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PIERPAOLO PASOLINI 

Oggi Pasolini gode di un'enorme fortuna, molto più di quando era in vita nel senso che Pasolini ha vissuto
sempre nel ruolo dell’intellettuale contrario/critico nei confronti del potere quindi non ha mai goduto di
questo unanime consenso da parte di tutte le istituzioni e di tutta l’opinione pubblica anzi è stato visto
come un personaggio scomodo ed è stato anche avversato dalle istituzioni infatti ha subito 23 processi per
la sua opera che è stata ritenuta scandalosa e contraria alla morale corrente. A partire da “Ragazzi di vita” i
processi a cui sono sono state sottoposte le sue opere sono infiniti ed è stato avversato sia da un punto di
vista politico che culturale quindi c’è una non corrispondenza tra la sua presenza culturale e l’accettazione
del suo modo di vedere e questo secondo molti ha a che fare con il fatto che Pasolini in qualche modo era
profetico ossia è stato un intellettuale che ha portato avanti delle posizioni,idee e una visione del mondo
che in qualche modo era tempestiva/anticipatoria rispetto ai fatti ad esempio Pasolini già alla fine degli anni
50/inizi anni 60. in pieno miracolo economico, è stato l’unico o quasi a capire che tutto questo sviluppo
economico e consumistico poteva essere pericoloso in quanto poteva innescare una spirale in cui il
consumismo poteva diventare in qualche modo corruttivo nei confronti degli esseri umani, della vita sociale
e delle culture popolari.  Quindi questi anni della modernizzazione vengono presi un po’ di mira da Pasolini
che vede dietro questi processi un elemento che poi chiamerà “il rischio dell’omologazione” dove per
omologazione Pasolini intende la cancellazione delle culture popolari ossia nel momento in cui a partire
dagli anni 50 il popolo comincia a partecipare a questa vita del consumo e della modernizzazione in qualche
modo da una parte c’è un guadagno legato alla vita concreta ma dall’altra parte c’è anche una perdita
molto più grave legata a quelle culture popolari che infatti negli anni 50 iniziano un po’ a perdersi e che poi
negli anni seguenti saranno destinate sempre più a scomparire. Tutto questo processo di modernizzazione
della società italiana ma anche di tutto il mondo occidentale di quei decenni Pasolini lo vive con grande
partecipazione e con grande senso di allarme nel senso che Pasolini è stato appunto l’intellettuale che più
di ogni altro ha visto il pericolo di questa modernizzazione e dunque non sempre la sua voce è stata gradita
pertanto, nonostante fosse un intellettuale noto e avesse anche molti sostenitori, fu comunque un
intellettuale scomodo e in questo senso è un personaggio controverso. Pasolini muore il 2 novembre del
1975 all’idroscalo di Ostia dove viene ritrovato la mattina all’alba e scambiato per un sacco di rifiuti ma in
verità è stato ucciso e calpestato da una macchina che gli è passata sopra quindi un omicidio efferato e
quello che è rilevante è che l’omicidio di Pasolini è stato letto in tutti questi anni come un omicidio politico
in quanto Pasolini in quel momento era un intellettuale scomodo non solo perché denunciava il potere/il
capitalismo ma scriveva anche degli editoriali molto forti sul “Corriere della Sera” che era in quegli anni il
quotidiano più letto quindi era una oppositore vero e quelli erano anni di anche di grandi scontri politici e a
questo si aggiunge il fatto che Pasolini stava scrivendo un romanzo che sarà il suo ultimo romanzo a che
uscirà postumo soltanto nel 1992 e che si intitola “Petrolio” Che Pasolini ha iniziato a scrivere diversi anni
prima e che quando lui muore rimane allo stato incompiuto e al centro di questo romanzo c’è una vicenda
politica molto complessa che riguarda l’Eni ossia la società dell’idrocarburo italiano e in particolare
l’omicidio di Enrico Mattei il quale era ,nei primi anni 70, il presidente dell’Eni e aveva iniziato a mettere in
campo una politica energetica che in qualche modo era sgradita agli interessi economici americani quindi
Enrico Mattei viene ucciso e questo omicidio cambia un po’ il corso della storia di questa politica energetica
italiana in particolare Pasolini in “Petrolio” comincia a indagare su questo omicidio di Enrico Mattei
pertanto molti interpreti/studiosi hanno collegato l’omicidio di Pasolini proprio alla pericolosità degli
argomenti che venivano trattati in “Petrolio” inoltre ci sono certe pagine del romanzo ,in cui Pasolini
sembrava che volesse parlare della vicenda di Enrico Mattei, che sono scomparse e da qui il sospetto che è
stato coltivato per molti anni è che il suo omicidio sia legato in particolare a questa vicenda che è una
vicenda che chiamò in causa i servizi segreti italiani americani, la mafia e tutta una serie di soggetti
ampiamente pericolosi. L’omicidio di Pasolini è stato anche un grandissimo caso giudiziario   in Italia con
varie fasi di giudizio negli anni successivi e alla fine è stato accusato/condannato soltanto un ragazzo che
all’epoca dell’omicidio aveva solo 15 anni e che si chiamava Pino Pelosi ed era un ragazzo con cui Pasolini
quella sera si era appartato in questo luogo e dunque la sentenza in qualche modo dichiara che quello di
Pasolini è stato un omicidio privato ossia che questo ragazzo di 15 anni l’ha ucciso per motivi legati a
vicende erotiche. Naturalmente questa tesi non ha mai convinto nessuno perché si trattava di un ragazzino
così le giovane che non avrebbe mai potuto fare da solo questo massacro e poi c’erano una serie di
vicende/prove che facevano pensare che sicuramente c’erano state altre persone sulla scena del delitto
quindi sicuramente l’omicidio di Pasolini è uno di quei grandi misteri italiani che in qualche modo sono
rimasti inconclusi in quanto ad oggi la sentenza è definitiva, Pino pelosi nel frattempo è morto e quindi
diciamo che la verità è molto difficile che si venga a sapere dopo tanti anni. Fatto sta che Pasolini viene
ucciso in un momento in cui il suo scontro con il potere costituito è massimo e dunque in qualche modo il
suo è comunque un omicidio politico. Pasolini oltre ad essere un personaggio pubblico è stato anche un
grandissimo scrittore,poeta,letterato,regista quindi Pasolini è essenzialmente un’espressione di uno spirito
artistico-letterario e quindi quello di Pasolini è un caso strano in quanto tutti parlano del personaggio ma
poi in verità pochi leggono quello che lui ha scritto peraltro Pasolini è stato un letterato molto prolifico/ha
scritto tantissimo anche perchè Pasolini aveva una capacità spaventosa di lavorare contemporaneamente a
una serie di opere anche di diverso genere e quindi la sua produzione letteraria e non solo è ricchissima e in
più c’è questo aspetto del Pasolini poligrafo ossia un Pasolini che si dedica a diversi tipi di scritture in
quanto Pasolini scrive romanzi,racconti,poesie,testi di critica letteraria,articoli di costume o politica sui
giornali, tragedie quindi anche autore teatrale, sceneggiature, documentari ed è anche regista quindi
sceneggiatore ma anche autore di film ed è anche uno straordinario pittore. I Luoghi di vita di Pasolini
sono: Bologna ,Casarsa, Roma, “Terzo mondo” che è un termine superato che si usava negli anni 70 per
indicare i paesi che all’epoca si chiamavano “in via di sviluppo” quindi paesi dell’Africa e dell’Asia e in
particolare c’è un paese a cui Pasolini è molto legato che è l’India dove fece il suo primo grande viaggio
intercontinentale e all’India è dedicata un’opera che è una specie di memoria di questo viaggio che si
chiama “l’odore dell’india”. Pasolini a partire dalla metà degli anni 60 inizia a fare questi viaggi in India e in
vari paesi dell’Africa e si innamora di questi luoghi perché li considera un po’ come considerava la periferia
romana degli anni 50 ossia dei luoghi ancora integri dove è ancora possibile conoscere delle persone non
corrotte dal capitalismo e questa è un po l’idea che Pasolini ha dei paesi in via di sviluppo ai quali dedica
anche film/opere e poi ci sono Sabaudia e Chia che sono 2 luoghi di vacanza in particolare Chia è un paese
dell’Umbria dove Pasolini negli ultimi anni della sua vita compra una torre medievale. Pasolini nasce a
Bologna il 5 Marzo del 1922 da una famiglia borghese benestante, suo padre è un ufficiale quindi trascorre
lunghi periodi  lontano da casa e soprattutto nel periodo della  seconda guerra mondiale sarà assente in
quanto sarà in guerra e fatto prigioniero in Africa quindi c’è un lungo periodo nella vita del giovane Pasolini
in cui questo padre è assente mentre la madre ,che si chiama Susanna Colussi,  è una presenza molto
importante nella vita ma anche nell’opera di Pasolini in quanto Pasolini ha un legame fortissimo con la
madre che è una maestra, persona di grande sensibilità e colta ed è così che la rappresenta lo stesso
Pasolini mentre il padre è una persona con cui lui avrà molti conflitti/un rapporto doloroso/conflittuale
anche perché Pasolini lo accusa già in quegli anni di essere fascista quindi diciamo c’è uno scontro
ideologico perenne tra loro, della famiglia fa parte anche il fratello minore di Pasolini che si chiama Guido
e nasce nel 1925 quindi 3 anni dopo Pierpaolo e anche Guido è un personaggio importante nella biografia
di Pasolini perché Guido viene ucciso facendo il partigiano e questo farà sì, insieme ad altre cose, che
Pasolini rimanga molto legato al mito della guerra partigiana ed è un motivo di avvicinamento al marxismo
e alla sottolineatura della resistenza e dei valori della resistenza che sono quelli per i quali suo fratello è
morto. Pasolini nasce a Bologna ma già quando è bambino la famiglia inizia a spostarsi per diverse città
dell’Emilia Romagna perché il padre è militare quindi ci sono dei frequenti spostamenti  e invece la famiglia
ritorna in maniera più stabile a Bologna quando lui ha 14 anni e quindi Bologna è la città in cui lui frequenta
il liceo e l’università quindi possiamo dire che Bologna è il luogo della formazione, Pasolini frequenta il
liceo classico Galvani e poi nel 1939 si iscrive alla facoltà di lettere dove si laureerà qualche anno più tardi
facendo una tesi di storia dell’arte in particolare su Masaccio e gli studi artistici furono molto importanti
per Pasolini : Pasolini all’università segue le lezioni di Longhi che è un grandissimo storico dell’arte e queste
lezioni di Longhi resteranno come una specie di bagaglio culturale/ di immaginazione in Pasolini e gli
daranno una grande sensibilità artistica a questo si evince anche dal fatto che Pasolini scrittore è comunque
sempre attentissimo all’aspetto dell’immagine/cromatico, a come cambia la luce, ai colori ,alle sfumature
quindi c’è sempre una dimensione artistica nella sua opera. Negli anni di università comincia ad
appassionarsi alla letteratura e in particolare alla letteratura contemporanea, legge molti poeti soprattutto
Rimbaud e inizia già negli anni di università a fondare una piccola rivista che si chiama “Eredi” che è una
rivista che vuole lavorare sull’eredità culturale e vuole in qualche modo modernizzare la tradizione in
quanto Pasolini avrà sempre un po’ questa idea che la grande tradizione letteraria italiana non deve essere
cancellata ma deve essere portata nel 900 e rinnovata. La famiglia di Pasolini trascorre le vacanze a Casarsa
che è un paesino del Friuli a quel tempo molto piccolo/di contadini ed è il paese della madre, Pasolini è
molto legato a questo luogo dove a partire dal 1942 la famiglia si trasferisce più o meno definitivamente
per sfuggire alla guerra in particolare Casarsa è un luogo importantissimo per Pasolini perché rappresenta il
primo margine e ciò che è marginale e decentrato per Pasolini coincide con quello che ha valore quindi  il
concetto di margine per Pasolini non è legato al disvalore ma al valore dunque questo paese nel Friuli
abitato da contadini per Pasolini diventa un luogo mitico in cui sono presenti i veri valori umani. In Friuli
Pasolini inizia a fare un lavoro culturale molto importante ad esempio inizia ad insegnare ai figli dei
contadini fondando una scuola privata che vuole accogliere tutti quei ragazzini che lavorano nei campi e
che non hanno modo di fare uno studio regolare/andare alla scuola pubblica e lui fonda questa piccola
scuola/doposcuola due accoglie questi  figli dei contadini della zona e non solo di casarsa mettendo in
opera una pedagogia molto innovativa di insegnamento ossia non di tipo scolastico ma molto vissuta,
legata all’arte/all’espressione inoltre a Casarsa scrive il suo primo libro nel 1942 che si chiama “Poesie a
Casarsa” che è una raccolta di poesie scritte in dialetto friulano. Pasolini non conosceva il friuliano nel
senso che era la lingua della madre ma affascinato da questo mondo marginale in qualche modo lo impara
e scrive un libro di poesie che all’epoca viene pubblicato da un piccolo editore ma ha un grande successo di
critica perché viene notato e recensito da un grandissimo filologo che si chiama Gianfranco Contini. La cosa
strana è che Pasolini scrive un libro in dialetto in anni in cui il dialetto è vietato in quanto siamo negli anni
del regime fascista e il fascismo ha una politica culturale che è assolutamente ostile ai dialetti infatti una
delle operazioni culturali del fascismo fu quella della italianizzazione linguistica quindi il dialetto era
completamente censurato/non si potevano scrivere dei libri in dialetto quindi quel libro di Pasolini era in
qualche modo già fin dall’origine contro il potere tuttavia fu molto apprezzato inoltre è un libro che pur
essendo scritto in dialetto riproduce certe tendenze tipiche della poesia ermetica quindi un libro molto
moderno ma che allo stesso tempo rielabora la tradizione. Dopo “Poesie a Casarsa” Pasolini rimane ancora
in Friuli e rimarrà in Friuli per tutti gli anni 40 e quindi Casarsa diventa il luogo in cui scrive i suoi libri
successivi fino all’inizio degli anni 50 tra l’altro fonda anche una rivista che si chiama “stroligut de lengua
furlana”  che è una rivista tutta dedicata alla lingua  friulana e addirittura Pasolini aderisce a un movimento
autonomista friulano ma essenzialmente perché è innamorato di questo dialetto infatti il dialetto in cui
scrive “poesia a casarsa” è un dialetto secondario cioè parlato appunto da pochi contadini e un dialetto che
non ha una dignità letteraria in quanto mai nessuna opera è stata scritta in questo dialetto e questo ci fa
capire quanto per Pasolini siano importanti le lingue e dialetti. In particolare Pasolini ama così tanto i
dialetti perché nei dialetti si manifesta lo spirito popolare/l’elemento dell’oralità/il parlato. Pasolini non è
l’intellettuale puro separato dalla massa, dal popolo, dalla vita ma è proprio un intellettuale che ama vivere
tra la gente quindi lui ha proprio uno spirito di vita che è estremamente appassionato/socievole e quindi il
dialetto per lui rappresenta la lingua viva dell’epoca ed è per questo che in qualunque luogo in cui si trova a
