Oltre la cronaca:
Dalla realtà alla trasfigurazione della realtà
IL NEOREALISMO
• Si afferma con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la liberazione nazionale avvenuta in seguito alla
Resistenza
• dura fino alla fine degli anni cinquanta del Novecento
• Cos’è il neorealismo?
• è una tendenza dell'arte, della letteratura e del cinema italiano che si volge a rappresentare gli aspetti quotidiani
della realtà
• La poetica?
• è caratterizzata da uno stile per lo più realista, animato da una visione del mondo e dei fatti sociali popolari e
spesso echeggianti temi marxisti
• esprimeva una concezione della cultura quale strumento capace di incidere sulle coscienze, di rappresentare
l'esperienza collettiva e le sue contraddizioni di carattere politico e sociale
Le origini del neorealismo
• Il termine venne usato già negli anni ’30 per definire alcuni romanzi che prestavano maggior attenzione alla
realtà sociale: “Gli Indifferenti” di Moravia, “Gente in Aspromonte” di C. Alvaro
• Venne poi usato dopo il 43’ per definire il nuovo cinema italiano di Visconti, De Sica, Rossellini…
• Subito dopo il termine passò alla letteratura per indicare i nuovi romanzi del tempo
«In quel tempo gli uomini delle parole, gli scrittori, furono investiti da una incredibile
responsabilità pubblica. Insieme all’agitatore politico, al giornalista, al regista, lo scrittore fu,
per tutte le categorie degli italiani che lo sconvolgimento della guerra civile aveva portato a
sinistra, un testimone e un formatore di speranze. Uomini come Vittorini o Levi e, in misura
minore, molti altri si trovarono ad avere una autorità morale che nessuno scrittore aveva
avuto dai tempi del bardo della democrazia e del poeta soldato». (F. Fortini)
«L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico,
esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in
tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori,
spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua
eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci
sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un
rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio;
ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria». (I. Calvino)
Il neorelismo delle regioni e dei dialetti
Già nel 1948 = sconfitta della sinistra alle elezioni → declino del movimento
1. Le rivelazioni di Kruscev sui delitti della dittatura di Stalin al XX congresso del partito comunista
• vengono alla luce i processi e condanne a morte o deportazioni nei guleg delle persone innocenti, onnipotenza della
polizia, «culto della persona» instaurato da Stalin
2. L’intervento militare dell’Unione Sovietica in Ungheria che stronca la rivolta degli operai e degli intellettuali
• In Italia nel PCI e PSI inizia un dibattito e processo di revisione dei principi ideologici e della prassi politica
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I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno,
1964
[...] mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale
grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non
era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella
di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita
che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di
essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo.
Letteratura e cinema
I film del Neorealismo
• 1945: Roma città aperta (R. Rossellini)
ROMANZO FILM
• I Malavoglia (G.Verga) • La terra trema (L. Visconti)
• Gli indifferenti (A. Moravia) • Gli indifferenti (F. Maselli)
• Cristo si è fermato a Eboli( C. Levi) • Cristo si è fermato a Eboli (F. Rosi)
• Il bell’Antonio (V. Brancati) • Il bell’Antonio (M. Bolognini)
• La ciociara (A.Moravia) • La ciociara (V. De Sica)
• Una vita violenta (P.P. Pasolini) • Accattone (P.Pasolini)
• L’isola di Arturo (E. Morante) • L’isola di Arturo (D. Damiani)
• Il Gattopardo (G. Tomasi di • Il Gattopardo (L. Visconti)
Lampedusa)
• La ragazza di Bube (C. Cassola) • La ragazza di Bube (L. Comencini)
• Il giorno della civetta (L. Sciascia) • Il giorno della civetta (D.Damiani)
• La tregua (P. Levi) • La tregua (F.Rosi)
• Il partigiano Johnny (B. Fenoglio) • Il partigiano Johnny (G. Ghiesa)
Cesare Zavattini (1902 – 1989)
• sceneggiatore, giornalista, commediografo, scrittore Io devo concentrare tutta la mia attenzione
e poeta italiano. sull'uomo d'oggi. Il fardello storico che io ho sulle
• una delle figure più rilevanti del neorealismo italiano
spalle non deve impedirmi di essere tutto nel
desiderio di liberare quest'uomo e non altri dalla
sua sofferenza servendomi dei mezzi che ho a
disposizione. Quest'uomo ha un nome e un
cognome, fa parte della società in un mondo che
mi riguarda senza equivoci e io sento il suo
fascino, lo devo sentire così forte, che voglio
parlare di lui, proprio di lui e non attribuirgli un
nome finto, perché quel nome finto è pur sempre
un velo fra me e la realtà, è qualcosa che mi
ritarda, anche di poco, ma mi ritarda il contatto
integrale con la sua realtà e di conseguenza la
spinta a intervenire per modificare questa realtà."
(Cesare Zavattini)
Neorealismo letterario e cinematografico
F. D’Andrea
1956 1960
La ciocara
• Romanzo di A. Moravia , pubblicato nel 1957 DAL TESTO AL FILM:
Uomini e no
Tra uomini e non-uomini:
il ruolo ‘terzo’ dei personaggi minori
1) Il prefetto (cap. XC)
“Pipino, tuttavia, riuscì a dire quello che lui non voleva. Lui non voleva prendersi la
responsabilità di consegnare la gente al plotone di esecuzione. Questa era una
responsabilità che toccava ai tribunali. Era un tribunale, lui? Lui non era un tribunale. (…)
‘Mica loro’ disse Giuseppe-e-Maria ‘ti chiedono delle personalità. Ti chiedono un certo numero
di teste. Non altro’.
