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Socrate in giardino

di Andrèe Bella
Indice generale
Socrate in giardino................................................................................................................................1
Ai piedi di un grande bagolaro: filosofia degli alberi e tra gli alberi
Come sostare tra piedi e radici? ......................................................................................................2
Raccontare miti per radicare la psiche ............................................................................................5
Geografie letterarie per udire i fruscii delle foglie .........................................................................8
Cantare luoghi per abitare poeticamente la terra ..........................................................................10
Esercizi filosofici per allargare l’anima: un ‘accademia vegetale ................................................12
Mettersi in cammino e sfuggire agli esaurimenti: eccoci al primo passo filosofico .....................18
Passeggiate filosofiche tra gli alberi ..................................................................................................21
Al limitare del bosco, difronte a una siepe di noccioli .................................................................22
Cercando di imitare Epicuro: un sentiero fra tronchi ed edera......................................................29
Un prato nascosto, una bianca betulla e una buca ........................................................................29
Cinicamente... fra viali di ippocastani ..........................................................................................32
Un pino silvestre in difficoltà .......................................................................................................33
Risalendo come stoici una strana collina ......................................................................................35
Una porta di pioppi neri: verso dove? ...........................................................................................35
Un teatro vegetale .........................................................................................................................38
Seconda passeggiata ..........................................................................................................................39
Con i salici lungo un fiume: lasciarsi accadere .............................................................................40
Ontani e paludi: prendere forma ...................................................................................................42
In un bosco di querce: solidarietà radicale ....................................................................................47
Terza passeggiata ...............................................................................................................................50
Dell’ardore: le nozze di aria e fuoco .............................................................................................50
In un parcheggio, sotto i platani: anima e città .............................................................................51
Un fico che rompe il cemento: epifania vegetale .........................................................................53
Dietro una porta di biancospini: le città poetiche del futuro .........................................................55
Il canto del vento fra i pioppi tremuli ...........................................................................................57
Utopie urbane: il sogno di un calicanto metropolitano .................................................................58
Quarta passeggiata .............................................................................................................................60
Un teatro di glicine .......................................................................................................................61
I pioppi bianchi sono anche neri: una porta invisibile ..................................................................64
Stoicamente, fra mura inghiottite dai rovi ....................................................................................68
Un pino silvestre, straniero sempreverde ......................................................................................68
Cinicamente... oltre un ponte ........................................................................................................71
La misteriosa radura della betulla..................................................................................................72
Con Epicuro i tronchi e l’edera, ancora una volta ........................................................................75
Al limitare del bosco, difronte a una siepe di noccioli .................................................................75

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«Socrate: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Fedro: Vengo da Lisia, figlio di Cefalo, e me
ne vado a passeggiare fuori le mura. Infatti ho passato molto tempo là seduto, fin dal
mattino. E ora, seguendo il consiglio di Acumeno, amico tuo e mio, faccio passeggiate per
le strade all’aperto: dice, infatti, che queste tolgono la stanchezza più che le passeggiate
sotto i portici.
Socrate: E dice bene, amico».
Platone, Fedro

Ai piedi di un grande bagolaro: filosofia degli alberi e tra gli alberi


Come sostare tra piedi e radici?

Le radici affondate nel suolo, i rami che proteggono i giochi degli scoiattoli, i rivi e il
cmguettio degli uccelli; l’ombra per gli animali e per gli uomini; il capo in pieno cielo.
Conosci un modo di vivere più saggio e foriero di buone azioni?»
Marguerite Yourcenar, Scritto in un giardino

Immaginatevi un maestoso albero dalla corteccia liscia e scura, un tronco solido con forti
radici ben piantate nella terra e visibili nel disegno del suolo, e un’ampia chioma di rami
con foglie di un verde intenso. E poiché, come scrisse Platone, non è possibile guardare le
stelle togliendole dal cielo, immaginatelo al limitare di un grande prato, circondato in tutto
il suo perimetro da un vecchio cascinale ben ristrutturato, in una calda giornata di inizio
estate.
Sto descrivendo un luogo che esiste davvero, è il centro di un parco alla periferia di una
grande città italiana.
Vi chiedo ora di immaginarvi di essere uno dei cittadini di questa imprecisata metropoli
che, approfittando del fine settimana, ha deciso di andare a fare due passi nel verde per
prendere una boccata d’aria, magari con l’intenzione di fare un picnic con gli amici. Costui
non possiede alcuna nozione botanica, non conosce degli alberi né caratteristiche né nomi,
non sa in merito molto di più di quel che vagamente ricorda, eredità scolastica, sul
processo della fotosintesi clorofilhiana.
Si siede ai piedi di questo gigante vegetale. Gode della sua ombra e di un venticello
tiepido che sembra misteriosamente soffiare solo lì. Non avendo nell’immediato nessun
impegno particolare, la persona con cui vi chiedo di provare per gioco a identificarvi
comincia placidamente a guardare i giochi di luce dei raggi di sole che filtrano tra le foglie.
Si sente invadere da un grande senso di pace. Gli torna alla mente una poesia su «certi
alberi vicini alle case» che sanno stare con pazienza accanto alle nostre camere in cui
«gridiamo a volte di uno stare insieme che ha dentro la tempesta». Alberi che sostando
chiamano «gli inquieti, i distratti abitatori del mondo» (Gualtieri, Bestia di gioia).
Quell’albero lo sta richiamando a sé.
Guardiamo i nostri piedi appoggiati fra le radici. Un desiderio di radicamento fatica a

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prendere forma riconoscibile, ma scorre dentro come linfa. La qualità della nostra
presenza è insolitamente limpida come l’aria di un cielo terso e senza nuvole, e, al
contempo, un po’ ovattata, in un’indefinibile sospensione del tempo. E come essere
sprofondati dentro di sé, nella propria intimità, e insieme essere tutt’uno con quei rami,
quel tronco, gli uccelli che cantano, nulla di diverso da quello che c’è fuori.
Immaginiamo dunque il nostro uomo — per me si tratta di una donna, ne parlerò dunque
da qui in poi al femminile — alzarsi. La mia è una giovane ragazza che con aria trasognata
ammira con gratitudine la fitta chioma sopra di sé.
Vuole sapere che albero è, come si chiama. Come quando incontra una persona che le
piace e desidera scoprirne il nome e la storia. Come fare? Andrà a cercare un manuale, farà
delle fotografie, interrogherà il personale del parco, è disposta a chiedere ai passanti.
Quell’albero incarna per lei il desiderio di un pensiero e un sapere che incontra il mondo,
lo anima, invita ad abitarlo e conoscerlo. Ha studiato psicologia, ma quasi rimpiange di
non essersi dedicata alle scienze naturali o alla botanica.

Sarà un’anziana signora del quartiere a rivelarle che quello è un bagolaro, detto anche
«spacca sassi», per la forza delle sue radici che possono far saltare l’asfalto dei marciapiedi
tanto son forti. Anche il suo legno è noto per essere molto resistente. E uno di quegli alberi
che meglio sopporta l’inquinamento, tanto che spesso costeggia le vie più trafficate dei
centri urbani.
Da quando la ragazza conosce quell’albero scopre che proprio tra bagolari scorre il grande
viale sotto casa sua; ogni volta che ci passa per prendere la metropolitana ora li guarda e
respira e li trova sempre belli, in tutte le stagioni. Si paragona a uno di loro. Anche lei è
cresciuta in città. Sopravvive all’inquinamento delle luci e dell’aria, ai rumori. Non ha mai
smarrito l’amore verso un mondo naturale vissuto solo durante le vacanze. Un universo
che sente naturale sconosciuto, come recita il titolo di una tra le sue raccolte poetiche
preferite. Un universo che sente di dover conoscere meglio per vivere con maggiore
felicità anche rimanendo in un territorio che non ama, ma che forse nemmeno osserva e
interroga a sufficienza. Nonostante tutti i suoi studi, in questo è una principiante, ha tutto
da imparare. Quel sapere dovrà intrecciano da sé, cercando di capire come fare. Fino a
quel momento si è occupata di mito, filosofia antica e psicoanalisi. Decide che andrà a
cercare le piante, i fiori, le stelle e l’acqua anche lì, in quei saperi. Quelle conoscenze
permeano del resto il suo modo di guardare i paesaggi che la circondano ogni giorno e
quelli che andrà a cercare, lontani o vicini.
Il suo mestiere era, allora, fare ricerca universitaria presso un dipartimento di scienze della
formazione e attività clinica, come psicologa. La no stra ragazza sente con certezza che il
contatto con il mondo naturale nelle sue varie forme la aiuta a fare molto meglio entrambe
le cose. Soprattutto sente che, quando è in difficoltà, il mondo vivente riesce a trasformarsi,
in diverse occasioni, in una sorta di rimedio contro ansie, angosce, meschinità,
automatismi. Riflettendoci, si accorge di come camminare all’aria aperta, passeggiare,
cercando di guardare gli alberi o le nuvole, avesse spesso rappresentato per lei un modo di

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lasciarsi indietro preoccupazioni o stemperare grandi sofferenze.
Questa giovane donna, costretta a una vita sedentaria, fece così propria una nuova
abitudine. Per spezzare giornate di studio particolarmente intense, si prescriveva di fare
delle passeggiate, anche nella sua città densa di smog, guardando a quelli che piano piano
cominciò a riconoscere come gerani selvatici su ritagli di prati accanto al marciapiede o
alzando la testa per contemplare le cime dei platani che svettavano lungo trafficate
circonvallazioni.

Guardava, si stupiva, si rasserenava. Un verso di Wallace Stevens descrive bene cosa le


succedeva in quelle occasioni: «Nella mia stanza, il mondo sfugge alla mia comprensione;
ma quando cammino vedo che è composto da una nuvola e da tre o quattro colline»
(Stevens, Il mattino domenicale).
Prese corpo allora la domanda, incontrata in un libro di Gregory Bateson, naturalista e
antropologo: «Che cosa, in ciò che sta all’esterno, è in certo qual modo un riflesso di ciò
che sta all’interno, talché, se si rimane bioccati in ciò che sta all’interno si può in qualche
misura rimediare dedicandosi alla contemplazione di ciò che sta all’esterno, tra gli animali
e le piante e le stelle e la pioggia e il bel tempo? Vedete, ci sono altri rimedi, oltre alla
meditazione, e uno di essi è la contemplazione del mondo vivente — una cosa che
pochissimi praticano; e quando la praticano quasi non sanno dire perché l’abbiano fatto.
Sono moltissimi a pensare che una passeggiata nei boschi faccia bene al fegato, o al fegato
spirituale; ma, credo, non sanno proprio perché. E questo il problema che vorrei indicarvi
come meritevole di riflessione» (Bateson, Una sacra unità).
Ripenso al benessere provato di fronte alla scoperta della resistenza urbana dei bagolari,
alla possibilità di sentirli, almeno di quando in quando, come fratelli. Ai piedi fra le radici
mentre la mente era intenta a richiamare i versi di una poesia. A quella gioiosa sensazione
pur effimera, che rende certi di appartenere a un organismo vivo, misterioso, pulsante,
bello. Credo che si tratti di quello che in sanscrito è detto shraddha, tradotto come
«genericamente e talora superficialmente con fede» (Boccali, Torella, Passioni d’Oriente).
Una sorta di fiducia nel fatto «che la sofferenza, per quanto grande non rappresenti
l’orizzonte ultimo» (Boccali, Torella, Passioni d’Oriente). La convinzione che l’insieme di ciò
che esiste possa essere abitato da un senso, al di là dei nomi che a questo senso possiamo
di volta in volta attribuire, in tutte le sue molteplici, talvolta indescrivibii forme. Un
filosofo, Pierre Hadot, ha definito questa sensazione «un brivido sacro» di fronte
all’improvvisa consapevolezza di far parte di un tutto immenso e meraviglioso e afferma
di essere filosofo a partire da una simile esperienza adolescenziale, esperienza sorgiva, a
suo avviso all’origine di ogni autentico filosofare. Quell’esperienza per cui ci si domanda
con radicalità che significato può avere il proprio vivere mortale, non credendo
all’esistenza di paradisi o inferni ultraterreni, in una prospettiva immanente legata al
proprio vivere sulla terra in specifici tempi e luoghi. E quale rapporto può intrattenere con
la felicità, nostra e di tutti gli altri esseri, la propria esistenza? Con la gioia. Quella gioia
per cui «ci innamoriamo ancora una volta e ancora», grazie a cui conosciamo «l’intesa fra
regni con musi con pietre con ali» e «sappiamo la melodia sottesa» anche noi «fatti nota

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riverberante. Fra tante. Fra tante» (Gualtieri, Bestia di gioia).
Voglio a questo punto formulare una seconda domanda, di valore più pratico, rispetto alla
precedente, un ulteriore quesito cui pure questo libro vorrebbe provare a rispondere.
Come vivere concretamente cercando di non smarrirsi nei meandri quotidiani del piccolo,
soffocati da abitudini inerti o doveri vuoti, soggetti a routine irriflesse in un presente in
cui, almeno per l’uomo metropolitano, «la natura è una variazione meteorologica e un
certo numero di isole alberate disperse nel tessuto urbano» e, a parte questo, «materiale
per produzione e scenario di svaghi»? Come vivere al di fuori di un orizzonte strettamente
privato e individuale mantenendo viva e operante nel singolo una domanda di senso che
ecceda un carattere strettamente antropocentrico e solamente umano? E questo in una
società in cui «si è formata una potente miscela fra procedure tecniche e ignoranza delle
potenze [del mondo vivente), che ha impresso il suo carattere sulla vita comune»?
(Calasso, L’ardore).