vivere sottolinea sempre questo elemento dialettale. Nel 1945, quindi proprio alla fine della seconda guerra
mondiale, succede un episodio che segnerà la sua vita futura e cioè viene ucciso il fratello Guido durante
un’azione dei partigiani in particolare il fratello viene ucciso dai partigiani jugoslavi di Tito quindi da
partigiani comunisti probabilmente per errore perché lui era partigiano nelle Brigate bianche cioè quelle del
Partito d’Azione e questo rende ancora più doloroso questa vicenda e crea in Pasolini un grande senso di
colpa perché il fratello che era più giovane di lui aveva avuto il coraggio di andare a combattere per la
libertà mentre lui no infatti dirà in un’intervista “io sono stato un partigiano della poesia/io ho combattuto
con la poesia” e questa è un po’ la sua idea cioè che si può essere partigiani o con le armi o con le parole e
lui sceglie la via delle parole, ciò però non gli impedisce di vivere un grande senso di colpa dopo la morte
del fratello. Negli anni friuliani scrive anche altre opere tra cui 2 racconti lunghi/ romanzi brevi che si
chiamano “Atti Impuri” e “Amado Mio”  Che sono usciti postumi anche se sono stati scritti negli anni
friulani e questo perché Pasolini racconta delle storie omosessuali e l’omosessualità di Pasolini si manifesta
in questi anni ma si manifesta in maniera segreta e dunque questo è il motivo per cui questi 2 opere, che
sono di grandissimo valore, non vengono pubblicate. Scrive in questo periodo anche un altro romanzo che
si chiama “il sogno di una Cosa” del 1948 che è un romanzo che racconta una storia politica ossia racconta
l’occupazione delle terre da parte dei braccianti friulani e “il sogno di una cosa” è un’espressione di marx
per indicare l’utopia del comunismo infatti in questi anni Pasolini diventa marxista ma lui sottolineerà
spesso questo elemento del suo essere marxista e comunista non per motivi ideologici ma per motivi
umani cioè lui dice io non sono comunista perché ho letto Marx ma perché ho conosciuto i braccianti
friulani quindi I braccianti/contadini del Friuli sono per lui un motivo di adesione sentimentale al
comunismo per cui anche la posizione politica di Pasolini è stata particolare, controversa/piena di
contraddizioni e criticata da tutte le parti ossia lui segue sempre una strada che è molto personale e
succede che ,aderendo al marxismo, nel 1947 si iscrive al partito comunista e diventa addirittura
segretario di una sezione del partito comunista. Accade però un fatto molto traumatico nella vita di Pasolini
verso gli ultimi mesi del 1949 in quanto  viene accusato di aver corrotto un ragazzo minorenne durante
una festa peraltro un’accusa che poi si dimostrerà essere assolutamente falsa ma insomma scoppia un
grande scandalo in seguito al quale lui viene espulso dal partito comunista ma viene anche abbandonato
dalla chiesa cattolica perché Pasolini in questi anni concepisce questa doppia appartenenza: da una parte
una grande religiosità e dall’altra parte l’adesione al partito comunista quindi sono 2 motivi molto forti
nella sua formazione. Dopo questo scandalo lui si sente un po 'abbandonato da questi 2 luoghi di
identificazione, decide di abbandonare il Friuli e così in una giornata del gennaio del 1950 Pasolini arriva a
Roma e qui inizia una nuova fase. Arriva a Roma solo con la madre perché il padre era prigioniero in Africa e
a questo punto vive pienamente questi anni 50 a Roma che sarà da quel momento la città dove vivrà per
sempre stabilmente in diversi quartieri e prima in quartieri periferici  in particolare a Rebibbia, poi si
sposterà  nella zona di Monteverde e poi negli anni di maggiore benessere economico comprerà una casa
all’Eur. Pasolini racconterà spesso questi primi anni a Roma come anni di grande povertà/smarrimento
perché lui arriva a Roma senza un lavoro/senza nessuna qualificazione particolare e inizia a vivere facendo
lezioni private e poi inizia a fare una cosa particolare ovvero si iscrive all’albo delle comparse: in quegli anni
Roma è una delle capitali mondiali del cinema(Cinecittà) e il cinema è assolutamente preponderante
nell’industria culturale quindi lui inizia a fare la comparsa o comunque a frequentare questo mondo del
cinema e poi andando avanti inizierà a scrivere delle sceneggiature perché via via che comincia a entrare
nell’ambiente culturale romano viene sempre più conosciuto da alcuni registi che gli affidano delle
sceneggiature. In particolare Pasolini comincia a scrivere dei racconti di ambientazione romana in cui
utilizza il dialetto romano, anche se lui è arrivato a Roma da poco, così come ha fatto in Friuli e ha imparato
questa lingua proprio spinto dalla passione per il parlato e per la lingua stessa. Quindi inizia a scrivere 
alcuni racconti utilizzando il dialetto romanesco e i registi cominciano a capire che lui è molto bravo a
scrivere soprattutto i dialoghi in romanesco e quindi cominciano a chiamarlo per questo motivo e la
capacità di scrivere dialoghi in una lingua viva che è quella parlata a Roma negli anni 50 diventa una sua
specialità. Così scrive per il cinema, collabora con diversi registi in particolare con Fellini con cui ha un
rapporto anche un po 'conflittuale e altri. Negli anni 50 inizia a scrivere una serie di racconti di
ambientazione romana e 2 di questi racconti andranno poi a confluire in questo grande romanzo che è
“ragazzi di vita” che esce nel 1955  e che costituisce una specie di legittimazione ovvero è il primo romanzo
che gli dà una certa notorietà sia tra il pubblico che nell’ambiente letterario ma il successo è anche legato
allo scandalo perché siamo negli anni 50 ,che sono gli anni di una morale sessuale molto stringente, e
Pasolini scrive un romanzo in cui si parla di prostituzione, omosessualità, in cui c’è un turpiloquio che per la
morale corrente di quegli anni era terribile tant’è vero che quando Pasolini presenta questo romanzo al suo
editore che è Garzanti esso lo rifiuta dicendo che bisognava riscrivere alcune parti perché queste parolacce
in un romanzo si non si possono scrivere quindi è un romanzo che poi viene riscritto/limato ma che
comunque ,nel momento in cui esce, suscita un grande scandalo nonchè una denuncia nel senso che viene
immediatamente denunciato dalla Presidenza del consiglio per contenuto pornografico quindi viene
considerato un romanzo pornografico. Questa sarà la prima delle denunce che un’opera di Pasolini dovrà
subire e naturalmente poi verrà assolto perché questo contenuto verrà giudicato non pornografico ma
legato ai valori artistici. Inoltre nel 1955 Pasolini fonda una rivista che si chiama “Officina” che nasce a
Bologna e che anche questa ha un po 'come suo obiettivo quello di trovare una misura di modernizzazione
della tradizione letteraria italiana. Nel 1957 esce “le ceneri di Gramsci” che è una raccolta di poesie
importante in quanto composta da 11 poemetti e il poemetto (ad es. i sepolcri di Foscolo o la Divina
Commedia) è una misura poetica molto particolare/un po’ nuova nel 900 italiano perché è un
componimento poetico di una certa ampiezza e che ha un carattere tendenzialmente narrativo quindi sono
opere di poesia che hanno una struttura tale da avere una valenza di tipo narrativo quindi una poesia che
non serve soltanto a evocare/suggestionare ma anche a raccontare qualcosa e anche a ragionare su
qualcosa dunque ha una valenza narrativa e una valenza argomentativa. Pasolini reinventa questa forma
del poemetto riprendendola sia dalla tradizione dell’800 sia dalle letterature straniere quindi “le ceneri di
Gramsci” è una raccolta poetica nuova in quanto   non è più una raccolta poetica di liriche ma è una raccolta
poetica di poemetti e anche con un contenuto politico perché ,come ci dice il titolo stesso in cui è presente
la figura di Gramsci, il contenuto di questi poemetti è una discussione tra la propria esistenza e
l’ideologia/le vicende politiche dunque c’è la presenza dell’io dell’autore e c’è la discussione su vicende
politiche/ ideologiche e quindi è una poesia che però parla della realtà e anche “le ceneri di Gramsci”
concorrono a far sì che Pasolini diventi un autore molto importante e conosciuto. Nel 1958 esce “l’usignolo
della Chiesa cattolica” in cui Pasolini racconta la storia del suo cristianesimo molto tormentato quindi del
suo tormento di coscienza tra religiosità e per esempio la pulsione omosessuale quindi è una raccolta che
contiene poesie anche precedenti della fine degli anni 40 e racconta un po’ quella che è la dimensione
esistenziale di Pasolini di quegli anni e poi esce un altro romanzo nel 1959 che si chiama “una vita
violenta”. “Ragazzi di vita” e “una vita violenta” sono chiamati generalmente i romanzi romani non solo
perché sono scritti a Roma ma perché Roma e in particolare i giovani che vivono per le strade,nei quartieri e
nelle borgate di Roma sono i protagonisti pertanto questi 2 romanzi hanno molti aspetti in comune. Nel
1960 esce “Passione e ideologia” che è una raccolta di saggi letterari e passione e ideologia sono un po le
due dimensioni, opposte tra di loro, sempre presenti in questo periodo nell’opera pasoliniana quindi
l’elemento personale che in Pasolini c’è sempre ossia questo io che attraversa il mondo(la passione) e
l’elemento ideologico/il pensiero dunque questo titolo è molto indicativo. Gli anni 60 vengono definiti gli
anni del cinema in quanto abbiamo detto che in qualche modo l’aveva già scoperto nel senso che aveva già
iniziato a scrivere una serie di sceneggiature ma adesso/è in questi anni che Pasolini decide invece di
dedicarsi alla regia, mettere in scena questo film e Pasolini possa al cinema perché lui ha un’esigenza di
realismo e ha l’impressione che il linguaggio verbale non sia sufficiente e che quindi questa realtà si
racconta meglio con un linguaggio visivo e allora scrive questa sceneggiatura che è molto legata a tutto quel
clima e quell’atmosfera che è propria dei romanzi romani quindi personaggi sottoproletari che vivono nelle
borgate e vivono di espedienti/ giovani che parlano in romanesco e questo è un po’ l’ambiente che da
“ragazzi di vita” si ripercuote poi su “Accattone” dove Accattone è un giovane sottoproletario che vive nella
Roma Popolare di quegli anni che fa il protettore per così dire di una prostituta. Gli anni 60 sono gli anni del
cinema ma questo non vuol dire che Pasolini si dedichi al cinema e sottovaluti tutto il resto nel senso che
comunque continua a scrivere numerose raccolte di poesie  che sono “la religione del mio tempo” del
1961 “poesia in forma di rosa” del 1964 e “trasumanar e organizzar” del 1971: Questi libri, insieme a
“poesia a casarsa” e “le ceneri di Gramsci”, costituiscono il filone del Pasolini poeta in quanto sono le sue
più importanti opere di poesia. La poesia di Pasolini è una poesia che via via perde quegli elementi di
rigore formale per diventare sempre più destrutturata: Pasolini mette in discussione quegli elementi di
letterarietà che avevano caratterizzato il suo percorso e nel corso degli anni 60 diventa polemico e critico
anche nei confronti della letteratura e non soltanto del potere quindi tutte le sue opere che negli anni 50
sono in qualche modo classiche/misurate poi via via diventeranno sempre più sperimentali/destrutturate
fino ad arrivare a “trasumanar e organizzar” che presenta una specie di poesia non poesia ossia una poesia
che perde tutte le caratteristiche tipiche della poesia stessa da quelle ritmiche a quelle metriche. Quindi gli
anni 60 sono soprattutto gli anni del cinema ed è il cinema che dà a Pasolini anche una certa notorietà
infatti i suoi film avranno un’enorme successo ad esempio “Accattone” viene presentato al Festival del
cinema di Venezia e l’anno successivo esce un altro film che è “Mamma Roma” del 1962. Nel 1963 esce un
altro film che è “la ricotta” e poi nel 1964 esce “Il Vangelo secondo Matteo” dove Pasolini prende il
vangelo secondo Matteo e lo utilizza come una sceneggiatura quindi utilizza gli stessi passaggi letterari
dell’evangelista Matteo costruendo delle figure del Vangelo quindi Gesù, la Sacra Famiglia e gli apostoli che
sono figure popolari cioè costruisce un Gesù ,come effettivamente sarà stato, che è un figlio del popolo e
questo ambiente che lui ricostruisce è un ambiente assolutamente povero, semplice e scarno dove la figura
di Gesù si caratterizza per una specie di spiritualità che però è anche combattiva/forte quindi non è il Gesù
idealizzato ma è un Gesù combattivo inoltre tutti i personaggi/attori di questo film ,ma anche dei film
precedenti o quasi ,sono attori non professionisti: in particolare per “il Vangelo secondo Matteo” Pasolini
voleva che la figura di Gesù fosse interpretata da un poeta perché aveva questa idea che ad oggi Gesù
sarebbe stato un poeta e allora fa una specie di casting per cercare una persona che può interpretare Gesù
e alla fine non trova un poeta ma trova un ragazzo assolutamente estraneo al cinema che è  Enriquez Ligari
che è un ragazzo anarchico, basco e che non ha mai fatto cinema in vita sua e lo sceglie perché secondo lui
l’immagine di questo ragazzo è Gesù. “ Il Vangelo secondo Matteo” è girato nei sassi di Matera che sono un
quartiere preistorico in quanto sono delle grotte di origine preistorica che ad oggi sono restaurate  in
maniera ottimale ma all’inizio degli anni 60 erano effettivamente delle grotte come sarà stata la Palestina ai
tempi di Gesù e quindi Pasolini prima ipotizza di girare questo film in Palestina ma poi rimane deluso dalla
Palestina di quei tempi e quindi decide di girarlo a Matera e alcune parti sono girate in Calabria insomma in
alcuni luoghi del Sud in quanto Pasolini, già in questi anni, sviluppa un grandissimo amore per il Sud e in
particolare c’è un libro che si chiama “la lunga strada di sabbia” del 1959  che è una specie di diario di
viaggio che Pasolini fa parlando di alcuni luoghi e in questo diario si capisce come Pasolini abbia uno
sguardo incantato proprio nei confronti del Sud Italia.  Un altro film del 1965 è “uccellacci e uccellini” che è
un film molto famoso perché tra gli attori c’è Totò de Curtis. Gli anni 70 di Pasolini sono caratterizzati da
questo spirito d’opposizione radicale che in qualche modo confluisce nel romanzo “petrolio” e gli anni 70
sono gli anni in cui Pasolini inizia ad avere un ruolo pubblico molto forte in quanto scrive sui giornali e ci
sono 2 libri che sono “scritti corsari” e “lettere luterane”, che escono entrambi nel 1975 e che sono 2  libri
che raccolgono gli articoli di Pasolini. In particolare “scritti corsari” raccoglie degli articoli che hanno
veramente segnato la storia del costume italiano in quanto si tratta di  articoli sul divorzio, sull’aborto, sulla
funzione della Chiesa, sull’omologazione ,sulla massificazione quindi tutti temi che sono stati al centro del
dibattito degli anni 70 e che Pasolini ha immediatamente individuato e discusso quindi “scritti corsari” è
uno dei libri più importanti di Pasolini.