‘Possiamo dar loro degli operai?’
‘Ma si capisce. Possiamo dar loro solo degli operai’.
L’idea di poter consegnare al plotone di esecuzione solo degli operai sembrava confortante a
Pipino, quasi liberatrice. Anche il suo omiciattolo sembrava trovarla apprezzabile. Come un
male minore. Egli si soffiò con cura il lungo naso. Giuseppe-e-Maria rise. L’accordo fu
raggiunto.
Tra uomini e non-uomini:
il ruolo ‘terzo’ dei personaggi minori
2) Fange ihn!: i militi (cap. C)
Lentamente, Giulaj si spogliava, e il capitano prendeva i suoi stracci, li gettava ai cani.
‘Strano’ Manera disse. ‘Ma che gli vuol fare?’
‘Dicono’ disse il terzo ‘che sia un burlone’.
‘E che burla vuol fargli?’ Manera disse.
I cani annusavano gli indumenti; Gudrun si mise a lacerare la giacca.
‘Perché’ disse Giulaj ‘date la mia roba ai cani?’
Si chinò per togliere a Gudrun la sua giacca. ‘Me la strappano’ disse. Ma Gudrun saltò,
ringhiando, contro di lui: lo fece indietreggiare.
‘Ja’ gridò il capitano ‘Fange ihn!’ (…)
‘Non ti preoccupare’ disse Manera a Giulaj. ‘Ti darà il capitano altro da vestirti’.
Tutti e cinque i militi si erano avvicinati per vedere; facevano ormai cerchio. Guardavano Giulaj,
ormai seminudo, e avevano già voglia di riderne; guardavano i cani, Blut come annusava,
Gudrun come lacerava; e già ridevano.
Berta, ovvero dell’ignavia
1) il secondo incontro (cap. LXXXIII)
‘Lascia che glielo dica prima’.
‘Ma perché?’ disse Enne 2. ‘Vuoi parlargli come se non fossi ancora mia moglie? Non vuoi essere
ancora mia moglie? Vuoi essere ancora che cosa?’.
Si era staccato da lei e si alzò in piedi.
‘Vuoi essere ancora che cosa? Disse di nuovo. ‘Che cosa sei stata?’
Berta era rimasta come lui l’aveva lasciata, appoggiata col gomito, e abbassò lo sguardo. Sembrava
avesse paura di poter vedere le montagne di ghiaccio fuori dalle finestre, o qualunque cosa già
veduta, i fiori ch’erano sul tavolo, il suo stesso vestito di dieci anni prima, il fumo tra le macerie,
gli occhi azzurri del vecchio, le facce dei morti sui marciapiedi.
Disse Enne 2: ‘E di nuovo è come sempre. Di nuovo è come sempre?’
‘No’ Berta rispose. ‘Non è come sempre’
‘è la stessa cosa che è stata sempre’.
‘Non è la stessa cosa’.
‘è come quando mi hai lasciato il vestito. La stessa cosa’.
‘No. Non la stessa’.
‘Eri venuta come oggi, e mi lasciasti il vestito. È come fu allora’.
‘Non è come fu allora’.
‘è come ogni volta che sei venuta’.
Enne 2, ovvero ‘la morte come rimedio’
Il romanzo di Vittorini risente, con distaccato realismo, di questa Milano del 1944 (…) Più della storia e della
cronaca, in questa città del dolore, distrutta, lacerata da attentati, da lotte clandestine, da vendette e
persecuzioni, Vittorini preferisce addentrarsi in una filosofia del perché delle scelte personali, in una
introspezione psicologica di questi uomini della Resistenza in opposizione alla barbarie nazifascista. E
soprattutto segue, con più intensa partecipazione, il dramma privato del comandante partigiano Enne 2,
un intellettuale di estrazione borghese, militante comunista (parafrasi di se stesso, dello stesso Vittorini),
ricercato dalla polizia ed ora asserragliato nella sua stanza, dove attende il famigerato Cane Nero, il feroce
capo dei repubblichini, che sta arrivando per arrestarlo. Enne 2 sa di andare incontro alla morte. Ha la
possibilità di salvarsi, di fuggire. Ma, sfibrato nella volontà ed anche per ribadire la sua superiorità morale,
rimane, aggrappato a un’ultima illusione: rivedere Berta, il suo grande e ricambiato amore, un amore
tuttavia impossibile, vissuto in una esaltazione disperata, trasfigurata, irrazionale, mitizzata. Che va oltre la
guerra, oltre la vita, oltre la morte. Perché da una parte c’è la violenza, dall’altra c’è l’umanità. Insomma
“uomini e no”, chi è umano e chi non lo è. (…)
Anche il cinema volle appropriarsene, con un film girato, con feddo interesse, da Valentino Orsini, che, nel
1980, ne fece un lavoro di maniera, diseguale e di basso costo, mediocremente giudicato da pubblico e
critici.
