non si danno se non res singolari, con proprietà
individuali, contingenti, che costituiscono un mondo aperto a molteplici possibilità. Questa logica porta
Ockham a un’innovativa concezione dell’essere tale da demolire le elaborazioni scientifiche e metafisiche
che l’hanno preceduto (esemplarismo). In quest’opera di demolizione è operante il principio metodico
detto “rasoio di Ockham”, benché egli non sia stato il primo a formularlo. Esso è una regola di economia
che prescrive di non introdurre nelle spiegazioni delle cose, più entità di quante occorrano, quindi di non
trasformare parole o concetti in cose realmente esistenti. Si tratta, dunque, di non ammettere più principi
esplicativi di quanti sono necessari, una sua conseguenza è che, non esistendo l’universale, viene meno il
problema dell'individuazione: tutti gli enti esistenti sono individuali e ciò non richiede ulteriori spiegazioni.
Si tratta, nello specifico, di due principi che guidano costantemente Ockham nella sua riforma del pensiero
umano e, dunque, governano la sua metafisica come la sua teologia:
1. il principio dell’assolutezza incondizionata dell’onnipotenza divina.
2. Il principio dell’economia.
Poiché Dio può tutto e poiché Dio è il Sommo Bene “frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” e
poi questo enunciato è corredato da numerosi altri, tra cui ad esempio “non si deve porre alcuna pluralità
se non è necessario”. Il più conosciuto è certamente il seguente: “entia non sunt multiplicanda praeter
necessitatem”.
La nuova concezione della scienza
La scienza non può più essere concepibile come l’esito di un’adaequatio rei et intellectus, ma è sempre
soltanto la formulazione di un discorso sulla verità delle proposizioni. Verità e falsità dipendono soltanto
dalla relazione della proposizione con il modo di essere della cosa. La scienza nasce dall’assenso alla verità
di una proposizione e si ha scienza solo nel caso di proposizioni singolari. Tuttavia, la scienza non concerne i
singolari in quanto mutevoli, ma le intenzioni dell’anima che suppongono per le cose corruttibili, ossia
universali che suppongono per i singolari: gli universali restano, comunque, meri prodotti della mente. Si
dovrà distinguere tra le scienze reali, che risultano da termini che suppongono per realtà extramentali, e le
scienze mentali, che risultano da termini che suppongono per concetti e altre intenzioni della mente. La
scienza deve avere carattere di necessità e procedere per via deduttiva.
La teologia come sapienza
Ockham si domanda se sia possibile costruire una scienza del divino, che rispetti le medesime regole vigenti
per le scienze naturali. Ockham rifiuta la proposta scotista di considerare scienza la theologia in sé. Mentre
invece la theologia nostra, che è l’unica teologia possibile, è esclusivamente ricondotta a dipendere dalla
conoscenza della Rivelazione. La domanda inziale si risolve in quella se sia possibile avere una conoscenza
evidente del dato rivelato: è chiaro che le verità della Rivelazione non sono evidenti né per sé, né per
experientiam. Inoltre, per il principio di economia è impossibile che Dio abbia proposto all’uomo come
oggetto di fede qualcosa che potrebbe essergli noto in modo evidente anche per altra via. Vi sono, tuttavia,
per il credente, oltre le conoscenze offerte dalla Rivelazione, conoscenze di ordine teologico che possono
essere riconosciute come necessarie. Sono predicazioni teologiche posteriori alla fede, che supponunt pro
Deo, dicono cioè qualcosa di dicibile su Dio. La teologia, non è comunque scienza, ma è qualcosa di più della
scienza stessa: è una conoscenza di ordine sapienziale. Dio non è conoscibile da parte degli uomini, tuttavia,
l’uomo ha avuto in dono la Sacra Scrittura, che sola indica le vie per parlare veramente di Dio, e per dare al
termine Dio una capacità suppositiva esplicabile in un discorso sul suo significato.