RAGAZZI DI VITA (centenario di Pasolini)

Pasolini arriva a Roma: Nel gennaio del 1950 Pasolini ha lasciato il Friuli in maniera improvvisa e anche un
po’ traumatica, arriva nella grande città e viene folgorato da questa vitalità brulicante soprattutto delle
periferie, del popolo e dei ragazzi. Inizia a scrivere una serie di opere, racconti, poesie e bozzetti che in
qualche modo fanno da materiali preparatori a “Ragazzi di vita” quindi “Ragazzi di vita” nasce proprio da
questo impatto di Pasolini con le borgate, le periferie e i ragazzi romani tant’è vero che 2 dei capitoli di
“Ragazzi di vita”, il 1° e il 5°, escono prima del romanzo come racconti autonomi. Il 1° si intitola “Il
Ferrobedò” quindi questo primo capitolo è nato come racconto autonomo poi 2 anni più tardi esce un altro
racconto che poi diventerà un capitolo di ragazzi di vita che si intitola proprio “Ragazzi de vita” e qui si
capisce che Pasolini ha lavorato sul linguaggio ossia che c’era un elemento dialettale che è andato via via
affinandosi. Queste 2 uscite dei 2 capitoli ,che all’epoca erano racconti, risalgono al 1951 e al 1953 mentre il
romanzo uscirà nel 1955 dunque c’è stato un grande lavorio ossia “Ragazzi di vita” nasce da tutto un lavoro
preliminare che è testimoniato dai tantissimi racconti di ambientazione romana di quegli anni. Il fatto che
“Ragazzi di vita” nasca un po’ frammentato è abbastanza evidente/coerente nel momento in cui leggiamo il
romanzo perché questo romanzo non ha una fluidità romanzesca ossia si avverte che è composto da
episodi/vicende anche un po’ spezzate fra di loro/messe insieme quindi sono come degli episodi
singoli/circoscritti accaduti ai protagonisti di “Ragazzi di vita”. IL TITOLO: il titolo ha una figurazione /una
personificazione plurale ossia, mentre nell’isola di Arturo c’è Arturo che è un personaggio simbolo/ singolo,
qui ci sono “ragazzi” che non sono solo indefiniti ma sono anche plurali e questo corrisponde alla realtà del
romanzo perché “Ragazzi di vita” è un romanzo in cui non si può dire che ci sia un unico
protagonista ,anche se c’è un personaggio che come dice Pasolini fa da filo rosso, perchè quello che
interessava a Pasolini era fare una specie di affresco collettivo neanche di un gruppo specifico di ragazzi
perché questo gruppo è variabile ossia ci sono dei ragazzi che fanno parte di questo nucleo di
rappresentazione pasoliniana all’inizio e poi spariscono e ne arrivano altri dunque c’è una specie di fluidità
di personaggi e questo è un elemento molto connotativo. Alcuni di questi ragazzi arrivano nel 6° capitolo
prima non ne sapevamo niente mentre altri come per esempio Marcello che muore nel 2° capitolo quindi
c’è un continuo ricambio e questo è importante perché siamo davanti a un romanzo che non vuole
rappresentare i personaggi “a tutto tondo” (personaggi tondi e piatti= il personaggio tondo è quello che
viene rappresentato in maniera psicologica quindi quello di cui il narratore ci dice tutto, la sua storia, la sua
interiorità e non c’è niente di tutto questo in ragazzi di vita) ma questi ragazzi sono un po’ delle silhouette/
dei bozzetti ossia sappiamo poco di loro come alcuni elementi spesso tragici della loro vita ma non andiamo
nella loro interiorità anzi Pasolini tende sempre a smorzare gli elementi interiori e sentimentali ad es. fra i
tanti personaggi/ragazzi ce ne sono 2: Marcello ossia un ragazzino che morirà nel 2° capitolo in seguito al
crollo della scuola dove viveva e l’altro ragazzo si chiama Amerigo che è un personaggio importante di
ragazzi di vita che si trova nel 4° e nel 5° capitolo e anche Amerigo va incontro a una fine tragica. Davanti a
queste morti/tragedie, il narratore non ha mai un atteggiamento di tipo psicologico cioè non gli interessa
sapere cosa pensano i ragazzi anzi tende un po’ a smorzare il tragico e ha sempre un atteggiamento un po’
quasi di pudore nei confronti della loro interiorità dunque non siamo nella dimensione del romanzo
psicologico. Ritornando alla frammentazione di questo romanzo quindi è un romanzo che in qualche modo
appare costruito da tanti spezzoni diversi in particolare Franco Fortini ,che è stato anche amico di Pasolini
nonché grande poeta/ studioso/critico, ha notato che in “Ragazzi di vita” molti degli episodi si svolgono di
notte non solo perché questi ragazzi vivono di notte ma perché in qualche modo la notte fa perdere
l’elemento della continuità/ cronologia ossia è un po’ come se la notte fosse fuori dal tempo quindi non c’è
un elemento di continuità romanzesca ma ci sono questi elementi molto frammentati. Un altro elemento
fondamentale in “Ragazzi di vita”, che in qualche modo è un po’ in conflitto/dialettica con l’elemento
romanzesco, è l’elemento documentario: Ragazzi di vita non è soltanto un grande romanzo in cui si
raccontano le vicende di questi ragazzi che vivono per strada ma è anche un romanzo documentario ossia
romanzo che documenta una condizione di vita reale che si viveva a Roma negli anni in cui è ambientato il
romanzo ed è una condizione di grandissima indigenza/disagio e quello che fa Pasolini è anticipare
anche ,proprio con questo romanzo, una serie di inchieste di tipo sociale e anche di misure di tipo politico
che soltanto all’inizio degli anni 60 cominciano a gettare luce sul tema della povertà urbana. La condizione
di una città come Roma negli anni 50 è una condizione in cui ci sono enormi fasce di popolazione che vivono
ai margini della città e che vivono in quelle che all’epoca si chiamavano “borgate” e che ,ancora negli anni
50, spesso erano fatte di piccole casette di mattoni ossia quelli che Pasolini chiamerà “tuguri” e poi solo
negli anni 50 questi queste casette cominceranno a diventare dei palazzi però c’è una condizione sociale di
grandissima deprivazione ed è un momento in cui ,subito dopo la 2a guerra mondiale, a Roma arrivano
flussi enormi di immigrazione per lo più dalle regioni del Sud ma anche dalle regioni del Nord Est e dunque
c’è questo popolo ampio di immigrati e di popolo romano che non ha una collocazione né sociale né
abitativa quindi questo grande muoversi dei ragazzi e questo loro vivere di espedienti per le strade della
città non è soltanto un racconto che fa Pasolini ma è proprio una scoperta documentaria/un lavoro di
documentazione quindi è un romanzo che ha un grandissimo valore di tipo politico e sociale perché ,quello
che oggi ci sembra scontato, all’epoca in cui Pasolini scrive questo romanzo non lo era o almeno non era
scontata l’attenzione nei confronti della marginalità sociale dunque è un romanzo ma nello stesso tempo è
una denuncia sociale molto forte. Pasolini rende protagonisti di questo romanzo quelli che all’epoca sono
considerati un po’ la feccia della società/gli emarginati ossia questi gruppi di ragazzi che vivono condizioni
familiari precarie, vivono in case condivise ,ad es. Ricetto quando la storia inizia vive in una scuola occupata,
, vivono in famiglie disagiate e quindi vivono di espedienti e vengono rappresentati continuamente in
movimento per le strade della città di Roma(Roma è lo scenario assoluto/continuo di questo romanzo) e i
ragazzi vengono sempre rappresentati per strada (questa locuzione/andare per strada si trova spesso nelle
pagine del romanzo) e si racconta proprio questo muoversi per i quartieri della città a cercare di
sopravvivere cioè questi ragazzi sono impegnati nell’inventarsi qualche forma di sopravvivenza: Le
tematiche della povertà, della fame, della difficoltà di sopravvivenza sono tematiche continue. Questi
ragazzi fanno di tutto, per lo più fanno attività illecite come furti, prostituzione, truffe oppure piccoli lavori
che poi lasciano senza portarli a termine ossia vivono di espedienti. Il narratore non ha mai nei confronti di
questi ragazzi né un atteggiamento moralistico né un atteggiamento paternalista cioè non sta lì a dire
“guardate che cosa fanno, il male sociale”, nè li compatisce perché Pasolini riconosce in questi ragazzi
l’elemento migliore della società perché in questi ragazzi c’è l’innocenza, l’autenticità, la sincerità insomma
il loro riconosce un aspetto positivo/creaturale dunque ha uno sguardo sacralizzante/di pieno rispetto nei
confronti di questi ragazzi e questo è l’atteggiamento che ha il narratore nei confronti dei suoi personaggi. I
PERSONAGGI: Non c’è un personaggio principale/un protagonista e questa cosa è vera e falsa nello stesso
tempo nel senso che c’è un personaggio che funziona un po’ da filo rosso che si chiama “Riccetto” e si
chiama così perché in questo romanzo tutti questi ragazzi hanno dei soprannomi e i loro nomi anagrafici a
volte non emergono proprio e a volte emergono in situazioni particolari e hanno dei soprannomi perché
tutto è visto all’interno del loro mondo quindi all’interno del loro mondo loro vengono conosciuti come
“Caciotta” o “Ricetto” ecc.. Ricetto è il personaggio su cui si apre il romanzo infatti il romanzo comincia in
una mattina del 1944 ,quindi siamo alla fine della seconda guerra mondiale quando ancora Roma è
percorsa da truppe di occupazione, e il Ricetto quando il romanzo si apre ha 12 anni e sta andando a farsi la
prima comunione e questa è la prima scena in cui noi vediamo Ricetto e il romanzo si chiude anche con
Ricetto alla fine: Ragazzi di vita si compone di 8 capitoli e alla fine dell’8° capitolo il romanzo si chiude con
Ricetto che ha ormai 18 anni quindi sono passati 6 anni. TEMPO DELLA STORIA: il tempo della storia in
Ragazzi di vita va dal 1944 al 1950 e quindi attraversa questo tempo di vita/formazione di Ricetto e dei suoi
amici che va dall’adolescenza fino più o meno all’età adulta. Nel momento in cui il romanzo finisce il Ricetto
ha compiuto una specie di percorso che lo ha portato a diventare non solo adulto ma una persona seria
cioè Ricetto nell’ultimo capitolo veniamo a sapere che ha trovato un lavoro, è fidanzato e che quindi è
entrato in una dinamica di vita borghese/si è imborghesito/normalizzato e questa cosa per Pasolini però
non è per niente positiva ossia il fatto che il Ricetto sia riuscito a sopravvivere ai tanti pericoli che questi
ragazzi hanno attraversato non significa che si sia salvato perché il fatto di essere diventato un piccolo
borghese per Pasolini è indizio di un altro tipo di morte. C’è un preciso episodio che ci fa capire questa cosa
ed è l’episodio della rondinella: Alla fine del 1° capitolo succede un episodio in cui il Ricetto, che è un
ragazzino di 12 anni o poco pi, si getta nel fiume rischiando la vita/di essere trascinato dalle correnti per
salvare una rondinella che sta per affogare e non si sa bene perché fa questo gesto eroico e decide di
salvare questa rondinella con grande presa in giro da parte degli amici però lui sente di volerla salvare.
Nell’ultimo capitolo, sono passati 6 anni, e questa volta a rischiare di morire annegato nel fiume non è la
rondinella ma è un ragazzino che si chiama Genesio (è uno di questo giro dei ragazzi di vita, uno dei più
giovani ed è un personaggio molto bello/intenso), un ragazzino che peraltro ammira molto Ricetto e vuole
imitarlo e quel giorno decide di attraversare il fiume proprio per imitare Ricetto ma purtroppo nel fiume ci
sono queste correnti molto forti e mentre Ricetto è forte, ha 18 anni e riesce tranquillamente ad
attraversare il fiume, Genesio non ce la fa. Ricetto vede la scena quindi che Genesio è in difficoltà ma non ci
pensa nemmeno a gettarsi nel fiume e a rischiare la propria vita per salvare Genesio dunque Genesio
muore. Questi sono 2 episodi speculari infatti ci sono una serie di corrispondenze di termini e che ci fanno
capire come Pasolini denuncia il fatto che diventare un piccolo borghese e non essere più un ragazzo di vita
è un dato assolutamente negativo perché diventando un piccolo borghese Ricetto ha perso quella
generosità/vitalità/libertà interiore che gli aveva permesso di salvare la rondinella e adesso non vuole più
rischiare la propria vita tant’è vero che quando vede Genesio annegare il Ricetto dice a se stesso “io gli
voglio bene a Ricetto” che significa “io non voglio rischiare la mia vita per un altro” quindi in queste 2 scene
c’è tutta l’etica/il senso di questo romanzo ossia di questo essere o non essere ragazzi di vita. PERSONAGGI:
Ci sono dei personaggi molto belli/intensi nel romanzo quindi non solo Ricetto ma anche il personaggio di
Genesio che è questo ragazzino che compare negli ultimi 2 capitoli insieme a 2 fratellini ancora più piccoli,
c’è poi un personaggio tra i più belli/tragici che è il personaggio di Amerigo il quale viene rappresentato
come un piccolo boss del quartiere di Pietralata e col quale Ricetto fa una specie di truffa, giocano in una
bisca barando però poi arrivano i carabinieri e Ricetto riesce a salvarsi mentre Amerigo no e quindi le loro
strade si dividono dunque il Ricetto è un po’ il personaggio che se la cava/che riesce a salvarsi in queste
continue tragedie e difficolta che vivono i ragazzi. Questi protagonisti/ragazzi è come se vivessero in un
mondo senza adulti ed è come se tutta la scena fosse occupata da questi ragazzi/giovani dunque la
focalizzazione è tutta diretta a loro infatti sono ragazzi che crescono quasi senza famiglie ad es. la madre di
Ricetto muore nel crollo della scuola nel 2°capitolo, lo stesso crollo in cui morirà il suo amico Marcello e
Ricetto da quel momento andrà a vivere a casa del cugino Alduccio e queste famiglie sono rappresentate
come quanto di più disfunzionale: gli uomini sono quasi sempre alcolizzati, violenti e le donne sono
rabbiose, c’è questo tema della prostituzione che è sempre molto presente nella narrativa di Pasolini e che
era un tema molto forte/attivo negli anni 50. È interessante anche notare che tutto il romanzo si svolge per
strada e non esiste il concetto di casa ossia non vengono mai descritte delle case come luoghi accoglienti/di
riposo/di ritorno ad es. questi ragazzi spesso dormono fuori in Villa Borghese quindi non c’è l’elemento
della casa/dell’Interno e tutto è disegnato in una topografia vorticosa in cui Roma è molto presente: Ragazzi
di vita si potrebbe visualizzare in una specie di mappa perché i luoghi sono reali e vengono raccontati i
percorsi/gli itinerari/i movimenti quindi è un romanzo molto cinetico. Per quanto riguarda il tempo della
storia abbiamo detto che ragazzi di vita focalizza un tempo della storia di 6 anni, dal luglio del 44 fino
all’estate del 1950. In Ragazzi di vita tutte le scene avvengono d’estate e molte scene avvengono di notte,
un elemento fondamentale dal punto di vista di ambientazione è il fiume: il fiume una volta non era
soltanto una cosa che sta lì e che si vede ma era un luogo dove i ragazzi andavano a fare il bagno quindi era
un luogo di reale socialità e vitalità e questa scena dei bagni nel fiume è ricorrente in ragazzi di vita, il fiume
rappresenta il luogo sociale per eccellenza. Il tempo della storia è abbastanza lungo (6 anni) per un
romanzina così smilzo perché c’è un meccanismo tipico nella narrazione di Ragazzi di vita ossia non viene
raccontato tutto l’arco del tempo/non viene seguito tutto il tempo ma ci sono molte ellissi ossia ci sono
delle porzioni di tempo che non vengono raccontate perché quello che interessa al narratore è
esclusivamente questo elemento della vitalità/ socialità per strada quindi tutto quello che è fuori
campo ,rispetto a questo focus, Pasolini non lo racconta e l’esempio più clamoroso è una grande ellissi che
c’è tra il capitolo 5°e il capitolo 6° in particolare c’è un ellissi di 3 anni ,dal 1947 al 1950, di cui non si sa
niente cioè di cui Pasolini non racconta nulla e questo perché in quei 3 anni Ricetto è in prigione: a un certo
punto ,in un momento del 1947, Ricetto viene arrestato peraltro per un furto che non ha commesso. Il
narratore non ci racconta niente della prigione perché è un luogo chiuso ossia è il contrario di quella
vitalità/vita per strada che ha Pasolini interessa focalizzare quindi tutto quello che esce da questo focus di
questa topografia romana per strada e di questa vitalità viene escluso dalla narrazione. Ci sono 2 cose in
particolare che il narratore non racconta: il carcere e il lavoro ossia quando i ragazzi saltuariamente hanno
un lavoro, Pasolini non ce lo racconta perché il lavoro, in questa poetica di ragazzi di vita, rappresenta la
costrizione/ la vita borghese/ la vita normale quindi esula da questo spazio narrativo costituito dal
romanzo. Dunque il tempo è gestito dal narratore attraverso dei salti : è un tempo lineare nel senso che ci
sono poche analessi, ritorni indietro perlopiù è un tempo che scorre cronologicamente ma frequentemente
ci sono dei salti/delle ellissi. Un altro elemento che velocizza questo tempo è l’uso dei sommari: i sommari
sono quelli in cui il narratore riepiloga quello che è successo ad es. “avevano cominciato col Ferrobedò,
avevano continuato con gli americani e adesso andavano a cicche, è vero che il Ricetto per un po’ di tempo
aveva lavorato, era stato preso a fare il pischello al servizio delle camionette da uno di Monteverde nuovo
ma poi aveva rubato al padrone mezzo sacco e quello l’aveva mandato a spasso così passavano i pomeriggi
a far niente a Donna Olimpia sul Monte di Casadio con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba
ingiallita al sole e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata oppure
andavano a giocare al pallone lì sullo spiazzo tra i grattacieli e il Monte di splendore tra centinaia di maschi
che giocavano sui cortiletti invasi dal sol, sui prati secchi per via Ozanam o via donna Olimpia davanti alle
scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati” qui il narratore sintetizza ossia ci ha dato una
serie di informazioni su cose che fanno questi ragazzi in un tempo breve quindi questa è una tecnica tipica
che rende più veloce il racconto inoltre ,per quanto riguarda la topografia, vengono citati i nomi delle
strade per questo ragazzi di vita si potrebbe veramente visualizzare in una mappa in quanto le strade e i
luoghi vengono esattamente citati. L’incipit di ragazzi di vita: “Era una caldissima giornata di luglio. Il
Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre
scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un
comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a
rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della
Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il
Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si
sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per
le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo
assordante.” La grande novità di ragazzi di vita non è tanto nell’aspetto contenutistico ossia c’è un
elemento documentario che è importantissimo ma la grande novità è il linguaggio che è un impasto fra
italiano e romanesco o meglio l’impasto linguistico che costruisce Pasolini non è tanto composto con il
romanesco classico ma è un romanesco più autentico/più contemporaneo ossia quella lingua molto
imbastardita che parlavano i ragazzi nelle borgate in quegli anni: usa un gergo che unisce dialetto romano
classico, dialetti meridionali e gergo giovanile , costruendo un impasto di linguaggio difficile da capire (in
questo senso lingua “imbastardita”). Pasolini inoltre usa l’indiretto libero adottando il linguaggio dei
personaggi perché in questo modo ci fa vedere il mondo attraverso gli occhi di questi ragazzi cioè ce lo
mostra in maniera diretta: l’indiretto libero ha un effetto di immediatezza e di autenticità e se il narratore
avesse usato il proprio linguaggio per raccontarci il Ricetto che se ne va vestito per bene a fare la prima
comunione non ci avrebbe dato questo senso di metterci dentro la scena. Altri 2 elementi sono interessanti
ovvero L’importanza dei luoghi e della mappatura ossia il modo in cui il narratore disegna gli spazi e
l’elemento sonoro: ragazzi di vita è un romanzo pienissimo di rumori/ suoni/ grida infatti qualcuno ha
scritto che è una specie di colonna sonora ad es. quando dice da Monteverde Giu alla stazione di Trastevere
non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine si sentivano i clacson e i motori che davano su per
le salite le curve in pieno la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante”
quindi è un romanzo che comprende in sè i rumori/i suoni e ci porta proprio dentro il rumore della strada, è
un romanzo basato sull’oralità. Anche questa lingua è una lingua orale/parlata quindi c’è questa vitalità
della lingua orale, dei suoni e dei rumori collettivi che è molto presente.

[Ragazzi di Vita rientra nel canone letterario del 900. “ragazzi di vita” di Pasolini all’inizio ,da alcuni critici, è
stato definito un romanzo neorealista perché è un romanzo che parla di una realtà che è quella delle
borgate di Roma negli anni 50 quindi il fatto che fosse un romanzo a sfondo sociale in maniera superficiale
potrebbe far rientrare Pasolini nella poetica del neorealismo ossia tra quegli autori che hanno al centro
l’intento di designare la realtà ma in verità “Ragazzi di vita” non è per niente un romanzo neorealista, non è
giusto definire Pasolini neorealista perché il Pasolini di questi anni così come Calvino o Morante sono tutti
autori che cercano di esprimere la realtà secondo modalità diverse/personali che non costituiscono una
poetica in Italia. Gli eventi nel romanzo di Pasolini “ragazzi di vita” hanno luogo tra il 1944 e il 1950/ il
cronotopo è dove e quando si svolge un romanzo ad esempio il cronotopo di “ragazzi di vita” è anni 1944-
1950 a Roma tra i quartieri di Monteverde, Testaccio e Trastevere. In “ragazzi di vita” è centrale l’elemento
della strada dove le strade sono raccontate in maniera così dettagliata che spesso si può seguire il percorso
che fanno questi ragazzi se si ha la piantina di Roma perché c’è un elemento realistico e perché proprio
l’esterno è al centro della poetica di questo romanzo. Pasolini parla di un gruppo di ragazzi del
sottoproletariato romano che in questa grande babele del dopoguerra sono un po’ abbandonati a se stessi,
vivono per le strade di truffe, furti, prostituzione e fanno una vita avventurosa/trasgressiva e nello stesso
tempo un pò poetica/ trasfigurata e quindi dà spazio a questa fetta di umanità dimenticata. “Ragazzi di
vita” è un particolare romanzo di formazione perché racconta una specie di formazione collettiva quindi è
un romanzo che rientra nel canone se lo prendiamo nella sua valenza sociale ossia questi ragazzi di vita
fanno un percorso che in teoria è un percorso di adeguamento alla società in quanto ripartono da una
posizione di sottoproletariato urbano e molti di loro si perdono,muoiono oppure finiscono in carcere
mentre alcuni e in particolare uno che si chiama Riccetto riesce a fare un percorso che Moretti chiamerebbe
di socializzazione cioè riesce a trovare un lavoro e quindi a inserirsi nella società però in ragazzi di vita il
narratore non ci presenta questo percorso come qualcosa di positivo perché questo Ricetto che riesce a
salvarsi da questo degrado sociale/povertà più culturale che materiale in verità perde molto della sua
umanità e quindi è come se questo inserimento nella società/uscire dalla condizione di ragazzo di vita poi
non sia del tutto positivo. In Ragazzi di vita (1955) romanzo in otto capitoli cronologicamente separati,
Pasolini mette in evidenza le profondi contraddizioni di Roma, dove i fasti del passato si intrecciano con la
miseria vitale e felice dei popolani delle borgate. I capitoli sono tenuti insieme da alcuni personaggi, tra cui
il principale, Riccetto. Le imprese dei ragazzi sembrano essere narrate in maniera oggettiva, i dialoghi sono
secchi e in un dialetto romanesco vivace e gergale ma le descrizioni sono segnate da un forte lirismo.
Pasolini vuole applicare le sue idee di plurilinguismo. L’oggettività è solo esteriore perché trapela la
posizione dell’autore il quale nonostante i giovani pasoliniani violino la legge, restano migliori d’animo
rispetto ai borghesi capitalisti]

