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PRIMA PARTE: LE IMMAGINI, I TESTI, LA STORIA DELL’ARTE 

Per definizione, l'arte, per mezzo di immagini predisposte da professionisti che, dal Rinascimento,
definiamo col temine di «artisti», oltre a possedere valori estetici, tecnici, economici in rapporto alle
modalità della produzione dei manufatti e alla mercificazione di questi ultimi, comunica anche contenuti di
natura socio-culturale: si tratta di contenuti di tipo logico-discorsivo e di tenore del tutto concettuale, che si
possono definire come letterari, religiosi, politici, filosofici e, dal secolo XX, anche «psicologici». Gli artisti
sono capaci di applicare a questo scopo tecniche specifiche, a volte molto raffinate, volte a costruire
figurazioni dotate di senso che possono essere interpretate secondo livelli di lettura diversificati, a seconda
delle competenze culturali (cioè delle conoscenze) che sono in dotazione ai vari tipi di pubblico. 

Un osservatore dotato di larghe conoscenze generali (in campo letterario, storico, religioso, ecc.) e di
competenze specifiche, ad esempio sulla storia delle tecniche artistiche (come l'affresco o l'incisione ad
acquaforte) e di restauro, sulla letteratura artistica (come le Vite degli artisti scritte da Giorgio Vasari alla
metà del 500), oppure informato in modo approfondito sullo stato attuale delle ricerche in campo storico-
artistico su singole personalità (ad esempio Raffaello o Van Gogh), sarà in grado di cogliere molti aspetti
delle opere d'arte che «esamina»; viceversa, un osservatore completamente all'oscuro di queste
informazioni dovrà limitarsi a recepire solo gli aspetti formali delle opere che «guarda», arrestandosi a uno
stadio che potremmo definire come quello della semplice ingenua «ammirazione», senza poter
comprendere alcuno dei (eventualmente) vari registri (o livelli) di significato di quelle opere. 

Uno dei principali motivi è che in effetti le opere d'arte, nei secoli scorsi, venivano realizzate su diretta
ordinazione di committenti che generalmente erano consapevoli del carico di significati che intendevano
«immettere» nelle immagini che essi richiedevano agli artisti, e che spesso collaboravano con questi ultimi
alla definizione dei soggetti da raffigurare. 

Si aggiunga poi che la grande maggioranza delle opere d'arte realizzate dall'uomo sul suolo dell'attuale
Europa nell'arco di almeno 15 secoli (dal secolo IV al secolo XVIII dell'era cristiana) ha avuto carattere
religioso-sacro ed origine da commissioni di uomini di Chiesa o di fedeli e dunque ha trattato di contenuti di
natura teologica basati sui testi sacri originali interpretati alla luce della successiva tradizione esegetica.
Molte di queste raffigurazioni sono difficili da decodificare senza un'adeguata preparazione. Dunque
guardare un'opera d'arte, per esempio un dipinto esposto nel contesto di una mostra o di un museo, non
comporta necessariamente la conseguenza di comprenderne il corretto significato, o meglio la completa e
corretta sfera di significati (a cominciare da quello letterale, per finire con quello concettuale, storico,
estetico, ecc.). Il verbo guardare, che deriva dal germanico wardon (sorvegliare con gli occhi, e dunque
custodire, fare la guardia [a qualcuno o qualcosa]), non implica necessariamente la comprensione di ciò che
viene guardato, a differenza di quanto concerne invece il verbo vedere, che viene dal latino vidère, a sua
volta derivato dalla radice indoeuropea weyd- che implica l'idea del conoscere e dunque sapere. È tipico
l'esempio del perfetto “of8a” (pronuncia: òida) del greco antico, che letteralmente vuol dire ho visto, ma
che si deve tradurre come so con certezza: infatti sottintende un discorso di questo tipo: «so, perché ho
visto: avendo constatato con i miei occhi, posso dire di aver appreso con la vista». Le locuzioni in uso
nell'italiano odierno parlano peraltro chiaro: si dice infatti «ieri ho visto una mostra» (e non «ieri ho
guardato una mostra») e «Si, ho visto!» per significare di aver compreso bene una situazione (e non «ho
guardato»); in quest' ultimo senso si usa appunto il verbo «vistare» (da usare esclusivamente nella
locuzione «vistare un documento») per intendere di aver apposto un visto a un documento per approvarlo,
dopo averlo senz'altro letto e controllato. Non è un caso che proprio Saper vedere: come si guarda un
'opera d'arte fosse il titolo di un importante manuale scritto da Matteo Marangoni (1876-1958) nel 1933, al
tempo in cui la storia dell'arte italiana era ancora ai suoi esordi nel mondo accademico (il titolo esplicita che
il vedere è appunto la modalità più specificamente cognitiva della più generale categoria del guardare). Va
però detto che gli assunti di questo libro favorivano esclusivamente una lettura dele opere d'arte - da
condurre sugli originali, «da vedere e rivedere» in un processo di assimilazione profonda - in chiave
sostanzialmente puro-visibilista (che privilegiava elementi quali lo stile e la forma) avversando invece del
tutto l'analisi filologica (basata sulla ricerca storica, sull'analisi della documentazione, sulla ricostruzione
delle personalità degli autori e sulla catalogazione delle opere per autore e per cronologia) e l'analisi
iconografico-iconologica (relativi ai contenuti di natura testuale e simbolico-allegorica). Si tratta dunque di
un «manuale» importante sotto il profilo della storia della critica d'arte ma tale da non adattarsi a quelli che
sono i nostri scopi in questo corso... 

A cercare di interpretare molteplici significati (spesso stratificati e coordinati tra loro, come vedremo) che le
opere d'arte contengono e che hanno il compito di comunicarci, provvedono gli studiosi di professione, gli
storici dell'arte, in particolare gli ICONOGRAFI e gli ICONOLOGI. Gli storici dell'arte hanno una formazione
specialistica in chiave storica e sono essenzialmente degli storici specializzati nelle ricerche (per lo più di
natura archivistica e documentale) sulle vicende della produzione delle opere d'arte nella storia, nelle vite
degli artisti e nella ricostruzione dei contesti nei quali essi operarono. I migliori storici dell'arte hanno un
approccio multidisciplinare e interdisciplinare, collegandosi a discipline quali la storia tout court, la filologia,
la paleografia, la diagnostica delle opere d'arte, il restauro, la storia del collezionismo, la museologia (una
disciplina vertente sulla storia e sulla teoria delle istituzioni museali), la museografia (una disciplina
complementare a quella precedente e vertente sulla organizzazione, anche sotto il profilo architettonico,
dei musei), la storia della letteratura, la storia della filosofia, la storia della musica, ecc. 

Gli ICONOGRAFI e gli ICONOLOGI sono storici dell'arte che si specializzano nella decodifica del significato
letterale e concettuale delle immagini; non di rado essi sono organici al mondo accademico universitario. La
loro preparazione è - e deve essere – assai più raffinata e complessa della media, poiché essi sono
fondamentalmente degli STORICI DELLA CULTURA UMANA (in particolare di quella occidentale: in sostanza,
della cultura europea). Lo strumento di indagine degli iconografi e degli iconologi - che non devono mai
perdere né l'approccio filologico né il contatto diretto con le opere che studiano - è il continuo confronto
fra testi e immagini, al fine di far emergere i significati profondi di queste ultime. Questo confronto viene
attuato necessariamente con il supporto della ricerca storica condotta in chiave filologica e archivistica;
oltre che nel museo, la ricerca iconografico-iconologica si compie in particolare all'interno delle biblioteche,
in una prospettiva che privilegia l'approccio intellettualistico all'opera d'arte: non a caso la massima
istituzione mondiale nel campo degli studi di questo tipo, il Warburg Institute di Londra, si fonda proprio
sulla fornitissima biblioteca raccolta e ordinata da Aby Warburg, che è ritenuto il fondatore della moderna
iconologia. 

Da quel che si è appena detto consegue che anche un pubblico di elevata cultura che però non abbia una
formazione specialistica in tal senso (letteraria, figurativa, storica, religiosa, ecc.) non è in grado di attingere
i livelli di significato più riposti che si celano all'interno di molte opere d'arte - in particolare quelle di
argomento religioso-sacro. È invalsa, dal secolo XIX, la convinzione (errata) che l'insieme delle arti, e in
particolare le arti visive, si fondi su un linguaggio universale e ciò vale (altrettanto erroneamente) anche per
la musica. Di conseguenza si ritiene che tutti possano pertanto fruire in maniera istintiva ed epidermica
dell'intera gamma di registri espressivi e semantici che l’opera reca in dote, limitandosi solo a guardarla
secondo determinati criteri, senza ulteriore studio dei significati della raffigurazione che essa esibisce in
modo esplicito e letterale, o in modo simbolico e allegorico. Questa semplificazione (del tutto ingiustificata
soprattutto se applicata a opere realizzate nei secoli precedenti all'Ottocento) ha portato nel secolo XX a
uno sviluppo al quanto prevedibile, in linea con lo scadimento generale degli studi umanistici. 

E così oggi si sta diffondendo la convinzione che lo studio delle immagini tout court debba essere
soprattutto di competenza dei cosiddetti visual studies (studi visuali, cultura visuale) facenti parte dei
cultural studies (che stanno soppiantando i tradizionali studia humanitatis, cioè gli studi umanistici). Nel
novero dei visual studies non è compresa la Storia dell'arte considerata nell'unica accezione di disciplina
orientata specialmente e unicamente allo studio filologico delle opere d'arte. In tal senso, detto altrimenti,
soprattutto in area anglosassone si ritiene che l'area allargata degli studi relativi all'immagine (nelle
accezioni e sui versanti dello statuto concettuale dell'immagine e dei significati dell'immagine), definibili nel
loro complesso con il termine specialistico di Bildwissenschaf (scienza dell'immagine) possa e debba
comprendere e coinvolgere «l'antropologia, la sociologia, gli studi culturali, gli studi sui media, la cultura
visuale, lo studio delle interazioni simboliche, la fotografia documentaria, le tecnologie dell'informazione,
l'alfabetizzazione visiva, gli studi sull' intelligenza visuale e sulla comunicazione». Da questo elenco, come si
vede, risulta esclusa e rimossa la Storia dell'arte. Ma chi afferma queste cose dimentica che la Storia
dell'arte come disciplina modera nacque nei primi anni del '900 proprio come incrocio tra studio filologico
delle opere d'arte in relazione agli autori (finalizzata alla produzione di cataloghi completi delle loro opere)
e analisi dei significati (in particolare simbolici e allegorici) contenuti nelle immagini artistiche: queste
ultime venivano intese come vere e proprie illustrazioni di testi prodotti (da letterati prima e poi anche da
artisti) per manifestare aspetti e contenuti dell'ideologia dominante o di quelle che si definiscono
controculture e sottoculture. 

Le origini degli studi storico-artistici moderni, avviati nei primi trent'anni del '900 da Aby Warburg (qui a
lato), Fritz Saxl e Erwin Panofsky (fondatori degli studi di ICONOLOGIA), sono caratterizzati pertanto
dall'idea di una perfetta e totale equivalenza (se non addirittura identità) tra STORIA DELL ARTE (come
KUNSTWISSENSCHAFT) e BILDWISSENSCHAFT. La specifica caratteristica della Storia dell'arte concepita
come Bildwissenschaft consiste, tra le altre cose,
1) negli studi storici sull'autore e sul committente delle immagini artistiche, intesi come elementi
integrati in un preciso e definibile contesto socio-culturale;
2) nella importanza conferita alla dimensione testuale delle fonti dell'immagine. Anche i testi (così
come, a loro volta, i loro autori) sono intesi come elementi integrati in precisi e definibili contesti
socio-culturali;
3) Nella valorizzazione delle tradizioni testuali e figurative, intese come continui intrecci di
continuità e discontinuità, queste ultime rappresentate da fratture, soglie, pieghe (pliures), ecc.

Tra i testi-fonte delle immagini e le immagini esiste una forte e continua dialettica culturale in cui le
posizioni sono reciprocamente scambiabili. Dai testi possono derivare immagini che costituiscono
l'illustrazione di quanto è scritto in essi; dalle immagini possono derivare testi - ad esempio le ekphràseis,
cioè descrizioni: quello dell'ékopaci, (al singolare) era un genere letterario praticato durante l'ellenismo,
consistente nel descrivere i soggetti raffigurati nelle opere d'arte - da cui deriveranno nuove immagini; dai
testi possono scaturire altri testi; dalle immagini, soprattutto e specialmente, deriveranno altre immagini. I
prodotti figurativi che scaturiscono da questo processo, se sono legati tra loro per la comunanza del
soggetto e delle tematiche, sono definibili come serie iconografiche, il concatenamento delle quali,
considerato in periodi più lungi, determina, in riconosciute condizioni di continuità e discontinuità, le
tradizioni iconografiche (come la tradizione della Madonna della Misericordia che qui appunto cercheremo
di tracciare). Per definizione, le serie iconografiche e le tradizioni iconografiche, in quanto prodotto di
contesti storico-culturali ben definiti, non possono in alcun modo essere oggetto di studio né della cultura
visuale né della critica d'arte, bensì, propriamente, dell'iconografia e dell'iconologia, che sono discipline di
carattere storico. 

Un'ultima importante precisazione si rende necessaria prima di cominciare. Di séguito analizzeremo una
lunga serie di immagini che contengono riferimenti a versetti biblici, a passi di trattati di argomento
teologico o spirituale e a commentari compilati da esegeti antichi, oppure che sono legate a particolari
tradizioni e costumanze di tipo liturgico o devozionale. Molte di queste raffigurazioni si riferiscono ad
aspetti dottrinali o a culti specifici ben localizzati nel tempo e nello spazio, che furono in vigore in
determinati contesti nei secoli trascorsi e che la Chiesa Romana, nel suo itinerario storico dalle origini alla
contemporaneità, ha poi sottoposto a revisione oppure ha obliterato, specialmente nel periodo successivo
al Concilio di Trento, dopo il 1563. La Chiesa assume che il proprio cammino (in quanto Gerusalemme
terrena) verso la sua entelechia di Gerusalemme celeste proceda nel senso di una sempre maggiore
precisazione dei termini della Rivelazione divina all'uomo e di un suo aggiornamento in rapporto ai
mutamenti storici. È dunque naturale che alcune di queste immagini risultino sconcertanti agli occhi dei
fedeli odierni, occhi che sono aperti alla luce del catechismo contemporaneo: è il caso, ad esempio, del Dio
Padre raffigurato come arciere armato, adirato contro l'Umanità, in una tavola dipinta da Lucas Cranach il
vecchio nel 1516-1518 (Budapest, Museo di Belle arti): un'iconografia ben codificata, legata a contesti
storici segnati dalle epidemie. Certamente non è nei nostri intenti ripristinare tradizioni del passato (non
ambiamo ad addossarci la poco onorevole nomea di eresiarchi!), ma solo cercare di recuperare la corretta
lettura valoriale di figurazioni concepite entro contesti storico-geografici che offrivano coordinate culturali
diverse da quelle attuali. D'altro canto molte di queste immagini ormai desuete sono ancora custodite
all'interno delle nostre chiese e fanno parte, in tal senso, di un patrimonio culturale stratificato e
complesso, che anche i non credenti hanno il dovere di saper leggere e interpretare perché costituisce un
retaggio su cui si fonda tutto il nostro presente ed è dunque parte ineliminabile della nostra memoria
storica.

PARTE SECONDA: LE ICONE DI PROTEZIONE


Nell'esempio di studio che segue prenderemo in esame la categoria di quelle che qui definirò come ICONE
O IMMAGINI DI PROTEZIONE. Si tratta di immagini che l’uomo ha approntato allo scopo di ottenere la
protezione da malattie (come nel caso dello stendardo processionale attivo contro la peste), guerre e in
genere sciagure e disgrazie, oppure la salvezza della propria anima: nel loro novero si trovano pale d'altare
dipinte o scultoree, ex voto e in genere raffigurazioni d'argomento sacro aventi natura e funzione liturgiche
o anche solo devozionali, come è il caso del santino con l'angelo custode. 

Qui vediamo un famoso esempio di immagine di protezione, una miniatura dipinta tra il 1452 e il 1460 da
Jean Fouquet (ca. 1425-ca. 1478) che raffigura la mano di Dio che scende dal cielo a proteggere i fedeli dal
demonio. Il foglio fa parte di un volume manoscritto, il Libro d'Ore di Etienne Chevalier, che ricoprì il ruolo
di Tesoriere di Francia dal 1452 al 1474 (ora nella Lehman Collection, al Metropolitan Museum di New
York). Sotto, ingrandito, si vede il particolare della mano di Dio che scende dal cielo a proteggere i fedeli dal
demonio. La mano di Dio (manus Dei o manus Domini) è un’immagine simbolica riproducente una mano
destra (è infatti anche detta dextera Dei), che significa genericamente l’intervento attivo di Dio nelle
vicende umane affinchè prendano la piega desiderata dalla sua volontà: di volta in volta può assumere una
specifica significazione che va dalla benedizione all'imposizione, dalla minaccia al favore. La riduzione del
corpo di Dio alla sua sola mano si deve alla duplice accezione del lemma ebraico 7', che significa sia mano
sia potenza; inoltre deriva da alcuni versetti del VT (quali Es 3:19-20; Es 14:31). L'arte cristiana dei primi
secoli, di norma fino al secolo X circa ma sporadicamente anche dopo, usò questa figurazione nel rispetto
del II comandamento (Es 20:4; cfr. Es 34:17) e del versetto Dt 27:15 (ai quali si conformò sempre la religione
degli ebrei) che vietavano di creare raffigurazioni di Dio Padre. 

Anche Gesù, per come lo immaginiamo ancor oggi, venne raffigurato tardi dai cristiani. Nella prima fase del
cristianesimo (epoca che definiamo propriamente come paleocristiana, e che giunge sino al VI secolo d.C.),
sulla scia della cultura ebraica, che per tradizione e per legge mosaica era aniconica (cioè non praticava
l’uso delle immagini sacre), non vennero prodotte raffigurazioni dirette di Gesù nè dei suoi familiari, ma
solo immagini che alludevano a lui in chiave simbolica. In una fase successiva, tra III e IV secolo, si diffonde a
Roma l'uso di decorare alcuni ambienti di particolare interesse religioso e liturgico con immagini per lo più
desunte dalla tradizione pagana, che vennero modificate, nel loro significato, in chiave cristiana. È in questo
contesto che si forma il primo nucleo dell'ICONOGRAFIA CRISTIANA (cioè l'insieme di immagini che
illustrano la lettera e i sensi del testo biblico, con molteplici funzioni, da quella memoriale a quella
dottrinale, da quella devozionale e liturgica a quella catechetica). Inizialmente, per un residuo influsso della
cultura ebraica, si evitò di raffigurare direttamente Gesù Cristo in quanto Verbo incarnato, sostituendo
l'immagine del suo corpo storico con veri e propri simboli (il pesce, la croce), o con immagini di natura
figurale (che gli storici dell'arte definiscono impropriamente, e in modo generico, sempre e ancora come
simboli): il buon pastore (esempio tratto dalle catacombe di Priscilla, metà del III secolo), l'agnello (esempio
tratto dalle catacombe di Commodilla, inizi del IV secolo), Orfeo, ecc..Ma poi il primo concilio di Nicea, nel
325, stabilì il Simbolo niceno (Credo niceno), nel quale fu definitivamente sancita la duplice natura divina e
umana di Cristo attraverso l'Incarnazione del Verbo: Crediamo in (...) Gesù Cristo (...) che per noi uomini e
per la nostra salvezza discese e si è incarnato e si è fatto uomo). Da quel momento fu ufficialmente possibile
raffigurare Cristo sotto la specie umana, cioè come uomo in tutto e per tutto.

Tuttavia da qualche tempo si erano già diffuse raffigurazioni umane di Gesù: la prima a noi nota è quella,
datata al III secolo, che si trova nelle catacombe di Priscilla, sul soffitto di una nicchia ospitante la tomba di
una martire: vi si vede la Madonna che allatta il Bambino accanto a un personaggio identificato come
l'indovino Balaam che addita una stella. La presenza di Balaam - uomo moralmente controverso - in questo
contesto dipende dalla profezia che egli, dopo che la Rùah si fu posata su di lui (Num 24:2), pronunciò circa
la venuta del Messia: «Lo vedo, ma non ora; lo contemplo, ma non da vicino: un astro sorge da Giacobbe, e
uno scettro si alza da Israele» (Num 24:17). Ciò condusse a identificare Balaam come uno dei tre Re magi
nell'apocrifo Vangelo arabo dell'infanzia di Gesù. Un' immagine simile, databile alla seconda metà del IV
secolo, compare anche nell'ipogeo di della via Latina: l'uomo indossa la tunica clavata e un ampio pallio
raccolto dalla mano sinistra, mentre con la destra indica un astro a otto punte. Oltre a identificarlo come
Balaam, si è ipotizzato che il personaggio fosse il re David, in base a Sal 110(109):3, che recita: «Dal
grembo, prima della stella del mattino, ti ho generato». Gli antichi esegeti dedicarono molta attenzione a
questo salmo, interpretando il versetto come annuncio della generazione del Lògos e anche come profezia
dell'Incarnazione. Come nota F. Bisconti, «è forse, per questo che l'immagine dell'uomo che indica la stella
entra anche nelle scene di presepe o dell'adorazione dei magi».

Tornado alla miniatura di Fouquet, questo è invece il particolare dei fedeli, con l'incipit della preghiera del
vespro per la liturgia delle Ore dello Spirito Santo (Deus, in adiutorium meum intende; la risposta è Domine,
ad adiuvandum me festina), tratta da Sal 70(69):2. È la preghiera introduttiva a tutte le Ore dei Breviari
romani, ed è obbligatorio farsi il segno della croce mentre la si recita. 

Il campo della ricerca è prettamente quello della cultura cristiana: di conseguenza le immagini che
indagheremo posseggono primariamente una valenza complessa (vorremmo dire «evoluta») di ordine
teologico, dottrinale, devozionale e catechetico (valenza elaborate dallo scriptor di turno, chiamato a
valutare la congruenza della figurazione con i principi della fede cristiana), che mette in subordine - pur non
negandola - la valenza antropologica di base, cioè la funzione magico-apotropaica (che in altre culture viene
gestita ad esempio dallo sciamano). Quelle che evidenzieremo saranno appunto le valenze strutturate di
carattere religioso, in particolare cristiano, derivate dalle fonti testuali (e perciò per noi attingibili a
posteriori dalle medesime). Nel mondo antico le immagini, oltre possedere una valenza referenziale
iconica*, hanno sempre anche un valore magico, nel senso che ri-creano non solo l'aspetto degli oggetti che
raffigurano, ma anche le loro funzioni, i loro utilizzi e la loro essenza più profonda.

*La referenzialità iconica concerne l'effettiva somiglianza (formale e visiva) dell'immagine B all'oggetto
reale A che essa raffigura, come si vede nel sottostante confronto tra le due figure: ciò implica
un'equivalenza tra la cosa reale che viene rappresentata (A) e la sua rappresentazione (B). Proprio questa
somiglianza ha indotto gli uomini a credere di poter influenzare la realtà, e in particolare l'andamento delle
loro vicende, attraverso la manipolazione delle raffigurazioni degli oggetti. Nel mondo antico la valenza che
si attiva subito nelle immagini è quella magico-apotropaica (dal verbo greco apotropào, che significa
allontanare [da qualcuno], tenere lontano [da qualcuno]), la quale assolve la funzione di difendere il
possessore dell'immagine stessa da influssi negativi e spiriti maligni (che nel cristianesimo sono incarnati
dal diavolo). Ancor oggi è viva l'antica usanza di collocare sopra la soglia d'ingresso dei palazzi l'effigie di un
demone dalle sembianze spaventose allo scopo di tenere lontani dagli abitanti gli spiriti e gli influssi
negativi.  

In questa sede tratteremo di una serie di immagini di protezione collegate all'iconografia (cioè alla
raffigurazione codificata nella sua dimensione simbolica e allegorica) della MADONNA DELLA
MISERICORDIA (detta anche della Consolazione), che accoglie i fedeli sotto il suo mantello per proteggerli,
un'immagine religiosa di forte carica devozionale che è stata largamente in uso nella cristianità tra i secoli
XIII E XVII, prima di essere obliterata nel pieno dell'età moderna. L'immagine della Vergine della
Misericordia, come vedremo, nacque solo nel Basso Medioevo, attorno al 1250-1300: affinché gli artisti
potessero crearla e adoperarla (su diretta richiesta dei fedeli, e più precisamente delLe congregazioni dei
fedeli) fu necessario che prima si stratificasse e sedimentasse, lungo l'arco di un millennio, una corposa
tradizione testuale d'argomento mariano (cioè un insieme di testi riguardanti Maria collegati tra loro,
riconosciuti come autorevoli dalla Chiesa e tramandati di generazione in generazione). A comporre questa
tradizione erano testi mariologici di varia natura (inni, odi, omelie, trattati teologici, ecc.), alcuni dei quali
ebbero una vasta diffusione nella Cristianità, tanto da essere recitati ancor oggi nella liturgia. Ma mentre
questi testi sono stati tràditi (cioè tramandati) e commentati (cioè spiegati da autori successivi per mezzo di
commentari) e dunque sono arrivati sino a noi in una forma tale che possiamo comprenderli, l'immagine
della Madonna della Misericordia (assieme al suo relativo culto), dopo aver attraversato un così largo
numero di secoli, ha - per così dire - consumato ed esaurito la propria carica semantica, perdendo in parte
efficacia per il credente odierno e diventando quasi incomprensibile nelle sue motivazioni. Cercheremo qui
di recuperare e di mostrare la pienezza del significato di questa immagine ripercorrendo - seppur
necessariamente in forma molto rapida ed essenziale - le principali tappe della sua formazione attraverso i
testi e attraverso i vari contesti storici. Mostreremo poi anche l'evoluzione delle immagini di protezione
verso derive non facilmente prevedibili e le loro nuove configurazioni, funzionali a diversi contesti, da
quello dei nuovi culti (pienamente e legittimamente religioso) a quello, del tutto laico, del fumetto.

Il principio che regola molte delle immagini che esamineremo si fonda sull’assunto che il mantello sia un
tegimen (o tegmen), cioè una copertura posta a protezione di chi lo adopera o di coloro che si riparano al di
sotto di esso. Nell'antica Grecia si chiamava himàtion (per il latini, pallium), quando era adoperato sopra la
tunica, detta chitòne, tenendolo posato su una spalla; indossato senza il chitone, sempre facendolo passare
sopra una spalla, il mantello prendeva il nome di achìton: era adatto a proteggere dal freddo. Più leggera ed
elegante e di dimensioni minori era invece la clàmide (per il latini paludamentum, sagum, poenula), un
corto mantello usato dai viandanti, che veniva fissata con un fermaglio; tinta di rosso, fu adoperata anche
dagli imperatori (clàmide purpurea). 

Nella Bibbia vari versetti definiscono il mantello come protezione e riparo, in particolare Es 22:25-26, in cui
il Signore dice a Mosè: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo restituirai al tramonto del
sole, perché quella è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?
Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono misericordioso»; cfr.
anche Dt 24:12-13. Si tratta di versetti assai importanti per noi, poiché contengono le parole e le nozioni di
MANTELLO COME COPERTA-COPERTURA, e di INVOCAZIONE DI AIUTO DA PARTE DELL'UOMO, che attiva
la MISERICORDIA DIVINA, e pertanto possiamo ben dire che essi riassumano quella che poi sarà l'idea
stessa su cui si baserà, 2000 anni dopo, l'iconografia della Madonna della Misericordia. I versetti dell'Esodo
spiegano che l'uomo che ha un mantello è protetto e che se un uomo rimane senza mantello verrà allora
aiutato dalla misericordia divina: essi impostano in effetti un'equivalenza tra l'uomo dotato di mantello (per
ripararsi dal freddo e dalle intemperie) e l'uomo aiutato dalla misericordia divina. Si tratta di un principio
fondamentale da cui deriva l'ideale immagine dell'uomo che, protetto dal caritatevole mantello di Dio, si
trova al sicuro dai propri nemici e dai rovesci della sorte. Di qui, basterà poco a supporre, in séguito, che
egli, stando sotto il mantello divino, sia anche al riparo dal rischio di cadere nel peccato. Questa nozione è
avvalorata da un versetto del Vangelo di Marco, in cui il mendicante cieco Bartimeo, decidendo di seguire
Gesù, getta via il proprio mantello prima di essere guarito dal Salvatore: «Poi giunsero a Gerico. E come
Gesù usciva da Gerico con i suoi discepoli e con una gran folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco mendicante,
sedeva presso la strada. Udito che chi passava era Gesù il Nazareno, si mise a gridare e a dire: «Gesù, figlio
di Davide, abbi pietà di mel» E molti lo sgridavano perché tacesse, ma quello gridava più forte: «Figlio di
Davide, abbi pietà di me!» Gesù, fermatosi, disse: «Chiamatelo!» E chiamarono il cieco, dicendogli:
«Coraggio, alzati! Egli ti chiama», Allora il cieco, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. E
Gesù, rivolgendosi lui, gli disse: «Che cosa vuoi che ti faccia? Il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io ricuperi la
vista». Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». In quell'istante egli recuperò la vista e seguiva Gesù
per la via» (Mc 10: 46-52; il particolare del mantello non è registrato nelle relative pericopi degli altri due
sinottici, Mt 20:29-34 e Lc 18:35-43). Questa pericope conferma, a sua volta, l'equivalenza tra l'uomo
dotato di mantello e l'uomo aiutato dalla misericordia divina. Si noterà, infatti, che Bartimeo invoca per due
volte la misericordia di Gesù («Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!»; «Figlio di Davide, abbi pieta di
mel»); avendo ottenuto l'attenzione di Gesù, abbandona il suo vecchio mantello, ormai divenuto inutile, e
nudo e privo di difese si affida a Cristo (cioè si mette con fede sotto la sua protezione), ottenendone la vista.
In quest’ottica, possiamo interpretare I'evento - nel modo in cui lo narra Marco - come la metafora
dell’uomo che rinuncia alle cose mondane per mettersi sotto la protezione della misericordia divina, che gli
ridarà la vista, cioè gli permetterà di vedere e comprendere i veri valori dell’esistenza, che sono quelli
spirituali. Un’altra prospettiva, evidenziata per esempio da Roland Meynet, intende, in chiave paolina, la
deposizione del mantello di Bartimeo come la rinuncia all’«uomo vecchio», dalla condotta peccaminosa:
una rinuncia che ciascuno di noi può compiere e che ci consentirebbe di rinnovarci rivestendoci dell'«uomo
nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4:20-24). 

Occorre peraltro rammentare che gli uomini ebrei devono possedere per mitzvah (cioè come obbligo da
rispettare per comandamento divino) un mantello o scialle di preghiera (citato in Dt 22:12) denominato
tallìt o tallèd, riservato alle preci mattutine (e a quella serale dello Yom Kippur). Questo indumento, con le
sue frange obbligatoriamente prescritte ancora da Dt 22:12, è memoria dell'insieme dei precetti divini e
viatico alla santificazione degli ebrei, secondo la prescrizione di YHWH a Mosè (Num 15:37-40). Il lemma
tzitzit, che nelle versioni italiane del VT è reso con frangia (o fiocco) designa un composto di quattro fili
piegati in due, per un totale di otto fili, che passano per i fori posti agli angoli del tallìt; il più lungo dei fili va
avvolto attorno agli altri; il numero di nodi effettuati per legarli, che sono 5, corrisponde al valore numerico
delle lettere che compongono il nome di Dio, secondo i principi della Ghematria (la disciplina teologica che
attribuisce appunto un valore numerico a parole e frasi che siano scritte in lingua ebraica; ne deriva che
lemmi o espressioni linguistiche che abbiano il medesimo valore espresso in cifre posseggono anche il
medesimo significato). Vale la pena di riportare di séguito versetti succitati: «Metterai delle frange alle
quattro estremità del mantello con cui ti copri» (Dt 22:12), «Il Signore aggiunse a Mose: Ordina agli Israeliti
(...) che si facciano, di generazione in generazione, frange agli angoli delle loro vesti e che mettano alla
frangia di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete
di tutti comandi del Signore per metterli in pratica; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri
occhi, seguendo i quali vi prostitute. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e
sarete santi per il vostro Dio» (Nm 15:37-40). Si ritiene che la mitzvah del tallìt (la prescrizione di usare il
mantello da preghiera) derivi anche da Gn 9:23, che narra di come Sem e lafet coprirono pudicamente con
un mantello le nudità del loro padre Noè (che, ubriacatosi, si era addormentato nudo), proteggendolo dagli
sguardi altrui: «Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano
fuori. Allora Sem e lafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso,
coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto». Noè poi
maledisse Cam, per il suo comportamento scorretto, lodando e benedicendo Sem e lafet. Perché qui il tallìt
ci interessa così tanto? Perché a mio giudizio è in esso che va rintracciata principalmente la radice del
mantello di Misericordia che la Vergine distenderà poi sui propri fedeli. I tipici colori del tallìt, che è un
panno rettangolare bianco striato da righe blu, vengono infatti interpretati come l'estensione della
misericordia divina (il bianco) su cui si innesta a sua volta la giustizia divina. Il predominare del bianco sul
blu viene ricondotto a Es 20:5-6, due importanti versetti che mostrano appunto il predominio, in YHWH,
dell'atteggiamento misericordioso su quello punitivo secondo giustizia; li analizzeremo più avanti, quando
tratteremo del rapporto tra misericordia e giustizia di Dio in una prospettiva cristiana. Pertanto la tradizione
rabbinica ha interpretato l'atto liturgico di indossare il tallìt come un avvolgersi nella misericordia divina,
uno stato di protezione che l'uomo ottiene adempiendo l'obbligo di rispettare i precetti di Dio, come gli
ricorda la presenza delle tzitzyot, cioè delle frange. Il potere misericordioso del mantello e delle sue frange
è notoriamente testimoniato dalla guarigione dell'emorroissa: ‹(...) Durante il cammino, le folle si
accalcavano attorno [a Gesù]. Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era
riuscito a guarire, gli si avvicinò alle spalle e toccò la frangia del suo mantello e subito il flusso di sangue si
arrestò. Gesù disse: Chi mi ha toccato?. Mentre tutti negavano, Pietro disse: Maestro, la folla ti stringe da
ogni parte e ti schiaccia. Ma Gesù disse: Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me.
Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettatasi ai suoi
piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l'aveva toccato, e come era stata subito guarita.
Egli le disse: Figlia, la tua fede ti ha salvata, va' in pace!» (Lc 8:42-48). Non è dunque strano che l'artista
Seymour Drumletvich, proponendo una sua personale rilettura del significato liturgico ed escatologico del
tallìt, abbia realizzato nel 1986-1987 quest' opera in stile «ebraicamente» astratto, intitolata La
Misericordia con le strisce del tallìt (Misericordia with tallìt stripes) nella quale riprende a sua volta una
suggestione delle vetrate progettate dal famoso pittore Ben Shahn per il Temple Beth Zion, la maggiore
sinagoga di Buffalo (NY). Il dipinto è stato acquisito nel 2014 dal Burchfield Penney Art Center, presso il
Buffalo State College. L'utilizzo del manto come simbolo e strumento di tutela e protezione (dettate da un
sentimento di affiliazione, di compassione o di riconoscimento dell'inferiorità di un sottoposto) viene
codificato durante l'epoca romana e di lì trasmesso poi al Medioevo: si concreta e si visualizza al pubblico
per mezzo di cerimoniali - aventi valore giuridico e ufficiale - di accoglimento da parte del protettore, che
pone sotto il proprio mantello il soggetto sottoposto, e di atti di dedizione da parte del sottoposto, che
accetta di essere ricoperto dal manto del protettore. In tal modo vengono riconosciuti o adottati figli
illegittimi (col rito dell'adoptio), o vengono posti sotto protezione individui che sarebbero altrimenti
perseguibili. All'inizio del secolo XIII il cardinale Cencio Savelli, futuro papa Onorio III († 1227), quando era
ancora camerarius (cioè camerlengo), compilò un Ordo romanus (definito come Ordo romanus di Cencio
Camerario) in cui descriveva la cerimonia della consacrazione dell'imperatore in quanto Filius Ecclesiae.
Durante il rito il papa chiedeva per tre volte al consacrando imperatore se egli accettasse di diventare Figlio
della Chiesa, ottenendo come risposta «Volo» (Sì, lo voglio); al terzo Volo, il papa pronunciava la formula
«Et ego te recipio ut Filium Ecclesiae» (E io ti accolgo come Figlio delia Chiesa), ponendolo sotto il suo
mantello («et mittit eum sub manto», scrive Cencio, adoperando precisamente la formula dell'adoptio); a
quel punto l'imperatore doveva baciare il petto del pontefice. In quest'ultima usanza si coglie forse un
riflesso del versetto che narra come il profeta Elia scegliesse Eliseo come successore compiendo l'atto di
gettargli addosso il proprio mantello: «Partito (...) [dal monte Oreb], Elia incontrò Eliseo figlio di Safât.
Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava la dodicesima coppia. Elia,
passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli:
«Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va' e torna, perché sai bene che cosa
ho fatto di te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece
cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e segui Elia, entrando al suo
servizio» (1 Re 19:19-21). Il potere profetico di Elia, come poi meglio diremo in un'altra sezione, viene in
effetti a manifestarsi anche per mezzo del suo mantello, con il quale egli compie atti miracolosi, aprendo le
acque del Giordano (2Re 2:8). Tempo dopo, Elia fu rapito in cielo da un carro di fuoco; allora Eliseo raccolse
il suo manto e, come aveva fatto Elia, con esso divise in due le acque del Giordano per attraversarle (2Re
2:14).

Prima di cominciare, rammentiamo un basilare concetto di ordine mariologico che consentirà di


comprendere meglio le implicazioni ecclesiologiche (cioè legate alla definizione, alle funzioni e alla storia
della Chiesa Romana). Come esemplificano bene queste due opere di Jan van Eyck, nelle quali Maria
giganteggia all'interno del tempio cristiano, la Vergine è immagine cardine e figura stessa della ecclesia,
cioè della Chiesa Romana intesa come insieme dei fedeli e soprattutto come gerarchia ecclesiastica di
sacerdoti presieduta dal pontefice e dai vescovi. In altri termini, Maria rappresenta simbolicamente e
allegoricamente la Chiesa cattolica sia nelle immagini sia nei testi. Con precisione la teologia patristica
vedeva in Maria la figura della Chiesa, facendone al contempo tanto la Mater Christi quanto la Mater
Ecclesiae e ponendo pertanto in tangenza la mariologia con l'ecclesiologia. Ci limitiamo a ricordare, tra i
primi, Ireneo di Lione (1202), che affermava che la Vergine, nel pronunciare il Magnificat, stava
profetizzando la nascita della Chiesa (Adversus haereses, II, 10, 3), e il papa copto Cirillo di Alessandria
(†444), il quale nel 431 scriveva in una sua omelia che «Maria, la vergine sempiterna, (...) è chiaramente la
santa Chiesa»; dal canto suo Anastasio, monaco del monte Sinai († post 700), nel suo Hexaemeron così
pregava: «Benedetta sei tu tra le donne, (...) gloriosa Madre di Cristo, tu Chiesa santa, e benedetto è il frutto
del tuo seno, il popolo di tutte le nazioni viventi». Infine, Beda il venerabile (†735), fissò nella formula «Dei
Genitrix Ecclesia» l'identità tra la Mater Christi e la Mater Ecclesiae (Commento al Vangelo di Luca, I, 2). 
Nel novero dei molteplici temi che compongono la dimensione simbolico- allegorica della Vergine
(soprattutto in chiave ecclesiologica), dedicheremo una specifica attenzione all'analisi del suo principale
attributo iconografico: il mantello.

PARTE TERZA: IL COLORE DEL MANTO DI MARIA 


Il mantello di Maria non è sempre stato di un unico colore, ma nel corso dei secoli ha assunto diverse
colorazioni che non erano legate a fattori di gusto o a mode, bensì dipendevano sostanzialmente dagli
sviluppi della mariologia e riflettevano ed esplicitavano il progressivo arricchimento dell'accezione di Madre
di Dio, costruendo in tal modo una figura di donna che risulta via via sempre più protagonista della storia
sacra. Come riassume M. PASTOUREAU, Blu. Storia di un colore, Milano 2002, pp. 50-51, nell'arte
paleocristiana il mantello di Maria poteva avere diverse colorazioni, tutte inevitabilmente cupe e scure
(nero, grigio, bruno, viola blu scuro o verde cupo) tendenti a sottolineare l'idea del lutto per il Figlio morto. 

Questa tradizione dura molti secoli: ancora alla fine del secolo XIII Giotto di Bondone, nelle sue tavole,
veste la Vergine di un mantello di colore nero oppure di un blu molto scuro (che nella classificazione
cromatica di quel tempo, molto empirica, era assimilabile al nero). 

Tuttavia nella tavola della Madonna col Bambino del 1330, destinata ad essere posta sopra uno degli altari
della chiesa di Santa Croce a Firenze (forse l'altare della cappella Peruzzi o quello della cappella Pulci
Beraldi) e ora conservata nella Samuel L. Kress Foundation di New York, Giotto schiarì il colore blu del
manto, colorandone addirittura di verde chiaro e giallastro l'interno. Più avanti illustreremo anche
l'iconografia della presenza (o della consegna) della rosa tra la Madre e il Figlio. Fra il 1200 e il 1400 il blu -
spesso ottenuto tritando il prezioso lapislazzuli - diviene il colore del manto di Maria, come in questa tavola
di Masaccio agli Uffizi, realizzata fra il 1426 e il 1427 per Antonio Casini (che a quel tempo era appena
divenuto cardinale), e raffigurante l'insolita iconografia della cosiddetta Madonna del solletico. Il colore blu
allude alla luce del cielo, destinazione di Maria Assunta, che è anche Regina Coeli; il rosso della veste rinvia
invece a una serie di temi, dall'ardore dell'amore per il Figlio all'inesprimibile dolore provato per la sua
morte cruenta, così come anche, verosimilmente, all'opera svolta dallo Spirito Santo nella vita della
Vergine. Inoltre l'uso del lapislazzuli, materiale assai costoso poiché proveniente dalle miniere dell'attuale
Afghanistan, denunciava immediatamente, all'occhio di chi guardava il quadro, il valore intrinseco del
manufatto e la spesa che il committente dell'opera aveva dovuto affrontare per farla realizzare; così come
costoso era anche il fondo oro, ottenuto applicando con cura una sottile foglia aurea sull'imprimitura (lo
strato di preparazione) del dipinto. In tal modo il dispendioso omaggio reso alla Vergine era platealmente
esibito al pubblico, esaltando la munificenza del committente e incrementando il suo prestigio presso i suoi
concittadini. 

Come si vede in questa raffigurazione della Pentecoste dipinta da Duccio di Buoninsegna, lo Spirito Santo
scese sotto rosse lingue di fuoco sopra la Vergine e gli apostoli congregati in preghiera, conferendo loro i
carismi linguistici atti a condurre l'evangelizzazione delle genti (At 2:1-4). È questo il motivo per cui nella
festività della Pentecoste il celebrante officia la messa indossando paramenti di colore rosso, come
prescriveva già all'inizio del sec. XIII Innocenzo III nel suo trattato De sacro altaris mysterio.

Alcuni pittori raffigurarono Maria completamente vestita di blu, come avviene nella Maestà della Vergine di
Duccio di Buoninsegna, (1311-1324, Massa Marittima, San Cerbone) e nell'anta destra del Dittico Wilton
(1395-1399, Londra, National Gallery). Lo stesso si vede anche nella Annunciazione di Lorenzo di Credi
(1480-1485, Firenze, Uffizi). Qui, sotto la scena dell'Annuncio, sono raffigurate scene del Libro della Genesi
riguardanti Adamo ma in particolare Eva: con ciò s'intende significare che Maria è la nuova Eva, che con la
sua obbedienza al Signore compensa il cattivo operato della progenitrice, rea di aver indotto il compagno a
cogliere il pomo proibito. Cosi, mentre Eva ci diede in eredità il frutto amaro del peccato originale, Maria
invece, accettando di farsi ancilla Domini, ci ha donato un frutto assai più dolce poiché redentivo, costituito
da Gesù. Ciò spiega perché in molte immagini antiche Maria offra al Figlio frutti di varie specie: pomi
rotondi (come vuole la tradizione esegetica, che paragona l’odoriferus adventus di Cristo a dei poma, cioè a
frutti di forma tondeggiante), quali mele o melagrane, o di altre fogge purché siano dolci, come pere o
cedri. Così in un' incisione del 1604, tratta da una composizione di Ludovico Carracci (a sinistra), Gesù tiene
nella sinistra una pera e sembra offrircela: la didascalia recita: «O Regina del Ciel, speranza nostra, noi figli
d'Eva a te gridiam dolenti: / Volgi tu gli occhi di pietate ardenti, / e del tuo ventre il frutto alfin ne mostra
(=mostraci)». 

Durante l'epoca barocca, nei secoli XVII-XVIII, la veste della Vergine, al di sotto del manto blu, diviene
candida nell'iconografia dell'Immacolata Concezione, con chiara allusione alla dottrina che dichiarava Maria
concepita sine macula e che però non era ancora stata stabilita come dogma. Dopo la proclamazione del
dogma dell'Immacolata Concezione da parte di Pio IX nel 1854, in alcuni casi anche il manto di Maria
Immacolata si raffigura di colore bianco, come avviene nell'iconografia dell'Immacolata di Lourdes. 
Sempre in epoca barocca, nel periodo della Chiesa trionfante sul protestantesimo, la colorazione del manto
della Vergine diviene talora d'oro zecchino, alludendo alla luce paradisiaca di cui gode Maria Assunta in
cielo (metafora della Ecclesia triumphans che, da Gerusalemme terrena, si avvia ad essere Gerusalemme
celeste). Questa tradizione si riscontra specialmente nelle statue lignee, dotate di una forte valenza
devozionale. 

A volte un'antica statua della Vergine veniva riverniciata allo scopo di adeguarla alle nuove consuetudini,
come avvenne all'antica statua della Madonna di Filettino. Pastoureau (op. cit., p. 55) segnala il caso della
Vierge d'Evergnée (si tratta di una specifica iconografia della Madonna come Sedes Sapientiae), una statua
lignea del 1070 che nel corso dei secoli ha subito ben 4 ridipinture del manto (nell'ordine: nero, blu, oro,
bianco) e che ora è stata riportata allo stato originario.

PARTE QUARTA: LE FONTI TESTUALI


Tratteremo adesso del simbolismo di questo indumento che, nel contesto dell'iconografia della Vergine, si
fissò in una specifica immagine allegorica di tipo ecclesiologico specificamente dotata di una valenza
escatologica (cioè concernente il destino finale e la salvezza del genere umano). Qualche anno fa, nel
maggio del 2014, nel corso di un’intervista per la Radio Vaticana, l’attuale pontefice, Francesco, disse: «ll
primo consiglio “quando il cuore è in turbolenza” è il consiglio dei monaci russi: “Andare sotto il manto della
Santa Madre di Dio", affidarsi allo Madonna». Il senso di questa esortazione può risultare oggi difficile a
comprendersi nella sua interezza e soprattutto nelle sue motivazioni: la seguente analisi ce ne restituirà -
per lo meno sotto il profilo storico - il pieno significato. 

Come già dicemmo, all'inizio, alla base della nascita di un'immagine, stanno le fonti scritte, che a loro volta
costituiscono la sedimentazione di pregresse tradizioni orali. Ciò vale in particolare per le immagini
artistiche; del resto anche i fumetti e i film, così come le immagini pubblicitarie, vengono realizzati sulla
base di una sceneggiatura scritta. L'origine della tradizione testuale di cui ora tratteremo - quella che ha
stimolato la nascita dell' immagine della Madonna della Misericordia - è liturgica, e si colloca nell'Alto
Medioevo; le coordinate del rito si fissarono poi nella dottrina e solo vari secoli dopo, verso il Duecento,
tutto ciò diede luogo, in un contesto ben preciso, il territorio dell'Italia centrale, ad un'immagine di natura
iconica (cioè non narrativa, non legata allo svolgimento di una storia) assai funzionale, che possedeva
un'alta caratura devozionale e poteva adattarsi a vari contesti socio-culturali. Tutto nasceva dal bisogno di
protezione che tutti avvertivano in quei tempi difficili da vivere; gli inizi di questa vicenda si situano nella
liturgia della Chiesa d'Oriente. In Oriente la prima attestazione del sintagma Maria // protezione e soccorso
del fedele parrebbe comparire in un troparion (un breve componimento da cantare nel corso della liturgia)
di matrice orientale del secolo III, i cui versi iniziali furono tradotti in Occidente come Sub tuum praesidium
confugimus; in essi in verità compariva, nell'originale, il lemma greco eusplanchnìa (cioè compassione) che
fu reso in latino col termine praesidium: ma si noti che l'antifonario ambrosiano recava (e reca tuttora) la
più corretta lezione Sub tuam misericordiam confugimus. Nella versione romana il troparion termina con i
versi a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et benedicta, che confermano l'idea di una Vergine
posta a protezione del credente. Poco più tardi Efrem il Siro (306- 373; a destra) nel suo sermone IV sulla
Vergine esortava Maria a proteggerlo nel suo stato di necessità, appellandola come «mediatrice dell'intero
mondo e dispensatrice di tutti i doni». È una delle prime attestazioni, forse la prima in assoluto,
dell'attribuzione di questo titolo alla Vergine. Fu ripreso anche dal metropolita Antipatro di Bostra, fiorito
alla metà del secolo V, che in un sermone su san Giovanni il Battezzatore rivolse un saluto a Maria,
precisando che essa aveva «accettato di intercedere come Mediatrice per l'umanità» Nel secolo V l'inno
acatisto, composto certamente dopo i Concili di Efeso (431) e di Caledonia (451), definisce Maria come
«campo che frutt[a] ricchissime grazie» (altri traducono, meno letteralmente: «campo che fa fruttare
misericordia a profusione»), aggiungendo che Ella «pronto rifugio prepar[a] ai fedeli» e invocandola come
«clemenza di Dio verso l'uomo» (stanza 5: traduzione di E.M. Toniolo). Dunque la Vergine è vista come
clemente rifugio per fedeli e dispensatrice di grazie a colui che la prega. L'inno Akathistos (cioè inno non-
seduto) o Acatisto per antonomasia è un poema di autore anonimo in 24 stanze dedicato alla Vergine
Maria che, nella liturgia bizantina, si canta stando in piedi il quinto sabato della Quaresima. Le prime 12
stanze hanno contenuto storico, le altre 12 contenuto dottrinale di stampo mariologico e cristologico.
Un'eventuale immagine da accoppiare a questo appellativo, e che sembra illustrare con precisione il verso
dell'Ave Maria «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori», potrebbe essere stata quella della
Vergine orante, qual era la Blachernitissa, il cui culto si fondava sulla reliquia del manto (in greco:
maphorion) della Madonna (in greco: Panaghìa), conservato nella basilica di Santa Maria delle Blacherne a
Costantinopoli. L'icona originale è andata perduta ma se ne contano molte repliche. L' immagine della
Blachernitissa apparteneva alla tipologia della Panaghìa platytera (Maria con il Bambino; in questa
iconografia talora la Vergine ospita nel ventre il corpo umano del Verbo incarnato racchiuso entro un
cerchio). Nell'icona della Blachernitissa si vede Maria Madre di Dio (Theotokos), e dunque Madre della
Misericordia, in atto di preghiera: il gesto di allargare le braccia (tipico dell'orante) ha l'effetto di spalancare
anche il mantello, rendendolo aperto e conferendogli una spazialità tridimensionale e concava (che sembra
prefigurare quella del manto della Madonna della Misericordia, la cui vasta apertura è atta a ospitare i
fedeli in cerca di rifugio). Alcuni storici hanno ritenuto che l'icona della Blachernitissa fosse una delle radici
della devozione della Madonna della Misericordia. 