(Paolo A. Paganini)
B. Fenoglio
Una questione privata
Milton: la gelosia
cap. 2
• Il signorino Clerici, – disse allora, – mi fece inquietare e anche arrabbiare. Lo dico a lei perché ho stima di lei, lei è un ragazzo col viso
tanto serio, mi lasci dire che non ho mai visto un ragazzo con una fisionomia cosí seria. Lei mi capisce. Io contavo poco o niente, ero
solamente la custode della villa, ma la signora mamma di Fulvia, quando ce l’accompagnò, mi aveva pregato, mi aveva raccomandato...
• – Un po’ di governante, – suggerí Milton.
• – Ecco, se la parola non è grossa. Quindi io dovevo stare un po’ attenta a quel che succedeva intorno alla ragazza. Lei mi capisce. Con lei
io stavo tranquilla, tanto tranquilla. Parlavate sempre, per ore. O meglio, lei parlava e Fulvia ascoltava. Non è vero?
• – È vero. Era vero.
• – Con Giorgio Clerici invece...
• – Sí, – fece lui con la lingua secca.
• – Ultimamente, l’ultima estate voglio dire, l’estate del ’43, lei era soldato, mi sembra.
• – Sí.
• – Ultimamente veniva troppo spesso, e quasi sempre di notte. A me francamente quelle ore non piacevano. Arrivava con la macchina
pubblica. Si ricorda quella che posteggiava sempre davanti al municipio? Quella bella macchina nera, poi con quel ridicolo impianto a
gasogeno?
• – Sí. (…)
• Nemmeno si voltò, ebbe solo una contrazione al sommo delle guance.
• – E poi?
• – E poi cosa? – fece la custode.
• – Fulvia e... lui?
• – Giorgio alla villa non si faceva piú vedere. Ma usciva lei. Si davano appuntamento. Lui aspettava a cinquanta metri, addossato alla
siepe per confondersi. Ma io ero all’erta e lo vedevo, lo tradivano i suoi capelli biondi. Quelle notti c’era una luna che spaccava.
• – E questo fino a quando?
• – Oh, fino ai primi dell’altro settembre. Poi successe il finimondo dell’armistizio e dei tedeschi. Poi Fulvia andò via da qui con suo padre.
E io, pur affezionata come le ero, fui contenta. Stavo troppo sulle spine. Non dico che abbiano fatto il male...
• Eccolo lí, che tremava verga a verga nella sua fradicia divisa cachi, con la carabina che gli sussultava sulla spalla, la faccia grigia, la bocca
semiaperta e la lingua grossa e secca. Finse un
• accesso di tosse, per darsi il tempo di ritrovare la voce.
Milton: la gelosia
cap. 3
• – Tornerò per mezzogiorno, – disse Milton con puntiglio e fece per ritirarsi.
• – Un momento. E di Alba che mi dici? Niente?
• – Non ho visto praticamente niente, – rispose Milton senza riavvicinarsi. – In tutto e per tutto ho visto una ronda
sul viale di circonvallazione.
• – In che punto esattamente?
• – All’altezza del giardino vescovile.
• – Ah –. Gli occhi di Leo sfolgoravano bianchi nella vampa dell’acetilene. – Ah. E dove andavano? Verso la piazza
nuova o verso la centrale elettrica?
• – Verso la centrale.
• – Ah, – rifece Leo acremente. – Non è pignoleria, Milton, ma puro masochismo. Il fatto è che sono follemente
innamorato di Alba. A furia di pensarla come centro di gravità della mia brigata... sí, se tu permetti, io sono
follemente innamorato della tua città e sento il bisogno, il porco bisogno di sapere dove, quando e come me la f...
Ma che hai? Nevralgia?
• – Che nevralgia! – scattò Milton, ancora stralunato, con la smorfia di dolore ancora stampata netta in viso.
• – Avevi una faccia! Molti dei nostri soffrono di mal di denti. Dev’essere questa enorme umidità. Che altro hai
visto? Hai dato un’occhiata al nuovo bunker di Porta Cherasca?
• E Milton: «Non ne posso piú, – pensava. – Se mi fa ancora domande io... io lo...! E si tratta di Leo. Di Leo!
Figuriamoci con gli altri. Il fatto è che piú niente m’importa. Di colpo, piú niente. La guerra, la libertà, i compagni, i
nemici. Solo piú quella verità».
• – Il bunker, Milton.
• – L’ho veduto, – sospirò.
Milton e il sergente
cap. 10
• A valle del costone un cane abbaiò, ma d’allegria, non per allarme. Erano già quasi a un terzo dell’erta.
• – Non passerà, – disse Milton, – ma se passasse un contadino, tu subito ti porti sul ciglio della strada, dalla
parte della ripa. Cosí quello può passare senza nemmeno sfiorarti e a te non viene la pessima idea
d’avvinghiarti a lui. Hai capito?
• Annuí con la testa.
• – È un’idea che può venire a chi sa di andare a morire. Ma tu non vai a morire. Attento a non scivolare. Io
non sono rosso, sono badogliano. Questo ti solleva un pochino, eh? Spero tu ti sia già persuaso che io non
ti ammazzerò. Non lo dico perché siamo ancora troppo vicini a Canelli e c’è ancora la possibilità di sbattere
in una vostra pattuglia. Piú in là ti tratterò anche meglio, vedrai. Hai sentito? E non tremare. Ragiona, che
motivo hai piú di tremare? Se è per lo shock della pistola nella schiena, a quest’ora dovresti averlo già
superato. Sei o non sei un sergente della San Marco? Eri anche tu di quelli che stamattina facevano i
gradassi a Santo Stefano?