CRITICA ANNESSA : IL PAESAGGIO UMANO. PROCEDIMENTI ETNOGRAFICI E DEMOLOGICI NELL’OPERA DI


PASOLINI

Pasolini e i saperi antropologici : Tra i tanti autori che nella modernità letteraria italiana edificano la propria
poetica su fondamenta antropologiche – da Verga a Pavese, da Carlo Levi a Scotellaro – Pasolini si distingue
non solo per le tante e diverse accezioni in cui la relazione tra letteratura e antropologia va declinandosi,
ma anche per la radicalità con cui i saperi demo-etnologici ne orientano la visione del mondo. I segmenti
tematici e cronologici convocati da un discorso su Pasolini e l’antropologia sono tanti e importanti, e
ciascuno sarebbe meritevole di trattazione particolareggiata piuttosto che di una semplice voce di
sommario: il Pasolini letterato-demologo curatore di due pionieristiche antologie di poesia dialettale e
popolare; l’etnologo delle periferie urbane degli anni cinquanta-sessanta, che sulla base di una
documentazione acquisita sul campo dissemina nei diversi generi un ampio affresco sociale ed edifica
l’immagine della nuova marginalità urbana degli anni del boom economico; l’intellettuale che, a partire dai
viaggi in India e in Kenya nel 1961, anticipando i cultural studies, scopre l’etnos del Terzo Mondo come
antidoto al neocapitalismo; il regista che, in opere come Medea o Appunti per un poema sul Terzo Mondo,
ambienta in Africa un discorso sul contemporaneo utilizzando il palinsesto del mito e dell’arcaico; infine,
negli anni di Petrolio e del “corsaro”, l’etnologo del genocidio, che l’omologazione indotta dal consumismo
capitalista lascia orfano del proprio Altro, vanificando la diade relazionale del modello etnologico. Proprio in
ragione della vastità del tema e della misura magmatica dell’opera, rinunciando a ogni ambizione di
esaustività, ci concentreremo essenzialmente sulla modellizzazione etnologica del testo pasoliniano tra gli
anni cinquanta e la prima metà dei sessanta, individuando i punti di tangenza tematici e metodologici con il
campo antropologico. Osserveremo in particolare due aspetti, la raccolta e il riuso documentario secondo
un procedimento demologico ed etnologico, e il racconto del mosaico antropologico della prima
modernizzazione italiana realizzato in diversi generi e linguaggi, dalla poesia al documentario.
Focalizzeremo in prospettiva antropologica il fondante interesse pasoliniano per le culture popolari e la sua
traduzione in una retorica testuale in grado di raccontarne la molteplicità, fino a delineare quello che
definiamo un «paesaggio umano». Osserveremo inoltre la coincidenza metodologica tra i nuovi paradigmi
etnologici e la modellizzazione pasoliniana del discorso sull’Altro. La scelta di limitarci al testo degli anni
cinquanta e sessanta non è casuale, poiché il successivo e ultimo periodo pasoliniano, costruito attorno ai
concetti di «omologazione» e «genocidio», tematizzerà proprio la fine della relazione tra soggetto e oggetto
e l’elisione dell’alterità, un processo definibile in termini antropologici come «morte dell’etnos»1 . Alcune
premesse sul rapporto tra Pasolini e gli studi etno-antropolologici appaiono necessarie, a partire dalla
frequente rivendicazione del proprio distintivo interesse, testimoniato negli anni cinquanta e sessanta dai
rapporti con studiosi come Cirese e De Martino e dalla scoperta della storia delle religioni di Eliade e Di
Nola, in un panorama letterario che a suo dire ne ignora colpevolmente l’apporto:

nelle mie discussioni con gli stessi miei colleghi, viene sempre fuori che essi sono sistematicamente privi di
nozioni etnologiche e antropologiche (che io possiedo, né da professionista né da dilettante, ma da semplice
lettore, che ha scelto pour cause tali letture). L’allargamento del territorio conoscitivo (che implica il
confronto diretto con altri modi di essere e di pensare: quelli dei popoli arcaici, che, sia cronologicamente
che idealmente, sono contemporanei a noi, perché è chiaro che niente in noi va distrutto e tutto coesiste) è
inebriante.

La più evidente consonanza tra la lettura antropologica della realtà e le modalità conoscitive proprie di
Pasolini consiste nella sottolineatura dell’elemento umano e nel privilegio ad esso concesso rispetto
all’ideologia4 , nella tendenza a scandagliare l’infinita varietà sincronica del paesaggio umano, nella
riluttanza a procedere per schematiche categorie sociologiche. Non a caso ai saperi etno-antropologici
Pasolini assegna qualità antitetiche a quelle dell’indagine sociologica, capaci di evidenziare quel
sincronismo in cui il passato non è mai superato dal presente, ma a questi si integra in un comune percorso
di significazione. Contestando lo sguardo immanente della sociologia, Pasolini scrive:

Nella realtà tutto è infinitamente meno impettito e adamantino che nelle casistiche sociologiche […]. I
sociologi hanno pronti dei modelli perfetti del grande industriale, della sua signora, del piccolo industriale e
della sua signora, dell’intellettuale, dello studente, dell’operaio immigrato, ecc. ecc.: ma nessun modello,
perfetto, è mai attuato alla perfezione. Forse i sociologi sono troppo proiettati nel futuro, e sono molto poco
interessati alle ‘sopravvivenze’.

Da questa citazione appare evidente come la concezione sacrale del reale in Pasolini debba essere
ricondotta proprio a una visione prettamente antropologica della realtà come stratificazione di tempi e di
culture, di storia e di mito. La sua concezione antilineare del tempo, in base alla quale passato e presente
convivono sinergicamente, è fortemente legata a una visione antropologica fondata sulla «sopravvivenza».
Scrive Pasolini: «In quanto “storicista” […], capisco che la storia è una evoluzione, un continuo superamento
dei dati; sono altrettanto consapevole però che tali dati non vengono mai eliminati, ma sono permanenti».
Proprio le «sopravvivenze» del passato nel presente, del mito nel reale, rappresentano il terreno comune
della narrazione pasoliniana e degli studi etnoantropologici, nel segno della pluralità del paesaggio umano:
garanzia di individuazione e antidoto a quella stereotipia e modellizzazione che a detta di Pasolini
caratterizza gli studi sociologici. Nel paesaggio umano Pasolini vuole rappresentare e condensare la
tematica tipicamente antropologica della sopravvivenza, cui spesso allude nelle sue pagine,8 intesa come
«permanenza, in ambito etnologico, di gestualità, immagini e schemi patemici di antica origine popolare» .
Ma la relazione tra Pasolini e l’antropologia è biunivoca e il suo influsso sui paradigmi degli studi etnologici
è da tempo riconosciuto dagli studiosi del settore10. Se e è vero, come afferma Sobrero, che
«l’antropologia fa da sfondo e in qualche modo sostiene l’intera opera pasoliniana»11, è altrettanto vero lo
stesso Pasolini contribuisce a edificare un nuovo paradigma di sapere etnografico, sia in termini di metodo,
per la pregnanza della relazione soggetto/oggetto, sia per il rilievo conferito ai fulcri tematici degli studi
antropologici, il sacro, il corpo, il viaggio, i luoghi antropici. Crediamo che Pasolini si possa considerare un
precursore e forse anche una fonte di ispirazione per quel mutamento del paradigma degli studi etnografici
realizzatosi tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, prima con la svolta narratologica di Geertz, che svela
l’illusione oggettivistica delle strategie discorsive, poi con l’antropologia postmodernista degli anni ottanta,
che afferma la valenza dialogica e polifonica della relazione tra l’etnologo e il suo oggetto12. La relazione
epistemologica e discorsiva che il primo Pasolini instaura col proprio oggetto popolare coincide infatti con i
rinnovati procedimenti etnografici basati sulla ricerca sul campo e sull’«osservazione partecipante»,
pratiche in cui al soggetto è riservato un essenziale ruolo conoscitivo che ribalta quello ottocentesco di
passivo raccoglitore del documento umano. Tra i motivi di convergenza tra Pasolini e il pensiero
antropologico è dunque centrale il ruolo che entrambi riservano alla dimensione soggettiva ed emotiva: e
vedremo, in opere come Le ceneri di Gramsci, La lunga strada di sabbia e Comizi d’amore, come il soggetto
pasoliniano si identifichi con la figura del moderno etnografo e con la sua funzione attivamente relazionale
e conoscitiva.

Pasolini, il documento e le culture popolari: Nei primi anni cinquanta, in una fase culturale di riepilogo e
ridefinizione dell’identità nazionale e di ripresa degli studi demoantropologici fondati sul demartiniano
«umanesimo etnografico» come nuova via italiana all’antropologia14, si colloca il primo episodio di
modellizzazione etnografica della scrittura pasoliniana su cui vogliamo soffermarci, la cura delle due
raccolte demologiche La poesia dialettale del Novecento (1952) e Canzoniere italiano. Antologia della
poesia popolare (1955), due volumi che fanno il punto sulle tradizioni letterarie e popolari attraverso la
selezione dei testi e i due lunghi e approfonditi saggi introduttivi del curatore, poi confluiti in Passione e
ideologia. L’operazione pasoliniana va in direzione opposta alla mitizzazione demologica – romantica e poi
positivista – del testo dialettale e popolare, ricondotto invece a una matrice letteraria nazionale mediante
puntuali osservazioni di tipo formale e sociolinguistico, il rilievo di linee e genealogie interlinguistiche,
l’individuazione di fenomeni di ibridazione e assimilazione di lingue e culture letterarie e popolari. Se la
poesia dialettale è interamente riportata a una genesi letteraria, secondo una visione non del tutto
estranea all’idealismo crociano19, la poesia popolare è d’altra parte letta in opposizione al folclore, come
espressione di assimilazione dal basso del letterario, e la sua lingua viene a essere dissociata dalla vitalità
del parlato e del gergo20. Al di là della grande rilevanza culturale e letteraria delle due raccolte, ci preme
evidenziare come sia proprio con questo lavoro demologico che Pasolini definisce la propria idea di
relazione tra documento e testo letterario che è alla base della propria poetica. Leggiamo: «Il poeta
dialettale tende a realizzare artificialmente questa intensificazione pseudo-poetica della lingua nei parlanti
[…] e trasferisce dentro gli schemi letterari interi pezzi di quella realtà di lessico, di gergo, come per una
documentazione»21. L’attitudine tipicamente pasoliniana al riuso documentario, l’operazione mai neutra
del “trasferimento” dalla realtà agli schemi letterari, si fonda infatti sempre su una rifunzionalizzazione
espressiva avvertita come necessaria: anticipando i paradigmi della moderna etnologia, Pasolini considera
mistificante l’esibizione documentaria della cultura popolare senza mediazione letteraria e autoriale,
perché inespressiva e perciò insufficiente a produrre significazione. Da questa sua convinzione nascono
anche i giudizi negativi espressi sulle operazioni letterarie a base antropologica di questi anni, come le mere
«registrazioni dei dibattiti orali» di Danilo Dolci e l’opera di Scotellaro, che secondo Pasolini «preferisce […]
annullarsi del tutto nel documento»22. Il riuso documentario è uno dei punti di tangenza tra Pasolini e
l’antropologia perché è mezzo di una tentata riattualizzazione culturale e nuova immissione dell’identità
culturale popolare nel flusso storico. La «crisi della presenza» teorizzata da De Martino fin dal Mondo
magico, così consonante con quel panorama di esclusione del popolo dalla storia tipico della poetica di
Pasolini23, prevede in entrambi proprio il riuso documentario come strategia di contrasto alla rimozione e
alla riduzione fantasmatica che affligge l’etnos popolare.

Pasolini etnologo della modernizzazione: La seconda occorrenza etnografica pasoliniana a cui vogliamo
dedicarci riguarda un gruppo di opere del decennio 1955-1965 appartenenti a diversi generi, dalla narrativa
alla poesia fino al reportage, in cui l’autore mette a punto e utilizza come base del testo letterario i
procedimenti tipici degli studi antropologici di raccolta dei dati documentari, definendo un modello di
scrittura letteraria che potremmo chiamare “etnografia della modernizzazione”. In queste opere la sua
postura è quella dell’“osservatore partecipante”: raccoglie materiale sul campo, utilizza informatori, si
familiarizza con la lingua dei propri soggetti, è guidato dalla condivisione di orizzonti emotivi, si interroga sui
propri sentimenti. In uno scritto del 1958, La mia periferia, Pasolini svela il metodo di vera e propria ricerca
sul campo da cui nascono i romanzi romani, e utilizzando un lessico proprio delle scienze antropologiche (si
parla di «materiale», di «parlanti», di «operazione esplorativa e mimetica»), racconta delle vere e proprie
spedizioni etnografiche in periferia: Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di
Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta
annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei
“parlanti” fatti parlare apposta […]. Non sempre questo materiale strumentale a livello bassissimo e
particolarissimo lo trascrivo direttamente […] (ho alla Maranella un amico, Sergio Citti, pittore, che finora
non ha mai fallito alle mie richieste, anche più sottili). […] Si tratta in tal caso di materiale di riserva, che a
ogni buon conto metto da parte: in modo da non dover scendere alla Maranella nel caso mi si presenti la
sopraddetta necessità espressiva26. Evidenti le analogie metodologiche tra questo operato e le pratiche
etnologiche rivelate nei resoconti diaristici, da Leiris a Malinowski27, in cui l’etnologo dà spazio al
controcanto della propria soggettività e scopre nel processo introspettivo la propria stessa alterità.
Emblematico in tal senso il racconto di De Martino:

Entravo nelle case dei contadini pugliesi come un “compagno”, come un cercatore di uomini e di umane
dimenticate storie, che al tempo stesso spia e controlla la propria umanità […]. L’essere fra di noi
“compagni”, cioè incontrarci e tentare di essere insieme in una stessa storia, costituiva una condizione del
tutto nuova rispetto al fine della ricerca etnografica.
Così come il «compagno» De Martino, anche Pasolini motiva il riuso della lingua dei parlanti romaneschi
rivendicando la propria «coazione biografica» e appartenenza esistenziale a quell’universo culturale:

io mi sento assolto in questa operazione da ogni possibile accusa di gratuità, o cinismo […], nel caso di
Roma è stata la necessità [….] a farmi fare l’esperienza immediata, umana, come si dice, vitale, del mondo
che ho poi descritto e sto descrivendo […]: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che
testimoniare la “borgata” romana29.

La postura etnologica immersiva, alla base della stesura dei romanzi romani, è esplicitamente dichiarata
nella diegesi poetica a fondamento autobiografico, tra le Ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo30.
L’io, si legge ne La ricchezza, in apertura a La religione del mio tempo, è «testimone e partecipe di questa /
bassezza e miseria»31, osservatore e insieme parte del mondo osservato. Il motivo pasoliniano che,
mutuando la formula dell’etnologia partecipativa, potremmo definire dell’“essere là” (Malinowski: «io non
ero soltanto là, io ero uno di loro, parlavo con la loro voce»)32, è costitutivo della retorica dell’autore: si
pensi a quella rievocazione autobiografica disseminata ne Le ceneri di Gramsci, che lungi dall’essere
prodotto di narcisismo, costituisce il tramite conoscitivo, così come accade nell’approccio etnografico che
alterna introspezione e interrogazione dell’altro. Tutta l’intelaiatura drammaturgica delle Ceneri è ispirata
al modello etnologico dell’incontro tra l’io e gli altri, modulata sulle frequenti formule deittiche e ostensive
(«Ed ecco qui me stesso», «Qui, nella campagna romana», «Qui, venti affricani», «Ecco là», «Ed ecco la mia
casa», «Ecco Villa Pamphili», «questa che lascio alle spalle […] non è la periferia di Roma», «È lì, da oltre la
valle», «eccoli con il mento sul petto»)33, formule che mostrano il soggetto in un’unica e idealmente
ininterrotta sequenza relazionale, immesso in uno spazio antropico che lo contiene e lo comprende («mi
sospingo come / disincarnato», «cammino muto», «mi perdo nella passeggiata serale», «me ne vado, ti
lascio nella sera», «rincaso, per neri / piazzali»)34, intento a incontrare il popolo, rievocando la propria
esperienza e rammemorando se stesso, in quella stessa situazione del dialogo autoanalitico spesso esibita
nelle scritture etnografiche35. Quelle rappresentate nelle Ceneri – camminare, guardare, dialogare,
inventariare – sono azioni etnologiche per eccellenza, che rimandano all’incontro di culture e alla sua
necessaria interdiscorsività. Nel racconto delle Ceneri si dispiega quel paesaggio umano al centro dello
sguardo antropologico di Pasolini, capace di esaltare ogni individualità che compone il mosaico popolare
della periferia. Ecco allora sfilare il «ragazzo del popolo […] sulla riva dell’Aniene» in Canto popolare, i
«pescatori» e i «braccianti» di Quadri friulani, il «garzone» «vizioso» (e leopardiano) delle Ceneri di
Gramsci36; e, ancora, ripetuta, la scena degli operai che tornano a casa (in Ceneri, poi in Pianto della
scavatrice, ma anche in Ragazzi di vita), e in forma di catalogo, «garzoni, operai, serve, disoccupati» in Recit,
«donnette» e «ragazzini» ancora in Pianto, per finire con quella straordinaria processione di volti, «miseri e
scuri come cani / su un boccone rubato» che è Terra di lavoro, la «donnetta» «con gli occhi nel vuoto», il
«giovane […] nemico» che «non vede niente», corpi che, scrive Pasolini, diventano anime, ovvero
sopravvivenze del passato metastorico, che «con una vita di altri secoli, sono / vivi in questo»37. Come ci
suggerisce l’ultima citazione, i personaggi raccontati dal testo che compongono il paesaggio umano non
sono riconducibili alla mera realtà fattuale e storica del presente, come potrebbe essere in una poetica di
stampo tradizionalmente realista o neorealista, ma esibiscono un habitus mitico e fantasmatico, sono cioè
manifestazioni insieme del reale e di quelle «sopravvivenze» che fondano la relazione tra l’arcaico e il
contemporaneo, che abbiamo già individuato come terreno comune tra Pasolini e i saperi antropologici.