Provo a riformulare la domanda in termini più semplici. Come stare, sostare nonostante il
vorticoso succedersi delle attività di ogni giorno, in un luogo, che è innanzitutto uno stato
d’essere, che ci permette di ricongiungerci al mondo cui apparteniamo? Come ricordare,
nel nostro quotidiano, che i nostri piedi come le radici degli alberi poggiano su una solida
terra che è sempre sotto le nostre scarpe, ma la cui natura stupefacente ci è per lo più
ignota?
In diverse tradizioni sapienziali ricorre un’immagine, nelle sue forme differenti ma così
simili tra loro: quella dell’albero della vita. Il nocciolo nell’antica Irlanda, il frassino
nell’Islanda pre-cristiana, la betulla nello sciamanesimo siberiano o il pioppo tremulo fra i
Sioux sono rappresentati come alberi sacri, possibilità di collegamento fra terra e cielo, alto
e basso, visibile e invisibile. Si può affiancare la figura di questi alberi alla
rappresentazione rituale di uomini con le braccia spalancate rivolte al cielo. Sembra un
invito per l’uomo a farsi albero per contribuire a illuminare la terra e farsi attraversare
dalla linfa pulsante che dà vita ai germogli.
E a partire da questa immagine che proveremo ora a muoverci alla ricerca di alcune
possibili risposte alle domande formulate.

Raccontare miti per radicare la psiche

«Quello che voglio dire, molto semplicemente, è che ciò che accade all’interno è più o
meno identico a ciò che accade all’esterno».
Gregory Bateson, «Intelligenza, esperienza ed evoluzione», in Una sacra unità
Torniamo verso il bagolaro: si trova nel medesimo parco in cui, per la prima volta,
cominciammo a lavorare con delle agronome. Parlo al plurale perché eravamo un piccolo
gruppo di psicologhe che avevamo da poco fondato un’associazione grazie a cui provare a

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fare, oltre al lavoro clinico e culturale, alcuni esperimenti, se così di può dire, di psico-
radicamento. Con le agronome, in vista di un’iniziativa comune, l’idea era quella di
contaminare i rispettivi saperi, cercando di lavorare insieme sul paesaggio e le piante. Loro
ci raccontavano chi avevamo davanti, e quelli che a noi sembravano alberi o cespugli
diventarono così anche farnie, carpini bianchi, frassini ossifilli, olmi campestri, Rosa canina,
Ligustrum vulgare, profumatissimi Lonicera caprifoglium e così via. Ci spiegavano anche
dove vivevano, di cosa avevano bisogno, come e perché. E noi osservavamo cosa questo ci
provocava. A partire dalle affascinanti vicende del mondo organico e dell’ecologia
ripensavamo alle preoccupazioni e ai desideri delle persone che incontravamo nel chiuso
dei nostri studi. E le analogie, le somiglianze, le aperture, gli spunti si facevano via via più
significativi e numerosi.
Finalmente riuscii a comprendere davvero cosa intendeva Bateson quando scriveva che la
maggior parte dei nostri problemi personali e sociali deriva dalla differenza tra il modo in
cui il nostro pensiero opera e quello in cui la natura crea. Penso tra gli altri, a tutte quelle
difficoltà che derivano dall’automatismo di pensiero che ci porta a trasformare i nessi
relazionali in nessi causali e lineari. Come nella nostra grammatica: il soggetto che fa,
l’oggetto che subisce. E invece, obietta Bateson, come possiamo dire se è la valle che
determina il corso del fiume o il fiume che crea la forma della valle? Non possiamo: la vita
non segue una logica lineare e univoca. Penso alle sofferenze e alle chiusure fra i torti e le
ragioni.
Non esiste nel mondo nulla che si possa separare dal resto, innanzitutto. Ciò è visibile in
una forma semplice e immediata, basti pensare al cibo. L’io da questo punto di vista è un
trucco, nessuno di noi può sussistere fuori da un contesto, senza gli altri e il mondo,
biologicamente parlando. E del complesso ricchissimo di queste plurime relazioni la
nostra coscienza può capire assai poco.
Il migliore esempio che Bateson fornisce di questa idea mi pare essere la storiella della
partita di croquet tra Alice e la Regina di cuori che si svolse nel Paese delle Meraviglie. In
quell’occasione Alice, piccola studentessa coscienziosa e competente, nonché ottima
giocatrice di croquet, si trova a dover giocare con la regina e inizialmente ne è ben felice,
sicura della sua abilità. Salvo poi trovarsi con mazze che sono fenicotteri vivi che tirano su
la testa quando lei prova a colpire, palle che sono ricci che vanno dove vogliono, porte che
sono soldati di carta che si spostano a piacimento. Insomma è tutto vivo e Alice non può
controllare né gestire proprio nulla. Si trova così in un’impasse. La stessa impasse,
secondo Bateson, in cui spesso finisce per trovarsi l’uomo occidentale quando si relaziona
a ciò che è vivo, persone, animali, piante, come fossero cose inanimate, morte. Quando
pensa di potere controllare, gestire, prevedere tutto in vista di obiettivi, fini utili al singolo
o ai più. Fino ai disastro ecologico. E credo che gli esempi, anche recentissimi, non
manchino.
Desideravamo chiarire, approfondire queste connessioni. Senza separarle. Non volevamo
pensare da una parte ai sogni dei pazienti, dall’altra all’onirico aspetto dell’edera che
invade tutto nei sottobosco muschiato. Ci voleva un sapere di natura simbolica, che
sapesse, appunto, tenere insieme. In quest’ottica la mitologia offriva un filo d’oro per

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cucire i due lembi. Cominciai a studiare la mitologia delle piante. E mi accorsi con stupore
che essa illuminava perfettamente la zona di confine che ci interessava esplorare. Fu una
rivelazione. Arrivai a comprendere, infine, che cosa avevo sempre detestato nelle
interpretazioni strettamente psicologiche della mitologia, quelle per cui le storie mitiche
diventano più o meno banali trasposizioni di meccanismi umani. Tutta la mitologia, infatti,
anche quella che di riferimenti vegetali non ne conteneva affatto, era diventata, a
guardarla in questa nuova prospettiva, come scrisse Kerényi citando Goethe, «ciò che
‘corrisponde perfettamente alla natura’ e per cui mezzo è il mondo che parla di se stesso.
In questo senso — e non parlando, qui, dal punto di vista della psicologia individuale o
‘profonda’ — anche i motivi dei sogni e delle fiabe sono simbolici E...] non servono a puro
divertimento e a un’espressione quasi cerimoniosa di eterni desideri e timori umani, bensì
lasciano parlare il mondo illimitatamente, seppure in modo simbolico» (Kerényi, Miti e
misteri).
Cosa voleva dire per esempio che nel calendario celtico, in cui ogni mese era associato
ritualmente a un albero, il mese che precede e quello che segue il solstizio d’estate
venissero associati rispettivamente a due tipi di querce, la prima caducifoglie e la seconda
sempreverde? Nel momento più luminoso occorreva ricordare che le foglie devono cadere,
cadranno, arriverà l’inverno, il freddo e le brevi giornate buie, e quando il passaggio
avveniva ecco che lo stesso tipo di albero, ma sempreverde, ricordava che nulla può mai
morire davvero, ma che tutto si trasforma di continuo.
«Nella cultura celtica, i druidi svolgevano la funzione di legislatori e cantastorie. Il titolo
onorifico Druid deriva dall’unione di due parole: dru che significa quercia e wid che
significa vedere o sapere. Le persone giudicate degne di cantare le storie della tribù e di
interpretarne le leggi si diceva possedessero ‘la conoscenza della quercia’» (Logan, La
quercia. Storia sociale di un albero), di quell’unico albero che si mostrava a loro sia in forma
sempreverde che in forma caducifoglie. Da notare che la radice duir, nella maggior parte
delle lingue indoeuropee, vuole dire anche porta, da cui ancora in inglese door. Forse che
questa sua duplice manifestazione fosse uno spiraglio da cui poter vedere quel tutto più
grande di cui gli uomini sono parte? Quel tutto che ogni volta di nuovo supererà
l’inverno? Questo non può forse dare di riflesso, a ogni singolo, una speranza fondata
«sulla capacità di elaborare il lutto della perdita, anche se immane?» (Logan, La quercia.
Storia sociale di un albero). Credo sia questa una delle forme psicologiche di ciò che definisce
il termine sanscrito shraddha, ovvero la fiducia che la sofferenza possa essere elaborata
senza distruggere il senso della vita.

Avrei potuto raccogliere e raccontare le leggende sulle piante. Per narrarle a cielo aperto,
le radici piantate nel suolo accanto ai piedi di chi sarebbe venuto per ascoltare. Ci
avremmo provato, imitando maldestramente gli aborigeni australiani. Potevamo tentare di
raccontare paesaggi, parchi o giardini, facendo le psicologhe anche in questo modo, di
fronte a questa psiche immensa che si apriva davanti a noi e che ai primi freddi perdeva le
foglie.

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Nella prima esperienza che ne nacque, organizzammo visite guidate a un piccolo giardino
temporaneo appositamente allestito con piante dalle celebri risonanze mitiche. Presto ci
accorgemmo che avremmo potuto farlo a partire da ogni ramo.
Ricordo ancora una signora che cominciò a piangere sotto un pero piuttosto malandato.
Davamo ai partecipanti un compito finale; scattare una polaroid a un particolare che li
colpiva e in cui ritrovavano metaforicamente ciò che era rimasto loro impresso dei lunghi
racconti ascoltati e dei piccoli esercizi svolti. Poi, se volevano, potevano scrivere un verso.
Quella donna aveva fotografato una goccia di rugiada su una foglia del pero illuminata
dal sole. E guardandola a lungo, prima di fotografarla e poi scrivendo, aveva ricordato un
episodio di quando era piccolissima, in cui era stata lasciata in una culla sotto un albero e
si era incantata di fronte ai giochi di luce fra i rami.

Lo aveva dimenticato: come si poteva dimenticare una sensazione come quella? si era poi
chiesta. L’aveva riassaporata tutta. Come si poteva dimenticare cosa vuoi dire essere vivi?
ci aveva domandato alla fine, ringraziandoci.
Ci vuole un intero villaggio per crescere un bambino, scriveva Jung. Ci vogliono anche i
rami, le foglie, il sole. E i miti e le fiabe che raccontano dei loro intrecci.

Geografie letterarie per udire i fruscii delle foglie

«In fondo a ogni discorso c’è lo scorrere della linfa nelle piante; un rapporto quasi di
specularità è stabilito tra la pietra scolpita e la foresta».
Italo Calvino, Una pietra sopra

La parola «mito» vuole dire letteralmente racconto, e vi è in effetti un incanto del narrare,
che è proprio di qualsiasi storia, al di là dei suoi contenuti. Di tutti i bei romanzi che ci
rapiscono come bambini con un incantesimo benevolo che ci porta al di fuori di noi, delle
nostre preoccupazioni immediate.
Lontani dal nostro quotidiano riflettiamo su ciò che ci accade, sui grandi quesiti del vivere
che si incarnano nelle vicende dei personaggi illuminando le nostre. Certo potevo
raccontare miti greci, romani, indiani, aborigeni. Ma bisognava fare i conti anche con la
storia, con la nostra storia, con le giacche di plastica fosforescenti e gli occhiali da sole.
Altrimenti la distanza siderale poteva trasformarsi in disagio, giudizio, nostalgia, nulla che
servisse a vivere meglio. Da un certo punto di vista, ovviamente, che si raggiunga
l’illuminazione sotto un fico nella calda India o ai piedi di un nocciolo in Irlanda, non fa
alcuna differenza. Eppure i tempi e i luoghi cambiano, e questi mutamenti danno forma a
esperienze diverse che, per certi aspetti, modificano le modalità di ricerca e le possibilità di
avvicinamento alla felicità. Ci volevano anche racconti, mi pareva, che potessero innescare
con maggiore potenza il senso di riconoscimento, e dunque la curiosità, l’attenzione, la