• – No!
• – Non alzar la voce. Non m’interessa. E smettila di tremare, e di’ qualcosa.
• – E che vuoi che dica?
• – Andiamo già meglio.
Milton uccide il sergente
cap. 10
Certo le fitte cortine di pioggia concorrevano a sfigurarla, ma egli la vide decisamente brutta, gravemente
deteriorata e corrotta, quasi fosse decaduta di un secolo in quattro giorni. I muri erano grigiastri, i tetti
ammuffiti, la vegetazione all’intorno marcia e sconquassata.
«Ci vado, ci vado ugualmente. Non saprei proprio che altro fare e non posso stare senza far niente. Manderò in
città il ragazzo del contadino, per sapere di lui. Gli darò... gli darò le dieci lire che dovrebbero restarmi in
tasca».
Si avventò giú per il pendio, perdendo immediatamente la vista della villa, e arrivò in scivolata sulla riva del
torrente, a valle del ponte. L’acqua sommergeva di un palmo i massi collocati per il guado. Passò da un
pietrone all’altro con l’acqua gelida e grassa alle caviglie. Poi imboccò la stradina percorsa al ritorno
davanti a Ivan, quattro giorni prima. Al piano, camminò con furore, rispondendo al furore della pioggia. «In
che stato sono. Sono fatto di fango, dentro e fuori. Mia madre non mi riconoscerebbe. Fulvia, non dovevi
farmi questo. Specie pensando a ciò che mi stava davanti. Ma tu non potevi sapere che cosa stava davanti
a me, ed anche a lui e a tutti i ragazzi. Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere,
solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai
che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti».
La corsa e la morte di Milton
cap. 13
Correva, sempre piú veloce, piú sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno come se smaniasse di
riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle
colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi.
Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.
Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva,
in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di
fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti
mi ammazzi!»
Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico,
invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo
a piú non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno
di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di
incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel
mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli
scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a
ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era
già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della
solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco
e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro
crollò.
Il sentiero dei nidi di ragno –
I. Calvino, 1948
I ‘grandi’ agli occhi di Pin: “razza ambigua e traditrice”
(cap. II)
• - Io, - dice il Francese agli altri, - con questi del comitato non mi comprometterei troppo. Non me la sento d'andar di mezzo
per la faccia loro.
• - Ben, - dice Gian l'Autista. - Noi cosa s'è fatto? S'è detto: vedremo. Intanto è bene averci un collegamento con loro senza
impegnarci e prendere tempo. Io coi tedeschi poi ci ho un conto da regolare da quando s'era al fronte insieme, e se c'è da
battermi, mi batto volentieri.
• - Ben, - dice Miscèl. - Guarda che coi tedeschi non si scherza e non si sa come andrà a finire. Il comitato vuole che facciamo il
gap; bene, noi facciamo il gap per conto nostro.
• - Intanto, - fa Giraffa, - gli facciamo vedere che siamo dalla loro, e ci armiamo. Una volta che siamo armati...
• Pin è armato: sente la pistola sotto la giacchetta e ci mette una mano sopra, come se gliela volessero portar via.
• - Ne avete armi, voi? — chiede.
• - Non ci stare a pensare, - fa il Giraffa. - Tu pensa a quella pistola del tedesco, siamo intesi.
• Pin rizza gli orecchi; ora dirà: indovinate, dirà.
• - Guarda un po' di non perderla d'occhio, se ti capita sottomano...
• Non è come Pin avrebbe voluto, perché importa loro tanto poco, adesso? Vorrebbe non aver ancora preso la pistola,
vorrebbe tornar dal tedesco e rimetterla al suo posto.
• - Per una pistola, - dice Miscèl, - non vai la pena rischiare. Poi è un modello antiquato: pesante, s'inceppa.
• - Intanto, - dice Giraffa, - bisogna far vedere al comitato che facciamo qualcosa, questo è importante -. E continuano a
parlottare sottovoce.
• Pin non sente più niente: ormai è sicuro che non darà loro la pistola; ha i lucciconi agli occhi e una rabbia gli stringe le
gengive. I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure
hanno anch'essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l'altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero. Prima
sembrava che giocassero con l'uomo sconosciuto contro il tedesco, adesso da soli contro l'uomo sconosciuto, non ci si può
mai fidare di quel che dicono.
• - Ben, cantacene un po' una, Pin, - dicono adesso, come se nulla fosse successo, come se non ci fosse stato un patto
severissimo tra lui e loro, un patto consacrato da una parola misteriosa: gap.
L’interrogatorio: il tradimento del francese (cap. III)
• Allora l'ufficiale solleva il cinturone e gli da una frustata a una guancia con tutte le sue forze. Pin a momenti va per terra, sente come un
volo d'aghi che gli si conficcano nelle lentiggini, e il sangue scorrergli per la guancia già gonfia.