Pasolini e il reportage antropologico: Il catalogo del paesaggio umano che abbiamo visto delinearsi nelle
Ceneri, e che altrettanto incisivamente si realizza negli stessi anni nei romanzi romani anche mediante la
mimesi linguistica, diventa sistematico e intenzionale in due opere appartenenti a generi e linguaggi diversi,
ma che ci sembra opportuno associare nella nostra analisi per la loro comune struttura, ma anche per la
comune valenza di reportage antropologico, La lunga strada di sabbia del 1959 e Comizi d’amore del
196539. Al di là del diverso linguaggio (nel primo caso giornalistico, nel secondo documentario) e della
diversa destinazione delle due opere (nel primo caso un settimanale, nel secondo la produzione di un
cortometraggio), entrambe utilizzano l’impaginazione narrativa propria del più moderno paradigma
etnologico, e al suo interno due moduli tipici sia della ricerca etnografica che della poetica pasoliniana,
molto presenti soprattutto nelle Ceneri di Gramsci, il viaggio e il dialogo con i personaggi incontrati per via.
La struttura retorica del reportage prevede in entrambi i testi la presenza di un soggetto-narratore
chiamato a interagire con individui e ambienti antropici, e si potrebbe ipotizzare che La lunga strada
rappresenti una sorta di sopralluogo preliminare a Comizi d’amore e in ogni caso per Pasolini un
importantissimo apprendistato di immaginario cinematografico40. Negli anni del vorticoso boom
economico, Pasolini cerca nuove prospettive e strumenti per comprendere e raccontare il mutamento
antropologico, rappresentato nei due testi da un fenomeno economico, il primo turismo di massa, e da un
fenomeno culturale, il cambiamento della morale e della sessualità. La nuova prospettiva è offerta appunto
dalla struttura dell’inchiesta antropologica: in entrambi i testi a Pasolini non interessa delineare
astrattamente il fenomeno collettivo e sociale, quanto richiamare sulla scena gli individui, i corpi, le voci41.
In una lettera ad Alfredo Bini su Comizi d’amore si legge:

Mi sono trovato davanti a del materiale nuovo, pieno di straripante concretezza visiva […], protagonista è
diventato il pubblico, cioè le centinaia di interrogati, con Arriflex e registratore, in tutta l’Italia. La loro
vivezza, la loro spettacolare fisicità, la loro antipatia, la loro simpatia, i loro strafalcioni, i loro candori, le
loro saggezze, come dire, la loro “italianità”, hanno preso prepotentemente il posto riservato alla nostra
premura didascalica, e si sono presentati sullo schermo “come ciò che importa”42.

Attraverso due diverse tonalità narrative, più emotivo-referenziale in La lunga strada, più dialogica e ironica
in Comizi d’amore, lo sguardo antropologico di Pasolini è attento ai segni della contraddizione, pronto a
interrogare alternatamente il luogo e gli individui. Il suo inventario rende percepibile un’identità
antropologica italiana plurale e contraddittoria; sottolinea, con un tono di prevalente ironia ma al
contempo una forte carica di denuncia sociale, le permanenze arcaiche del Sud «bandito»43; osserva
l’incongruenza tra la rutilante modernizzazione italiana e le sopravvivenze culturali decisamente
premoderne della cultura sessuale dei suoi contemporanei. Se in La lunga strada di sabbia il format del
viaggio solitario in macchina, così ricorrente nel testo dell’autore44, non prevede l’interdialogicità ma
piuttosto la scoperta solitaria di luoghi e volti, in una logica di continuo incanto ed epifania45, Comizi
d’amore esibisce invece la modalità tipicamente etnologica dell’intervista/inchiesta, delineando una
panoramica di gruppi e individui che increspano l’immagine trionfalistica della modernità italiana, lasciando
affiorare i fantasmi di quella scissione tra sviluppo economico e progresso culturale che sarà una delle
parole d’ordine del Pasolini corsaro. E proprio come un etnologo sembra disporsi Pasolini nel progettare
questa impresa, quando nel trattamento che la precede, Cento paia di buoi, non solo disegna una precisa
«intelaiatura dell’inchiesta», ma si interroga anche sulla modalità dialogica e sul necessario «tono di
immediatezza espressiva» da mantenere nell’opera46. Pasolini documentarista tra demologia ed etnografia
urbana Nel periodo di cui ci stiamo occupando, tra i primi anni cinquanta e metà del decennio successivo,
Pasolini partecipa a suo modo agli studi delle tradizioni popolari lavorando alle due raccolte antologiche, e
insieme elabora un metodo di dialogo e di rifunzionalizzazione etnografica del proprio oggetto elettivo, il
sottoproletariato delle borgate e più in generale il popolo italiano. Il profilo antropologico del Pasolini di
questi anni sarebbe però incompleto senza un ultimo breve tassello di cui ci occuperemo, i commenti per
documentari composti tra il 1956 e il 1961, e in particolare quelli relativi alla documentazione di fenomeni
folclorici, Il Mago, realizzato nel 1958 da Mario Gallo, e Stendalì di Cecilia Mangini, uscito nel 196047. I due
lavori hanno in comune l’utilizzazione di centoni di testi poetici popolari compresi nel Canzoniere italiano, a
riprova di quel riuso documentario di cui si è parlato prima.48 Altri due documentari elaborati negli stessi
anni con Cecilia Mangini, Ignoti alla città (1958) e La canta della marane (1961), mantengono invece un
forte legame intratestuale con Ragazzi di vita e con altri testi pasoliniani di questi anni, e ne condividono
l’origine nella documentazione antropologica che Pasolini raccoglie durante le sue flânerie nelle strade
delle borgate49. Ci sembra interessante che anche nel campo del documentario audiovisivo Pasolini si
muova agilmente tra il versante più propriamente demologico e quello di etnologia urbana, se
consideriamo che egli, nel momento in cui esprime ammirazione per il lavoro di Ernesto De Martino, si
rammarica del fatto che l’antropologo non si sia occupato delle nuove culture della città. Leggiamo: è
veramente un peccato che De Martino anziché occuparsi della cultura popolare della Lucania non si sia
occupato della cultura popolare di Napoli. Del resto nessun etnologo o antropologo si è mai occupato, con
la stessa precisione e assolutezza scientifica usata per le culture popolari contadine, delle culture popolari
urbane50. Questa considerazione suggerisce come l’ambizione del Pasolini degli anni della modernizzazione
sia proprio quella di modellizzare le culture popolari urbane, così come De Martino fa per quelle del sud
rurale, attraverso un lavoro sul campo che ne fotografi lingue, corpi, comportamenti, secondo il paradigma
etnologico, basato sul profondo coinvolgimento del soggetto e sulla rielaborazione narrativa del dato
documentario. Le due diadi di documentari a cui ci stiamo riferendo, da una parte Il Mago e Stendalì,
dall’altra Ignoti alla città e La canta delle marane, pur presentando composizioni differenti, l’una citazionale
e l’altra originale, non solo presentano alcuni aspetti stilistici in comune, ma soprattutto rivelano
un’intenzione convergente. Caratteri espressivi propri della poesia popolare, come l’uso insistito di anafore
ed epifore, lasciano intravedere una comune matrice ispirativa, ma anche la medesima ambizione di
preservare la memoria di un oggetto che in una didascalia di Stendalì si definisce «sopravvivenza
arcaica».51 In tal senso il pianto rituale documentato da De Martino, le cui fasi sono perfettamente
riprodotte da Mangini e Pasolini in Stendalì52, ha lo stesso significato di «difesa culturale della crisi di
miseria psicologica»53 del rituale dei bagni nel fiume, «li caposotti, le panzate, i pennelli, i caprioli»54, o di
altre costellazioni di comportamenti e caratteri propri del paradigma rappresentativo pasoliniano, dalla
fame alla risata, dal furto al vagabondaggio per la città. Ma si badi che quella che Pasolini in L’odore
dell’India chiama la «terribile monotonia»55 dei modelli culturali popolari, fondati sul «ripetere a uno a uno
gli atti del padre»56 proprio della declinante civiltà contadina, è tutt’altra cosa da quell’«omologazione»
che sarà registrata di lì a poco e che produrrà la percezione residuale dell’io, ormai privato della relazione
antropologicamente fondante con l’altro, un vissuto abbandonico espresso sovente nell’allegoria del
«rudere»57. Ciò che il «genocidio» per Pasolini cancella è esattamente il paesaggio umano, ovvero la
pluralità degli individui all’interno di un etnos comune e “appaesante”58. Restituire presenza, dignità e
dicibilità a ciò che la modernità occulta, alla varietà infinita dell’umano, è il fine etico e culturale su cui
convergono Pasolini e l’antropologia. Un fine che Pasolini ha perfettamente espresso in un passaggio di La
forma della città, dedicato alla salvaguardia della bellezza, ovvero dei piccoli tesori dimenticati degli antichi
luoghi antropici italiani: Questa strada per cui camminiamo, con questo selciato sconnesso e antico, non è
niente, non è quasi niente, è un’umile cosa. Non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte,
d’autore, stupende, della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina da niente, così umile, sia
da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende
un’opera d’arte di un grande autore. Esattamente come si deve difendere il patrimonio della poesia
popolare anonima come la poesia d’autore, come la poesia di Petrarca o di Dante […]; voglio difendere
qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende e che è opera, diciamo così, del
popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città.