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voglia di immaginare altrimenti nel presente. La letteratura mi sembrò una possibilità
ricchissima. Avrei dovuto cercare narratori di paesaggi e di piante, letterati della terra.
C’è un pregiudizio diffuso sulla letteratura, di cui io per prima sono stata accusata in
quanto appassionata lettrice. Si tratta dell’idea per cui i libri ti porterebbero fuori dalla
realtà, rifugi immaginari per gente poco pratica o, nei casi peggiori, incapace di affrontare
la vita. Ma una volta, leggendo un libretto divertente di Paolo Non, Pancetta, ci trovai
scritta in modo molto chiaro un’idea sacrosanta. L’autore diceva di non essere mai stato
così dentro al mondo, così un suo attento abitante come quando leggeva i suoi romanzi
preferiti. Scrive che si ricorda tutto, anche di dove si trovava fisicamente, i colori, la sdraio,
la voce della nonna in cucina. Chiama questo effetto con un apposito neologismo,
«vivificanza». In questo intreccio di fantasia e realtà che è nei libri si arriva a una vita
immaginaria trasfigurata, gravida di tanti possibili, che permette nelle occasioni migliori
di abitare la terra in modo meravigliosamente denso. E sottile. E leggero. E attento. E
paziente. E caustico. E rivoluzionario. E sensibile. E inebriante. Talvolta consolante.
Talvolta giustamente arrabbiato.
Che il cambiamento dei modi di vita e di pensiero debba passare per l’immaginazione, su
questo non c’è dubbio. Le differenze del mondo vegetale, animale, umano, le storie di
corteggiamenti di pesci e uccelli, l’amore dei serpenti e quello delle libellule, la vita
sommersa dei coralli può aiutarci a non dare per scontato e immodificabile ciò che ci
troviamo a vivere?
La separazione tra materie scientifiche e scienze umane non sta che aggravando il nostro
«divorzio dalla terra» (Meschiari, Sistemi selvaggi). L’inquinamento mentale sta a monte di
quello ambientale. Cercavo scrittori che sapessero raccontare la biodiversità, la geografia,
che almeno riuscissero a farci immaginare la bellezza di ciò che stiamo perdendo a fronte
della cosiddetta crisi ecologica. Qualcuno che potesse riportare la cultura alla sua vera
funzione, una possibilità di armonica e reciproca convivenza tra gli esseri di tutti i tipi,
non necessariamente priva di fatiche, ma priva perlomeno di un cieco e avido desiderio di
sopraffazione di una parte sul tutto, che condanna gli uomini e le donne alla fine,
all’isolamento e all’autodistruzione.
Ne ho trovati diversi di questi fornitori di regardelle, parola provenzale che significa cibo
immaginario, cibo spirituale, molti di questi artefici di visioni altre, di questi «umanisti
cosmici», che ci accompagneranno nelle nostre passeggiate.
Così, nei primi esperimenti di psico-radicamento, e in quelli che seguirono, aggiungemmo
ai miti parole di romanzi e molte storie, di tanti tipi e paesi e tempi. Cercando di
immaginare il pianeta che avremmo voluto abitare, o meglio la regione, la città, la casa, il
letto e la pianta grassa sul comodino a partire da quello che, a volte nostro malgrado e
tristemente, ora c’è.

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Cantare luoghi per abitare poeticamente la terra

«Torno al luogo da cui sono partito e conosco il luogo per la prima volta. Comunque i
misteri restano, il mondo appare più elegante di un tempo».
Thomas S. Eliot, Quattro quartetti

Partire da quello che, a volte nostro malgrado e tristemente, ora c’è non vuole dire certo
arrendersi, accettare lo status quo. Ardua impresa è collegare piglio critico e felicità, senso
concreto del reale e sfrenata utopica immaginazione. Pensai che mi sarebbe piaciuto farlo
raccontando piante e luoghi, tentare di vedere e far vedere la bellezza nascosta non per
accontentarsi, ma in modo che essa potesse aprire lo sguardo verso orizzonti più ampi. In
modo che si potesse assieme vedere e sognare, immaginare e trasformare.
Come fa notare il filosofo Gaston Bachelard, la poesia è in effetti una maga che possiede
una felicità sua propria in grado di trasfigurare con la bellezza del verso i più atroci o tristi
contenuti. Una felicità sua propria custodita nel ritmo della strofa, nell’incanto
dell’immagine. Immagine e respiro della parola in grado di vivificare anche il più banale
dettaglio quotidiano. Così André Breton sulla biancheria nell’armadio: «L’armadio è
colmo di biancheria, vi sono anche raggi di luna che posso spiegare». Bachelard
commenta, sottile: «Quando offriamo agli oggetti l’amicizia adeguata, non si riesce ad
aprire l’armadio senza sussultare leggermente: sotto il suo legno rossiccio, l’armadio è una
bianchissima mandorla. Aprirlo significa vivere un evento del candore» (Bachelard, La
poetica dello spazio).
Nel suo La poetica dello spazio, la poesia è la protagonista di un lungo elogio sulla possibilità
di abitare il mondo da topofihi, cioè da amanti dei luoghi. Non potevo escludere questa
alleata preziosa dai miei racconti di paesaggio. Il piccolo sussulto davanti alle lenzuola
piegate in un armadio mi si ripresentava ostinato ricordandomi l’origine greca del termine
«poesia», il vocabolo poiesis, che significa fare, creare. Lungi dall’essere estranea alla vita,
la creazione poetica mi mostrava il miracolo letterario nella sua forma più sorprendente,
disvelare la natura poetica di tutto ciò che è e diviene, mi mostrava che la vita tutta intera è
poesia, come scrisse la psicoanalista Lou Andreas-Salomé: «La vita umana, o meglio la vita
in generale, è poesia. Senza esserne consapevoli noi la viviamo, giorno dopo giorno,
pezzetto dopo pezzetto, ma nella sua intangibile interezza, essa ci vive e poeta in noi»
(Andreas-Salomé, Il mio ringraziamento a Freud). Toccare l’intangibile interezza di tutto ciò
che è vivo grazie a quel moto d’animo che ogni buon verso sa suscitare, con la sua forza
che ci costringe ad ascoltare tutti interi, non potendo separare né distinguere il significante
dal significato, la forma dal contenuto. Forza inspiegabile e intraducibile nel linguaggio
ordinario e prosaico della logica mezzi-fini.
Bachelard ha ragione quando scrive che vivere la poesia significa fare l’esperienza salutare
dell’emersione e che lo slancio poetico può essere paragonato a una miniatura dello
slancio vitale, che richiede, a chi legge come a chi scrive, un abbandono senza riserve che

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sospende la dualità tra soggetto e oggetto, tra sé e mondo, rendendola scintillante,
iridescente, sfumata.
Siamo nel regno oggi fortemente calunniato e misconosciuto dell’illusione. Di fronte al
termine illusione subito si pensa all’abbaglio, alla finzione. E invece illudersi significa
letteralmente in-ludere, entrare in un gioco, ed entrare in un gioco, come magistralmente
sanno fare i bambini, è prendersi l’impagabile libertà di creare mondi. I confini tra sé e la
realtà esterna si attenuano benevoli concedendoci la preziosa possibilità di sfuggire alla
tirannia delle dicotomie, degli attaccamenti, delle identificazioni, delle categorie
precostituite cli tempo, spazio, causalità. Abhinavagupta, filosofo e mistico dell’India
medioevale, definiva la natura dell’esperienza estetica di fruizione poetica alaukika, cioè

«non mondana», quanto di più vicino nell’esistenza umana all’esperienza mistica della
liberazione. Perché in essa si possono conoscere le passioni in forma non personalizzata,
assaporandone il gusto senza attaccamento né repulsione. Quante volte la felicità propria
di un verso nel descrivere un dramma lenisce le nostre ferite? E quante volte il poetare ci
riconsegna il mistero invisibile di un intimo e familiare significato di ciò che tocchiamo e
vediamo?
E dono della poesia saper rendere degne di meraviglia parole e cose. E l’atto ancestrale
della contemplazione. Témenos, termine col quale si designava in Grecia lo spazio riservato
al culto di un dio o alla costruzione di un santuario, significa innanzitutto ciò che è stato
ritagliato. Il tempio dunque, prima di essere edificio cultuale dell’architettura, era questo
luogo delimitato, extra-ordinano. Contemplare era stare con il tempio, vale a dire
sospendere la normalità e aprirsi alla realtà nel suo ambivalente mistero. Contemplare una
foglia è stupirsene, vedervi quella linfa potente che è in ogni albero e in noi. E considerarla,
metterla insieme alle stelle. E nei miti poetici di creazione che si vede spesso la radice
comune e misteriosa degli astri e dei tronchi. E nelle poesie, nel loro attingere alla
dimensione sorgiva del linguaggio e del vivere, che ci sembra ogni volta che si crei e si
ricrei il senso del nostro abitare la terra. E nei versi che dolcemente può prendere corpo la
domanda filosofica che si apre con il nostro transito mortale e che, grazie all’incanto del
suono e dell’immagine, argina l’angoscia senza nome presentandoci l’ignoto affastellarsi
degli spazi del pianeta come una possibile, amabile casa.
Questa divenne la mia intenzione: raccogliere versi che potessero aiutare, me e chiunque
altro, ad abitare poeticamente la terra. Versi che potessero risvegliare l’istinto topofio
addormentato in ciascuno, istinto in grado di far sentire il mondo come una dimora, un
luogo perciò di cui prendersi in qualche modo cura, in cui si possa piacevolmente sostare.
Poeti, certo, ma anche persone che hanno saputo farsi attraversare dal balsamico e
imprevedibile vibrare della vita, senza magari poi saperlo tradurre in versi o in teorie
filosofiche. Persone che hanno saputo vedere nella realtà minuta, giorno dopo giorno, la
bellezza e la crudeltà di quel che esiste, senza ridurre tutto a quest’ultima. I quali, da veri
topofii, non possono che essere anche eccellenti utopisti.
Di quelli cha sanno gioire di fratellanze animali e vegetali, che sanno preparare la
grondaia per le rondini, aspettare i mirtilli e i funghi, correre nel bosco con i cani.

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Ma ora voglio ritornare sotto i rami del bagolaro: per una circostanza singolare e a tutti gli
effetti poetica, mi pare, questo albero si è anche trasformato, davvero e pubblicamente
intendo dire, se pur temporaneamente, in quello che fu per me sola all’inizio. Si è
trasformato cioè per qualche settimana in una specie di scuola, nel senso antico del
termine, ancora più precisamente, in un’attuale, temporanea e stranissima, accademia
vegetale.

Esercizi filosofici per allargare l’anima: un ‘accademia vegetale

«La scienza della natura [...] procura massimamente serenità nella vita».
Epicuro, Epistola a Erodoto

L’accademia del Bagolaro. All’interno di un festival, qualche anno fa, proprio sotto un
bagolaro, si tennero per qualche settimana spettacoli teatrali, presentazioni di libri,
conferenze, giochi per bimbi. Per l’occasione fu ben recuperato il significato letterale della
parola scuola, dal greco scholé, che significa riposo, ozio, tempo libero, curiosità, momento
che si ha per fare ciò che più sta a cuore, senza fretta e con piacere. Al riparo dal sole, sotto
l’ombra della fitta chioma estiva dell’albero, venivano a radunarsi persone per dialogare,
giocare, riflettere, guardare e imparare.

La piacevolezza del luogo e dell’aria mutavano la qualità dell’ascolto. Me ne accorsi nel


tenere io stessa una conferenza. Si trattava di una lezione su uno degli argomenti che in
assoluto amavo di più e a cui mi dedicavo ormai da anni: la filosofia antica intesa come
cura di sé, come modo di vivere alla ricerca di una saggezza e di una felicità immanente,
rispettosa di ciascuno e di tutti e di tutto ciò che è. Non si trattava in realtà della prima
volta che tenevo conferenze o seminari di filosofia antica all’aperto, tra gli alberi, e questo
proprio perché all’interno dell’antico fiosofare mi proponevo di mettere a fuoco quel
gruppo di esercizi che miravano alla trasformazione di sé attraverso varie forme di
rapporto con quello che, in termini contemporanei, chiameremmo l’interdipendenza del
mondo vivente. Esercizi della natura, li ho chiamati in varie occasioni per comodità, e
l’idea era quella di sperimentarli e rinnovarli, nei parchi, nei giardini, in montagna.
Ma qui devo fare un passo indietro, anzi due, il primo teorico, il secondo biografico.
Si è abituati a pensare alla filosofia come a una materia scolastica, come alla storia di una
disciplina teorica più o meno interessante a seconda del nostro temperamento o della
storia dell’incontro con questo sapere che abbiamo avuto, se lo abbiamo avuto. Ma, come
diversi autori hanno ormai dimostrato in modo piuttosto convincente, Pierre l-Iadot e
Michel Foucault tra i più noti, la filosofia antica, greca e romana, non era in realtà solo una
speculazione teorica, un insieme sistematico e logico di discorsi sulla natura degli uomini
e del mondo, anzi. Era innanzitutto un modo di vivere, un’etica, nel senso letterale delle
parola, dal greco éthos che vuole dire comportamento, più precisamente lo strano e