Volontarismo morale
Ockham ritiene che intelletto e volontà non siano entità realmente distinte dall'anima. Realmente distinti
sono gli atti di intellezione o di volizione, ma ciò non implica una distinzione reale tra le facoltà che li
originano. Tali facoltà differiscono tra loro soltanto di nome: ciò che opera è sempre e soltanto l'anima. Dal
momento che non esistono gli universali nelle cose, per spiegare la formazione dei concetti non è più
necessario ammettere l'esistenza di un Intelletto. L'anima in quanto volontà non è determinata
dall'intelletto, essa è libera non solo di scegliere tra due contrari, ma anche di autodeterminarsi. L'esistenza
della libertà non è dimostrabile, ma l'esperienza attesta ad ognuno che la volontà può rifiutare ciò che la
ragione gli comanda. La libertà non è altro che la stessa volontà umana in quanto capace di produrre effetti
contrari. L'esperienza ci mostra che esistono uomini che non tendono a un bene infinito e alla felicità,
ritenendoli irraggiungibili: ciò significa che non si può dimostrare né che la tendenza a un bene infinito è
costitutiva della natura umana, né il contrario. Possibile tuttavia che Dio, se vuole, si ponga come fine delle
creature, ed è proprio questo ci fa conoscere la rivelazione: sulla sua base si costituisce la morale teologica.
La morale teologica
Un atto morale è tale, in primo luogo, se è orientato verso il fine, cioè verso Dio, e si configura come amore
di Dio che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male: nessuno dei 10 comandamenti è valido di per sé, se si
prescinde dal comando di Dio stesso. La regola fondamentale consisterà allora nell'agire in conformità al
volere di Dio. Per essere moralmente buono, tale agire deve essere libero e non il risultato di una
costrizione, neppure da parte di Dio. Con la retta ragione l'uomo decide la conformità dei singoli atti al
comando di Dio e in relazione alle circostanze, mentre il destino ultraterreno degli uomini dipende soltanto
da Dio: che concede liberamente la sua grazia a chi vuole salvare e nulla esclude che egli possa concederla
anche a chi vive soltanto secondo la sua retta ragione. Ma se è così, perde ogni centralità la funzione
mediatrice della Chiesa nell'economia della salvezza.
La libertà della fede
La libertà della fede è, per Ockham, il fondamento della sua aspirazione a svincolare e purificare la Chiesa
dai suoi condizionamenti terreni. La stessa radicalità francescana è da intendersi come il tentativo di
realizzare i comandamenti nelle forme indicate dai testi evangelici, all’interno di una condizione di assoluta
libertà da parte dei fedeli. Ockham indica, inoltre, il ruolo del potere pontificio, finalizzato alla guida
dell’intero genere umano verso la beatitudine promessa con la redenzione. Nel cuore di questa
rigenerazione ideale della Chiesa storica brillano gli effetti del principio di economia, che demolisce ogni
struttura falsa e falsificante sovrapposta dagli uomini con i loro artifici. Lo Stato è istituito allo scopo di
consentire e salvaguardare una vita pacifica e ordinata, e ha potere legittimo quando esso è accettato dai
cittadini. Rispetto al potere civile si distingue la Chiesa, che non è altro che la moltitudine di tutti i fedeli dai
tempi dei profeti e degli apostoli sino ad oggi. Nel corso dei tempi essa ha riconosciuto e sancito le verità
che devono essere credute per fede: in essa pertanto risiede l'infallibilità in materia religiosa, e non nel
papa. In generale Ockham confuta, la tesi che il papa abbia ricevuto da Cristo la pienezza del potere anche
nelle cose temporali. Cristo stesso dice: "date a Cesare ciò che è di Cesare", riconoscendo in tal modo
l'autonomia del potere civile. Da ciò scaturisce l'indipendenza del potere imperiale, che per essere
legittimato non ha bisogno di ricevere l'investitura papale. Nel Dialogus, uno dei suoi trattati antipapali per
eccellenza, sostiene che il papa non sia la Chiesa, che il papa non sia regula fidei, che al di sopra del papa vi
sia il concilio, la Scrittura, l'universale Chiesa invisibile.