RIASSUNTO LIBRO RAGAZZI DI VITA – PIER PAOLO PASOLINI

Capitolo 1 – Il Ferrobedò
EPISODIO 1. Il capitolo si apre con la prima comunione e la cresima di Riccetto, il protagonista del
romanzo. Viene descritto il suo arrivo alla chiesa da via Donna Olimpia, con il suo abbigliamento simile
a chi “vuole rimorchiare”. Dopo la comunione di Don Pizzuto e la cresima del vescovo, i ragazzi vanno
nel cortile del ricreatorio a fare le foto. Riccetto aveva fretta “di tagliare” e fugge dalla chiesa vuota,
rifiutando l’invito del compare ad andare a casa sua per il pranzo. Passaggio questo che mette in
evidenza il rifiuto di Riccetto sia per la religione che per i doveri famigliari. Da Monteverde Vecchio ai
Grattacieli c’è una gran folla: lì si trova il Ferrobedò, simile a un “immenso cortile” o una “prateria
recintata”, in cui da una parte si trovano le casette di legno, dall’altra i magazzini. Alla fine del
corridoio del Ferrobedò quattro Tedeschi non lasciavano passare; il Riccetto pensa di rubare un
tavolo, quando viene fermato da un giovane che gli suggerisce di andare a rubare nei magazzini dei
fasci di canapetti (corde di canapa) che il Riccetto riporta in via Donna Olimpia in cinque viaggi. Il
Riccetto scopre un deposito d’armi e monta in groppa a un cavallo, ma un Tedesco lo caccia via. Intanto
a Buon Pastore i ragazzi giocano o fanno il bagno in una vasca, prima che un Tedesco cacci i ragazzi
dopo aver schiaffeggiato Marcello. Agnolo, un altro dei ragazzi, spinge gli altri a tornare al Ferrobedò.
Con Riccetto e i suoi amici vanno nel magazzino di un’officina a rubare grasso e altri materiali
meccanici. Il fratello di Marcello lo riporta al Ferrobedò per portare via dei copertoni di automobile,
prima che l’arrivo dei Tedeschi li portasse a scappare. Il giorno dopo Riccetto e Marcello scendono alla
Caciara (Mercati Generali). Qui la folla preme contro i cancelli del mercato chiuso, forzando la chiusura
da parte dei Tedeschi e dell’APAI (Polizia Africana Italiana). La folla riesce a entrare e gira per i
magazzini non trovando inizialmente nulla, fino a quando un gruppo di giovani scopre una cantina con
mucchi di copertoni e tubolari, teloni e forme di formaggio. Quando si sparge la voce centinaia di
persone si riversano lì schiacciandosi, fino a che un’inferriata si rompe e una donna muore cadendo
giù. Marcello scavalca la donna e torna verso casa, ma al Ponte Bianco la milizia sequestra la roba.
Arriva il Riccetto e insieme a Marcello guarda la scena dei giovani che riprendono la propria roba
dall’APAI.
EPISODIO 2. Riccetto e Marcello vanno verso il Ponte Bianco per andare a cicche. Qui si allude a una
passata esperienza lavorativa al servizio delle camionette, ma era stato licenziato perché scoperto dal
capo ad aver rubato un mezzo sacco. Sotto il “sole africano” Riccetto e Marcello osservano la zona del
Ponte Bianco, poi scendono verso San Paolo arrivando ad Ostia. Qui vanno gattoni a raccattare i
mozziconi di sigaretta, ma stanchi dal caldo decidono di andare a fare il bagno. Qui il paesaggio tra
Parco Paolino e la facciata di San Paolo: da una parte il vuoto senza stabilimenti, né barche, né
bagnanti e a destra un ammasso di gru e ciminiere, tutto serpeggiato da un frammento inquinatissimo
del Tevere. Qui nasce l’idea dei due di una gita in barca, tramite i soldi che avrebbero rimediato grazie
al cacciagomme di Agnolo. Si divertono a tirare serci (ciottoli) in mare, quando sono inseguiti da un
travestito di colore. Fuggendo sbucano sul lungotevere in direzione della facciata di San Paolo;
rasentando la basilica si imbattono in un cieco che chiede l’elemosina. Riccetto si consulta con
Marcello, che non ha molta voglia di far nulla; a questo punto è Riccetto a prendere l’iniziativa e a
rubare i soldi del cieco, per un totale di “un sacco” (mille lire). A Donna Olimpia i due trovano Agnolo
che giocava a pallone, dopodiché i tre vanno verso Trastevere quando è ormai buio. Rubano un
chiusino (coperchio della fognatura) e lo riportano in vicolo dei Cinque dove un compratore lo paga
per duemila e settecento lire; i tre vanno verso il Gianicolo e scoperchiano un’altra fognatura: qui
accettano un pezzo della tubatura e la riportano al compratore guadagnando centocinquanta lire al
chilo. Verso Mezzanotte vanno verso i Grattacieli, dove si uniscono a Rocco nella sua casa, dove si sta
giocando a zecchinetta. Si uniscono al gruppo dei “grossi” e perdono tutto ciò che avevano guadagnato.
Rimane solo l’elemosina del cieco, che Riccetto aveva nascosto nella scarpa.
EPISODIO 3. I tre scendono verso lo stabilimento gestito da Orazio, sulle sponde del Tevere,
accompagnati dal cane di Agnolo. Sul trampolino verso Monte Sisto decine di ragazzi gareggiano nei
tuffi, ai quali si aggiungono i tre: sono il Remo, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione, Pallante, Ercoletto,
Remo. Dopo la gara di tuffi e le battaglie col fango, i tre decidono di affittare una barca, ma Giggetto il
bagnino non accetta di affittare le barche ai ragazzini e in particolare a Marcello; Agnolo invece riesce a
farsi affittare la barca. Nessuno è esperto di navigazione, mentre Marcello si sforza molto sui remi per
contrastare la corrente da Ponte Sisto a Ponte Garibaldi. Il Guaione, addetto alle barche, gli strilla
dietro perché teme che i ragazzi vogliano rubargli la barca. All’altezza di Ponte Sisto un gruppo di
ragazzi più grandi nuota fino alla barca e prende il possesso dei remi, mettendo in difficoltà la
struttura sovraccarica della barca, che intanto accumulava acqua. A questo punto Riccetto, avendo
avvistato una figura nera sull’acqua, si sporge mettendo in pericolo tutti; è una rondine che stava
affogando nell’indifferenza di tutti, in particolare di Marcello che incita Riccetto a lasciarla affogare.
Riccetto si getta in acqua rischiando di venire risucchiato dalla corrente e, vincendo la resistenza della
stessa rondine che lo mordicchiava, la porta alla riva, aspetta che le si asciughino le piume e la vede
volare verso il cielo. Lì si confonde tra le altre e non la riconosce più, tra lo sguardo incerto degli altri
ragazzi che sarebbero rimasti più contenti nel godersi lo spettacolo del suo annegamento.
Capitolo 2 – Il Riccetto.
EPISODIO 1. Estate 1946: all’angolo delle Zoccolette Riccetto vede un napoletano che propone per
strada un gioco d’azzardo al quale i passanti cascano senza rendersi conto che anche tra la falla vi sono
dei complici del giocoliere. Riccetto si rende conto che potrebbe essere un buon affare e chiede al
napoletano di insegnarli il gioco; quest’ultimo accetta ma gli chiede ovviamente di dividere le entrate.
Arrivati a Donna Olimpia il napoletano tenta di insegnare il gioco a Riccetto, che non capisce; si
spostano così dalla casa di Agnolo alla scuola Franceschi, dove per la seconda volta gli viene spiegato il
gioco. Arriva l’ora della sera e i due decidono di andare a bere in un’osteria: prendono il tram fino al
capolinea di Monteverde Nuovo, dove ordina del vino Frascati. Continuano i discorsi sconclusionati tra
i due, dove “uno considerava l’altro un fesso, tutto soddisfatto quando parlava lui, scocciato quando
doveva stare ad ascoltare. A quel punto il napoletano confessa al Riccetto di aver ucciso una vecchia
signora e le due figlie zitelle e di aver dato loro fuoco; a questo punto tra i due inizia una gara a chi
racconta la storia più scabrosa, fino a che il Riccetto racconta di quando hanno pestato a sangue un
“froscio” per “rubargli un par di mila lire”. Finisce poi con la storia di due polacchi che mettono fuoco a
delle prostitute che richiedevano il denaro voluto. Il napoletano racconta infine di essere arrivato a
Roma da poco e non avere un posto in cui dormire, lo stesso i suoi compagni; Riccetto si promuove
come guida dei “mejo posti”. I due si danno appuntamento per il giorno dopo a Ponte Sublicio.
EPISODIO 2. Riccetto frequenta adesso due ragazzi più grandi di Marcello (che intanto lavorava come
barista) e Agnolo (che faceva il “pittore” col fratello). Nel frattempo con i salernitani per un primo
tempo non era andata poi male; dopo varie puntate vincenti tramite il gioco delle carte, da piazza di
Spagna a Campo dei Fiori, una retata della polizia porta all’estradizione dei due da Roma e alla fuga di
Riccetto dalla zona dopo essere stato inseguito da un poliziotto armato. Toglie dal nascondiglio, una
grotta di Ponte Sublicio, i cinquanta sacchi conservati e abbandona la zona. Rocco e Alvaro decidono
quindi di accompagnarlo ad Ostia e si accordano con una prostituta del luogo, Nadia, che li avrebbe
incontrati allo stabilimento Marechiaro; qui gli amici vanno a turno nella cabina con Nadia. Quando è il
turno di Riccetto lui indugia un po’ e poi si chiude con lei nella cabina; mentre lei gli abbassa i
pantaloni, però, abilmente gli sfila i soldi e li nasconde nella sua borsa appoggiata lì vicino.
EPISODIO 3. Il capitolo si apre con la descrizione delle abitazioni di Marcello e Riccetto: il primo
abitava ai Grattacieli, il secondo abitava nelle scuole elementari Giorgio Franceschi, precisamente nel
corridoio delle aule che era stato separato in altre stanze. La narrazione è incentrata su Marcello,
rimasto solo a Donna Olimpia, perché tutti i ragazzi la domenica vanno a Ostia e gli uomini vanno nelle
osterie a bere; nelle case rimangono solo le donne che hanno finalmente il tempo di riposarsi. Marcello
si presenta a casa di Riccetto, ma la madre Adele informa che il figlio si trova in giro e che non sapeva
quando sarebbe tornato. A questo punto Marcello segue dei ragazzi più piccoli che vanno verso il
Monte Splendore, dove la cagna di Zambuia ha partorito dei cuccioli. Marcello chiede di comprarne
uno, ma Zambuia fissa il presso di cinque piotte: all’insistenza di Marcello, che fa notare che al giardino
zoologico sono quasi gratuiti, Zambuia cede al prezzo di una piotta. Marcello torna a casa di Riccetto,
ma è ancora in giro; la scena termina con un’esplosione che provoca un polverone, mentre Marcello si
ritrova a terra. Cambio inquadratura: Riccetto torna verso Donna Olimpia, svoltando verso il
Ferrobedò e la stazione di Trastevere, ma già in lontananza percepisce un gran trambusto. Arrivato sul
Ponte Bianco si ritrova tra la folla e il blocco della polizia, mentre verso Monteverde Nuovo passano le
macchine dei pompieri. A questo punto incontra Agnoletto e, credendo si tratti di un incendio al
Ferrobedò, si addentrano ancora verso Donna Olimpia, ma il passaggio gli viene negato. A nulla serve
cercare di entrare in un passaggio scavato dagli operai attraverso viale dei Quattro Venti; decidono di
prendere la via più lunga, quella della circonvallazione Gianicolese, arrivando prima in piazza
Monteverde Nuovo e poi in un altro mezzo chilometro a Donna Olimpia. Arrivati vengono a
conoscenza del crollo delle scuole dove abita Riccetto, tra una montagna di rifiuti e detriti (che ricorda
il precedente Monte Splendore), mentre le donne del palazzo di fronte urlano e piangono.
EPISODIO 4. Marcello viene portato in ospedale con l’autoambulanza. Vengono diagnosticate due
costole rotte; viene sistemato in un lettino tra un vecchio lamentoso e un uomo di mezza età che
muore e che viene sostituito da un altro vecchio. Marcello passa le giornate ad aspettare il cibo che
però rifiuta di mangiare; con il passare del tempo diventa sempre più debole e l’appetito diminuisce,
mentre ogni piccolo movimento gli provocava un gran dolore. Intanto a Donna Olimpia il sindaco
aveva ammassato le famiglie nei vari conventi o nelle case sfrattate, mentre la vita quotidiana era
tornata nella sua routine: i vecchi andavano nelle osterie e i viali erano pieni di ragazzi. Quando Agnolo
e Oberdan vedono la famiglia di Marcello andare a capo chino verso l’ospedale San Camillo, decidono
di seguirli e andare a trovarlo. Marcello è molto stanco e dolorante, ma non è per niente colpito dal
fatto che molto probabilmente morirà. Chiede ad Agnolo di parlare con Zambuia per curarsi del cane
che aveva comprato, promettendo un’altra piotta; successivamente allude a un’assicurazione con la
quale avrebbe comprato una bicicletta nuova. Infine chiede notizie di Riccetto, alludendo al fatto che la
madre è morta; i due lo mettono al corrente che Riccetto manca da circa quindici giorni e che è rimasto
molto colpito dalla morte della madre. A quel punto i vecchi iniziano a lamentarsi e Marcello si sente
mancare; la suora lo visita chiedendo di portare pazienza, la madre si inginocchia e inizia a piangere
ormai rassegnata. “Ma allora... devo proprio morì...”: Marcello prende coscienza della sua morte
imminente ma non si lascia andare nella disperazione, anzi chiede agli amici di salutare tutti a Donna
Olimpia e avvisargli “ch’io non ce ritorno più.”
Capitolo 3 – Nottata a Villa Borghese.
EPISODIO 1. Il capitolo si svolge nella zona Tiburtina dove Riccetto e Caciotta, che spingono un
carretto con delle poltrone, si incontrano con Begalone e un altro ragazzo che Riccetto chiama
“cugino”, il quale va subito via. I tre decidono di andare a bere del vino; subito dopo Riccetto e Caciotta
decidono di vendere i divani sotto suggerimento degli altri due, andando verso Porta Portese senza
passare per San Lorenzo, dove si trovava il principale che li aveva mandati a consegnare le poltrone a
Casal Bertone. Vendono i divani ad Antonio lo stracciarolo, lo stesso al quale avevano venduto i pezzi
dei chiusini tre o quattro anni prima (unico riferimento temporale del capitolo). I due, guadagnati una
quindicina di sacchi, vanno in Campo dei Fiori dove acquistano pantaloni, magliette e occhiali da sole; i
vestiti vecchi li lasciano in un bar. Acquistano una copia di Paese Sera per decidere dove andare a
passare la serata: decidono per il Sistina, dove guardano per due volte un film. La passeggiata prosegue
insultando i vari passanti e ammiccando le donne che incrociavano la strada. Decidono dunque di
andare verso Villa Borghese, fino al Pincio e alla Casina Valadier, dove Riccetto ne approfitta per
riposarsi su una panchina. I due tramite uno scambio di battute conoscono un ragazzo di colore, detto
Negro, al quale si aggiungono il Calabrese e il Cappellone, che possiede una rivoltella. I tre decidono di
andare a trovare er Picchio all’uscita di Villa Borghese; questi stava litigando con le prostitute
insultandole perché non accettano di vendersi a lui. Ai sei adesso si unisce anche un certo Lenzetta;
tutti e sette vanno a farsi un litro di vino offerto dal Picchio vicino la stazione Termini; poi vanno verso
via Veneto. Decidono di andare ad assoldare delle prostitute, ma avevano ormai tutte terminato il
turno. L’indomani Riccetto si risveglia senza scarpe e senza soldi, lo stesso Caciotta che era rimasto
anche senza occhiali; anche il Lenzetta si ritrova nella medesima situazione, mentre gli altri tre fanno
finta di nulla, facendo però capire che erano a conoscenza del furto. Riccetto prima di andare via passa
accanto al collassato Picchio, gli sfila le scarpe e le indossa, benché rovinate e di misura ristretta.
EPISODIO 2. Riccetto e Caciotta, senza un soldo, vanno a mangiare in un Refettorio, dove sono accolti
da un frate che chiede loro le generalità (i due ovviamente daranno dati falsi). Per circa dieci giorni i
due vanno a pranzare lì, arrangiandosi la sera perché i frati chiudevano; finché non notano una signora
con un portafoglio certamente ricco che derubano sulla circolare. “un amen non saria potuto
dirsi/tosto così com’ei furo spariti” (Inferno, canto XVI). Imboccano l’arco di Santa Bibiana da San
Lorenzo; da qui vige un clima di serenità grazie alla conquista della “grana, che è la fonte di ogni
piacere e ogni soddisfazione in questo zozzo mondo.” Dopo aver aspettato vari autobus, i due decidono
di prenderlo anche se gremito di gente. Qui Caciotta incontri vecchi amici di Tiburtino, tra cui
Ernestino e Franco detto Penna Bianca, che frequentava quando “Tiburtino e Pietralata erano ancora
in mezzo alla campagna”; passavano le giornate mangiando cipolle raccattate o guadagnandosi
qualcosa con piccole ruberie. Caciotta racconta di quando i due lavoravano per conto di un
“cocommeraro” che li aveva licenziati quando la madre mangiò il suo coniglio, che allevava insieme a
un maiale; il cocommeraro licenzia i due rei di non aver badato all’animale. Oppure un altro racconto
di quando i due lavoravano a un circo e per un’intera notte avevano inseguito Rondella, una cavalla
maremmana, che era fuggita dal circo per farsi il bagno nell’Aniene; un passaggio di una notevole
vitalità, leggerezza e purezza formale. Tra i ragazzi si avvicina un ragazzo di Pietralata, scuro di pelle e
di capelli, un certo Amerigo, che alla fine del capitolo avvicina Riccetto.
Capitolo 4 – Ragazzi di vita.
EPISODIO 1. Amerigo, Riccetto e Caciotta scendono a Forte di Pietralata. Amerigo vuole portare
entrambi da Fileni, nonostante Riccetto non volesse proseguire con loro per andare a riposare;
conoscendo però la forza fisica di Amerigo (una volta lo aveva visto portare sei sedie con un braccio
solo) è impaurito da lui, e per questo non riuscirà mai a dirgli di no. Così viene convinto proprio da
Amerigo ad accompagnarlo da Fileni, giù per corso Tiburtino. In uno degli appartamenti di un palazzo
si stava giocando a zecchinetta; Riccetto ricordava la sua esperienza da ragazzino, quando aveva perso
i soldi guadagnati con le tubature della fonatura. Amerigo si volta verso il Caciotta e gli chiede di
prestargli i soldi; ovviamente a conservare il denaro è Riccetto, che è scettico sulla giocata ma non può
dir di no all’insistenza di Amerigo. Alla prima puntata Amerigo vince, ma dalla seconda in poi non
vincerà più; Riccetto vede il suo patrimonio dilapidato puntata dopo puntata. Quando quindi non
accetta di prestare altri soldi ad Amerigo, questi lo prende in disparte e gli chiede insistentemente di
prestargliene altri perché il giorno dopo glieli avrebbe ridati, facendo riferimento a una presunta
buona reputazione in tutta Pietralata. Riccetto, sicuro che non gli sarebbero stati restituiti ma
preoccupato dall’insistenza di Amerigo, gli concede altro denaro che andrà prontamente perduto. I tre
si alzano e vanno verso la Tiburtina; qui Riccetto tenta di allontanarsi, ma Amerigo ancora una volta
chiede ai due di riaccompagnarlo al tavolo della giocata. Qui tenta di persuadere i due raccontando la
sua esperienza in carcere e mostrando i segni delle frustate sulla schiena; segni che Caciotta non riesce
a vedere, ormai scomparsi, ma che fa finta di notare per non scatenare l’ira di Amerigo. A questo punto
i tre possono tornare nell’appartamento del gioco: mentre Amerigo gioca ancora i soldi di Riccetto,
quest’ultimo si defila lentamente verso l’uscita senza farsi notare.
EPISODIO 2. Poco dopo arrivano i carabinieri; per fortuna Riccetto era uscito pochi minuti prima e
riesce a scappare fino a Tor Sapienza. Arriva in autobus fin sulla Prenestina. Lì ormai la strada era
popolata da poco di buono, vecchi ubriaconi e bande di ragazzi. Qui compra delle sigarette e si sposta
verso il Pigneto, poi verso la Borgata Gordiani. Dei ragazzi avevano denudato un passante, verso il
quale il Riccetto prova un senso di compassione; si avvicina alla banda che lo aveva malmenato
chiedendo spiegazioni. Qui riconosce il Lenzetta, già incontrato qualche sera prima in Villa Borghese. I
ragazzi avevano fame e quindi erano in cerca di un’osteria; nel frattempo alludono a una certa Elina,
prostituta rimasta incinta da quattro mesi. Arrivati all’incrocio della Maranella sentono dei passi: “so’
quelli del circo, li mortè”, ma in realtà si tratta solo della processione. Tra loro un vecchio sale su un