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peculiare modo di vivere di chi cercava la saggezza e la verità, o, potremmo anche dire, la
felicità.
Molti degli antichi filosofi, fra i più celebri Socrate, non scrissero nemmeno una parola.
Socrate era filosofo infatti non solo per ciò che diceva e pensava. Era filosofo, in primo
luogo, perché sapeva occuparsi di se stesso, condizione che gli permetteva poi di provare a
curare anche i suoi concittadini. Nell’Apologia di Socrate di Platone, è il tafano che non si
stanca di punzecchiare e mettere in crisi le altrui certezze e abitudini irriflesse, proprio
perché egli vuole e sa mettere continuamente la sua stessa vita, il suo comportamento,
sotto esame. Così Marco Aurelio, l’imperatore romano che fu anche filosofo stoico, in una
massima che mette l’accento sull’importanza della conoscenza di sé: «Colui che non
avverte i moti della propria anima è inevitabile che sia infelice» (Marco Aurelio, Pensieri).
La filosofia era dunque innanzitutto cura di sé, tentativo continuo di conoscersi e
migliorarsi per diventare più felici e più giusti.
Avrete notato che ho usato giustizia, felicità e virtù come sinonimi. Per noi è forse più
semplice e immediato pensare che la ricerca della giustizia comporti l’esercizio di doveri,
di sforzi, di limitazioni e di volontà che poco hanno a che fare con la gioia. Siamo portati a
pensare, con un certo Freud e tutta una lunga tradizione filosofica, che la giustizia e la
convivenza richiedano innanzitutto una distanza dal proprio piacere, una capacità di
rinunciarvi in vista delle esigenze della civiltà e degli altri, alla luce di inevitabili
imperativi morali. Qui invece ci troviamo di fronte all’idea che la ricerca della saggezza
possa guarire i mali dell’anima, come scrisse Epicuro, e così rendere felici, che essa possa
essere, usando l’antico termine, una therapeia, una terapia, un modo di curare le sofferenze
umane e una via verso una pace dell’anima di natura terrestre. Che pure implicava anche
limitazioni e rinunce, ma niente affatto tristezza. Pare che Epicuro terminasse le sue lettere
con l’invito, ai nostri occhi paradossale, «abbi gioia» e «vivi con zelo» (Diogene Laerzio,
Vita e dottrine dei più celebri filosofi). E del resto questa idea che la virtù fosse fra tutti
l’ingrediente indispensabile per raggiungere il piacere di vivere destava perplessità e
ironie già allora: «Un solo pane, un fico secco per companatico e, per concludere, un
bicchier d’acqua; gran bella dottrina, questo suo modo di fiosofare: insegna ad aver fame
eppure cattura discepoli» (Diogene Laerzio, Vita e dottrine dei più celebri filosofi)
Dopo la parola filosofia, dopo la parola scuola, devo a questo punto tornare anche
all’antico significato della parola ascesi, dal greco dskesis, che significa letteralmente
esercizio. Gli esercizi volti alla trasformazione dei propri modi di sentire e pensare erano
un tratto comune alle diverse scuole filosofiche dell’antichità, fra cui l’Accademia di
Platone e il Giardino di Epicuro. Scuole che erano luoghi in cui si imparava a vivere
fiosoficamente e in cui ci si recava per poter superare la condizione di sofferenza in cui si
trova chi è schiavo dei propri difetti, soggetto alle proprie meschinità e al proprio egoismo,
preda cieca di vizi e avidità. In cui ci si recava per imparare a vivere diversamente e a
«poter celebrare una festa ogni giorno» (Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica), cosa che
richiedeva un esercizio costante, non solo del pensiero ma anche del corpo, delle passioni,
del sentire.
Gli esercizi filosofici, che implicavano un’autodisciplina del corpo e della mente, servivano

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innanzitutto a permettere la liberazione dalla schiavitù nei confronti di se stessi, non in
vista di un ideale morale di generosità e purezza e neppure nella convinzione di un
paradiso ultraterreno, ma nel tentativo di rendere la vita sulla terra, in ogni suo attimo, nel
qui e ora, il più possibile libera e significativa. Mi piace indicare una possibile derivazione
etimologica del termine greco per «cura di sé», epiméleia eatou, termine che possiamo usare
per designare la pratica di questi antichi filosofi. Epiméleia, cura, conterrebbe infatti la
parola meléte, che potrebbe avere la stessa radice etimologica di mélos, da cui melodia, e
che infatti significa canto, musica, e ancora più precisamente richiamo (Foucault, Il
coraggio della verità). Avrebbe a che fare con qualcosa che ci risuona in mente, che ci
richiama, che ci interessa e ci attrae, che ci incanta. E dunque la scelta di una vita di
esercizio e di disciplina non si collega così in prima battuta al dovere, ma piuttosto a una
vocazione, a una voce che chiama irresistibilmente verso la libertà e il piacere. Mi
risuonano dentro le parole di Marco Aurelio: «Che cosa c’è di più attraente della
magnanimità, della libertà? Che cosa c’è di più attraente della saggezza?» (Marco Aurelio,
Pensieri).
In questa chiave, tutti gli esercizi di fatica e di sopportazione autoimposti, per esempio al
corpo, digiuni, ginnastica, marce, allenamenti a sopportare freddo e fatica, nulla avevano a
che fare con la mortificazione di sé, piuttosto con un tentativo di affrancamento
progressivo dai propri limiti. Fino a che, come Epicuro, si poteva scrivere con gioia a un
amico: «Mandami una formina di cacio, perché, quando lo voglia, io possa pranzare
sontuosamente» (Diogene Laerzio, Vita e dottrine dei più celebri filosofi).
Socrate, nel Simposio, ci è mostrato come un uomo che poteva resistere al freddo e alla
fatica, che poteva camminare scalzo e con un logoro mantello e bere quanto voleva
essendo tuttavia capace di non ubriacarsi. E questa sua vita si accordava poi al suo dire.
Platone lo definirà proprio un uomo musicale, cioè in grado di accordare armonicamente
vita e discorso filosofico, pensiero e azione, parole e modi di essere. E questa musicalità ci
riporta nuovamente a una semantica della piacevolezza, a una temperanza niente affatto
asfittica e imprigionante, ma al contrario armonico frutto di una difficile arte.
Arte di vivere bene che Socrate in ogni modo tentava di coltivare in sé e nei suoi
contemporanei, che vi trovavano così un maestro di esistenza, prezioso per non
scoraggiarsi a fronte della difficoltà che la scelta della vita filosofica comportava. E per
vivere in questo modo erano tutti ben consapevoli che non bastava studiare, teorizzare,
sapere e capire cosa poteva essere giusto fare o non fare. Il fatto è che bisognava provare a
farlo, trasformarsi, agire. Occorreva magari ogni sera ritornare con un’attenzione
equanime al comportamento assunto nella propria giornata, e parlarne, confrontarsi con i
propri amici (si tratta dell’esercizio del cosiddetto esame di coscienza o dialogo interiore).
Oppure, per esempio, si trattava di scriversi e ricordarsi ogni mattina alcune indicazioni
da seguire nelle faccende quotidiane più semplici e banali, come l’imperatore Marco
Aurelio che annotava, prima di iniziare la giornata: «Bada a non cesarizzarti» (Marco
Aurelio, Pensieri).
Certo il modo di vivere era descritto e giustificato da un discorso teorico, da una filosofia
appunto, che poteva essere quella cinica, stoica, epicurea, platonica o così via. La vita

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poteva essere illuminata e vivificata da precise idee, ma non poteva non tradursi in una
pratica di esistenza quotidiana. Pierre Hadot fornisce di questo concetto una bella
metafora rifacendosi a una bicicletta (Hadot, La philosophie comme maniére de vivre). Ci
spiega che il discorso filosofico doveva funzionare come la dinamo della bicicletta, la luce
che si accende solo se si pedala. Può servire a indicare la direzione, ma può stare accesa e
ha senso solo se la bicicletta si muove, se pedaliamo. Il pedalare è l’éthos, ciò che facciamo,
come ci comportiamo. E la filosofia era innanzitutto questo, tutto l’esercizio che si faceva
per dare orientamento, direzione e senso alla propria vita. In modo che ogni sera ci si
potesse dire, con gratitudine, anche oggi ho vissuto!
Rimane tuttavia da chiarire ancora un punto fondamentale rispetto al collegamento fra gli
antichi esercizi filosofici e la felicità di ciascuno e di tutti. Per chiarirlo è utile questa
semplice e immediata domanda: in che modo e in che senso l’occuparsi di se stessi può
coincidere con l’affrancarsi da se stessi, liberarsi dall’egoismo, senza implicare. rinunce
limitanti e tristi rispetto ai propri desideri e piaceri?
Per rispondere è necessario avvicinarsi proprio a quel gruppo di esercizi, che nell’antica
terapeutica filosofica riguardavano il rapporto con il mondo naturale, quelli che Pierre
Hadot raccoglie sotto la dicitura «Rapporto con il cosmo ed espansione dell’io» (Hadot,
Che cos’è la filosofia antica?). Ne esistevano di diversi tipi, ma ciò che avevano in comune era
il fatto di comportare un tentativo di allargare il proprio sguardo fino ad abbracciare la
vastità del mondo e della natura, rispetto alla quale l’individuo poteva riuscire a sentirsi e
considerarsi piccolo e ininfluente. Ciò tuttavia non per indurlo al disprezzo di sé e della
vita, ma al contrario per aiutarlo a situarsi felicemente lì dove si trovava, in una
prospettiva di consapevole interdipendenza che lo vedeva parte di un cosmo. Si trattava di
trascendere la prospettiva singolare assumendo- la come parziale, imparando a mettersi
nei panni dell’altro in tutte le sue forme e tentando di arrivare così a rispettare l’esistenza
nel senso più ampio del termine.
I due movimenti di conoscere ed esaminare se stessi alla luce della filosofia e quello di
percorrere con lo sguardo l’insieme del mondo risultano in quest’ottica indissociabili.
Come chiarisce magistralmente Michel Foucault nelle sue lezioni in L’ermeneutica del
soggetto dedicate agli esercizi della fisica cinica, stoica ed epicurea, il paradosso che vede
contrapporsi conoscenza di sé da una parte e conoscenza della natura e del mondo
dall’altra come campi di sapere estranei o addirittura antagonisti può esser risolto
abbandonando lo sguardo moderno per adottare appunto quello della cura di sé. Il sapere
utile era per gli antichi filosofi, al di là del suo contenuto, ovvero al di là del fatto che
esaminasse e guardasse alle caratteristiche del soggetto o a quelle del mondo, solo quello
di tipo etopoietico, vale a dire che produce un comportamento, un modo di essere e di
sentire, l’unico in grado di collocare il singolo in una rete di relazioni la cui
consapevolezza lo modifica.
Si trattava di cercare di connettere macrocosmo e microcosmo in una prospettiva di senso.
Per fare questo, certo occorreva guardare al microcosmo, osservare con attenzione il
proprio agire e il proprio sentire. Ma anche occorreva osservare il macrocosmo, il mare, le
montagne e il cielo, gli altri esseri umani e non, quel tutto senza il quale la vita umana

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oggettivamente non si dava. A partire da questa prospettiva il senso dell’anima si trova nel
mondo e quello del mondo può essere riconosciuto e celebrato nell’anima e i due poli
risultano essere indissociabili.
Solo a partire da qui possiamo accettare la nostra propria morte. Solo a partire da qui
possiamo comprendere l’esigenza di non coincidere in modo coatto con il nostro ego, i
suoi desideri, le sue esigenze, le sue emozioni. Hadot parlava di tre trascendenze: quella
dell’io verso il sé, quella dell’io verso gli altri, quella dell’io verso la natura e il mondo.
Trascendenze tutte terrestri, fedeli all’imperativo vivere memento, ricordati di vivere. Ma
poiché sulla Terra è impossibile vivere bene da soli, occorre esercitarsi ad allargare il
proprio punto di vista. Si trattava di cercare quella che gli antichi definivano
megalopsychia, letteralmente anima grande, anima capace di non rinchiudersi nel suo
proprio piccolo, nelle ristrettezze della sua singolare e limitata visione umana. Una poesia
di Wallace Stevens descrive bene una figura dotata di questa qualità: «Il dio deve / vivere
dentro di lui: / In passioni di pioggia, ansie di neve, / Crucci di solitudine, trionfi / Di
boschi in fiore, brividi notturni / Sulle vie rugiadose dell’autunno; / in pena e in gioia,
ricordando il ramo / Verde d’estate ed arido d’inverno. / Tali son del suo cuore le misure»
(Stevens, Il mattino domenicale e altre poesie).