• La sorella da un grido. Pin non può fare a meno di pensate a quante volte lei l'ha picchiato, forte quasi come adesso, e che è una
bugiarda a far tanto la sensibile (…)
• Pin in fondo preferirebbe essere amico con questi uomini; anche le guardie municipali gliele suonano sempre e poi si mettono a
scherzare su sua sorella. Se ci si mettesse d'accordo sarebbe bello spiegare a costoro dove fanno il nido i ragni e che loro s'interessassero e
venissero con lui, che mostrerebbe loro tutti i posti. Poi andrebbero insieme all'osteria a com-prare del vino e poi tutti in camera di sua sorella
a bere, fumare e vederla ballare. Ma i tedeschi e i fascisti sono razze imberbi o bluastre con cui non ci si può intendere, e continuano a
picchiarlo e Pin non dirà mai loro dove sono i nidi di ragno, non l'ha mai detto agli amici, figuriamoci se lo dice a loro.
• Piange, invece, un pianto enorme, esagerato, totale come il pianto dei neonati, misto a urli e imprecazioni e a pestate di piedi che lo si
sente per tutto il casamento del comando tedesco. Non tradirà Miscèl, Giraffa, l'Attrista e gli altri: sono i suoi veri compagni. Pin ora è pieno
d'ammirazione per loro perché sono nemici di quelle razze bastarde. Miscèl può star sicuro che Pin non lo tradirà, di là certo sentirà i suoi
gridi e dirà: « Un ragazzo di ferro, Pin, resiste e non parla».
• Difatti il baccano piantato da Pin si sente dappertutto, gli ufficiali degli altri uffici cominciano a essere seccati, al comando tedesco c'è
sempre un viavai di gente per permessi e forniture, non è bene che tutti sentano che loro battono anche i bambini.
• L'ufficiale con la faccia infantile riceve l'ordine di smettere l'interrogatorio; continuerà un altro giorno e in altra sede. Ma far stare zitto
Pin adesso è un problema. Loro vogliono spiegargli che tutto è finito ma Pin copre la loro voce coi suoi strilli. Gli si avvicinano in molti, per
calmarlo, ma lui scappa e si divincola e raddoppia i piagnistei. Fanno entrare sua sorella che lo consoli e lui a momenti le salta addosso per
morderla. Dopo un po' c'è un gruppetto di militi e di tedeschi attorno a lui che cercano di rabbonirlo, qualcuno gli fa una carezza, qualcuno
cerca d'asciugargli le lacrime.
• Alla fine, stremato, Pin si cheta, ansimando senza più voce in gola. Ora un milite lo condurrà alla prigione e domani lo riaccompagnerà
all'interrogatorio.
• Pin esce dall'ufficio col milite armato che lo segue; ha la faccia piccola piccola sotto l'ispido dei capelli, gli occhi strizzati e le lentiggini
lavate dal pianto.
• Sulla porta incontrano Miscèl il Francese che esce, libero.
• - Ciao, Pin, - dice, - vado a casa. Prendo servizio domani.
• Pin lo smiccia con gli occhietti rossi, a bocca aperta.
• - Si. Ho fatto domanda per la brigata nera. Mi hanno spiegato i vantaggi, lo stipendio che si piglia. Poi, sai, nei rastrellamenti puoi girare
per le case a perquisire dove vuoi. Domani mi vestono e mi armano. In gamba, Pin.
I partigiani: la disumanità (cap. VII)
• Un giorno torna all'accampamento Duca; era stato via con i suoi tre cognati per una delle loro spedizioni
misteriose. Duca arriva con una sciarpa di lana nera attorno al collo e tiene in mano il berretto di pelo.
• - Compagni - dice - hanno ammazzato mio cognato Marchese.
• Gli uomini escono dal casolare e vedono arrivare Conte e Barone, pure con sciarpe di lana nera attorno al
collo, che portano una barella di pali da vigna e rami d'olivo, con dentro il loro cognato Marchese, ucciso
dalla brigata nera in un campo di garofani.
• I cognati posano la bara davanti al casolare e rimangono a testa scoperta e a capo chino. Allora
s'accorgono dei due prigionieri. Ci sono due prigionieri fascisti catturati nell'azione del giorno prima, che
se ne stanno lì scalzi e spettinati a pelare le patate, con la divisa dai fregi strappati, spiegando per la
centesima volta a ognuno che s'avvicina che loro ad arruolarsi erano stati obbligati.
• Duca ordina ai due prigionieri di prendere il picco e la pala, e di portare la bara ai prati per seppellire il
cognato. Cosi s'incamminano: i due fascisti portano il morto sulle spalle adagiato sulla barella di rami, poi i
tre cognati, Duca in mezzo, gli altri ai lati. Nella mano sinistra hanno il berretto tenuto sul petto all'altezza
del cuore: Duca il berretto tondo di pelò, Conte un passamontagna di lana, Barone il grande cappello
contadino nero; nella mano destra hanno ognuno una pistola puntata. Dietro, a una certa distanza,
seguono tutti gli altri, in silenzio.
I partigiani: la disumanità (cap. VII)
• Duca a un certo momento comincia a dire le preghiere per i morti: i versetti latini nella sua bocca suonano
carichi d'ira come bestemmie, e i due cognati gli fanno coro, sempre con le pistole puntate e i berretti
tenuti sul petto; II funerale avanza cosi per i prati, a passo lento; Duca da brevi ordini ai fascisti, di andare
adagio, di tenere dritta la barella e di girate quando si deve girare; poi ordina loro di fermarsi e di scavare
la fossa.