Dal contesto liturgico, l'idea di Maria che agisce a protezione e soccorso del credente trapassa nelle pagine
degli scriptores ecclesiastici orientali: nel V secolo Rabbula, vescovo di Edessa, attribuisce a Maria la
capacità di infondere al fedele forza e aiuto; nel VI secolo il vescovo siro Giacomo di Sarug (†521), in un'
omelia sulla morte della Vergine recitata il 14 agosto, definì Maria come «Madre della misericordia»
(laddove si intende che è il Redentore a concedere la misericordia a chi lo invoca e per questo la Vergine è
madre del Cristo-misericordia). Ancora nel VII secolo si situa un'importante testimonianza del
costantinopolitano Massimo il Confessore (580-622), che scrive che «Maria era misericordiosa verso tutti
(anche verso i nemici) perché era veramente la madre della misericordia, la Madre del Misericordioso, di
Colui che s'incarnò e fu crocifisso per spandere su tutti gli uomini la sua misericordia». Si tratta di una delle
prime attribuzioni dirette di questa virtù alla Vergine, che da quel momento comincia a fregiarsi - in
maniera sempre più autonoma - dell'attributo di misericordiosa. 

Nel corso dell'VIII secolo l'Oriente produce altre significative testimonianze che ricollegano Maria, in quanto
Madre di Dio, alla misericordia: tra queste citiamo un'ode alla Vergine di Andrea di Creta, detto l'Innografo
(†740), in cui s'implora testualmente la Theotokos di sollevare con la misericordia l'anima del peccatore e di
aiutare con la sua intercessione chi si trova in estremo pericolo (Ode VI). Andrea definisce inoltre Maria
come «mediatrice tra la Grazia e la legge» e dispensatrice di vita, precisando che «la Vergine è la
mediazione tra la sublimità di Dio e l'abiezione della carne. Giovanni Damasceno (†749 o 750) ribadisce che
Maria fornisce aiuto a chi ne abbisogna, è «sollievo per chi patisce» (Omelia sulla Dormizione). Ciò che si
sottolinea in queste testimonianze è il ruolo di interceditrice (cioè di mediatrice di grazie per i fedeli) di
Maria; il dispensatore di misericordia resta il Figlio. Questo spiega il mancato sviluppo di una specifica
iconografia misericordiosa di Maria nell'arco di tutti quei secoli. Infatti in Oriente la specifica iconografia
relativa alla tematica dell'intercessione di Maria presso il Figlio misericordioso è costituita dalla Dèesis
(secondo la pronuncia del greco antico) o Dèisis (secondo la pronuncia del greco moderno), da dénou(=Vedi
libro), che significa supplica, intercessione. In queste raffigurazioni, di matrice bizantina ma diffuse anche in
Occidente, la Vergine e un altro santo (generalmente Giovanni il Battezzatore) fiancheggiano il Cristo
Pantokrator seduto sul trono e benedicente, intercedendo presso di lui per i fedeli. L'iconografia della
dèesis non è venuta meno nel corso dei secoli. Nell'Italia rinascimentale la troviamo attiva entro il
dispositivo della pala d'altare, come si vede nella parte superiore di questo dipinto di Giulio Romano (ca.
1520, Parma, Galleria Nazionale; dal Monastero di San Paolo). In quest'immagine Maria compie un gesto
specifico e particolare che è quello dell'intercessione per i fedeli, ben codificato nell'iconografia religiosa
occidentale moderna. (A sinistra) Ecco a riscontro un altro celebre esempio di scena raffigurante una
intercessione per i fedeli. Il gesto, assieme a quello dell'adorazione della Ss.ma Trinità, è compiuto qui da
san Carlo Borromeo, in una pala d'altare di Orazio Borgianni, del primo Seicento. (A destra) In questo
drammatico dipinto di Rubens l'intercessione di Maria (e di san Francesco) placa l’ira di Cristo, in una
complessa stratificazione iconografica che analizzeremo più avanti. 
Un' ode del patriarca di Costantinopoli Fozio (†893) illustra una dèesis, arricchendola anche con il tema
(ambiguo, perché sempre riferito a Cristo) della misericordia (Figlio) della Vergine: «Regina del mondo,
buona, supplica l'unico ricco in misericordia, che si è incamato dal tuo purissimo sangue, di avere pietà di
me (...). Poiché tu possiedi (...) viscere misericordiosissime [si tratta del Figlio misericordioso] ( ...)
dimostrale in mio favore e donami il perdono delle mie innumerevoli trasgressioni» (Ode VI). Vedremo poi
come Fozio, nell'Ode IV, introduca anche il tema del riparo del peccatore sotto il manto di Maria. Ancora
nel secolo X Giovanni Kyriotes, detto il Geometra, in una sua omelia sulla dormitio di Maria, afferma: «So
che la Madre del Misericordioso non può essere senza misericordia», spiegando che ciò è provato dalle sue
azioni compiute in vita e dai miracoli compiuti dopo la sua Assunzione; e perciò Cristo «l'ha costituita non
solo Madre misericordiosa [cioè del Figlio-misericordia] ma anche mediatrice e riconciliatrice presso di lui»,
cosicché «la Vergine (...) incessantemente placa la sua giusta collera e fa giungere a tutti in abbondanza le
sue misericordie e le sue premure». Questo insieme di motivi viene ripreso in Occidente subendo talvolta
degli aggiustamenti che risulteranno importanti. Alla fine dell'VIII secolo una testimonianza rilevante è
fornita da un'omelia del longobardo Paolo Diacono, dedicata all'Assunzione, in cui Maria è definita
«mediatrice fra suo Figlio e gli uomini, cosi come il Figlio è mediatore tra Dio e gli uomini: e proprio come si
conviene alla madre della misericordia [cioè il Figlio], ella è totalmente misericordiosa con noi e con le
nostre debolezze» (Omelia II). 

Nei primi decenni del secolo X l'uso estensivo dell'appellativo di Mater misericordiae per Maria si fa risalire
ai cluniacensi, in particolare all'abate Oddone di Cluny (†942), iniziatore della riforma cluniacense («0
Signora, madre della misericordia, che ci hai dato in questa notte il Salvatore»). Se l'appellativo anche in
questo caso restava di controversa accezione cristologica, in quanto riferito prettamente alla maternità del
Figlio, la cui nascita costituisce appunto il mistero della Misericordia, Oddone aggiungeva però: «Io mi
rifugio nel tuo parto glorioso e unico: (...) ti prego che per la tua intermediazione Egli abbia pietà di me».
L'appellativo fu ribadito nell'XI secolo sia da altri scrittori ecclesiastici sia in sede liturgica (litanie bizantine,
Officio liturgico della Vergine), in particolare con l'antifona Salve Regina mater misericordiae. L'antifona
veniva cantata già nel 1135 durante le processioni che si tenevano nell'abbazia di Cluny (ove invalse l'uso
degli appellativi di Mater misericordiae e di Regina misericordiae), per poi essere adottata anche dai
cistercensi. La Salve Regina è una delle quattro antifone mariane (le altre tre sono Regina Coeli, Ave, Regina
coelorum e Alma Redemptoris Mater), di attribuzione controversa (Pedro Mezonzo? san Bernardo?) e di
datazione collocabile al secolo Xl. Nei testimoni manoscritti più antichi non compare l'apposizione Mater,
che fu aggiunta forse nel Quattrocento. Fino a questo punto non era stata elaborata ancora alcuna dottrina
mariologica sull'argomento: spettò al teologo e filosofo Fulberto vescovo di Chartres (†1028) proporre un
primo tentativo, che ebbe l'effetto di attribuire la virtù della misericordia (intesa come compassione) alla
Madre, facendola comunque ancora dipendere dal Figlio. Partendo dal fatto che Maria aveva partorito «la
fonte stessa della misericordia (Cristo) purificatrice dei nostri peccati», egli definì Maria «mater
misericordiae et pietatis», spiegando che la misericordia si riferiva alla predisposizione interiore e
psicologica della Vergine e la pietas alle sue azioni.

Nel percorso che conduce Maria a rivestire il manto della misericordia, il secolo XI si rivela fondamentale: è
in questo periodo che si realizza comunque il trapasso dell'attribuzione della virtù della misericordia da
Cristo alla Madre. Un momento cruciale è costituito dall'orazione sul Ricorso all’intercessione
misericordiosa di Maria, composta da Anselmo da Baggio (detto anche Anselmo II vescovo di Lucca, †1086)
e dedicata alla duchessa Matilde di Canossa. In questa orazione Anselmo tratteggia il contrasto fra la severa
giustizia del Figlio e la misericordia della Madre, che la porta a intercedere per i fedeli che la supplicano,
affinchè Cristo conceda loro il perdono. «Tuo Figlio ti ha posto come contrappeso alla sua severità, fino al
punto di fargli revocare la sentenza di giustissima condanna, quasi fosse obbligato a farlo a causa della tua
intercessione». Tutto è dunque ricondotto al corso del piano divino e all’opera del Figlio, in accordo con le
nostre volontarie istanze di cooperazione alla salvezza. Vedremo come quest'affermazione sia da porre tra
le basi testuali dell'iconografia di Maria che placa l'ira del Figlio, oggi del tutto desueta (ne vedemmo già un
esempio nel quadro di Rubens riprodotto poco sopra). In quel tempo san Pier Damiani (1007-1072),
monaco camaldolese, compose un ritmo in onore della Vergine nel quale, in pochi versi, riuscì - in modo
stupefacente -a condensare il significato di base di una lunga serie di immagini che, come vedremo, non
esistevano ancora in alcun modo e che saranno prodotte solo a partire dal secolo XIII: «Tu sei nova stella
del mare, / finestra sublime del cielo / scala che unisce il cielo alla terra, / ciò che è infimo a ciò che è
supremo (...) / Paga tu quel che dobbiamo / tieni lungi quel che temiamo, / intercedi per ciò che
chiediamo / adempi ciò che speriamo» (PIER DAMIANI, Poesie e preghiere, a cura di U. Facchini L. Saraceno,
Roma 2007, n. 129). 

In questi versi sono già adombrate e in qualche modo anche presagite le immagini in cui: 1) accettando il
sacrificio del Figlio che aveva nutrito col proprio latte, Maria paga al posto nostro, come una martire, il
prezzo del debito che l'uomo ha con Dio per aver commesso il peccato originale, secondo la dottrina della
satisfactio (paga tu quel che dobbiamo); 2) difende i suoi devoti dalle frecce del Christus iratus ponendoli
sotto il proprio manto (tieni lungi quel che temiamo); 3) intercede misericordiosamente per i fedeli che la
supplicano (intercedi per ciò che chiediamo); 4) concede benevolmente le grazie che essi le richiedono
(adempi ciò che speriamo). Sono iconografie che qui sotto riproduco e che Pier Damiani non poteva ancora
aver visto: le esamineremo più avanti. Poco più tardi un altro Anselmo, quello di Canterbury (detto anche
Anselmo d'Aosta, †1109), appellando nelle sue orazioni Maria «fons misericordiae» in quanto madre di
Cristo, la definisce «mater salutis», «templum pietatis et misericordiae», «pia mater misericordiae Dei»,
considerandola l'interceditrice che con il suo sguardo misericordioso cura il fedele dalle piaghe dei suoi
peccati. Per Anselmo la misericordia lega il Figlio alla Madre e la Madre al Figlio: scrive infatti: «per la
misericordia ti sei fatto figlio di una donna; per la misericordia hai accettato di essere Madre di Dio». Nelle
orazioni di Anselmo la Vergine diventa I'amorevole e misericordiosa protettrice del peccatore, che segue e
accompagna per tutta la vita. La svolta decisiva sarà di fatto causata poco più tardi dalla riflessione
mariologica del benedettino cistercense san Bernardo di Chiaravalle (†1157), nei Sermoni per l'Ottava
dell'Assunzione (e, sul piano liturgico, dalla diffusione della già citata antifona Salve Regina), che condurrà a
fondere compiutamente e definitivamente nel registro teologico i temi della maternità di misericordia e
della protezione offerta ai fedeli. Scrive Bernardo: «Sicuramente dico che se piamente la invochiamo, Maria
ci soccorrerà perché è misericordiosa e madre di misericordia». Ma soprattutto: «Si taccia della tua
misericordia, Vergine beata, se vi è uno solo che si ricordi di averti invocato inutilmente nelle sue difficoltà.
Lodiamo la tua verginità e ammiriamo la tua umiltà, ma per chi è in difficoltà è più dolce il sapore della tua
misericordia: per questo abbracciamo con più amore la misericordia, e la invochiamo più frequentemente»
(Omelia IV nell'Assunzione della Vergine). Riassumendo, l'attribuzione della virtù della misericordia
direttamente a Maria (ribadita ancora, nel corso del secolo XII, dal benedettino Ugo di San Vittore e dal suo
allievo Riccardo di San Vittore, parimenti monaco benedettino) rende la Vergine la necessaria
intermediatrice tra il fedele e Cristo. In tal senso Ugo (†1157) attribuisce la misericordia a Maria (umana), la
maestà al Padre (divino) e la misericordia e la maestà a Cristo (Dio e uomo), e chiarisce che «la misericordia
nasce dalla compassione per il genere umano». A sua volta Riccardo (†1173), che per la sua sapienza fu
definito Magnus contemplator, ribadisce che chi invoca Maria, sperimenta la sua misericordia. Duque nel
secolo XII più chiaramente si individua, in rapporto all’appellativo di Mater misericordiae, la concessione di
grazia da parte della Vergine nell'ambito del suo ruolo di interceditrice; ma emerge anche una nuova - e di
grande importanza per il futuro - dimensione della maternità di Maria: quella dell'intero genere umano,
riassunta nella locuzione Maria mater omnium. Ad esempio Guerrico d'Igny (†1157), nella sua Omelia
sull'Assunzione, influenzato da san Bernardo scrive: «la beata madre di Cristo, sapendo di essere
misteriosamente madre dei cristiani, si mostra loro madre anche con la sua sollecitudine e la sua tenera
misericordia». A questo proposito il santo francescano Bonaventura da Bagnoregio (†1274) ricordava che
«come da Adamo ed Eva sono stati formati Abele e i suoi discendenti, così da Cristo e dalla sua Chiesa è
stato formato l'intero popolo cristiano. E come Eva è la madre di Abele e di tutti noi, così il popolo cristiano
ha come madre la Vergine» (Collationes de septem donis Spiritus Sancti, coll. V. 20). Tratteremo più avanti
della concezione di Maria come nuova Eva, che ripara al peccato originale commesso dalla compagna di
Adamo. L'intercessione mariana (ormai intesa come cura materna) assume un chiaro e netto valore di avvio
alla giustificazione, giacché Bonaventura, nel Sermone II sulla Purificazione, scrive che «coloro che sono
radicati per l'amore e la devozione nella Vergine Madre sono da lei santificati in quanto lei impetra dal
Figlio suo la santificazione».
PARTE QUINTA: L’ICONOGRAFIA DI MARIA MATER MISERICORDIAE 
Nell'arco del secolo XII il terreno per un nuovo sviluppo della devozione mariana popolare era dunque stato
reso fertile dalla lenta ma inesorabile evoluzione della pratica cultuale precedente (che aveva condotto alla
formulazione del Salve Regina) e dalla riflessione dei teologi.  È incerto per quale via la definizione teologica
di Maria come dispensatrice di misericordia si sia condensata nell'immagine della Vergine che dispiega e
apre il manto-tegimen (cioè copertura, protezione, riparo) il motivo è invece chiaro se si rammenta che in
epoca medioevale, come già dicemmo, il gesto di coprire qualcuno col mantello significava porlo
giuridicamente sotto la propria protezione o addirittura adottarlo; vedremo più avanti che questo gesto
caratterizza anche alcune raffigurazioni del padre misericordioso dell'evangelica parabola del figliol prodigo
(a lato). Si pensi inoltre all'etimologia del verbo «smantellare», che vuol dire innanzitutto privare qualcuno
o qualcosa delle sue difese o delle sue strutture primarie che lo o la sostengono, nelle locuzioni «smantellare
una città» (dalle sue fortificazioni) o «smantellare un'argomentazione». Va notato che l'inno acatisto
definiva Maria come «albero dai rami ombrosi, sotto cui molti si rifugiano» e come «tenda del Dio del
Verbo»: non è escluso che una memoria di questi versetti possa essere contenuta nell'iconografia della
Vergine che apre il manto della Misericordia, che in questo caso adombrerebbe allora pure il significato di
tenda che ripara l'arca della nuova alleanza fra Dio e l'uomo, interpretazione che è stata talora fornita per
la Madonna del parto di Piero della Francesca (a lato), un autore che nelle sue opere d'iconografia mariana
(v. il suo Politico della Misericordia più avanti citato) dimostra d'essere assai consapevole delle implicazioni
mariologiche in esse contenute. Trattando della formazione dell'iconografia della Vergine che apre il manto
della Misericordia, la Belting- Ihm supponeva un influsso del culto orientale della già citata Blachernitissa /
Platytera costantinopolitana - il cui culto, rammentiamo, si fondava sulla reliquia del manto - che però era
raffigurata nella posa dell'orante. Più rettamente Perdrizet evidenziava un passo del Dialogus miraculorum
di Cesario di Heisterbach, del 1230, che narra della paradisiaca visione di un monaco cistercense che
contempla Maria proteggere col proprio manto i suoi confratelli - e dunque, più in generale, l'Ordine
benedettino. 

Verso il 1260 si diffonde in ambito domenicano la cosiddetta Leggenda della reclusa, un testo che contiene
un'immagine affine a quella descritta da Cesario, concernente stavolta la protezione della Vergine
accordata ai frati predicatori. La riportiamo qui traendo il testo da «I miracoli del beato Domenico» della
beata Cecilia (pubblicato in S. LIPPINI, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1982, pp.
203-206). «Una sera il beato Domenico, dopo aver vegliato in chiesa in preghiera fino a mezzanotte, ne usci
ed entrò in dormitorio dove (...) si rimise in preghiera in fondo al dormitorio stesso. Mentre stava così in
orazione, gli venne fatto di guardare dalla parte opposta e vi scorse venire avanti tre donne bellissime,
quella di centro sembrava una dama venerabile e delle tre la più bella e più degna; delle altre due, una
portava un vaso molto splendente e bello, l'altra invece un aspersorio che porgeva alla Signora di mezzo,
col quale questa aspergeva i Frati [che dormivano] facendo su di essi il segno di croce. Così, segnando ed
aspergendo i Frati, fece il giro del dormitorio. Il beato Domenico seguì la scena con grande attenzione. Poi
alzandosi dalla preghiera, andò incontro a quella Signora fino alla lampada che pendeva in mezzo al
dormitorio e, inginocchiandosi, quantunque l'avesse già riconosciuta, la supplicò di svelargli chi ella fosse. In
quel tempo a Roma, nel Convento dei Frati e delle Suore, quella bella e devota antifona, che comincia con
Salve Regina, non veniva ancora cantata ma si usava soltanto recitarla in ginocchio. Orbene, rispondendo al
beato Domenico, quella Signora disse: «Sono colei che voi invocate ogni sera. E quando dite Eja ergo,
advocata nostra, io mi butto in ginocchio davanti a mio Figlio per la conservazione di codesto Ordine».
Allora il beato Domenico chiese chi fossero quelle dame che erano con lei. Gli rispose la Beata Vergine:
«Una è Cecilia, l'altra è Caterina». Ciò detto, dopo aver terminato il giro segnando ed aspergendo i Frati che
ancora rimanevano, disparve. Il beato Domenico tornò quindi a pregare nel luogo di prima ed ecco che
all'improvviso fu rapito in ispirito davanti a Dio e vide il Signore e la Beata Vergine, seduta alla destra,
rivestita - a quanto gli sembrava - di un mantello color zaffiro. Guardandosi attorno, vide davanti a Dio
rappresentanti di tutti gli Ordini Religiosi, ma del suo non scorse nessuno; per la qual cosa cominciò a
piangere amaramente e, fermatosi lontano, non osava avvicinarsi al Signore e a sua Madre. Fu la Madonna
a fargli cenno con la mano di accostarsi a lei; ma egli non osò muoversi fino a tanto che anche il Signore non
lo ebbe chiamato. Si accostò allora tutto piangente e si inginocchiò davanti a loro. Il Signore lo invitò ad
alzarsi e, quando si fu alzato, gli chiese il perché di quel pianto sconsolato. «Piango così – rispose - perché
vedo qui rappresentanti di tutti gli Ordini, ma del mio non vedo nessuno». Allora il Signore: «Vuoi vedere il
tuo Ordine?». E quello tremante: «Sì, o Signore». Allora il Signore, ponendo una mano sulla spalla della
Beata Vergine, si rivolse nuovamente al beato Domenico: «Il tuo Ordine io l'ho affidato a mia Madre». Poi
soggiunse: «Ma lo vuoi proprio vedere?». Rispose beato Padre: «Certo, Signore». La Beata Vergine spalancò
il mantello di cui sembrava rivestita e lo stese davanti al beato Domenico, al quale sembrò tanto grande da
ricoprirne tutta la patria celeste e sotto di esso vide una moltitudine di suoi frati. Inginocchiandosi il beato
Domenico ringraziò allora Dio e la beata Maria sua Madre. E la visione scomparve. Tornato in sé, corse
immediatamente a suonare la campana per il mattutino, al termine del quale convocò i Frati nel Capitolo e
fece loro una lunga bellissima predica, esortandoli all'amore e alla devozione verso la Beata Vergine Maria.
E fra le altre cose raccontò loro anche questa visione. Questa visione la narrò a Suor Cecilia e alle altre
Suore di San Sisto lo stesso beato Domenico, però come se fosse capitata a un altro. Ma i Frati presenti, che
l'avevano già sentita raccontare, facevano cenno alle Suore che si trattava di lui». 

Nel corso del secolo XIII, all'interno delle città, le confraternite mariane (cioè dedicate alla Vergine),
diffusero sul piano della devozione popolare - traducendola in riti, come le processioni - la dottrina del
ruolo di Maria come patrona e avvocata del genere umano in quanto Mater divine Misericordiae (Madre
della Misericordia divina, la quale è il Figlio), e sul piano sociale promossero nel nome della Vergine opere
di misericordia e di assistenza nei confronti dei bisognosi.

Accompagnati da due facchini, due canevarii (dispensieri) della confraternita della Misericordia di Bergamo
(fondata nel 1265) danno in elemosina a un povero un pane o forse un fiadone (una specie di torta) e del
vino contenuto in una galeda di legno. L'affresco si trova nel Museo della Cattedrale di Bergamo.

Le confraternite erano associazioni (sodalitates) cittadine di laici, spesso legate alle corporazioni delle arti e
dei mestieri, che venivano approvate e riconosciute ufficialmente dalla Chiesa cattolica; i sodali (confratelli)
si riunivano periodicamente nei locali della chiesa alla quale si «appoggiavano», dedicandosi alla preghiera,
partecipando alle celebrazioni sacre (officiate da un sacerdote), organizzando processioni e programmando
attività di tipo assistenziale e caritativo (nei confronti dei poveri, delle vedove e degli orfani, dei malati, dei
carcerati, dei condannati a morte, ecc.): per questo erano spesso dedicate a Maria Mater Misericordiae
oppure si riconoscevano in uno stendardo riproducente questa immagine. Indossavano un sacco con
cappuccio; le confraternite dei disciplinati (o battuti) nelle processioni praticavano l'autoflagellazione o la
flagellazione reciproca. Come vedemmo nel caso della leggenda della reclusa, nel corso del secolo XIII negli
scritti dei mistici si radicò l'interpretazione simbolica del manto mariano come emblema di misericordia; a
questo punto, senz'altro non prima della seconda metà del secolo XIII (verosimilmente nell'ultimo quarto),
il topos teologico, devozionale e letterario, stratificatosi nel corso di quasi 1000 anni, era ormai pronto per
trasformarsi in immagine di immediata comprensione e di largo utilizzo, anche catechetico. In un certo
senso la creazione dell'immagine devozionale della Vergine della Misericordia segnò il momento storico in
cui il concetto teologico di misericordia venne trasposto in modo articolato e completo - anche istituzionale
- sul piano sociale, divenendo da quel momento una pratica di comportamento e un ideale sociale,
arricchendo definitivamente la vita cittadina e influenzando la politica delle comunità laiche. In base alla
documentazione oggi nota, si ritiene che i più antichi esemplari dell'iconografia siano stati realizzati a Siena,
come dimostrano la produzione delle Biccherne e la Madonna dei francescani di Duccio di Buoninsegna,
risalente al 1285 circa. In quest' ultima tavola si fondono felicemente alcuni temi iconografici di antica
tradizione: 1) la Maestà (la raffigurazione della Madonna in trono, che rinvia a quella della Regina Coeli); 2)
la Mater Misericordiae e, insieme, anche Mater omnium che apre il proprio mantello per proteggere con
esso i membri dell' Ordine francescano, mentre a loro volta gli angeli dispiegano un manto stellato alle
spalle della Vergine; 3) l'esposizione del Figlio, Misericordia divina, che garantisce la misericordia procurata
dalla Madre ai fraticelli. Non è un caso che questo incunabolo (cioè questa prima manifestazione di un
nuovo modello) fosse prodotto in ambito francescano, considerata l'attenzione speciale che quell'Ordine
riservò ai temi della mariologia, dall'Immacolata Concezione all'Assunzione. La Biccherna (attiva dal secolo
XII al 1786) e la Gabella erano importanti magistrature finanziarie della Repubblica di Siena, che si
rinnovavano ogni 6 mesi. Esse usavano tenere nota dei conti economici sulle pagine di libri particolari, che
venivano rilegati con copertine realizzate in legno. Al termine dell'incarico, questi magistrati usavano far
dipingere le tavolette delle copertine del libro dei conti che era stato compilato nel loro semestre con
stemmi e con una scena di argomento religioso, simbolico, civile o cronachistico, cioè legato a un
avvenimento di particolare rilievo accaduto durante il loro mandato; talora vi comparivano anche dei
ritratti. A loro volta queste tavolette sono chiamate anch'esse Biccherne. Vennero decorate in particolare
fra il 1258 e il 1682: ne possediamo 124, conservate quasi tutte presso l'Archivio di Stato di Siena, e ognuna
è datata. Quella delle Biccherne è una serie di eccezionale valore documentario sulla storia e l'urbanistica
cittadina, ma anche di grande pregio artistico, poiché le immagini che vi sono dipinte sopra sono spesso
opera di importanti pittori senesi.

- La biccherna 34 (ASS), dipinta nel 1467 da Francesco di Giorgio Martini, raffigura la Vergine in atto
di proteggere Siena dai terremoti che colpirono quelle terre tra il 1466 e il 1467. 
- La biccherna n. 19 (ASS) reca l'immagine dell'Allegoria del Governo dei Dieci (1385). L'uomo anziano
seduto al centro e raffigurato di dimensioni maggiori è la personificazione del Governo, assiso sopra
un trono rivestito di stoffe preziose: nella mano destra tiene uno scettro (emblema del
riconoscimento legale del suo potere, e dunque del potere giuridico), in quella sinistra un globo
(emblema del territorio su cui detto potere viene esercitato); la corda che regge in entrambe le
mani e che, passando di mano in mano, tiene uniti, collegandoli, ì due gruppi di magistrati,
interpretabili come i Priori del Collegio concistoriale, è interpretabile come simbolo di unione e di
concordia. Attaccate alle trombe (tube) sono le bandiere bicolori del Comune di Siena: anche la
presenza della musica, con le sue armonie, allude all'armonia tra cittadini. La simbologia della corda
si fonda su due distinti giochi di parole: intanto il fatto che la parola corda in latino vuol dire cuori;
poi si basa sulla sciarada composta dalle parole con-corda, che unite producono la parola
concord(i)a, intesa appunto come unione di cuori: l'etimologia del lemma latino concordia deriva
infatti da cum (con) + corda (cuori), e letteralmente vuol dire unendo i cuori. Riprendendo la
tradizione latina secondo cui la dea Concordia tutelava la pace civile, nell'Allegoria degli effetti del
Buon Governo, dipinta nella Sala dei Nove del Palazzo pubblico di Siena nel 1338- 1339, Ambrogio
Lorenzetti aveva raffigurato la personificazione allegorica (cioè la raffigurazione in forma umana di
un concetto astratto) della Concordia che unisce insieme le due corde provenienti dalle cinture
degli angeli della Giustizia (di cui torneremo a parlare più avanti), producendone così una sola che
poi passa, anche qui, di mano in mano tra i 24 cittadini simboleggianti le corporazioni e i gruppi
sociali senesi. 
- La biccherna n. 100 (ASS), dipinta dal grandissimo pittore Giovanni di Paolo nel XV secolo, mostra
un'immagine della Madonna della Misericordia; la scritta «LIBRO VITALE», inserita tra gli emblemi
dell'Ospedale senese di Santa Maria della Scala, indica che il libro conteneva i nomi degli oblati cui
spettavano i vitalizi che venivano erogati dall'Ospedale. Si tenga presente che la parola ospedale
(dal latino hospitale) non aveva a quel tempo l'accezione di oggi. Essa deriva dal verbo hospitor, che
significa io alloggio come ospite, sono ospitato: dal secolo IX d. C. venivano definiti hospitalia gli
alloggi destinati ai pellegrini. In effetti la Madonna della Misericordia era un'immagine emblematica
dell'Ospedale di Santa Maria della Scala. Nel 1444 Domenico di Bartolo realizzò questo affresco
nella Cappella delle Reliquie (detta anche del Manto), in cui la Vergine pone sotto la propria
protezione (aprendo il mantello) papa Eugenio IV, l'imperatore Sigismondo, Giovanni Buzzichelli e il
beato Sorore (rispettivamente rettore e fondatore dell'Ospedale). L'affresco venne staccato nel
1610 per volere dell'allora rettore dell'Ospedale, Agostino Chigi, e fu collocato nella Sagrestia
vecchia (detta anche Cappella delle Donne). 
Anche altre biccherne recano immagini di protezione:
- la n. 29 (ASS), dipinta nel 1451 dalla scuola di Sano di Pietro, raffigura la Vergine che apre le braccia
e il mantello proteggendo Siena (con la raffigurazione del Camerlengo che si lava le mani).
- Nella n. 40, dipinta nel 1480 da Neroccio de' Landi, Maria raccomanda Siena a Gesù presentandogli
un modellino della città attorno alla quale è stretta una corda dorata, di nuovo simbolo di concordia
e di unione. Sempre a Siena, la stessa pianta della Piazza del Campo (sistemata nella forma attuale
nel corso del Trecento) è stata interpretata come una forma riproducente il manto mariano, in
relazione alla protezione accordata dalla Vergine ai senesi nella battaglia di Montaperti, del 14
settembre 1260, in cui la ghibellina Siena sconfisse la guelfa Firenze.

Questo è l'esempio più celebre di «mantello di Maria» che possediamo: fu donato nel secolo XI da Melo da
Bari (membro di una cospicua casata longobarda avversa ai governatori di Bari, che erano bizantini). Nel
1009 Melo e suo cognato Datto conquistarono Bari dopo averla assediata, impadronendosi poi
rapidamente di altre città pugliesi (Trani, Bitonto, Ascoli Satriano). Questi territori furono riconquistati nel
1010 dal capitano bizantino Basilio Mesardonite; dopo aver tentato varie volte di riprendere il potere, nel
1020 Melo si recò a Bamberga dal suo protettore l'imperatore Enrico II, portando in dono questo mantello
votivo, decorato con simboli cristologici e zodiacali (è infatti detto anche «Mantello dello Zodiaco»), che è
ancora conservato nel locale Museo Diocesano. Siena condivide il primato dell'origine dell'iconografia della
Vergine della Misericordia con la vicina Umbria, un contesto nel quale anche si trovano molti antichi esempi
dell'immagine di Maria mater Misericordiae: tra questi spicca la Madonna dei Raccomandati di Lippo
Memmi nel Duomo di Orvieto, dipinta attorno al 1320. Il lemma raccomandati designa i fedeli che si
raccomandano a Maria affinché interceda per essi presso il Figlio. Ben presto, entro i primi 25 anni del '300,
l'immagine di Maria che apre misericordiosamente il proprio manto per dare riparo ai fedeli, confidenti
nella protezione della Madre di Dio, si fece frequente anche nelle matricole delle confraternite bolognesi,
cioè nei registri contenenti i regolamenti delle confraternite con gli elenchi dei sodali, come si vede in
questa lacunosa miniatura di Lando di Antonio degli anni '20 del Trecento. Riassumendo dunque, a creare
l'iconografia furono forse gli Ordini religiosi, ma ad usarla largamente furono assai presto le confraternite,
perchè l'immagine era molto adatta a riassumere il senso stesso della sodalitas religiosa (una nuova
maniera di concepire la solidarietà fra laici cristiani in rapporto alle opere di misericordia). In essa si leggeva
poi una diretta assimilazione fra Maria, figura della Chiesa che è intermediatrice tra i fedeli, e la
Confraternita come dispensatrice di accoglienza e di assistenza ai propri membri. Un documento di prima
mano testimonia la diffusione di queste immagini attorno al 1350. Santa Brigida di Svezia, che si era
stabilita a Roma in quegli anni, dedicandosi a opere di misericordia e compiendo pellegrinaggi in varie parti
d'Italia, racconta di una visione in cui la Vergine la esortava a ripararsi sotto il suo manto, dicendo: «sono
pronta ad accogliere subito chiunque sinceramente e con buona volontà di pentimento ricorra a me,
qualunque sia il suo peccato. Né bado a quanto abbia peccato, ma con quale intenzione e volontà ritorni. Io
sono chiamata da tutti Madre della Misericordia; davvero, figlia mia, mi fece misericordiosa la Misericordia
del Figlio mio e con lui compaziente. Perciò misero è colui che, potendolo, non ricorre alla misericordia. Tu
perciò vieni, figlia mia, e nasconditi sotto il mio mantello, esteriormente di poco valore, ma interiormente
utile per tre motivi: (...) ti preserva dall'aria tempestosa (...), ti salva dal freddo che intirizzisce (...), ti difende
dalla pioggia. Questo mantello è la mia umiltà». 

Per dovere di cronaca va qui ricordato che, quasi contemporaneamente alla nascita della figurazione della
Madonna della Misericordia, nel 1306 nasceva in Sicilia in seno all'Ordine degli Agostiniani il culto della
Vergine del Soccorso, che si concretava in un'iconografia specifica che ebbe una lunga durata: quella della
Madonna che scaccia il demonio colpendolo con un bastone o con un flagello di corda (se ne riproduce qui
un esempio di epoca tarda). Nel corso del Quattrocento questo culto dalla forte valenza devozionale e
popolare, allargatosi frattanto a tutto il meridione italiano, si diffuse pure nell'area umbro- toscano-
marchigiana. L'idea di fondo era semplice e schiettamente apotropaica, vertendo sull'immediato
allontanamento del male. Torneremo a trattarne assai diffusamente più avanti. 

L'iconografia della Vergine della Misericordia poteva essere collocata su pagina - nella miniatura - oppure
su tavola, su tela, sopra un gonfalone (come questo dipinto di Bartolomeo Caporali) o su muro: ciò
dipendeva dalla destinazione e dalla funzione, in riferimento a un pubblico ristretto come quello delle
confraternite, o a un insieme di destinatari più allargato, come quello dei fedeli di una parrocchia, di una
città o di una diocesi. La struttura della figurazione, già definita sin dagli esordi, non cambia in sostanza nei
secoli successivi: Maria allarga le braccia (talora aiutata da angeli, come nell'affresco del Ghirlandaio per
Ognissanti a Firenze: un'opera di cui torneremo a parlare) per coprire col suo manto - la cui fattura e
soprattutto colorazione variano a seconda dello specifico contesto devozionale locale - un gruppo di ospiti
umani di varia natura e qualifica sociale, in relazione alla destinazione e all'ambito cultuale. La tipologia dei
protetti, che siano laici o religiosi, e la loro ripartizione a destra e a sinistra della Vergine in relazione alla
posizione sociale o al sesso (come in questo gonfalone processionale di Giovanni Antonio da Pesaro per
Arzilla), sono dettate da ragioni di committenza da indagare di volta in volta; generalmente vige la
separazione tra donne e uomini, come del resto avveniva anche all'interno delle chiese. Nel gonfalone, in
cui Maria è raffigurata come Regina misericordiae, si evidenzia inoltre un interessante rapporto di
derivazione con l'iconografia della Blachernitissa, dovuto alla memoria di culti bizantini presente sul
versante adriatico: ma torneremo a parlarne più avanti. Talora sono gli angeli ad aprire il mantello al posto
di Maria, quando la Vergine rivolge le mani in basso, in direzione dei fedeli, nel gesto dell'intercessione o
della protezione (come avviene in questo affresco del secolo XV dell'antica pieve di San Pietro al cimitero di
Casalvolone, presso Novara, in cui Maria - vestita d'oro - protegge un devoto nucleo familiare), o quando
prega, come nel dipinto del Botticini a destra. Sono poche le varianti iconografiche che, raramente, si
innestano su questo schema, tanto che l'esempio più complesso di tale iconografia sotto il profilo
concettuale è costituito dal Polittico della Misericordia di Piero della Francesca a Borgo San Sepolcro in cui,
come ha scritto Claudia Cieri Via, alla valenza devozionale si sostituisce una dimensione più aulica e
intellettuale. L'opera, formata da varie tavole dipinte a tempera e assemblate secondo una precisa logica,
fu commissionata nel 1455 dalla locale Confraternita della Misericordia e venne poi realizzata tra il 1459 e il
1462 circa. Nel polittico (un'opera da collocarsi sopra un altare, composta da più parti, collegate tra loro da
nessi di ordine narrativo o concettuale) gli arricchimenti del significato generale sono tutti collocati nelle
immagini delle tavole che circondano la pala centrale (quella che appunto raffigura la Mater Misericordiae),
la cui figurazione invece, nella sua semplicità, è del tutto aderente al modello esemplare della Vergine della
Misericordia. Uno dei significati principali di questo polittico è dato dall'allineamento verticale (dunque
dalla disposizione assiale) di tre immagini di valenza cristologica: la Deposizione di Cristo (in basso), la
Madonna della Misericordia (ricordiamo che vige l'equazione Figlio = Misericordia divina) al centro, e il
Calvario (in alto, come cimasa, tavola posta in cima al polittico). Nell'arte di quei secoli era spesso
adoperato dagli artisti l'espediente di disporre elementi della figurazione dotati di una certa rilevanza
concettuale lungo l'asse verticale, per istituire tra queste parti un collegamento visivo e posizionale da cui
scaturissero nuovi significati: il pubblico era al corrente di questa strategia ed era in grado di decifrare
questi nessi, peraltro molto evidenti. Viceversa l'allineamento orizzontale delle tavole o dei personaggi
implica in genere una valenza di contestualità spazio-temporale (cioè i personaggi sono collegati tra loro dal
fatto di trovarsi nel medesimo luogo) o una sequenzialità di tipo narrativo, come avviene, in modo
specifico, nelle predelle. Una predella consta di una serie di riquadri, in tavola o in tela, posti alla base delle
antiche pale d'altare (cioè dei dipinti da collocarsi sopra un altare in una chiesa o in una cappella); nella
sequenza delle parti che la compongono - da leggersi procedendo da sinistra verso destra - si narra la storia
di un personaggio sacro come Gesù o di un santo. Qui un anonimo pittore, che aiutò Piero a compiere il
polittico, racconta la passione e la risurrezione di Cristo, attraverso gli episodi della Preghiera nell'orto del
Getsemani, la Flagellazione, la Deposizione di Cristo nel sepolcro (che già vedemmo sopra), I' Apparizione
del Risorto alla Maddalena, le Visita delle pie donne mirrofore al sepolcro vuoto. Tornando invece alle 3
tavole disposte lungo l'asse verticale, notiamo che questo allineamento attraversa, in modo sintetico, la vita
terrena di Gesù scegliendone le tappe salienti e mettendo in evidenza la sua natura umana e il ruolo
assunto da quest'ultima nel processo di redenzione. Nella pala centrale Maria mater Misericordiae è madre
del Figlio che è Misericordia, e quest'immagine allude al mistero dell'Incarnazione di Gesù. Nella cimasa
Gesù crocifisso muore, da uomo, scontando il peccato dell'umanità assunto su di sé, ed è compianto da
Maria (vestita a lutto) e da Giovanni. Nella tavoletta centrale della predella il corpo morto (umano) di Gesù
viene sepolto, nell' attesa della sua resurrezione, che è garanzia della redenzione e della futura vita eterna
dell'umanità. Il tema principale del polittico è dunque costituito dalla vicenda terrena di Gesù come
Misericordia divina e dalla sua presenza, come attiva forza salvifica, nella storia umana. L'allineamento
verticale di queste 3 immagini testimonia che la Misericordia applicata da Maria ai suoi fedeli è fondata su
Gesù, anzi è Gesù stesso. Qui Maria è presentata come Mater omnium in quanto è Mater Dei.

Piero della Francesca insiste sul tema della Madonna Mater (Madre di Dio, della Misericordia, della nuova
Legge, ecc.) anche nel celebre affresco della Madonna del Parto (1455- 1465 circa; già nella cappella della
Santa Maria di Momentana, ora a Monterchi), in cui Maria è presentata come Vergine incinta e come nuova
Arca della nuova Alleanza. Le raffigurazioni della Madonna incinta (chiamata popolarmente Madonna del
parto) sono diffuse in Toscana fin dalla prima metà del Trecento: qui accanto si vede un esempio del 1320
circa, conservato nel Museo dell'Opera del Duomo di Prato. L'immagine dimostra innanzitutto ad
evidentiam che Gesù nacque da una donna e aveva dunque anche natura umana. Il libro poggiato sul
ventre significa il Vangelo, cioè il libro della nuova Legge: in Mt 5:17, Gesù dice di essere appunto la nuova
Legge che completa e sostituisce la vecchia Legge di Mosè. Se la Legge di Mosè costituiva la garanzia della
prima, antica alleanza fra Dio e gli uomini, Gesù è la nuova Legge, cioè la garanzia della nuova alleanza,
basata non più sulle rigide prescrizioni contenute nella legge di Mosè bensì sulla grazia donata all'uomo dal
Figlio per opera dello Spirito e per volontà del Padre. La tenda spalancata dagli angeli allude da un lato alla
tenda eretta dagli ebrei nel deserto sotto la guida di Mosè al cui interno era custodita l'arca dell'alleanza
che conteneva le due tavole della Legge e che era decorata dalle figure di due cherubini (Es 25 e 37).
Dall'altro allude alla presenza del mistero eucaristico (=Gesù) entro il corpo della Chiesa (= Maria), sulla
base della Lettera agli Ebrei 9:11, che, dopo aver descritto la vecchia tenda dell'Arca, dice che «Cristo,
invece, è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta,
non costruita da mano d'uomo, cioè non appartenente a questa creazione» (in riferimento a Maria come
Immacolata Concezione). Infine, aprendosi come per ospitare tutti i fedeli bisognosi di aiuto, allude alla
maternità di Maria come mater Misericordiae. Un'allusione alla medesima tematica si potrebbe forse
cogliere nella similare fodera del manto della Vergine della Misericordia affrescata attorno al 1380
dall'anonimo Maestro di San Leonardo nella chiesa di Santa Maria Maggiore ad Assisi; qui l'immagine è
affiancata da quelle dei santi Biagio e Lucia. 

Secondo alcuni esegeti, anche nel Vangelo di Luca si può cogliere un'allegoria di questo tipo. Basandosi su
2Sam 6, Luca paragonerebbe infatti l'episodio della Visitazione di Maria ad Elisabetta al trasporto dell'arca a
Gerusalemme operato dal re David, caricandolo di significati escatologici. La levata e il viaggio di Maria
verso le colline della Giudea per visitare Elisabetta (Lc 1:39) rinvierebbero alla levata e al viaggio compiuto
da David verso la medesima regione secoli prima per recuperare l'Arca dell'Alleanza (2Sam 6:2). Al cospetto
di Maria, Elisabetta prova lo stesso sbalordimento e lo stesso senso di indegnità (Lc 1:43) avertiti da David
dinanzi all'Arca (2Sam 6:9). Durante l'incontro delle due madri, Giovanni sobbalza per la gioia nel ventre di
Elisabetta (Lc 1:41); ma anche David per la contentezza saltò e danzò davanti all'Arca (2Sam 6:16). Maria
soggiornò nella casa di Zaccaria per tre mesi (Lc 1:40 e 56) e anche l'Arca restò per tre mesi nella casa di
Obed-Edom (2Sam 6:11). Inoltre il verbo greco adoperato in Lc 1:42 per esprimere l'esclamare (anaphonèo)
di Elisabetta al cospetto di Maria (un unicum nel Nuovo Testamento) è il medesimo verbo che nella
versione greca dell'Antico Testamento (la traduzione dei Settanta ben nota a Luca) si trova sempre
utilizzato in connessione con l'Arca dell'Alleanza (1Cron 15:28; 16:4-5; 2Cron 5:13; cfr. anche Lc 1:5). 

In ambito centro-italiano si trovano altri esempi - con molte varianti - di questa iconografia che amplifica il
significato allegorico di Maria come arca della nuova alleanza: un esempio è costituito dalla pala di Santa
Reparata eseguita nel 1498 dal cosiddetto Maestro di Marradi (Marradi è un comune che
amministrativamente fa parte della città metropolitana di Firenze, pur essendo collocato sul versante
romagnolo dell'Appennino, nella cosiddetta Romagna toscana)  per la chiesa di San Lorenzo a Marradi.
Anche qui gli angeli spalancano la tenda sotto la quale Maria, questa volta, è seduta in trono tenendo sulle
gambe il Bambino nell'iconografia del Pantokrator (di cui parleremo più avanti). Ma in quegli anni per la
medesima chiesa di San Lorenzo il Maestro di Marradi dipinge anche una più canonica effigie della
Madonna della Misericordia che potremmo adottare come perfetto paradigma iconografico. 

Resta qui solo da rammentare un uso votivo e del tutto privato dell'immagine della Vergine della
Misericordia, come vediamo in questo bassorilievo andato all'asta nel 2017 con l'attribuzione a Marco
Pirleto, un lapicìda (cioè intagliatore di pietre, una categoria operaia che era socialmente e
professionalmente al di sotto di quella dello scultore) attivo a Venezia alla fine del Quattrocento. L'opera,
concepita per essere murata all'esterno di un edificio, oggi è erratica (vuol dire che, in una data ignota, è
stata staccata dal contesto murario nel quale si trovava, diventando dunque un oggetto mobile, che si può
spostare) e riproduce la Vergine della Misericordia affiancata da san Rocco e san Cristoforo, due santi
taumaturghi (cioè guaritori, invocati in tempo di epidemie); si tratta infatti di un ex voto realizzato in segno
di grazia ricevuta, come testimonia l'iscrizione posta alla base della raffigurazione: «IN TEMPO DE SALVIXE /
DE ZUANE GASTALDO F498» (cioè F[atto] nel [1]498, al tempo della salvezza, cioè guarigione, di Giovanni
Castaldo, o del gastaldo Giovanni). Nell'estate del 1498 risulta infatti documentata a Venezia un’epidemia
di cosiddetta peste (probabilmente di tifo). Il gastaldo (castaldus) era un amministratore pubblico della
Repubblica di Venezia.