Tale è la spiritualità degli esercizi. Si tratta di ridare alla parola religione un suo possibile
senso letterale, quello del re-ligare, del ricongiungere nuovamente, mettere assieme di
nuovo.
Anche l’antica fisica era una teoria e una pratica trasformativa. Studiare e osservare gli
astri e le maree poteva voler dire modificarsi, così risalire un monte e contemplare un
paesaggio dall’alto.
Questo è molto evidente se si segue il discorso che Seneca porta avanti nelle due
prefazioni alle sue Questioni naturali, rispettivamente del i e del in libro. Nella seconda
Seneca precisa e dichiara esplicitamente lo scopo del suo scritto: percorrere il mondo nel
suo insieme e scoprirne le cause e i segreti. Aggiunge che si tratta di un’impresa ardua,
specie se intrapresa da un uomo vecchio e tuttavia, e forse a maggior ragione, urgente
come sempre più impellente diventa, dopo molti studi vani, decidere di occuparsi, almeno
sul finire della vita, interamente di se stessi.
Seneca, nel testo, pone insistentemente l’interrogativo su quale fosse la cosa più
importante per gli uomini. La sua ultima risposta è questa: «Avere l’anima a fior di labbra;
in questo modo si è liberi non in virtù del diritto dei Quiriti ma per il diritto di natura.
Libero è colui che è riuscito a sfuggire alla schiavitù di se stesso [...j Essere schiavi di se
stessi è la schiavitù che pesa maggiormente». E come combattere questa schiavitù?
Risponde Seneca: «E...] è facile scrollarsela di dosso, se cesserai di esigere molto da te, se
smetterai di ricercare profitti personali E...] e dirai a te stesso: ‘Perché agire da folle? Perché
ansimare, sudare, rigirare la terra e il foro? Non ho bisogno né di molto né per molto’. Lo
studio della natura ci aiuterà in questo sforzo E...]» (Seneca, Questioni naturali).
Lo studio della natura, ricollocando le vicende del singolo in quelle più grandi del cosmo,

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permetterebbe di sfuggire dal frenetico viavai di una vita dedicata al continuo susseguirsi
di impegni che distolgono da un più autentico senso della vita. E per questo che ci si
interessa a capire le cause delle acque terrestri.
Oggi si osserverebbe di primo acchito che per occuparsi di sé bisognerebbe innanzitutto
smettere di interrogarsi su questioni quali il moto degli astri, le maree e simili. E invece no,
per Seneca sarebbe proprio questo approfondimento il modo più efficace per intendere che
una necessità più grande governa i fenomeni e il mondo di cui facciamo parte, e per
aiutarci ad affrontare qualunque difficoltà essa ci riservi, consentendoci così di essere
sereni e fermi anche di fronte alle avversità, comprese la vecchiaia, le malattie e la morte
stessa, rendendoci liberi in un senso radicale.
Nel primo libro, Seneca scrive che l’anima, quando «penetra profondamente nel grembo
della natura [...1 prova piacere a deridere i pavimenti dei ricchi e tutta la terra con il suo
oro: mi riferisco non solo all’oro che la terra ha fatto uscire fuori e ha consegnato alla zecca
per essere coniato, ma anche a quello che tiene nascosto e riserva per l’avidità dei posteri.
Essa non può disprezzare i porticati, i soffitti a cassettoni splendenti d’avorio, i boschetti
bene tosati e i fiumi fatti arrivare nelle case prima di aver compiuto un simile esercizio»
(Seneca, Questioni naturali).
E evidente ora come e quanto tale conoscenza di sé non coincida del tutto con la
conoscenza della propria interiorità individuale, soprattutto se analizzata in modo isolato,
slegato da tutto il resto. La conoscenza di sé sarebbe liberatoria solo nel momento in cui
riuscisse a creare una tensione interna tra il sé individuale, collocato in un luogo
circoscritto e delimitato del mondo, e un sé capace di inserirsi armoniosamente all’interno
di una prospettiva impersonale e universale. Il concetto è bene espresso da una celebre
immagine vedica, in cui due uccelli si trovano sul medesimo albero di pzal, simile a un
fico. L’uno si ciba del frutto dolce e l’altro lo guarda e intanto con lo sguardo abbraccia il
tutto.

Così questi antichi esercizi fisici, per esempio risalire camminando le cime delle alture,
studiare la storia naturale, contemplare il sorgere e il calare del sole o lo sbocciare dei fiori,
formavano, trasformavano, rendevano l’anima limpida come l’aria di montagna in certi
giorni di splendido sole invernale.
Quando mi sono trovata a parlare di queste cose sotto il bagolaro, mi stupivo di quanto
quell’albero si prestasse bene a rappresentare proprio la saggezza epicurea, quel piacere
saldo e semplice così difficile da sperimentare e ancor di più da conservare per noialtri
umani: la megalopsychia, tanto affascinante quanto perlopiù assente nella routine
quotidiana. Eppure così foriera di felicità, così capace di rimettere ogni cosa al suo posto,
di liberare da ansie inutili, da pensieri ossessivi, così utile, per dirla con il poeta Kavafis,
per non sciupare la vita «portandola in giro / In balia del quotidiano / Gioco balordo degli
incontri / e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea» (Kavafis, Settantacinque
poesie).
Lo sapevo bene, dopo anni di frequentazione di seminari di pratiche filosofiche, ispirati

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proprio dagli esercizi della filosofia antica, in cui su tutto questo ci si confrontava,
provando a fare esercizio insieme, e poi ciascuno per sé, nella vita di tutti i giorni. L’idea di
questi seminari era quella di prendere spunto dall’antica terapeutica filosofica, nonché da
varie e diverse tradizioni sapienziali o proposte culturali e artistiche che potessero avere
questo tipo di intento trasformativo, per cercare, nel nostro presente e nella propria vita, di
non rinunciare a una possibilità di ricerca di felice saggezza. Una saggezza non chiusa
nelle aule universitarie, nei saperi specialistici e disciplinari, ma capace appunto di
coinvolgere e trasformare tutto ciò che si fa e si è. Ricordo ancora con un sorriso quando,
in occasione di uno di questi incontri, piantammo un piccolo orniello, un cugino
profumato del frassino, nel cortile dell’università e vi danzammo attorno, assieme ai
professori, per festeggiare la conclusione di un anno di ritrovi di pratica filosofica in cui
avevamo lavorato a partire dal testo L’albero filosofico di Jung. Oppure quando, anche
d’inverno, con il freddo e la pioggia, ciascuno di noi si metteva in giardino a osservare
qualche piccolo particolare degli alberi e del cielo, respirando in silenzio per diversi
minuti, come abbiamo fatto per un intero anno all’inizio dei nostri appuntamenti.
Ma la vera sfida era portare un tale sguardo al di fuori di quelle ore protette e riservate
all’esercizio comune, era portare quello sguardo a sedare un’eccessiva preoccupazione per
un esame, a sciogliere un risentimento, a cambiare il proprio umore nelle grigie e piovose
mattine di un inverno milanese bloccati da un traffico infernale.

In questi seminari si provava proprio a dare agli antichi esercizi una forma più attuale in
grado di trasformare il presente. Gli antichi esercizi mi hanno portato a pensare di provare
a fare filosofia oggi in un altro modo, fuori dagli edifici accademici, in un parco, tra gli
alberi. Una filosofia che sarà un altro irrinunciabile ingrediente delle nostre passeggiate
immaginarie. E che è stata anche davvero la protagonista di molte passeggiate filosofiche
che poi facemmo, in vari parchi e giardini di Italia. Attuali discepoli di Socrate fuori dalle
mura. Attuali discepoli di Socrate in quel giardino che è il mondo.

Mettersi in cammino e sfuggire agli esaurimenti: eccoci al primo passo


filosofico

«Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare
percorre entrambi i terreni».
Rebecca Solnit, Storia del camminare

È solo nel Fedro che Socrate esce dalla città, per costeggiare amabilmente fra gli alberi
l’Ilisso, un piccolo fiume che scorre a sud di Atene. Questo dialogo platonico comincia
proprio con l’ipotesi di uno dei protagonisti, Fedro, riguardo a un maggior sollievo che
procurerebbero le passeggiate all’aperto rispetto a quelle sotto i portici. E con il bisogno, la

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necessità, il desiderio di muoversi di questo personaggio, dopo essere rimasto a lungo al
chiuso, seduto a casa di Lisia.
Tutta la prima conversazione tra Socrate e Fedro riguarda esattamente il desiderio, il
desiderio di ascoltare e il desiderio di muoversi, parallelamente. Fedro vuole uscire dalle
mura a passeggiare e Socrate lo seguirà per poterlo stare a sentire. Socrate chiede di cosa
abbiano parlato da Lisia e Fedro replica: «Lo saprai, se hai tempo di camminare con me e
di ascoltarmi». E Socrate ribatte che pone questo sopra ogni altra occupazione. Desidera
talmente ascoltarlo che lo seguirebbe fino a Megara e tornerebbe anche indietro con lui,
pur di udire le sue parole. Desidera questo più che molto oro (Platone, Fedro).
Sembra quella canzone di Enzo Jannacci, Per un basin, in cui il cantante, un sabato sera nel
fuoco dei suoi vent’anni, per un bacetto sarebbe stato disposto ad andare a Como in moto
da Milano e a tornare a piedi. E di fatto, con Lisia, Fedro e gli altri hanno parlato
dell’amore, o meglio, Lisia stesso ha scritto un discorso sull’amore, di ottima qualità
formale e stilistica, in sommo grado persuasivo, sostenendo che sarebbe meglio scegliere
come amante qualcuno che non ci ama davvero, piuttosto che qualcuno realmente
innamorato. Perché, secondo Lisia, un amante perdutamente innamorato, fuori di sé e
privo di controllo, non avrebbe potuto garantire gli stessi vantaggi di una persona che
assennata, in assenza di passione, avrebbe potuto offrire al proprio amato. Pardon, al
proprio non amato, diciamo, al compagno scelto.
Socrate vorrà confutare quest’assurdità, e la sua confutazione arriverà anche a denunciare
i limiti del discorso scritto rispetto a quello orale, assai più efficace a suo avviso nel
seminare la conoscenza nelle anime adatte a ciò. Si può anche scrivere, dirà, ma i «giardini
di scritture» bisognerebbe ricordarsi di seminarli per gioco, perché, anche se si tratta di
«un gioco molto bello» (Platone, Fedro), è assai difficile che i semi piantati in quel giardino
facciano frutti e fiori. I semi nell’anima andrebbero invece seminati con la voce, con il
dialogo vis à vis.
Per ascoltare la voce di Fedro, per assecondare il suo desiderio di uscire delle mura,
Socrate lo seguirà in campagna, e sarà fra gli alberi lungo il fiume che l’astuto filosofo
scalzo farà uno tra i suoi più belli e celebri discorsi sull’amore. Su quello che per lui è il
vero amore, il dio Eros, quello che fa crescere le ali, quello che, come tutte le grandi forme
di ispirazione, l’arte o la musica, non può essere gestito, controllato, dominato,
amministrato.
Non è un caso che il dialogo si svolga fuori delle mura della città, all’aperto. E in modo che
a tratti diventi difficile distinguere le voci dei personaggi dal canto delle cicale, le quali,
secondo una leggenda che Socrate stesso racconterà, non sono altro che le Muse stesse.
Non è un caso che i due camminino per trovare un luogo adatto per mettersi a sedere,
lungo il fiume. E neppure è un caso che camminino scalzi: «In questo modo ci sarà
facilissimo camminare con i piedi nell’acqua, bagnandoci, e non sarà spiacevole,
specialmente in questa stagione dell’anno e in questo momento del giorno». Fino ad
arrivare sotto un altissimo platano, sotto cui c’è ombra e un «venticello giusto e anche erba
per metterci a sedere, o, se vogliamo, per distenderci». Così commenta Socrate l’arrivo
all’albero agognato: «Per Era! Bel luogo per fermarci! Questo platano è molto frondoso e

