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L’AFFAIRE MORO

Il testo dell’Affaire Moro è non semplicissimo, trai i testi di Sciascia è abbastanza impegnativo, si può leggere
su diversi livelli; noi privilegiamo un tipo di lettura legittimata dallo stesso Sciascia, dalle stesse strategie
testuali volute dall’autore. Il primo livello di lettura potrebbe essere quello di riflessione politica sul caso del 16
marzo del ’78: l’uccisione degli uomini della scorta, i 55 giorni di prigionia nel covo delle brigate rosse, e infine
l’uccisione e il ritrovamento del corpo di Aldo Moro che suggella la fine della prima repubblica. Non è soltanto
un’opera politica, ma può e deve essere letta anche come opera letteraria. L’originalità sta nel fatto che
presenta un alto tasso di riferimenti alla tradizione letteraria (vengono citati ad esempio Pirandello, Pasolini).
Per Sciascia questo è il punto di forza, tanti libri sono stati scritti sul caso Moro, ma il suo va letto valorizzando
altri piani e altre chiavi di interpretazione, anche se non è assente dall’orizzonte del libro il piano politico.
L’Affaire Moro è della piccola biblioteca Adelphi ma originalmente esce da Sellerio, editore storico di Sciascia.
Viene utilizzato il termine “affaire” e non “la vicenda” perché fa riferimento all’affaire Dreyfus; è un omaggio alla
Francia, a cui Sciascia era particolarmente legato, amava soggiornare a Parigi e si recava frequentemente,
amava la letteratura e l’illuminismo francese. Dreyfus era un capitano di origine ebraica, il quale era stato
ingiustamente accusato, alla fine del ‘800 di aver tradito la patria e di aver fatto opera di spionaggio. Questo
crea un conflitto politico e sociale, la società si divide tra colpevolisti e innocentisti, tra questi ultimi si distingue
Emile Zola che pubblica su un quotidiano un articolo intitolato “J’accuse”. Ciò permette di riconoscere un modo
diverso di essere scrittori, in questo caso l’autore non si chiude nel suburbio delle “humanae litterae” ma si
confronta con l’attualità e prende posizione sui problemi sociali. L’Affaire ci consente di identificare uno
Sciascia che si vuole fare erede di questa tradizione, uno scrittore militante che fa politica. Naturalmente Emile
Zola si rivolgeva al presidente della repubblica affinché riconoscesse l’innocenza di Dreyfus. C’è il richiamo di
un’altra vicenda che riguarda sempre un errore giudiziario. Dreyfus era riuscito a farsi riabilitare, invece a Jean
Calas succede di essere condannato ingiustamente. Jean Calas vive nella Francia del ‘600 e viene accusato
di aver ucciso il figlio per impedire la sua conversione al cattolicesimo (siamo al tempo delle guerre di
religione). L’accusa porta ad un processo e ad una condanna a morte. Voltaire prende posizione anche in
questo caso, e fa di tutto per la riabilitazione postuma (dopo la morte) della memoria di Jean Calas.
Pagina 159: La prima edizione è datata nel 1978 da Selleri, poi la riedizione del 1983 ha un’integrazione
costituita dalla relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia. Era successo che Sciascia
si era fatto eleggere deputato nelle liste del partito radicale e aveva contribuito ai lavori sul caso Moro. La sua
collaborazione è costituita da queste pagine. Questa integrazione è importante perché Sciascia entra nella
politica attiva e da deputato entra nel palazzo e in questo dà il suo contributo per la ricerca di una possibile
verità del caso.