• Anche gli uomini si fermano a una certa distanza e stanno a guardare. Vicino alla bara e ai due fascisti che
scavano ci sono i tre cognati calabresi a capo scoperto, con le sciarpe di lana nera e le pistole puntate che
dicono preghiere latine. I fascisti lavorano con fretta: hanno già scavato una fossa profonda e guardano i
cognati.
• - Ancora, - dice Duca.
• - Più profonda? - chiedono i fascisti.
• - No, - dice Duca, - più larga.
• I fascisti continuano a scavare e a buttare su terra; fanno una fossa due, tre volte più larga.
• - Basta, - dice Duca.
• I fascisti adagiano il cadavere di Marchese in mezzo alla fossa; poi escono per ributtare dentro la terra.
• - Giù, - dice Duca, - copritelo restando giù.
• I fascisti fanno cadere palate di terra solo sopra il morto e rimangono in due fosse separate ai lati del
cadavere sotterrato. Ogni tanto si voltano per vedere se Duca permette loro di salire, ma Duca vuole che
continuino a buttare tetra sul cognato morto, terra che già forma un'alta tomba sul suo corpo.
I partigiani: l’ignoranza politica (cap. VIII)
• Adesso Mancino si lagna con Giacinto che nel distaccamento nessuno parli mai agli uomini del perché
fanno il partigiano e di cos'è il comunismo. Giacinto ha i pidocchi annidati a grumi alla radice dei capelli e
nei peli del basso ventre. A ogni pelo sono appiccicate piccole uova bianche e Giacinto con un gesto
diventato ormai meccanico continua a schiacciare uova e bestie fra le unghie dei pollici, facendo un piccolo
«clic».
• - Ragazzi, - comincia a parlare, rassegnato, come se non volesse rassegnare nessuno, nemmeno Mancino, -
ognuno lo sa perché fa il partigiano. Io facevo lo stagnino e giravo per le campagne, il mio grido si sentiva
da distante e le donne andavano a prendere le casseruole bucate per darmele da aggiustare. Io andavo
nelle case e scherzavo con le serve e alle volte mi davano uova e bicchieri di vino. Mi mettevo a stagnare i
recipienti in un prato e intorno avevo sempre bambini che mi stavano a guardare. Adesso non posso più
girare per le campagne perché mi arresterebbero e ci sono i bombardamenti che spaccano tutto. Per
questo facciamo i partigiani: per tornare a fare lo stagnino, e che ci sia il vino e le uova a buon prezzo, e
che non ci arrestino più e non ci sia più l'allarme. E poi anche vogliamo il comunismo. Il comunismo è che
non ci siano più delle case dove ti sbattano la porta in faccia da esser costretti a entrarci per i pollai, la
notte. Il comunismo è che se entri in una casa e mangiano della minestra, ti diano della minestra, anche se
sei stagnino, e se mangiano del panettone, a Natale, ti diano del panettone. Ecco cos'è il comunismo. Per
esempio: qui siamo tutti pieni di pidocchi che ci muoviamo nel sonno perché quelli ci trascinano via. E io
sono andato al comando di brigata e ho visto che avevano dell'insetticida in polvere. Allora ho detto: bei
comunisti che siete; di questo in distaccamento non ne mandate. E loro hanno detto che ci manderanno
dell'insetticida in polvere. Ecco cos'è il comunismo.
• Gli uomini sono stati a sentire attenti e approvano: queste sono parole che capiscono bene tutti.
Il discorso di Kim: perché i partigiani combattono
(cap. IX)
• Kim si soffia nei baffi: - Questo non è un esercito, vedi, da dir loro: questo è il dovere. Non puoi parlar di dovere qui, non
puoi parlare di ideali: patria, libertà, comunismo. Non ne vogliono sentir parlare di ideali, gli ideali son buoni tutti ad averli,
anche dall'altra parte ne hanno di ideali. Vedi cosa succede quando quel cuoco estremista comincia le sue prediche? Gli
gridano contro, lo prendono a botte. Non hanno bisogno di ideali, di miti, di evviva da gridare. Qui si combatte e si muore
cosi, senza gridare evviva.
• - E perché allora? - Ferriera sa perché combatte, tutto è perfettamente chiaro in lui.
• (…) Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere, dimmi? Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne,
per loro è già più facile. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa della
patria, i contadini hanno una patria. Cosi li vedi con noialtri, vecchi e giovani, con i loro fucilacci e le cacciatore di fustagno,
paesi interi che prendono le armi; noi difendiamo la loro patria, loro sono con noi. E la patria diventa un ideale sul serio per
loro, li trascende, diventa la stessa cosa della lotta: loro sacrificano anche le case, anche le mucche pur di continuare a
combattere. Per altri contadini invece la patria rimane una cosa egoistica: casa, mucche, raccolto. E per conservare tutto
diventano spie, fascisti; interi paesi nostri nemici... Poi, gli operai. Gli operai hanno una loro storia di salari, di scioperi, di
lavoro e lotta a gomito a gomito. Sono una classe, gli operai. Sanno che c'è del meglio nella vita e che si deve lottare per
questo meglio. Hanno una patria anche loro, una patria ancora da conquistare, e combattono qui per conquistarla. Ci sono
gli stabilimenti giù nelle città, che saranno loro; vedono già le scritte rosse sui capannoni e bandiere alzate sulle ciminiere.