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alto; l’agnocasto è alto e la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è, rende il
luogo profumatissimo. E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima con acqua
molto fresca, come si può sentire col piede» (Platone, Fedro).
Suadente invito all’abbandono, alla distensione, a reclinare il capo. Richiamo dei sensi.
Una filosofia dei profumi. Non possiamo dimenticarci, ci ricorda Francesca Rigotti, che
«essenza» significa sia sostanza che profumo, e che la stessa parola greca nous, tradotta con
«mente», indicava in precedenza proprio la facoltà di annusare (Rigotti, La filosofia delle
piccole cose). Una filosofia dei piedi, prima di Rousseau o di Thoreau. Una filosofia del
camminare con le caviglie nell’acqua tiepida, d’estate, per discorrere poi all’ombra di un
platano frondoso, seduti, o addirittura distesi come i bambini che guardano le nuvole.
Era proprio il genere di filosofia che cercavo, in cui il cammino fosse esercizio di
trasformazione e presenza, e la sosta riflessione che sposasse parole e foglie, voce e vento,
anima e pensiero. Il punto è che non volevo che il luogo, nelle passeggiate filosofiche,
rimanesse solo un piacevole sfondo muto, una cornice. Neppure un semplice oggetto di
attenta osservazione.
I discorsi non sono forse i detti che scorrono come i fiumi? Mi chiedevo come si potesse
incoraggiare e nutrire un’attenzione che non separasse le parole dalle piante, come invitare
a un ascolto che non distraesse da ciò che accadeva intorno nel concreto, come dare forma
a una narrazione che rimanesse, anche nel ricordo, intrecciata ai rami e alle foglie, intrisa
della luce particolare di un luogo e di un momento. Ero alla ricerca di un linguaggio non
astratto che potesse aiutare ad aprirsi a ciò che stava intorno, a farlo entrare dentro insieme
all’aria. Per cercare di avvicinarmi il più possibile a quello che Socrate aveva chiamato il
«discorso vivente e animato di colui che sa» (Platone, Pedro). Un discorso che respira. Se
non volevo che il luogo rimanesse un vuoto e insignificante sfondo alle parole, più o meno
bello o gradevole, dovevo coinvolgere il corpo. Innanzitutto il mio corpo. Per parlare di un
posto o di un albero non mi bastava una mappa, una descrizione. Dovevo recarmici.
Guardare, sentire, annusare, stare. Meglio ancora, nei limiti del possibile, tornarci e
ritornarci, frequentano, raccogliere storie, viverlo.
E poi bisognava anche che chi mi avesse ascoltato potesse essere lì a sua volta con il corpo,
attento al movimento e al respiro, alle sensazioni e alle percezioni e non solo alle mie
parole. Bisognava che anche gli ascoltatori si aprissero, che aprissero le orecchie, gli occhi e
il naso, che respirassero e fossero ricettivi e presenti, con il permeabile confine della pelle
capace di ricordarsi della sua strana natura bucata. L’esercizio del cammino mi avrebbe
aiutato a incoraggiare questo tipo di presenza, in me e negli altri. Scrivo «esercizio» perché
avevo imparato che proprio il cammino poteva trasformarsi in esercizio filosofico nel
senso antico di cui ho già scritto.
Trasformare la camminata in un atto filosofico per me non implicava la necessità di
pensare ai massimi sistemi mentre si passeggiava. Tutto il contrario, perché vorrei
intendere l’esperienza filosofica come una qualità di presenza che ci permette di scorgere e
sentire, in un’azione particolare e determinata, semplice o addirittura banale, la presenza
del tutto, la potenza del significato e di ciò che di universale e grande si mostra nel
particolare, nel delimitato e nel piccolo.

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Camminare, anche per terra e non su un filo, è in realtà sempre atto funambolico, puro
equilibrismo. Innanzitutto, come fa notare Rebecca Solnit, è l’atto volontario più vicino ai
movimenti involontari del corpo, ovvero il respiro e il battito del cuore. È un movimento
elementare in grado di stabilire un delicato equilibrio che permette alla mente, al corpo e
al mondo di diventare tre note in grado di trovare un accordo (Solnit, Storia del camminare).
È un delicato equilibrio tra fare ed essere, oziare e muoversi, cercare di arrivare da qualche
parte senza cancellare il percorso. Permette di avere una meta senza annullare il viaggio.
Può rappresentare un modo di essere nel corpo e nella realtà senza esserne sopraffatti né
esclusi.
E difficile spiegare come si cammina, lo si fa e basta, semplicemente. Ma chi ha fatto
riabilitazione dopo un lungo periodo di inattività sa che in realtà camminare è molto
difficile, è il frutto di una costante perdita del baricentro implicata dal movimento. Vi si
può trovare l’alternanza di pieno e vuoto sottesa a ogni passo.
La routine, l’abitudine a volte nasconde e cancella il miracolo e la piacevolezza del
cammino, della semplice possibilità di movimento nello spazio. Per questo mi sembrava
potesse avere senso chiedere, a fronte di ogni tragitto da percorrere, di esercitarsi a
camminare. «Di camminare in modo fisiologicamente simile ma filosoficamente dissimile,
al modo in cui il postino porta la posta e l’impiegato prende il treno» (Solnit, Storia del
camminare). Di ripetere l’esercizio del cammino, ripetere nel bellissimo e obliato, nonché
vilipeso, senso letterale del termine, re-petere, cercare ogni volta di nuovo, chiedere per
ottenere qualcosa, da cui ancora la forza dell’italiano «petizione».
La ripetizione gode nel nostro mondo di una pessima reputazione, come la semplicità.
Fare sempre le stesse cose è spesso considerato sinonimo di noia. Ripetere
quotidianamente il medesimo gesto o insieme di gesti o parole è stato invece, in molti
luoghi, tempi e contesti specifici, via di illuminazione. Via per sentire la natura
inconsumabile di ciò che è e diviene. Sempre lo stesso esercizio, camminare, muovere i
piedi uno dopo l’altro e le gambe, guardare il paesaggio e i particolari, respirare e
annusare, ascoltare, camminare piano, camminare svelti, quasi correre, fermarsi,
riprendere, camminare così piano che quasi quasi si cade, e poi di nuovo in fretta, marciare
e poi passeggiare qua e là e poi... cosa dite, andiamo?

Passeggiate filosofiche tra gli alberi

Prima passeggiata
L’esperienza filosofica dell’autunno: riflessioni
mito-botaniche sulla perdita e sulla morte
Parco Nord, equinozio d’autunno, tramonto
e passaggio dalla luce al buio
«Sperperatori noi dei dolori.
Come li prevediamo, scrutando nella triste durata
se mai non finiscano, forse. Sono, invece, sempreverdi

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fronde, nostra scura e perenne pervinca,
uno dei tempi dell’anno segreto —, non solo
tempo — luogo, sede, giaciglio, suolo, dimora».
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, x

Al limitare del bosco, difronte a una siepe di noccioli

Essere in un grande prato, con tanto cielo sopra la testa e spazio tutto attorno, permette di
godersi il tramonto nelle giornate serene. Questo infuocarsi del cielo e rosseggiare fino ad
accogliere la necessità della transizione, con la delicatezza dei colori pastello del
crepuscolo che poi lasceranno il posto al buio. E poi è la notte che inghiotte il sole per
partorirlo di nuovo ogni mattina, come l’egizia dea Nut, che secondo un antico inno,
inarcandosi nella sua cosmica bellezza e creando la volta celeste, accoglie ogni sera dentro
di sé amorosamente, insieme al sole vespertino, ogni mortale quando è terminata la durata
della sua vita. In molti antichi sarcofagi egizi si può ammirare lo zaffiro profondo e scuro
del suo mantello, poiché: «La sua immagine stellata è la volta di ogni tomba, riprodotta nel
sarcofago dove il morto riposa» (Percovich, Colei che dtì la vita, colei che da’ la forma).
E una strana figura della morte questa, c’è del languido, dell’erotico e del materno nel
morire del sole e di donne e uomini in Nut. Nella Grecia arcaica si diceva che il sole
diventasse re solo nella notte, quando andava a riposare tra le braccia di Theia, la sua
luminosa amante. L’atmosfera è intrisa di una dolcezza del tramontare.

Nietzsche fa dire al suo Zarathustra tonante:


«Amare e tramontare, amare e perire: ciò va insieme dai secoli dei secoli. Volontà d’amore:
è accettare di buon grado anche la morte» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Una simile
frase può essere scontata per un eroe filosofico come Zarathustra, che comincia il suo
discorso agli uomini sottolineando la necessità e il desiderio di inabissarsi insieme al sole.
Noi potremmo provare a intenderla come invito a esplorare una pratica interiore, per
scoprire se siamo in grado di tramontare dolcemente, in modo che dentro ci rimanga un
po’ di posto per il riposo, il buio e il mistero.
Guardiamo quante sfumature assume il digradare della luce, ogni giorno diverse: non
possiamo credere di sbrigarcela troppo in fretta né fare a meno di pensare che stiamo
parlando di uno strano apprendere, inafferrabile e inconsistente come l’aria che ci
circonda.
In molte leggende dell’antica Irlanda si diceva che il crepuscolo fosse una soglia, un
momento in cui potevano dischiudersi le porte del mondo delle fate. Non erano forse così
ingenui questi narratori ancestrali e neppure melensi, fate e fato in effetti sono quasi una
stessa parola, la quale ci porta in prima battuta a ricordare un legame tra ciò che è fatato e
ciò che è fatale, ovvero affascinante, ma anche inevitabile, innanzitutto, la morte, la Certa,
ciò cui è impossibile sfuggire.
Se lo si osserva con attenzione, il passaggio dalla luce alla notte può offrire uno spettacolo

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e un insegnamento per gli occhi e l’anima. La passeggiata ci condurrà dal tramonto alla
volta stellata del cielo, proprio sul crinale tra l’estate dorata e l’autunno rosso e grigio. Per
mostrarci nel cammino, come una madre che si allontana promettendoci di tornare
l’indomani, le infinite sfumature del buio.
Torniamo dal cielo alla terra. Siamo di fronte a una siepe, oltre la quale c’è un bosco fitto in
cui senza sentieri battuti sembra piuttosto difficile entrare.
Si è forse più abituati a pensare alle siepi che circondano i giardini, a quelle piantate per
delimitare e recintare le nostre umane esigenze. Però le siepi esistono anche senza che
nessuno le pianti:
sono le porte dei boschi, la vegetazione di transito fra i prati e la foresta.
In questo loro essere di confine, rappresentano grandi fonti di biodiversità, vere e proprie
fucine della vita delle specie più diverse, riparo e nutrimento di una gran quantità di
esseri, lucertole e ramarri, capinere, fringuelli, cinciallegre e molti altri. Fra i cespugli, se ci
mettessimo a guardare nelle diverse stagioni, potremmo avvistare oltre cento tipi diversi
di uccelli, un frullare di ali e piumaggi, e colori e trilli canori tutti diversi.
In termini scientifici le siepi sono degli ecotoni, ossia ambienti di transizione tra due
ecosistemi, in cui gli arbusti, grazie alla duplice esposizione, verticale e laterale dei loro
rami, trasformano molta energia in quella che è chiamata biomassa, svolgendo un ottimo
lavoro anche per il terreno.
Spesso fra le piante che le compongono si trovano le cosiddette pioniere, cioè quelle che
crescono per prime e riescono a colonizzare terreni difficili. Colonizzare è in questo caso
un termine improprio, perché nel colonizzare la terra esse la nutrono e la trasformano e
fanno sì che vi possano crescere sempre più specie, rigogliosamente. Più che colonizzatrici,
piante di soglia e di passaggio, abili trasformatrici.
Dove finiscono e iniziano il bosco e il prato, dove si incontrano, là si può ammirare il più
diversificato lavorio della differenza tra gli esseri.
Pur piantata artificialmente, questa siepe si è ripresa il suo aspetto selvatico e i suoi modi e
ritmi. E una buona metafora dell’intero parco nel quale ci troviamo, il Parco Nord,
architettato e progettato in modo che torni a esistere un piccolissimo attuale lembo di
quell’antica foresta che prima ricopriva la Pianura padana, non solo prima delle città e
delle periferie che hanno cancellato la campagna, ma prima ancora dell’agricoltura e delle
bonifiche romane e ancor più indietro. Una foresta imponente che, all’epoca di Plinio il
Vecchio, si estendeva, con i suoi alberi centenari, per buona parte dell’Europa (Cattabiani,
Flora rio).
Tutto il parco è uno strano paradosso, compresa l’idea che lo genera, quella di dare vita a
una foresta peri-urbana, una foresta proprio al confine di una zona così densamente
costruita e popolata come il Nord-Est di Milano. Un paradosso che è una medicina, una
medicina dei corpi e delle anime di tutti quelli che ci vivono intorno ma non solo, laddove
questo verde strappato ai marciapiedi consente il passaggio delle migrazioni, il ritorno di
volpi e conigli, ricci e donnole, proprio a un passo da una delle zone più industrializzate
dell’Italia settentrionale.
Uno strano paradosso è anche quello di essere qui a provare a coltivare la terra che noi

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siamo, a partire dall’osservazione di quella che abbiamo sotto i piedi, e intorno. Un
laboratorio per esercitare noi stessi, per imparare a riconoscere le nostre parentele animali
e vegetali, i nostri istinti di volo e di tuffo, le ramificazioni delle nostre braccia, per
imparare a sentire l’impossibilità della vita senza il sole e per imparare con lui ora, nel
nostro microscopico essere, a tramontare.

Se costeggiamo questa siepe, e guardiamo chi c’è, notiamo, più numerosi degli altri, i
noccioli. Vediamo questo pullulare da un unico ceppo di tanti tronchi sottili e diversi, che
si allargano di fianco e poi verso l’alto, vediamo le belle foglie un po’ a cuore e zigrinate,
che cominciano a imbrunirsi e ingiallire in questo principio d’autunno. Vediamo e
riconosciamo le nocciole che proprio da settembre iniziano a essere pronte per la raccolta,
mature. Eccole qua, quando stanno per arrivare i primi freddi, con il frutto e tutte le sue
proprietà nutritive ben protetto dal guscio.
Pare che il nome botanico del nocciolo, almeno di quello europeo, Corylus avellana, derivi
proprio dal greco k6rys, che significa elmo, e il riferimento è appunto all’involto coriaceo
del frutto. Quanto ad avellano è riferito alla zona geografica intorno ad Avellino, zona in
cui cresceva rigoglioso e veniva coltivato già ai tempi degli antichi romani.
E non solo una specie pioniera, utilizzata per la creazione di macchie su terre vergini, ma
anche, diciamo così, una pianta in grado di riparare, molto utilizzata infatti in luoghi
soggetti a dissesto geologico. Per evitare le frane, consolidare le superfici in pendenza, la
loro fitta maglia di radici poco profonde e molto espanse costituisce un rimedio eccellente.