Pagina 11/12: La Letterarietà viene contestata nelle polemiche che sono susseguite all’uscita del libro. Siamo
nell’estate del ‘78 e Pasolini era morto da poco, assassinato nel novembre ‘75 all’idroscalo di Ostia, vi erano
stati rapporti di amicizia tra Sciascia e Pasolini. Sciascia ci porta in campagna e ci porta a camminare nella
campagna nelle sere d’estate. Questa prima pagina è un ricordo d’infanzia, è un esordio poetico che sembra
quasi fuori luogo in un libro che è dedicato alla ricostruzione di un fatto drammatico. La lucciola è una
piacevolissima sorpresa perché queste sono scomparse dalle campagne da molti anni, non è un’osservazione
personale ma l’aveva fatta prima di lui Pasolini in un articolo che viene citato subito dopo (Il vuoto del potere in
Italia - L’articolo delle lucciole). Sciascia ricostruisce la natura dei suoi rapporti: amicizia e stima nei confronti
di Pasolini, però c’era stata l’ombra di un malinteso, Sciascia dice che il malinteso consistette nel fatto che
aveva un pregiudizio nei riguardi dell’omosessualità di Pasolini e il fatto di non essere riuscito a dirlo lo fa
rattristire e dichiara di essere la sola persona in Italia con cui Pasolini potesse veramente parlare. Mentre lui
considerava adorabile la donna che è ha sposato e Stendhal (amore letterario), Pasolini trovava adorabile
quello che per lui in Italia era già straziante e che lo avrebbero portato infine alla morte. Pasolini è stato
assassinato probabilmente da un ragazzo di borgata: in confronto di questo mondo di borgata che attraeva
(anche ma non solo) per ragioni sessuali Pasolini, Sciascia prova un certo disagio. Nel articolo Pasolini
processa gli uomini del potere che a metà degli anni ‘70 appartenevano alla democrazia cristiana, di cui
quando Moro viene rapito era presidente. La scelta delle brigate rosse è mirata, vuole colpire il simbolo,
chiaramente le indagini sono molto più complesse di quelle che possiamo fare ora.
Pagina 13: Gli uomini del potere democristiano durante la fase della scomparsa delle lucciole avevano
cambiato linguaggio; dobbiamo fissare due punti importanti nell’articolo di Pasolini, la prima, in ordine
cronologico, è la scomparsa delle lucciole (immagine poetica); ricorre alle lucciole per mettere in evidenza il
mutamento antropologico dell’Italia e degli italiani: si passa da una civiltà contadina e dei suoi valori, alla civiltà
capitalistica, o neo capitalistica, dei consumi in cui i valori sono perlopiù edonistici.
Pagina 14: Il secondo punto è che durante la fase di transizione (durante la scomparsa delle lucciole) gli
uomini di potere hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio
totalmente nuovo, soprattutto Aldo Moro. L’accusa che lancia Pasolini alla classe politica dirigente
democristiana in quegli anni è quella di non aver saputo gestire bene il cambiamento antropologico italiano, il
tentativo di gestione non è riuscito ai suoi occhi, di qui lo svuotamento del palazzo del potere. Questo
processo di trasformazione non è più gestito dalla politica ma dall’economia (dal punto di vista di Pasolini). Il
latino citato riguarda il “latinorum” di Renzo Tramaglino che obietta, appunto, a don Abbondio di voler buttargli
la sabbia negli occhi, uscendo fuori con espressioni della liturgia latina. Aldo Moro non fa eccezione, perché lui
partecipa a questo cambio linguistico sempre più oscuro. Pasolini in un altro articolo aveva studiato il
linguaggio di Moro e aveva commentato come se ne fosse uscito con la trovata delle convergenze parallele.
Pagina 17: Di tutto questo articolo pasoliniano è soprattutto un inciso a colpire Sciascia: Aldo Moro ha un
rapporto enigmatico con gli altri compagni del partito. Questa relazione ambigua di cui parla Pasolini è come la
prefigurazione dell’Affaire Moro. Sciascia è interessato al Pasolini profeta, al Pasolini che anticipa, in meno di
tre anni, quello che sarà il destino di Moro.
Sciascia cita l’articolo soprattutto per metter in evidenza l’immagine della lucciola, simbolo di un’Italia pastorale
e contadina scomparsa. Abbiamo un Pasolini critico di un linguaggio della classe politica dirigente
democristiana, quindi Moro compreso che aveva inventato la formula comprensibile delle parallele
convergenti, ma soprattutto quello che potremmo definire linguaggio politichese, fumoso della politica di quegli
anni. L’articolo serve a Sciascia soprattutto per sottolineare la tesi che Pasolini era profetico per la vicenda di
Moro e il suo triste epilogo. Questa profezia la vede soprattutto quando parla di enigmatica correlazione tra
Moro e gli altri compagni di partito, proprio questo rapporto che poi si rivelerà per Moro estremamente
deludente e sarà decisivo per le sue sorti all’indomani del rapimento. La tragedia di Moro sta nel fatto che i
maggiorenti della DC (Democrazia Cristiana) rifiutarono la soluzione della trattativa umanitaria e quindi lo
lasciarono alla sua sentenza di morte già scritta; la tesi di Sciascia è un’accusa allo Stato di aver abbandonato
Moro e di non aver fatto nulla per salvarlo. La correlazione enigmatica riguarda anche il fatto che Moro fosse il
meno implicato di tutti nelle trame di potere e corruzione di quegli anni da una parte, e poi che la classe
politica si inventa il linguaggio del non dire, in quegli anni di scomparsa delle lucciole.