VARIANTI DELL’ICONOGRAFIA
Come già vedemmo (anche nel caso del bassorilievo appena citato), si registra intanto una peculiare e
arcaistica tipologia di Virgo Misericordiae che nel ventre della Madonna incorpora - in chiave eziologica, per
spiegare l'origine della grazia concessa da Maria - una mandorla con l'effigie del Bambino, e che deriva dal
tipo della Panaghia Platytera, che evidenzia la qualifica di Theotokos di Maria. Questa particolare tipologia
è presente tra la fine del secolo XIV e gli inizi del XV soprattutto in Umbria e nelle Marche (per un
presumibile influsso veneziano). Qui vediamo una tavola di Paolo Veneziano, databile al 1330 circa
(Venezia, Gallerie dell'Accademia) in cui Gesù benedice un fedele (si tratta del committente del dipinto) e
sua moglie che vengono accolti da Maria sotto il mantello in segno di misericordiosa protezione. Maria
regge il Bambino con la mano destra, ma poiché Gesù è racchiuso in un clipeo (che si presenta come una
specie di bolla di luce di forma ovale) è come se fosse raffigurato contenuto nel ventre della Vergine. I fiori
che tiene nella mano sinistra alludono alla grazia concessa al fedele, che aveva commissionato il dipinto
appunto come ex voto per la grazia ricevuta.

Nelle Marche fanno parte di questa casistica le tavole di Jacobello del Fiore nel Santuario della Beata
Vergine delle Grazie a Pesaro, del 1407... e alle Gallerie dell'Accademia di Venezia (ca. 1415- 1420), in cui la
Vergine della Misericordia è posta tra le figure dei due santi di nome Giovanni. In entrambe le immagini
Gesù è raffigurato come pantocràtore, vestito, seduto e benedicente, all' interno di una mandorla. La
mandorla mistica, detta anche, in latino, vesica piscis (cioè vescica di pesce, in riferimento alla forma della
vescica natatoria dei pesci), è un'antica figura geometrica dotata di forte valore simbolico, ottenuta dall'
intersezione di due circonferenze dotate di uguale raggio i cui centri siano compresi l'uno nella
circonferenza dell'altro. Ciò fa sì che in essa possano inscriversi due triangoli equilateri contrapposti,
elemento che contribuisce ad accentuare il simbolismo mistico della figura. Posta nel verso orizzontale, la
mandorla ricorda la forma schematizzata di un pesce: ciò ne ha favorito anticamente l'utilizzo simbolico in
riferimento a Cristo, a causa dell'acrostico della celebre locuzione «Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore» in
greco (Incong Xputós, Oeon, Yióg, Eomp; di qui si ricava il lemma IXOYE, che significa pesce). Si è poi anche
ritenuto che la sua forma, ottenuta dall'intersezione di due circonferenze, potesse esprimere il rapporto tra
due distinte realtà, il mondo terreno e quello celeste; o che la sua configurazione, simile a quella di un
seme, potesse rinviare in modo basilare all'accezione «ciò che crea e favorisce la vita». Queste due letture
ne favorirono l'uso come cellula spaziale definita da contorni entro cui inserire raffigurazioni di Gesù, di Dio
Padre e della Vergine (come nel nostro logo!). Va però detto che la caratteristica che accomuna queste
iconografie è quella della gloria celeste, cioè della collocazione del personaggio (in essa compreso)
all'interno della luce paradisiaca. Dunque pare più probabile che la mandorla sia assimilabile a un'aureola
luminosa (e numinosa, cioè in grado di evidenziare ed accentuare il mistero della dimensione divina)
amplificata sino a comprendere l'intera figura; anche perché, a volte, la sua forma è globulare, come
vedemmo nel caso del dipinto di Paolo Veneziano. In un'opera che esamineremo tra poco, la pala di
Giovanni Antonio Bellinzoni nel Santuario di Santa Maria dell'Arzilla a Pesaro, la mandorla è composta da
strisce di colore che vanno dal bianco (il margine esterno della mandorla) sino al blu (all'interno): qui le
varie tonalità di blu, o meglio di celeste, alludono appunto alla luminosità della gloria paradisiaca: nella
tradizione iconografica medievale, infatti, il blu (come anche il celeste) è un vero e proprio sinonimo del
colore oro, e significa sia la luce del Cielo sia la natura divina del Verbo incarnato. Dunque la mandorla
mistica della Gloria celeste è in sostanza definibile come una sorta di traduzione in termini visivi dell'ultima
descrizione della dimensione divina - nel contesto della Gerusalemme celeste - che troviamo nella Bibbia,
quella di Ap 21:23, ove si dice che «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la
Gloria di Dio la illumina (…)»; così come traduce anche alcune espressioni di lode al Signore, come quella
del Salmo 104(103):1-2, «Anima mia, benedici il Signore! Signore, mio Dio, tu sei veramente grande; sei
vestito di splendore e di maestà. Egli si avvolge di luce come d'una veste; stende i cieli come una tenda» 
Nelle due già citate tavole di Jacobello (in basso) Gesù è raffigurato come Pantokràtor (=il signore di ogni
cosa, colui che ha potere su tutto): è vestito e benedicente, in atto di reggere con la mano sinistra un libro o
un globo simboleggiante il Creato; sta seduto sulla linea di demarcazione dei Cieli (spesso raffigurata come
un arcobaleno, come segno dell'alleanza tra Dio e gli uomini, in rapporto a Gn 9:12-15: «Questo è il segno
dell'alleanza che io pongo tra me e voi (...) per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell'alleanza tra me e la terra. Quando apparirà l'arco sulle nubi, ricorderò la mia
alleanza (...) tra me e voi (...)»; cfr. anche Gn 9:16-17). Il libro che il Cristo Pantocràtore tiene con la sinistra
è in genere identificato come il Vangelo, testo della Nuova Legge (nelle raffigurazioni in cui esso è aperto vi
si leggono versetti quali appunto, ad esempio, «Ego sum lux mundi»: Gv 8:12). Inteso in una prospettiva
diversa, il libro può rinviare però anche a quello dei 7 sigilli, contenente i destini del mondo creato, che
viene citato nell'Apocalisse: Giovanni racconta della sua visione dell'Agnello che prende il libro del destino
che Dio nelle vesti di Pantocràtore tiene, sigillato, nella sua mano destra: «Dopo ciò ebbi una visione: una
porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti
mostrerò le cose che devono accadere in seguito. Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo,
e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e a cornalina. Un
arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. (...) Davanti al trono vi era come un mare trasparente
simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di
dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo
vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola. I quattro esseri viventi
hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere:
Santo, santo, santo il Signore Dio, l'Onnipotente, Colui che era, che è e che viene! E ogni volta che questi
esseri viventi rendevano gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e che vive nei secoli dei secoli, i
ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli
dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono, dicendo: Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di
ricevere la gloria, l'onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create
e sussistono» (Ap 4:1-10).  «E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di
rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che
proclamava a gran voce: Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli? Ma nessuno né in cielo, né in
terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. lo piangevo molto perché non si trovava
nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: «Non piangere più; ha vinto il leone
della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli». Poi vidi ritto in mezzo al
trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna
e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. E l’Agnello giunse e prese il libro dalla
destra di Colui che era seduto sul trono. E quando lo ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro
vegliardi si prostrarono davanti all'Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d'oro colme di profumi, che
sono le preghiere dei santi. Cantavano un canto nuovo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e
nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra» (Ap 5:1-
10).  «Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il
loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: L'Agnello che fu immolato è
degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione. Tutte le creature del
cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: A Colui che siede
sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli. E i quattro esseri viventi dicevano:
Amen. E i vegliardi si prostrarono in adorazione» (Ap 5:11-14). 

Ancora nelle Marche, nella chiesa di San Domenico a Cingoli (polo museale legato alla locale Pinacoteca),
troviamo l'affresco di Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro (1415-1477), del 1455, proveniente dalla
chiesa di Santa Maria Maggiore (detta del Gonfalone) sempre a Cingoli (Macerata). Anche qui è evidente
l'influsso dei modelli orientali; ma quest'opera è particolarmente importante per noi perché il Bambino,
racchiuso nella mandorla, viene raffigurato completamente nudo, ritto in piedi in una strana posa che si
direbbe quasi legata a finalità di tipo anatomico. Un esame più approfondito rivela che lo scopo di tale
presentazione era quello di mostrare la palese difformità tra la parte destra del corpo, perfetta, che ne
simboleggia la natura divina (corpo proporzionato e ben formato) e la parte sinistra, volutamente
imperfetta, che ne simboleggia la natura umana (occhio strabico e corpo non proporzionato, con la gamba
e il braccio più lunghi e la mano con l'anomalia mostruosa delle sei dita). Certamente non può trattarsi di un
errore del pittore e rammento che l'opera si trova in una chiesa. Ma la questione è anche più complessa,
perché riguarda il problema della corretta raffigurazione del corpo di Gesù Cristo a scopi devozionali e
liturgici. Nel salmo 45 si legge che Gesù era bello: «Tu sei bello, più bello di tutti i figli degli uomini; le tue
parole sono piene di grazia; perciò Dio ti ha benedetto in eterno» (Sal 45:2). Nonostante questa
testimonianza (profetica) alcuni scrittori ecclesiastici, in particolare quelli greci, dichiararono che Gesù
doveva essere raffigurato come un uomo brutto, rifacendosi a quanto profetizzava Isaia: «Chi avrebbe
creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?. È cresciuto come un
virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri
sguardi, non ha splendore per far sì che si provi diletto alla sua vista. Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e
non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato». Si sviluppò dunque l'idea che la bellezza di
Gesù non fosse umana (cioè percepibile dagli uomini) bensì divina. Così san Giustino martire affermò che
Gesù era deforme (Dialogo con Trifone, 88) e così riporta anche Eusebio di Cesarea: per Clemente
Alessandrino egli aveva un brutto viso (Pedagogo, Ill, 1); per Tertulliano aveva un aspetto ripugnante (De
carne Christi, 9); per sant'Efrem era alto solo 135 cm (Inni e sermoni, IV, col. 63 1); Origene non smentisce
Celso che scriveva che Gesù era piccolo e sgraziato, ma dice anche - significativamente - che Gesù appariva
brutto agli empi e bello ai giusti (Contro Celso, VI,75; Sopra Matteo, 100).

Ma rivediamo ora di nuovo la tavola del 1462 dello stesso Giovanni Antonio Bellinzoni nel Santuario di
Santa Maria dell'Arzilla a Pesaro, che già riproducemmo poco sopra. La dedica in lettere gotiche recita:
«Giovanni Antonio Pesarese ha dipinto. Ave Maria. Nell'anno del Signore 1462 il giorno 8 dicembre questa
immagine di S. Maria della Misericordia commissionò la comunità di Saltara». I devoti raffigurati sono i
membri della Confraternita della Misericordia. È interessante riscontrare anche qui - come nel polittico di
Borgo San Sepolcro di Piero della Francesca - la diretta connessione tra l'immagine della Madonna della
Misericordia e quella del Cristo crocifisso (presente nell'affresco soprastante la tavola), che possiede una
valenza fortemente redentiva. Ciò è confermato dal fatto che il Figlio, nella mandorla, è raffigurato nudo in
atto di reggere la croce (e benedice facendo il segno della croce), con una dichiarata allusione alla
crocifissione e dunque al sacrificio eucaristico che è salvifico per l'umanità. Le varie tonalità di blu, o meglio
di celeste, che progrediscono da quella più scura - al centro - fino al bianco che segna il margine della
mandorla, alludono alla luminosità della gloria paradisiaca: nella tradizione iconografica medievale, infatti, il
blu (come anche il celeste) è un vero e proprio sinonimo del colore oro, e significa sia la luce del Cielo sia la
natura divina del Verbo incarnato. Giovanni Antonio Bellinzoni tornò poi su questa iconografia in un altro
affresco, databile al 1470 circa, nella chiesa di Santa Maria della Fonte, a Saltara (Pesaro). Anche qui, come
nella pala di Arzilla, Gesù è raffigurato come Redentore eucaristico. In questo caso, all'interno della
mandorla, si scalano le gradazioni del giallo (partendo tuttavia da un accenno di celeste, proprio dietro il
corpo del Bambino), che rinviano più chiaramente alla gloria del Cielo e alludono alla natura divina del
Verbo incarnato. Questi modelli si diffusero sul suolo marchigiano.

A Jesi, in provincia di Ancona, è molto venerato un affresco della metà del Quattrocento presente nel
Santuario della Madonna delle Grazie, collegato alla cessazione di una pestilenza (1456). Simile al
precedente è l'affresco di Andrea di Bartolo da Jesi, del 1471, della chiesa della Madonna della Misericordia
a Belvedere Ostrense (Ancona; a destra). In entrambi i casi il Bambino, pure qui nudo e in posa frontale,
non presenta alcuna anomalia anatomica, ma regge il globo e benedice, con la gestualità del Cristo
Pantokrator (il confronto è stavolta col mosaico del duomo di Cefalù). Ma nell'affresco di Andrea di Bartolo
il Bambino ha sul capo un attributo sconcertante: due corna ben visibili, simili a quelli di una capretta. È
chiaro che non si tratta di un messaggio demoniaco: esse non sono un attributo diabolico, bensì rinviano
alla tradizione iconografica che raffigurava Mosé dotato di due piccole corna (come nel caso del famoso
Mosè di Michelangelo) che derivava da un fraintendimento di san Girolamo. Infatti nella sua Vulgata (la
traduzione in latino della Bibbia, molto diffusa fino al Medioevo poiché essa costituì la versione della Bibbia
ufficiale per secoli nella Chiesa d'Occidente) Girolamo fraintese il senso del passo che descriveva la discesa
di Mosé con le tavole della Legge dal monte Sinai (Es 34:29) e tradusse male la parola «luminoso» del testo
originale, rendendola con l'aggettivo «cornuto». Vale la pena di approfondire. L'attributo delle corna deriva
dal fatto che il testo originale ebraico (testo masoretico) narra che, dopo aver ricevuto da Dio le tavole dei
dieci comandamenti, Mosè ignorava che la sua pelle era raggiante (il verbo ebraico è qrn). L'ebraico scritto
non riporta le vocali per cui uno stesso termine può assumere significati differenti a seconda delle vocali
che vi si inseriscono. Qui la radice trilittera qrn può indicare sia il termine QARAN, cioè radiosità (come
irradiazione luminosa), sia il termine QEREN, cioè corna. L'interpretazione data dai masoreti, che è quella
attualmente preferita dalla comunità religiosa canonica, è che l'autore volesse indicare appunto che il volto
di Mosè era luminoso. Duque san Girolamo, invece di tradurre «Mosè ignorava che il suo volto fosse
divenuto luminoso» (per essere egli stato al cospetto di Dio), scrisse che esso era divenuto «cornuto».
Questo errore influenzò molti artisti ancora fino al Rinascimento, fino a quando le nuove edizioni della
Vulgata - riviste ed emendate - non lo corressero. In effetti con la diffusione dello studio delle lingue
originali della Bibbia ha preso progressivamente piede l'interpretazione data dai masoreti. Molti pittori però
hanno continuato a preferire l'iconografia tradizionale di Mosè cornuto. In alcuni casi il volto di Mosè è
stato raffigurato con due fasci di luce, simili a corna, che partono dalla sommità del capo, scelta che
congiunge le due interpretazioni allo stesso tempo. Dunque nell'affresco di Andrea di Bartolo il Bambino
«cornuto» è presentato come il nuovo Mosè (il rav, cioè maestro, per antonomasia): come il patriarca
aveva dato agli Ebrei la vecchia Legge, così Cristo reca ai cristiani la nuova Legge. Si ripropone pertanto
anche in questo caso la tematica del Gesù inteso come la Nuova Alleanza, la cui madre Maria è intesa come
la Nuova Arca che la contiene.

Un'allusione all' iconografia di stampo platyteriano (per così dire) della Vergine della Misericordia si
potrebbe cogliere in quelle immagini in cui Maria reca un vistoso fermaglio di forma ovale, o meglio a
forma di mandorla o di vesica piscis, che, in dimensioni ridotte e pur in assenza della figura del piccolo
Gesù, ricorda il succitato motivo iconografico. Un esempio di ciò, come vedremo nelle schede seguenti, è
fornito dalla tavola (in imperfette condizioni di conservazione) attribuibile a Luca Signorelli con interventi di
bottega (circa 1496-1497), che, già nella chiesa di San Francesco a Pienza (Siena), è ora custodita nel locale
Museo Diocesano, e che qui analizzerò rapidamente sotto il profilo iconografico. Ai lati della Vergine stanno
san Sebastiano e san Bernardino da Siena (†1444): credo che si tratti di un chiaro riferimento, di sapore
votivo, ad un'epidemia. Infatti (come ricavo da P. DELCORNO, La carità come virtù politica: Bernardino da
Siena, l'ospedale e la peste, in Politiche di misericordia tra teoria e prassi. Confraternite, ospedali e Monti di
Pietà (XIlI-XIV secolo), a cura di P. Delcomo, Bologna 2018, pp. 195-228) gli atti del processo di
canonizzazione di Bernardino (1445-1450) menzionano un suo esemplare e caritatevole servizio di
assistenza ai malati, svolto durante la «pestilenza» dell'anno 1400 presso l'Ospedale di Santa Maria della
Scala a Siena; a quel tempo il giovane Bernardino era membro della Confraternita mariana di flagellanti che
era sorta presso l'Ospedale. Gli atti ricordano che, per coinvolgere nel servizio gli altri confratelli, egli
pronunciò un sermo de peste in cui, citando Mt 25, rammentava appunto le opere di misericordia. La pala
di Signorelli dunque, accostando Bernardino al santo taumaturgo Sebastiano, propone ai devoti il santo
senese come nuovo exemplum di caritas e di misericordia nei confronti dei malati di «peste». Si noti che il
monile consiste di un rubino attorno al quale corre una cornice d'oro sui cui punti cardinali sono applicate 4
perle. Lo schema può appunto ricordare le raffigurazioni del Cristo Pantocratore nella mandorla della gloria
celeste, spesso contornate dai simboli dei 4 evangelisti (è la resa in immagine del Messia annunciato dai 4
vangeli: al posto della mandorla sta talora la croce), o in alternativa punteggiate da 4 monogrammi di Cristo
(IHS). Oppure può ricordare le raffigurazioni di tipo mandalico poste sulle facciate delle chiese romaniche o
nei manoscritti, parimenti contornate dal tetramorfo degli evangelisti (come a Saint-Gabriel de Tarascon).
In effetti il rubino, per la sua grande luminosità (gli antichi credevano che potesse risplendere nella notte
come un carbone ardente), possiede una simbologia di tipo cristologico. Come infatti riassume E.
SCHOOMHOVEN, Fra Dio e l'imperatore. Il simbolismo delle pietre preziose nella Divina Commedia, Dante.
Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, III, 2006, pp. 69-93, 77 e 86, l'erudito abate Rabano Mauro
(†856) ricollegava il rubino all'incipit del Vangelo di Giovanni, paragonando questa pietra preziosa al Verbo
di Dio che irradia luce nelle tenebre, cancellando il peccato. Per il cistercense Guarniero di Rochefort (†
1202) il rubino, sulla base di Ez 28:15, è simbolo della luce della conoscenza divina. Il tipo di rubino a cui era
attribuita tale simbologia era in particolare il rubino balascio, o spinello nobile (citato da DANTE, Paradiso,
LX, vv. 67-69). Ma anche la perla, cui gli antichi attribuivano grandissimo pregio, è simbolo di Cristo. Ciò si
ricava sia da Mt 13:45-46, dove si narra la parabola del mercante che, individuata una perla di immenso
valore, dà via tutti i propri i beni per acquistarla (giacché il Redentore è questa salvifica perla, per
conseguire la quale ciascuno deve rinunciare a tutto ciò che possiede), sia da Ap 21:21, che asserisce che
ciascuna delle 12 porte della Gerusalemme celeste era una perla (Cristo-perla è la porta che apre il nostro
ingresso al Regno dei Cieli). Proseguendo su questa traccia, la perla, nella cultura esegetica medievale,
simboleggia anche i Vangeli, come dimostra H. SEDINOVÃ, La perla nell'esegesi e nei reliquiari medievali,
Listy filologické - Folia philologica, CXXVII, 2004, 1-2, pp. 37-53, 37-38. Da ciò, dunque, la nostra lettura del
prezioso fermaglio di Maria come figura del Cristo nella mandorla risulterebbe confermata. 

Tornando alla Vergine della Misericordia, nelle Marche l'iconografia che prevede la Madonna incinta, con la
raffigurazione del piccolo Gesù nel suo ventre, è attiva ancora alla fine del Quattrocento, come dimostra
quest'opera di un anonimo pittore marchigiano eseguita nel 1494 (Rocca di Gradara, nella provincia di
Pesaro e Urbino). Qui il Bambino è configurato in modo anatomicamente normale, ma, come nei casi
precedenti, ostenta una completa nudità (a dispetto del velo, che è sottile e trasparente) e mostra i genitali,
a dimostrazione della completezza dell'avvenuta Incarnazione del Verbo. Quest'ultimo argomento, in gran
parte obliterato dalla sensibilità odierna, che è mutata rispetto al passato, è fondamentale sotto il profilo
teologico: e proprio per l'importanza che riveste nell'iconografia e nella dottrina della Misericordia, richiede
un breve approfondimento. In molte immagini rinascimentali si certifica l'avvenuta, totale e completa
Incarnazione del Verbo attraverso lo scoprimento e l'ostentazione della nudità di Gesù. Un esempio è dato
da un affresco nella cappella dell'Almo Collegio Capranica di Roma, dipinto da Antoniazzo Romano o da un
suo collaboratore (come suppone G. Russo, Antoniazzo Romano, tesi di Dottorato, Università Federico I di
Napoli, 2013-2014, cat. 134, pp. 517-518) nell'ultimo quarto del Quattrocento. Il pittore, su incarico dei
committenti, ha dipinto Maria che, con la mano destra, alza la veste del Figlio (che compie il gesto del
Pantokrator) e, con la sinistra, rivolge la nostra attenzione ai suoi genitali. In quest’ opera, dunque, i due
fratelli cardinali Capranica, Angelo (†1478) e Domenico (†1458) non solo pregano con devozione dinanzi
alla Vergine e al Bambino, ma più specificamente adorano il mistero dell'Incarnazione. 

Alla fine del secolo XV Pietro Perugino realizzò questo splendido dipinto (1495-1505 circa; Washington,
National Gallery) che è assai riduttivo, anzi sbagliato, denominare banalmente come Madonna col Bambino.
In realtà l'opera raffigura propriamente la Vergine assorta nella contemplazione del mistero
dell'Incarnazione del Verbo, e di conseguenza nell'adorazione del Figlio, come Verbo incarnato. È infatti
evidente che Maria, come rivela anche il gesto della mano sinistra, stia guardando tra le gambe del Figlio.
La Vergine, conoscendo la verità grazie alla rivelazione fattale dell'arcangelo Gabriele, sa bene che Gesù è il
Verbo, Figlio di Dio, e col suo gesto sta constatando la realtà concreta del mistero della sua Incarnazione.
Quanto al Bambino, pare che stia mimando, con le due mani, l'atto di reggere qualcosa che non appare: è
verosimilmente la croce, che Gesù porta iscritta nel proprio destino: c'è già, dunque, ma ancora non si
vede. Gesù è un uomo completo, anche se i suoi organi sessuali, formati di carne incorrotta essendo egli
nato da donna vergine, saranno destinati anch'essi a preservare l'originaria verginità e la connaturata
purezza, come si ricava dalle fonti canoniche neotestamentarie e dai documenti della Chiesa Romana: cfr.
per esempio l'enciclica di Paolo VI Sacerdotalis caelibatus (24 giugno 1967), al capo 21: «Cristo, figlio unico
del Padre, in virtù della sua stessa incarnazione, è costituito Mediatore tra il cielo e la terra, tra il Padre e il
genere umano. In piena armonia con questa missione, Cristo rimase per tutta la vita nello stato di verginità,
che significa la sua totale dedizione al servizio di Dio e degli uomini». In base a questi assunti, la presenza
degli organi sessuali nel corpo di Gesù è finalizzata esclusivamente alla conferma della piena Incarnazione
del Verbo, avvenuta attraverso quel processo di esinanizione (cioè uno svuotamento o abbassamento
volontario e misericordioso del proprio status divino fino ad accogliere in sé, per la carità, la condizione e la
dimensione dell'uomo) di cui parla san Paolo in Fil 2:6-8, e che va considerato non come un
depauperamento delle infinite qualità e proprietà che caratterizzano Dio bensì, viceversa, come
un'aggiunta e un arricchimento di quelle. “Se c' pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto
derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione,
rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non
fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri
superiori a sè stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
croce” (Fil 2: 1-8). 
Si direbbe dunque che la stessa forma umana di Gesù abbia valore kerygmatico (faccia cioè pienamente
parte dell'annuncio e proclamazione della Nuova Legge). Questi argomenti sembrano essere stati fonte di
riflessione per Michelangelo - artista prossimo alle cerchie romane degli alumbrados (cioè illuminati) di
Juan de Valdés -che nelle sue opere (dalla Madonna col Bambino di Bruges, sino al Cristo risorto, qui
presentato nella sua prima versione) valorizzò la nudità del Messia, riconducendola al tipo perfetto del vir,
esempio e repositorium (cioè deposito) di tutte le virtutes. Anche in queste due Adorazioni dei Re magi di
Pieter Brueghel il Vecchio (1564: a destra) e di Mattia Preti (in basso) compare questa tematica: si nota
infatti chiaramente che il più anziano dei tre (Melchiorre), chinandosi per rendere omaggio al neonato
Messia, sembra cogliere l'occasione per controllare con discrezione che il piccolo Gesù sia un maschietto
formato in tutto e per tutto...

Le tematiche (molto complesse dal punto di vista dottrinale) circa l'esaltazione del mistero
dell'Incarnazione in pittura attraverso l'evidenziazione degli attributi maschili di Gesù furono studiate con
acribia e serietà - e con l'ausilio di fitte documentazioni di natura trattatistica e omiletica, spesso di origine
papale e curiale - da Leo Steinberg in un importante libro del 1983, pubblicato in traduzione italiana nel
1986 e da allora mai più ristampato in Italia (cosa che non meraviglia affatto, in considerazione della
modesta attenzione che tali tematiche suscitano negli intellettuali della nostra tortuosa penisola). È chiaro
che queste iconografie sono diffuse solo in certi periodi e in determinati contesti e si riscontrano in opere
legate a specifici episodi di committenza, intenzionati a sottolineare questo aspetto dell'Incarnazione. 

Tenterò di analizzare in tal senso una nota xilografia di Hans Baldung Grien del 1511. In essa sant'Anna si
applica a verificare la presenza e la buona conformazione del sesso del Bambino per confermare la
completezza dell'avvenuta Incarnazione. È anche possibile che le due dita di Anna indichino allusivamente
le due nature presenti nel Cristo: quella umana (il medio che tocca il sesso del Bambino) e quella divina
(l'indice che non lo tocca). Gesù, intanto, scope l'orecchio di Maria, col quale la Madre ha udito la Parola
dell'annuncio. Nell' opera compaiono inoltre vari simboli e allegorie, che ne arricchiscono il significato. Un
muro separa dal gruppo in primo piano il vecchio Giuseppe, privo di aureola e in posa melanconica
(entrambi elementi di valenza privativa, se non addirittura negativa), intento a scrutare la scena che si
svolge più in basso: egli è relegato a un ruolo così marginale poiché - secondo la concezione dell'epoca -
non prende parte direttamente al piano salvifico di Dio, essendo marito casto di Maria e padre non effettivo
di Gesù. A quei tempi il culto del santo non si era ancora sviluppato (ciò avverrà appieno solo durante la
Controriforma) e queste connotazioni erano assegnate di frequente a Giuseppe nell'arte sacra. Al di sopra
del muro è poggiato anche un tomo che rinvia al Libro del Nuovo Testamento: il fatto che il volume sia
raffigurato aperto potrebbe indicare che la scena tratta di un processo in atto che viene descritto proprio in
quel libro e che fa parte del piano redentivo di Dio. La presenza della data 1511 al di sotto del tomo indica
ulteriormente la valenza temporale di cui è dotato l'elemento iconografico costituito dal libro: l'evento
dell'Incarnazione - verificato da Anna - è descritto nelle pagine del Vangelo ma si sta svolgendo dinanzi a noi
in questo momento (del 1511). L'artista intende dire che Cristo è dunque tra noi, la sua Parola è sempre
viva nella quotidianità del presente. In linea obliqua, il braccio di sant'Anna che verifica gli attributi di Gesù
collega idealmente quest'ultimo con la pianta di vite avvolta attorno all'albero secco, elemento di chiaro
valore eucaristico che rinvia al vivificante sangue versato da Cristo per la redenzione umana: ciò vuol
significare che l'Incarnazione del Verbo rende valido il sacrificio sulla croce ai fini della salvezza dell'uomo.

Va citata anche la Madonna col Bambino di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma (1525- 1530 circa;
Roma, Galleria Borghese), in cui Gesù stesso evidenzia i propri attributi maschili, con la finalità che
dicemmo, tenendo in mano una ciliegia: per farlo usa due dita, come sant'Anna. La ciliegia è un frutto che
nell'arte cristiana simboleggia la Passione (il colore rosso rinvia al sangue versato da Cristo, mentre la forma
simile al cuore rinvia all'amore di Gesù per gli uomini). Gesù riceve da Giuseppe (defilato, come sempre a
quel tempo) una rosa: questo fiore, su cui torneremo, allude qui forse al sacrificio (nelle spine, che rinviano
alla corona di spine, e nel colore rosso, che rinvia al sangue), ma anche alle sue nozze con la Chiesa- Maria
(la rosa è fiore mariano per eccellenza, e segna la simbologia del rosario). Nel Riposo durante la fuga in
Egitto (noto anche come Madonna delle ciliegie) di Federico Fiori, detto Barocci, ai Musei Vaticani (1573),
la ciliegia che Giuseppe porge a Gesù simboleggia appunto la Passione e anche la dolcezza delle gioie del
Paradiso promesse all'uomo dall'opera di redenzione del Cristo. La camiciola bianca di cui il Bambino è
vestito rinvia sia alla purezza della carne ricevuta da Maria Immacolata, sia al sudario che avvolgerà il corpo
piagato di Cristo morto deposto nel sepolcro. In questa tavola del senese Stefano di Giovanni di Consolo,
detto il Sassetta (1440-1450 circa; Grosseto, Museo Diocesano), che forse costituiva la parte centrale del
polittico Petroni per la chiesa grossetana di San Francesco, una Vergine dall'espressione triste offre ciliegie
a Gesù, che, portandosene una alla bocca, si mostra interdetto e preoccupato. Con la destra il Figlio - che
mostra le nudità - apre il manto della Madre, fornendo così all'immagine una connotazione di «disposizione
alla misericordia» che è chiaramente legata al tema dell'Incarnazione del Verbo e al suo sacrificio. Anche in
questa tavola di Dieric Bouts (†1475) Maria - caratterizzata da un'aria piuttosto premurosa e vagamente
triste - offre due ciliegie a Gesù, accostandole al cardellino che questi tiene nella mano. Come le ciliegie,
anche l'uccellino, che stende le ali simulando la forma della croce, ben costituisce un altro simbolo
codificato della Passione: il fatto che Gesù lo indichi, rivolgendosi alla Madre come se volesse consolarla,
dimostra come egli sia ben consapevole del suo futuro. Come già vedemmo nel quadro di Barocci, anche
qui la camicia bianca del Bambino allude alla purezza della carne ricevuta da Maria Immacolata e al sudario
che, appunto dopo la Passione, avvolgerà il corpo piagato di Cristo morto. Nella Madonna delle ciliegie di
Tiziano Vecellio (1518 circa; Vienna, Kunsthistorisches Museum) ritroviamo tutti gli elementi sinora
elencati: la tristezza di Maria, consapevole del sacrificio del Figlio; la nudità del Verbo Incarnato
patentemente esposta; le ciliegie come simbolo della Passione. L'annuncio del futuro sacrificio è
confermato da san Giovannino che, in basso a destra, offre al cuginetto (di II grado) il cartiglio con la scritta
«Ecce Agnus Dei», che sancisce che egli è il Messia eucaristico.

Tornando alle varianti iconografiche della Madonna della Misericordia, segnaliamo quella in cui a dispiegare
il mantello della Vergine possono essere due santi, come accade in questa tavola di Hans Clemer (1499-
1500 circa). Si noti, sul capo di Maria, la presenza di un'effigie di Dio Padre col nimbo crociato, in atto di
leggere un libro che certamente allude al progetto divino della redenzione umana, nel quale assume grande
rilevanza la misericordia. L'effigie di Dio Padre col nimbo crociato può apparire incongrua, poiché questo
tipo di aureola spetterebbe di norma al solo Cristo. In realtà ciò deriva dalla renitenza di alcuni artisti a dar
forma visibile al Padreterno, in base a quanto avevano asserito alcuni scrittori ecclesiastici e Padri della
Chiesa, che sostenevano che l'unica manifestazione antropomorfa di YHWH fosse il Verbo incarnato
(riprendendo Gv 10:30, in cui Gesù dice «io e il Padre siamo una cosa sola», e Gv 14:9, in cui Gesù dice «Chi
vede me, vede mio Padre»; nonché Col 1:15, in cui Paolo spiega che «Cristo è immagine di Dio invisibile»;
cfr. 2Cor 4:4). Per questo Dio Padre è talora raffigurato con le sembianze di Gesù, come avviene nei mosaici
di Monreale (a sinistra) o in un affresco di Giusto de' Menabuoi nel Battistero di Padova (a destra). Ma
siccome il profeta Daniele, in una sua visione, aveva descritto Dio come «un vegliardo (...) dai capelli candidi
come la lana» (Dn 7:9), alcuni artisti lo effigiarono anche come un vecchio canuto, barbuto e dotato,
appunto, di un'aureola crociata. 

Torniamo ora al tema della Vergine della Misericordia per esaminare la tavola dipinta verso il 1375
dall'anonimo Maestro della Misericordia (attivo in Italia centrale tra 1370 e 1400: forse Giovanni Gaddi,
figlio del più famoso Taddeo, che fu un pittore giottesco) per il convento della chiesa di Santa Maria di
Candeli, una frazione del comune di Bagno a Ripoli, presso Firenze (l'opera è custodita nelle Gallerie
dell'Accademia a Firenze). Maria protegge col manto - tenuto aperto da due angeli - una comunità di
monache agostiniane, quella che reggeva la chiesa e il convento di Candeli: la scritta la definisce infatti
come «Advocata universitatis» (cioè protettrice della comunità); tuttavia si deve tenere presente la duplice
accezione del termine latino universitas, che può voler dire 1) comunità o corporazione, ma anche 2)
universalità, totalità; sicché la scritta può anche intendersi - credo meno bene - come patrona dell'intero
genere umano, un appellativo che rinvia alla dottrina di Maria Mater omnium. È qui assai rilevante il
particolare del Figlio che, raccogliendo l'atto di intercessione di Maria, appare a benedirla dall'alto,
presentandosi come la fonte (in quanto Divina Misericordia) da cui direttamente deriva la misericordia della
Madre. Gesù tiene in mano un libro dalla copertina rossa che non è un attributo superfluo: il tomo contiene
il testo del Nuovo Testamento (forse più precisamente limitato alla raccolta dei soli quatto vangeli): in esso
è esposta la nuova Legge dell'Alleanza che Cristo ha predicato agli uomini; dichiarando chi sia realmente il
Messia, esso è inoltre anche la garanzia che Cristo è il Verbo incarnato e che il suo sacrificio è l'opera
cruciale di redenzione che Dio ha posto in atto nel suo piano salvifico predisposto per l'Umanità. Dunque il
libro, essendo testimonianza della vera identità di Colui che lo regge, è anche conferma che il Figlio è la
Divina Misericordia. È utile un confronto con il famoso Cristo risorto in atto di benedire, dipinto da
Giovanni Bellini verso il 1460 forse per la chiesa agostiniana di Santo Stefano (San Stin, in veneziano) a
Venezia (ora a Parigi, Louvre): Cristo, che è qui raffigurato da risorto (come indica la veste bianca che
indossa), regge il libro e compie il gesto della benedizione; ma al contempo mostra le piaghe della Passione,
che redimono l'Umanità. Egli è dunque il Redentore e il suo ruolo salvifico è testimoniato dal Vangelo che
tiene in mano. Lo stesso significato - nonostante l'assetto iconografico più semplice e ridotto - possiede il
Cristo risorto in atto di benedire, dipinto da Raffaello nel 1506 circa (Brescia, Pinacoteca Tosio
Martinengo): Cristo, che qui indossa il manto rosso della Passione (un manto che i suoi carnefici,
ponendoglielo addosso, volevano intendere che fosse beffardamente regale e che però, dopo la sua morte,
si trasforma in effettivo attributo di divinità), ostenta ancor più visibilmente le salvifiche piaghe.

Un'altra variate iconografica è costituita da quella in cui la Vergine della Misericordia tiene Gesù tra le
braccia, come si vede nella tavola di Parri Spinelli (figlio del più famoso pittore Spinello Aretino) del 1435-
1437 al Museo Nazionale d'arte medievale e moderna di Arezzo, proveniente dalla chiesa dei Santi
Lorentino e Pergentino di Arezzo (i due santi eponimi sono raffigurati, in grandi dimensioni, ai lati del
gruppo di fedeli). Queste immagini che evidenziano il rapporto di tenerezza e di causalità tra la Madre ed il
Figlio potrebbero, in qualche modo, aver mantenuto la memoria di antichi tipi di iconografia mariana quali
quelli della Panaghìa Eleusa e della Panaghìa Odigitria. La Madonna Odigitria, Odighítria, o anche
Odegétria (dal greco bizantino colei che conduce, mostrando la direzione, composto da due termini che
significano rispettivamente «via» e «condurre, guidare»), altrimenti nota anche come Vergine Odigitria,
Theotókos Odigitria, Panag[h]ía Odigitria e Madonna dell'Itria (Itria è una corruzione di Odigitria), è un tipo
iconografico diffuso in particolare nell'arte bizantina e russa del periodo medioevale. Si ritiene che il
prototipo andasse perduto durante la presa di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453. Come si vede in
questa tavola di Berlinghiero Berlinghieri (secolo XIII), l'iconografia è costituita dalla Madonna che regge in
braccio il Figlio, seduto in atto benedicente, che a sua volta tiene in mano una pergamena arrotolata e che
la Vergine indica con la mano destra, alludendo al fatto che egli è la via della vera redenzione (da qui
l'origine dell'epiteto): con questo gesto si evidenzia in particolar modo la natura divina del Verbo
incarnato. 

La Madonna Eleùsa (o Madonna della Tenerezza; ma si tratta di una definizione moderna, creata dagli
storici dell'arte: si tenga infatti presente che la parola eleos in greco vuol dire propriamente compassione,
misericordia) riconduce a un'iconografia che esalta l'amore della Madre per il Figlio, che ricambia
l'abbraccio di Maria accarezzandole il mento; in tal senso il tipo dell'Eleùsa mette in rilievo la natura umana
del Figlio. Secondo alcuni, in questo momento Gesù rivelerebbe a Maria il proprio destino eucaristico, e ciò
spiegherebbe l’espressione assorta e meditabonda, se non addirittura preoccupata della Vergine. Il più
antico esemplare di quest'iconografia è un avorio egiziano databile ai secoli VIII-IX; la diffusione di questo
typus iconografico nei territori dell'Impero bizantino risale ai secoli XI-XII. Quest’esemplare, la Madonna di
Cambrai (detta anche Notre Dame de Grace, conservata nella Cattedrale di Cambrai), è una copia -realizzata
verso il 1340 da un artista bizantino attivo in Itali – di un prototipo senese del secolo XIV.

Tornando a Parri Spinelli, questo interessante pittore di secondo piano risulta essere stato molto legato al
tema della Madonna della Misericordia: nel 1448 realizzò infatti un affresco (ora staccato) con questo
soggetto per la Sala dell'Udienza Nova del Palazzo della Fraternita dei Laici di Arezzo. Questa volta i
personaggi raffigurati in piedi ai lati del gruppo sono san Donato e il beato papa Gregorio X. Ancora prima,
nel 1428, Parri Spinelli aveva lasciato un affresco raffigurante la Madonna della Misericordia nella chiesa di
Santa Maria delle Grazie (appunto!) sempre ad Arezzo: come racconta Vasari, la cittadinanza aveva
edificato la chiesa essendo stata esortata da una predica che san Bernardino da Siena aveva tenuto in
quella città. Nel 1487 l'affresco venne staccato per essere collocato sull'altare maggiore, incorniciato da una
struttura marmorea eseguita da Andrea della Robbia nella quale, coerentemente col contenuto della pala,
sono incorporati rilievi che esaltano la figura del Verbo Incarnato (in quanto Misericordia divina) e il suo
iter, per noi redentivo, da piccolo Gesù a Christus passus: il gruppo della Vergine col Bambino nella cimasa e
il Compianto della Vergine e di san Giovanni Evangelista sul corpo morto di Cristo, nella base. Questo è un
esempio di come un bene artistico di valore teologico e liturgico possa essere integrato con ulteriori
significati per mezzo di un consapevole e accorto intervento di natura iconografica, operato anche a
distanza di tempo. 

In altre opere, come nel Trittico della Misericordia di Bartolomeo Vivarini (1473, Venezia, chiesa di Santa
Maria Formosa) si insiste invece più fortemente sulla dimensione mariologica a discapito- ma solo in
apparenza - di quella cristologica. Nelle due ante laterali sono raffigurati due episodi che non sono presenti
nel NT ma sono tratti dall'apocrifo Protovangelo di Giacomo, una fonte testuale molto usata dagli artisti e
dagli iconografi antichi: l'Incontro di Gioacchino e Anna (i due genitori di Maria) presso la Porta Aurea - in
cui l' angelo che li unisce è la visualizzazione dell'intervento divino che opera il concepimento immacolato
di Maria - e la maternità di sant' Anna, con la Nascita della Vergine: sono immagini allusive alla dottrina
dell'Immacolata concezione. Qui dunque, in apparenza, la protagonista dell'atto di dispensazione della
misericordia sembrerebbe essere la sola Maria. Si osservi però che la Vergine è raffigurata visibilmente
incinta, e ciò importa all'interno dell'iconografia del trittico tutte le implicazioni che già vedemmo. In
sostanza il pittore vuole dire che l'intera vicenda della concezione immacolata di Maria è finalizzata a
renderla la madre più adatta a ospitare nel suo ventre la misericordia divina che è Gesù (si veda anche il
fermaglio col rubino e le perle, la cui simbologia abbiamo già analizzato). Ancora una volta la dimensione
misericordiosa della Vergine è fondata e giustificata sul frutto della sua maternità e sull'Incarnazione del
Verbo. 

Nella Madonna della Misericordia affrescata da Domenico Ghirlandaio tra il 1476-1477 nella cappella
Vespucci della chiesa di Ognissanti a Firenze si ribadisce il legame dottrinale tra la raffigurazione della
Madre della Misericordia e l'Incarnazione del Verbo grazie alla significativa condizione di assialità in cui si
trova la scena superiore in rapporto alla sottostante scena della Pietà. L'anziano vestito di rosso è stato
identificato come Ser Amerigo Vespucci (†1472), la donna vestita di nero è forse sua moglie Nanna Onesti.
Le altre donne sarebbero figlie e nuore dei due anziani. Il prelato di profilo col mantello di broccato sarebbe
l'arcivescovo di Firenze (forse Antonino Pierozzi, †1459). Accanto a lui il disciplinato della Confraternita di
Gesù Pellegrino, con il cappello bianco, dovrebbe essere Bartolomeo Vespucci. L'uomo in nero che guarda
lo spettatore è l'umanista Giorgio Antonio Vespucci. L'uomo col capperone rosso è Nastagio Vespucci.
Questi ultimi due personaggi sarebbero i committenti dell'affresco. Sulla base del piedistallo si legge la
scritta «Misericordia Domini plena est terra» (Sal 32:5). Così inizia l'introito (il canto che accompagna la
processione di ingresso del celebrante e dei suoi ministri ed introduce alla celebrazione eucaristica)
intitolato appunto Misericordia Domini: si tratta di un introito del tempo pasquale che dà il nome alla
Dominica Misericordia. Appartiene alla liturgia della Messa della Dominica quarta Paschae o della Dominica
Il post Pascha. In essa viene letta la pericope del buon Pastore per cui è conosciuta anche come Domenica
del Buon Pastore: Nell'Enarratio in Psalmum 32, sant' Agostino scriveva: «Della misericordia del Signore
piena è la terra. E che diremo dei cieli? (...) Non c' bisogno della misericordia, laddove non c'è miseria. Nella
terra abbonda la miseria dell'uomo, e sovrabbonda la misericordia di Dio; della miseria dell'uomo piena è la
terra e piena è la terra della misericordia del Signore. I cieli dunque, dove non c'è misericordia, forse che,
non avendo bisogno della misericordia, non hanno bisogno neppure del Signore? Tutte le cose hanno
bisogno del Signore, sia le miserabili che le felici. Senza di lui il misero non si rialza, senza di lui il felice non si
sostiene. Ebbene, perché per caso tu non ti chieda che accade dei cieli, avendo udito: Della misericordia del
Signore piena è la terra, ascolta come anche i cieli abbiano bisogno del Signore: Con la parola del Signore
furono consolidati cieli. Non da se stessi si sono costruiti, né da se stessi i cieli si sono dati la propria
stabilità. Con la parola del Signore furono consolidati i cieli e dallo Spirito della sua bocca tutta la loro forza.
Nulla si son dati da sé, ma tutto in sovrappiù hanno ricevuto dal Signore. Infatti dallo Spirito della sua bocca,
non [deriva] una parte, ma tutta la loro forza». 

Le ulteriori varianti iconografiche da segnalare - che sono piuttosto rare - riguardano la specificazione, per
mezzo di allegorie, delle precise minacce da cui Maria misericordiosa tutela i fedeli: per lo più tali immagini
si riconducono a una congiuntura segnata da epidemie, carestie e guerre, e di conseguenza posseggono
generalmente una spiccata valenza apotropaica o, più ancora, votiva. Si tratta di un complesso di figurazioni
che la Chiesa non adopera più da vari secoli e che perciò oggi possono suscitare perplessità, ma ai loro
tempi erano pienamente ammesse. In quest'opera di Barnaba da Modena (databile al 1375-1380 circa)
conservata nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Genova, Maria tutela come al solito i suoi devoti, che la
pregano con evidente fervore, coprendoli col manto: l'elemento iconografico aggiuntivo è dato dal fatto
che il mantello ferma e rompe le frecce che gli angeli scagliano frattanto sugli esseri umani: coloro che non
si erano riparati sotto le falde del tegimen mariano, infatti, sono tragicamente periti per mano degli arcieri
volanti. Per comprendere l'immagine occorre ricordare che gli angeli sterminatori (tipici del VT), che
uccidono gli empi e i rei, non lo fanno di propria iniziativa, ma sono comunque sempre dei messaggeri divini
e obbediscono al volere del Signore. La tavola è infatti mutila sia dei lati sia della cimasa, nella quale si
sarebbe veduto Gesù nelle vesti di Christus iratus, adirato e armato di 3 frecce, in atto di comandare agli
angeli la strage (la mano sinistra che si vede in alto e che tiene un dardo appartiene però probabilmente
anch'essa a un angelo). L'atto violento e l’ira stessa del Christs iratus si spiegano intendendo che nel
Medioevo i peccati compiuti dall'uomo erano interpretati come offese direttamente arrecate al Salvatore e
a Dio. Una scena analoga si vede nel Gonfalone di S. Francesco al prato (1464: a sinistra) di Benedetto
Bonfigli e Mariano d' Antonio, con san Lorenzo, sant'Ercolano, san Francesco e san Bernardino; san
Lodovico, san Costanzo, san Pietro e san Sebastiano (Oratorio di San Bernardino, Perugia). Così anche nel
gonfalone della Madonna delle Grazie del Museo Parrocchiale Don Aldo Rossi di Paciano, presso Perugia,
dipinto verso il 1470 dalla bottega del Bonfigli (a destra). Si noti la presenza apotropaico-taumaturgica di
san Sebastiano. E ancora nella pala centrale del polittico dipinto da Ludovico e Antonio Brea per l'altare
maggiore del Convento di San Domenico a Taggia (1483- 1488). Il colore verde (che ha una tradizionale
valenza vivificante) insolitamente attribuito al manto di Maria allude alla misericordiosa protezione che dà
la vita ai fedeli. Anche nella tavola che Valentino Pica senior dipinse nel 1446 per la confraternita dei
Raccomandati della chiesa di Sant'Agostino a Tuscania (ora conservata nel Duomo, dedicato a San Giacomo
Maggiore) Maria allarga un mantello foderato di verde per riparare i fedeli dalle frecce che Cristo scaglia
dall'alto: in questo caso il Figlio, vestito di una rutilante tunica rossa (un colore che allude da un lato alla
Passione, dall'altro alla sua divina regalità e, dall'altro, ancora forse anche all'opera del fiammeggiante
Spirito Santo, sempre presente nella storia della Chiesa) impugna un numero rilevante di dardi in ciascuna
delle mani. Come monito, ai piedi del gruppo posto al sicuro sotto il tegimen (manto, inteso come
copertura) giacciono i cadaveri di due peccatori - un uomo e una donna - rei di non aver invocato la
protezione della Vergine. Nel gonfalone votivo per la città di Corciano (Perugia) attribuito a Benedetto
Bonfigli (1472) Maria intercede con la preghiera e ostenta un particolare iconografico piuttosto raro (che
già compariva in un'altra opera precedentemente illustrata, il gonfalone della Madonna delle Grazie del
Museo Parrocchiale Don Aldo Rossi di Paciano): conficcate sul suo manto stanno in bella evidenza le frecce
scagliate da un corrucciato Dio Padre.