Passeggiando lentamente accanto a questa siepe autunnale intravediamo anche il bosco, al


di là. Senza un sentiero e senza un varco già aperto non è facile arrivarvi. Le siepi naturali
infatti, non potate regolarmente, rendono difficile trovare un passaggio fra i rami.
Proteggono e nascondono le selve.
Come le siepi, le favole. Strani accumuli di sa- peri stratificati, sedimenti culturali
eterogenei che parlano dei vari possibili legami tra gli esseri, li nutrono, li trasformano,
custodendo antichi segreti.
Nella fiaba di Cenerentola il nocciolo è senz’altro uno dei protagonisti. E significativo che
il celebre cartone animato abbia eliminato la preziosa presenza di questa pianta che
rappresenta proprio il cuore della storia.
Seguendo la versione dei fratelli Grimm, un giorno il padre di Cenerentola, dovendo
partire per un lungo viaggio, domanda alla figlia e alle due sorellastre che cosa desiderino
in dono al suo ritorno. La prima delle tre chiede bei vestiti, la seconda perle e gioielli;
Cenerentola fa invece questa singolare richiesta: «Il primo rametto che vi urta sulla via del
ritorno, chiedetelo per me» (Grimm, Fiabe). E proprio «sulla via del ritorno, mentre
cavalcava per un verde boschetto, un ramo di nocciolo lo sfiorò e gli fece cadere il
cappello. Allora egli colse il rametto e se lo portò via» (Grimm, Fiabe). Narra la storia che
Cenerentola lo ringraziò e poi andò subito a piantarlo sulla tomba della madre,
annaffiandolo con le sue lacrime: «Il ramo crebbe e divenne una bella pianta» (Grimm,
Fiabe). Cenerentola vi andava tre volte al giorno a piangere e ogni volta si posava sul

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nocciolo un uccellino bianco che aveva 11 potere di esaudire ogni suo desiderio e che sarà
la sua fortuna, permettendole di andare al ricevimento, incontrare il principe e alla fine
sposarlo nonostante i tentativi di inganno, anche piuttosto crudeli, delle sorellastre.
Perché Cenerentola chiede il primo rametto che colpisce il babbo, e perché proprio un
nocciolo?
Perché piantandolo sulla tomba della madre e innaffiandolo con le lacrime ne nasce un
uccellino bianco che tutto può fare?
Al primo quesito, per spingervi a seguirmi fino in fondo, risponderò alla fine delle nostre
passeggiate narrative, quando torneremo esattamente qui, a questa siepe di noccioli, e ci
saranno gli amenti, le infiorescenze dorate e pendule, della primavera.
Comincio dunque con la seconda, una questione che riguarda l’equinozio d’autunno, cioè
l’inizio di quella stagione in cui le giornate si fanno sempre più brevi e buie.
Innanzitutto, ci si potrebbe chiedere cosa vuole dire la morte di una madre. Vuol dire la
morte di colei che di solito per prima ed eminentemente nutre, accudisce, fa crescere. La
morte di quell’unico essere con cui si è stati due in uno, per poi con il parto separarsi e
instaurare una relazione di sguardi, gesti e suoni e poi parole, un rapporto che deve
esercitarsi ad allentare progressivamente le maglie di un’iniziale dipendenza.
Avrete notato come abbia sottolineato la necessità della separazione. E ancora non ho
nominato la perdita. Perché Cenerentola ha perso del tutto la sua mamma, che appunto è
morta. Ed è proprio sulla tomba che pianta il nocciolo ed è proprio con il pianto che lo
innaffia. Che il suo pianto sia come quello delle lacrime di Alice, il modo per entrare nel
Paese delle Meraviglie? Così pare, visto che è proprio il nocciolo ad attirare l’uccellino
bianco che compirà tutte le magie della fiaba.
Per iniziare, facciamoci aiutare da Walt Whitman. Un breve pensiero compare fin da
subito nei suoi taccuini: «So che il mio corpo si disgregherà [...] oggetti diversi che si
disgregano, e attraverso la chimica della natura i loro corpi [vengono trasformati] in steli
d’erba» (Hyde, Il dono). La metafora dell’erba che cresce sulle tombe è molto frequente
nella poesia di Whitman. E il simbolo del ciclico morire e rinascere del tutto, quel tutto che
lui celebra con i suoi versi vegetali. Così in Profumata erba dal petto mio: «Foglie di tomba,
foglie del corpo, che cresceranno su di me, sulla morte, / [...] oh, non vi raggelerà l’inverno,
tenere foglie, / tornerete ogni anno a fiorire, donde vi siete ritratte di nuovo emergerete»
(Hyde, Il dono).

L’immagine è molto antica. Pare che Whitman, nel 1853 in una libreria di New York, si
imbatté in una raccolta di incisioni che riproducevano bassorilievi tombali dell’antico
Egitto. Una di queste riguarda la resurrezione del dio Osiride e rappresenta un uomo che
versa dell’acqua da un vaso su una mummia dalla quale germogliano ventotto spighe di
grano, circondate da diversi simboli di rinascita. Whitman annota: «Il grano risorge con
pallido volto dalla sua tomba».
E ancora conservata al museo del Cairo una mummia che anticamente veniva coperta con
lino e poi conservata umida in modo che il grano potesse germogliarvi davvero. Nel 1856
Withman pubblicò la poesia Questo concime: «Come potete essere vivi germogli della

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primavera? / E tu sangue dell’erba, delle radici, dei frutteti, del grano, come puoi dar
salute? / Non immettono in te continuamente liquefatti cadaveri? / Non è ogni continente
lavorato e lavorato con rancidi morti? E...] Forse ogni briciola faceva parte d’un uomo
malato eppure osserva! / L’erba di primavera copre le praterie» (Whitman, Foglie d’erba).
Proprio la terra più fertile, il cosiddetto humus, è in realtà il prodotto finale di
decomposizione di animali morti e foglie cadute. L’humus è qualcosa, anche
chimicamente parlando, di straordinario. Non ne esiste un frammento identico a un altro.
Sa trattenere minerali nutrienti a uso e consumo delle piante, aiutando i terreni porosi a
conservare più acqua e quelli più pesanti e compatti a lasciarla andare.
Può sembrare assurdo, ma la realtà è che, «dove c’è calma e putrefazione, comincia a
esserci terra» (Logan, La pelle del pianeta) e la terra più fertile in assoluto deriva da ciò che è
morto. Ciclo e riciclo stanno alla base della vita organica, in senso eminentemente
concreto. La terra, il terriccio, geologicamente parlando, è pochissima cosa; nella
formazione di montagne e continenti, cli fondali e vulcani, con i loro tempi immensi, conta
«meno della schiuma di un’onda» (Logan, La pelle del pianeta). Ma è lui poi, il terriccio, che,
con l’alternarsi dei caldo e del freddo, con i venti, gli uragani, i fiumi e le maree, e
soprattutto gli alberi e le piante, i morti e i digeriti, i mangiatori e i mangiati genera e
rigenera ciò che noi riconosciamo in prima battuta come vivo. In inglese è chiamato dirt,
che vuoi dire anche escremento, a dirla tutta, merda. Può sembrare indelicato, ma letame e
lieto hanno la stessa radice e il letame rappresentava in effetti la risorsa più preziosa delle
fattorie almeno fino all’inizio dei Novecento.
In natura non esistono scarti, «i rifiuti non esistono finché non siamo noi a rifiutarli»
(Logan, La pelle del pianeta).

Ed è proprio l’assenza di ciclo e riciclo all’interno del corpo a causare il freddo rigor mortis.

E come se all’interno del mondo naturale valesse una strana equazione secondo la quale
da una parte il riciclo e la rigenerazione continua di ogni cosa sarebbero all’origine della
possibilità di vita, dall’altra lo scarto e il rifiuto, provocherebbero invece l’impossibilità di
circolazione e dunque la morte.
La morte non sembra essere separabile dalla vita e l’esperienza del morire implica, più
spesso di quanto si creda, momenti di intensità di vita senza pari.
Nel Fedone, dialogo platonico che racconta la morte di Socrate, l’antico filosofo dirà ai
discepoli e agli amici, incamminandosi serenamente verso la sua fine, di ricordarsi sempre
di occuparsi di sé stessi e di vivere bene, e di offrire per la sua dipartita un gallo ad
Asclepio, dio della medicina. Diversi studiosi hanno interpretato questa richiesta come
una condanna di Socrate nei confronti della vita, come se fosse felice di morire. Altri
hanno avallato un’interpretazione completamente differente. Socrate ringrazierebbe per il
fatto di aver vissuto fino in fondo una vita libera dalla paura della morte. Ringrazia di
morire in armonia con ciò che ha vissuto. Muore circondato dagli amici e dagli allievi,
senza rimorsi né rabbia.
All’opposto, l’immagine degli zombi dei film di Romero potrebbe essere utilizzata come

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metafora estrema di una condizione di cancellazione della morte che diviene svuotamento
della vita stessa. Corpi in decomposizione incapaci di tornare alla terra e morire che si
aggirano in grandi centri commerciali abbandonati. Corpi che potrebbero abitare a Leonia,
una delle città invisibili di Calvino, città in cui la ricchezza di ciascuna famiglia si misurava
con le cose che ogni giorno venivano buttate via, con gli sprechi.
Perdite, separazioni, abbandoni, delusioni potrebbero essere considerati equivalenti
psichici della morte. Esperienze, piccole o grandi, della fine di qualcosa.
Si potrebbe pensare al rifiuto e alla negazione come modi di insterilire il dolore, di
renderlo vuoto e inutile. E un’idea psichicamente fondamentale. Quando ci si ostina a non
vedere i propri limiti, i difetti, i lati negativi, quando si cerca di buttare via e allontanare la
sofferenza è difficile che si possa utilizzarla per imparare qualcosa, che si possa
comprenderla e trasformarla, approfittare delle ferite per migliorare, coltivare maggiore
sensibilità e consapevolezza.
Una storiella del saggio taoista Chuang-tzu del iv secolo a.C. narra di un uomo che aveva
orrore della propria ombra e delle proprie impronte:
«Così le sfuggiva correndo. Ma quante più volte alzava il piede, tanto più numerose erano
le impronte che lasciava; e più in fretta scappava, meno l’ombra l’abbandonava. Credendo
di andare troppo piano, corse più svelto senza mai riposare, finché, all’estremo delle forze,
non morì. Egli non capiva che per far scomparire l’ombra bisogna rimanere nell’oscurità,
che per far cessare le impronte bisogna rimanere nella quiete» (Chuang-tzu, La calma).
Si tratta della necessità di scendere nel profondo della terra che siamo. Come uno scarabeo
stercorano, animale sacro nell’antico Egitto. Questo insetto dal guscio iridescente ha
l’abitudine di seppellire palline di sterco nel profondo del terreno per covarvi le uova, al
riparo dalle mosche. Nasce nel cuore dello sterco per poi involarsi, con colori bellissimi,
nell’aria. Tra l’altro nel seppellire le sue palline concima e rende fertile il suolo.
Scendere nel profondo della terra alla ricerca di una medicina che permetta di migliorare
radicalmente la propria vita è un detto che compare in moltissimi testi alchemici. Proprio
dalla parola egizia kemi, che significa terra nera e fruttifera, limo, si ipotizza derivi il
termine alchimia, antico sapere sulla trasformazione di sé che poco aveva a che fare con
una rozza forma di chimica alla ricerca dell’oro. Coltivare se stessi, rendersi fertili, saper
morire per imparare a rinascere. Calma, putrefazione, terra e poi tronchi e fiori e frutti.