Pagina 29: Non solo Pasolini prefigura, ma la stessa scrittura di Sciascia prima della vicenda riveste questo
ruolo. La vicenda Moro sembra generata da una certa letteratura come il libro di Cervantes sembra generato
dai libri della cavalleria errante, perché l’eroe del poema è don Chisciotte e il suo vizio è quello di leggere libri
cavallereschi, si lascia condizionare dalla lettura a tal punto da confondere la realtà con la finzione e Sciascia
allega, a dimostrazione di questo assunto, due suoi romanzi. In “Todo modo” Sciascia presenta la corruzione
della classe politica al potere e anche le responsabilità della chiesa cattolica e in un certo senso è come se tra
profezia e allucinazione Sciascia avesse anticipato quello che poi sarebbe accaduto, arriva ad affermare
qualcosa di più forte, parla di un’impressione che l’affare Moro sia già stato scritto.
Pagina 113: Questo potrebbe sembrare un paradosso ma da una certa angolatura Sciascia aveva ragione.
Egli, infatti, scriveva i suoi libri solitamente d’estate: in data 24 agosto 1978 l’Affaire Moro finisce (pagina 147).
Sciascia si autorappresenta nell’alto della scrittura, e ci sta dicendo che l’Affaire Moro si basa su documenti
scritti e quindi in senso lato su altra letteratura: in primis le lettere di Moro (tutto l’Affaire può essere
considerato un commento alle lettere che Moro scriveva dalla prigione del popolo delle brigate rosse), ma
anche i comunicati più o meno deliranti delle brigate rosse; ci sono anche i comunicati della famiglia di Moro
che si indignano per il fatto che lo Stato non si desse da fare per la sua liberazione, ci sono i comunicati del
governo come quello di Andreotti e ci sono ancora gli articoli dei giornali che commentavano e riportavano le
notizie relative al caso: abbiamo le parole sulle parole di Moro e tutto questo viene filtrato dalla visione dello
scrittore Sciascia. Si è parlato a proposito dell’Affaire come un giallo filologico.
Pagina 25/26: Citazione di un racconto di Borges (scrittore argentino, caratterizzato dalla letteratura che non
esce dal labirinto della stessa e che pratica l’intertestualità). Borges, quando scrisse di Pierre Menard che si
propone di riscrivere il Don Chisciotte, afferma che la riscrittura è la riproduzione letterale del Don Chisciotte di
Cervantes, però Borges osserva come, nonostante la ripetizione, il testo di Menard assunse un altro
significato, perché è cambiato il contesto. Cervantes dice che la storia è maestra di vita e Menard, che copia
fedelmente questa frase, le fa assumere un altro significato, ovvero che siamo noi ad attribuire un significato
agli eventi della storia: la storia come storiografia è oggetto di diverse interpretazioni, la storia non è ciò che
avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Sciascia ci vuol dire che sotto gli occhi ha i documenti
relativi alla vicenda di Moro, ma sono documenti che sono stati interpretati in una certa maniera dai presunti
amici dello stesso, lui li riporta e li riscrive tali e quali nell’Affaire ma dà loro una diversa interpretazione.
Pagina 27: È importante dire che questa applicazione del metodo di Menard ci presenta Aldo Moro come
artefice del compromesso storico (perché inizialmente Moro aveva tentato di distendere i rapporti con tra il PC
e il DC, e poi con Berlinguer aveva avviato una sorta di dialogo per permettere un’entrata in prospettiva dei
comunisti al governo, che mai ci fu), dato che fa parte di quell’aspetto della vicenda che interessa meno nella
nostra ottica ma che è centrale nella ricostruzione della vicenda stessa. Quest’assunto di Sciascia,
dell’impressione che già esistesse in letteratura l’Affaire Moro viene confermato da un dato numero di citazioni
che Sciascia fa nell’Affaire, ma si inserisce all’interno di un quadro più complesso: Sciascia in quegli anni
aveva perso fiducia della possibilità da parte della letteratura che rispecchiasse la realtà, questa era stata la
poetica di Sciascia fino a “Todo modo” (retaggio del neorealismo), negli anni dell’Affaire Moro, ma anche già
negli ’70, Sciascia va cambiando poetica e ritiene che la letteratura sia il luogo in cui la realtà si manifesta
nella vera essenza, che è cosa diversa dal dire che la rispecchia semplicemente.