Poco fa vedemmo questo lacerto di affresco, dipinto attorno al 1470 dai fratelli Tommaso e Matteo Biazaci
da Busca nella cappella della Mater Admirabilis attigua al Santuario degli Angeli a Cuneo. Qui il Christus
iratus, racchiuso entro la mandorla, viene supplicato dalla Madre interceditrice di non scagliare
sull'Umanità i suoi tre dardi punitivi; nella parte mancante dell'affresco, in basso, era contenuta la scena dei
devoti coperti dal manto protettivo di Maria. Le figurazioni di questo tipo dipendono da fonti quali lo
Speculum humanae salvationis del secolo XIV (attribuito a Vincenzo di Beauvais o a Ludolfo di Sassonia),
nelle quali la Mater misericordiae controbilancia la severità del Christus iudex valorizzando nel modo più
evidente la propria dignità di interceditrice. In questa miniatura realizzata da un anonimo artista francese,
tratta da un esemplare dello Speculum realizzato nel 1324 (Parigi, Bibliothèque nationale, ms. lat. 9584, fol.
16v) la Vergine, in ginocchio, difende tre fedeli inginocchiandosi dinanzi a un Gesù adirato che, brandendo
tre lance, vorrebbe ucciderli e compiendo il gesto delle braccia incrociate sul petto, in segno di umiltà e di
obbedienza. È un'iconografia in cui acquistano importanza le lance o le frecce brandite da Gesù, che sono
sempre 3 e simboleggiano la guerra, la malattia (o peste) e la fame (o carestia): essa infatti è anche definita
come Madonna delle frecce. Il loro numero dipende da due fonti distinte: la prima è Ez 7:14-15, in cui si
descrive la punizione divina per gli empi. Della seconda fonte diremo più avanti. 

In quest' altra pagina miniata, tratta da altro esemplare manoscritto dello Speculum conservato nella
Morgan Library di New York (di matrice tedesca, forse della scuola di Norimberga; ms. M 140, databile al
1350-1400 circa: fol. 39v), sI vede Maria che, insieme a san Domenico e a san Francesco, intercede in favore
di un gruppo di fedeli presso il solito Cristo irato e armato delle 3 frecce (vedremo tra breve l'origine di
questa variante): il confronto qui avviene con l'eroina Abigail. Nella pagina si traccia infatti un'analogia tra
l'immagine della Madonna che intercede (la scritta dice: «Maria mediatrix nostra placat iram Dei contra
nos»), proteggendo i «peccatores mundi», e quella di Abigail che placa l'ira del re David contro lo stolto
Nabal (1 Sam 25:23-31). Accanto a Maria, nella miniatura di sinistra, compaiono san Francesco
(inginocchiato) e san Domenico (in piedi): ma si badi che le didascalie abbreviate che li indicano («Sanctus
Franciscus» «Sanctus Dominicus») sono invertite!. Abigail, donna «di buon senso e di bell' aspetto», era
moglie di Nabal di Carmel, ricco proprietario di armenti della stirpe di Caleb. Trovandosi in difficoltà nel
deserto, il re David mandò i suoi messi da Nabal allo scopo di chiedergli provviste, esortandolo a ricordarsi
della protezione precedentemente offerta ai suoi uomini e alle sue greggi, ma l'ingrato Nabal - il cui nome
in lingua ebraica non a caso significa «stolto, insensato» - li respinse con arroganza. Per vendicarsi
dell'oltraggio subito, David decise di attaccare la casa di Nabal per uccidere tutti i maschi della sua famiglia.
Quando Abigail apprese l'accaduto da un servo, immaginò la sventura che si sarebbe abbattuta sul marito e,
di nascosto, fece caricare su degli asini abbondanti vettovaglie (pane, vino, montoni, grano tostato, uva
passa, fichi secchi)... e si recò da David, implorandolo di perdonare l'offesa subita e di risparmiare la sua
gente. David, commosso, desistette dal suo proposito di vendetta e ringraziò Abigail per avergli impedito di
compiere una strage. Nabal morì dieci giorni dopo e David, ovviamente, ne sposò la vedova. 

Proseguendo la serie di analogie, nello Speculum l'immagine della Vergine della Madonna della
Misericordia viene posta a confronto con la vicenda dell'eroina veterotestamentaria Tharbis. Qui vediamo
le relative miniature del manoscritto norimberghese (fol. 40v). Nello Speculum l'immagine di «Maria [quae]
est nostra defensatrix et protectrix» è messa a confronto con quella di Tharbis che difende la città di Saba
dall'espugnazione da parte di Mosè: la storia, risalente al periodo in cui Mosè era un capitano dell'esercito
egiziano, è narrata da Tito Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche, II, 10 (cfr. anche IRENEO DI LIONE,
Opere perdute, framm. XXXII). Tharbis (anche nota come Adoniah) era la principessa del regno di Kush. Nel
corso della guerra che opponeva l'Egitto agli invasori Etiopi, Mosè - che a quel tempo era condottiero degli
Egizi - si spinse in Etiopia ad assediare la città d Saba: Tharbis, veduto il giovane ebreo dagli spalti delle
mura, si innamorò di lui, ricambiata. Mosè accettò di sposarla se ella avesse convinto suo padre a far
capitolare la città. I due si sposarono, restando tuttavia uniti per breve tempo. Il medesimo confronto tra la
Mater Misericordiae e Tharbis viene condotto anche in altri esemplari del testo dello Speculum. 

In quest' altra pagina miniata, tratta ancora dall'esemplare tedesco dello Speculum conservato nella
Morgan Library di New York (fol. 42r), Maria che intercede presso Gesù è messa a confronto con la regina
Ester che supplica il re Assuero, intercedendo a sua volta per la salvezza del suo popolo, che Amman voleva
sterminare. Le scritte recitano: «Maria ostendit [pectus ] filio suo et orat pro nobis»; «Hester orat pro
populo suo» (la storia è narrata nel Libro di Ester).

Il fatto che tutte le eroine messe a confronto con Maria siano bellissime e ottengano le grazie per la loro
beltà rinvia alla bellezza di Maria-Chiesa intesa come armonia con il volere di Dio e armonia tra i fedeli che
compongono l'Ecclesia. 

Per il nostro discorso riveste molta importanza quest' altra pagina miniata dello Speculum della Morgan
Library di New York, immediatamente precedente a quella appena vista (fol. 41v), in cui l'immagine di Gesù
- rappresentato come Vir Dolorum e Christus passus, cioè Cristo che ha subito le torture della Passione ed è
dunque l'Uomo dei dolori, piagato e ferito - che intercede a sua volta presso Dio Padre è messa a confronto
con quella di Antipatro che mostra le proprie ferite a Giulio Cesare. Le scritte recitano: «Christus ostendit
Patri suo vulnera»; «Antipater ostendit Julio Cesar cycatrices suas». L'episodio di Antipatro che si straccia le
vesti e mostra le proprie ferite a Giulio Cesare (qui illustrato da Konrad Witz in un olio su tavola del 1435,
ora a Basilea, Kunstmuseum) è narrato dallo storico Tito Flavio Giuseppe nella sua Guerra giudaica, I, 197-
198: accusato di fellonia dal suo nemico Antigono, Antipatro, allo scopo di dimostrare la propria lealtà nei
confronti di Cesare, mise a nudo le numerose cicatrici che si era procurato negli anni precedenti
combattendo, in qualità di comandante delle truppe ebraiche, per il condottiero romano nella campagna
militare di Alessandria. Riconosciuta la sua fedeltà, Cesare lo nominò allora procuratore di Giudea. Si tratta
dunque di un episodio che insegna come sia premiato il sacrificio effettuato per colui che è (come) un
«padre». Il significato del suo raffronto analogico con l'immagine di Cristo che mostra e «offre» le proprie
ferite (e dunque il proprio sacrificio al Padre) sarà evidenziato più avanti.

In quest'altra pagina miniata, tratta da un esemplare inglese trecentesco dello Speculum, l'iconografia di
Maria interceditrice presso il Christus iratus armato delle tre frecce e del globo (come Pantokrator) si
mescola a quella della Vergine che copre dei monaci (o dei frati) col suo manto. Ora diremo qualcosa
sull'origine di questa particolare raffigurazione. Vedemmo già, in una miniatura dello Speculum, la presenza
di san Francesco e di san Domenico accanto alla Vergine supplice. Essi compaiono anche in questa strana
immagine, che costituisce una variante dell'iconografia della Madonna delle frecce. La sua fonte testuale
diretta è il libro delle Vitae fratrum di fra Gerardo de Frachet (1205- 1271), che narra di una visione avuta
da san Domenico. Nel capitolo generale dell'Ordine domenicano tenutosi a Milano nel 1255 era stato
chiesto ai frati che fossero a conoscenza di miracoli compiuti da san Domenico di trascriverli: questi
resoconti furono raccolti da Gerardo nel 1260 in un libro intitolato appunto Vitae fratrum. In questa
compilazione si racconta che san Domenico, durante la sua visita ad limina apostolorum tenuta in occasione
del Concilio Lateranense del 1215, ebbe una visione in cui la Vergine, inginocchiata dinanzi a Cristo adirato
ed armato di lance, lo scongiurava di inviare nel mondo, per la salvezza dell'umanità, proprio san Domenico
insieme a un altro frate, assistendo la loro missione; il giorno dopo Domenico incontrò per la prima volta
Francesco (che non aveva mai visto) e riconobbe in lui il frate sconosciuto che aveva veduto nella visione e
da quel momento i due frati «facti sunt cor unum et anima una» (Vitae fratrum, I, 4). Di séguito riprendo il
testo del racconto da un volgarizzamento redatto in epoca successiva. «Tra le altre consolazioni che
[Domenico] ottenne dalla gloriosa Vergine, fu che ella gli apparve più volte, et lo fece godere di mirabili
visioni, come avvenne nell'alma città di Roma nel pontificato di papa Honorio IlI (...) dove [Domenico]
orando vide miracolosamente il figliuolo d'Iddio, tutto irato et armato nella mano di tre lance, sorgere dalla
destra del Padre per confondere i peccatori della terra, et disperdere tutti quelli che superbamente si
comportavano, trapassare le viscere degli avari, e infine trafiggere coloro che intentamente seguivano le
concupiscenze et le opere della carne». Questa era la seconda fonte testuale dell'iconografia della Vergine
che intercede presso il Cristo irato, alla quale accennavamo più sopra. I 3 dardi simboleggiano tre dei 7 vizi
capitali: la lussuria (che in quest'immagine è simboleggiata da una donna vanitosa che si guarda allo
specchio), l'avarizia (o cupidigia, simboleggiata da un avaro con la borsa del denaro) e la superbia
(simboleggiata da un guerriero). «Poiché alla sua ira non poteva resister nessuno, Domenico vide la Regina
et Madre delle misericordie correre subito a supplicare il figliuolo affinché, temperando la giustizia con la
misericordia, si degnasse di perdonare quelli che pure egli stesso anche col proprio sangue aveva redento».
Ma Gesù rispose che non poteva più sopportare le offese che gli uomini gli arrecavano. Allora Maria disse
che egli doveva «sapere chiaramente che tutti i popoli stavano per convertirsi et ritornare a lui Salvatore
mediante i due suoi fidatissimi servi Domenico e Francesco, che Maria stessa gli mostrò». Allora i due
furono lodati da Gesù e grazie alla loro intercessione la sua ira si placò. (FRANCESCO DIACCETO, Vita
dell'inclito et santissimo Domenico Patriarca del sagro Ordine de Predicatori, Firenze 1572, pp. 121-122; ho
ammodernato il testo per favorirne una migliore comprensione). Quest'iconografia - che valorizzava
esplicitamente la particolare protezione accordata da Maria all'Ordine dei predicatori - si diffuse
soprattutto in ambito domenicano, ove contribuì a legare l'immagine di san Domenico a quella della
Madonna della Misericordia, come si vede in questo affresco del Convento di San Domenico a Bologna, in
cui Maria (con Gesù in grembo) apre il mantello accogliendo i componenti dell'Ordine. Ad esempio la rara
iconografia viene trattata nel Cinquecento dal pittore veneto Paris Bordon in una pala del 1557 circa
(Milano, Pinacoteca di Brera). Il pittore, con una chiarezza didascalica, riduce volutamente a pochissimi
elementi la raffigurazione dell'evento. 

L'iconografia di Maria che intercede presso il Figlio irato e armato è comunque attestata anche presso
l'Ordine francescano, come si vede in quest'affresco di Benozzo Gozzoli, facente parte del ciclo di pitture
sulla vita del santo di Assisi nella chiesa di San Francesco a Montefalco realizzato nel 1450 su commissione
di fra Jacopo, guardiano del convento. Qui però si evidenzia soprattutto l'accordo e la cooperazione dei due
Ordini nell'attività di redenzione del mondo, attività che può essere intesa come l'inizio di una nuova fase
della storia della Chiesa: non a caso l'abbraccio fra i due avviene dinanzi alla basilica di San Pietro
(raffigurata nel suo aspetto di allora, quello risalente all'epoca di Costantino, all'inizio del IV secolo, quando
si presume che essa fosse costruita). 

L'iconografia apotropaica (contro la peste) della Madonna della Misericordia dinanzi al Cristo irato venne
adottata anche nell'ambito delle confraternite, come testimonia questo affresco, in cui anche la Maddalena
(a destra, riconoscibile dall'attributo dei lunghi capelli biondi) intercede presso il Signore ed è dotata di un
mantello di protezione da stendere sopra i fedeli. 

Presente inizialmente nelle fonti testuali e figurative domenicane come immagine che presentava l'insieme
delle punizioni riservate da Cristo ai vizi capitali dell'uomo, l'iconografia del Christus iratus si legò
successivamente agli eventi epidemici, venendo realizzata come ex voto su commissione delle cittadinanze
o di semplici privati. Le variazioni assunte dall'iconografia che definiremmo della MADONNA
MISERICORDIOSA DINANZI AL CRISTO ADIRATO si possono riassumere nel seguente schema, valido
soprattutto per i secoli che vanno dal Trecento al Cinquecento.
- a) Nella maggior parte dei casi Maria intercede presso Cristo armato di frecce o di lance, ma a volte
anche Dio Padre è raffigurato adirato contro l'umanità e in atto di scagliare frecce con le mani
(talora Cristo e Dio Padre sono coadiuvati dagli angeli).
- b) Dal canto suo la Vergine è raffigurata 1) o secondo la consueta iconografia della Madonna della
Misericordia, 2) o inginocchiata, supplice, in atto di placare Cristo (o Dio Padre o entrambi), spesso
aiutata da san Francesco o da san Domenico che intercedono per proteggere il mondo (come nel
quadro di Paris Bordon); 3) in un terzo, raro caso si può avere una specie di nuova dèesis, in cui
Maria supplica Gesù standogli a lato, aiutata da un altro santo; 4) qualora ad essere adirato sia il
solo Dio Padre, allora Maria, spesso col seno esposto, è coadiuvata dal Christus passus, ciò che
implica una forte connotazione aggiuntiva, relativa alla dottrina della satisfactio.
Nel gonfalone processionale dipinto da Benedetto Bonfigli per la chiesa di Maria Nuova a Perugia la coppia
di intercessori costituita da Maria e da san Bernardino da Siena compone di fatto una nuova dèesis (b3).
Impressiona qui la compattezza della schiera angelica alle spalle del Christus iratus: gli angeli recano gli
strumenti della Passione, accentuando in tal modo l'interpretazione dei peccati compiuti dagli uomini come
offese recate a Colui che si era invece sacrificato misericordiosamente per la salvezza dell'Umanità. Nel
Seicento lo schema iconografico sopra descritto divine sempre più raro. Uno degli ultimi esempi è il grande
affresco dipinto da Bernardo Strozzi nel 1620-1623 nel coro della chiesa di San Domenico a Genova: l'opera
però è perduta e ne resta solo questo bozzetto. Si trattava di una dèesis (Maria intercede insieme a san
Giovanni Battista ai lati del Cristo) arricchita dal tema delle frecce e dall'intercessione dei santi Domenico e
Francesco (in basso, sotto il Battista). 

A volte lo schema viene leggermente variato e si elabora un'iconografia specifica in cui Maria supplica il
Christus iratus, indicando comunque solo uno dei due fondatori, Domenico o Francesco: questi ultimi, a
loro volta, intercedono per il mondo in pericolo. Nella gigantesca pala di Mattia Preti per la chiesa di San
Domenico a Taverna (1681), Gesù sta per scagliare sul mondo tre frecce infuocate, a forma di fulmine,
riprendendo l'antica iconografia di Giove che punisce i Titani (a destra). Per inciso, allo stesso modo le
figure degli angeli che saettano gli uomini uccidendoli con le loro frecce (un gesto che solo assai di rado
viene compiuto per mezzo dell'arco da Dio Padre e mai da Cristo) si ricollega al tema di Apollo che - per
vendicare l'oltraggio arrecato al suo sacerdote Crise - saetta col suo arco gli Achei che assediano Troia,
suscitando per 9 giorni la pestilenza nel loro accampamento (come narra Omero nell'Iliade, I, vv. 55-70). La
freccia (come simbolo di mali, sciagure, disgrazie e altri accadimenti nefasti) è in effetti, nel VT, una delle
armi adoperate da YHWH - irritato dai peccati e dagli errori umani - per punire gli empi e disperdere i propri
nemici. L'iconografia di Dio Padre saettatore, su cui torneremo, dipende proprio dai versetti che nel VT
spiegano come YHWH sia adirato con l'Umanità perché essa non si converte e non si pente. In Sal 17(18):
14-15, Dio Padre è assimilato in qualche modo proprio a Zeus. Ancora, le frecce sono armi divine in Sal
90(91):5-6 così anche in Ab 3:9. In Ez 5:16-17 compare l'equivalenza tra le frecce scagliate da Dio irato e la
peste. Qualcosa di simile avviene anche nel salmo 38.

Sempre nel Seicento, in una pala dipinta da Peter Paul Rubens e dai suoi aiutanti attorno al 1635
(Bruxelles, Reale Museo di Belle arti del Belgio), a fermare l'ira di Gesù (anche qui dotato di dardi
fulminanti) provvedono una disperata Maria, che mostra al Figlio il seno con il quale lo aveva allattato, e un
preoccupato san Francesco che si butta sopra la Terra (avvolta dal male sotto forma di serpente: spesso con
questa simbologia si allude all'eresia) per proteggerla dalla furia di Cristo. L'iconografia di Maria che mostra
il seno o che allatta il piccolo Gesù (detta Madonna del latte, e legata all'espressione monstra esse te
matrem) è molto antica, ma oggi è caduta in disuso a causa dei mutamenti del comune senso del pudore.
Come avviene per molte delle immagini paleocristiane, le radici figurative della Virgo lactans sono apocrife
(per quanto riguarda le fonti) e pagane, per quanto riguarda la tipologia dell'iconografia, cioè la
configurazione dell'immagine e la gestualità dei personaggi. È noto che i primi cristiani, non disponendo di
un repertorio di figurazioni a causa dell'aniconismo ebraico, riprendevano in parte quelle usate dai pagani,
mutandone il senso in chiave cristiana. L'adozione di questo procedimento facilitava da un lato l'invenzione
delle nuove iconografie per il culto cristiano, mentre dall'altro favoriva processi di conversione dal
paganesimo al cristianesimo. Secondo gli studiosi, la tipologia fu mutuata dalle statuette egizie di Iside che
allatta il figlio Horus (ai lati); tra le fonti testuali fu certamente importante il Vangelo apocrifo di Giacomo,
in cui si riporta che, dopo essere nato, Gesù «si attaccò al petto di sua madre Maria» (19:2). Sant' Efrem il
Siro (secolo IV) scrisse una sorta di ninna nanna in cui la Vergine canta al Figlio: «Poiché tu sei mio figlio, con
la mia ninna nanna ti farò addormentare; ( ...) i cieli sono pieni della tua gloria e tuttavia il mio petto non è
troppo povero per te». Nell'allegorismo degli antichi esegeti cristiani, il latte di Maria, interpretato anche
sulla base di Is 66:10-11, diviene fonte di vita eterna, e dunque fonte di grazia, con cui la Chiesa (nuova
Gerusalemme terrena) nutre l'anima del fedele: «Rallegratevi con Gerusalemme, (...) gioite grandemente
con lei, (...) affinché siate allattati e saziati alla mammella delle sue consolazioni, affinché succhiate e vi
deliziate al seno della sua gloria». Fra il Il e il III secolo lo scrittore ecclesiastico Tertulliano descrisse un
battesimo in cui ai neofiti catecumeni si amministrava latte con del miele, alimenti allusivi alle immagini
della Terra promessa descritta nel VT (cfr. in particolare Es 3:8, in cui il Signore promette a Mosè di
condurre il popolo degli Ebrei, dopo l'uscita dall'Egitto, «in una terra fertile e spaziosa dove scorrono latte e
miele»; v. anche Es 33:3, ecc.). Con il latte e il miele, spiega Tertulliano, si intendeva significare che i
catecumeni ricevevano la promessa della loro rinascita in un mondo nuovo, in cui avrebbero acquistato la
sapienza. Questa simbologia era basata su Is 7:15, che profetizza che l'Emmanuel appena partorito dalla
giovane donna si sarebbe cibato di latte (panna) e miele fino al raggiungimento dell'età del discernimento
tra bene e male. L'alimentazione con il latte dunque veniva collegata all'acquisizione della sapienza. In
alcuni scritti di ispirazione gnostica del I sec. d.C., come la Passione delle sante Perpetua e Felicita, il latte
simboleggia la conoscenza e la nuova vita eterna. Nelle apocrife e gnostiche Odi di Salomone, composte
ante III secolo, il Logos viene concepito attraverso il latte stesso. Maria descrive la nascita verginale come
una serie di scambi tra sapienza e potere, raccontando: «Mi fu offerta una tazza di latte: ed io la bevvi nella
dolcezza della gioia del Signore. La Tazza è il Figlio, e colui da cui il Latte è spremuto è il Padre, e fu lo Spirito
Santo a spremerlo, perché le sue mammelle erano così piene, che era necessario per lui liberarsi da tutto
quel latte». A questa concezione si sovrappose anche un'immagine di natura cosmologica, mutuata dalla
classica concezione della via lattea come scia di gocce di latte che Giunone sparse nel cielo per
disattenzione mentre allattava Ercole. Nell'VIII secolo il venerabile Beda definì la Vergine come Colei «i cui
seni benedetti, colmi di un dono celeste, nutrirono per tutte le terre l'unica gloria del cielo e della terra».
Ciò condusse a ricollegare l'erogazione del latte all'atto stesso della creazione divina: per sant'Anselmo «Dio
è la grande Madre». Dal canto suo san Bernardo di Chiaravalle, fissando definitivamente la metafora
ecclesiologica del latte come effusione di grazia, esorta tutti ad «accostarsi a pregare all'altare di Dio (...)
affinché la grazia discenda in noi, i cuori si riempiano d'amore e il latte della dolcezza scorra a fiumi». Negli
scrittori ecclesiastici e nei Padri della Chiesa Dio viene visto come una madre che allatta, all'insegna della
caritas. Contrastando la tendenza ad affidare i propri figli alle balie per l'allattamento - un'usanza tipica
delle donne ricche, per non sciupare la bellezza del seno -, San Bernardo scriveva invece che le donne
devono allattare i propri figli come la Madonna fece con Gesù, non disdegnando il proprio ruolo di madre.
Da ciò si diffuse la tradizione della lactatio (cioè allattamento) del santo da parte di Maria Vergine.
Tornado alle immagini di misericordia, una variante del nostro schema comportava che a scagliare le frecce
fosse un arrabbiato Dio Padre, talora utilizzando un arco, come un arciere provetto (b4). In questa tavola di
Lucas Cranach dipinta nel 1516, l'anno prima che Lutero desse avvio alla Riforma, ad aiutare Maria
nell'opera di intercessione interviene il Christus passus (cioè Cristo che ha appena subito la Passione), che,
supplicando il Padre, gli mostra le proprie ferite stando inginocchiato sopra una crux commissa, cioè a
forma di tau (la lettera greca T, cioè t). Gesù potrebbe essere stato inchiodato in effetti a una croce a forma
di tau (come quella raffigurata da Giotto nella cappella degli Scrovegni) giacché Luciano di Samosata, nel
suo Iudicium vocalium, 12, attesta che così erano fatti i patibula usati anticamente per le crocifissioni. Per
questa analogia con la forma della croce su cui fu inchiodato Cristo, il tau divenne per i cristiani simbolo di
redenzione, in specie nella religiosità francescana: testimoniano infatti i suoi biografi Tommaso da Celano e
san Bonaventura da Bagnoregio che Francesco venerava il tau, raccomandandone l'uso, adoperandolo
come viatico per le azioni da compiere, tracciandolo sulle pareti delle celle e sulla propria fronte e firmando
con esso le proprie epistole). L'analogia fra croce e t era stata evidenziata sin dal II secolo da Tertulliano, ma
in modo un po' pasticciato. Infatti egli asserì che quella tau salvifica («signum taw») citata in una celebre
visione profetica di Ezechiele (Ez 9:4-6) fosse il segno della croce, in quanto la tau greca aveva la medesima
forma del patibulum di Cristo (Adversus Marcionem, III, 22, 5-6: «Ipsa est enim littera Graecorum Tau,
nostra autem T, species crucis»). Allora una voce potente gridò ai miei orecchi: «Avvicinatevi, voi che dovete
punire la città, ognuno con lo strumento di sterminio in mano» Giunsero allora sei uomini (...), ciascuno con
lo strumento di sterminio in mano. In mezzo a loro c'era un altro uomo, vestito di lino, con una borsa da
scriba al fianco. (...) La gloria del Dio di Israele (...) si alzò verso la soglia del tempio e chiamò l'uomo vestito
di lino (...). Il Signore gli disse: «Passa in mezzo alla città di Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli
uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono». Agli altri disse, in modo che io
sentissi: «Seguitelo attraverso la città e colpite! Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia.
Vecchi, giovani, ragazze, bambini e donne, ammazzate fino allo sterminio: solo non toccate chi abbia il tau
in fronte» (Ez 9:1-6). Ezechiele però si riferiva alla lettera taw , cioè l'ultima dell'alfabeto ebraico , la quale è
configurata in modo del tutto diverso! Comunque, dal punto di vista simbolico, Tertulliano non aveva errato
poi molto, poiché taw è una lettera doppia (è ritenuta unione di una dàlet con una nùn) che, di per sé,
significa appunto marchio, segno (un segno che in antico era una croce a X e poi, dal secolo VII, divenne una
croce greca, avente la forma + ), e oltre all'impronta di Dio sulla fronte degli ebrei- si veda la visione di
Ezechiele-, rappresenta simbolicamente molte cose importanti. Come ultima lettera dell’alfabeto rinvia al
sesto giorno della creazione, che è quello in cui viene creata anche la coppia umana (Gn 1:27), che
ricapitola l'intera opera demiurgica divina: in tal senso essa dy sigillo rappresentando duque il termine
assoluto dell? opera perfetta, ed de an Giustizia (l'unione delle lettere dâlet e nún compone di fatti la
parola: In rapporto alla giustizia divina: in tal senso essa è il sigillo dell’opera di Dio, rappresentando dunque
il termine assoluto dell’opera perfetta, ed è anche il segno della Giustizia (l’unione delle lettere dàlet e nun
compone difatti la parola dan, cioè giudice). In rapporto alla giustizia divina, secondo la Midrash haGadol
(una parafrasi del Pentateuco compilata in chiave esegetica dal rabbino David ben Amram Adani nel secolo
XIII), «il primo segno citato dalle Scritture fu fatto da Dio stesso scrivendo una semplice lettera dell'alfabeto
sulla fronte di Caino (Gn 4:15). Na’hlas Benyamin di Tanhuma sostiene che questo segno avesse la forma di
taw». In realtà la taw ha il suono della fricativa interdentale sorda th dell'inglese thing, mentre il suono
della occlusiva dentale sorda t, di toro, è reso più precisamente dalla lettera taw (= ‫ )ת‬dotata al suo interno
del dàges lene, un segno diacritico a forma di puntino che in questo caso conferisce il suono occlusivo. 

È per noi, qui, assai interessante il rapporto che la lettera ‫ ת‬ha con la parola ‘emet , cioè verità, un concetto
che di fatto la ‫ ת‬rappresenta tradizionalmente, poiché ne costituisce l'ultima lettera (questo modo di
ragionare, che può apparire molto strano a un lettore odierno, è in realtà del tutto tipico dell'ebraismo e si
basa sulle caratteristiche specifiche della lingua ebraica, che assegna ad ogni lettera - e ai rapporti tra le
varie lettere - profondi valori simbolici, oltre che numerici). La parola verità, è uno dei lemmi più importanti
della lingua ebraica, poiché in essa sono raccolte tutte le componenti e le energie della Creazione. Si parte
dall'àlef, la prima lettera dell'alfabeto, che rappresenta l'uno e ciò che per noi è l'alfa (α , cioè l'inizio); si
finisce col ‫ ת‬, taw (per noi sarebbe l'omega, cioè la fine), passando per la lettera mêm (che rinvia alla parola
mayim, cioè acque: superiori e inferiori, come si legge in Gn 1:6-10), di cui costituisce la lettera iniziale e
finale ( la mêm si scrive in due modi diversi, aperta a seconda che apra una parola o ne stia all'interno, e
chiusa nel caso in cui invece la chiuda); perciò essa rappresenta un'idea di matrice - le acque in cui si genera
la vita, o con cui la si rigenera - e di qui quella di archetipica divinità in quanto fluida ed energetica unione
tra il maschile e il femminile, come si legge nel Sefer haBahir; ciò si traduce in una rappresentazione
dell'energia di Dio, il «soffio di Dio» che reca la vita (del quale riparleremo) e che appunto, all'inizio della
Creazione, «stava sopra la superficie delle acque» (Gn 1:2). L'àlef rappresenta dunque il primo giorno della
Creazione; la mém aperta è la fecondità dell'energia creatrice; la taw (‫ )ת‬è il sigillo di perfezione posto sopra
la Creazione ormai compiuta: ciò compone, come dicevamo, la parola 'emet ossia verità. Cristo, poco prima
di essere catturato, dice appunto ai suoi discepoli: «Io sono la verità» (G 14:6): dice dunque di essere anche
il segno di tale parola e in questo senso rinvia alla lettera che - come dicemmo - la rappresenta, cioè la ‫ת‬,
che è il «segno della croce». Dicendo di essere la verità, Gesù sta dunque dicendo di essere la nuova
ricapitolazione della Creazione; ma sta anche dicendo, in una chiave prettamente ebraica, di essere la
croce. 

Per l'autore della lettera il risultato della mediazione di Cristo è costituito dalla salvezza e anche dalla
conoscenza della verità (rinvio qui a quanto dissi sul significato di 'emet,). Anselmo chiariva che Gesù
poteva riparare al peccato di Adamo attraverso la soddisfazione in quanto era insieme uomo e Dio. Il
concetto di fondo è che non si può rimediare a quella colpa attraverso una nuova creazione del genere
umano (dunque il Dio creatore non può farlo) ma solo attraverso un atto di riparazione: ma l'uomo, per la
gravità del suo fallo, non è in grado di far questo. Occorre dunque una nuova figura che possa compiere
l'atto satisfattorio e perciò si rende necessaria l'incarnazione del Verbo: l'unione ipostatica delle due nature
pone il Verbo incarnato in grado di realizzare, come Dio e come uomo, la riparazione che né Dio né l'uomo
potevano attuare. Bonaventura, nel suo Breviloquium, precisa che «Mediatoris (...) est esse medium inter
hominem et Deum ad reducendum hominem ad divinam cognitionem, ad divinam conformitatem et ad
divinam filiationem». Oltretutto, osserva, il Figlio è anche la seconda ipostasi trinitaria, «quae est media
trium personarum»; poiché Parola di Dio, può riportare l'uomo alla conoscenza di Dio; poiché immagine del
Padre, può riportare l'uomo alla conformità con Dio; poiché Figlio naturale del Padre (ma anche Figlio
dell'uomo), può ricondurre l'uomo a quella condizione e rapporto di filiatione adoptiva (cfr. Gal 4:4-5) che
egli deve avere in relazione a Dio. Pertanto, teorizzerà ancora Bonaventura nei suoi Commentaria in libros
Sententiarum Petri Lombardi, Cristo, proprio per la sua fisiologica capacità di unire le polarità della divinità
e dell'umanità grazie all'incarnazione, si presentava come il mediator ideale per la realizzazione di questa
riconciliazione-riparazione tra Dio e uomo, che il peccato adamico aveva allontanato tra loro: ed è
necessario che egli giunga ad ottenere la remissione del peccato umano attraverso l'obbedienza -
prestandosi cioè come mite agnello al sacrificio preordinato dal Padre - e attraverso la supplica al Padre
stesso, che aveva bisogno di essere soddisfatto. Rifacendosi peraltro esplicitamente ad Anselmo,
Bonaventura scriveva: «Reparati (,. .) sumus per mediators obedientiam et supplicationem», spiegando che
«convenientius est, Filium supplicare Patri quam aliam personam; sed incarnatio ad hoc ordinatur, ut sit
aliquis mediator, qui pro hominibus intercedat ad Deum» (Comm. in III librum Sententiarum, d.1, a.2, q.3). 
Tornando ancora al quadro e riassumendo: Gesù, come in una sorta di procedimento «giudiziario», rende
soddisfazione al Padre perché è in grado di farlo per condizione ontologica o meglio cristologica (glielo
consentono le sue due nature di uomo e Verbo unite, ma non fuse, in una sola persona in virtù
dell'incarnazione); perché obbedisce al ruolo che il piano divino gli ha riservato, accettando di salire sulla
croce; perché supplica il Padre di accogliere il suo sacrificio. In tutti e tre questi stati, sia accettando il
processo di esinanizione, sia sacrificandosi nella crocifissione, sia supplicando il padre nell'atto di
mediazione-intercessione, egli riveste ad evidentiam il ruolo e la funzione di Misericordia divina. Dal canto
suo la Mater misericordiae questa volta non apre il mantello, bensì, più prudentemente, lo serra con le
braccia, tenendo stretti a sé i fedeli, ben riparati, per meglio proteggerli dall'ira di Dio. I cattolici non
possono non vedere in questa immagine una figura della Chiesa che, confortata dalla presenza
dell'Emmanuel (Mt 28:20), amministrando i sacramenti del battesimo e della confessione-penitenza assolve
l'uomo garantendogli la salvezza e mettendolo al riparo dalle punizioni che Dio riserva ai peccatori. Ma
probabilmente Cranach la pensava diversamente, alludendo qui - in una modalità già legata al pensiero
protestante - al fatto che solo il beneficio che Cristo arreca col suo atto potrà salvare l'uomo, e null' altro.

Tornando a Cranach, notiamo la strana posizione di Cristo, che, nella posa dell'orante, indirizza al Padre la
propria preghiera stando in ginocchio sopra la croce. Sul piano figurativo, la tipologia del rapporto
sintagmatico tra Cristo e la croce comprende, oltre alla figura del Risorto inginocchiato sopra il patibulum
(come nel caso della tavola di Cranach), anche quello, un po' più diffusa, del Cristo che, spogliato di tutto, in
attesa di essere suppliziato medita, nella ben codificata posa della malinconia (col capo poggiato sulla
mano), stando seduto sulla croce (come lo raffigurò Defendente Ferrari in una tavola del 1520 circa, oggi
all'Accademia Carrara di Bergamo, che costituiva il pannello laterale di un trittico dedicato alla Passione;
anche qui si tratta di una crux commissa), oppure, come in un dipinto di Orazio Borgianni, realizzato in
Spagna nei primi anni del Seicento, calcandola coi piedi, a indicare che il suo trionfo poggerà e si fonderà
sulla croce. La rara iconografia della malinconia di Gesù - che evidenzia la sua natura umana - può legarsi, di
riflesso, a quei versetti dei Vangeli di Matteo e di Marco che riportano lo stato d'animo del Signore quando,
recatosi nel podere del Getsemani (dall'aramaico gath shemanim, letteralmente frantoio, il luogo ove si
macerano le olive per ricavarne il prezioso olio) «cominciò a provare tristezza e angoscia. Quindi disse [a
Pietro, Giacomo e Giovanni, che lo accompagnavano]: L’anima mia è triste fino alla morte» (Mt 26:37- 38:
cfr. Mc 14:33-34: ma v. anche Gv 12:27). Gesù qui riprende il ritornello antifonale di Sal 42(4 1): 6 e 12 e di
Sal 43(42):5 (è sempre il medesimo versetto: «Perché ti abbatti, anima mia, e fremi dentro di me? Spera in
Dio, perché ancora potrò lodarlo, salvezza del mio volto e mio Dio»), così come anche Sal 43(42):2-4:
«Perché triste devo camminare sotto 'oppressione del nemico? Manda la tua luce e la tua verità: esse mi
guidino, mi conducano sul tuo monte santo e alle tue dimore, affinché io possa appressarmi all'altare di Dio
(…)». L'orto del Getsémani è dunque assimilabile a un vero e proprio frantoio in cui Cristo, dando avvio alla
propria Passione, come il frutto dell'ulivo si macera, allo scopo di produrre l'olio salvifico. Del resto, Cristo è
l'ulivo selvatico che, con la sua humilitas, redime l'ulivo domestico, dominato dalla superbia, nel quale viene
innestato (Rom 11:17-24). 

Tornando ancora al quadro di Cranach, già vedemmo nello Speculum humanae passionis la scena
dell'ostensione delle piaghe della crocifissione a Dio da parte di Cristo: era un atto che comportava un
riconoscimento del merito e dunque un premio concesso dal Padre al Figlio, così come Cesare aveva
premiato Antipatro. 

Umilmente, Cristo impetra così da Dio la Grazia, cioè che all'uomo venga rimesso il peccato di Adamo e sia
concessa la salvezza attraverso la consuetudine con i sacramenti che Gesù stesso ha posto, durante il suo
passaggio sulla terra, come segni visibili della Grazia divina. Nella Prima lettera ai Tessalonicesi san Paolo
scriveva in effetti che «Gesù ci libera dall'ira che viene» (1Ts 1:10). Pertanto l'intera figura di Cristo passo
inginocchiato sulla croce mentre mostra al Padre le sue piaghe è un'allusione al sacrificio eucaristico e al
merito acquisito all'umanità dal Verbo grazie all'Incarnazione. La presenza di Cristo arricchisce il contenuto
allegorico dell'immagine imprimendo ad esso una svolta soteriologica che richiama i termini della dottrina
della satisfactio (esposta nel trattato Cur Deus homo di Anselmo d'Aosta): Dio non può e non deve più
esigere dall'uomo quella soddisfazione (cioè una compensazione-riparazione) che quest'ultimo gli deve -
nei termini morali e giuridici di un vero e proprio debito - per il peccato di Adamo, perché Cristo, col suo
sacrificio - da Verbo divino che nell'unione ipostatica ha assunto natura umana -, ha pienamente e
definitivamente assolto questo compito al posto e per conto dell'umanità. A questo punto l'uomo,
battezzato nel sangue di Cristo, non ha più debiti pregressi verso Dio ed è dunque salvo. Nel quadro Cristo
ottiene ciò attraverso una mediazione che si avvale di una supplica e si configura pertanto come
un'intercessione. Questa figurazione si basava anch'essa su una tradizione testuale, riassumibile nell'asse
(Paolo]- Anselmo d'Aosta (†1109)-Bonaventura da Bagnoregio († 1274). L'idea di un Christus mediator tra
l'uomo e Dio è presente per la prima volta nella Prima epistola a Timoteo, di incerta attribuzione paolina
(benché Timoteo fosse comunque un allievo di Paolo). «Ti raccomando (...) che si facciano domande,
suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti i governanti, perché possiamo
trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al
cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza
della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha
dato sè stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2:1-6). 

Meno cruenta è la scena dipinta in questa tavola della scuola di Konrad Witz, nel 1440 (Kunstmuseurn di
Basilea). A destra Gesù prova all'incredulo apostolo Tommaso che Cristo il Messia è realmente risorto nella
sua carne umana, ferita nel corso della Passione, preannunciando così la futura risurrezione dei corpi. A
sinistra, il Figlio e la Madre supplicano Dio chiedendo il meritato premio: Gesù, indicando al Padre la ferita
sul costato, gli testimonia l'avvenuto sacrificio, mentre Maria - presentando due monache- espone il seno
con cui ha allattato il Figlio di Dio, a piena conferma dell'Incarnazione che redime l'umanità. Anche qui la
base dell'iconografia è costituita dalla dottrina della satisfactio: Dio può ritenersi soddisfatto dell'operato
del Figlio e della Madre, che hanno realizzato il suo consilium (cioè progetto) di redenzione. In questo tipo
di iconografia l'esposizione del seno può essere tradotta, testualmente, in una pregnante locuzione (Gesù
offerto sulla croce è il prezzo del seno di Maria) che fu adoperata da san Bonaventura di Bagnoregio
parlando del valore redentivo della morte del Verbo incarnato nella prospettiva della satisfactio da dare a
Dio: «[Maria] pagò questo prezzo da donna forte e pia, proprio quando Cristo patì sulla croce per pagare
tale prezzo, al fine di purificarci, lavarci e redimerci; in quell'ora, la beata Vergine fu presente, accettante e
concordante con il volere divino. E piacque a Lui che il prezzo del suo seno fosse offerto sulla croce per noi.
(...) Gesù vedendo sua madre e lì presente il discepolo che egli amava, disse a sua madre: Donna, ecco tuo
figlio, cioè: colui che viene dato in prezzo della redenzione del genere umano; quasi volesse dire: è
necessario che tu ti privi di me e che io mi privi di te – e tu che da santa concepisti, offrilo da pia - e ti
piaccia o Vergine, che io redima il genere umano e plachi Dio» (Collationes de septem donis Spiritus Sancti,
coll. VI, 15: i corsivi sono miei). Proseguendo, Bonaventura ricollega il prezzo pagato da Maria al suo ruolo
di misericordiosa intermediatrice e alla sua dignità di Mater omnium, in una prospettiva ecclesiologica: «La
Vergine beata pagò quel prezzo da donna forte e pia con la pietà della misericordia per il mondo, e
particolarmente per il popolo cristiano. Dice Isaia: Può forse una donna dimenticare il suo bambino, non
aver compassione del figlio del suo grembo? Ma anche se essa lo dimenticasse, io non potrò dimenticarti.
Questo è detto di Cristo - Ma qui si può anche intendere che tutto il popolo cristiano è stato generato dal
seno della Vergine gloriosa; il che significa, per noi, da quella donna formata dalla costola dell'uomo, che
[Maria] raffigura la Chiesa» (Collationes de septem donis Spiritus Sancti, coll. VI, 20: i corsivi sono miei). Per
Bonaventura, dunque, anche Maria, come Cristo, ha compiuto un sacrificio di sangue per testimoniare la
propria conformità al volere di Dio: la Vergine è, perciò, da considerare come una vera propria martire
(BONAVENTURA, Commentarius in Evangelium Lucae, c. Il, 78). Quest' ultimo aspetto ci aiuterà a
comprendere meglio la sua presenza nelle immagini che seguiranno. 

Occorre qui richiamare l'incipit del canto XXXIII del Paradiso della Comedia di Dante, che contiene la celebre
preghiera di san Bernardo alla Vergine. Facendo evidentemente riferimento anche allo Speculum humane
perfectionis, il Buti, nel suo commento a questi versi, ricordava un passo del santo cistercense: «(...) dice
santo Bernardo: Securum habes accessum ad Deum, o homo, ubi mater ante filium, et filius ante patrem.
Mater ostendit fillio pectus en ubera; filius ostendit patri latus et vulnera. Nulla ergo poterit esse repulsa
tibi, ubi tot occurrant caritatis insignia». Dunque Maria, nelle scene che stiamo mostrando, non mostra il
seno a Dio Padre, bensì a Gesù, determinando così un salvifico incrocio di misericordiosi atti di
intercessione, dalla Madre al Figlio e dal Figlio al Padre. Le xilografie sono tratte da un esemplare a stampa
dello Speculum, un incunabolo pubblicato nel 1482 (ff. 478v-479r). Si veda ad esempio questa scena (in cui
anche gli angeli, armati di frecce, sono pronti a punire gli uomini su ordine di Dio Padre), affrescata da
Benozzo Gozzoli nella chiesa di Sant' Agostino a San Gimignano verso il 1464-1465. Cristo intercede (si noti
il gesto della sua destra) con la sua supplica e l'ostensione delle piaghe; Maria, fissando il Figlio, gli mostra il
seno, intercedendo a sua volta (si guardi la sua sinistra). C'è poi un filo che unisce il sangue di Cristo al latte
di Maria, che come Madre allattò Gesù Bambino e come Chiesa ora allatta i cristiani: sia il sangue di Cristo
(«questo è il sangue della nuova alleanza: bevetene tutti»: Mt 26:27-28; Mc 14:24; Lc 22:20) che il latte di
Maria sono capaci di dare all'uomo la salvezza nella nuova alleanza con Dio. Ma su questo affresco
torneremo più avanti. Per inciso, occorre qui precisare che è peraltro in questa dimensione che va cercato il
reale significato di un'iconografia testimoniata in Toscana, alla metà del Seicento, da opere riferite a Carlo
Dolci e a Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, che sono spesso mal interpretate dai critici come
Ecce homo, Cristo coronato di spine, ecc.: come il lettore può vedere (facendo anche un raffronto con
l'immagine precedente), si tratta invece propriamente di Cristo che ostenta e indica le salvifiche piaghe, allo
scopo di intercedere per l'umanità nei confronti di un Dio Padre iratus che, in questa tipologia di dipinto (di
medie dimensioni, da galleria o camerino privati, più che da chiesa) il pittore non include nella
composizione. Lo sganciamento di quest'immagine dal contesto più generale della scena (di tipo narrativo)
di intercessione, con Maria, e la sua assolutizzazione in chiave iconica (cioè come rappresentazione
autonoma non dotata di carattere narrativo) si deve al mutamento delle tradizioni devozionali (e della
dottrina) intercorso tra Cinque e Seicento.

Tornando all'iconografia della doppia intercessione, un precedente è costituito da una tempera su tela
dipinta ante 1402 da Lorenzo Monaco (Piero di Giovanni), oggi al Metropolitan Museum di New York, in cui
Maria intercede presso Gesù in favore di otto donatori e Gesù - come Misericordia divina - intercede e sua
volta presso Dio Padre in favore dell'intermediazione di Maria: è il tema della mediazione materna di Maria
che verrà ribadito ancora nell'enciclica Redemptoris mater di Giovanni Paolo II del 25 marzo 1987, al cui
capitolo 39 si parla della «cooperazione [di Maria madre-nutrice] con Cristo, unico mediatore dell'umana
salvezza. E tale cooperazione è appunto questa mediazione subordinata alla mediazione di Cristo». Le
parole rivolte al Figlio dalla Madre, che gli mostra il seno, sono: «Dolciximo figliuolo pel lacte ch'io ti diè
abbi misericordia di chostoro». Le parole rivolte a Dio da Cristo, che mostra al Padre le ferite sulle mani e
sul costato, sono: «Padre mio sieno salvi chostoro pe' quali tu volesti ch'io patissi passione». Maria dunque
insiste sul concetto della misericordia che il Figlio vorrà applicare; Cristo chiede al padre la salvezza di
coloro che egli ha provveduto a redimere. In questo caso Dio Padre (raffigurato con le fattezze di Gesù, per i
motivi che già dicemmo) non reca armi nelle mani; anzi, invia la colomba dello Spirito Santo su Gesù,
istituendo una figurazione che primariamente possiede una valenza trinitaria, poiché ricompone in
immagine l'unitaria ousìa (cioè sostanza) delle tre ipostasi (cioè persone) della Trinità, ma poi contiene
anche un'allusione al battesimo (il momento in cui, sulla riva del fiume Giordano, la potenza dello Spirito
Santo cala sopra Gesù Verbo incarnato per rimanervi). La raffigurazione della Trinità esalta la posizione
mediana di mediator che il Figlio, come si disse, in quanto seconda persona trinitaria esercita nello schema
redentivo divino. A distanza di quasi un secolo l'invenzione iconografica dell'opera precedente è
fedelmente ripresa in una tavola dipinta attorno al 1490 (oggi al Montreal Museum of Fine Arts). Il dipinto
viene attribuito al versatile pittore, mosaicista, miniatore e perfino musicista (organista) Gherardo di
Giovanni di Miniato (quest'ultimo detto Fora), con cui è stato identificato l'anonimo Maestro del Trionfo
della Castità (tuttavia questo dipinto non è menzionato in E. ANTETOMASO, Gherardo di Giovanni di
Miniato, in Dizionario biografico degli italiani, 53, Roma 2000). È presumibile che il santo benedettino
inginocchiato in primo piano sia l'eminente mariologo benedettino Bernardo, fondatore dell'abbazia
cistercense di Chiaravalle, che già abbiamo più volte citato. Un'ulteriore ripresa di questa invenzione si vede
in una tavola di Filippino Lippi del 1493 (Monaco, Alte Pinakothek), il cui soggetto è stato erroneamente
interpretato come un'improbabile «Apparizione di Cristo alla Madonna». Compagne prevedibili, perchè
obbligatorie, dato il tema, sono le raffigurazioni dell'Annunciazione-Incarnazione in alto (con l'arcangelo
Gabriele che dà l'annuncio a Maria) e dell'ostensione del corpo morto di Cristo al centro della predella che
funge da parte inferiore della pala. Sono tutte conferme dello stretto rapporto che intercorre tra le
iconografie dell'intercessione-misericordia e quelle dell'Incarnazione del Verbo. 