Ma non ci sono sentimentalismi, in loro. Capiscono la realtà e il modo di cambiarla. Poi c'è qualche intellettuale o studente,
ma pochi, qua e là, con delle idee in testa, vaghe e spesso storte. Hanno una patria fatta di parole, o tutt'al più di qualche
libro. Ma combattendo troveranno che le parole non hanno più nessun significato, e scopriranno nuove cose nella lotta degli
uomini e combatteranno cosi senza farsi domande, finché non cercheranno delle nuove parole e ritroveranno le antiche, ma
cambiate, con significati insospettati. Poi chi c'è ancora? Dei prigionieri stranieri, scappati dai campi di concentramento e
venuti con noi; quelli combattono per una patria vera e propria, una patria lontana che vogliono raggiungere e che è patria
appunto perché è lontana. Ma capisci che questa è tutta una lotta di simboli; che uno per uccidere un tedesco deve pensare
non a quel tedesco ma a un altro, con un gioco di trasposizioni da slogare il cervello, in cui ogni cosa o persona diventa
un'ombra cinese, un mito?
Il discorso di Kim:
il distaccamento del Dritto (cap. IX)
Il distaccamento del Dritto: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che s'ac-
comoda nelle piaghe della società, e s'arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente da
difendere è niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati, o fanatici. Un'idea
rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppure
nascerà storta, figlia della rabbia, dell'umiliazione, come negli sproloqui del cuoco estremista.
Perché combattono, allora? Noia hanno nessuna patria, né vera né inventata. Eppure tu sai
che c'è coraggio, che c'è furore anche in loto. È l'offesa della loro vita, il buio della loro strada,
il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere
cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima e ci si trova dall'altra
parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro
gli uni o contro gli altri, fa lo stesso.
Il discorso di Kim: noi e ‘gli altri’ (cap. IX)
• Ferriera mugola nella barba: - Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?...
• — La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa... - Kim s'è fermato e indica con un dito come se
tenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello
sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del
Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in
spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di
purificazione, di riscatto. Ma allora c'è la storia. C'è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto,
loro dall'altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m'intendi?
uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un'umanità
senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti; degli inutili
furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere
e perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e
loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per
redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là
dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre
umiliazioni: per l'operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo
borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia
questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così
come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l'uomo contro l'uomo.
Le quattro giornate di Napoli –
Nanni Loy, 1962
Le Quattro Giornate di Napoli dalle foto di Capa al film di
Loy: un moto spontaneo popolare
APOLLONIA STRIANO
Le Quattro Giornate durante le quali Napoli, alla fine del mese di settembre del 1943, riuscì ad affermare la propria urgenza di
libertà, ribellandosi alla brutale presenza dei tedeschi, da sempre hanno dato luogo ad intensi dibatti storiografici.
Gli studiosi si sono soffermati a lungo sulla natura dell'insurrezione, ricercando la sua matrice in una spontanea forma di rivolta
popolare, nello slancio anarcoide o nella consapevole affermazione di valori antifascisti, sostenuta dalle strategie della
politica strutturata. All'interpretazione dell'avvenimento e alla sua ricostruzione storica ha dato un contributo fondamentale
il film di Nanni Loy "Le Quattro giornate di Napoli", apparso nel 1962. Di esso, del proficuo rapporto tra storiografia e
cinema, del racconto in letteratura di questo incredibile episodio sono tornati a parlare gli autori del volume collettivo
"L'onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema", curato da Ugo Maria Olivieri, Mario
Rovinello, Paolo Speranza. Forse oggi, a distanza di 72 anni — osserva nell'introduzione Guido D'Agostino — è possibile
provare a tracciare un bilancio della ricezione/percezione nell'immaginario cittadino, nazionale, europeo, delle Quattro
Giornate, partendo proprio dalla controversa accoglienza che ha avuto il film di Loy, a ridosso della sua uscita, presso la
stampa tedesca. In una sorta di precipitoso revisionismo, in Germania la vicenda della rivolta napoletana era stata archiviata
dagli studiosi come un fatto di lenoni e prostitute, un'estemporanea zuffa popolare senza alcuna progettualità. Il film
scardinava profondamente questa chiave di lettura: ideologicamente, dichiarava Loy, era iniziato per le suggestioni offerte
dalle geniali fotografie di Robert Capa. L'immagine dello scugnizzo sporco e stracciato con l'elmetto tedesco in testa aveva
indotto il regista ad accostarsi ai fatti di Napoli come ad un unicum rispetto alle azioni partigiane, che sarebbero poi
maturate liberamente nel resto d'Italia. In concreto, quella foto affermava che il primo significativo colpo al potente esercito
del Reich era stato inferto da un popolo bambino e poverissimo, disperato ma ancestralmente ansioso di libertà. Secondo
Loy Napoli, nonostante gli «aspetti quasi intollerabili di disorganizzazione», proponeva inconsapevolmente un modello
vincente, «correttivo» rispetto a società troppo organizzate, gravate da falsi miti e cattiva coscienza. In questa prospettiva, il
suo film riusciva ad elaborare un'efficace ed inedita analisi dei fatti, soffermandosi su quanto — nelle dinamiche della Storia
— viene compiuto per uno spontaneo moto popolare, in cui trovano espressione concreta le spinte del cambiamento
ideologico.