Pagina 17: Sciascia sta chiamando in causa un elemento della letteratura: il contrappasso. Nessuno se non
un letterato avrebbe potuto interpretare la vicenda Moro utilizzando come grimaldello ermeneutico il
contrappasso dantesco. Moro ha tentato di comunicare con coloro da cui sperava di essere salvato, con un
linguaggio oscuro, fatto per non dire, che aveva utilizzato come uomo di potere prima del rapimento: altra voce
del contrappasso. In un articolo, che Sciascia pubblica nel lontano 1965 (più di dieci anni prima di tutta la
vicenda), aveva detto dell’uomo politico meridionale (Moro era di Bari) che aveva tutte le qualità e
principalmente quella di non dire. Il dramma umano e la pena del contrappasso sta nell’inutile tentavo di
comunicare con il linguaggio del non dire che finisce per ritorcergli contro: le lettere di Moro vengono pensate
come qualcosa che non appartiene al vero Moro sotto coercizione, suggestionato dalle brigate rosse a dire
determinate cose. Quando chiede al partito di adottare una trattativa con le brigate rosse e di cedere alle loro
richieste viene interpretato come un linguaggio indotto ed estorto dalle brigate rosse.
Pagina 62/63: La prima lettera che Moro scrive a Zaccagnini. Aldo Moro dichiara di intendere e di volere ma gli
amici del partito tendono a dire il contrario. L’idea di Aldo Moro, di trattare con i ricattatori e che la vita umana
vale più di un astratto principio, l’ha avuta da sempre non solo perché sotto prigionia, per questo chiama a
testimonianza alcuni colleghi di partito. Sciascia polemizza con questo senso dello Stato che sacrifica una vita
umana, che immola Aldo Moro.
Pagina 65: Difronte alla argomentazioni sostenute da Aldo Moro è comodo per i rappresentanti dello Stato
sostenere, invece, la tesi della morte civile di Moro. Aldo Moro criptava dei messaggi in codice nelle sue
lettere per indurre chi le riceveva a intendere il suo luogo di prigionia, ma il DC si arroga il diritto di darlo per
morto prima ancora dell’effettiva morte.
Pagina 91: I rappresentanti del DC pensano che Moro non sia più lui e che queste lettere siano moralmente
apocrife.
Pagina 105/106/109: Si ricostruisce la vicenda sulla cronologie delle lettere di Moro, arriva il giorno del 25
aprile (giorno della liberazione): in quella giornata, dove i compagni di partito negavano qualsiasi sentimento di
pietà verso Moro, si parlava di resistenza alle trattative, veniva strumentalizzata questa ricorrenza per ribadire
la linea della fermezza. Un gruppo di una cinquantina di persone (amici di vecchia data di Moro) sottoscrivono
un documento che afferma che l’uomo che scrive non è Moro. Sciascia giudica mostruosa questa situazione e
ricorre alla letteratura di Pirandello. In nome della DC c’è stato un Moro “uno” prima del rapimento, e c’è un
Moro “due” quello incapace di intendere e di volere sottoposto violenza psicologica e questo evoca una
tematica pirandelliana: uno sdoppiamento della personalità. Tra i firmatari del documento mostruoso c’è un
filologo che non è riuscito a capire che il Moro delle lettere del carcere era lo stesso Moro docente
universitario. Infondo Sciascia usa l’aver fatto passare Moro per pazzo, l’averlo disconosciuto a volte in
buonafede altre volte in malafede, c’è una convenienza in questa negazione. C’è una cecità difronte alle
affermazioni di Moro che non suscitano alcun dubbio, che senz’altro sarebbero stati leciti.
Pagina 44: Sciascia è uno scrittore di libri gialli e, in queste pagine, cita il padre del genere Allan Poe, autore
di Dupin. La via migliore per raggiungere una risposta è l’immedesimazione con la psicologia della vittima.
Sciascia propone di applicare il metodo di Dupin all’Affaire Moro. Le brigate rosse avevano tutte le ragioni per
lasciare Moro così come era, intendevano processare l’uomo politico e non alterarne la personalità, se il
partito avesse capito questo si sarebbe arrivati ad soluzione della vicenda.
Pagina 76: Sciascia nella ricostruzione va ben oltre l’immedesimazione. Viene riportata un’altra lunga lettera in
cui Moro replica alla smentita di Taviani. Sciascia dice che le brigate rosse si compiacciono del dissidio in
casa democristiana. Moro comincia ad avvertire la sensazione di essere abbandonato dai suoi amici di partito.