Lo schema di base, con poche varianti e qualche arricchimento, continuò ad essere proposto da
committenti, iconografi e pittori sino alla chiusura del Concilio di Trento (1563), il quale, regolando con
maggior rigore la raffigurazione delle nudità nell'arte sacra, decretò in sostanza la fine della
rappresentazione dell'ostensione del seno della Vergine, indipendentemente dalle sue ricche significazioni.
Tuttavia l'iconografia della doppia intercessione riaffiora sporadicamente fino all'alba del Seicento, come
dimostra questo dipinto di ampie dimensioni (è alto circa 4 metri e largo 3) che il versatile pittore olandese
Abraham Bloemaert (1564-1651) realizzò nel 1615 per un altare della Sint-Janskathedraal (cattedrale di San
Giovanni Evangelista) a 's- Hertogenbosch, la più importante chiesa cattolica della città; va ricordato che 's-
Hertogenbosch a quel tempo era occupata dalla Spagna e rimase una enclave cattolica in un territorio
protestante sino al 1629, quando tornò nelle mani degli olandesi. Tra le poche varianti che arricchiscono lo
schema della doppia intercessione segnalo questo affresco - che già vedemmo - della chiesa di San Procolo
a Naturno (in Alto Adige), commissionato verso il 1400 dalla nobile famiglia degli Annenberg. Si noti la
presenza di motivi iconografici che già conosciamo: l'esibizione del seno da parte di Maria e delle piaghe da
parte di Cristo: ma la grossa novità è qui costituita dal fatto che anche Gesù è dotato di un mantello
protettivo sotto il quale si rifugiano i fedeli, che - altra novità - non sono divisi in gruppi in base al loro sesso.
Il tema venne ulteriormente elaborato ed arricchito da Sperindio Cagnola in un affresco di iconografia
giudiziale nella chiesa di San Marcello a Paruzzaro (Novara), databile all'inizio del Cinquecento. Qui alle
spalle di Maria, che col seno scoperto intercede presso il Figlio (fermando però col gesto della sinistra la
spada di Dio Padre), compaiono altri santi, tra cui santa Caterina d'Alessandria con la ruota dentata del suo
martirio e sant'Orsola, riconoscibile dal labaro (capiremo più avanti il motivo della sua presenza); dall'altro
lato del Padre, che è armato della spada della Giustizia (un tema di cui riparleremo) e della fiaccola
rovesciata che arde (segno nefasto di lutto, poiché simboleggia la vita che si spegne), sta il Figlio che lo
supplica mostrandogli le piaghe, a cui si aggiunge Giovanni il Battezzatore, il Precursore, che offre al
Creatore la propria testa tagliata, come pegno del suo martirio per il Cristo.

ICONOGRAFIE DI CRISTO MEDICO 


Nell'ambito delle raffigurazioni cristiane a carattere soteriologico aventi come protagonista Gesù va
segnalata una strana iconografia le cui valenze assumono una gamma di accezioni che vanno da quella
apotropaica e taumaturgica a quella più propriamente escatologica: parliamo delle raffigurazioni del
Christus medicus, la cui ragion d'essere, come vedremo, dipende dalla sua qualifica di Misericordia divina.
Queste immagini si collegano direttamente alla complessa concezione della malattia fisica e spirituale e per
come essa viene trattata dalla Bibbia in rapporto al peccato e alla lontananza da Dio (tenendo presente che
nella lingua ebraica una sola parola, ra', indica sia il male - in tutte le sue sfumature, compresa la bruttezza
e l'ostilità - sia la malattia: cfr. D. SCAIOLA, Male/Malattia, in Temi teologici della Bibbia, a cura di R. Penna,
G. Perego e G. Ravasi , Cinisello Balsamo 2010, pp. 786-792), e toccano il delicato tema del teorema
retributivo, esemplificato da Pr 3:33: «La maledizione del Signore è sulla casa del malvagio, mentre egli
benedice la dimora dei giusti». A volte però Dio stesso opera in deroga a tale regola, come avviene ad
esempio nel caso di Giobbe, che, essendo innocente, viene sottoposto a una impervia probatio (come
capitò anche ad Abramo) che finirà per esaltarne la fede e gli concederà anche capacità profetiche (Gb
19:25-27). Isaia narrò della malattia mortale del re Ezechia e della sua guarigione, ottenuta attraverso la
preghiera: dopo averla ascoltata, Dio concesse al re di vivere altri 15 anni (Is 36-39). Nella sua accorata
preghiera, Ezechia attribuisce a Dio il suo male, ma lo loda come Signore che dà la vita e che può perdonare
all'uomo i suoi peccati. Rimosso dunque il peccato, il re sfugge alla morte e torna alla vita. Ciò rientra nel
regime della soggezione veterotestamentaria dell'Uomo a Dio: quest’ultimo, come Creatore, continua il suo
progetto di redenzione dell'Umanità secondo una linea che, pur nella Rivelazione e in presenza delle
comunicazioni effettuate dagli angeli e dai profeti, resta però misteriosa e insondabile. 

In vari luoghi del VT il Dio degli Ebrei dichiara infatti di essere padrone della salute dei popoli: « Videte quod
ego sim solus, et non sit alius deus praeter me: ego occidam, et ego vivere faciam: percutiam, et ego
sanabo, et non est qui de manu mea possit eruere» (Dn 32:39). YHWH si presenta esplicitamente come
risanatore, in relazione alla lunga e complessa opera di salvazione del popolo d'Israele che peregrinava nel
deserto: in specie nell'episodio dell'acqua che Mosè fa scaturire dalla roccia (Es 15:22-26). L'allegoria è
chiara: il legno mostrato da Dio a Mosè, col quale quest'ultimo purifica l'amara acqua di Mara, allude al
lignum crucis che redime l'Umanità, cancellando poi con la dolce acqua del battesimo l'amaro del peccato
originale. Anche il salmo 103(102) dichiara che Dio è guaritore delle infermità umane (v. 3), menzionando la
parola misericordia per 5 volte (vv. 4, 6, 8, 11). A questa prerogativa divina di togliere e ridare la salute - di
cui è massimo esempio il già citato Libro di Giobbe - allude in qualche modo anche la parabola gesuana del
Figliol prodigo, o meglio del Padre misericordioso, della quale diremo più avanti. 

Nella sua opera di perfezionamento del piano divino e di compimento della redenzione umana, Gesù
spiegava che a volte la malattia viene concessa all'uomo affinché maggiormente divenga manifesta l'azione
di Dio che opera la sua guarigione, come avviene nel caso del cieco nato (Gv 9:3): Passando [Gesù] vide un
uomo, che era cieco fin dalla nascita. I suoi discepoli gli chiesero: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché sia nato cieco?» Gesù rispose: «Né lui ha peccato, né suoi genitori; ma è così, affinché le
opere di Dio siano manifestate in lui. Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato mentre è
giorno; la notte viene in cui nessuno può operare. Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo»,
Detto questo, sputò in terra, fece del fango con la saliva e ne spalmò gli occhi del cieco, e gli disse: «Va'",
lavati nella vasca di Siloe» (...). Egli dunque andò, si lavò, e tornò che ci vedeva. Perciò i vicini e quelli che
l'avevano visto prima, perché era mendicante, dicevano: «Non è questo colui che stava seduto a chiedere
l'elemosina?» (..) Egli diceva: «Sono io». Allora essi gli domandarono: «Com'è che ti sono stati aperti gli
occhi?» "Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù fece del fango, me ne spalmò gli occhi e mi disse: Va'
a Siloe e lavati. lo quindi sono andato, mi sono lavato e ho recuperato la vista». (...) Condussero dai farisei
colui che era stato cieco. 0r era di sabato che Gesù aveva fatto il fango e gli aveva aperto gli occhi. I farisei
dunque gli domandarono di nuovo come egli avesse ricuperato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del
fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Perciò alcuni dei farisei dicevano: «Quest uomo non è da Dio,
perché, non osserva il sabato». Ma altri dicevano: «Come può un peccatore fare tali miracoli?» E vi era
disaccordo tra di loro. Essi dunque dissero di nuovo al cieco: Tu, che dici di lui, poiché ti ha aperto gli occhi?»
Egli rispose: «è un profeta», I Giudei però non credettero che lui fosse stato cieco e avesse recuperato la
vista, finché non ebbero chiamato i (suoi] genitori (...) e li ebbero interrogati: «è questo vostro figlio che dite
esser nato cieco? Com’è dunque che ora ci vede?». Essi risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e
che è nato cieco: ma come ora ci veda, non sappiamo, né sappiamo chi gli abbia aperto gli occhi;
domandatelo a lui; egli è adulto, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei
Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che fosse espulso dalla sinagoga chiunque riconoscesse Gesù
come Cristo, (... ), I farisei dunque chiamarono per la seconda volta l'uomo che era stato cieco, e gli dissero:
« Da' gloria a Dio! Noi sappiamo che [Gesù] è un peccatore». Egli rispose: «Se egli sia un peccatore, non so;
una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo». Essi allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti aprì gli
occhi?» Egli rispose loro: «Ve l'ho già detto e voi non avete ascoltato: perché volete udirlo di nuovo? Volete
forse diventare suoi discepoli anche voi?» Essi lo insultarono e dissero: «Sei tu discepolo di costui! Noi siamo
discepoli di Mosè. Nol sappiamo che a Mosè Dio ha parlato; ma in quanto a costui, non sappiamo di dove
sia». L'uomo rispose loro: «Questo poi è strano: che voi non sappiate di dove sia; eppure mi ha aperto gli
occhi! Si sa che Dio non esaudisce i peccatori; ma se uno è pio e fa la volontà di Dio, egli lo esaudisce. Da
che mondo è mondo non si è mai udito che uno abbia aperto gli occhi a uno nato cieco. Se quest’uomo non
venisse da Dio, non potrebbe fare nulla», Essi gli risposero: «Tu sei tutto quanto nato nel peccato e insegni a
noi?» E lo cacciarono fuori. Gesù udì che lo avevano cacciato fuori; e, trovatolo, gli disse: «Credi nel Figlio
dell'uomo?» Quegli rispose: «Chi è, Signore, perché io creda in lui?» Gesù gli disse: «Tu l'hai già visto; è colui
che parla con te, è lui», Egli disse: «Signore, io credo». E l'adorò. Gesù disse: «Io sono venuto in questo
mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi».
Alcuni farisei, che erano con lui, udirono queste cose e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?» Gesù rispose
loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite “Noi vediamo”, il vostro peccato
rimane». 

A differenza delle guarigioni operate da Dio, che non cancellano il peccato originale ma allontanano il male
dall'uomo esclusivamente per volere divino, la rimozione della malattia operata da Gesù consiste invece nel
toglierci letteralmente di dosso il male originario costituito dal peccato di Adamo e i successivi peccati da
noi personalmente operati, per caricarli sulle proprie spalle (come spiegato in Mt 8:17, che riprende Is53:4).
Come notava san Paolo, è un'opera di redenzione che avviene «a caro prezzo»: Cristo ci ha letteralmente
comprati- come se fossimo schiavi di un peccato che ci tiene incatenati e ci lascia andare solo attraverso un
versamento di un riscatto - pagando con la propria vita la nostra liberazione (1Cor 6:20 e 7:23). 

L'iconografia del Christus medicus deriva direttamente dalle pericopi evangeliche che raccontano come
Gesù guarisse gli infermi, ad esempio Mc 1:23-34, o Mt 4:23-25 (v. anche At 10:38). Altre pericopi
evangeliche conferirono a Gesù un'aura sapienziale che era estesa anche alla dottrina medica (L 4:14-19). 
Così anche venne interpretata la pericope in cui Gesù risponde alle capziose domande degli scribi e dei
farisei sui suoi comportamenti privati. È interessante la variante presente nel testo di Matteo, in cui l'azione
salvifica di Cristo verso gli infermi è specificatamente motivata dalla misericordia (Mt 9:9-13).

La differenza fra la medicina che guarisce i corpi (salute come guarigione) e la medicina applicata da Cristo
(salute come salvezza dell'anima, redenzione), la quale richiede una cooperazione del fedele (che, appunto,
deve sostanziare con la fede il proprio percorso di salvezza, la cui possibilità di attuazione è concessa dalla
Grazia) è evidenziata dalla pericope lucana che racconta la guarigione miracolosa dei 10 lebbrosi: Nel suo
viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero
incontro dieci lebbrosi che, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di
noi». Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono
sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per
ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove
sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, fuorché questo straniero?». E gli disse: Alzati e
va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17:11-19). Della salute (come guarigione) fruiscono dunque tutti e dieci i
lebbrosi, ma la preziosa salute (come salvezza dell’anima, redenzione) è conseguita soltanto da colui che
aveva avuto fede e che dunque dopo la guarigione non volta le spalle al Signore (come fanno gli altri nove,
che restano dei semplici risanati), ma torna (indietro) a Cristo per unirsi al Signore in un solo spirito (1Cor
6:17). 

I Padri della Chiesa e gli scriptores ecclesiastici valorizzarono in diversi modi questa prerogativa di Gesù,
speculando sulle sue implicazioni escatologiche. Il primo fu probabilmente Ignazio di Antiochia († 117 circa),
successore di Pietro sulla cattedra episcopale di quella città (nella quale per la prima volta i fedeli di Cristo
vennero definiti cristiani: At 11:26): nella sua Lettera agli Efesini egli affermò che «In effetti ci sono alcuni
che con inganno perverso usano portare in giro il nome di Dio ma fanno cose indegne di lui: costoro dovete
evitare come bestie feroci, perché sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto. Guardatevi da loro, perché
è difficile guarirli. C'è un solo medico, carnale e spirituale, generato e ingenerato, dio che è venuto nella
carne, nella morte vita vera, da Maria e da Dio, prima passibile e ora impassibile, Gesù Cristo, nostro
signore» (VII, 1-2). Teofilo di Antiochia recupera a sua volta la lezione del VT innestandovi sopra il magistero
del NT, quando asserisce che «Dio è un medico che cura e vivifica per mezzo del Verbo e della sua
Sapienza» (Ad Autolycum, 1, 7). Anche Ireneo di Lione (130-202) e Tertulliano (†230 circa) insistono sul
parallelismo tra le guarigioni corporali operate da Cristo e la sua opera di redenzione umana dal peccato. 

Nel Quis dives salvetur?, cap. 28, Clemente Alessandrino (150 circa - 215 circa) sviluppò l'argomentazione
tipologica secondo cui Cristo è il Buon samaritano (Lc 10:25-37) che viene a curare (redimere dal peccato)
l'Umanità. In questo stesso trattato ribadì anche l'idea dell'importanza della misericordia nell'azione
medicale di Cristo (Sulla base di Mt 9:9:13), scrivendo che il Salvatore ha avuto pietà delle nostre ferite
(cioè dei nostri peccati), malattie e dolori e di esse si è reso l'unico medico, ho mônos iatròs (Quis dives
salvetur?, cap. 29). Per Clemente il Logos (Verbo) in quanto Sapienza divina, è sia il pedagogo sia l'unico
medico dell'Umanità, della quale risana sia il corpo che lo spirito (Paedugogus, I, 6:1 -2). È un'idea ripresa
forse da Filone di Alessandria (†45 circa), maestro della cultura ebraica, che considera Dio come un medico
capace di curare l'anima usando il Logos come medicina (De somnis, 1, 69). Anche nel Protreptikòs, 8, 2,
un'opera che esorta a convertirsi al cristianesimo, Clemente sottolinea che Cristo è un medico capace di
guarire diverse malattie con metodi diversi, e ancora dichiara che Dio è medico anche negli Stromata, VII,
48, 4 (il titolo significa miscellanea). Origene (183 o 185 - 253 o 254) considerava la scienza medica come
una forma di conoscenza proveniente da Dio, e riteneva che Dio stesso cooperasse col medico alla
guarigione del malato; al contempo, però, Origene non attribuiva alla malattia un'origine morale ma solo
fisica. Nel suo Commento al Libro dell'Esodo egli definisce Gesù come «medico dell'anima», lo definisce
«archiatra» nelle Omelie sul Vangelo di Luca e nel trattato Contra Celsum, paragona Cristo, mandato da Dio
a redimere l'umanità, a un medico inviato da un re a risanare una città. Come sottolineava Lucio Coco (Io ti
guarirò. Antologia patristica su Cristo medico dei corpi e delle anime, 2013), l'incarnazione è lo strumento
fondamentale usato da Cristo medico per compiere la sua opera di guarigione: già nel II secolo Giustino
asseriva che «[Cristo] si è fatto uomo per noi perché, prendendo parte alle nostre passioni, ne diventasse la
medicina» (Apologia, 2,12), e tale concetto sarà poi ribadito da molti altri scriptores ecclesiastici (da
Cipriano a Gregorio di Nazianzo, a Giovanni Crisostomo). Così anche Pietro Crisologo (†450), che precisava:
«Cristo è venuto a prendersi le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell'umano e a
donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute.
Infatti il medico che non si fa carico delle malattie non le sa curare, e colui che non è malato insieme al
malato non gli può dare la salute» (Sermones, 50).

Commentando Sal 102:3, sant' Agostino chiariva che, rispetto alla fallacia della medicina umana, quella
applicata da Dio all'uomo è invece infallibile: «Il medico talvolta si inganna, promettendo di ottenere la
guarigione da un corpo umano; e perché s'inganna? Perché non cura una cosa che è stata fatta da lui. Dio
ha fatto il tuo corpo, ha fatto la tua anima, e quindi conosce il modo di ricreare quel che ha creato e di
riformare quel che ha formato. Basta soltanto che tu ti affidi alle mani di questo medico, perché egli odia
chi respinge le sue mani. Non avviene così quando si tratta delle mani di un medico umano: in questo caso
gli uomini accettano di essere immobilizzati e operati, pronti a subire, in vista dell'incerta guarigione, un
sicuro dolore ed a pagare un grosso compenso. Dio invece, che ti ha creato, ti cura in maniera sicura e
gratuita. Rimettiti dunque alle sue mani, o anima che lo benedici e non dimentichi le sue retribuzioni: egli
infatti guarisce tutte le tue infermità» (Expositio salmi 102, 5). Agostino definisce poi Cristo medicus humilis,
chiarendo che la terapia che egli praticava era l'humilitas, quella che egli stesso aveva praticato su di sé, in
rapporto al processo di esinanizione con cui avviene l'incarnazione. 

«Il popolo giudaico aveva bene dei motivi per vantarsi ed ésaltarsi, ma a causa della sua superbia (...) non
volle umiliarsi a Cristo, maestro d'umiltà, repressore dell'orgoglio, medico divino, il quale perciò, pur
essendo Dio, si fece uomo affinchè l’uomo si riconoscesse uomo. È una medicina molto efficace. Se questa
medicina non cura la superbia, non so che cosa può curarla. È Dio e si fa uomo: mette da parte la divinità,
cioè in qualche modo la depone, ossia nasconde la propria natura e appare la natura assunta. Si fa uomo
pur essendo Dio, mentre invece l'uomo non si riconosce uomo, cioè non si riconosce mortale, fragile,
peccatore, malato, in modo da ricercare il Medico almeno perché e malato; ma ciò che è più pericoloso, gli
sembra di essere sano. / Quel popolo dunque non si avvicinò al medico per questo motivo, cioè per la
superbia. Si parla dei giudei come di rami naturali tagliati via dall’albero dell’ulivo, cioè dal popolo generato
dai Patriarchi, rami tagliati giustamente perché sterili a causa dello spirito di superbia; in quell’ulivo fu poi
innestato un ulivo selvatico (Rom 11:17-24) [che] era il popolo dei pagani. Afferma l'Apostolo [Paolo] che
l'ulivo selvatico fu innestato nell'ulivo domestico, ma i rami naturali furono tagliati via. Quelli furono tagliati
a causa della superbia, I'ulivo selvatico fu invece innestato a causa dell'umiltà. (...). Per questa umiltà
piacque anche il centurione; questo desiderava che il suo servo fosse guarito dal Signore e poiché il Signore
gli disse: Verrò io stesso e lo guarirò, egli rispose: Signore, non sono degno che tu entri in casa mia, ma dì
solo una parola e il mio servo sarà guarito. Non sono degno che tu entri nella mia casa. (Mt 8:7-9). Non lo
accolse nella sua casa ma lo aveva accolto già nel proprio cuore. Quanto più era umile, tanto più ne era
capace, tanto più ne era pieno. (...). Dopo che il centurione aveva detto: Non sono degno che tu entri in
casa mia, (...) disse il Signore a quelli che lo seguivano: Vi assicuro che non ho incontrato nessuno in Israele
che avesse tanta fede (Mt 8:10), cioè non ho trovato tanta fede tra il popolo al quale sono venuto. (...). Che
cosa la rendeva così grande? Ciò che vi è di più piccolo, cioè l'umiltà. Non ho trovato tanta fede; simile al
granello di senape che quanto più è piccolo, tanto più è fervente. Il Signore innestava giá l'ulivo selvatico in
quello domestico. Faceva ciò quando diceva: Vi assicuro che non ho trovato tanta fede in Israele» (Discorso
77 sopra Mt 15:2/-28. 7. 11). 

Nei paesi che seguivano le confessioni protestanti, in Europa, si determinò dal Cinquecento, un’iconografia
specifica, dotata di una pervasiva valenza escatologica: quella del Christus medicus che col proprio merito
provvede a giustificare l'uomo. Forse la prima raffigurazione di Cristo-medico è la xilografia del frontespizio
del libro di Thomas van der Noot Dit es van der siechen der brooschen nature (Bruxelles, circa 1510: in
basso a sinistra), in cui Gesù osserva in controluce una mantula (orinale), da cui derivarono poi molte copie
dipinte. Ma si dà anche un'iconografia di carattere satirico che raffigura il medico nelle vesti di Cristo perché
così egli è veduto all'inizio dal malato grave e disperato che lo convoca per essere curato ...poi il malato
vede il medico come un angelo del Signore quando questi comincia a somministrare la cura… il medico
viene visto come un nomo normale quando le condizioni del malato cominciano a migliorare...e infine il
medico, quando chiede la salatissima parcella, si trasforma in un odioso diavolo agli occhi del malato ormai
pienamente guarito.

Un'altra iconografia dotata di una pervasiva valenza soteriologica (ma questa volta virata in chiave votiva e
devozionale e dunque popolare) è quella, davvero particolare, del Cristo farmacista celeste (Christus
apothecarius coelestis), dipendente da quella del Christus medicus. In essa si vede Gesù collocato dietro un
tavolo da apotecario, mentre soppesa con un bilancino ingredienti medicali (magari dei piccoli crocifissi)
prelevati da sacchetti o da albarelli che recano le etichette delle 3 virtù teologali e delle 4 virtù cardinali,…

oppure mentre dispensa la guarigione al peccatore pentito, che viene genericamente ritratto ed è bene
individuato sotto il profilo anagrafico da scritte e cartigli, secondo la tradizione degli ex voto. Talora al
centro del bancone sta un calice da cui sorge l'ostia, intesa come unica medicina del cristiano. Ciò era in
linea con la dottrina sacramentale delle confessioni protestanti, che riconoscevano solo i due sacramenti
del battesimo e dell'eucaristia, facendo rientrare gli altri cinque sotto la categoria del rito esteriore, senza
cioè attribuire loro alcuna validità ai fini della salvezza. Altre volte - ma di rado - il beneficio procurato da
Cristo viene esplicitamente identificato col suo sacrificio, evidenziato dal fatto che la tipologia del Gesù
apothecarius coelestis è proprio quella del Cristo della Passione che mostra le proprie piaghe. Altre varianti
prevedono la presenza di aiutanti apothecari angelici; in un caso Gesù prescrive farmaci a un gruppo di
suore - che ovviamente appaiono assai felici di trovarsi alla sua presenza. L'ambientazione talora è quella di
una vera farmacia dell'epoca. Nell' incisione - colorata a mano - di Andreas Ehmann (Augsburg, 1750 circa)
Gesù apothecarius viene aiutato da san Giovanni di Dio. 

Alla fine del Novecento - e ancora oggi, nel 2018 - si è avuta una sporadica ripresa di questa iconografia ad
opera di alcuni artisti tedeschi (come Ruth Schaumann o Zanol Hubert), con esiti certamente interessanti e
pieni di buona volontà nell'attualizzare una tematica che a molti fedeli deve apparire alquanto astrusa.
L'iconografia queste tavole votive era piuttosto standardizzata: questo esemplare, quasi identico a quelli già
visti, fu dipinto in Austria nel 1747 e faceva parte della raccolta d'arte popolare del convento delle Orsoline
di Vienna (oggi a Vienna, Österreichisches Museum für Volkskunde). La scena è bislacca: Cristo, in modo
assai professionale, soppesa sul bilancino la situazione del fedele che lo supplica: su un piatto poggia il peso
del peccato (simboleggiato da un repellente animaletto demoniaco), sull'altro il peso del beneficio
compiuto dal Redentore nei confronti dell'Umanità (simboleggiato dal Crocifisso). Inutile dire che quest’
ultimo è più pesante e dunque possiede più valore di qualsiasi peccato. Si noti dietro al bancone la presenza
del trofeo dell'agnello mistico «che toglie tutti peccati». 

In questo esempio, una miniatura del primo Cinquecento che va posta all'origine di questa tipologia
iconografica e la cui modalità di raffigurazione costituisce un vero e proprio unicum, più genericamente
venne raffigurato Gesù in atto di prescrivere una ricetta (cioè la grazia della redenzione ottenuta attraverso
la croce e la risurrezione) nientepopodimeno che ai due progenitori Adamo ed Eva, allo scopo di guarirli dal
loro peccato, come se esso fosse una malattia curabile con un medicamento da banco. E in effetti, in questa
curiosissima incisione austriaca del secolo XVII, il salvifico sangue che sgorga dal costato di Cristo va
direttamente a imbottigliarsi dentro un'ampollina che reca l'etichetta Pharmacum… L'idea qui espressa è
chiaramente quella del beneficio di Cristo, derivato dalle Institutiones christianae religionis di Giovanni
Calvino (1539), in cui si espone la dottrina della giustificazione per fede, che attribuisce a Cristo l'interezza
del merito della salvezza dell'uomo, senza accettare l'idea di una cooperazione di quest’ultimo (attraverso
la pratica delle opere e la dottrina della fides operata) alla propria giustificazione. L'incisione reca la
leggenda «La migliore tintura sgorga dall'apertura»; sulla boccetta si legge: «Do a tutti il salvifico
farmaco». 

Benché abbastanza complesse sotto il profilo simbolico, queste immagini - data la loro natura votiva -
vennero prodotte per lo più da artisti di secondo piano per un pubblico devoto ma spesso dotato di scarsa
cultura, e non furono mai tradotte nella dimensione della pala d'altare. Una delle rare raffigurazioni di
questo tema eseguite da un artista di maggiore esperienza e caratura si trova in questo piccolo olio su
rame dipinto da Michael Herr nel 1619 (Marburg, Universitätmuseum für Kunst und Kulturgeschichte, inv.
7040), che peraltro mantiene il tono e l’iconografia di un ex voto. Il pittore, pur rispettando modelli già visti,
arricchisce concettualmente la sua messa in scena per mezzo di vari espedienti, quali la presenza della
vecchia legge mosaica scolpita nella duplice tabella centinata, i disegni raffiguranti episodi della vita di
Cristo, e il labaro resurrezionale recato dai due angeli di sinistra.

In questo quadro invece si fondono le tipologie del Cristo apotecario e del Cristo medico (nello sfondo
compare infatti l'episodio del risanamento del cieco). Sul bancone sono posati il Sacro Cuore di Gesù - che
fu il più importante culto cattolico del Settecento, come si vede in un dipinto di José de Páez del 1770
(sotto) - e l'àncora, antico simbolo cristiano che si rinviene già nelle catacombe ed è presente, ad esempio,
nella famosa stele sepolcrale di Licinia Amias (secolo III), proveniente dalla necropoli vaticana (Roma,
Museo Nazionale Romano, inv. 67646). In età moderna il simbolo dell'àncora rinviò alla virtù teologale della
speranza (in latino spes), in accordo con un passo della Lettera agli ebrei: «( ...) Dio, volendo mostrare più
chiaramente agli eredi della promessa l'irrevocabilità della sua decisione, intervenne con un giuramento
(...). Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla
speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa
entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo
sacerdote per sempre secondo l'ordine di Melchìsedek» (Eb 6: 17-20). 

Riassumendo: è chiaro il significato redentivo di questo tipo di immagine, che non casualmente nacque in
àmbito protestante - poiché esclude il ricorso a sacramenti quali la confessione-penitenza e rigetta la
dottrina cattolica controriformata del libero arbitrio e della fides operata, secondo la quale il fedele sceglie
liberamente di partecipare in modo attivo alla propria redenzione, cooperando con Cristo per mezzo della
pratica delle opere - ed ebbe una relativa diffusione fino alla metà dell' Ottocento, non tanto in Italia,
quanto in particolare nell'area geografica franco- e austro-tedesca. 

L'iconografia del Christus apothecarius fu oggetto di studio soprattutto da parte di alcuni storici della
farmaceutica (in particolare Fritz Ferchl) e solo più tardi venne poi indagata anche dagli storici dell'arte. Va
rammentata anche una mostra, ovviamente intitolata Christus als Apotheker, tenutasi nel 1975 presso il
Focke Museum di Brema. 

CHRISTUS IRATUS: Ma torniamo ora, dopo questo lungo excursus, al tema dell'ira divina che richiede una
intercessione per essere placata o stornata. In alcuni casi l'iconografia del Christus iratus direttamente
legata agli eventi epidemici non comprende più la presenza di Maria intermediatrice: il suo posto è preso
da santi che esercitano una misericordiosa funzione taumaturgica e d'intercessione nei confronti delle
malattie, come san Sebastiano e san Rocco, che qui vediamo riuniti insieme in una tavola dell'anonimo
Maestro dell'Epifania di Fiesole (attivo a Firenze nell'ultimo quarto del Quattrocento) dotata di una valenza
votiva. Due elementi vanno qui notati: l'insolita raffigurazione di Sebastiano vestito invece che nudo; la
significativa presenza dell'Annunciazione, che si riferisce all'incarnazione del Verbo, Misericordia divina. È
significativo che nel 600, dopo la rarefazione dell'iconografia di Maria come misericordioso refugium,
l'immagine del Christus iratus riaffiori, in un rigurgito di superstizione, in specie nelle zone rurali (ad
esempio nelle campagne venete o sull'Appennino emiliano nel corso della pestilenza del 1630): ora, come
avviene nelle pale votive di Alessandro Tiarini nelle chiese di San Michele Arcangelo a Capugnano di
Porretta (1630, destra) e di Santa Maria Assunta a Castelluccio di Porretta (1630- 1633, sopra), presso
Bologna, a placare il Redentore sono i già citati santi taumaturghi Rocco e Sebastiano (con san Francesco).
Sempre Tiarini dipinse, entro il mese di agosto del 1633, per l'Oratorio della Santissima Trinità a Reggio
Emilia questa interessantissima pala, che, dal 1798, si trova nella chiesa di San Pietro di quella stessa città.
In via alquanto eccezionale l'opera raffigura Maria che intercede presso la Ss.ma Trinità: più precisamente
la Vergine è colta mentre si porta la sinistra al seno e indica in basso verso l'umanità supplice (che non si
vede, ma c'è!), nell'atto di intercedere presso il Padre: è verso di lui che infatti ella indirizza lo sguardo, e
non verso il Figlio. Gesù, che - come recita il symbolon cristiano - sta seduto in cielo alla destra del Padre, la
ferma (o la conferma, rassicurandola) con un perentorio gesto della mano destra: le sue piaghe sulle mani e
sul costato sono ben visibili, si volge verso il Padre, allo scopo di intercedere a sua volta presso di lui: in
effetti lo guarda e tiene la bocca semiaperta, proferendo parole che la muta pittura non può
comunicarci. Dio Padre - che guarda negli occhi Maria e non il Figlio - fa due gesti: con le dita della destra
compone il numero 3, alludendo alle tre Persone della Trinità (la colomba dello Spirito santo vola poco più
in alto sopra Gesù) e con la sinistra indica in basso, verso la terra dove abitano gli uomini. I misteri della
fede, così come i progetti divini, restano insoluti, ma di certo Cristo, per il suo sacrificio, ha un ruolo
centrale nel rapporto tra Dio e l'uomo e ne è unico mediator. Il quadro fu elaborato per disposizione
testamentaria di un religioso, don Giacomo Calcagni, affinché fosse posto sopra l'altare di cui questi
possedeva il giuspatronato nell'Oratorio dalla Ss.ma Trinità di Reggio Emilia. Il soggetto, dotato
indubbiamente di carattere funerario ed escatologico (I'intercessione doveva riguardare l'anima del
Calcagni) oppure solo semplicemente votivo, si riferiva dunque a tratti specifici della devozione del
committente, di cui al momento non si hanno ulteriori notizie. Un'altra tela del Tiarini databile pure agli
anni '30 del 600 (Reggio Emilia, Galleria Civica «Antonio Fontanesi») indaga il tema dell'intermediazione
della Vergine. Ma qui non ci sono ambiguità: Maria, che stringe a sé il Figlio, gli parla indicando al contempo
in basso, nel gesto dell'intercessione. Il piccolo Gesù, fissando intensamente la Madre, apre le dita della
mano sinistra evidenziando le prime tre (allusive alla Trinità) e con l'indice della destra indica l'indice della
sinistra, riferendosi al numero 2, cioè alla seconda Ipostasi: il Figlio, cioè se stesso. Ciò implica che egli sia
consapevole del proprio ruolo redentivo: si immolerà per noi, adempiendo le profezie della venuta del
Messia e assolvendo il suo compito salvifico. Il misericordioso iter dell'intercessione sarà dunque garantito,
così come, al suo interno, sarà garantito e riconosciuto il ruolo di Maria. Ma si può ben dire che, a quelle
date, il rapporto della Madonna con i fedeli abbia ormai preso un'altra strada, essendo mediato non più
dall'iconografia (e dal culto) della Misericordia, bensì da quella dal rosario, con la relativa devozione ad esso
collegata.

MADONNA DEL ROSARIO: Dunque tra la fine del Quattro e la prima metà del Cinquecento decade l'uso
dell'iconografia della Vergine della Misericordia (e di conseguenza quella della sua intercessione presso il
Figlio), che in epoca controriformata fu definitivamente sostituita dalla ricca variata serie di immagini
mariane legate appunto alla devozione del rosario (potente arma contro le insidie che minacciano il
credente), tra le quali spicca la consegna della corona di grani a san Domenico, come si vede in questo
dipinto bolognese di fine Cinquecento e di discussa attribuzione. In effetti nell'Ordine domenicano, come
meglio vedremo tra breve, la devozione del rosario mariano sostituì pian piano il culto della Vergine della
Misericordia. La tavola di Albrecht Dürer, Festa del rosario (Národni Galerie, Praga), dipinta per Jacob
Fugger nel 1506, è una precoce testimonianza di questa nuova devozione che, aiutando il credente nei
momenti di difficoltà e di dubbio, si rivelerà vincente nei secoli successivi. Rispetto al culto della Madonna
della Misericordia, le cui modalità di attuazione (nella preghiera e nella frequenza) erano di fatto lasciate
liberamente all'iniziativa del singolo fedele o della singola confraternita (cosa che si tradusse nell'enorme
varietà dei moduli iconografici che abbiamo visto), la devozione del rosario presentava il vantaggio di
essere viceversa preordinata, chiara, facilmente assimilabile (per la ripetitività, anche ritmica, delle
formule) e dunque agevole da praticare e perfino invitante, nonché assai più consolante nell'immediatezza
dell'atto della recita (ancora, proprio per la continua, rassicurante iterazione delle formule e della loro
ritmica); nonché più controllabile da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma procediamo con ordine. Sono
piuttosto complesse e articolate le vicende che portano all'origine e alla diffusione della devozione del
Rosario della Beata Vergine e, conseguentemente, della pratica della recita del rosario per mezzo delle
coroncine di grani (occorre peraltro distinguere tra l'aspetto spirituale del rosario e lo strumento della
corona di 50 grani, come sottolinea bene G. SPINELLI, Alle origini altomedievali del Rosario. Devozione
mariana di benedettini, cistercensi e certosini, in Il Rosario. Teologia, storia, spiritualità, a cura di R. Barile,
Bologna 2011, pp. 171-183). La storia del rosario si incrocia inoltre con quella della nascita della preghiera
dell’Ave Maria, che, come vedremo, fu anch'essa lenta e tortuosa. Soprattutto per quanto riguarda il
rosario, in effetti, occorre chiarire che non si può parlare di una sua creazione monogenetica, bensì di una
stratificazione di eventi che, per poligenesi, condussero lentamente alla formazione di un cospicuo
aggregato di preghiere (divise a loro volta in gruppi di uguale numero) e a un suo utilizzo che, praticato
dapprima solo nei monasteri dei monaci (e poi, dal secolo XIII, nei conventi dei frati), finì quindi per
diffondersi anche presso i laici. Cercheremo qui di séguito di ripercorrere succintamente il processo di
formazione del culto del rosario (e della corona dei grani) nelle schede con lo sfondo verde e l'iter della
strutturazione dell'Ave Maria nelle schede con lo sfondo grigio-blu. 

Nei secoli XIII-XIV il nome di Gesù cominciò a comparire alla fine della lode, che così assunse l'aspetto che
mantiene ancor oggi. La preghiera dell'Ave Maria assunse la forma odierna solo nel secolo XV, con
l'aggiunta della seconda parte (la supplica). La formula completa «Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis»,
derivante dall'inserzione del titolo mariano di Madre di Dio (Theotòkos, in greco, in latino Deipara: fu
proclamato dogma da un canone del Concilio di Efeso del 431) all' interno dell'invocazione «Sancta Maria,
ora pro nobis» (già adoperata dalla fine del secolo VII), è attestata per la prima volta in una predica
pronunciata nel 1427 da santo francescano Bernardino da Siena (si ignora da quale fonte la traesse).
L’ultima parte della supplica, “ora pro nobis peccatoribus nune et in hora mortis nostrae. Amen”, fu forse
sviluppata in ambito certosino, come dimostrerebbe un breviario redatto dai monaci dell’Ordine di san
Bruno verso il secolo XIII in cui compaiono espressioni come «Sancta Maria, ora pro nobis», «ora pro nobis
peccatoribus», «nune et in hora mortis». La supplica, nella sua forma completa, si trova aggiunta in un
Breviario romano dei secoli XIV-XV, che pone la recita dell'Ave Maria dopo Compieta. 

All'origine della pratica della recita del rosario sta la recita quotidiana dei 150 Salmi di David che, nelle ore
canoniche, si effettuava nei monasteri: l'esegesi veterotestamentaria concordemente interpretava i Salmi
come profezie sugli eventi della vita del Messia, in linea con quanto lo stesso Cristo affermava nella sua
predicazione. Nei monasteri d'Irlanda i 150 Salmi furono suddivisi in tre cinquantine e vennero usati dai
monaci - in questa ripartizione in tre blocchi - per essere recitati come preghiera per i defunti e come atto
penitenziale conseguente alla confessione dei peccati: quest'usanza fu poi diffusa sul suolo europeo nel
corso del VII secolo ad opera di san Gallo e san Colombano. Alla metà del secolo IX, poiché i monaci
conversi (che spesso erano privi di istruzione) trovavano difficile imparare a memoria tutti i Salmi, si
permise a costoro di recitare al loro posto 150 preghiere del Pater noster. Questa forma di preghiera venne
chiamata il Salterio del Pater e cominciò ad essere utilizzata anche al di fuori dei centri religiosi.
Inizialmente, per contare i 150 Padrenostro, i fedeli portavano con sé piccole borse di pelle contenenti 150
sassolini. Poi cominciarono ad usare cordicelle dotate di 150 o di 50 nodi e infine, presero ad usare una
specie di spago a cui erano legati 50 pezzetti di legno. Non pare fondata, o quantomeno verificabile,
l'ipotesi che a inventare quest'ultimo strumento fosse Beda il Venerabile (+735), come dicono alcuni. A una
certa data, accanto al Salterio del Pater, si affermò anche l'uso di un Salterio della Beata Vergine, la cui
diffusione prevalse poi sul primo: in esso il Pater noster veniva sostituito dal Saluto dell'angelo (salutatio
angelica) di cui parleremo nella scheda seguente. Fiorivano anche Salteri composti da 150 lodi alla Vergine.
È arduo specificare come e quando ciò sia avvenuto: le fonti sono poco chiare e contraddittorie. È
verosimile che il terreno di coltura fosse costituito dall'enorme repertorio di litanie marine in uso nei
monasteri, molte delle quali (come notava lo Spinelli) cominciano con parole di saluto (ave, salve, gaude)
che traducono la formula greca (?) che è il saluto rivolto a Maria dall'arcangelo Gabriele durante l'annunzio.
Uno dei più antichi potrebbe essere lo Psalterium sancte Marie dell'abbazia cistercense di Pontigny, che ci
viene tramandato da alcuni manoscritti francesi del secolo XII (dunque la raccolta del suddetto Salterio
dovrebbe essere più antica di quella data): fu pubblicato nel 1958 da Gilles Meerssemann. Esso contiene
150 strofe di 4 versi che cominciano tutte col saluto Ave e, nella loro sequenza, narrano la vita della Vergine
(adombrando, in effetti, quella che poi sarà la triade dei misteri presente nel rosario mariano).

La presenza del re David che suona il suo tradizionale salterio (lo strumento musicale a corde, da suonare
pizzicandole) in questa pala di Luca Signorelli dedicata al tema dell'Immacolata Concezione (1519-1522;
Arezzo, Museo d'arte medievale e moderna; dalla chiesa di San Girolamo) parrebbe alludere anche alle
tradizioni medievali dei Salteri della Vergine.

La salutatio angelica a Maria (Salve, piena di Grazia, il Signore è con te: Lc 1:28) era adoperata, nella sua
lezione testuale in greco, dalle comunità cristiane antiche, come dimostra ad esempio un medaglione
facente parte di una collana nuziale (databile forse al VI secolo; collezione Christian Schmidt, Monaco di
Baviera), che riporta la scena dell'Annunciazione con la leggenda, scritta in caratteri epigrafici, che in greco
significa appunto Salve, o piena di Grazia, il Signore è con te. L'istituzione (se non proprio l'invenzione) della
formula della lode («Ave Maria gratia plena. Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui»,
fondata su Lc 1:28 con l'aggiunta di Lc 1:42; a quel tempo ancora senza l'inclusione del nome di Gesù), che
oggi costituisce la prima parte dell'Ave Maria, si è attribuita a sant'Ildefonso da Toledo (607-667). Ma in
realtà la lode era usata già all'avvio del secolo VII nella liturgia romana sotto papa Gregorio Magno (590-
604) come testo offertoriale della IV domenica di Avvento e nella liturgia ambrosiana come testo di un
Confractorium (un canto specifico adoperato durante la fractio panis della Comunione). Come testimonia
san Pier Damiani (†1072) nel suo Sermone III sull'Annunciazione, nel secolo XI si iniziò ad utilizzare nei
monasteri, come formula ripetitiva per il Salterio, anche la lode (che il santo, raccomandandone l'uso,
definisce come «versetto angelico»). A san Pier Damiani è anche attribuito il ritmo 63, Super salutatione
angelica. Ma il passo decisivo fu compiuto da Eudes de Sully (noto anche come Odone di Soliac), che nel
1198, appena divenuto vescovo di Parigi, nelle Synodicae Constitutiones (cioè gli statuti sinodali) prescrisse
ai sacerdoti di esortare i laici a imparare a memoria il Pater noster, il Credo e, appunto, «il saluto della beata
Vergine» (la lode). 

La prima formulazione completa dell'Ave Maria si ritrova in un manoscritto francescano (qui a lato), il
codice da bisaccia contenente il Libro di preghiere adoperato dal beato Antonio da Stroncone (circa 1381-
1461), come riporta G. BOCCALI, Il Libricto del beato Antonio conservato a San Damiano: studio e edizione
integrale, in Il beato Antonio da Stroncone, I, Assisi 1993, pp. 87-161; la sua prima trascrizione in un
documento ufficiale della Chiesa si rinviene comunque nel Breviario pubblicato a Roma nel 1568, sotto
papa Pio V, nel quale la preghiera è collocata nella Liturgia delle Ore. Come vedremo Pio V (che non caso
apparteneva all'Ordine domenicano), promosse poi nel 1572 la devozione del rosario. Il Salterio della Beata
Vergine si avvalse dunque, inizialmente, della lode.

Ma nel corso del basso Medioevo si svilupparono anche i Salteri di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo
che consistevano in 150 preghiere di lode a Cristo, finalizzate a indurre il fedele a meditare sugli eventi della
vita di Gesù. Anche questo tipo di Salterio fu utile allo sviluppo finale del rosario, poiché fornì a quest'
ultimo importanti materiali per lo sviluppo dei misteri. Così nel secolo XIII i monaci e le monache, le suore e
i frati (allora esordienti sulla scena della Chiesa), i fedeli e le congregazioni come le confraternite avevano a
disposizione ben 4 diversi salteri da recitare per fecondare le proprie meditazioni: i 150 Padre Nostro, i 150
Saluti Angelici, le 150 lodi a Gesù, le 150 lodi a Maria. Attorno al 1365 questi 4 salteri vennero unificati dal
monaco certosino Heinrich Eger von Kalkar (1328-1408), che viveva nella Certosa di Colonia: egli raggruppò
in 15 decine le 150 salutationes angelicae (che a quel tempo erano ancora limitate alla sola lode) e pose un
Padre Nostro prima di ogni decina. Quest formula si diffuse presto anche presso i benedettini. Un'ulteriore
riforma fu promossa nei primi decenni del 1400 da un altro certosino, Domenico Helion, detto Domenico di
Prussia (1382-1460: qui a lato), che fiorì nella Certosa di Sant'Albano presso Treviri. Poiché egli era solito
recitare quotidianamente un mazzetto - o rosarium, come lo si definiva - di 50 Ave Maria, il suo priore
Adolfo di Hessen lo esortò a meditare sulla vita di Gesù durante la recita (sulla scorta di quanto usavano
fare già da un secolo le comunità di monache di regola cistercense di Helfta presso Eisleben in Sassonia e
quelle, più propriamente cistercensi, di Sankt Thomas an der Kyll, presso Treviri, appunto). Per facilitarsi il
compito, ad ogni salutatio angelica, dopo il nome di Gesù (con il quale allora terminava la lode) Domenico
aggiunse una breve frase o clausola riferentesi ad un episodio della vita di Cristo o della Vergine. Queste
clausole erano in tutto 50: 14 riguardavano la vita nascosta, 6 la vita pubblica, 24 la passione fino alla
resurrezione e 6 gli eventi dopo la resurrezione. Nacque così una prima, embrionale struttura che recò poi
alla triplice divisione dei misteri in gaudiosi, dolorosi e gloriosi. Questo nuovo salterio, che ormai era
definibile come rosario, fu subito attivamente diffuso da Adolfo di Hessen. 

Riassumendo: il complesso di preghiere e di meditazioni che verrà poi definito come rosario ha un'origine
molto articolata, poiché deriva da consuetudini diffuse nelle congregazioni monastiche che compongono il
variegato Ordine benedettino, pilastro del monachesimo occidentale sin dal VI secolo: un apporto decisivo
fu fornito dai cistercensi, che praticarono la recita del Salterio della Beata Vergine, con le salutationes
angelicae, e la diffusero nelle varie regioni europee. Fondamentale fu poi l'apporto dell'Ordine certosino
(fondato nel secolo XI da san Bruno), che intervenne a razionalizzare la forma e la struttura del rosario,
fissandole in una versione che fu preludio a quella oggi in uso. Frattanto la Chiesa provvide a
istituzionalizzare la recita dell'Ave Maria e a radicarne la tradizione anche presso i laici (ciò vuol dire anche
nelle confraternite!), preparando con ciò il terreno per la successiva diffusione della recita del rosario anche
presso i vari strati del popolo. A fornire la spinta alla diffusione universale del rosario fu però l'Ordine
domenicano (fondato all'avvio del secolo XIII), come vedremo tra breve. La parola rosario, che
propriamente significa giardino di rose, roseto, paragona le preghiere alle rose (e a un roseto la struttura
che numericamente le organizza) e si dice che derivi dall'usanza medioevale di decorare le statue della
Vergine con una corona di rose (in francese dette chapelets) che simboleggiavano delle preci. Le rose
compaiono, ovviamente, in molti dipinti realizzati per celebrare e diffondere la devozione del rosario, ma
occorre rammentare che la rosa è il fiore mariano per eccellenza. Contrariamente a quanto talora si
sostiene, ciò non deriva dal primo stico di Ct 2:1, in cui la Sposa si autodefinisce come un fiore: qualcuno
traduce erroneamente lo stico come «io sono la rosa di Saron», ma i più lo rendono invece come «io sono il
narciso di Saron», mentre san Girolamo, nella Vulgata, aveva trasposto lo stico in latino più genericamente
come «ego [sum] flos campi»; né la rosa è citata in altri luoghi della Bibbia.

Non si conosce il momento in cui il fiore della rosa venne associato alla figura di Maria: secondo A.
CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano 1996, pp. 25-26, l'assegnazione a
Maria di attributi che nel mondo antico e classico caratterizzavano divinità come Venere (cui era sacra
appunto la rosa), Cerere e Diana fu operata per la prima volta nel contesto della Scuola di Chartres (dove si
trova l'importante santuario mariano della cattedrale di Notre-Dame), alla fine del secolo XI o all'avvio del
XII. Ma in realtà già Sedulio, nel Carmen Paschale (V secolo), associava Maria alla rosa, come vedremo;
poco dopo, nel trattato Libellus de corona Virginis, attribuito dubitativamente a Ildefonso di Toledo (606
circa - 667) Maria è definita «amabilis velut rosa». Nell'inno Salve Mater Salvatoris (che risale all'alto
Medioevo, all'incirca al secolo XI; nei secoli XVIII e XIX veniva cantato durante il mese mariano di maggio
assieme al Magnificat) Maria viene appellata come advocata peccatorum e afflictorum consolatrix e come
rosa sine spina (con allusione alla sua prerogativa di essere nata sine macula). 