Il regista sarebbe stato "spinto" a girare il film dai geniali scatti del fotografo americano. L'accoglienza in Germania e altri paesi
europei
U. OLIVIERI M. ROVINELLO P.SPERANZA L'onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema (Esi)
La casa in collina – C. Pavese, 1948
La casa in collina - riassunto
Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti che
imperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei. Le colline torinesi sono
abitate da schietta gente del luogo e da persone di città che, come lui, hanno bisogno di un rifugio. Così, malgrado
Corrado prediliga la solitudine e l’isolamento, si unisce ai frequentatori di un’osteria, le Fontane,che scopre essere
gestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivi
anagrafici, potrebbe essere addirittura suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione con
Cate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo ed anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra,
vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui.
Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorrere
molto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne La luna e i falò). Nel frattempo il
protagonista si interroga anche sul suo amore per Cate, che forse non si è del tutto estinto, e sul suo impegno
storico e civile in un drammatico frangente storico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tuttavia Corrado non
esterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, che
devasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.
La situazione è sconvolta da una retata dei nazisti, che all’osteria arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, di
ritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. Rifugiatosi prima da Elvira, innamorata di lui, e
poi in un collegio a Chieri (nei pressi di Torino), Corrado affida Dino alle cure delle due donne. Il ragazzo in seguito
raggiungerà il protagonista al collegio ma presto sceglie di arruolarsi nelle fila partigiane. Corrado, insicuro e
incapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”.
Durante il viaggio di ritorno, incappa in un’imboscata partigiana e la vista dei cadaveri dei fascisti gli suggerisce
amare e disilluse riflessioni sul senso della guerra, dell’esistenza umana e della sua crisi esistenziale che, nella
conclusione del romanzo, non è destinata a risolversi.
Il dramma esistenziale dell’intellettuale
di fronte alla necessità dell’impegno
La casa in collina indaga le conseguenze psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, cui
Pavese stesso non partecipa, rifugiandosi, come il protagonista, in campagna. La narrazione è dunque fortemente
intrisa di elementi autobiografici, che fanno trasparire alcune costanti della poetica di Pavese: il legame
disarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto a
quello della città, il ruolo della memoria individuale.
Pavese tratta una volta ancora quel dissidio tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e la presa di posizione
storica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Pavese avverte profondamente questo dissidio per
motivi autobiografici e lo traspone, attraverso la scelta della narrazione in prima persona, nella figura di Corrado.
Il protagonista, debole e irresoluto, è preso all’interno di una serie di antitesi tra cui non sa decidersi. La prima di
queste è quella tra la città e la collina: se Torino è devastata dai bombardamenti, inizialmente la campagna delle
Langhe si presenta come un luogo sicuro e protetto, in cui Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore
passato con Cate. Tuttavia, ben presto la Storia nullifica questa opposizione: dopo l’8 settembre, con lo scoppio
della guerra civile tra nazifascisti e partigiani, anche il mondo della campagna è attraversato dalla violenza e tutti
sono chiamati a scelte drastiche e radicali. In questo senso, è significativa l’assenza di Corrado nel momento
cruciale della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto da Elvira prima e nel
collegio poi.
La seconda antitesi è appunto quella tra chi si impegna (mostrando un legame attivo tra sé e il mondo esterno) e chi,
come Corrado, è vittima del dubbio e dell’incertezza. Bisogna notare che questa crisi riguarda sia la vita privata
che quella pubblica di Corrado. Se egli infatti non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini,
sul piano personale è succube di tormenti analoghi. Corrado infatti non sa se Dino è davvero figlio suo, ma prova
ad identificarsi in lui e a svolgere un ruolo paterno nei suoi confronti. Assai significativa in questo caso la decisione
finale di Dino di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua
incapacità di agire. In secondo luogo, quando rivede Cate il protagonista si domanda se il loro amore sia davvero
finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del
destino della donna. In terzo luogo, Corrado preferisce quasi sempre la solitudine al rapporto con gli altri e con il
mondo: prova ne è prima il suo rifugio nel microcosmo familiare della casa di Elvira e della madre e poi la scelta di
autoescludersi da tutto ritornando alla “casa in collina”.
La vista dei cadaveri (cap. XXII)
Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata di
benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesi
corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete,
s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi.
Uno – divisa grigioverde tigrata – era piombato sulla faccia, ma i pidei li aveva ancora sul camion. Gli usciva il
sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo,
imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto di
cenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigidito
ginocchioni contro il fil di ferro, pareva vivo, colava sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di cera
coronato di spine.
Chiesi al prete se i morti erano tutti quelli del furgone. Il prete energico, sudato, mi guardò stravolto e mi disse
non solo ma nelle case più avanti era pieno di feriti. – Chi aveva attaccato?
Partigiani di lassù, mi disse, che li aspettavano da giorni. – Loro ne avevano impiccati quattro, - strillò una
vecchia che piangeba e agitava un rosario.
- E questo è il frutto, - disse il prete. – Adesso avremo rappresaglie da selvaggi. Di qui all’alta valle del Belbo sarà
un falò solo.
L’uomo che verrà – Giorgio Diritti,
2009