Sciascia chiama in causa ancora un volta Pirandello per dirci che Moro da personaggio si sta trasformando
pirallendianamente e umanamente in un uomo solo, in creatura. Questa metamorfosi vuol dire che Moro ha
capitato il gioco delle parti e si dimette dai ruoli sociali, per questo uomo Sciascia prova pietà. Moro
rappresenta la classe politica che ha mandato l’Italia in rovina e di questo Sciascia è consapevole ma prova
pietà per l’uomo solo e tradito. L’Affaire Moro è anche un libro religioso.
Pagina 104: Stralci di lettere di Moro che Sciascia commenta. Si rende conto che la DC lo sta condannando a
morte e per questa ragione non vuole che ai suoi funerali partecipino uomini politici, di partito. Vuole morire da
uomo solo.
Pagina 113/115/116: In un’altra lettera Sciascia commenta l’affermazione di Moro dicendo che finalmente
pronuncia la parola “potere”; chi contempla il volto laido e feroce del potere è lo stesso che lo aveva
sacrificato, lo stesso che fino al 16 marzo lo aveva rappresentato, ora vede il potere in tutta la sua negatività
nel volto degli altri. Era difficile prima del rapimento immaginare Moro come un uomo resistente al potere, da
questo punto di vista è assimilabile ad un Di Blasi. Tutto questo ha una connotazione manzoniana: concetto di
provvida sventura, esperienza drammatica del sequestro e dell’essere lasciato solo; Moro sta dalla parte degli
oppressi, da coloro i quali si ribellano al potere.
Pagina 145: Il suo sangue cadrà sulle persone che non l’hanno aiutato (maledizione della vittima contro il
potere, rappresentato fino a quel momento da Moro stesso).
Pagina 55: C’è un rapporto stretto con la morte: Moro ha vissuto la contemplazione della morte da sempre,
non solo in questa ultima situazione; da rappresentante del tipico pensiero di uomo meridionale. Se ci
pensiamo l’Affaire Moro è un libro funebre incentrato sugli ultimi giorni di vita di Moro nel disperato tentativo di
salvarsi. C’è uno stretto connettivo tra morte e scrittura.
Pagina 119/120: Si inizia con una biografia di Moro pubblicata alla fine degli anni ‘60, molti anni prima che
fosse rapito e si dice che da ministro della giustizia Moro visitasse le carceri, quasi come fosse un’inquietante
premonizione di quello che sarebbe accaduto. La famiglia Moro, visto l’atteggiamento del partito, esce allo
scoperto e scrive una nota per chiedere al partito di far di tutto per salvare la vita del congiunto. La risposta
alla lettera è scritta di pugno da Andreotti che è come se segnasse una sentenza di condanna a morte per
Moro. Sciascia dice che aveva ragione Moravia, che la famiglia ha ragione in tutto per tutto.
Pagina 99: La pietà tocca anche ai carcerieri cioè alla brigate rosse: un paradosso, tanto rigore e poca
indulgenza nei confronti della DC e apertura di credito nei confronti della presunta umanità dei brigatisti. È
stato detto che Sciascia ha esagerato concedendo ai brigatisti la capacità di compatire e la disponibilità del
rispetto dell’uomo. In una sua lettera del 29 aprile, Moro dirà che i brigatisi ritagliarono l’articolo in cui è
riprodotta la lettera dei famigliari escludendo dalla sua vista gli altri articoli che invece parlavano della DC, che
si ostinava nella decisione di non trattare e che quindi lo condannava a morte; questo secondo Sciascia era un
gesto di umanità per non far capire a Moro che il partito lo aveva condannato a morte.
Pagina 17/18/19: Si dice che, prima di parlare della lettera del contrappasso, bisogna dire che ai carcerieri
bisogna conferire un’etica carceraria. C’è la preoccupazione di garantire al prigioniero dei diritti umani
inviolabili quindi non si sarebbero mai sognati di drogarlo perché dovevano processare l’uomo politico Moro
così come era. L’etica carceraria ispirata a Foucault, lo zelo postale è alquanto eccessivo e estremamente
rispettoso: non intervengono a censurare le lettere di Moro lo lasciano dire, sfidano anche il pericolo per
recapitare gli auguri di pasqua alla famiglia.