In una delle sue Cantigas de Sancta Maria, il coltissimo re di Castiglia e di León Alfonso X el Sabio, cioè il
Saggio (1221 - 1284: raffigurato nella miniatura qui sotto), definiva Maria «rosa delle rose, fiore dei fiori,
donna delle donne, unica signora: dobbiamo molto amarla e servirla, perché può proteggerci dai nostri
errori» (Rosas das rosas, 10). La simbologia della rosa, peraltro, attiene primariamente anche alla figura di
Cristo (la rosa rossa, in particolare, simboleggia le sue Cinque Piaghe), ma qui tralasceremo questo aspetto.
Tornando alla Vergine, e ricordando che la rosa è anche simbolo della stessa preghiera dell'Ave Maria (nel
1981 è stata perfino prodotta e brevettata una specifica varietà di rosa, un ibrido di tea con fiori di colore
arancio-salmone, denominata appunto Ave Maria: qui sopra), non va tralasciato il rinvio alle litanie
lauretane che la invocano con l'appellativo di Rosa mystica. Le litanie lauretane (o litanie della Beata
Vergine Maria) sono le suppliche che si recitano, come autonomo atto di culto, al termine del rosario. La
loro origine è da porsi nel secolo XII e derivano il loro nome dal celebre santuario mariano della Santa Casa
di Loreto, dove si cantavano dalla prima metà del Quattrocento. Sono costituite da una lunga serie di
invocazioni cantate a cori alterni (le cui parti sono il recitante e l'assemblea), che contengono suppliche
dapprima rivolte alle Persone della Trinità e poi a Maria, che viene definita con l'attribuzione di titoli
derivati sia da formule devozionali sia da figure bibliche che le sono tradizionalmente associate, quali
«Mater», «Virgo», «Vas», «Regina» e, appunto, «Rosa mistica». La preghiera si conclude con una triplice
supplica simile all'Agnus Dei e con un'orazione terminale. 

L' attribuzione della rosa alla figura della Vergine è diffusa nell'arte e talvolta si trova collegata
all'iconografia definita come hortus conclusus. Nella Madonna nel roseto di Stephan Lochner (1448-1450
circa) la Madonna dell'Umiltà (humilis, vale a dire: seduta sulla nuda terra, cioè sull'humus), e dunque umile
seppur incoronata in quanto Regina Coeli, presenta Gesù nudo come Verbo incarnato sullo sfondo di un
roseto all'interno di un hortus conclusus, cioè un giardino chiuso, senza vie di entrata, con diretta allusione
alla sua verginità (vedi oltre), alla quale pure allude la medaglia recante la raffigurazione di una fanciulla che
tiene sul grembo un unicorno (o liocorno), mitico animale che, secondo la tradizione, poteva essere veduto
e avvicinato unicamente dalle ragazze illibate. È vestita solo di blu ad indicare la propria realizzata
«celestialità», cioè la piena e gloriosa appartenenza al Regno dei Cieli. La medaglia indossata da Maria
allude più propriamente alla tradizione per cui Cristo è simboleggiato dall'unicorno (o liocorno). A fissare
questa simbologia cristologica furono i bestiari medievali: uno dei più antichi, il Physiologus, un testo del II-
IV secolo di cui si conoscono molte versioni successive, con ampliamenti, cita, con traduzioni errate, sia Sal
29(28):6 («è diletto come l'unicorno il figlio mio»; ma oggi si traduce «fa balzare il Sirion come un giovane
bufalo») sia Sal 92(91):11 («Sarà esaltato come quello dell'unicorno il mio corno»; oggi però si traduce «Tu
hai elevato la mia potenza come quella di un bufalo»), poi ricorda che, per la sua ferocia, l'unicorno era
difficile da catturare, a meno che non lo si attirasse presentandogli una vergine (a quel punto l'animale
balzava in seno alla fanciulla e si addormentava, venendo dunque abbrancato dai cacciatori che potevano
così «metterlo in mostra nel palazzo del re»), infine riporta che «l'unicorno è un immagine del Salvatore:
[poiché sta scritto che] ha suscitato un corno nella casa di Davide padre nostro (Lc 1:69 [ma oggi si traduce:
ha suscitato una potente salvezza nella casa di Davide, suo servo]), ed è divenuto per noi corno di salvezza;
(...) ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria» (Il Fisiologo, Milano 1975, pp. 60-
61; cfr. Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino 1996, p. 41). La cattura della fiera da parte dei
cacciatori e la sua esposizione nel palazzo del re alludono ovviamente alla presa di Cristo e all'episodio
dell’ecce homo.  Altri bestiari sottolineano che l'unicorno è tanto piccolo che nessuno può inseguirlo: perciò
l'animale simboleggia Cristo, «che si fece piccolo, nascendo umilmente come uomo. (...) E come nessuno
può inseguire l'unicorno, così nessuno può comprendere il mistero di Gesù che non poté essere visto da
nessun occhio umano prima di aver ricevuto corpo umano dal grembo della Vergine» (cit. in V. DOLCETTI
CORAZZA, Il Fisiologo nella tradizione letteraria germanica, Alessandria 1992, p. 171). Perciò l'unicorno, in
questa tavola della prima metà del secolo XVI (Erfurt, Museo Diocesano), simboleggia la presenza del
Verbo incarnato nel ventre virginale di Maria (allegorizzato a sua volta dall'hortus conclusus comprendente
gli attributi simbolici dell'Immacolata Concezione) all'annuncio che Gabriele le reca suonando un cornetto e
tenendo al guinzaglio quattro cani segnati come lustitia, Veritas, Misericordia e Pax: sono virtutes che si
riferiscono a Sal 85(84): 11, come vedremo più avanti. 

Ma torniamo all'umiltà. Il regime morale del Medioevo si fondava sul contrasto tra i sette peccati capitali e
le sette virtù: in questa prospettiva la virtù dell'umiltà, poiché era antitetica al peccato mortale più grave
(quello della superbia), veniva ritenuta - assieme alla carità - la madre di tutte le virtù. Quella dell'umiltà era
stata in effetti la virtù praticata dal Verbo incarnato, accettando di farsi uomo, per cui, come ricorda
sant'Agostino, chi coltiva l'umiltà fa la volontà di Dio, mentre i superbi perseguono egoisticamente solo la
soddisfazione della loro stessa volontà («ille Deus factus est homo; (...) ergo, quia humilitatem docet Deus,
(...) superbia facit voluntatem suam [cioè superbiae ipsae], humilitas facit voluntatem Dei»: AGOSTINO, 124
trattati sul Vangelo di Giovanni, 25, 16). Nell'aula gotica del monastero dei Santi Quattro Coronati, a Roma,
che fu affrescata su commissione dell'importante cardinale Stefano Conti tra il 1235 e il 1247 circa, è
presente un ciclo di personificazioni allegoriche delle virtù, raffigurate in abiti militari. Qui la
personificazione dell'umiltà, sormontata dal re David, è accompagnata da un riferimento testuale
abbreviato al versetto di Luca «Chiunque si innalza sarà abbassato, chi invece si abbassa sarà innalzato» (Lc
14:11). Nella Madonna delle rose di Francesco Raibolini detto il Francia (1500), Maria adora l'umanità del
Verbo incarnato facendo il gesto dell'umiltà e dell'obbedienza (le braccia conserte al petto) dentro a un
roseto, che suggerisce la delimitazione di un hortus conclusus. Anche qui Maria è vestita di blu per
sottolineare la propria «celestialità» gloriosa, mentre il Bambino poggia su un drappo rosso che allude al
salvifico sangue versato nella Passione e alla dignità di Re dei cieli. Va detto che l'hortus conclusus, la cui
immagine deriva dal testo del Cantico dei cantici («0 sposa mia, tu sei un giardino serrato»: Ct 4:11) è anche
un'allegoria della Chiesa Romana: Rabano Mauro (780 circa - 856) scriveva infatti che «hortus conclusus
Eccelsia est», poiché in essa si raccolgono varie specie di virtù, come nell'hortus si raccolgono varie specie di
piante dalla simbologia virtuosa (De Universo, XIX, 9). San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) rifiniva
questo concetto - in base all'allegorismo ecclesiologico di Maria - scrivendo: «O Madre, il tuo santissimo
grembo è il giardino delle delizie dal quale noi cogliamo con grande gioia il fiore [cioè Gesù] che diffonde
per tutto il mondo una moltitudine di dolcezze. 0 Madre di Dio, tu sei l'hortus conclusus, nel quale non
entrò mai peccato» (Ad beatam Virginem Deiparam sermo panegyricus). Il legame tra l'universo
concettuale dell'hortus conclusus, le significazioni della Madonna dell'umiltà e la simbologia mariana della
rosa è fornito da un testo dell'abate cistercense Adam de Perseigne, che scriveva: «Respexit ergo Dominus,
et descendit in hortum suum, unde spirabat hyssopus humilitatis, vernabat lilium castitatis, et in medio
rosa fragrabat amoris» (dai Fragmenta mariana, PL CCXI, col. 750). L'issopo (in ebraico ezov, erba santa: ma
forse con tale nome s'intendeva meglio l'origano di Siria o un arbusto che in arabo si chiama zuhef) era
usato nel VT per riti di tutela (Es 12:22) e di purificazione (Lv 14:4; Lv 14:51; Nm 19:6; Nm 19:18; Sal 51:9:
«Purificami con l'issopo e sarò mondato»). Nella simbologia cristiana ha un significato legato al battesimo,
derivato anche da Gv 19:29. 

Bernardo di Chiaravalle (†1153) compose un'ode a Maria, intesa come rosa spiritualis, in cui prospetta
un'ulteriore lettura del rapporto che lega Maria a Eva: «Per qualcuno Eva fu spina e Maria fu rosa. Eva fu
spina perché condusse il suo uomo alla morte [spirituale] e conficcò l'aculeo del peccato nei suoi
discendenti. (...) Eva fu spina perché produsse ferite nell'Umanità. Maria è rosa perché allevia ogni male (...)
riportando ciascuno alla salute. (...) Maria fu rosa candida per la sua verginità; rosa rossa per la sua carità.
Fu candida nella carne e rossa [cioè: accesa] nell'intelletto; candida, perché scelse la virtù; rossa [cioè:
accesa], nel suo voler disdegnare i vizi; candida, per purezza di affetti; rossa [cioè: accesa], per il suo
continuo mortificare l'atto carnale; candida, per la sua obbedienza a Dio; rossa [cioè: accesa], per la sua
compassione verso il prossimo» (De beata Maria Virgine). Bernardo riecheggiava forse alcuni versi di
Sedulio (secolo V), che recitavano: «Et velut e spinis mollis rosa surgit acutis / nil quod laedat habens
matremque obscurat honore: / sic Evae de stirpe sacra veniente Maria / Virginis antiquae facinus nova
virgo piaret: / ut quoniam natura prior vitiata lacebat / Sub dicione necis, Christo nascente renasci / Possit
homo et veteris maculam deponere carnis» (Carmen Paschale, II, 28-34). Già dicemmo del confronto che
pone Eva e Maria rispettivamente sui due versanti della perdizione e della redenzione come fonte del
peccato l'una e Madre di Dio (e dunque della Misericordia divina) l’altra. La bellissima miniatura qui a lato,
tratta da un Messale salisburghese del 1489, illustra il tema meglio di ogni trattato: come Eva, cogliendolo
dall’albero della conoscenza del bene e del male, porge il pomo proibito all’umanità, condannandola alla
morte spirituale, così Maria, cogliendolo dall'arbor crucis, porge all’uomo il sacramento eucaristico che
dona la vita eterna. 

Nell'iconografia della Madonna della rosa di Raffaello e aiuti (1518 circa, Madrid, Museo del Prado) sono
evidenziati 4 temi: 1) Maria rosa mystica (la rosa è in asse col baricentro della figura della Vergine); 2)
l'Incarnazione del Verbo, tema cui allude la nudità di Gesù con gli attributi virili esposti; 3) la natura divina
del Verbo, rivelata dal fatto che Gesù sembra quasi librarsi in aria, poiché il suo piede destro non poggia
sulla gamba della Madre e il sinistro sfiora solo delicatamente il tavolo di legno (che allude a sua volta al
legno della croce: ricordo il quadro di Borgianni in cui Cristo medita prima del martirio toccando coi piedi il
legno della croce); 4) il sacrificio, cui allude la consegna a Gesù, da parte di san Giovannino, del cartiglio
recante la scritta Ecce agnus Dei (ecco la vittima sacrificale di Dio). Altri artisti valorizzarono poi nel Seicento
il tema della Madonna della rosa, come il francese Simon Vouet (a sinistra) e il pesarese Simone Cantarini,
che raffigura Gesù che, mostrando la rosa e la corona del rosario a Maria, preannuncia e spiega alla Madre
il suo futuro sacrificio (a destra). Più esplicito è il Gesù Bambino di Michele Desubleo, che mostra a Maria
una passiflora, il fiore della Passione, così battezzato nel 1610 dal gesuita Emanuel de Villegas che rintracciò
nelle sue parti tutti i simboli della Passione di Cristo. 

Torniamo ora alla storia del rosario. È forte la tradizione che il suo culto fosse reso popolare da san
Domenico di Guzmán (1170-1221) all'avvio del Duecento; ma è quasi certo che essa non sia degna di fede
(cfr. A. RONCELLI, San Domenico e la nascita del Rosario nell'opera di Alano della Rupe, in 17 Rosario, cit.,
pp. 146-170), e derivi piuttosto da una confusione col già citato monaco certosino Domenico di Prussia,
colui che favorì lo sviluppo dei Misteri del Rosario. È invece assodato il ruolo rivestito nella diffusione della
succitata tradizione (così come del culto del rosario) dal frate domenicano Alain de la Roche (circa 1428-
1475; in latino Alanus de Rupe; in Italiano Alano della Rupe), che apprese l'uso della recita del Rosario dai
monaci certosini, con i quali era in contatto. Egli scrive di aver avuto alcune visioni tra il 1464 e il 1468, nel
convento di Douai, nel corso delle quali Maria lo esortava a diffondere la devozione e l'uso del rosario. Nel
1470 Alain de la Roche eresse la prima Confraternita del Santo Rosario (che peraltro dovette difendere, nel
1475, dal tentativo di soppressione operato da Ferrico di Cluny, vescovo di Tournai), quindi denominò
Rosario nuovo quello contenente una riflessione meditativa, e vecchio quello che ne era privo, e portò il
numero dei Misteri a 15, suddividendoli in gaudiosi, dolorosi e gloriosi. Al momento della sua definitiva
fissazione in ambito certosino e domenicano, la preghiera del rosario, farre salve introduzione e chiusura,
era composta da 15 misteri (eventi, momenti o episodi significativi) della vita di Cristo e di Maria, suddivisi
in 3 corone. Ancora oggi ogni corona comprende la meditazione di 5 misteri e la recita di 50 Ave Maria
divise in decine (o poste), cioè in gruppi di 10; ciascuna decina - una per ogni mistero- è introdotta da un
Pater noster e seguita da un Gloria (con ulteriori invocazioni). La suddivisione delle 3 corone è ben nota:
- misteri gaudiosi (Annunciazione; Visitazione; Natività; Presentazione al Tempio; Ritrovamento di
Gesù nel Tempio);
- misteri dolorosi (Agonia nell' orto; Flagellazione; Incoronazione di spine; Salita al Calvario;
Crocifissione e morte di Gesù);
- misteri gloriosi (Risurrezione; Ascensione; Discesa dello spirito Santo; Assunzione di Maria;
Incoronazione di Maria).
La preghiera del rosario del III millennio sarebbe invece composta, teoricamente, da 20 misteri, poiché dal
2002, con l'aggiunta facoltativa dei 5 misteri luminosi operata da papa Giovanni Paolo II (Battesimo nel
Giordano; Nozze di Cana; Annuncio del Regno di Dio, in Mc 1:15; Trasfigurazione; Eucaristia), si contano in
totale 20 poste o decine, per complessive 200 Ave Maria. Tuttavia, non essendo obbligatoria la recita dei 5
misteri aggiunti, si può affermare che la preghiera d'uso comune comprende dunque ancora soltanto i
tradizionali 15 misteri (gaudiosi, dolorosi e gloriosi). Presso i Servi di Maria si diffuse un rosario
comprendente 7 misteri dolorosi, iconograficamente simboleggiati da 7 spade conficcate nel corpo dell'
Addolorata: nella serie stabilita da Arcangelo Ballottini nel 1612 essi comprendono la circoncisione di Gesù
(interpretata come prefigurazione del versamento di sangue nel definitivo sacrificio sulla croce), la fuga in
Egitto (come prefigurazione della persecuzione cui Cristo fu poi sottoposto), il ritrovamento nel Tempio
(vicenda in cui la momentanea ccomparsa di Gesù prefigura il triduo della sua assenza in morte), la salita al
Calvario, la crocifissione, la deposizione, il seppellimento. 

La creazione e la diffusione della tradizione secondo cui il rosario era stato donato proprio a Domenico di
Guzmán da Maria in persona, nel corso di una visione avuta dal santo nel 1214, fu appunto Alain de la
Roche, che nella sua Apologia psalterii scrive che Domenico era l'Apostolo del Salterio, poiché era devoto al
rosario sin dall'infanzia e aveva ricevuto da Maria l'incarico di predicarne e di diffonderne il culto e l'utilizzo.
Predicare il rosario (scrive ancora Alain) significa spingere il popolo alla penitenza, alla devozione, al
disprezzo delle cose mondane e all'obbedienza verso la Chiesa, e predicare il rosario è addirittura meglio
che pregare: perciò occorre distribuirlo. Questa pala dipinta ai primi del Seicento da Guido Reni per la
chiesa di San Luca a Bologna (città domenicana per eccellenza) raffigura la Vergine e Gesù che insieme
affidano il rosario a Domenico e mostra anche le immagini dei 15 misteri, per consentirne ai fedeli la
memorizzazione. Reni innestò le raffigurazioni sui ramoscelli di tre piante simboliche: la rosa per i misteri
gaudiosi; l'euforbia (a mio parere) per i misteri dolorosi (euphorbia milii, detta anche Spina Christi: era la
pianta da cui, per tradizione, si riteneva che fosse stata ricavata la corona di spine usata durante la
Passione); la palma (del trionfo celeste) per i misteri gloriosi. Alain cita dunque Domenico come modello di
predicatore e di diffusore del rosario, raccontando che «egli andava in giro spesso con sacchi pieni di rosari,
che gli venivano forniti dalla pietas dei principi e dei baroni e dei nobili affinché li distribuisse». In un altro
suo libro, le Relazioni, rivelazioni e visioni, Alain ribadisce che Domenico «grazie alla generosità di molti
fedeli, si procurava le Corone di rosari, che distribuiva tra il popolo durante l'adunanza». 

È tradizione che in Italia il culto venisse diffuso dalle Confraternite del Rosario, fondate dal santo martire
domenicano Pietro da Verona (a lato), ma le ricerche di L. PELLEGRINI, Pietro da Verona - San Pietro
Martire: il punto sulle confraternite in Italia (secc. XIII-X1V), in Martire per la fede. San Pietro da Verona
martire e inquisitore, a cura di G. Festa, Bologna 2007, pp. 223-247, smentirebbero un'attività di Pietro in
tal senso. Sisto IV con la bolla Ea quae ex fidelium del 12 maggio 1479 e poi Leone X con la bolla Pastoris
aeterni del 6 ottobre 1520 concessero indulgenze a chi recitasse il rosario; ma il primo documento ufficiale
della Chiesa in tal senso, con la concessione di indulgenze, è in realtà la bolla Etsi gloriosos che il legatus
pontificius de latere in Germania, Alessandro Numai, vescovo di Forlì, rilasciò nel 1476 alla Confraternita del
Rosario da lui stesso istituita su richiesta dell'imperatore Massimiliano I nella chiesa dei domenicani di
Colonia, con la quale permetteva inoltre ai domenicani di tenere in pubblico la recita del rosario, anche
dinanzi allo stesso imperatore. Alla pratica della distribuzione dei rosari e all'originaria definizione di rosario
come corona o ghirlanda di rose si riferisce anche la già veduta Festa del rosario di Dürer. L'opera fu
commissionata nel 1506 dal potente Jacob Fugger e dalle confraternite dei mercanti germanici stabilitesi a
Venezia, e venne dipinta per la chiesa di San Bartolomeo a Rialto (che era appunto la sede della comunità
tedesca a Venezia): in essa Maria, Gesù e Domenico incoronano con ghirlande di rose rispettivamente
l'imperatore Federico III (col volto del figlio Massimiliano I, che come si vide era assai devoto al rosario), il
papa Sisto IV e il cardinal Domenico Grimani.

Frattanto varie formazioni militari - in specie tercios spagnoli- adottarono come patrona la Madonna del
rosario, sicché ben presto, sin dalla fine del '400, a tale culto si addebitarono successi in battaglia, tra cui la
vittoria della flotta cattolica della lega Santa sulla flotta ottomana a Lepanto il 7 ottobre 1571 (data che poi
divenne la festa di quella devozione). Si è osservato che nella dedica, da parte di Pio V, di questo trionfo alla
Madonna del rosario, si fusero in sostanza questo culto e quello di Maria Nuestra Señora de la Victoria, che
aveva sostenuto nell'ultimo secolo la reconquista cristiana delle terre iberiche strappandole ai musulmani.
L'effetto - davvero imprevedibile - fu quello di legare la protezione accordata dalla Madonna del rosario
(intesa ora come custode della cristianità sotto attacco) al successo militare, alla violenza delle battaglie,
alla logica delle guerre, delle carneficine e dei massacri. Così un culto che avrebbe dovuto fecondare la vita
spirituale del cristiano fu piegato a divenire viceversa un ausilio bellico ai fini della sofferenza,
dell'oppressione e della morte del prossimo. Comunque tali valenze non emergono nelle immagini legate
alla devozione popolare, come in questi due esempi tardo-cinquecenteschi di ambito bolognese: nella pala
di Prospero Fontana san Domenico riceve le corone del rosario donandone una al committente del dipinto.
Nella pala dell'Incoronazione della Vergine con i santi evangelisti Luca e Giovanni e san Domenico
(Adelaide, Art Gallery of South Australia), di Bartolomeo Passerotti, san Domenico appare con devota
espressione a braccia aperte recando nelle mani decine di corone del rosario, mentre un profluvio di rose
rosa cade dal cielo e angeli intrecciano a loro volta corone degli stessi fiori. Altre due opere tardo-
cinquecentesche, sempre di ambito bolognese, in cui si dimostra l'equivalenza, di sapore mariologico, tra il
rosario e le rose: un dipinto di Ludovico Carracci, in cui Gesù dona un rosario e tiene una rosa accanto alla
guancia della Madre, alla presenza di Domenico che a sua volta dona rosari. E di nuovo una pala di
Bartolomeo Passerotti, forse del 1580-1583, nel Seminario Metropolitano di Modena (Madonna del
Rosario con san Domenico, David re d'Israele, un non identificato santo monaco, santa Caterina da Siena,
papa Gregorio XIII e gruppo di devoti), in cui nella continua mescolanza di rose e di rosari, Domenico riceve
dalla Vergine corone e fiori e li trasmette ai fedeli. Sempre a Bologna, in questo dipinto del Tiarini degli anni
trenta del Seicento, san Domenico tiene una predica pubblica sul rosario: aiutato da un angelo che lega
insieme delle rose formando dei mazzetti per deporli poi nel piatto che contiene, in significativa
equivalenza, anche i rosari, Domenico dona le corone ai fedeli indicando Maria,... che, nel quadro à
pendant, mentre il Figlio le porge una corona di rose, dona anch'ella il rosario ai fedeli sottostanti (che
saremmo noi, che guardiamo il quadro). Infine nella grande tela del Trionfo, predicazione e distribuzione
del Rosario di Alessandro Tiarini per la Cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a Cremona (1625-
1626), che raffigura tre santi domenicani impegnati nella distribuzione delle corone di grani ricevute da
Maria, si riassumono tutte le tematiche che abbiamo visto finora: questa iconografia di fatto sostituisce
completamente quella della Vergine della Misericordia che apre il suo manto salvifico. Da un piccolo palco
un santo domenicano distribuisce rosari e indica o san Pio V (che a sua volta ne ha molti in mano) o, in
alternativa, un confratello più anziano, santo pure lui, che scrive, mentre un terzo, dotato di croce astile, fa
l'atto di mostrare la scena ai riguardanti. Nell'ellitticità di Tiarini, che qui omette ogni attributo all'infuori di
quello, davvero raro, della croce processionale, l'identificazione di questo terzo santo con Vincenzo Ferrer e
di quello scrivente con Pietro Martire sostenuta dalla critica andrebbe forse rivista, poiché pare più
probabile che lo scrittore sia il beato Alanus de Rupe raffigurato in atto di descrivere (nei passi che ho sopra
citato) la distribuzione dei rosari da parte di Domenico: difficilmente potrebbe intendersi poi come
Vincenzo Ferrer colui che tiene la croce processionale sia perchè non reca i canonici, particolarissimi
attributi di quello (tra cui le ali, una stella sopra la testa e fiamma o tromba in mano e mai invece la croce
astile) sia per l'atteggiamento tranquillo, estraneo all'incontenibile e aggressiva facondia del valenziano.
Peraltro Tiarini parrebbe conferire maggior rilevanza nella composizione proprio a questo santo (verso il
quale sembra anche che Maria si rivolga nel gesto di cedere il rosario) più che a quello che distribuisce le
corone; le stesse fonti antiche, note alla critica, sono quanto mai generiche e approssimative nelle
descrizioni del dipinto. 

L'iconografia della Vergine della Misericordia si era dunque spenta a quel tempo? Va detto che si verificò
comunque, dopo il Concilio di Trento, qualche tentativo di "aggiornamento", che però non giovò alla
sopravvivenza né del culto né dell'immagine: come nella Madonna del Popolo del Barocci agli Uffizi, del
1575-1579, ove la Vergine raccomanda a Cristo la popolazione col solo gesto dell'intercessione. È
significativo che il contratto con la confraternita dei Laici di Arezzo, che aveva commissionato l'opera,
prevedesse originariamente la rappresentazione del «misterio della misericordia o altro misterio et historie
della gloriosissima Vergine». Il pittore decise però di semplificare radicalmente l'immagine, rimuovendo da
essa le principali tematiche dottrinali per sottolineare invece quelle di natura sociale (come ad esempio
l'elemosina misericordiosamente erogata ai bisognosi). Come avverrà poi anche nel caso della pala della
Misericordia di Caravaggio (v. oltre), il tentativo di rinnovare la vecchia iconografia eliminando il manto
mariano di protezione reca a una consistente perdita di significato che cancella il culto della Misericordia e
oblitera il senso teologico della figurazione. Dopo il lungo excursus sull'iconografia della Madonna del
rosario, torniamo adesso alle varianti iconografiche della Vergine della Misericordia.

Una straordinaria e complessa variante iconografica è costituita da questo affresco staccato, conservato nel
Museo civico diocesano di Visso (Macerata), già chiesa di Sant'Agostino. È noto con il titolo convenzionale
di Madonna del Voto e fu dipinto proprio per questa chiesa poco dopo la metà del Quattrocento, in
occasione di una epidemia (scambiata come al solito per una pestilenza), da Paolo da Visso (ma quest'
attribuzione non è avallata da documenti e oltretutto è stata rigettata da alcuni studiosi, tra cui Federico
Zeri). Nella parte superiore compare il tremendo Cristo irato, riconoscibile dal nimbo crociato, armato di tre
frecce per ciascuna mano. C'è da chiedersi se la caduta della superficie pittorica in corrispondenza del volto
non sia dovuta a una sorta di azzardata censura, avvenuta in un tempo in cui si era persa la conoscenza dei
reali significati di questa iconografia. Nella parte inferiore la Vergine, secondo l'iconografia del Vesperbild,
adora il corpo morto di Gesù all'interno di una tenda tenuta aperta dai santi Agostino e Nicola da Tolentino,
il primo santo dell'Ordine agostiniano. La tenda allude al manto protettivo di Maria in quanto sotto di essa
si ripara un folto gruppo di fedeli; ma allude anche alla tenda dell'Arca dell'Alleanza in quanto contiene la
Madre che regge in grembo il Figlio morto per la redenzione dell'umanità (equivalente alla Nuova Legge).
Ricordiamo che proprio in quegli stessi anni Piero della Francesca realizzava le famose opere che vedemmo.
In effetti in una iscrizione posta nella ghiera del padiglione si legge: «Da tutti [si’ ] pregato / Lux mu(n)di i(n)
eterno / che el populo vissano / [conservi in bono stato]». All' interno della tenda, ai lati della testa di
Maria, compaiono due iscrizioni poste all'interno di cartigli. L'ordine in cui vanno lette è invertito: occorre
partire da quella posta alla nostra destra per leggere poi quella a sinistra. La prima scritta recita:
«Inte(r)c[edi per nui] / regina sa[net]a / dena[nti a]l [tu]o Figliolu / qua[le è] irato / ch[e cesse?] via questa /
tempesta tanta / [ l]a quale avimo per / [I]u nostru peccato / [et] della tua sancta/gratia ce admanta -/ che
quis[t]o populu non si[a] sagectato - / da queste sagette [che] / passano [el core]; / Pregali (?) [tu?] che 'l
faccia / [per] tuo [amor]e...». Nella seconda iscrizione si legge: «[?]el [?] figliolo tuo (?) ch(e) no simo de(gn)i
/ Matre che p(er) nui / deggie pregare / per che d(')ogne iniq(ui) / tà doi(?) noy simo p(re)gni / et no cessimo
semp / re de male fare / ma la tua cleme(n)tia [s]e dig[ni] / pe(r) nui pecc[aturi volere / or]are [ad] t[u]o
figliolu / re inco[ro]nato / che cesse la moria da o(n)ne lato». È chiaro il valore devozionale di questo
potente affresco in cui, ancora una volta, il peso dell'intercessione di Maria è legato all'azione redentiva del
sacrificio del Figlio, Verbo incarnato. 

In una variante iconografica della Madonna delle frecce, Maria spalanca il manto tenendo in ciascuna mano
tre dardi, ormai depotenziati grazie alla sua misericordiosa protezione. In questa tavola di Diego de la Cruz,
del 1486 circa, la Vergine (significativamente incinta, come indica la prominenza del suo ventre, che
contiene la Divina misericordia che sta assumendo la carne senza macchia della Madre), pone sotto il
proprio manto i membri della famiglia reale spagnola e le suore del Monasterio de Santa Maria Real de la
Huelga, di Burgos. Al posto degli angeli saettatori, stavolta, volteggiano sul manto due piccoli diavoli, uno
dei quali è debitamente armato di malevole frecce; l'altro, imprevedibilmente, invece dei dardi, reca sulla
schiena un gruppo di libri: di cosa si tratta? Possiamo dare qui due riposte: la prima, più probabile, è che ciò
possa rinviare alla tesi mistica (desunta da testi mistici quali l'Imitazione di Cristo) che l'eccessivo studio
nuoccia alla fede, poiché tenta e risveglia la superbia umana: insomma, come le frecce uccidono il corpo,
così l'insistita e frequente lettura dei libri profani può uccidere l'anima. Però Joaquín Yarza Luaces ritiene
che si tratti di Titivillus (o Tituvillus, Tytinillus, Titifillus), quel diavolino di rango minore che, nel ruolo di
diabolus deceptor (cioè ingannatore), nel Medioevo induceva i monaci amanuensi a commettere i più strani
errori di scrittura nel copiare gli antichi testi, rendendoli così degli involontari peccatori (per l'imperfezione
del loro operato). Altre volte Titivillus faceva dei piccoli dispetti - facendo sparire dagli scriptoria una penna
o una boccetta d'inchiostro, che venivano poi ritrovati molto tempo dopo nei luoghi più impensati - o
distraeva quei religiosi scribi con improvvisi e immotivati pensieri profani. Le prime menzioni di questo
demonietto si leggono nei Sermones vulgares (1220) di Jacques de Vitry (che però non lo nomina: ma ne
diremo di più tra breve), nel Tractatus de paenitentia (1285 circa) del gallese Johannes Galensis, nel De
universo creaturarum di Guglielmo d'Alvernia e nelle opere di Cesario di Heisterbach. In questa tavola lo si
vede, in basso a destra, mentre cerca invano di causare refusi nel testo dell'Apocalisse che Giovanni,
sull'isola di Patmos, sta scrivendo proprio in quel momento. In questa miniatura trecentesca il malevolo
«assistente degli scribi» si presenta come un grottesco diavolo dall'aspetto irsuto e bluastro che cerca di
indurre all'errore grammaticale san Bernardo di Montjoux, il quale però prosegue imperterrito nel suo
lavoro di scrittura. Una miniatura, tratta da un altro codice trecentesco (Cod. Fr. 9561, Parigi, Biblioteca
Nazionale di Francia) lo raffigura mentre, in compagnia di due suoi succubi pure demoniaci, Rofyn e
Grisillus, trascrive su una pergamena un lungo elenco degli errori presenti in un codice: si diceva che ogni
volta egli fosse costretto a stiracchiare la pergamena con i denti e con le unghie per allungarla affinché essa
riuscisse a contenere tutti i dati che andava raccogliendo, finendo poi per lacerarla senza rimedio. Secondo
un'altra tradizione, riportata da Jacques de Vitry (Sermones vulgares, cap. 19) e dal Galensis, Titivillus
raccoglieva quotidianamente in un sacco i refusi da lui causati e li portava ogni notte all'inferno, dove essi
venivano trascritti in un libro, allo scopo di essere poi contestati nel Giorno del Giudizio ai frati che li
avevano commessi. Testimone di questa tradizione è un anonimo trattato devozionale del Quattrocento,
The Myroure of oure Ladye, in cui si narra di un abate cistercense che vide «a fende that had a longe and a
greate poke hangynge about hys necke, and wente aboute the quyer from one to an other, and wayted
bysely after all letters, and syllables, and wordes, and faylynges, that eny made; and them he gathered
dylygently and putte them in hys poke». Il fende (in inglese moderno fiend, cioè demonio), richiesto di
spiegare chi egli fosse, rispose: « am poure duel, and my name ys Tytyvyllus, & I do myne offyce that is
commytted unto me. (...) muste eche day (..) brynge my master a thousande pokes full of faylynges, & of
neglygences in syllables and wordes, that ar done in youre order [of Cystreus] in readynge and in syngynge
(...)». L'abate comprese che tutti quegli errori e quelle imprecisioni venivano dunque raccolte e portate al
sicuro da Titivillus all'inferno per essere poi usate contro i monaci come prove della loro negligenza (parte I,
cap. XX; l'edizione da me consultata è The Myroure of Oure Ladye, a cura di J.H. Blunt, London 1873, p. 54).
Ma Titivillus non si limitava a questo: prendeva nota anche delle ciance, delle maldicenze e dei pettegolezzi
che le donne si scambiavano durante le messe o nei loro conversari (come si vede in quest'altra immagine),
dei lapsus linguae verificatisi durante la recita delle preghiere e dei canti, così come di altri peccati umani
causati dalla sciatteria o dalla disattenzione; sicché la Chiesa lo adoperò come spauracchio e sprone a non
distrarsi durante la celebrazione dei riti. Per quest'ultimo motivo, allo scopo di esortare i fedeli
all'attenzione, il nefasto Titivillus, che nei drammi liturgici medievali fu impiegato come personaggio
satirico, fustigatore della vanità umana, oltre che come impunito ingannatore, (cfr. il morality play del 1470
circa Mankind, vv. 301-307), si ritrova non solo nelle miniature dei manoscritti ma perfino nelle chiese,
come avviene ad esempio in un affresco parietale della fine del secolo XI della chiesa di San Michele e Santa
Maria a Melbourne, nel Derbyshire. 

A volte, in una sorta di variante ridotta dell'iconografia della Madonna della Misericordia, Maria non apre il
manto ma si limita a tenere in mano le frecce spezzate, simbolo della sua capacità di proteggere il popolo
dei fedeli dalla peste, come si vede in questa tavola della Collegiata di San Michele Arcangelo di Brisighella
attribuita al romagnolo Ansuino da Forlì (1450-1460 circa), che riprende l'iconografia di una Madonna
venerata presso i domenicani a Faenza. Il santo raffigurato è appunto Domenico; l’impressione è che si
tratti di un'apparizione miracolosa della Vergine. Vale la pena di analizzare l'immagine riprendendo le
conclusioni di Anna Tambini (in Storia delle Arti figurative a Faenza. Il Rinascimento, Faenza 2009, pp. 31-
34). San Domenico (riconoscibile dal nome scritto nell'aureola) «è in veste di celebrante presso un altare
allestito per la messa con una preziosa tovaglia, il calice, le ampolline, il messale. Nel messale riprodotto
con cura eccezionale fino a simulare l'ornato dei capiversi e del bordo, si può leggere, anziché una
invocazione in onore della Madonna, come ci si aspetterebbe, il testo fedele della messa Viri Galilaei che si
celebra per la festività dell'Ascensione». «Sull'architrave che chiude in alto la scena è riportata l'antifona "
Regina Caeli letare" che si recita nel tempo pasquale. Il dipinto sembra quindi volere suggerire uno stretto
collegamento tra la festa dell'Ascensione e l'apparizione miracolosa e, come argomenteremo, ciò porta un
contributo storico importante al culto della Madonna delle Grazie». 

«L'antica Cronica conventus Sancti Andrea de Faventia ordinis Praedicatorum, databile agli ultimi decenni
del Quattrocento attesta che nel 1412 nella chiesa dei domenicani la Vergine era apparsa a una nobile
faentina di nome Giovanna e, in risposta alle sue preghiere, aveva liberato la città di Faenza dalla
pestilenza. Nel 1420 il 12 maggio (seconda domenica del mese) venne solennemente consacrato l'altare di
una cappella in onore di Santa Maria delle Grazie ed istituita la festa da celebrarsi ogni anno nella seconda
domenica di maggio». Quella accanto è l'immagine che fu posta sull'altare, con una sua ricostruzione
moderna nel santino. «Possiamo ora dire, sulla base della tavola di Brisighella, che la data del 12 maggio
non fu scelta a caso in quanto dal calendario perpetuo risulta che nel 1412, anno dell'apparizione, la festa
dell'Ascensione ricorreva proprio giovedì 12 maggio. Il riferimento così dettagliato a tale ricorrenza attesta
dunque il giorno e la data dell'evento miracoloso» dell'apparizione. «Il dipinto, pertanto, non ha solo lo
scopo di fornire un'immagine per la devozione, ma soprattutto intende rievocare con una fedeltà quasi
storica il miracolo avvenuto nella chiesa dei domenicani che aveva dato luogo al culto». 

Circa le origini dell'iconografia della Madonna delle frecce, nella variante in cui Maria tiene in mano dei
fasci di dardi, potremmo suggerire che essa derivi dalle antiche raffigurazioni della personificazione (o
allegoria) della pestilenza o, più in generale, delle epidemie. Un affresco che si fa risalire al 1355 (per la
datazione si veda A. Courtille, Lavaudieu. Les trésors d'une abbaye, Brioude 2009), situato nella parete
meridionale della chiesa dell'abbazia benedettina di Saint-André, nel minuscolo paese francese di
Lavaudieu in Alvernia (nell' Alta Loira), presenta una rarissima raffigurazione della Morte - come si legge
nella didascalia a lettere capitali bianche posta in alto - concepita secondo una modalità che è appunto
assai simile a quella della nostra Vergine delle frecce: una donna ritta in piedi e dotata di una tunica e di un
mantello, col capo velato di nero, che regge due fasci di frecce: è la funerea rappresentazione della
cosiddetta Morte nera, la famigerata pestilenza che afflisse l'Europa nel 1348,...circondata dagli abitanti del
paese che, senza eccezioni, muoiono trafitti dai dardi. Giunti a questo punto vale la pena di citare qui un
affresco di Benozzo Gozzoli nella chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano, che raffigura san Sebastiano
nelle vesti di intercessore dotandolo di una fisionomia di stampo cristico e di un'iconografia (con relativa
funzione) tutta mariana: il santo è infatti ritto in piedi, in atto di pregare, mentre lembi del suo vasto
mantello, spalancato da due angeli, proteggono i due soliti gruppi di fedeli dai dardi che piovono dal cielo.
Bisogna comunque dire, in verità, che l'opera di intercessione che il martire sta compiendo è molto
facilitata da quel che accade nella parte superiore dell'affresco, che fa sì che gli stessi angeli stiano
provvedendo per loro conto volonterosamente a spezzare le frecce (come in particolare si vede bene nel
dettaglio dell'angelo vestito di bianco in alto a destra).Tutto diviene più chiaro, infatti, se si considera
l'affresco nella sua integrità: si tratta della parte inferiore della scena di intercessione che Gesù (attivato a
sua volta dalla supplica di Maria a seno scoperto) compie presso Dio Padre irato che vuole scagliare dardi
contro l'umanità. Si noti anche la presenza, in basso, della scena del Calvario, con il Crocifisso, che
garantisce la realtà storica del sacrificio e delle piaghe che, in alto, Cristo mostra al Padre. Dunque
l'intercessione del santo taumaturgo si fonda su quella esercitata dal Figlio e dalla Madre, che permette ai
santi di intercedere a loro volta per noi - infatti Sebastiano giunge le mani nell'atto della preghiera, proprio
come fanno i fedeli sotto il suo manto -, attivando così la catena delle intercessioni, dal santo a Maria sino a
Cristo (qualche studioso ha interpretato la scena erroneamente asserendo, al contrario, che i fedeli si
appellavano a Sebastiano dopo aver constatato che l'intervento di Gesù e Maria non approdava ad effetti
concreti!!). L'opera - che risulta essere stata dipinta in 16 giorni - fu commissionata dall'agostiniano fra
Domenico Strambi (che è ritratto inginocchiato nel riquadro del Calvario) e reca la data del 1464: nell'estate
di quell'anno la città di San Gimignano fronteggiò infatti una seria epidemia, che le fonti coeve, come al
solito, definirono come pestilenza: al primo morto si provvide a commissionare l'affresco, che ha dunque
una valenza di preghiera attiva (e non è un ex voto, come qualcuno ha scritto). La scritta nel piedistallo
recita «Sancte Sebastiane intercede / pro devoto populo tuo». Torna utile confrontare l'iconografia
elaborata da Benozzo nell'affresco che abbiamo appena esaminato con quella di un secondo affresco da lui
realizzato ancora a San Gimignano, nel 1465, sulla controfacciata della Collegiata di Santa Maria Assunta.
Anche qui il santo reca tratti fisionomici improntati a quelli di Cristo - si è notato che la sua posa ricorda
quella con cui viene generalmente raffigurato il Redentore legato alla colonna durante la Flagellazione- ma,
seguendo la tradizionale iconografia, è raffigurato mentre viene martirizzato (tuttavia senza morire, com'è
noto). Nell'alto dei cieli Gesù e Maria compiono gesti che indicano il favore e la protezione accordati al
santo: la Madre prega, intercedendo per lui (e per noi), mentre il Figlio benedice con la mano destra,
esibendo la salvifica piaga con la mano sinistra. Nel registro inferiore dell'affresco, ad ogni modo, sta
sempre la rassicurante memoria del Calvario, che ci conferma che il Verbo incarnato si è effettivamente
sacrificato per l'umanità. Un'iconografia simile a quella elaborata da Benozzo a San Gimignano si riscontra
anche in un affresco, redatto da un artista di rango minore, presente nella chiesa di Santa Maria Castellare
di Nocelleto, appartenente ai frati minori, a Castelsantangelo sul Nera (nei pressi di Visso): il dipinto,
commissionato da Giovanni Nofri nel 1487, è attribuito a Paolo Bontulli da Percanestro (ma altri lo
riferiscono a una collaborazione tra Tommaso di Pietro da Visso e Benedetto di Marco da Castelsantangelo).
Questa volta a riparare i fedeli sotto il mantello – ma le frecce sono assenti - è l'altro santo taumaturgo da
invocare durante le epidemie, san Rocco. Anche qui nella parte superiore dell'affresco sta Gesù in atto di
ostentare le piaghe, segno della salvezza concessa al popolo.

ICONOGRAFIE DELLA MISERICORDIA 


Esaurita la trattazione dell'iconografia della Madonna della Misericordia, esaminiamo ora le iconografie
della Misericordia che sono state esperite da artisti e committenti nei secoli scorsi. Con il tema della
Misericordia divina hanno naturalmente una profonda attinenza le 7 opere di misericordia corporale che
sono desumili dal testo evangelico di Matteo e che si ricollegano a loro volta alla tematica
giudiziale. «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, sì siederò sul trono della
sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore
separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che
stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere; era forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto
affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto
forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo o ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in
carcere a siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: in verità vi dico: ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra:
Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perchè ho avuto
fame o non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi
avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato o in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora
risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in
carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: in verità vi dico: ogni volta che non avete fatto
queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. "E se ne andranno, questi al
supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt 2531-46) 

Nella Sala del Consiglio della Loggia del Bigallo, a Firenze, nei pressi del Duomo, c'è la testimonianza visiva
del rapporto tra le Opere di Carità e il tema della Misericordia inverato nella figura della Mater
Misericordiae. Il palazzo, dotato di un oratorio, fu ampliato nella prima metà del secolo XIV per la
Compagnia della Misericordia di Firenze, che lo acquisì nel 1321. «il motivo iconografico della Madonna
della Misericordia viene interpretato in diverse varianti, esemplificative del modello che si impone nella
prima metà del Trecento. La maestosa Misericordia (1342) attribuita a un pittore della cerchia di Bernardo
Daddi è una donna ammantata di piviale, con mitra vescovile tonda in capo, che reca la lettera greca tau,
simbolo tratto dall'Apocalisse di Giovanni. La figura allegorica richiama la Sacerdotissa justitiae. È sostenuta
dalla città di Firenze, o forse sta in sospensione tra i fedeli posti ai lati e raffigurati in ginocchio, con le teste
rivolte in alto, donne e uomini oranti, che, suddivisi in base al sesso, rappresentano il popolo fiorentino: essi
sono descritti accuratamente nelle fisionomie, nei copricapi e negli abiti, che testimoniano i loro ruoli nella
società. Nello stolone sono presenti 11 ovati, in cui sono effigiate con lettere longobarde le Opere di
Misericordia e di Carità cristiana. Ai lati della Madonna risaltano, sullo sfondo celeste, parole capitali (visito,
poto, cibo, redimo, tegho, colligo e condo), che si riferiscono alle azioni caritatevoli compiute in città dalla
Compagnia della Misericordia. Le parole, indicanti azioni e opere, ricordano ai componenti della Compagnia
di mantenere alimentato un cuore che condivida la miseria umana (come vuole la matrice latina della
parola "misericordia")». 

La raffigurazione delle Opere di misericordia corporali prese piede nel Quattrocento. Un ciclo famoso è
quello dipinto da Olivuccio di Ciccarello (o Ceccarello) verso il 1420-1421 per la chiesa della Misericordia ad
Ancona (le tavole pervenuteci, oggi nella Pinacoteca Vaticana sono sei; quella relativa al precetto
«Alloggiare i pellegrini» è andata perduta). Nella tavola con il precetto di «Seppellire i morti» figura il
gonfalone della Madonna della Misericordia. Il polittico del Maestro di Alkmaar (ca. 1504) fu realizzato per
la chiesa di San Lorenzo a Alkmaar nei Paesi Bassi. I pannelli di legno mostrano le 7 opere di misericordia
corporali: 1) dar da mangiare agli affamati, 2) dar da bere agli assetati, 3) vestire gli ignudi, 4) seppellire i
morti, 5) alloggiare i pellegrini, 6) visitare i malati, 7) visitare i carcerati. In parallelo corrono le opere di
misericordia spirituali: 1) consigliare i dubbiosi, 2) insegnare agli ignoranti, 3) ammonire i peccatori, 4)
consolare gli afflitti, 5) perdonare le offese, 6) sopportare con pazienza le persone moleste, 7) pregare Dio
per i vivi e i morti. L'esigenza di insegnare ai fedeli la dottrina portava iconografi ed artisti a inventare le
soluzioni più ingegnose: in questo strano dipinto di scuola veneta (eseguito dalla bottega dei Bassano)
Cristo sovrintende personalmente per 7 volte alla corretta esecuzione delle 7 opere di misericordia
corporali. In alto si scorge la canonica raffigurazione della Deesis (cioè della supplica rivolta al Figlio da parte
di Maria e di Giovanni Battista, come intercessori): qui Gesù è raffigurato come Christus iudex che tornerà di
nuovo sulla Terra (parusìa) per avviare il Giudizio finale, reggendo la spada della Giustizia in una mano e il
giglio della Misericordia nell'altra. 