Meister Eckhart XIII-XIV secolo, mistico domenicano e maestro di teologia a Parigi.


La mistica speculativa
L’obiettivo della predicazione e degli scritti di Eckhart è condurre al punto più alto dell’esperienza religiosa,
individuato nell’unione mistica con Dio. Ma a tale scopo è necessari anche la comprensione filosofica e
teologica del fondamento di tale esperienza: per questo aspetto la posizione di Eckhart è definita come un
misticismo speculativo. Componente essenziale di esso sono tematiche proprie della tradizione
neoplatonica, confluite e riformulate in ottica cristiana negli scritti dello Pseudo-Dionigi. Eckhart vuole
dimostrare filosoficamente le verità più alte comunicate dalla Scrittura, riguardanti Dio, la Trinità,
l’Incarnazione e la redenzione. L’uomo è ciò che è in relazione ad altro, ma per raggiungere la quiete
nell’unità deve abbandonare ogni cosa e negare tutto: Eckhart sancisce una contrapposizione tra il nulla
delle creature e Dio. La via per ricongiungersi a Dio è, appunto, il distacco da tutte le cose e da sé stessi,
cioè da tutto ciò che non è Dio: rinunciare a tutto ciò che è finito rimanendo “nudi e spogli”. Questo
distacco non dev’essere confuso con la vita in solitudine, intensa come separazione puramente fisica dal
mondo; si tratta invece di far morire tutto ciò che appartiene alla creatura, per consentire in sé la nascita
del divino: in ciò consiste la deificatio. Ma il farsi tutt’uno con Dio non è un’operazione esclusivamente
intellettuale: avere il pensiero di Dio, poiché tale pensiero può venire meno in qualsiasi momento. Ciò che
non può cessare è solo l’unione con l’essenza di Dio, che coinvolge la creatura interamente, nella sua
dipendenza totale da Dio. Tuttavia, la deificatio avviene non per merito della creatura, ma soltanto per
grazia divina, infatti, in quanto partecipa del nulla nessuna creatura è di per sé buona e giusta. Di qui la
svalutazione delle opere esterne nell’economia della salvezza: buone e giuste sono soltanto le opere che
seguono all’unione mistica, ma in questo caso sono il frutto della giustificazione divina. Anzi, il vero agente
di tali azioni è in tal caso Dio stesso, con cui l’uomo è diventato una cosa sola.
L’essere e la creazione
Eckhart riprende la dottrina dell’analogicità dell’essere, sostenuta da Tommaso, e la reinterpreta nel senso
che l’essere può essere predicato delle creature soltanto in quanto lo ricevono in prestito da Dio. Tutto ciò
che le creature sono, lo sono soltanto in virtù di Dio, infatti, in sé stesse le creature sono puro nulla. Anche
di Dio non si può propriamente dire che è l’essere, ma solo che lo è in quanto ne è la causa: Dio è principio
primo assoluto, l’Uno (neoplatonico). Su questo punto Eckhart si riallaccia alla tradizione della teologia
negativa, ma anche come Uno, Dio è inteso sempre in relazione ad altro, ovvero a ciò che è molteplice. E
poiché ciò che è molteplice è nulla rispetto a lui, Dio è la negazione della negazione: Dio è il nulla super-
essenziale, sovrabbondanza di perfezione e superiore ad ogni finitezza di cui è la negazione, una “quiete
deserta”. Dio trae fuori dal nulla le creature con un atto di libera volontà: in ciò consiste la creazione del
mondo, che non aggiunge nulla a Dio stesso. Dio è distinto e trascendente rispetto alle creature, ma al
tempo stesso è celato in esse come fondamento del loro essere, senza che ciò significhi una sua totale
identificazione con il mondo. Tutte le creature hanno in sé l’immagine di Dio (nel senso di teofania), ma
solo l’uomo è stato creato a propria immagine e somiglianza di Dio, ed è destinato ad identificarsi con essa.

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