tavolo e inizia un discorso di esaltazione verso il cristianesimo e di denuncia al comunismo; a tale
retorica rimane affascinato uno dei ragazzi, il Mozzone. Riccetto invita Lenzetta a fare un giro, facendo
però presente che non ha soldi per tutti quanti, ma solo per loro due. Lenzetta si allontana dalla
compagnia e i due vanno a trovare Elina; finito il servizio si lavano e vanno a dormire verso la Borgata
Gordiani, tra Centocelle a Tiburtino, dove Lenzetta aveva sistemato in due grossi bidoni della paglia. Lì
si mettono a dormire.
EPISODIO 3. Il paragrafo si apre con la descrizione delle attività del Lenzetta: lavorava il men che
poteva per qualche pescivendolo o qualche piazzista e un po’ rubando per le bancarelle e nei tram.
Ogni tanto andava dalla Prenestina al Quadraro con un sacco a cercare ferri vecchi o pezzi di piombo.
In periferia ormai ci andavano solo per dormire; il resto del giorno lo passavano al centro di Roma,
cercando di rimediare i soldi anche per il giorno successivo. Entrando dall’Appia Nuova verso la zona
di Acqua Santa si occupavano di piccoli furti ai danni dei turisti. Un giorno i due incontrano Alduccio, il
cugino di Riccetto, il quale li informa che Amerigo è morto: durante la retata dei carabinieri, questi era
saltato giù verso il cortile ed era stato colpito sulla spalla da un colpo di pistola. In ospedale aveva
tentato poi di suicidarsi con un bicchiere rotto; fallito il tentativo si era gettato da una finestra
dell’ospedale ed era morto dopo una settimana di agonia. I ragazzi decidono così di andare ai suoi
funerali a Pietralata il giorno dopo. Amerigo indossava un vestito blu che aveva comprato dopo un
rapina. Attorno al suo cadavere si dispongono i famigliari, le zie in particolare che occupano con la loro
fisicità tutta la stanza e in disparte gli amici di Amerigo; tra di loro aleggia un’aria di paura e di timore,
quasi che possa rialzarsi da un momento all’altro. Note erano infatti le risse che lo avevano visto come
protagonista; addirittura i carabinieri avevano disposto che non uscisse di casa col coltello, che adesso
teneva riposto nella tasca della camicia. Tra i Lucchetti, la famiglia di Amerigo, si discuteva a denti
stretti, in un’aria di rancore e voglia di vendetta; le donne erano invece in casa a piangere. Tra questi lo
zio più giovane, Alfio Lucchetti, che aveva la sua stessa espressione di nervosismo; qualche mese prima
aveva sparato al barista all’angolo. Riccetto e Alduccio si incamminano dietro al corteo, dopo che il
prete era entrato in casa e aveva benedetto la bara. Riccetto è molto annoiato dal funerale, come
Alduccio, e entrambi si devono sforzare di non ridere; la scena è attorniata da un’aria primaverile
leggerissima, che certamente rende meno appesantita la scena, ma accentuandone l’ambiguità. Dopo
aver girato l’angolo del bar il carro funebre si allontana verso il Verano, seguito dal taxi che
trasportava i parenti più stretti di Amerigo Lucchetti.
Capitolo 5 – Le notti calde
EPISODIO 1. Il Lenzetta attende Riccetto e Alduccio mentre i ragazzini giocano a palline, sotto lo
sguardo di Elina la prostituta. Qui si racconta la storia di Lenzetta, che era stato rinchiuso a Regina
Coeli, dove ora era rinchiuso il fratello, e Porta Portese; dopo qualche settimana tramite la
condizionale era ritornato a Torpignattara. La sera stessa si era ubriacato al bar dando inizio a un
episodio che lo avrebbe portato a subire l’aggressione del fratello: tornato a casa, invece di dormire si
era messo a cantare tanto da svegliarlo; questi, il giorno dopo, lo aveva portato con il motorino in un
luogo appartato e i due si erano picchiati per mezz’ora. Arrivano Riccetto e Alduccio e vengono
accompagnati da Lenzetta in via dell’Amba Aradam, dove in zona si trovava un cantiere di operai,
luogo ideale per far bottino di ferraglia. Per il trasporto i tre si devono affidare al triciclo di Remo, un
signore di Maranella, che avrebbe successivamente accettato di prestarglielo a patto che i tre
vendessero a lui il materiale e al prezzo che lui avrebbe scelto. Per pagare il biglietto del tram i tre si
posizionano nel parco vicino porta San Giovanni; qui Alduccio aveva guadagnato tre piotte facendosi
palpare da un uomo. Arrivati al Pigneto vanno a incontrare Remo, seduto a un tavolo di osteria; qui
fanno il patto sulla vendita della mercanzia. I tre tornano al cantiere pedalando a turno il triciclo;
arrivati ammucchiano la roba più interessante, allontanando minacciosi un ragazzo che si era fermato
a osservarli. Si avviano sulla via Appia Nuova; a un certo punto Riccetto e Lenzetta si allontanano per
andare dal carrettinaro, rubando un carrettino perché il negozio era chiuso. A un certo punto si
vedono venire incontro un vecchio con in mano una delle travi rubate da loro, il quale li avverte che
Alduccio era fuggito perché forse era passata una pattuglia della polizia. I due tornano indietro e
ritrovano Alduccio che si era nascosto dietro un cespuglio. Aiutati dal vecchio iniziano a caricare la
merce sul carrettino; Alduccio sarebbe andato avanti da solo col carrettino, gli altri dietro a controllare
che non arrivasse nessuno. Passeggiando il vecchio dice loro che andava a rubare dei cavoli per
mantenere le sue cinque figlie; all’udire ciò Riccetto e Lenzetta si scambiano un’occhiata. Riccetto con
una scusa allontana Alduccio, che torna a casa trascinando il carretto. In via Arco di Travertino i tre
vanno in un’osteria e ordinano del vino; qui fanno dei discorsi di natura religiosa sulla Madonna:
Riccetto non crede alla verginità, mentre il vecchio è più vago sull’argomento. Lenzetta ricorda a
Riccetto del suo passato di raccattatore alla mensa dei poveri; tra i due c’è un lungo scambio di risate
che culmina in un tonfo. Riccetto, piegandosi sotto la tavola, vede una beretta che il Cappellone
(Lenzetta), raccoglie e rimette in tasca; a questo punto Riccetto pensa che sia stato proprio lui a
rubargli le scarpe e i soldi la sera a Villa Borghese. A questo punto i due chiedono al vecchio di fargli
vedere la foto delle figlie; prima di ciò si intravede la carta d’identità del vecchio, Antonio Bifoni, classe
1896, iscritto al Partito Comunista. Dall’osteria i tre vanno da Porta Furba al Quadraro, dove da delle
casette isolate si arrivava in un orto, che si trovava tra una stradina bianca e una villa. Sotto alla
scalarola (cancello) il vecchio Antonio passa attraverso un passaggio coperto da delle canne. Qui i
ragazzi e il vecchio iniziano a tagliare i cavolfiori facendo attenzione a non far troppo rumore; non
tanto i ragazzi, ma vengono richiamati a far silenzio dal vecchio che dice loro che suo “nipote per un
cavolo, ma uno de numero s’è fatto sei mesi de priggione”. Il Lenzetta chiede al vecchio se sua figlia sia
fidanzata; alla risposta negativa del vecchio, i due si propongono di portare l’intero sacco. Da Porta
Furba arrivano alla Borgata degli Angeli, tra Tor Pignattara e il Quadraro. Qui li vecchio li invita a
salire. Apre la porta la figlia Nadia, “una bella sorcona di manco vent’anni”, che subito attira
l’attenzione dei due. All’interno della casa una brandina rossa su cui riposavano due figlie più piccole.
A Nadia i due si presentano come Mastracca Claudio (Riccetto) e De Marzi Arfredo (Lenzetta). Il sor
Antonio dice alla figlia che i ragazzi l’avevano aiutata a rubare i cavoli; a questo punto Nadia va via
piangendo. La incalza sua madre, sora Adriana, “bona più la madre che le fije” pensa Riccetto. A loro lei
ha più piacere nel presentarsi; successivamente torna Nadia, ricompostasi e tranquillizzata da Riccetto
che la rassicura che “tutti rubbano, chi più chi meno”. Entra l’altra sorella, di quasi diciotto anni, tutta
sistemata con il vestito buono e il rossetto; si presenta quindi Luciana, con un’aria certamente meno
innocente della sorella Nadia. Poco dopo arriva la terza figlia, coi capelli rossi e la faccia lentigginosa,
che rimane a guardare un po’ in disparte i ragazzi. sor Antonio vuole offrire un caffè ai ragazzi, tra
l’imbarazzo della moglie e delle figlie che hanno dimenticato di comprare lo zucchero; tutti bevono il
caffè disgustoso preparato dalle donne, poi i ragazzi decidono di andare via. Nello scendere le scale il
Lenzetta e Riccetto sono accompagnati da sor Antonio; sono ormai le quattro di notte e da lontano,
verso i Colli Albani, la città appariva rossa. Il Riccetto allunga al sor Antonio una piotta e mezzo, che
quest’ultimo in un primo tempo rifiuta e poi accetta. Alla fine dell’episodio Lenzetta ascolta due o tre
civette che strillavano (simbolo tipicamente pascoliano), “mettendo tutt’insieme in un mucchio il
pensiero della parte di bravi ragazzi che avevano fatto, della famiglia Bifoni e della morte, stette un
momento sovrappensiero e poi mollò un peto”, “ma gli venne sforzato, perché non era de core”.
EPISODIO 2. Al Bar della Pugnalata o del Tappeto Verde era ormai noto il fidanzamento di Riccetto, che
si era fidanzato con la ragazza coi capelli rossi e le lentiggini. Nel frattempo aveva cambiato
“residenza”: non più i bidoni della Borgata Gordiani, ma un posto in via Taranto scoperto dal Lenzetta,
dove si trovava una sorta di granaio, un pianerottolo, in cui erano conservati i cassoni dell’acqua;
dall’altra parte un appartamento sempre chiuso, che alla fine del capitolo sarà scassinato e che sarà la
causa dell’incarcerazione di Riccetto. Data l’evenienza aveva smesso di andare in giro coi ragazzi la
domenica e portava lei al cinema; ma il fidanzamento gli veniva a noia, così era solito imbastire dei
litigi per avere una scusa per picchiarla. Quindi Riccetto non smette di partecipare a dei furtarelli,
come quelli ai danni del padrone del Bar della Pugnalata o nei confronti dei padroni del Lenzetta a
Porta Portese. Adesso Riccetto aveva bisogno dei soldi per comprare un anello per la sua fidanzata; in
quattro (lui, Alduccio, Lenzetta e un certo Lello) vanno a compiere un furto verso Porta Metronia, dove
erano stati l’ultima volta. Il tempo era dei peggiori, con raffiche d’acqua e tuoni che parevano “che sei o
sette cupoloni di San Pietro [...] fossero sbattuti uno contro l’altro lassà un mezzo al cielo”. I ragazzi
fanno la conta: Lello sarebbe entrato per primo, mentre il Riccetto sarebbe stato fuori con il sacco.
Lello fa un sacco pieno di arnesi, ferri e trapani, ma è troppo pesante e torna indietro per chiedere
l’aiuto degli altri due, che nel frattempo però erano andati in un magazzino vicino a rubare delle forme
di formaggio. Il Riccetto vede tornare Lello, che però viene assalito dal guardiano del magazzino; gli
altri due, Lenzetta e Alduccio, si accorgono della scena e lasciano stare le forme di formaggio per
aiutare Lello. Si forma una ressa e il padrone chiama in suo aiuto gli altri operai della zona, tra cui il
padrone di un Forno. Alduccio riesce a svignarsela e tenta di saltare al di là della recinzione, ma si
trafigge la coscia con un ferro; Riccetto corre a salvarlo fasciandogli la ferita e lasciandolo al
Fatebenefratelli. Gli altri due nel frattempo erano stati catturati dagli operai. Riccetto, preoccupato del
fatto che i ragazzi avrebbero confessato, rimane fuori tutta la notte a vagabondare.
EPISODIO 3. Riccetto torna verso via Taranto aspettando che fossero piazzate le bancarelle del
mercato, ma a quanto pare era ancora troppo presto. Mentre gira la zona, tremante come una foglia
per il freddo, sente dei tonfi provenire da pizza Re di Roma. Lì era in azione il servizio netturbini, che
stava raccogliendo la spazzatura. Insieme agli operai, un giovane accattone aveva il permesso di
controllare lì tra la spazzatura, nell’indifferenza degli operatori. Riccetto si unisce a loro; carica i sacchi
dell’immondizia e si aggancia al carro che arriva alla discarica, passando dalla Strada Bianca alla Casa
Gordiani, fino a un piccolo altopiano tra la Casilina e la Prenestina. Qui i due si mettono a raccattare tra
l’immondizia; dopo un’estenuante ricerca il Riccetto, non trovando nulla, torna su via Taranto
rifacendo la strada a piedi e poi tramite il tram, distrutto dalla fame. Qui il mercato effettivamente è
iniziato; dopo aver rubato un paio di mele, decide di rubare del formaggio; prontamente il proprietario
della baracca lo scopre e tra i due inizia una lotta che vede il Riccetto avere la peggio. Alla fine è
persuaso dai mercatari a restituire la forma di formaggio al formaggiaro. Distrutto dalle botte,
sanguinante dai denti, riscende la strada e torna al pianerottolo dove aveva trovato alloggio. La porta
dell’appartamento vuoto, che di solito era chiusa, era aperta; Riccetto tramite uno spago la blocca e
torna a dormire; viene svegliato poco dopo dalla polizia, credendo che il furto che era effettivamente lì
avvenuto fosse a opera proprio di Riccetto, che ancora rintronato dalla stanchezza e dal sonno viene
accompagnato nel carcere di Porta Portese, incredulo per il fatto non commesso ma troppo stanco per
reagire. Viene condannato a quasi tre anni di carcere, “fino alla primavera del ‘50”.
Capitolo 6 – Il bagno sull’Aniene
EPISODIO 1. Protagonisti di questo episodio sono il Begalone, Alduccio e il Caciotta, insieme agli altri
ragazzi che stanno facendo il bagno lungo l’Aniene. Accanto ai tre protagonisti, sono coprotagonisti
anche Genesio e i suoi fratelli; vengono presentati mentre si spogliano e lasciano i vestiti al fratello più
piccolo, che quindi aspetta il suo turno per fare il bagno. Un altro personaggio centrale è Armandino
con il suo cane, che fa gettare in acqua ben due volte per recuperare un rametto che il padrone gettava
nel fiume. In disparte c’è il Piattoletta, il più debole e piccolo dei ragazzi, che viene da tutti schernito
sia per la mancanza di forza fisica sia per la sua origine incerta, tra Germania, Austria e Albania, non si
capisce bene. Il racconto va avanti tra i litigi di Caciotta e Armandino, dato che quest’ultimo lo prende
in giro perché non ha il coraggio di buttarsi in mare; oppure quando Genesio estrae una sigaretta e
diventa oggetto del desiderio di tutti i ragazzi, soprattutto lo Sgarone che riesce ad assicurarsi la fine
della sigaretta. Il Caciotta dopo il bagno sarebbe andato a vedere Il Leone di Amalfi (film del 1950 con
Vittorio Gassman); il mare era ovviamente putrido, oleoso e tutto intriso di varechina. L’attenzione si
sposta su Borgo Antico, fratello di Genesio, richiamato dal Riccetto, appena arrivato; a lui tutti
chiedono insistentemente di cantare. All’inizio non accetta, ma quando Riccetto promette una
sigaretta, il fratello maggiore Ginesio insiste perché il fratello canti. Riccetto sceglie Luna Rossa (brano
di Vincenzo De Crescenzo, in napoletano); tutti rimangono ammaliati dalla voce di Borgo Antico e “in
tutto il fiume non si sentiva che quella voce”, opposta a quello di un ubriacone che da un po’ era sulla
riva a cantare, senza che nessuno ne avesse posto la propria attenzione. Intanto vi è l’ennesimo litigio
tra il Caciotta e Armandino, che gli aveva gettato addosso una manata di fango. La fuga di Armandino,
che nel frattempo aveva rischiato di perdere gli slip, pone l’attenzione sul Piattoletta, che aveva anche
lui partecipato alle risate. Begalone e Sgarone, insieme a Tirillo, iniziano ad insultarlo in maniera
giocosa, alludendo a un suo piacere sessuale nel vedere il sedere nudo di Armandino. I ragazzi poi lo
costringono a parlare in tedesco, altrimenti gli avrebbero gettato i vestiti nel fiume; lui inizia a parlare
mentre viene malmenato, fino addirittura a saltellare come un indiano su comando dei ragazzi. La
giornata è ormai finita e Riccetto segue Genesio e i suoi fratelli Mariuccio e Borgo Antico. Mentre i
ragazzi tornano a casa vedono i lavori per creare nuove fognature “perché s’era in tempo di elezioni”.
Riccetto allude al fatto che i tre saranno nei guai al ritorno a casa, perché il padre era solito picchiare
tutti in famiglia; lui lo sapeva perché ci lavorava insieme in primavera, peggio quando si ubriacava.
Ginesio non risponde alle provocazioni di Riccetto, mentre i ragazzi più piccoli hanno l’impulso di
rispondergli per le rime, ma non lo fanno perché Riccetto è più grande di loro. Arrivati nei pressi della
casa il padre, detto il Pugliese, aveva appena picchiato la moglie e aveva il viso chiazzato di sangue e gli
occhi di un cane. I fratelli tentano di stare alla larga dal padre, mentre Riccetto entra nell’orto
circostante, caccia e bagna un pettine aggiustandosi poi l’acconciatura.
EPISODIO 2. Arrivano il Zinzello e il Miccia con due cani lupo adulti, un maschio e una femmina; i
padroni dei cani vanno a fare il bagno e non badano ai ragazzini che iniziano a giocare con i cani. Lo
Sgarone e il Roscietto aizzano Armandino a far lottare il suo cane con gli altri, provocandolo e dandogli
del codardo. A questo punto Armandino aizza il cane Lupo contro il maschio dei due, che
effettivamente batte in ritirata. Il problema si presenta con la cagna, che in un primo momento ignora
Lupo; poi quando Lupo si getta contro di lei effettivamente lei gli risponde in maniera decisa. Questi
istanti sono descritti da Pasolini tramite una sorta di dialogo tra cani, che assumono il linguaggio dei
loro padroni, come se effettivamente fossero loro a picchiarsi (“ma pe na soddisfazione me faccio pure
trent’anni de Reggina Celi!”). Alla fine i ragazzi portano Lupo verso l’acqua ad asciugarsi le ferite, dopo
che il Zinzello era tornato dal bagno e aveva scacciato tutti quanti e richiamato i cani. La scena si
sposta sul Caciotta che cerca i suoi panni mentre canta Zoccolette Zoccolette di Claudio Villa; il suo
intento è quello di andare al cinema, avendo racimolato una piotta e mezzo. Ma quando mette le mani
in tasca non trova il denaro, così si mette a cercare nelle tasche di Begalone, Zinzello e Alduccio senza
trovare nulla. Adesso i ragazzi si dividono: alcuni tornano a casa dalla fermata dell’autobus davanti al
monte Pecoraro. Lì c’era un gruppo di ragazzine, che li seguono; agli insulti dei ragazzi cercano di
rispondere con l’indifferenza, fino a che i ragazzi non iniziano a lanciare loro sassi e fango. Nel
frattempo Armandino, Sgarone e Roscietto erano rimasti ai piedi di un pilone, quando scendono gli
altri ragazzi, delusi dalla caccia alle ragazze, e imbandiscono una lotta. In questo frangente si mette in
evidenza lo sfogo sessuale dei ragazzi tra di loro, in particolare Roscietto sopra lo Sgarone che ballava
“il ballo di San Giusto”. A questo punto i ragazzi giocano a fare gli indiani; a loro si unisce il Piattoletta;
le ragazze, incuriosite si avvicinano, ma i ragazzi approcciano sempre in maniera violenta. Il Roscietto
propone di fare il palo della tortura, ovviamente gettandosi sul Piattoletta, che tenta in tutti i modi di
dimenarsi e difendersi dai ragazzi; Sgarone propone di legarlo, mentre il Roscietto inizia a calciare
Piattoletta, che cercava in ogni modo di non farsi legare al palo. Roscietto aiutato da Tirillo e Sgarone
riesce a legargli i polsi a degli uncini di ferro sul palo. Successivamente tolgono lo spago dei pantaloni
del Piattoletta, che serviva a tenerli su, per legargli le caviglie, mentre quelli continuava a piangere
continuamente, aizzati dagli insulti delle ragazze che li prendevano in giro per il fatto di non riuscire a
legare il Piattoletta. Infine radunano dell’erba secca attorno al Piattoletta e la accendono con un
accendino; così si godono la scena del Piattoletta che si dimena mentre cerca di evitare la fiammella
dell’erba bruciacchiata.
Capitolo 7 – Dentro Roma
EPISODIO 1. Descrizione dell’ubicazione della casa di Alduccio, che abita come il Begalone al IV lotto
della Borgata verso la Madonna del Soccorso. Qui Alduccio e Begalone si danno appuntamento per le