Anche la pala delle Sette opere di Misericordia dipinta da Michelangelo Merisi/Caravaggio tra la fine del
1606 e l'inizio del 1607 per un altare della chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli (su
commissione dei governatori del Pio Monte della Misericordia) mostra le 7 opere di misericordia corporale.
Come ben chiariscono le recenti ricerche di Gianluca Forgione, Caravaggio, di certo su indicazione dei
committenti e sulla base di un precedente testuale e iconografico (le Icones operum Misericordiae di Giulio
Roscio, un testo devozionale pubblicato a Roma nel 1586, dotato di incisioni esplicative), compose un
mosaico di microstorie in grado di tradurre in una chiave specifica - in parte anche cristologica - gli esempi
di azioni misericordiose proposte al pubblico. L'argomento dunque non venne svolto seguendo una linea
teologica o dottrinale, bensì privilegiando un approccio devozionale già messo in pratica per realizzare in
precedenza gli altri dipinti della chiesa e dunque già noto ai fedeli locali. In sostanza Roscio, adoperando in
modo irrituale temi tratti dal VT (Sansone che nel deserto di Lechi beve dalla mascella d'asino: si tratta di un
tema collegato figuralmente al battesimo e non certo alle opere di misericordia!), dalla storia romana (la
vicenda civile e morale, tratta da Valerio Massimo, di Pero che allatta il padre Cimone, prigioniero, per
evitare che muoia), dall'agiografia (la compassione di san Martino di Tours), dai vangeli (il seppellimento di
Cristo; il Risorto che si rivela ai pellegrini di Emmaus), crea una nuova trama iconografica delle 7 opere di
misericordia:
- 1) seppellire i morti (attraverso una rilettura dell'iconografia del trasposto del corpo di Cristo al
sepolcro);
- 2 e 3) visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati (attraverso una rilettura dell'episodio di
Cimone e Pero);
- 4 e 5) vestire gli ignudi e curare (visitare) i malati (attraverso una rilettura dell'episodio della spartizione
del mantello col povero malato, operata da san Martino;
- 6) dar da bere agli assetati (attraverso una rilettura dell'episodio di Sansone che si disseta dopo aver
fatto strage dei Filistei: ma qui si adombra piuttosto la sete dell'acqua del sacramento battesimale,
come dicevo);
- 7) alloggiare i pellegrini (attraverso una rilettura dell'episodio della Cena in Emmaus, con Cristo in
incognito, vestito da pellegrino).
Con alcuni confronti, come quello, qui riproposto, con una cena in Emmaus del pittore spagnolo Zurbarán
(in cui il Risorto spezza il pane vestito da pellegrino), Forgione evidenzia, tra le altre cose, la natura
cristologica dell'iconografia dell'ultima opera di misericordia succitata, confermando una vecchia intuizione
di Walter Friedländer sulla presenza di Cristo vestito da pellegrino che viene accolto dall'albergatore di
Emmaus, che indica col dito l'accesso alla locanda. Caravaggio raffigura Gesù col bordone e col tipico
cappello da viaggio a larghe falde, insignito della conchiglia di san Giacomo (una capasanta), emblema che
attestava che il portatore aveva compiuto il lungo cammino fino al santuario di Santiago de Compostela,
luogo di sepoltura dell'apostolo Giacomo. 

Tenendo presente che Caravaggio avrebbe dovuto comunque trattare il tema iconografico della Madonna
della Misericordia, come richiestogli dai committenti, lo studioso suggerisce inoltre di leggere la presenza
del manto - qui verde - della Vergine (una presenza peraltro canonica, poiché si tratta di un attributo
mariano insopprimibile) come un'allusione al protettivo dispiegarsi del mantello della Madonna della
Misericordia sopra i fedeli. Ma quest'ipotesi non appare sostenibile, in primo luogo perché il manto, troppo
corto, di fatto non copre nessuno dei personaggi sottostanti (né potrebbe coprire, idealmente, i fedeli che
guardassero il quadro); in secondo luogo perché non si può certamente accogliere l'idea che Maria possa
mai trattare Cristo, Sansone e san Martino come dei peccatori bisognosi di tutela «proteggendoli» col suo
manto- tegimen e, di conseguenza, intercedendo per loro presso il Figlio. In realtà è sufficiente ricordare
che, a quelle date, l'iconografia del mantello mariano di protezione era ormai desueta e superata: quello di
Caravaggio (e dei suoi committenti) fu dunque uno dei tanti esperimenti volti a rinnovare le coordinate
iconografiche di un tema che tutti sentivano il bisogno di ripresentare in forme nuove e con nuovi contenuti
(eliminando proprio l'elemento del manto). L'analisi di Forgione stabilisce che Caravaggio, per realizzare
l'iconografia della sua pala d'altare, aderì a un regime iconografico prestabilito (quello del manuale
devozionale di Giulio Roscio) e approvato dal Pio Monte della Misericordia: l'immagine del quadro
pertanto, nella sua costruzione e nei suoi significati, risultava perfettamente comprensibile agli adepti di
quella istituzione religiosa. Oggi, invece, agli occhi ingenui degli spettatori odierni (anche di fede cattolica)
che sono totalmente privi di conoscenze specifiche circa le tradizioni devozionali del tardo Cinquecento,
appare «creativa» e «moderna» la scelta di Caravaggio di inserire nella tela una serie di accenni vaghi o
pretestuosi (come nel caso di Cimone e Pero e soprattutto di Sansone) alle opere di misericordia corporale
all'interno di una trama priva di ordine, che non avesse a che fare né con l'epica cristiana né con la Storia,
bensì con il caos gratuito della vita di una strada di città, luogo di incontri casuali e di promiscuità. Si tratta,
appunto, di un'impressione sbagliata: al Merisi fu richiesto di cucire insieme una serie di exempla (codificati
nel testo del Roscio) su cui i fedeli potessero meditare, ed egli, poiché comporre storie contenenti azioni
complesse non era certamente il suo forte, si limitò a giustapporre quelle microstorie in un mosaico fatto di
celle spaziali comunicanti tra loro. È però vero che, in questo innovativo scardinamento delle regole e dell'
impianto tradizionale della pala d'altare - rispetto alla norma controriformata, che imponeva che i pittori
d'arte sacra, per chiarezza, seguissero determinate strategie comunicative- va perduta la ratio
dell'iconografia sia della Mater misericordiae (che sembra precipitare al suolo dall'alto) sia delle 7 opere di
misericordia: anzi, la nuova ratio, cioè il nuovo criterio seguito, è qui non l'organizzazione schematica e
chiara delle immagini, bensì la loro ambigua fluidità, che non sembra ritenere più un significato univoco o
specifico.

Trattando ora della delicata questione del rapporto fra misericordia e giustizia, per capire meglio il
significato del citato affresco della Loggia del Bigallo, occorre ricordare che sia nella cultura ebraica sia in
quella cristiana l'idea di giustizia è sempre connotata in chiave religiosa e non puó non tenere conto di
quanto sta scritto nella Lettera di Giacomo: il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato
misericordia; la misericordia [infatti] ha sempre la meglio nel giudizio (Gc 2:13). Come ricorda A. Zorzi,
«nella Bibbia ebraica la giustizia di Dio è retribuzione e vendetta, ma anche speranza di misericordia e di
pace». Occorre infatti ricordare che YHWH (qui definito ancora col nome di Elohim), dettando a Mosè il
secondo dei 10 comandamenti, aveva precisato che «(...) io, il Signore, sono il tuo Dio, e sono un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma
che dimostra il suo favore (hesèd, come grazia che viene donata nel rispetto di un patto di natura familiare,
per il fedele amore che si porta a chi è caro] a migliaia [da intendersi come: fino a mille generazioni], per
quelli che mi amano e osservano i miei comandi» (Es 20: 5-6). Il concetto su cui fonda la specifica gelosia
divina, che sarà poi sviluppato da Osea (Os 11:1-9) è che YHWH ha scelto e sposato il popolo di Israele e
dunque non potrà tollerare i tradimenti di quest'ultimo, punendoli duramente (nel segno della giustizia),
pur continuando ad amarlo; YHWH premierà viceversa la fedeltà (concedendo grazia per misericordia). 

Nel Medioevo le raffigurazioni allegoriche della Giustizia (sia come virtù cardinale, sia come
personificazione dell'attività esecutiva dello Stato) si ricollegano, in vario modo, all'idea della Misericordia.
La fonte testuale diretta di questo collegamento sta nella traduzione latina (presente nella Vulgata di san
Girolamo) del versetto 11 del Salmo 85(84), «Misericordia et veritas obviaverunt sibi, iustitia et pax
osculatae sunt», di cui rappresenta una classica illustrazione questa incisione a bulino di Agostino Carracci,
tratta nel 1580 da una composizione di Orazio Samacchini: in essa la Misericordia è rappresentata come
Carità (cioè amore verso il prossimo). Ma oltre al significato di incontrare, imbattersi, in latino la locuzione
verbale ire obviam ha una connotazione che è anche antagonistica (opporsi a qualcuno). Il versetto in lingua
originale recita: « hesèd (la grazia, come amore fedele: si veda quanto si disse sulla gelosia divina) e emèt
(la verità) si sono incontrate: questa è la ragione per cui le traduzioni moderne sostituiscono rettamente il
termine misericordia con amore o con fedeltà; quest’ultima, appunto assieme alla verità (emet), è
prettamente dote di YHWH nella locuzione che lo descrive ad esempio in Sal 86(85): 15: «ma tu sei un Dio
pietoso e pronto alla compassione, lento all'ira e pieno di fedeltà e di verità», in cui la locuzione «pieno di
fedeltà e verità» contiene appunto i lemmi succitati: hesèd we emet; così, vedremo, anche nel primo stico
di Sal 25(24): 10). Fedeltà e verità si accoppiano dunque, rispettivamente, a misericordia e giustizia (v.
quanto scriverà sull'argomento Tommaso d'Aquino, più avanti, e anche il problematico versetto 3 del salmo
89(88)). Nella prospettiva che ci interessa, possiamo dire che le traduzioni odierne smarriscono il senso
contrastivo del verbo ire obviam che invece valorizza l'opposizione misericordia & pace vs giustizia & verità,
su cui in passato si sono basate varie riflessioni teologiche e anche iconografiche. Vedemmo peraltro che
anche il salmo 103(102) affrontava tali tematiche, menzionando la parola misericordia per 5 volte (vv. 4, 6,
8, 11) e sottolineando come essa riuscisse a mitigare l'attività di giudizio di YHWH nei nostri confronti. 

In effetti nel VT la misericordia e la giustizia sono due polarità legate ma ben distinte (e anzi antitetiche) tra
gli attributi di Dio, e si armonizzano nella dimensione totale del progetto divino di redenzione umana, ma
non sul piano meramente evenemenziale della cronaca spicciola o della storia dei peccati e delle miserie
dell'uomo, che impongono una diversa ratio, fatta di reazioni divine più severe ed esemplari, la principale
delle quali è la condanna inflitta ad Adamo ed Eva e a tutti i loro discendenti. Su questo punto rifletterono
Agostino di Ippona (La città di Dio, XXI, in particolare 9-12, evidenziando sia il legame tra Giustizia e
Sapienza divina (v. oltre), che per l'uomo resta insondabile e rende perciò imperscrutabile il senso della
giustizia divina, sia il ruolo di Misericordia divina ricoperto da Cristo, che dona la grazia) e Tommaso
d'Aquino. Nella Summa theologica Tommaso si interroga sulla possibilità che in Dio vi siano la giustizia e la
misericordia (pars I, quaestio 21). Sulla base di quei salmi che proclamano che il Signore è giusto e ama la
giustizia (cfr. Sal 10, o Sal 36), egli stabilisce che Dio attua la giustizia distributiva, la quale giova a
mantenere l'ordine dell'universo e si addice a Dio governante e ordinatore del Creato, e non quella
commutativa, che invece serve solo a regolare gli scambi tra le persone e non può interessare di certo al
Signore (art. 1; si tratta della suddivisione teorizzata da Aristotele: v. oltre). Inoltre, nell'art. 2, stabilisce che
questa giustizia divina, radicata nella sua voluntas e sostanziata dalla sua sapientia (art. 1), è verità («la
giustizia di Dio, la quale costituisce nelle cose un ordine conforme al piano della sua sapienza, che è la sua
legge, a ragione si chiama verità. Così, anche per gli uomini si usa parlare di verità della giustizia»): accoglie
pertanto il presupposto della sinonimia tra giustizia e verità praticata nel salmo 85(84): «nel Salmo 84 si
legge: «la misericordia e la verità si sono incontrate»: e qui verità sta in luogo di giustizia». Nell'art. 3 della
quaestio 21 Tommaso definisce la misericordia, scartando l'idea che essa sia una species tristitiae (cioè una
debolezza dell'animo che si attiva con la compassione) o una relaxatio iustitiae (un cedimento della
giustizia), e asserisce che «la misericordia va assai precipuamente attribuita a Dio, non per quanto ha di
sentimento o passione, ma per gli effetti che produce»; soprattutto conclude stabilendo che «Dio opera con
misericordia, non agendo contro la sua giustizia, ma compiendo qualche cosa oltre i limiti della giustizia » :
ciò avviene perché «la misericordia non oblitera la giustizia; ma è in qualche modo un coronamento della
giustizia»; Tommaso quindi cita, e ben a proposito, Gc 2:13 (v. sopra). Nell'art. 4, infine, Tommaso,
basandosi su Sal 25(24): 10 («omnes via domini misericordía et veritas»; da tradurre tutte le vie del Signore
sono misericordia-grazia-fedeltà e verità-giustizia;), stabilisce che «in ogni opera di Dio si trovano la
misericordia e la verità», attivando così l'equazione tra verità e giustizia, di cui già dicemmo. L'Aquinate
specifica che «invero ogni opera della divina giustizia presuppone sempre l'opera della misericordia, ed in
essa si fonda», poiché «in ogni opera di Dio appare la misericordia, come sua prima radice. E l'influsso di
essa permane in tutte le cose che vengono dopo, e vi opera con tanta maggiore efficacia perché le cause
primarie hanno influssi più notevoli delle cause seconde». I due principi sono dunque sempre congiunti e si
deve quindi solo alla nostra limitata comprensione se «alcune opere [di Dio] si attribuiscono alla giustizia e
altre alla misericordia, perché in alcune appare più evidente la giustizia e in altre la misericordia». La
raffigurazione dell'armonioso accordo, prospettato dal salmo 85(84), delle quattro virtù in equilibrio tra loro
era usata come allegoria cristiana del Buon Governo (o meglio, dei tratti che deve avere il buon governante
cristiano). La giustizia, nell'ottica cristiana medievale, non trova più il proprio fondamento nella natura, ma
nella volontà di Dio: è un concetto riassunto nell'espressione di sant' Agostino «quod Deus vult ipsa lustitia
est» (Sermo CXXV1 (b), cap. III). Ciò vuol dire che all'azione della giustizia - fondata su precetti di stampo
religioso - non basta più la conoscenza di ciò che è giusto, ma occorre il sostegno dalla grazia divina. La
giustizia non è dunque solo una pratica o un habitus comportamentale ma si configura come una vera e
propria virtus morale e individuale (raffigurabile quindi come una personificazione femminile dotata di
attributi simbolici). Nella visione domenicana, in particolare, la iustitia e la lex su cui essa si basa, poiché
derivano da Dio, hanno un fondamento razionale e non volontaristico: secondo san Tommaso, come
dicemmo, Dio è figurabile alla stregua di un governante, un ordinatore del Creato (Summa theologica,
quaestio 91) e dunque allinea le leggi umane secondo la luce della ragione. Viceversa la teologia
francescana induce un principio di amore e di volontarismo nello schema giudiziale-legislativo divino.

In base a tali premesse, in quei secoli l'attività del giudice umano deve dunque ispirarsi al modello divino e
l'esercizio della giustizia (cioè saper giudicare bene e in modo giusto) non è ridotto al rango di semplice
professione da apprendere con lo studio e da esercitare nelle sale del tribunale bensì è una virtus di matrice
divina che comprende anche l'idea della misericordia e che va coltivata radicandola nell'integrità dello
spirito umano. L'affresco quattrocentesco dei due giudici (quello buono e quello cattivo) della sala delle
udienze del municipio di Reguengos de Monsaraz, in Portogallo, pone in relazione il Giudizio Universale
operato dal Christus ludex nella sua seconda e definitiva venuta (la parusìa) con l'esercizio della giustizia
umana: il giudice di sinistra, operando all'insegna della virtù della Giustizia, è incoronato da due angeli
(interpretati come allegorie della Giustizia e della Misericordia), mentre quello corrotto, a destra, ha due
facce, in segno di doppiezza, e con una di esse obbedisce al diavolo nero posto dietro la sua sedes. In
definitiva, come notava Adriano Prosperi, la consapevolezza di vivere, da cristiani, nell'era sub gratia
instaurata da Cristo si tradusse, nelle pratiche della giustizia penale, nel costante riproporsi, della grazia
«intesa come esigenza di cancellazione delle pene».

Riassumendo, chi era incaricato di governare e di formulare verdetti di giudizio era tenuto a temperare con
la misericordia la severità della giustizia. Appare dunque programmatica l'opera di Jacobello del Fiore
(eseguita nel 1421 per la Sala del Giudice del proprio in Palazzo Ducale a Venezia) che raffigura l'allegoria
della Giustizia retta (dotata di corona regale, spada e bilancia) affiancata dall'arcangelo Michele, capo delle
milizie celesti e severo esecutore delle pene prescritte da Dio, e dall'arcangelo Gabriele, latore
dell'annuncio a Maria, col quale ella apprende di tenere in grembo la Misericordia divina (cioè Gesù). Sono
qui riprodotte varie allegorie della Giustizia: la loro iconografia resta costante attraverso i secoli. In questo
importante dipinto di Giovanni Baglione, La riconciliazione della Misericordia (come Carità) e della Giustizia
grazie alla Religione cristiana (o Divina Sapienza) (1622, Windsor Castle, Londra) si affronta appunto il tema
di come la religione cristiana permetta di mitigare la severità della Giustizia attraverso la pratica della
Misericordia. La Misericordia, a sinistra, viene raffigurata nelle vesti della personificazione (o allegoria) della
Carità, cioè dell'amore verso Dio e il prossimo, una madre che nutre i figli suoi (1Ts 2:7) e quelli altrui. La
Giustizia reca la spada (per punire) e la bilancia (per giudicare: è un attributo che, come vedremo, deriva da
un passo del Decretum Gratiani, una raccolta di testi di diritto canonico del XII secolo). Secondo Cesare
Ripa, autore dell'Iconologia (1603), i 3 bambini che accompagnano la Carità rappresentano la sua triplicata
potenza di questa fondamentale e indispensabile virtus (1Cor 13), che comprende nello specifico le tre virtù
teologali Fede, Speranza e, appunto, Carità, che nel cristiano non possono essere disgiunte e devono
sempre stare insieme per operare nel modo migliore (1 Ts 1:1-5). San Tommaso aveva infatti sostenuto che
la religione (pietas) è virtù che si unisce alla giustizia, così come alla giustizia sono anche annesse le altre
virtù morali. Le allegorie delle due virtutes sono accompagnate da iscrizioni. Nello scudo recato dalla
Giustizia si legge: «DILIGITE / IVSTITIAM QVI / IVDICATIS / TERRAM», che è l'incipit del Libro della Sapienza,
tradizionalmente attribuito a Salomone (Sp 1:1): non a caso nella parte superiore del dipinto sta appunto la
Divina Sapienza. La tabella che sta presso la Carità recita: «QVI / MANET / IN / CARITATE / IN DEO /
MANET / ET DEVS IN EO». È un versetto della Prima lettera di Giovanni (1Gv 4:16). L'opera va
probabilmente identificata in quella Giustizia che abbraccia la Pace che sappiamo essere stata
commissionata a Baglione nel 1617 dal duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, il quale intendeva così
celebrare le proprie virtù di regnante.

Circa la tematica della Pace, citiamo gli antichi Tribunali della Pace (ne esisteva uno importante a Bologna
nel Seicento), che si incaricavano di far sì che due parti contendenti (ad esempio due famiglie omicide in
lotta tra loro) giungessero a stipulare una pace perpetua, scambiandosi abbracci e il bacio della pace
durante una cerimonia pubblica. L'osculum pacis (detto anche santo bacio), accompagnato da un abbraccio,
era una prassi in uso nelle comunità cristiane e di lì poi nell'evo medio e in quello moderno (epoche in cui
era appunto adoperato per far cessare le faide familiari o i dissidi e le liti individuali); derivava da alcuni
versetti del NT: «Salutatevi a vicenda con il bacio santo» (Rm 16:16; 1Cor 16:20; 2Cor 13:12). «Salutate tutti
i fratelli con il bacio santo» (1Ts 5:26). «Salutatevi reciprocamente con il bacio di amore» (1 Pt 5:14).
Ricordiamo che in Lc 7:45 Gesù rimprovera Simone il fariseo, nella cui casa si era recato a mangiare, di non
avergli dato il rituale bacio di accoglienza. 

Giustino Martire (sec. II), nella sua Seconda apologia dei cristiani, testimonia (seguito poi da Tertulliano,
sant'Ippolito, Giovanni Crisostomo e altri scriptores ecclesiastici) che i primi cristiani praticavano il bacio
della pace quando si riunivano per commemorare la Cena del Signore: si dava sulla fronte, sulla guancia o
sulla barba (!). Inizialmente si collocava dopo la liturgia della Parola, poi papa Innocenzo I, nel sec. V, lo
pose dopo la preghiera eucaristica: ciò spiega perchè venisse definito signaculum Eucharistiae da Agostino,
che ne faceva una dimostrazione dello stato spirituale del fedele spiegando che «essi hanno dimostrato la
loro pace interiore, con il bacio esteriore» (anche Cirillo di Gerusalemme, nel sec. IV, scriveva che «questo
bacio è un segno che le nostre anime sono unite e che tra di noi non ci sono ferite»). 

L'incisione di Lanfranco (qui a lato) raffigura una donna che spreme generosamente una mammella da cui
fuoriesce del latte, che il figlio raccoglie in un piccolo recipiente; la scritta chiarisce che si tratta di
un'allegoria della Misericordia. Ma verosimilmente l'immagine (la cui assonanza con la Madonna del Latte è
evidente) si potrebbe anche intendere come Maria Vergine in quanto Mater, o meglio Sedes Misericordiae.
La composizione mostra come nel Seicento la personificazione della virtù della Misericordia potesse essere
assimilata all'allegoria della Carità. In effetti nel pensiero medievale la virtù teologale della Carità
rappresentava una sera allargata di virtutes nelle quali rientrava anche la Misericordia. Si vedano ad
esempio gli schemi del breve manoscritto Beinecke 416 della Yale University (databile alla fine del secolo
XIV o agli inizi del secolo XV), «una collezione di diagrammi realizzati nell'abbazia cistercense di Kemp, in
Germania», in cui vengono visualizzati degli alberi delle Virtù e dei Vizi allo scopo di «spiegare le connessioni
tra le Virtù principali e i Vizi, e le connessioni tra buone e cattive qualità, associate rispettivamente alle
prime e ai secondi». «L'albero [delle Virtù] del manoscritto Beinecke [alla c. 3v] ha come radice l'Umiltà,
virtù monastica per eccellenza, lodata da Bernardo di Chiaravalle in quell'eserciziario in dodici gradini per
perfezionare l'Umiltà nel proprio cuore che è il De gradibus humilitatis et superbiae, in cui l'abate di
Clairvaux ha cura di raccomandarsi, poi, di non diventare superbi della propria umiltà, e di menarne un
vanto. Problema reale, se ci si pensa, quando la stessa monaca benedettina Ildegarda di Bingen nel ludus
scenico dal titolo Ordo Virtutum non esita a incoronare l'Umiltà, conferendole il titolo di "regina Virtutum"
(cfr. Dronke 1970 e Tabaglio 1999)». Quanto alle «virtù sussidiarie, per la Prudenza, sono memoria,
intelligenza, previdenza, timor di Dio, ragione, discrezione e diligenza. Per la Fortezza, com'era prevedibile,
tenacia, stabilità, ma anche calma, pazienza, silenzio e fedeltà. Per la Giustizia, ovvio, l'osservanza delle
leggi, e correttezza, onestà, severità, rettitudine. Per la Temperanza, moralità e tante variazioni sul "giusto
mezzo": osservanza dei precetti religiosi, discrezione (ancora), affabilità, sobrietà, ossequio ai precetti della
religione». Vengono infine le Virtù teologali: «Fede (benevolenza, semplicità, continenza, verginità, purezza,
candore, castità). La Speranza assume su di sé benevolenza, semplicità, morigeratezza, e ancora candore e
castità. La Carità le sovrasta e le riassume tutte, nel suo articolarsi in concordia, gentilezza, attitudine al
perdono, pietas, amor di pace, clemenza, compassione, grazia» (S. DE LAUDE, La curiosità di Carlo Magno.
Le virtù, le loro parti e il loro albero, per un copista-scrittore del Trecento, Engramma, 150, 2017).

Il pittore romano Imperiale della Gramatica (1599-1634) dipinse L'incontro di Verità e Misericordia descritto
dal Salmo 85(84), arricchendo la figurazione di dotti attributi simbolici e valorizzando l'idea dell'accordo tra
le due virtutes. La Misericordia esibisce il seno nudo a dimostrazione della sua attitudine alla carità; reca
inoltre, in accordo con la descrizione emblematica che ne fa Cesare Ripa nell'Iconologia del 1603, una
corona di foglie d'olivo (il rinvio per l'eziologia dell'attributo è alla personificazione della Condonatio
tratteggiata da Pierio Valeriano nel 1567) e un ramo con il frutto e il fiore del cedro. L'olivo e il cedro erano
alberi ritenuti misericordiosi poiché benefici per l'uomo, secondo la tradizione greco-romana: in particolare
l'oliva, da cui spremuta si ricava il prezioso olio, rinvia ulteriormente, come le mammelle, all'idea di
generosità. Dal canto suo la Verità, oltre al consueto attributo del sole sul capo, tiene in mano un persico
(cioè un frutto rotondo, un pomum) con una foglia, che sono emblemi di sincerità. Si tratta di un simbolo
tradizionale di accordo tra ciò che si sente e si pensa e ciò che si dice, come già spiegavano Pierio Valeriano
nel 1567, Achille Bocchi nel 1602 e Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1603. La spiegazione è poi ripresa
da PIETRO MATTEACCI, Dell'origine del mondo, cioè de' principii delle cose, Venezia 1639, p. 159: «Gli
Antichi dipingevan la Verità col geroglifico del pomo unito alla foglia: la foglia era simbolo della lingua, il
pomo del cuore; per dimostrare che non doveva esser l'uno separato dall'altro». L'accordo tra le due virtù
annulla la conflittualità che, per natura, vige tra esse (obviaverunt), giacché se si giudica secondo verità
nessuno sulla terra risulta innocente, mentre se si giudica secondo misericordia bisogna invece perdonare a
tutti: la necessità che esse s'incontrino e si contemperino fonda sia la prospettiva di un retto giudizio in
sede penale, sia quella di una giusta escatologia (SAN BONAVENTURA, Cento meditazioni sulla vita di Gesù
Cristo, cap. III: Della contenzione che fece la Verità con la Misericordia). «Dice la Misericordia: dunque
perché mi facesti? La Verità sa bene ch’io sono morta, se tu non sei misericordioso. Dice la Verità: se il
peccatore scampa alla tua sentenzia, la verità tua perisce e non sta in eterno. Allora il Padre mandò la
questione al Figliolo. E (...) dinanzi al Figliolo (...) disse così la Verità: Messere, (...) la Misericordia si muove
per bono zelo, ma non saviamente, [perché preferisce] (…) perdonare al peccatore piuttosto che alla sorella.
Rispose la Misericordia: e tu non perdoni a nessuno, e sei incrudelita con tanta indignatione contro il
peccatore, che non ti ricordi di tua sorella. (...) Allora il Re scrisse la sententia secondo Giustizia o diedela da
leggere alla Pace (...) e diceva così: lo sono morta se Adamo non muore: e la Pace dice: E io sono morta se
ad Adamo non è concessa misericordia. [E il Re disse:] Si faccia la morte buona, e tutti saranno soddisfatti.
(...) La morte dei peccatori è brutta, ma quella dei santi è preziosa: si trovi dunque chi voglia morire per la
carità pur non meritando la morte! La Verità tornò sulla Terra a cercare un candidato e la Misericordia
rimase in cielo, adempiendo alla profezia che dice che la misericordia divina sta nei cieli e la verità si
diffonde per tutta la Terra. Ma né in cielo né sulla terra fu trovato alcun innocente. Il Re, saputo ciò, si dolse
di avere creato l'uomo, ma decise comunque di scendere sulla Terra per liberare l'uomo». (SAN
BONAVENTURA, Cento meditazioni sulla vita di Gesù Cristo, cap. IlI: Della contenzione che fece la Verità con
la Misericordia). «(...) La Misericordia pregava il Padre che sovvenisse alla Umana generatione, et avea con
seco la Pace, ma la Verità contraddicea, et avea seco la Giustizia; et a questo modo fu tra loro gran
discordia, secondo che narra santo Bernardo in uno lungo e bello sermone. (...) La Pace o la Misericordia
diceano al Signore: Messere, schiferai tu sempre I'Umana generatione, o dismenticherai d'essere
misericordioso? (...) E 'I Signore li rispose: Sieno chiamate le sorelle vostre, cioè Giustizia a Verità (...) e
udiamo loro (…). La Misericordia [disse]: Missere, la creatura tua ha bisogno della divina misericordia,
[perché] è (...) troppo misera (...). E la Verità: Missere, bisogno è che (...) mora Adamo con tutti coloro che
sono con lui, [perché] non obbedendo trapassaro il comandamento tuo. 

Lelio Orsi, Il corpo di Cristo morto fra le personificazioni della Caritas-Misericordia e della lustitia, Modena,
Palazzo dei Musei. In quest' opera di Lelio Orsi il sacrificio eucaristico è già avvenuto: Cristo morto giace sul
Lapis, la pietra dell'unzione, pronto per la sepoltura. La Carità- Misericordia (a sinistra, riconoscibile dal
consueto attributo del pellicano, qui però piuttosto simile ad un'aquila, che sfama la propria nidiata
ferendosi col becco e facendo stillare sangue dal petto) e la Giustizia (a destra) sono presenti non per
piangere la morte di Cristo, ma per spiegare i motivi che hanno condotto al suo sacrificio, in relazione alla
dottrina della satisfactio. Nel Decretum Gratiani, la raccolta di testi di diritto canonico del XII secolo
(Concordia discordantium canonum ac primum de iure nature et constitutionis), l'alleanza tra Misericordia e
Giustizia fu ulteriormente confermata ed elaborata con l'introduzione dell'immagine della bilancia. Nella già
citata aula gotica del monastero dei Santi Quattro Coronati, a Roma, affrescata su commissione del
cardinale Stefano Conti tra il 1235 e il 1247 circa, è presente un ciclo di personificazioni allegoriche delle
virtù, raffigurate in abiti militari. Nella parete settentrionale sta l'allegoria della Concordia, che reca nella
mano destra un cartiglio con la scritta «CU[M)/ OMNI/ BUS/ PACE[MI/ HABE/ A NIT» (fir. Rm 12:18: «Si fieri
potest, quod ex vobis est, cum omnibus hominibus pacem habentes»). Sulla spalla sta san Paolo, autore
della lettera ai Romani, da cui è appunto tratta la citazione; ai piedi, la personificazione della Discordia,
calpestata dalla Concordia e costretta ad abbracciarsi alla personificazione dell'Al[tercatio], cioè del Litigio. 
Nella parete settentrionale, al centro del gruppo, sta l'allegoria della Giustizia (sopra), che qui è
rappresentata dal re Salomone, ritenuto nel Medioevo modello di giustizia e perciò di sapienza in rapporto
al famoso episodio del giudizio da lui emesso sul bimbo conteso dalle due madri (1Re 13:16-28). 

In un manoscritto trecentesco di Bartolomeo e Andrea de’ Bartoli, troviamo l'allegoria della lustitia con le
sue partes. (Chantilly, Musée Condé, ms. 1426, f. 4r). La figura della Giustizia viene definita secondo un
passo dell'agostiniano De moribus ecclesiae catholicae et Manicheorum, I, 1322 («lustitia est amor soli Deo
serviens, et ob hoe bene imperans coteris que homini subiecta sunt. De iustitia edidit Augustinus librum
unum qui incipit: “Salomon sapientissimus” et librum de perfectione iustitie hominis: quam sic diffinit liber
de moribus Ecclesie). Le partes sono come di consueto all'Interno dell'immagine, elencate in un libro
rilegato di rosso: Religio Pietas Gratia, Vindicatio Observantia Veritas Obedientia Innocentia Concordia
Amicitia Affectus Humanitas Liberalitus Legalitas. Altri libri di argomento giuridico poggiano su un tavolino
sormontato da un leggio. Aperto, è quello che reca l'incipit delle Institutiones di Giustiniano: "Imperatorem
maiestatem non solus armis decoratum, sed etiam legibus oportet esse armatum. Sotto i piedi, la lustitia
schiaccia Nero iniqu[u]us. 

In maniera parimenti centrale, l'allegoria della lustitia dipinta da Giotto tra il 1303 e il 1305 nella cappella di
Santa Maria della Carità a Padova (commissionata dal ricco banchiere Enrico Scrovegni e perciò nota come
Cappella degli Scrovegni) è posta sul trono in quanto è la virtù principale da cui derivano tutte le altre, come
avevano scritto Aristotele («Nella giustizia è compresa ogni virtù»: Etica Nicomachea, V. 1129b) e Cicerone
(«lustitia (...) una virtus omnium est domina et regina virtutum»: De officiis, 3, 28) nonché Tommaso
d'Aquino nella Summa theologica. La circondano infatti, negli altri riquadri, le virtù sue compagne
(Prudenza, Fortezza, Temperanza, Fede, Carità/Misericordia, Speranza) che tutte insieme caratterizzano
l'idea del buon cittadino. La serie di allegorie delle virtutes è posta, come d'uso nel Medioevo, in contrasto
con quella delle allegorie dei vitia, i vizi capitali, che circondano la nefasta personificazione dell'Iniustitia
(Ingiustizia), dipinta sulla parete opposta. L'allegoria della Iniustitia raffigura un vecchio, gigantesco giudice
togato e armato, circondato da una specie di bosco al riparo del quale possiamo vedere che avvengono
alcune imboscate (che sono, letteralmente, agguati tesi nel bosco a scopo di rapina o di uccisione) durante
le quali vengono commessi dei gravi delitti come un omicidio e uno stupro. É evidente che il giudice
ingiusto, pur consapevole di questi crimini, sta distogliendo lo sguardo da loro, disinteressandosi della
Giustizia. Gli studiosi (cfr. U. VINCENTI, F. MARCELLAN, La Giustizia di Giotto, Napoli 2006, pp. 69 - 92)
ricollegano rettamente queste personificazioni giottesche ad alcuni brani dell'Etica Nicomachea di
Aristotele che, riscoperta nel Duecento, nel 1246-1247 era stata tradotta in latino e chiosata dal
francescano Roberto Grossa testa. Aristotele, definendo i giudici come «giustizia incarnata», spiegava in
effetti che proprio riconoscendo e studiando l'ingiustizia si può comprendere cosa sia veramente la
Giustizia. L'allegoria della lustitia funge invece da bilancia vivente, reggendo nelle mani due piatti che
contengono ulteriori raffigurazioni allegoriche. Le piccole allegorie - parzialmente rovinate - contenute nei
piatti della bilancia che essa regge rinviano ai due rami della giustizia definiti da Aristotele (nell'Etica
Nicomachea, V.3, 1131a. 10-1132b.9) e ripresi poi anche da san Tommaso d' Aquino (Summa theologica,1,
quaestio 21). A sinistra la giustizia distributiva (o attributiva), che regola i rapporti pubblici: come scrive
Aristotele, essa «consiste nella [equa] ripartizione degli onori, delle ricchezze, e di tutte le altre cose
divisibili per chi fa parte della cittadinanza», considerata in rapporto al merito individuale: è allegorizzata da
un angelo che premia con una corona un uomo seduto ad un banco (un cambiavalute o uno scrivano). A
destra sta invece la giustizia commutativa, che regola, secondo un principio di reciprocità (si rende quanto
si è ricevuto), i rapporti di cooperazione tra privati, e che perciò si traduce anche nelle punizioni dei reati: la
allegorizza difatti un angelo con la spada sguainata in atto di colpire dei malfattori. Lo stesso avviene anche
nell'affresco dell'Allegoria degli effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, che già citammo. Qui la
Giustizia, assisa sul trono, sovrintende all'attività della bilancia, un simbolo di equità che costituisce il suo
classico attributo iconografico; tuttavia la parte superiore dell'asta della bilancia è impugnata dall'allegoria
della Sapienza divina* che, alata, sovrasta la Giustizia tenendo in mano il biblico Libro della Sapienza
attribuito a re Salomone (come conferma l'iscrizione obliquamente apposta attorno al capo della Giustizia,
consistente nel primo stico di Sp 1:1, «DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM», cioè Amate la
Giustizia, voi che governate la terra), o, in una più laica prospettiva, un corpus iuris civilis. Ciò vuole
significare che la Giustizia dev'essere assistita, regolata e ispirata dalla Sapienza di Dio. Sui piatti stanno due
angeli dalle cui cinture partono le due corde (rossa per la giustizia distributiva e bianca per quella
commutativa) che poi, come già vedemmo, vengono riunite in una sola corda dall'allegoria della Concordia,
che l'affida infine ai 24 cittadini. Rispetto alla rappresentazione giottesca, la suddivisione tra giustizia
distributiva (a sinistra) e giustizia commutativa (a destra), come indicano le scritte quasi illeggibili, viene qui
resa come rapporto tra equo castigo per il governante ingiusto e premio (costituito da una palma) per
quello giusto, e come regolazione del commercio tra privati. 

(*)Con la Sapienza divina si intende un attributo di Dio, da lui emanato (Sp 7:25 la definisce
«un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente»), preesistente alla
creazione e operante nel governo del creato; i suo legame con la Giustizia è fornito, ovviamente, dall'incipit
del Libro della Sapienza (Sp 1:1), di cui diremo tra breve, e in genere da Sp 1-6. In questa biccherna, la n. 36
(ASS), dipinta dal grande pittore Sano di Pietro nel 1471, l'Allegoria della Sapienza divina (nelle vesti della
Sofia) fuoriesce dal cielo Empireo, per comando di Dio che, seduto sul trono le fa un cenno con la mano
destra; la Sapienza a sua volta reca in mano un cartiglio con il proprio nome iscritto e indica con la destra la
figura di Dio, come suo referente. Dio è qui raffigurato con le fattezze di Gesù poiché nel Medioevo la
speculazione trinitaria, riprendendo Mt 11: 19 e soprattutto 1 Cor, 1:24, che identificano Gesù come
«sapienza divina» (in tal senso Paolo lo contrappone esplicitamente alla sapienza umana, vana e stolta), la
riteneva in particolare un attributo del Verbo: Dante, ad esempio, definisce più volte nelle sue opere il Figlio
come «somma sapienza», in particolare nel Convivio. 

Tornado all'affresco di Giotto, nel fregio alla base del trono della Giustizia sono rappresentate scene di
caccia col falcone, di danza e pellegrini o mercanti in viaggio, simboleggianti i piaceri e i vantaggi della vita
che l'uomo può concedersi in una società ordinata e ben governata, e dunque segnata dalla prosperità. La
scritta in latino che piú tardi venne collocata sotto l'allegoria della Giustizia (e che qui traduco liberamente)
recita infatti: «La Perfetta Giustizia adopera un'equa bilancia; i buoni comportamenti li premia con la
corona, i vizi li castiga con la spada. La libertà sarà goduta da tutti se la Giustizia regnerà: l'onesto soldato,
dovunque andrà, si comporterà con levità, e sarà possibile allora cacciare, cantare, vendere e il mercante
parim[enti (?)]( ….)» (il resto manca). Infine «l'allegoria giottesca echeggia la Vergine Maria (ha la corona
chiusa della Regina Coeli, il velo virginale e il manto della Mater misericordiae, Iargo e lungo fino ai suoi
piedi)» (M. Sbriccoli). Non a caso la Giustizia- Madre misericordiosa contenuta in una cappella tricuspidata
è assai simile alla Maestà di Ognissanti che Giotto dipingerà nel 1310 per la chiesa fiorentina di Ognissanti. 
Nel Medioevo la connessione tra la Vergine (come Madre della Misericordia) e la virtù della Giustizia fu
ribadita dalla Maestà che Simone Martini -su commissione del governo senese- dipinse tra il 1312 circa e il
mese di giugno del 1315 (restaurandola poi nel 1321) nella sala di adunanza dei consigli del palazzo
comunale di Siena. Si tratta della raffigurazione di un'assemblea di santi che fanno corona alla Madre,
venerandola come Regina del Cielo, e al contempo adorano il Figlio come Verbo incarnato e Giustizia divina.
Il baldacchino, un attributo regale, simboleggia la Gerusalemme celeste. Nella cornice sono raffigurati
simboli neo- e vetero-testamentari (come il tetramorfo, le personificazioni del Vecchio e del Nuovo
Testamento e i Profeti) ma anche ecclesiologici (come i Dottori della Chiesa). Gesù infatti tiene in mano un
rotolo aperto, recante un monito divino e universale ai governanti dei popoli: è la scritta «DILIGITE
[USTITIAM QUI LUDICATIS TERRAM» (Amate la Giustizia, voi che governate la terra), che, come dicemmo, è
il primo stico del celebre incipit del Libro della Sapienza, tradizionalmente attribuito a Salomone (Sp 1: 1). In
quegli stessi anni Dante descriveva, nel suo poema, la coreografia degli spiriti giusti nel cielo di Giove:
questi, volando e cantando, si dispongono in modo da comporre proprio la scritta DILIGITE JUSTITIAM QUI
IUDICATIS TERRAM; successivamente, gli spiriti che componevano la lettera «M» finale (che viene
interpretata come l'iniziale della parola monarchia, un'istituzione a cui lo stesso Dante aveva dedicato il
trattato De monarchia) si dispongono in modo tale che essa prende dapprima la forma di un giglio araldico
(possibile allusione alla casata dei Carolingi) e poi quella di un'aquila, che è una diretta allusione al Sacro
Romano Impero (Par XVIII, vv. 70-114).

LA MADONNA DEL SOCCORSO 


Una sorta di variante dell'iconografia della Madonna della Misericordia potrebbe essere considerata
l'immagine della Madonna del Soccorso (rispondente all'invocazione Succurre miseris), in cui Maria scaccia
Satana a suon di randellate (più raramente usando un flagello) salvando il malcapitato di turno, che è
sempre un bambino di giovanissima età. Ne esistono varie tipologie iconografiche, legate alle situazioni
specifiche di committenza. Ne presentiamo alcuni esempi di produzione italiana, di ambito centrale e
meridionale. 

Il museo di San Francesco a Montefalco ne conserva due esemplari di iconografia simile (e da ciò si capisce
che questi quadri avevano la natura di ex voto). Il primo fu dipinto alla fine del '400 da Francesco Melanzio
per la confraternita di San Nicola da Tolentino, che aveva sede nella chiesa di Sant'Agostino a Montefalco. Il
secondo fu dipinto nel 1510 da Tiberio di Assisi per Griselda figlia di Ser Bastiani di Tarquinio Peritei, che lo
fece realizzare come voto per le anime di suo padre e di (sua figlia?) Franceschina. Come presumibili ex
voto, queste opere vanno generalmente poste in relazione a voti pronunciati dalle madri che supplicavano
Maria di salvare da una malattia i loro piccoli figli. A volte vi compare un'allusione al valore salvifico del
mantello di Maria. In questo caso, ad esempio, il piccolo perseguitato si rifugia appunto sotto il manto di
Maria, che peraltro sembra più attenta a spostare il proprio Figlio dalla presa del satanasso che a
proteggere il fedele bambino. Sono presenti qui alcune interessanti varianti iconografiche: si nota
innanzitutto che la Vergine è priva del bastone e che a distrarre il demonio (più che ad allontanarlo...)
interviene un provvidenziale angelo calato dal cielo. Inoltre è significativo che sia Gesù ad allargare il
mantello della Madre per permettere al piccolo di ripararvisi. 

Il culto della Madonna del Soccorso si avviò agl'inizi del '300 presso gli agostiniani di Sicilia e, tramite la
devozione popolare da loro promossa, si diffuse prima nell'Italia centrale e insulare, poi anche in altre zone
dell'Europa e del mondo. La sua origine si basa su tre miracoli verificatisi a Palermo, di cui danno notizia vari
cronachisti e storici agostiniani: OTTAVIO CAIETANO, Raguagli delli ritratti della Santissima Vergine (...) che
si riveriscono in varie chiese nell’isola di Sicilia, Palermo 1664; ROCCO PIRRI, Sicilia sacra disquisitionibus et
notitiis illustrata, I, Palermo 1733 (la I ed. è del 1638); LUIGI TORELLI, Secoli agostiniani, V, Bologna 1680;
ANTONINO MONGITORE, Palermo divoto di Maria Vergine e Maria Vergine protettrice di Palermo, I,
Palermo 1719; BONAVENTURA ATTARDI, Il Monachismo in Sicilia discifrato dell'Ordine del P. S. Agostino,
Palermo 1741. Il culto fu istituito a Palermo nel 1306, dopo la prodigiosa guarigione di padre Nicola Bruno
da Messina, priore del Convento di Sant’Agostino. Il religioso era gravemente malato ed essendosi
appellato alla Vergine, la cui immagine era affrescata nella cappella di San Martino della propria chiesa,
ottenne che la Madonna gli apparisse nelle sembianze di quella immagine; Maria, concessagli la guarigione,
gli raccomandò di diffonderne la devozione col nome di Madonna del Soccorso (CAIETANO, pp. 51-53;
PIRRI, ed. 1733, coll. MONGITORE, pp. 273-275, 155-156; TORELLI, pp. 269 e 339; con ricca bibliografia
pregressa). Ottavio Caietano racconta che in quello stesso 1306 il culto fu poi corroborato dal soccorso
concesso da Maria a una mamma il cui bambino era minacciato dal diavolo. Una palermitana, piuttosto
iraconda, aveva la triste abitudine di imprecare quando si spazientiva col proprio figlio; e un giorno, più
arrabbiata del solito, invocò addirittura il demonio perché si portasse via quel bimbo così fastidioso: a quel
punto si presentò il maligno, armato di un uncino, per prendersi il bambino. Pentita, la madre invocò il
soccorso della Vergine: e la Madonna apparve: subito il bambino cercò riparo sotto il suo manto, mentre
Maria scacciava il demonio per mezzo di un bastone, per poi sparire. La donna, recatasi alla chiesa di Sant'
Agostino per ringraziare la Vergine, riconobbe poi nell'immagine venerata nella cappella di San Martino la
sua soccorritrice (CAIETANO, p. 62; non parla del bastone e del particolare del manto PIRRI, ed. 1733, col.
156; MONGITORE, pp. 276-277). Questo, aggiunge il Caietano, determinò che da allora Maria venisse
raffigurata con un bastone e che il bambino fosse raffigurato a sua volta mentre si rifugiava sotto il mantello
della Vergine. Lo stesso autore commenta inoltre l'episodio scrivendo che «temere non può chi sotto la
difesa della Torre di David si ricovera» (CAIETANO, p. 52). Il riferimento è a uno dei titoli attribuiti a Maria
nelle litanie lauretane, quello - appunto - di Turris davidica. La torre di David è un'arce fortificata, costruita
nel secolo II a. C. e più volte distrutta e ricostruita nel corso dei secoli, che tuttora si erge presso la Porta di
Giaffa, segnando uno degli ingressi della città vecchia di Gerusalemme; secondo la tradizione venne eretta
da David quando egli conquistò la città di Gerusalemme strappandola ai Gebusei. La torre è citata nel
Cantico dei Cantici: «Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono
appesi, tutte armature di prodi»: Cant 4:4; da questo versetto deriva nell'immagine la presenza di Eros-
Amore con arco e frecce in cima alla torre e la corona di scudi-trofeo che allude alle «conquiste» della
Sposa. Su questa base, essendo una metafora della Sposa, la turris davidica è stata recepita come attributo
della Vergine intendendo che, nella Gerusalemme celeste, Maria si pone come la Torre di David a difesa del
Regno dei Cieli. Da qui il significato allegorico originale, quello di protezione universale concessa alla Chiesa,
trapassa in quello di baluardo per i fedeli. 

Il Torelli narra poi il miracolo occorso nel 1315 (o forse meglio nel 1504) a una fanciulla palermitana, molto
devota alla Madonna, che da tempo era gravemente inferma per una paralisi che la obbligava a rimanere
dolorante nel suo letto. La sua preghiera venne accolta dalla Vergine: apparsale in sonno, la destò per
soccorrerla in un modo che rinvia di nuovo al contesto agostiniano. Maria cinse l'inferma con la sua cintura
d'argento, dicendole che non si sarebbe potuta sciogliere da essa se non in quella chiesa ove avrebbe
trovato un'immagine che somigliasse alle sembianze con cui ora le appariva. Dopo una ricerca nelle chiese
di Palermo, il 22 luglio la giovane riconobbe la Vergine nell'effigie mariana affrescata appunto nella cappella
di San Martino, in Sant'Agostino. Davanti a questa immagine la giovane inferma guarì istantaneamente,
lasciando poi lì la cintura come le aveva comandato la Vergine: i padri agostiniani la custodirono come una
reliquia ed essa continuò da allora ad operare miracoli sulle partorienti (TORELLI, p. 340; MONGITORE, pp.
277-280). Dal canto suo il Mongitore si diffonde a parlare della successiva diffusione del suo culto in tutta
Italia e anche in Europa, enumerando poi molti miracoli che la videro protagonista (MONGITORE, pp. 280-
295).

IL MANTELLO APERTO DEI SANTI PROTETTORI 


Anche col decadere dell'uso dell'iconografia della Vergine della Misericordia, la simbologia del "manto
protettivo" non viene tuttavia meno, essendo comune ad altre iconografie, nelle quali costituisce un tema
importante e di certo non marginale. 