Pagina 130/131/132/133/134: La telefonata con cui i brigatisti informano della via in cui Il cadavere di moro è
stato abbandonato: un luogo simbolico perché si trovava tra via delle Botteghe Oscure (sede del PC) e Piazza
del Gesù (sede della DC) in via Caetani. È simbolico perché Moro con il compromesso storico aveva provato a
creare un legame tra i due partiti, e contro questo compromesso si muovevano i brigatisti, e quindi colpirono
l’artefice. Sortendo l’effetto opposto perché ai funerali c’era stato un rinsaldamento dell’alleanza tra i partiti. La
prima considerazione di Sciascia riguardo la telefonata è che sia lunga per una comunicazione che doveva
informare solo sul luogo dove si sarebbe trovato il corpo di Aldo Moro, al di là dell’esigenza della
comunicazione il brigatista sconfina nell’umana pietà e ce lo dimostra anche l’esitazione in corrispondenza dei
puntini di sospensione (pause) anche se la voce è fredda e poi il rispetto che trapela nel modo in cui ci si
rivolge a Moro (onorevole presidente), quasi come riverenza postuma. Sciascia viene contestano per questo,
viene descritto come burocrate del terrore. “Fortezza” si riferisce al cavallo di Troia.
I compagni di partito che restano fuori dall’immedesimazione e dalla pietà, spesso abbiamo detto “amici”
perché, come i socialisti e i comunisti tra di loro si chiamavano “compagni”, tra i democristiani si
denominavano “amici”, che però si sono rivelati tutt’altro che tali, nell’accezione comune del termine. Nei
confronti di questa classe politica democristiana è inflessibile il giudizio di condanna dalla postura accusatoria
di Sciascia, anche nell’appendice e relazione di minoranza, questo è importante perché può dare un altro
significato alla parola “minoranza” che sta a significare il fatto che Sciascia come autore di questa relazione si
muove contro a quella che è il vettore della commissione parlamentare di cui faceva parte. Quando Sciascia
ha la possibilità di leggere altri documenti, che prima non conosceva, si riconferma nell’interpretazione che
aveva dato prima e processa in qualche modo la DC; su questo potremmo vedere un’altra suggestione
manzoniana: il Manzoni della “Storia della colonna infame”, pertinente nel giudizio negativo nei confronti degli
amici, il paragone va fatto con i giudici che avevano condannato gli untori, erano responsabili di questo
operato o li giustificava il contesto storico in cui avevano operato? Erano emerse due posizioni: Pietro Verri
diceva che i giudici si erano comportati in quella maniera perché quello era il contesto in cui vivevano
impregnato di pregiudizi, e quindi la responsabilità dei giudici, per Verri, era relativa; Manzoni sosteneva che i
giudici andavano giudicati in base alle loro responsabilità individuali, la storia e il contesto non li giustificava. Il
laico Sciascia si schiera dalla parte del cattolico Manzoni. Questo significa che gli uomini della DC non si
potevano comportare in quella maniera negli anni di piombo (anni in cui uno Stato che cedeva ad un ricatto
poteva costituire un pericolo gravissimo per lo stato stesso che sarebbe stato travolto dall’eversione).
Pagina 146/47: Il finale è iperletterario, perché spiazzante. Il libro termina con una citazione, le ultime parole
non sono di Sciascia ma di Borges. Un finale circolare, perché il romanzo si apre con il nome di Borges e
finisce con lo stesso, con la citazione di un racconto il cui titolo non viene citato ma è “Esame dell’opera di
Herbert Quain”. C’è un autore di gialli che scrive un libro giallo e in quest’ultimo c’è la soluzione proposta dal
detective, ma non è quella giusta e il lettore se ne rende conto grazie ad una frase alla fine del romanzo (“tutti
credettero che l’incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale”) che spinge il lettore a tornare a
leggere tutto daccapo e a scoprire un’altra soluzione del giallo. Qui Sciascia invita il lettore a farsi inquieto, lo
invita a rileggere insieme a lui dal principio le lettere scritte in carcere da Aldo Moro. Una seconda soluzione
potrebbe essere l’allusione del contrasto tra quella che sarebbe potuta essere la vera soluzione della vicenda
(la trattativa e la liberazione) e la situazione tragica che di fatto l’evento ebbe. La prima soluzione è la più
plausibile: quella che spinge noi lettori ad essere inquieti. Questo tipo di interpretazione, infondo, fa circuito
con la prima citazione di Borges: lì si trattava di riscrivere un frase del Don Chisciotte, ma quella frase ripetuta
tale e quale assumeva un altro significato; siamo sicuri che Borges parli della riscrittura o, non piuttosto, dietro
le apparenze in realtà sta parlando della rilettura? È appunto la rilettura che ci porta a trovare un altro
significato.

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