nove di sera. Alduccio torna a casa e trova la sorella sulla porta di casa; la madre è invece in cucina e
inizia subito a inveire contro di lui, che “tiè quasi vent’anni e mo va sordato, che nun porta a casa
manco na lira”. Da fuori casa si sentono degli strilli mentre Alduccio si veste in camera: la madre sta
litigando con la vicina del piano di sopra, alludendo ai suoi tradimenti nei confronti del marito. A quel
punto rientra in casa il padre di Alduccio, ubriaco, che tenta di picchiare la moglie ma viene respinto da
questa; talmente fradicio che si getta sul letto a pancia in giù e lì rimane incollato. Prima di uscire di
casa Alduccio è insultato ancora una volta dalla madre. Incontratosi con Begalone, che aveva rubato la
piotta e mezza al Caciotta nel capitolo precedente, si racconta la storia del Begalone che era malato di
tubercolosi da un paio d’anni e gliene rimaneva praticamente uno soltanto di vita. Proprio della madre
di Begalone si racconta dei primi segni di follia, quando aveva iniziato ad avere delle visioni durante la
notte; prima il diavolo nelle sembianze di un serpente, poi una ragazzina vestita da sposa che si
lamentava con lei sia del proprio abbigliamento e poi del fatto che il cugino, il Pisciasotto, non andasse
mai a trovarla in cimitero. Sparsa la voce ci si rese conto che i dati coincidevano effettivamente con
delle persone esistite; a questo punto la famiglia aveva chiamato da Napoli un parente che era esperto
di esoterismo, il quale aveva iniziato a bollire tutti gli oggetti della donna e a fare riti all’interno della
casa, tra il quale bucherellare il pavimento per isolarla dal resto della casa. Questo era il rumore
assordate che si sentiva da qualche tempo in casa sua, mentre tutta la famiglia cercava in ogni modo di
pagare la fattura del curatore miracoloso.
EPISODIO 2. Alduccio e il Begalone vanno a fare un giro al centro di Roma; qui vengono descritte le
principali piazze di Roma nei pressi di San Pietro: il Lungotevere, Caster Sant’Angelo, il Pincio, Piazza
del Popolo, Villa Borghese, Piazza Sant’Egidio e il Mattonato, dove i ragazzi scendono. Dopo un giro
attorno al Colosseo da via Labicana, i ragazzi vanno verso i Cerchi, quindi verso il Circo Massimo.
Girando per i viali e i prati ai ragazzi cresce la voglia di fare sesso con qualche prostituta, ma non
hanno i soldi; a questo punto vicino al tempio di Vesta incontrano due ragazze bionde e subito sono
attirati da loro. Cercano di attirare la loro attenzione in ogni modo, ma non riescono; provano
accendendosi una sigaretta, ma non funziona nemmeno questa volta. A questo punto quando si
propongono di fare un bagno all’interno della fontana, le due ragazze ridacchiano, magari non
pensando a loro; ma Begalone e Alduccio interpretano quella risata come un segnale di attenzione da
parte delle due ragazze. Si tuffano quindi nella fontana cercando di fare più baccano possibile,
cercando infantilmente di attirare la loro attenzione; ma quando escono dalla fontana e si rivestono, le
due vanno via. Arrivate a Monte Sabello saltano su un’auto lunghissima e vanno via, mentre i due le
urlano qualsiasi cosa. Alduccio guarda Begalone e gli dice, tutto zoppo d’acqua, “me pari n’accattone”. I
due ragazzi cercano di procurarsi i soldi per andare a prostitute, e lo fanno prima chiedendo mezza
piotta a un vecchio su Ponte Garibaldi, poi da un altro erano riusciti a riscuotere cento lire; passando di
fronte a una rosticceria però, consumano i soldi mangiando, rimanendo nelle condizioni di prima.
Arrivati a Campo dei Fiori Alduccio dà una gomitata a Begalone per indicargli un tizio che mandava
loro delle lunghe occhiate, ben vestito, che girava tra Piazza Farnese e Campo dei Fiori come un “topo
che affoga in un catino”.
EPISODIO 3. I ragazzi incontrano Riccetto tra Ponte Sisto e Ponte Garibaldi, che non aveva nulla da
fare. Gli altri avevano invece attirato l’attenzione di quel signore che girovagava in Campo dei Fiori, un
omosessuale che aveva voglia di avere un rapporto a tre con loro. Ma per tutto il momento della
contrattazione il “froscio” mostra interesse verso Riccetto, il quale però non ha nessuna intenzione di
concedersi a lui; nemmeno Alduccio sarebbe stato d’accordo, per non dividere il compenso del lavoro
con lui. A questo punto Riccetto ricorda il periodo del dopoguerra, quando i ragazzi si prostituivano
proprio in quella zona e tutti facevano liberamente i propri servizi; solo ogni tanto una pattuglia
disperdeva gli uomini, che prontamente ritornavano nel luogo di lavoro. L’uomo non vuole consumare
il rapporto sotto ai ponti, così Riccetto decide di accompagnarli tramite il bus 44, facendoli scendere in
Piazza Ottavilla, attraverso dei campi di canne che portavano a Donna Olimpia. Riccetto accompagna i
ragazzi e l’uomo ancora più in profondità, fino a ritrovarsi di fronte al Ferrobedò; dietro di esso si
distingueva Monteverde Nuovo e Donna Olimpia dietro il monte Casadio. Riccetto indica alla
compagnia un anfratto, un sentiero tra gli sterpi, e fece per andarsene; nemmeno all’insistenza del
“froscetto” decide di rimanere con loro per un rapporto sessuale di gruppo. Il Riccetto ha infatti
tutt’altra intenzione: scende verso Donna Olimpia e ancora più giù verso le scuole Franceschi. Ancora
c’era tutto un mucchio di maceria, tutto franato ai suoi piedi; si vedevano ancora dei blocchi disposti
qua e là, abbandonati quando le elezioni erano ormai finite. Rimase ancora un po’ ad osservare le
costruzioni rimaste a metà (una promessa non mantenuta da parte dei ricchi capitalisti) e iniziò a
girare per i vicoli e i giardini della Case Nòve, che erano presiedute da due poliziotti; il Riccetto, che
non aveva niente di cui preoccuparsi gli passa davanti in maniera alquanto malinconica. Se ne va
quindi ai Grattacieli, osservando l’architettura dei sottopassaggi, dei portichetti in stile novecento
fastista e dei cortiletti in terra battuta, resti di aiuole; il Riccetto è dentro quei cortili che spera di
incontrare qualcuno. Dopo un po’ riconosce infatti un ragazzo coi capelli rossi: è Agnolo, che gli
racconta che gli altri ragazzi (Obberdan, Zambuia, Bruno e Lupetto) vivevano come al solito la stessa
vita tra piccoli furti; diversa invece la sorte di Arvaro. Arvaro insieme ai frequentatori di un bar di
Testaccio una sera rubò una vecchia Aprilia in zona Piazza del Popolo, correndo a tutta velocità al
centro di Roma, rischiando di investire vecchi e bambini; in piazza Navona avevano picchiato un uomo
che li aveva richiamati, verso Ponte Milvio avevano borseggiato una donna; poi erano fuggiti verso
Anzio e Latina, poi da San Giovanni alla via Appia; si erano ritrovati in un paese sconosciuto dove
avrebbero poi rubato una ventina di polli dopo aver sparato al cane di guardia. Senza sapere come si
erano poi ritrovati schiacciati da un autotreno; la macchina era rimasta chiusa su se stessa e i corpi
sanguinanti dei ragazzi erano stati ritrovati in mezzo all’ammasso di penne di polli; Alvaro era l’unico
sopravvissuto, anche se era rimasto cieco e aveva perduto un braccio. Alla fine di questo racconto i due
si lasciano; Riccetto oltrepassa i cortili di Donna Olimpia con le mani in tasca fischiettando, sotto il
monte di Casadio, oltre il Ponte Bianco, oltre la Ferrobedò. “Ormai non c’aveva più niente da fare lì”. Vi
è una descrizione della Ferrobedò (“o per meglio dire la FerroBeton”), tutta ordinata e silenziosa che si
sentiva un guardiano che cantava a mezza voce. Dietro di essa si intravedeva il semicerchio di
Monteverde Nuovo e i suoi pali della luce accesi. Era da quando erano crollate le scuole che Riccetto
non passava più di lì. Faceva fatica a riconoscere i luoghi a causa della loro nuova pulizia, del nuovo
ordine; la Ferrobedò addirittura “era uno specchio”, con i materiali accatastati alla perfezione e i fasci
di binari luccicanti attorno a qualche vagone “immobile e nero”, con magazzini che sembravano “sale
da ballo, tanto erano puliti”. Anche la rete metallica intorno era perfetta, senza un buco; rimaneva
famigliare agli occhi del Riccetto solo una vecchia garitta (torre di guardia medievale), dove la gente
passava come un tempo a lasciare i propri bisogni.
EPISODIO 4. Il Begalone e Alduccio dopo aver finito di far sesso con l’uomo tornano verso Campo Dei
Fiori; Alduccio rimproverava al Begalone il fatto che solo lui avesse fatto del sesso orale all’uomo,
mentre proprio Begalone non aveva fatto nulla per dividere il “lavoro”. Litigando arrivano a Campo Dei
Fiori, dove fanno testa o croce per decidere chi per primo usufruirà dei servizi della casa chiusa dietro
via de li Cappellari. Qui una signorona di Frosinone, una sorta di re Minosse infernale, riscuote il
denaro alternando una parlata di perfetta lingua italiana (primo momento del romanzo in cui si assiste
a questa variazione linguistica) al romanesco nei momenti più infervorati; per tutta la sera la signora
litiga con la serva. Alduccio appena entra punta una vecchia siciliana “con le zinne che le arrivavano al
bellicolo”. Dopo un po’, in mezzo al continuo frastuono, tra prostitute che andavano e uscivano dalle
stanze, si sente una risata fortissima e continua che attira tutti, dalla padrona ai clienti; poco dopo
scende dal terzo piano la siciliana, con dietro Alduccio che si allacciava i pantaloni, messo in ridicolo
davanti a tutti per aver terminato troppo presto. Usciti dal bordello i due tornano a casa allacciandosi a
un tram 9 vicino la caserma Macao, mentre il Begalone cantava allegro “Zoccoletti, Zoccoletti”. Qui
Pasolini allude ai lumicini del Verano, brillanti, tremolanti e tranquilli; chiaro simbolo di morte. I
ragazzi prendono un 309 pagando il biglietto; sull’autobus c’erano varie persone, dal carabiniere
all’operaio allo studente, mentre il bus parte e ancora una volta si vedono all’orizzonte i lumicini del
Verano. In questo silenzio, in quel “malinconico puzzo di povera gente”, un ragazzo col giubbotto
inglese si mise a cantare “Vola, Vola, Vola”; finita la canzone riscuote l’elemosina e “vola li mortacci
tua”, lo saluta il Begalone. Quest’ultimo scende a Tiburtino, mentre Alduccio va vero casa; in questo
totale silenzio, in cui i lampioni spandono la loro luce sull’asfalto scuro e i lotti sono geometricamente
“uguali”, e i cortili “uguali” (ripetizione che dà un senso di monotonia), passano dei ragazzi con degli
strumenti musicali, che si allontanano finché la loro “samba divenne un tu-tùn tu-tùn che pareva
vagasse in una città morta”. La casa di Alduccio era semiaperta; in piedi c’era la madre che ancora
gridava; la sorella era in preda a uno dei suoi deliri, “mi ammazzo, mi ammazzo”, tentando di uscire di
casa se non fosse stato per l’intervento di Alduccio. Il padre si alza, tenta di parlare e torna a stendersi
a letto; la madre ricomincia con uno dei suoi rimproveri interminabili, tanto che Alduccio alla fine
getta il piatto a terra e le sputa davanti ai piedi lo sfilatino che stava mangiando. Alduccio, in preda alla
rabbia, prende il coltello che si trova davanti ai piedi sul pavimento sporco.
Capitolo 8 – La Comare Secca
La scena si apre con due carabinieri che discendono in via Casl dei Pazzi, fino a Ponte Mammolo, a via
Selmi, ricercando i tre fratelli Ginesio, Mariuccio e Borgo Antico; questi però erano su una scarpata che
scendeva a picco sull’Aniene, insieme al loro cane Fido. In questa scena si mette in evidenza la bontà di
cuore di Ginesio, che era un tipo introverso che non si permetteva mai di andare in escandescenze. I
tre ragazzi erano scappati di casa da un giorno, quindi i carabinieri li cercavano per riportarli a casa;
vanno verso il trampolino, dove c’era il solito ubriacone che cantava. Oltre a lui c’erano i soliti Caciotta,
Zinzello e Alduccio; Caciotta stava cantando “I’ songo carcerato e mamma more”, alludendo alla sua
ultima permanenza a Porta Portese l’anno precedente. Della madre di Ginesio si dice che era una
signora marchigiana che aveva conosciuto il padre, un muratore di Andria; si manteneva facendo la
prostituta, “una vita peggio delle bestie”, dato che a causa del marito, che picchiava tutti in famiglia, i
figli si erano allontanati. Ovviamente Begalone, che era tra loro, chiede a Borgo Antico di intonare la
canzone del “Carcerato”; durante l’esibizione di Borgo Antico Genesio scende la scarpata e comunica al
fratello Mariuccio l’intenzione di attraversare il fiume, cosa che farà scattare dal posto Borgo Antico. In
realtà Genesio non ha intenzione di attraversarlo, ma solo di fare un’ispezione fino a metà fiume;
prima di fare ciò allude alla sua volontà di uccidere il padre, volontà che anche i fratelli intendono
compiere “quanno che semo grandi”, per andare a vivere da un’altra parte con la madre. Intanto
compare sul trampolino, dietro al Zinzello, Alfio Lucchetti, lo zio di quell’Amerigo. Genesio attraversa
quindi il fiume per metà, proprio “in quel punto tutta la sporcizia del fiume, tante strisce nere d’olio e
una specie di schiuma gialla che pareva formata da migliaia di sputi”; fino all’altra parte del fiume
mancavano ancora dieci metri. Nel frattempo ricompare il Tirillo, non accompagnato dai due cani, che
si era messo sul trampolino, aizzato dal Caciotta che lo accusa di codardia. Ma in questo momento si
sente un rombo fortissimo, “che pareva schiantasse le radici della terra”, “macinando tutto il pezzo
d’orizzonte tra i lotti di Tiburtino e il monte del Pecoraro”, “come un bombardamento a tappeto”. In
primis un esercito di ragazzini che correvano come scellerati, agitando le magliette o le canottiere tolte
in corsa, strillando “Li bersajeri, li bersajeri!”; erano lo Sgarone, il Roscietto e Armandino, che
precedevano una colonna autocorrazzata, con le staffette dei bersaglieri in motocicletta, le autoblinde
e camion pieni di bersaglieri con i mitra alle ginocchia, e dietro i carri armati coi cingoli che
bucherellavano l’asfalto come burro. Tutti si misero a correre dietro al corteo militare, anche Borgo
Antico e Mariuccio che per la prima volta si staccano dal controllo del fratello; al trampolino erano
rimasti solo Alfio Lucchetti, Alduccio (che si proteggeva dalla polvere), Genesio come un eremita e il
Begalone. Il polverone alzato dai carri armati porta a uno sfogo di tubercolosi, di cui si sa ormai che era
malato, e “pareva che sul suo costato di crocefisso, anziché pelle normale, ci fosse attaccata della carne
bollita”. Passatagli la tosse, rimise il fazzoletto macchiato di sangue in tasca; intanto Alfio aveva deciso
di non gettarsi più in acqua, bestemmiando per il freddo, come faceva Begalone che per non sentirsi
“vecchio” come Alfio. Si abitua al freddo a poco a poco, ma la testa iniziava a girargli continuamente; in
realtà la mattina aveva mangiato un canestro di pane dopo essere rimasto a digiuno, quindi stava
avendo un attacco di indigestione. Vomitava continuamente, tanto che se ne accorse il Caciotta, seguito
da tutti quanti; adesso Begalone era circondato da una trentina di ragazzi, tra cui Tirillo e Alduccio.
Questi riescono a far rinvenire Begalone bagnandogli la faccia con dell’acqua e pulendolo dalla
sporcizia; tirarono il Begalone fino alla riva e lo rivestirono, mentre Caciotta lo teneva da sotto le
ascelle e Tirillo per i piedi (ricorda il Cristo di Caravaggio). Alduccio intanto scorge da lontano
Riccetto, che con attenzione si spoglia dagli scarpini bianchi e dai vestiti nuovi e ben ripiegati. Il
Riccetto inizia a prendere in giro Alduccio, provocandone l’ira; Riccetto alludeva al fatto che sarebbe
finito come il Lenzetta, che era stato condannato a trent’anni di carcere per aver ucciso un tassista
nell’intento di rubargli cinque o sei mila lire. È come se il Riccetto avesse per la prima volta un ruolo
giudicante, che riprenderà successivamente. Ancora Riccetto incalza il cugino Alduccio e
contemporaneamente lo tranquillizza; a quanto pare la madre, che avevamo lasciato nel finale del
capitolo precedente, non voleva muovere alcuna denuncia nei confronti del figlio che a quanto pare
l’aveva accoltellata. I quattro, Alduccio e Begalone aggrappato a Caciotta e Tirillo, vanno via verso la
strada di Tiburtino. Allontanatosi il Riccetto torna verso il trampolino e vede Alfio Lucchetti che aveva
finito di lavarsi. Prima si ricorda di lui al funerale di Amerigo e di quanta paura gli aveva fatto; ora il
giudizio è secco, “è na vittima è”. Nel frattempo pensa alla sua nuova maglietta lodandosi per
l’acquisto. Si affaccia sul trampolino e vede i tre figli del principale, il Pugliese. Contento di aver visto i
tre, si prepara a provocarli; quelli facevano finta di non vederlo, ma lui continuava a guardarli. Così il
Riccetto inizia ad alludere a un crimine che avevano fatto la sera prima, tanto che i carabinieri li
stavano cercando, ossia che avevano messo “fuoco” al Piattoletta dopo averlo legato a un palo;
testimoni della faccenda Roscetto, lo Sgarone e Armandino. Ovviamente i carabinieri stavano cercando
i tre perché erano semplicemente scappati di casa. Mentre provocava i tre, al pianto di Maruccio provò
un po’ di pena: subito gli viene in mente di quando era come loro, che veniva menato dai grossi ai
Grattacieli e lui andava alla ricerca di cicche con Marcello e Agnoletto. Si ricorda di quella volta che
aveva rubato i soldi al cieco, quella volta della barca e di quando aveva salvato quella rondinella sotto
Ponte Sisto... A questo punto il clima tra i ragazzi è più disteso, tanto che Marcellino si fa scappare che
Ginesio volesse attraversare il fiume; a quel punto Riccetto, per mostrare superiorità, si getta in acqua
e fa avanti e indietro da una sponda all’altra, nuotando tranquillamente. Ginesio a questo punto si getta
in acqua, nuotando come un cagnolino, riuscendo ad oltrepassare il fiume. Adesso rimane sull’altra
riva, mentre alle spalle “come una frana dell’inferno” si alzava la scarpata con il muraglione della
fabbrica, “dove sporgevano verdi e marroni delle specie di cilindri, di serbatoi, dove il sole riverberava
quasi nero per la troppa luce”. Intanto i fratelli richiamavano a gran voce Genesio, mentre Riccetto si
rivestiva adagio, prima di aver provocato un’ultima volta i fratelli, alludendo al fatto che avrebbe
chiamato i carabinieri. Ma mentre se ne andava lanciò un’occhiata verso i muraglioni della fabbrica e
vide la figlia del custode che puliva i vetri; eccitato, si avvicinò e si nascose tra due cespugli
probabilmente per masturbarsi, cercando di guardarla. Intanto Genesio si getta nel fiume, corre fino al
punto centrale, dove spingeva la corrente e ritorna indietro scuro in volto; richiamato dai fratelli si
getta ancora una volta in acqua, ma proprio al centro, “nel punto sotto la fabbrica”, la corrente era
troppo forte, più forte della corrente dell’andata perché più vicino alla sponda della fabbrica. Il suo
stile di nuovo alla “cagnolina” non gli poteva permettere di vincere la corrente, “quella striscia che
filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla
del fiume” (forse a significare che una volta attraversata la riva e approdati nel “Nuovo Mondo” della
fabbrica, è ormai impossibile tornare alla purezza originaria). Il Riccetto si vede passare da sotto agli
occhi tutti e tre: i fratelli che lo seguivano e Genesio che veniva risucchiato dalla corrente senza
emettere alcun grido. Pallido come morto, Riccetto decide di fuggire per non avere niente a che fare
con la faccenda, mentre i fratelli tentano di risalire la scarpata in preda al panico. In quel momento sia
tra Pietralata e Monte Sacro, sia per la Tiburtina, non c’era nessuno; nemmeno gli autobus e le
macchine passavano... si sentiva solo qualche carro armato dietro Ponte Mammolo, che arava
l’orizzonte.

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