L'esempio più noto è quello del mantello di san Martino di Tours (vissuto nel IV secolo d.C.). All'epoca in cui
era soldato, Martino, che ricopriva le mansioni di circitor (cioè «qui in militia vigilias circuit») era incaricato
di svolgere la ronda di notte e di ispezionare i posti di guardia e le guarnigioni. Ad Amiens, in una notte
dell'inverno del 335, Martino incontrò un mendicante seminudo e, spinto dalla compassione, tagliò
misericordiosamente in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale), dandone
metà al mendicante. La notte seguente Martino ebbe in sogno la visione di Gesù rivestito della metà del suo
mantello militare. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato,
egli mi ha vestito» (il riferimento è a Mt 25:36: «ero nudo e mi avete vestito»). Quando Martino si risvegliò
il suo mantello era integro. Va notato che Mt 25 imposta la dottrina escatologica gesuana e fa dunque
riferimento alla valenza salvifica della virtù della misericordia praticata dal fedele ai fini della sua
redenzione. In questa fondamentale pericope evangelica Cristo affronta il tema della giustificazione e
chiarisce il ruolo che le opere di misericordia rivestono nella salvezza dell'uomo: è un'ulteriore trattazione
del difficile ma armonioso rapporto tra giustizia e misericordia. La visione di Martino è stata raramente
raffigurata dagli artisti: un'immagine significativa è l'affresco di Simone Martini nella Cappella di San
Martino della Basilica di San Francesco ad Assisi, nella chiesa inferiore: la Cappella fu decorata dal pittore
fra il 1312 e il 1318 con 10 episodi della vita del santo. Il mantello miracoloso fu poi conservato come una
vera e propria reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi (secondo
la tradizione veniva adoperata come uno stendardo da esibire davanti alle truppe durante le guerre). Carlo
Magno la depositò presso l'Oratorio palatino di Aquisgrana, città che prese poi il nome francese di Aix-la-
chapelle. II termine latino medievale per indicare il «mantello corto», e cioè cappella, fu esteso alle persone
incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'oratorio
reale, che fu chiamato appunto cappella. Anche la stipe del Capetingi, sorta da Ugo Capeto, pare che
derivasse il nome dalla cappa. La venerazione per la cappa del santo, è riflessa nella Gloria di san Martino di
Iztvan Dorffmaister (qui a lato). 

Un tentativo di assimilare santa Caterina da Siena alla Vergine della Misericordia è fornito da una xilografia
del 1492 (a sinistra). In essa Caterina, dotata delle sue consuete insegne cristiche, e raffigurata nell’atto di
proteggere col proprio mantello due gruppi di fedeli - divisi come al solito in base al sesso di appartenenza -
che a lei si raccomandano: come indica la presenza dei cartigli che si srotolano dalle mani della santa, si
tratta più propriamente dei destinatari delle numerose lettere da lei scritte, che esortavano i potenti della
Terra a pentirsi. La corona che due angeli si accingono a porle sul capo è simbolo della gloria celeste che
l'attende; la colomba che le sussurra all'orecchio rende invece l'idea che i suoi scritti e le sue azioni fossero
dovute interamente all'ispirazione dello Spirito Santo. Quest’iconografia, appositamente creata per uno
specifico contesto editoriale, rimase un unicum e venne poi sostituita, nella classica edizione dell'epistolario
stampata da Aldo Manuzio nel 1500, da un'immagine di carattere iconico raffigurante la santa dotata dei
suoi gloriosi attributi (a destra). Ciò si deve al fatto che la santa senese trattò il tema della Misericordia in
alcuni dei suoi scritti, ad esempio il Dialogo (in cui Caterina si pone dinanzi a Cristo impetrando la
misericordia divina), le Orazioni e alcune delle sue Lettere. Non a caso la Bolla scritta da Pio II per la
canonizzazione di Santa Caterina il 29 giugno 1461 inizia proprio con un richiamo alla misericordia divina:
«Misericordias Domini, quas in dies largius experimur, non satis explicare potest lingua mortalis». Benché
sia nota soprattutto per il suo amore nei confronti del cristo, secondo la tradizione, Caterina era devota a
Maria fin dall'infanzia: ancora bambina, salendo le scale della sua casa recitava un’ave per ciascuno de
gradini. Varie volte nei suoi scritti Caterina cita Maria con l'appellativo di Mater Misericordiae.
Nell'Orazione 11, dedicata al giorno dell’Annunciazione, scriveva: O Maria! Maria, tempio della Trinità! O
Maria, portatrice del fuoco! Maria, dispensatrice di misericordia. Maria, da cui è germogliato il frutto. O
Maria, che hai ricomprato il genere umano, perché portando nel tuo seno il Verbo, fu ricomprato il mondo:
Cristo lo ricomprò con la sua passione e tu col dolor del corpo e della mente. O Maria mare pacifico. Maria
donatrice di pace. Maria terra feconda. Tu, Maria, sei quella pianta dalla quale abbiamo il fiore profumato
del Verbo, Figlio unigenito di Dio, perchè in te, terra feconda, fu seminato questo Verbo. Tu sei la terra e la
pianta. O Maria carro di fuoco, tu hai portato il fuoco nascosto e velato sono la cenere della tua umanità. O
Maria vaso d'umiltà, in cui arde la luce della vera conoscenza, con la quale ti sei innalzata al di sopra di te, e
sei piaciuta all'eterno Padre, che ti prese e attirò a sè amandoti di un amore singolare. Con la luce e il fuoco
della tua carità e con l'olio della tua umiltà hai attirato la sua divinità a chinarsi e venire in te, benché prima
sia stato spinto dal fuoco ardente della sua inestimabile carità a venire a noi». E nella lettere 276 esortava
così una meretrice di Perugia: « (...) fatti una santa forza a te medesima: levati di tanta miseria e fracidume,
ricorre al tuo Creatore, che ti riceverà, pure che tu voglia lasciare lo peccato mortale e tornare a lo stato
della grazia. (...) se tu bomicarai lo fracidume del peccato per la santa confessione, con proponimento di
non cadere più né tornare a bomico (2P 2,22 Pr 26,11), dice la dolce benignità di Dio: «Io ti prometto che
non mi ricordarò che tu m'ofendessi mai». E veramente così è: che colui che punisce per contrizione e
pentimento lo peccato, Die nol vuole punire ne l'altra vita. Non ti paia faticoso. Ricorre a quella dolce Maria
ch'e madre di pietà e di misericordia: ella ti menarà dinanzi a la presenza del Figlio suo, mostrandoli per te
lo petto con che ella l'alattò, inchinandolo a farti misericordia». Secondo Caterina la misericordia di Dio è
dovunque e si combina con la sua giustizia: nell’Orazione 8 scrive: «O Dio eterno! O fuoco e abisso di carità,
il tuo occhio è su di noi; e perché la tua creatura veda che tu hai posato su di noi gli occhi della tua pietà e
misericordia, oppure gli occhi della tua giustizia a seconda delle nostre opere, tu le hai dato l'occhio
dell'intelletto affinché veda. Da qui appare manifestamente che ogni male ci viene dall'essere privati della
luce, e ogni bene ci viene dalla luce, perché non si può amare quello che non si conosce, e niente si può
conoscere senza la luce. O Dio eterno! O pietoso, o misericordioso Padre, abbi pietà e misericordia di noi,
perché noi siamo ciechi senza alcuna luce; soprattutto io, povera miserabile; e perciò sempre sono stata
crudele con me stessa. Con quell'occhio della pietà col quale hai creato noi e tutte le cose, guarda la
necessità del mondo e provvedi ad esso. Tu ci hai dato l'essere dal nulla: illumina dunque questo essere che
è tuo. Tu al tempo del bisogno ci hai dato la luce degli apostoli: ora, in questo tempo in cui abbiamo bisogno
ancora di più della luce, suscita un altro Paolo che illumini tutto il mondo. Col velo della tua misericordia
chiudi e copri l'occhio della giustizia e apri l'occhio della pietà; col vincolo della carità lega te stesso e con
esso placa la tua ira». Nel cap. 30 del Dialogo Caterina colloquia con il Padre misericordioso: «O
misericordia ineffabile, non mi meraviglio che tu dica questo a coloro che escono dal peccato, quando tu dici
di coloro che ti persegueno; «o voglio che mi preghiate per loro, affinché Io lo facci misericordia». O
misericordia, la quale esce dalla deità tua, Padre eterno, la quale governa con la tua potenza tutto quanto il
mondo! Nella misericordia tua fummo creati; nella misericordia tua fummo ricreati nel sangue del tuo
Figlio. La misericordia tua ci conserva. La misericordia tua fece giocare in sul legno della croce il Figlio tuo
alle braccia, giocando la morte con la vita e la vita con la morte. E allora la vita sconfisse la morte della
colpa nostra, e la morte della colpa tolse la vita corporale allo immacolato Agnello. Chi rimase vênto? La
morte. Chi ne fu cagione? La misericordia tua. La tua misericordia dà vita; ella dà lume per mezzo del quale
si conosce la tua clemenza in ogni creatura, nei giusti e nei peccatori. Nell'altezza del cielo riluce la tua
misericordia, cioè nei santi tuoi. Se io mi volto alla terra, ella abbonda, della tua misericordia. Nelle tenebre
dell'inferno riluce la tua misericordia non dando tanta pena ai dannati quanta meritano. Con la misericordia
tua mitighi la giustizia; per misericordia ci hai lavati nel sangue; per misericordia volesti conversare con le
tue creature. O pazzo d'amore: non ti bastó incarnare, che anco volesti moire? Non bastó la morte, che
anco descendesti all'inferno, traendone i santi padri, per adempire la tua verità e misericordia in loro?
Poiché la tua bontà promette bene a coloro che ti servono in verità, imperò discendesti al limbo per trare di
pena chi t'aveva servito, e renderlo il frutto delle loro fatiche! La misericordia tua vedo che ti costrinse a
dare anco più a l'uomo, cioè lassandoti in cibo affinché noi debili avessimo conforto e gl' ignoranti
smemorati non perdessero la ricordanza dei benefici tuoi. E però lo dai ogni dì a l'uomo, rappresentandoti
nel sacramento dell'altare nil corpo mistico della santa Chiesa. Questo chi l'ha fatto? La misericordia tua. O
misericordia! Il cuore ci s'affoga a pensare di te, ché ovunque io mi vollo a pensare non truovo altro che
misericordia. O Padre eterno, perdona all'ignoranza mia, che ho presunto di favellare innanzi a te, ma
l'amore della tua misericordia me ne scusi prima della benignità tua» 

Il motiv del mantello-tegimen, desunto certamente dal modello della Vergine della Misericordia, si rinviene
anche nelle iconografie in cui sant'Orsola protegge le sue 11.000 compagne di martirio accogliendole al di
sotto del proprio manto, come si vede ad esempio nel Reliquiario di Sant'Orsola di Hans Memling, del 1489
(Bruges, Hans Memlingmuseum), nel quale l'immagine di Sant' Orsola (a destra) è speculare a quella della
Vergine che - compensando il gesto di offerta della vecchia Eva ad Adamo - offre un pomo (frutto rotondo)
al Figlio, allegoria della misericordiosa Redenzione (a sinistra). La leggenda della santa si fonda su una lastra
murata nel coro della basilica di Sant'Orsola a Colonia: è dotata di un’epigrafe, risalente all'epoca carolingia
(secoli IX-X; in passato fu però ritenuta dei secoli IV o V), dettata da tale Clematius, che in essa dice di aver
provveduto «pro voto» a restaurare dalle fondamenta la basilica in ricordo di alcune «vergini celesti» che in
quel luogo avevano subito il martirio. Esiste peraltro una iscrizione sepolcrale del secolo IV o V, rinvenuta
molto più tardi, che documenta l'esistenza di una tomba, in quei pressi, in cui era sepolta una bambina di 8
anni di nome Ursula (Orsola in latino). Tra la fine del secolo X e il XII la tradizione si fissò nel testo di due
distinte Passiones Ursulae (la seconda fu ripresa nel Duecento da Jacopo da Varazze nella sua compilazione
agiografica in latino, intitolata Legenda aurea) che riportavano per la prima volta il nome di Ursula,
narrandone la storia. Ella sarebbe stata una principessa bretone così devota a Cristo da consacrarsi a lui; al
ritorno da un pellegrinaggio a Roma, effettuato con delle compagne (il cui numero, forse 11, fu interpretato
come 11.000), avrebbe subito il martirio per mano degli Unni che a quel tempo - riporta la Passio-
assediavano la città (come mostra un famoso telero di Vittore Carpaccio). Non solo Orsola sarebbe stata
uccisa per essersi rifiutata di cedere ad Attila, che la voleva prendere in sposa, ma avrebbe esortato anche
le altre fanciulle ad affrontare la morte per difendere e preservare la loro verginità. È dunque chiaro che
l'iconografia misericordiosa di Orsola, cioè quella che la raffigura mentre stende le ali del manto sopra le
altre vergini (come nella pala di Bartholomaus Spranger, del 1584- 1587 circa, presso la Casa dei
Premostratensi, Strahow, Praga), si deve innanzitutto al comportamento protettivo che la santa ebbe verso
le sue 11.000 compagne, quando le confortò nel momento del martirio, esortandole a farsi uccidere
piuttosto di concedersi ai feroci soldati unni. Peraltro gli artisti non sempre valorizzarono questo spunto:
nell'Apoteosi di sant'Orsola con le sue 11.000 compagne, di Vittore Carpaccio, la santa, su un piedistallo
viene glorificata per mezzo di un'iconografia che in parte accenna e in parte cancella la sua conformità alla
Madonna della Misericordia. La difesa della verginità e della propria consacrazione a Cristo resero Orsola
un exemplum (cioè un modello da seguire) per le religiose e di certo contribuirono a rendere la santa, in
passato, una figura con tratti iconografici prossimi a quelli di Maria. Il legame cultuale tra la misericordia e
la figura di Orsola fu poi ratificato dalle confraternite. La santa fu eletta protettrice degli educatori e delle
università (nel 1535 Angela Merici fondò a Brescia l'ordine delle Orsoline, dedito all'istruzione delle
fanciulle: per questo Orsola è considerata la patrona delle maestre), dei mercanti di tessuti e dei bambini
malati: la santa fu infatti la prima patrona della Confraternita della Misericordia di Pisa. Fra il 1200 e il 1500
si diffusero alcune confraternite chiamate navicelle di sant'Orsola, fra le quali, probabilmente, il primo
nucleo di quella che sarà la Misericordia di Pisa. Gli adepti si impegnavano a compiere opere buone,
partecipavano a messe e preghiere, nella speranza di compiere felicemente, con questi meriti e con la
protezione di sant'Orsola, il viaggio verso il Paradiso. La Misericordia di Pisa conserva perciò varie immagini
della santa:
- 1) una statua lignea che la rappresenta in atteggiamento di preghiera, con la corona in testa e la palma
in mano;
- 2) una tela tardo seicentesca che la rappresenta a mezzo busto con la corona in testa, col vessillo con la
croce ed una freccia che le trafigge la gola;
- 3) una pittura su ardesia, di epoca incerta, che la rappresenta secondo lo schema di Maria madre di
misericordia: sotto un mantello aperto trovano riparo le compagne martiri (riprodotta qui a lato);
- 4) un quadretto seicentesco con la raffigurazione del volto della santa con corona, vessillo e freccia nel
collo.
A Palermo è forte la devozione alla santa. Qui accanto è riprodotta la Pala di sant'Orsola, opera del
fiammingo Simone de Wobreck (attivo a Palermo tra il 1558 e il 1587), che si trova nella chiesa del
Santissimo Salvatore, nella quale la santa bretone occupa in tutto e per tutto il posto di Maria
nell'iconografia della Misericordia. Occorre ancora notare che, sempre a Palermo, il rudere della
settecentesca chiesa di Nostra Signora della Misericordia (detta la Savona) si trova in vicolo Sant'Orsola,
proprio di fronte alla chiesa di Sant'Orsola dei Negri. In un altro dipinto di matrice meridionale (a sinistra)
Orsola si comporta apparentemente come la Madonna delle frecce, scacciando col piede un angelo che
reca una coppia di frecce: i dardi andranno forse intesi come simbolo di una punizione divina riservata ai
peccatori? No, essi sono solo il ricordo delle frecce con cui la santa fu martirizzata... Infatti l'altro angelo, a
sinistra, reca la palma che è simbolo della gloria celeste conseguita col martirio, che è appunto raffigurato
più in basso. Però bisogna ammettere che l'effetto dell'immagine è tale che a prima vista facilmente la si
scambia per una raffigurazione di valenza apotropaica! Oggi, al tempo delta musica trap e degli aperitivi,
Orsola è finita un po' nel dimenticatoio (quante ragazze si chiamano ancora così?); ma fino alla prima metà
del Novecento, come dimostra questo santino d'inizio secolo (1915- 1920 circa: a destra), la santa era
percepita, sia nel sentimento popolare sia nella devozione ufficiale, come la misericordiosa protettrice delle
giovani fanciulle. 
Il motiv del manto della misericordia ritorna infine anche in alcune raffigurazioni dell'accoglienza e perdono
del figliol prodigo (che meglio andrebbero però definite come la misericordia del padre del figliol prodigo) in
cui il misericordioso genitore abbraccia il ragazzo pentito accogliendolo appunto, in segno di protezione,
sotto il proprio mantello: in questa casistica ricadono alcune tele di vari autori del Seicento e del
Settecento. La parabola del figliol prodigo (o meglio: del padre misericordioso, come anche è stato
sottolineato nell'enciclica di Giovanni Paolo Il Dives in Misericordia, del 1980) tratta del perdono che Dio
concede ai peccatori pentiti: lo stesso argomento della Madonna della Misericordia. Il testo della parabola,
nel Vangelo di Luca, menziona solo l'atto misericordioso della corsa del padre verso il figlio pentito, il suo
chinarsi su di lui, e il bacio che il ragazzo riceve dal genitore in segno di perdono (come si vede in
quest'opera anonima seicentesca, di scuola romana, tratta da un'incisione di Pietro Testa). «Cum autem
adhuc longe [filius] esset, vidit illum pater ipsius, et misericordia motus est, et accurrens cecidit super
collum eius, et osculatus est eum» (Lc 15:20). La locuzione «misericordia motus est» (si mosse a
compassione), in quanto unica spiegazione eziologica del comportamento del padre fornita dal testo, è,
assieme alla confessione del figlio («Pater, peccavi in caelum, et coram te»: Lc 15:21) il fulcro dottrinale
dell'intera parabola. In questo contesto la presenza del motiv iconografico del mantello di protezione-
accoglienza non dipende dal testo evangelico (Lc 15:11-32), il quale non fa menzione di questo gesto né del
manto, limitandosi a riportare che il padre misericordioso, veduto il figlio da lontano e provandone
compassione, «gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15:20). La trovata dell'accoglimento del
reprobo al di sotto del mantello paterno è dunque da imputarsi verosimilmente agli artisti (o, in via iniziale,
ai committenti) e testimonia della intatta vitalità del sintagma simbolico manto-tegimen. Peraltro non
sembra un caso che tale indumento sia sempre di colore rosso: se la simbologia pare direttamente desunta
da quella del manto-tegimen con cui Maria protegge i fedeli, è possibile però che la colorazione riecheggi
quella del miracoloso mantello che san Martino divise pietosamente col povero, che in effetti è sempre
raffigurato come rosso e che rinvia pur esso, come vedemmo, a un'idea di protezione accordata al
bisognoso (il quale è figura di Cristo, come rivelò il sogno fatto poi dal santo). 

Nei recenti sviluppi dell'iconografia devozionale (non sempre eleganti o corretti dal punto di vista teologico)
la tematica del figliol prodigo si è trasformata nell'immagine di Gesù che abbraccia il peccatore pentito.
L'invocazione che accompagna queste nuove immagini, «Abbracciami, Gesù!», rinvia a quella «Gesù
confido in te» che caratterizza l'iconografia moderna di Gesù come misericordia divina derivata dalla visione
di santa Faustyna Kowalska (V. oltre). Il genitore del Perdono del figliol prodigo già attribuito a Giulio Cesare
Procaccini ma probabilmente da riferire piuttosto al Cerano, accenna a coprire il figlio col lembo di pelliccia
del suo manto, con un moto avvolgente di sapore "cosmico" che amplifica i commossi affetti del
personaggio e ne svela la tradizionale figuralità in rapporto a Dio Padre (e si noti la somiglianza del figlio
con Gesù). Il termine figura (o, in latino, typus), adoperato in particolare nell'esegesi cristiana medievale,
indica un fatto storico che ne preannuncia un altro, in maniera tale che il primo evento può essere
interpretato come prefigurazione del secondo, e, il secondo come adempimento del primo (ad esempio
Isacco come figura di Cristo eucaristico; o Giuditta come figura della Chiesa trionfante sulle eresie).
L'esegesi tipologica (tradotto dal greco significa: interpretazione figurale) si occupa proprio di rintracciare e
analizzare questi collegamenti (o anticipazioni) tra gli eventi e i personaggi dell'AT e quelli del NT. L'uso di
accostare raffigurazioni di episodi significativi dei Vangeli a scene del Vecchio Testamento, spesso per
evidenziarne le analogie (in rapporto alla salvifica azione divina nei confronti dell'uomo), si riscontra già nei
sarcofaghi paleocristiani realizzati a Roma tra il III e il IV secolo. Un esempio è costituito dal cosiddetto
Sarcofago di Giona (secolo Ill d. C.), rinvenuto sotto la basilica costantiniana di San Pietro nel secolo XVI e
oggi conservato nei Musei Vaticani. Le scene della cattura e del rilascio di Giona da parte della balena (Gi 2),
qui visualizzata come un mostro marino, terminanti nell'immagine del profeta che riposa sotto l'effimera
pianta di ricino (Gi 4:6-7) sono contornate da raffigurazioni di scene bibliche dalla chiara valenza
escatologica:
- 1) la risurrezione di Lazzaro;
- 2) Mosè che salva gli Ebrei assetati nel deserto facendo scaturire l'acqua da una roccia
(prefigurazione del salvifico battesimo);
- 3-4) Pietro che viene arrestato e che poi battezza i propri carcerieri Processo e Martiniano, che a
loro volta saranno poi martirizzati (in questo caso la fonte è costituita da testi apocrifi);
- 5) Noè nell'arca.
Si noti che la figura interpreta un testo, a differenza del simbolo, che invece è un essere vivente o un
oggetto concreto che intende essere un'interpretazione di concetti astratti o di fatti naturali e, in generale,
reali (ad esempio il coniglio come simbolo di lussuria, o le frecce di Gesù e di Dio come simbolo di
pestilenza, di guerra o di carestia). Il termine assunse questo significato per la prima volta in Tertulliano
dove indica qualcosa di reale, di storico, che rappresenta qualche altra cosa anch'essa reale e storica. Nasce
così l'interpretazione figurale con cui si interpretarono le storie narrate nell'Antico Testamento come figure,
o profezie reali, del Nuovo: cosi, ad esempio, Mosè era figura Christi, e la liberazione degli ebrei dall'Egitto
era figura della Redenzione, cioè della liberazione dell'umanità dal male. Anche il già citato profeta Giona,
inghiottito dalla balena e poi rigurgitato dopo tre giorni (come si vede in questo dipinto di Pieter Lastman),
era considerato come una figura Christi, in rapporto al triduo pasquale. 

Sant' Agostino ampliò ulteriormente la scala figurale, passando da due gradi (figura e adempimento) a tre:
- 1)l'Antico Testamento è figura profetica della venuta di Cristo;
- 2) questa a sua volta è adempimento di quello;
- 3) si prevede l'attuazione futura di questi avvenimenti come adempimento finale: gli eventi
dell'Antico e del Nuovo Testamento sono promesse di un adempimento che si realizza nella vita
eterna e nel Regno dei Cieli.
Si sviluppò così la dottrina del quadruplice significato della Sacra Scrittura, il cui testo era da interpretare
secondo un senso anagogico (dal greco anagogè, «ascesa»), un senso storico-letterale, un senso figurale e
un senso allegorico-morale: «In tutti i libri sacri bisogna prestare attenzione a ciò che in essi è legato alla
vita eterna [senso anagogico], a ciò che i fatti narrano [senso letterale], a ciò che annuncia avvenimenti
futuri [senso figurale], agli ordini e ai consigli che si possono ricavare circa le nostre azioni [senso morale]»
(Agostino, De Genesi ad litteram, I 1). L'idea venne poi ripresa - con qualche modifica - da Dante Alighieri
nel Convivio. «(...)le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi.
L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì
come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l
manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che
Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio
uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la
sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna
sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si
mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è
qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso
si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture,
ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte
per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le
secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè
sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel
senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può
in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e
libera. Ché avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che
spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua
potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li
altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente
a lo allegorico. È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire al
dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia
sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica, sanza prima venire a la
litterale (Convivio, IT, I, 2-9).
Ma torniamo ora al tema del mantello nel contesto della parabola del padre misericordioso. Questa tela di
Leonello Spada al Louvre (1615 circa) rinvia, sul piano allegorico, esclusivamente ai valori della humilitas del
pentito (nel gesto delle mani incrociate sul petto), della concordia rinata tra padre e figlio e soprattutto
della misericordia del padre, attraverso il gesto dell'accoglimento del peccatore pentito sotto il mantello. 
Il Guercino affronta questa iconografia più volte. Nella versione dipinta per Giovanni Nani (1651)
compaiono il motiv dell'abbraccio fra i due in piedi e non chinati, e il pianto del peccatore. Il servo in
secondo piano ostenta il gesto codificato della contritio (formulato dalle mani con i palmi rivolti verso il
basso e le dita intrecciate). Anche qui il tema del dipinto è il misericordioso perdono concesso al peccatore
che si è pentito, con l'aggiunta di una specifica connotazione sacramentale dovuta all'accenno alla contritio
(uno dei gradini della prassi penitenziale prevista dal sacramento della confessione). Il tema dell'abbraccio
come concordia e protectio caratterizza varie opere antiche, come ad esempio il gruppo dei Tetrarchi, in cui
ciascuno dei due augusti protegge il suo cesare. Il monumento ai Tetrarchi è un doppio gruppo statuario in
porfido rosso egiziano, costituito da quattro figure in altorilievo, collocate all'angolo del tesoro di San
Marco, in piazza San Marco, a Venezia (vi si trova dal 1204, anno in cui fu trasportato lì da Costantinopoli).
La tetrarchia (letteralmente: governo esercitato da quattro persone) fu una forma di governo voluta dall'
imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al 305: dapprima egli nominò nel 285 come caesar (cesare), cioé
come suo vice, Marco Aurelio Valerio Massimiano, che poi nel 286 elevò al rango di augustus (al quale
andavano di diritto gli appellativi di nobilissimus et frater). In tal modo aveva creato una diarchia
(letteralmente: governo esercitato da due persone), una struttura in cui i due imperatori si dividevano su
base geografica il reggimento dell'impero e la difesa delle frontiere. Nel 293 si procedette a un'ulteriore
divisione di funzioni e di territorio, per facilitare le operazioni militari: Massimiano nominò a Mediolanum
come suo cesare per l'Occidente Costanzo Cloro, mentre a Nicomedia Diocleziano nominò Galerio come
suo cesare per l'Oriente. Non è sicuro che il doppio gruppo statuario di Venezia raffiguri effettivamente
Diocleziano e gli altri 3 tetrarchi della prima tetrarchia (293-303): comunque questa identificazione è
tradizionale e generalmente accettata, nonostante qualche interpretazione differente: una, ad esempio, lo
legge in chiave simbolica come l'abbraccio tra la pars Orientis e Occidentis dell'Impero, separate da molte
differenze storiche e culturali. 

In quest'altra versione (riferibile a Bartolomeo Gennari, allievo del Guercino) ritorna, più accentuato, il
motiv dell'abbraccio misericordioso del padre (allusivo all'abbraccio che Dio propone all'uomo e di cui è
forma concreta e storica l'edificio-chiesa che accoglie il fedele), mentre nella figura del figlio è tratteggiato il
pentimento del peccatore attraverso il gesto delle mani imploranti, che rinvia alla contrizione e alla
preghiera. Il servo che solleva la tenda richiama il gesto dell'apertura del mantello di protezione che
accoglie il pentito; già in Piero della Francesca e in Paolo di Visso il motiv della tenda era sostitutivo di
quello del mantello-tegimen. Nella versione Boncompagni-Colonna compare il motiv dell'accoglimento del
peccatore al di sotto del rosso manto aperto del padre misericordioso: è una licenza non casuale, anzi felice
e assai aderente non al testo di Luca (come vedemmo) bensì al suo più profondo significato. Quest allusione
all'iconografia della Madonna della Misericordia va intesa letteralmente come una traduzione visiva della
locuzione «misericordia motus» adoperata dall' Evangelista, significando oltretutto che il padre
misericordioso pone il figlio pentito sotto la protezione del proprio mantello. Anche qui il servo spalanca la
tenda- tegimen che accoglierá il reprobo, allusione alla Chiesa che riammette nell'ecclesia dei fedeli chi si
pente dei propri peccati. Nel Settecento l'iconografia viene perpetuata dagli esempi di Pompeo Batoni
(dipinti attorno al 1770- 1773) e di Benjamin West (1772). Tra il 1765 circa e il 1772, il pittore di Springfield
(Pennsylvania), che prima di trasferirsi in Inghilterra era stato in Italia tra il 1760 e il 1763 toccando Roma
più volte e l'Emilia, dipinse almeno 3 versioni del Perdono del figliol prodigo di cui solo una, la terza in
ordine di tempo, è rintracciata (in collezione privata, firmata e datata 1772), mentre si conosce una stampa
di traduzione in mezzatinta di John Young di un'altra versione che si suppone di poco precedente (1771
circa). Nelle due opere compare il misericordioso gesto del mantello che accoglie il pentito. West potrebbe
averlo desunto forse da un'esemplare italiano veduto nella penisola.

Dunque qual è stata la sorte dell'immagine della Misericordia nella tradizione figurativa della Chiesa
cattolica dopo la «disattivazione» dell'iconografia della Madonna della Misericordia? Una potente spinta
alla creazione di una nuova devozione (a Gesù misericordioso in quanto Misericordia Divina) e quindi di una
nuova iconografia si deve all'azione di Maria Faustyna Kowalska (al secolo Helena Kowalska: 1905-1938),
della congregazione delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia, che nel 2000 è stata
canonizzata da Giovanni Paolo II come Apostola della Divina Misericordia. Durante i brevi anni della sua
vita, la Santa redasse un diario che contiene la cronaca delle sue numerose esperienze mistiche, in
particolare il suo continuo dialogo con Cristo, che si rivolgeva a lei con l'appellativo di Segretaria della
Divina Misericordia. La devozione alla Divina Misericordia si fonda su un preciso documento: una pagina del
Diario in cui suor Faustyna descrive la visione che ebbe il 22 febbraio 1931: «La sera, stando nella mia cella,
vidi il Signore Gesù vestito di una veste bianca: una mano alzata per benedire, mentre l'altra toccava sul
petto la veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso l'uno e l'altro pallido. (...)
Gesù mi disse: Dipingi un'immagine secondo il modello che vedi, con sotto la scritta: Gesù confido in Te!
Desidero che quest'immagine venga venerata (...) nel mondo intero. Prometto che l'anima che venererà
quest'immagine non perirà. (...) Voglio che l'immagine (...) venga solennemente benedetta nella prima
domenica dopo Pasqua: questa domenica deve essere la Festa della Misericordia» (Diario, cit., pp. 74-75). In
una pagina del suo diario Faustyna Kowalska, riferendosi alla profezia dei tre giorni di buio, che a quel
tempo circolava (v. sotto), raccontò che Gesù le disse: «Scrivi questo: prima di venire come Giudice giusto,
vengo come Re di Misericordia. Prima che giunga il giorno della giustizia, sarà dato agli uomini questo segno
in cielo: si spegnerà ogni luce in cielo e ci sarà una grande oscurità su tutta la terra. Allora apparirà in cielo il
segno della Croce e dai fori, dove furono inchiodati i piedi e le mani del Salvatore, usciranno grandi luci che
per qualche tempo illumineranno la terra. Ciò avverrà poco tempo prima dell'ultimo giorno» (Diario, ed.
2010, p. 101). 

La profezia dei 3 giorni di buio: «Dio manderà due castighi: uno sarà sotto forma di guerre, rivoluzioni e altri
mali; avrà origine sulla terra. L'altro sarà mandato dal Cielo. Verrà sopra la terra l'oscurità immensa che
durerà tre giorni e tre notti. Nulla sarà visibile e l'aria sarà nociva e pestilenziale e recherà danno, sebbene
non esclusivamente ai nemici della Religione. Durante questi tre giorni la luce artificiale sarà impossibile;
arderanno soltanto le candele benedette. Durante tali giorni di sgomento, i fedeli dovranno rimanere nelle
loro case a recitare il Rosario e a chiedere Misericordia a Dio. ( ..) Tutti i nemici della Chiesa (visibili e
sconosciuti) periranno sulla Terra durante questa oscurità universale, eccettuati soltanto quei pochi che si
convertiranno. (...) L'aria sarà infestata da demoni che appariranno sotto ogni specie di orribili forme. (...)
Dopo i tre giorni di buio, san Pietro e san Paolo (...) designeranno un nuovo papa. (...) Allora il Cristianesimo
si diffonderà in tutto il mondo» (S. Mancinelli, Vita e profezie della beata Anna Maria Taigi, 2016)

Le parole che suor Faustyna riferiva di aver sentito da Cristo dimostrano l'importanza che le immagini
posseggono per la Chiesa cattolica: esse hanno un'importanza catechetica primaria e intorno ad esse
ruotano la devozione popolare e la liturgia. A questo punto dunque, per dare avvio alla devozione alla
Divina Misericordia, era necessario realizzare l'immagine richiesta da Gesù stesso per diffonderla nelle
chiese, negli istituti di perfezione e nei centri di spiritualità. Il confessore e direttore spirituale di suor
Faustina, don Michal Sopòcko, suggerì di affidare l'incarico al pittore Eugeniusz Kazimirowski (suo
coinquilino a Vilnius, in Lituania: a lato un'immagine della casa), che dipinse l'opera in sei mesi, tra gennaio
e giugno del 1934, sotto la guida attentissima di Sopòcko e soprattutto di Faustyna, che ogni due settimane
si recava a controllare il lavoro per adattarlo perfettamente alla visione avuta. Nel dipinto di Kazimirowski
Gesù, raffigurato vestito di una tunica bianca contornata di luce, contro uno sfondo nero, benedice con la
mano destra, mentre dal suo cuore fuoriescono due raggi. A quanto scrive la stessa Faustina, Gesù le spiegò
che «il raggio chiaro rappresenta l'acqua che giustifica le anime; il raggio rosso rappresenta il sangue che è
la vita delle anime. Entrambi i raggi uscirono dall'intimo della mia misericordia, quando il mio agonizzante
cuore venne aperto con la lancia sulla croce. Tali raggi riparano le anime dallo sdegno del Padre Mio. Beato
colui che vivrà alla loro ombra, poiché non lo colpirà la giusta mano di Dio. (...) Prometto che l'anima, che
venererà quest'immagine, non perirà. Prometto pure già su questa terra, ma in particolare nell'ora della
morte, la vittoria sui nemici. Io stesso la difenderò come Mia propria gloria. (...) Io desidero che la prima
domenica dopo Pasqua sia la festa della Divina Misericordia, (...) L'anima che quel giorno si accosta alla
confessione ed alla Santa Comunione riceve il perdono totale delle colpe e delle pene. (...) L'umanità non
troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Divina Misericordia. (...) Prima di venire come Giudice
giusto, vengo come Re di Misericordia, affinché nessuno possa giustificarsi nel giorno del giudizio, che non è
così lontano» (Diario, cit., p. 299). Riguardo alla scritta da porre sul dipinto, il pittore chiese spiegazioni a
Faustyna, che raccontò poi nel Diario: «Una volta il confessore (don Sopocko) mi chiese come doveva
essere collocata la scritta, dato che non c'era posto sull'immagine. Risposi che avrei pregato ed avrei dato
una risposta la settimana seguente. Mentre mi allontanavo dal confessionale, passando accanto al SS.mo
Sacramento, mi fu fatto capire interiormente come doveva essere quella scritta. Gesù mi ricordò quello che
mi aveva detto la prima volta e cioè che queste tre parole dovevano essere messe in evidenza. Le parole
sono queste: Jezu, ufam tobie (Gesù, confido in te). (...) Porgo agli uomini il recipiente col quale debbono
venire ad attingere le grazie alla sorgente della Misericordia. Il recipiente è quest'immagine con la scritta:
Gesù confido in te» (Diario, cit., p. 327). Nella spiegazione fornita da Gesù a Faustyna si riassumono tutte le
tematiche finora affrontate, partendo dalla protezione accordata dalla Divina Misericordia ai fedeli contro
la punizione da parte della «giusta mano di Dio» per i peccati commessi, sino alla tematica escatologica
relativa al Giudizio finale. Colpisce l'assenza totale della figura di Maria, che in un certo senso parrebbe
quasi destituita dal suo ruolo salvifico di intermediatrice. In questa nuova, moderna devozione siamo noi i
diretti interlocutori di Gesù, ed è Gesù a operare direttamente la grazia della misericordia nei nostri
confronti. In effetti Faustyna riferiva che Gesù le aveva detto: «Attraverso questa immagine concederò
molte grazie, perciò ogni anima deve poter accedere ad essa» (Diario, cit., p. 570).

La devozione avviata da santa Faustyna, completa di testo-fonte e di immagine-rappresentazione,


sostituisce completamente la tradizione precedente, riallacciandosi peraltro velatamente alla devozione
tardo-settecentesca al Sacro Cuore di Gesù. La devozione tardo-settecentesca al Sacro Cuore di Gesù è un
culto di latrìa (adorazione) che si rifaceva ai testi delle mistiche tedesche del tardo medioevo (Matilde di
Magdeburgo, Matilde di Hackeborn e Gertrude di Helfta, vissute tra i secoli XIII e XIV), agli scritti di Giovanni
Eudes (1601- 1680) e alle rivelazioni private di Margherita Maria Alacoque, diffuse dai gesuiti, tra cui Claude
de la Colombière (1641-1682). Il fulcro di questa devozione, talora tacciata di idolatria (dai giansenisti) o di
sentimentalismo, risiede nella dottrina dell'Incarnazione: riassumeva la questione Pio XII nell'enciclica
Haurietis aquas, del 15 maggio 1956, dedicata proprio a questa devozione. «(...) occorre tener ben presente
il motivo del culto di latria che la Chiesa tributa al Cuore del Redentore divino. Orbene (...), tale motivo è
duplice. L'uno, che è comune anche alle altre sacrosante membra del corpo di Gesù Cristo, è costituito dal
fatto che il suo Cuore, essendo una parte nobilissima dell'umana natura, è unito ipostaticamente alla
Persona del Verbo di Dio; pertanto, esso è meritevole dell'unico e identico culto di adorazione con cui la
Chiesa onora la Persona dello stesso Figlio di Dio Incarnato. Si tratta di una verità di fede cattolica, essendo
stata solennemente definita nei Concili Ecumenici di Efeso e II di Costantinopoli. L'altro motivo, che
appartiene in modo speciale al Cuore del Divin Redentore, e che perciò conferisce al medesimo un titolo
tutto proprio a ricevere il culto di latria, risulta dal fatto che il suo Cuore, più di ogni altro membro del suo
corpo, è l'indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità per il genere umano». 

Nel dipinto di Pompeo Batoni della Chiesa del Gesù a Roma (1767), che funse da prototipo iconografico,
Gesù ci offre misericordiosamente il proprio cuore incoronato di spine, sovrastato dalla croce e ferito dalla
lancia a testimonianza del suo gesto d'amore: il sacrificio del Cristo Dio per la salvezza dell'uomo; le fiamme
che avvolgono il cuore testimoniano I'ardore misericordioso che Cristo prova per i peccatori. L'iconografia
illustra del resto la prima visione di suor Margherita Maria Alacoque (1647-1690), avvenuta nel 1673 nel
monastero di Paray-Le-Monial, nel giorno della festa di San Giovanni Evangelista, mentre la santa si trovava
davanti al Santissimo Sacramento: «Il Divino Cuore mi fu presentato come in un trono di fiamme, più
sfolgorante di un sole e trasparente come un cristallo, con la piaga adorabile; esso era circondato da una
corona di spine e sormontato da una Croce». Gesù stesso spiegò alla santa: «ll mio Divino Cuore è tanto
appassionato d'amore per gli uomini e per te in particolare, che, non potendo più contenere in se stesso le
fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle per mezzo tuo e di manifestarsi agli uomini
per arricchirli dei preziosi tesori (...). Per portare a compimento questo mio disegno ho scelto te, abisso
d'indegnità e di ignoranza, affinché appaia chiaro che tutto si compie per mezzo mio».

Tornando alla Divina Misericordia di suor Faustyna, dopo la realizzazione del dipinto si verificò uno stallo
nella diffusione del culto, a causa della particolare novità dell'iconografia. Come racconta infatti don Michal
Sopocko nei suoi Ricordi, «Questa immagine era un po' innovatrice, riguardo al contenuto, perciò non
potevo appenderla in chiesa senza il permesso dell'Arcivescovo e mi vergognavo a chiederglielo, e ancor di
più a raccontargli qual era la provenienza di questo quadro. Per questo lo collocai al buio, in un corridoio,
accanto alla chiesa di San Michele (nel convento delle Suore Bernardine), di cui ero rettore. Suor Faustyna
mi preannunciò le difficoltà collegate alla permanenza presso questa chiesa, e in effetti, gli eventi
straordinari si susseguirono abbastanza velocemente. Suor Faustina chiese che l'immagine fosse a ogni
costo collocata in una chiesa, e io invece non ebbi fretta. Alla fine, la Settimana Santa del 1935 suor
Faustyna dichiarò che il Signore Gesù mi chiedeva di collocare questa immagine per tre giorni a Austras
Vartu, per il triduo previsto per la chiusura del giubileo della Redenzione che si sarebbe tenuto il giorno
della futura festa, la Domenica in Albis. Ben presto seppi che il triduo era veramente in preparazione e il
parroco di Astrau Vartu (...) mi chiese di dire l'omelia. Accettai a patto che la finestra del colonnato fosse
decorata da quel quadro. In quel posto l'immagine aveva un aspetto imponente attirando l'attenzione dei
passanti più dell'immagine della Madonna». Le traversie del dipinto non erano però ancora terminate,
come racconta ancora Sopocko nei suoi Ricordi: «Dopo la solennità l'immagine fu rimessa al solito posto
nascosto e vi rimase per altri due anni. Soltanto il 1° aprile 1937 chiesi a Sua Eccellenza Arcivescovo
Metropolita di Vilnius il permesso di appendere l'immagine nella chiesa di San Michele, di cui all'epoca ero
rettore. Sua Eccellenza (...) rispose di non voler decidere da solo. Sottopose l'immagine a una commissione
organizzata da don Adam Sawicki, canonico, cancelliere della curia Metropolitana, che ordinò di esporre il
quadro nella sacrestia di San Michele il 2 aprile. Non sapendo a che ora ci sarebbe stato l'esame della
commissione ed essendo impegnato al lavoro nel Seminario e all'Università, non fui presente quando la
commissione esaminò l'immagine e non so quali persone ne fecero parte. Il 3 aprile 1937 Sua Eccellenza (...)
mi informò di avere già delle informazioni dettagliate riguardo all'immagine e diede il suo permesso di
benedirla e appenderla nella chiesa, con l'unica riserva di non collocarla nell'altare e di non dire quale fosse
la sua provenienza». Nel 1948, dopo la chiusura della chiesa San Michele da parte delle autorità comuniste,
il dipinto fu depositato nella chiesa dello Spirito Santo ma il parroco, don Jan Ellert, non volle tenere lì il
quadro. A questo punto l'opera fu portata da don Jozef Grasewicz, amico di don Sopocko, nella parrocchia
di Nowa Ruda, l'immagine rimase per quarant'anni. Nel 1982 il quadro fu riportato a Vilnius e nel 1986
venne restaurato con ritocchi assai invasivi: il volto di Gesù venne modificato, l'iscrizione venne dipinta
direttamente sulla tela e fu inserita in alto un'aggiunta ovale per adattare la tela all'altare. Nel 1987
l'immagine fu posta, senza troppo clamore né troppa attenzione, nell'altare laterale della chiesa dello
Spirito Santo. Solo nel 2003 un attento restauro ha cercato di ripristinare l'aspetto originario del dipinto,
che nel 2005 fu definitivamente collocato nel Santuario della Divina Misericordia a Vilnius, rispettando il
volere di don Sopocko. 

Nel frattempo però era stata realizzata un'altra immagine di Gesù Divina Misericordia. Dopo la morte di
suor Faustyna, nel 1943, il pittore Adolf Hyla chiese alle suore di poter dipingere, sotto la direzione di don
Józet Andrasz (l'ultimo confessore di Faustyna), una nuova versione di questa iconografia per offrirla come
ex voto. Ottenuto il consenso, gli fu concesso di ispirarsi alla prima versione e di leggere direttamente la
descrizione della visione contenuta nel Diario. Nel 1944 questa nuova immagine fu benedetta e fu collocata
nel santuario della Divina Misericordia di Cracovia. Nel 1954, per volere di don Sopocko, fu apportata una
modifica alla colorazione dello sfondo del quadro, che divenne più scuro, mentre ai piedi di Cristo fu dipinto
un pavimento. È interessante notare che Hyla dipinse poi anche un Gesù che mostra ai fedeli il Sacro Cuore,
a dimostrazione dello stretto rapporto che sembra esistere fra le due iconografie come icone di
protezione. Poiché la prima versione dell'immagine era confinata in una zona poco accessibile, a diffondersi
in tutto il mondo fu la versione di Hyla, che suor Faustyna non ebbe modo di vedere e soprattutto di
approvare. Alla devozione a Gesù come Divina Misericordia papa Giovanni Paolo II dedicò la sua seconda
enciclica, pubblicata il 30 novembre 1980: Dives in Misericordia (qui a lato). «Dio ricco di misericordia» (Ef
2:4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e
fatto conoscere (G 1:18; Eb 1:1). Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici
apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù cosi gli rispose: «Da
tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto..? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14:8).
Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui
seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto
che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i
peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo» (Ef 2:4). (...) In Cristo e mediante Cristo, diventa (...) particolarmente
visibile Dio nella sua misericordia, cioé si mette in risalto quell'attributo della divinità che già l'Antico
Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito «misericordia». Cristo conferisce a tutta Ia
tradizione vetero- testamentaria della misericordia divina un significato definitivo. Non soltanto parla di
essa o la spiega con l'uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifica.
Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi la vede in lui- e in lui la trova- Dio diventa
particolarmente «visibile» quale Padre «ricco di misericordia» (Ef 2:4). 

Quasi venti anni dopo, il 30 aprile 2000, il pontefice polacco proclamò santa suor Faustyna, stabilendo
inoltre per la prima volta la Festa della Misericordia, da celebrarsi ogni anno nella prima domenica dopo
Pasqua (a lato l'avviso pubblico della canonizzazione). Con questo evento si chiude, ma solo per rinnovarsi,
la storia dell'iconografia della Vergine come Mater Misericordiae e del suo mantello della misericordia. 

Le ultime, rare raffigurazioni della Vergine Mater Misericordiae nell'arte italiana hanno il sapore di
volenterosi - e anche arditi- ripescaggi archeologici e posseggono, inevitabilmente, un'avvertibile
declinazione socio-politica e un piglio talora impegnato sul piano ideologico: elementi che fanno virare
l'antico significato teologico sul campo della dottrina sociale della Chiesa e che d'altro canto risentono dello
sfaldamento di quel tessuto connettivo umano che di fatto aveva creato l'iconografia all'origine, nel declino
degli ordini monastici e delle confraternite dei laici. Nel 2005 Trento Longaretti, recentemente scomparso,
raccolse sotto il manto di Maria non un drappello di confratelli impauriti da una pestilenza o colti da timor
di Dio per i peccati commessi, bensì un piccolo e variopinto gruppo di umili innocenti (un infante con la
mamma, un mendicante con un bimbo, uno scolaretto, un violinista, il pittore stesso). Non c'è alcun
Christus iratus, non ci sono frecce e mancano dettagli che possano fornire uno spessore mariologico alla
scena: ma l'atto rassicurante della Madre e la vivacità con cui l'opera traspone il sacro in un linguaggio
volutamente adatto ai bambini non sono cose da poco, e sono rare da trovare, oggi, sugli altari. 

Di tutt'altra pasta è l'opera che il Collettivo FX, una sodalitas di street artists operante a Bologna, ha lasciato
a Tunisi qualche anno fa: un dipinto murale che dichiaratamente rivisita la statua della Madonna giunta ivi
da Trapani nel 1917. Come spiega il Collettivo, nell'opera «le persone sono insieme sotto la protezione della
Madonna e le stesse persone sono separate sotto forma di documento d'identità, il massimo simbolo dei
confini. Una Madonna arrivata qui da immigrata ma non come immigrata, per proteggere l'uomo dal Mare,
ora ci si rivolge a Lei per proteggere l'uomo dall'uomo» (https://www.centropagina.it/cultura/la- madonna-
delladesso-del-collettivo-fx-fabriano/). La collocazione in un paese islamico (ma l'islam tiene comunque
Maria, Maryam, in alta considerazione: cfr. L. BRESSAN, Devozione dei musulmani a Maria. Storia degli
studi sulla mariologia islamica, in Maria nella devozione e nella pittura dell'islam, a cura di L. Bressan,
Milano 2011, pp. 21-33); la destinazione pubblica come murale; la natura della protezione fornita dalla
Vergine (contro l'emarginazione, la povertà e anche il razzismo): la serie di decontestualizzazioni e di nuove
contestualizzazioni subite dall'immagine della Mater Misericordiae conferisce all'esemplare tunisino una
caratura vagamente aggressiva, che trasforma Maria in una pasionaria che guarda davanti a sé con aria di
sfida. Mariologi, al lavoro!

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