Possiamo osservare le nocciole ora, frutti dolci chiusi nei loro gusci autunnali, duri come
elmi. Come a dire, a me pare, quanto sia dura la scorza, quanti gli ostacoli da superare per
arrivare a questa strana forma di saggezza che è la felicità del tramonto.
Nella mitologia irlandese la nocciola è frutto simbolico donatore di sapienza, nove noccioli
circondano la fonte della vita in cui nuota il Salmone della conoscenza che di queste
nocciole si nutre. Come è noto, il salmone, dopo essere disceso verso il mare, nuota
controcorrente per tornare al fiume dove è nato per riprodursi.
Sui salmoni le tribù indiane del Pacifico settentrionale raccontavano una serie di miti
secondo i quali i pesci vivevano come uomini delle tribù, in una grande capanna in fondo
al mare. Ma una volta all’anno si trasformavano in pesci, e nuotavano fino alla foce dei

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fiumi affinché gli uomini loro fratelli potessero mangiarli e nutrirsi. E allora il primo
salmone che si vedeva apparire nel fiume era accolto con un’elaborata cerimonia di
benvenuto in cui il pesce catturato era venerato come un capo tribù e poi mangiato
ritualmente. Infine si restituiva la sua lisca al mare, in modo che potesse ricomporsi e
assumere nuovamente la forma umana nella sua primigenia capanna degli abissi.
Se non si fosse fatto questo, si riteneva che il salmone non si sarebbe più ripresentato e
offerto l’anno successivo. A partire dall’arrivo dei coloni europei, nell’area del Pacifico
settentrionale questi pesci, dopo millenni di abbondanza, sono oggi drasticamente
diminuiti. Sulla costa atlantica si sono addirittura praticamente estinti; oggi gli impianti di
inscatolamento sono stati abbandonati dopo molti secoli di pesca copiosa. Mi chiedo quale
dei due popoli sia il vero superstizioso, se noi con la nostra fede nei confronti del
progresso e del guadagno, o loro con quella nei confronti dello spirito della foresta e del
fiume, consapevoli come erano della dolorosa necessità di uccidere per mangiare e
nutrirsi, ma niente affatto desiderosi di nasconderla agli occhi dei più.
La stessa parola «botanica», deriva dal greco b6sko, che significa nutrire, pascere, e la
parola botdne vuol dire erba, pascolo, indica in primo luogo le piante di cui si nutrono gli
erbivori. Ma il verbo vuole dire anche distruggere, divorare. Nei cicli naturali occorre
saper morire, saper divenire cibo e vita per altri esseri. Realizzare questa consapevolezza
ed esercitare questa attitudine era considerata, come sembra indicarci il mito degli indiani
del Pacifico, una forma di saggezza.
Anche noi saremo humus e cibo con il nostro corpo mortale.
Così nella vita, l’accettazione e l’attraversamento di separazioni e sofferenze potrebbe
renderci umili. Essere umili non vuole dire perdere fierezza, ma abbandonare un io che si
crede immortale e che, tronfio dei successi e prostrato nelle difficoltà, ci tiranneggia e
comanda a bacchetta imponendoci di saccheggiare noi stessi e il pianeta, impedendoci di
tremare, di avere paura e di superarla.
Impedendoci di guardare questa paura fino in fondo, il timore di perdere, il timore di
perderci, il timore, in fondo, sempre di morire e dissolverci. Paura di invecchiare e finire.
La giovane Cenerentola piange tre volte al giorno la morte della mamma, sosta sull’erba
della sua tomba e innaffia con le sue lacrime il nocciolo, pianta pioniera che rende abitabile
la terra per altre specie, pianta riparatrice, che rammenda il tessuto dei suoli dissestati e
caduti. Con le sue lacrime è riuscita a nutrire e a far crescere qualcosa che ha dato poi
riparo all’uccellino bianco che le ha permesso di superare le difficoltà e i torti subiti.
Mi chiedo se è per questo che la protagonista della fiaba dei Grimm sa affrontare le offese
delle sorellastre senza diventare come loro. Invece di prendersela con le avversità, cerca di
farne esperienza e tesoro. Bisognerebbe andare a scuola da Cenerentola ogni giorno e ogni
sera per imparare come far fruttificare persino il pianto. Affrontare la perdita, il negativo,
le ombre senza scappare via, immaginando che si possa riuscire a dare un senso al vivere,
nonostante tutto, quali che siano i dolori incontrati. Guardare e accogliere tutto e poi
capire come rimetterlo in circolo, trasformarlo. Tutti i giorni, senza spaventarsi delle
proprie piccolezze e meschinità. Anche l’autunno può portare frutti.

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La luce comincia a calare. Laggiù c’è un varco per entrare nel bosco e un sentiero che lo
attraversa. Andiamo nel silenzio, con qualche nocciola nelle tasche o fra le dita o nella
mente, verso la nostra prossima tappa mito-botanica. Sì, perché abbiamo parlato di come
sarebbe dolce imparare a tramontare felicemente, ma ancora molto poco si è detto su come
si può fare e cosa lo impedisce davvero e lo rende così difficile e perché.

Cercando di imitare Epicuro: un sentiero fra tronchi ed edera

Lungo il sentiero, l’esercizio è il cammino, il ripetersi attento del gesto, il difficile tentativo
di essere semplicemente qui e ora, tra i tronchi e l’edera. Possiamo ascoltare i rametti che si
spezzano sotto i nostri piedi diventando humus.
Come Epicuro, possiamo esercitarci a sentire il piacevole movimento del corpo così com’è,
la sua circolazione terrestre, ascoltando la gioia fisiologica dei nostri sensi nell’andare.
Proviamo a percepire a terra che noi stessi siamo, rendiamo attiva l’inattività del pensiero
e tentiamo di godere di una certa passività, di uno stare senza futuro né passato, nel
presente. «Fra gli uomini perlopiù, l’inattività è torpore, l’attività follia» (Epicuro, Opere).
Cerchiamo di smentire con l’incedere queste verissime parole. Passeggiamo dunque,
calpestando le foglie cadute e cercando una nostra «pace vegetale» simile a quella del
frutto maturo appeso al ramo. «Niente altro che uno stare quieti in attesa. Niente altro che
questo qui ed ora» (Gualtieri, Bestia di gioia). Niente altro che un passo dopo l’altro tra i
noccioli dalle foglie ingiallite, nell’azzurro calmo della sera che inizia a scurirsi. Sereni
come se dopo una giornata ben spesa potessimo concederci il meritato riposo nell’assenza
di pensieri e preoccupazioni.

Un prato nascosto, una bianca betulla e una buca

Il tratto di bosco è ormai alle nostre spalle. Proprio davanti a noi, oltre questi pioppi
cipressini in filare che segnalano fieri i bordi della strada al cielo, c’è un’altra siepe,
piuttosto fitta, un intrico di cespugli. Tuttavia si intravede un varco e un altro piccolo
sentiero.

Scriveva la filosofa Maria Zambrano: i chiari del bosco, le radure, si fanno trovare, inutile
cercarle.
La prima volta che misi piede qui, ebbi in effetti l’inequivocabile sensazione che fosse
questo prato ad avermi trovato, non il contrario.
Siamo abituati a pensare i luoghi come contenitori passivi del nostro muoverci o sostare,
cornici silenti più o meno piacevoli del nostro agire. Pensiamo che siamo noi a modificarli,
a passarci, a dare loro una forma piuttosto che un’altra, ma è altrettanto vero che sono poi
loro a dare forma a noi. Non siamo forse un po’ le case che abbiamo abitato, i posti, le luci
e gli odori delle città o dei paesi in cui abbiamo vissuto?
Mi ha sempre stupito la cecità della psicologia dello sviluppo nei confronti dell’influenza
affettiva e formativa dei paesaggi cui apparteniamo. Conta e viene preso in considerazione

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come si comportano e sono la mamma, il papà, i parenti, gli insegnanti, e non il giardino
della scuola, le colline della casa dei nonni, ciò che ogni giorno si può guardare dalla
finestra della camera.
I luoghi, con le loro stratificazioni e interazioni, con ciò che nascondono nelle loro viscere e
l’aria che li attraversa, sono vivi e ci entrano dentro, almeno tanto quanto noi possiamo
entrare in loro, anche al di là della nostra coscienza o consapevolezza. Possono dare forma
ai nostri sogni, insinuarsi nell’anima con le loro atmosfere e le loro storie.
Siamo abituati a pensarci come soggetti sovrani, che scelgono, organizzano, pensano,
progettano, fanno e disfano. Benissimo. Tuttavia spesso, soprattutto nelle cose importanti,
noi siamo, nel bene e nel male, scelti, pensati, programmati, fatti e disfatti,
consapevolmente o meno. Ciascuno, pensando alla propria vita, potrebbe facilmente
accorgersi di quanto questo sia vero, di quanto di sé derivi dai luoghi e dagli ambienti in
cui si è capitati e, più in generale, da eventi che non abbiamo scelto, da relazioni con un
mondo che arriva, inaspettatamente, a costituirci.
Varcata la soglia oltre la siepe, una buca. AI centro, con dell’acqua che non si capisce da
dove arrivi né perché sia lì. Piccola, non troppo profonda, così rotonda. Con l’erba alta e
scomposta tutt’intorno. Nel prato ovale completamente protetto dagli alberi, ci avvolge la
sensazione di essere lontani da tutto il resto, in un tempo quasi sospeso. E laggiù, tra tutti
gli altri si staglia quel tronco bianco, così delicato e magnetico. E una betulla.
Quella sorta di pozza non è granché con la sua acqua un po’ stagnante, ma mi ha subito
evocato, probabilmente per il modo in cui è apparsa, un’immagine legata a una forma di
coraggio molto peculiare. Si tratta di un affresco sulla parete di una tomba etrusca, la
tomba del tuffatore, che rappresenta un uomo nell’atto di lanciarsi elegantemente nel
vuoto. Il coraggio del tuffo, il coraggio di attraversare uno spazio vuoto, di abbandonarsi e
cadere, in fondo è forse il coraggio di morire un pochi- no. Tornando all’esercizio della
morte mi pare che, innanzitutto, morire vuole dire anche saper lasciare andare,
abbandonare, svuotare, stare in un’assenza e in vuoto. E affrontare qualcosa di cui non si
sa niente, per cui non si hanno parole né categorie adeguate. Che non si può gestire e
controllare a piacimento secondo criteri razionali né pianificare. Chiudere gli occhi e
tuffarsi.
«La sera si fa sera, / tu non avrai compagni. / Ed allora verrà / la fama da te / per metterti
paura. / Ma non prender paura,/prendila per sorella. / La fama conosce / e l’ordine dei
fiumi / e i fondali dei guadi / e ti farà passare / senza che tu t’anneghi /» (Fortini, Poesie
scelte). Innumerevoli volte, nel pericolo o nell’incertezza, mi sono ripetuta queste parole di
Franco Fortini, non prender paura, prendila per sorella. Ma che coraggio richiede questo
non sapere, quanto è difficile, nel concreto, non temere le distanze, le giornate senza
impegni e senza regole, i silenzi, l’assenza di progetti e programmi e binari.

Un tuffo nel vuoto primordiale e il coraggio dell’abbandono: ecco cosa ci viene richiesto
nel nostro piccolo ogni sera, ogni notte, ogni sonno. Per chiudere gli occhi e offrirci alla
particolare consistenza del mondo onirico e del riposo. Si usano sempre di più
tranquillanti e sonniferi e quanto spesso, nel lavoro psicologico, mi trovo di fronte a

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persone che, almeno all’inizio, non sanno nulla dei loro sogni. E bello nel tragitto insieme
vedere quando la dimensione della notte si sovrappone pian piano a quella del giorno,
ampliando lo spazio del quotidiano e della vita dei pazienti, e la mia. E bello tuffarsi in
quel mondo in cui gli uomini diventano donne e viceversa, in cui gli animali parlano e il
linguaggio si muta in immagine, luce, movimento. E dolce potersi abbandonare a questo
modo notturno di riflettere e vivere.
Molte tradizioni riportano racconti sull’associazione tra sonno e morte, abbandono e
sogno, con diverse pratiche di consapevolezza e di cambiamento possibili. Un esercizio
filosofico consiste nell’utilizzare la dimensione onirica come strumento per ricordare e
tenere presente la natura ambivalente e inafferrabile del reale e della vita, il suo carattere
di sogno, il suo sfuggire alle interpretazioni univoche e alla certezze delle nostre abitudini
di percezione e di pensiero. Quel suo essere sempre più grande di noi. Mi spiego meglio
con l’aiuto di una storiella taoista: «Una volta Chuang Chou sognò d’essere una farfalla:
era una farfalla perfettamente felice, che si dilettava di seguire il proprio capriccio. Non
sapeva d’essere Chou. Improvvisamente si destò e allora fu Chou, gravato dalla forma.
Non sapeva se era Chou che aveva sognato d’essere una farfalla o una farfalla che aveva
sognato d’essere Chou. Eppure tra Chou e una farfalla c’è necessariamente una
distinzione: così è la trasformazione degli esseri» (in AA.VV., Testi taoisti).
Possiamo provare a ripetere sottovoce, diverse volte e con lentezza, una sorta di mantra: la
vita è un sogno, il sogno di un sogno. Vorrei semplicemente insinuare nelle vostre orecchie
metafisiche un dubbio radicale su ciò che si considera normalmente giusto e reale.
Un radicale e inesausto esercizio di decostruzione e di dubbio nei confronti delle nostre
modalità di pensiero e percezione fu un aspetto fondamentale della pratica socratica. La
confutazione era un esercizio di cui Socrate fu eminente maestro, punzecchiatore caustico
della natura apparentemente compatta e solida di ciò che pensiamo esista e abbia forma. E
proverbiale quel suo aggirarsi per le vie di Atene apostrofando, interrogando e mettendo
in crisi i suoi concittadini. Andando a dire a generali, artigiani, politici, che «sì va bene,
sapete come si fanno le guerre e le assemblee, i vasi o le navi, ma lo sapete cosa in
definitiva fate davvero, vale a dire perché lo fate?»
Ironia socratica che cerca di portare, anche rischiando, individui potenti, tronfi e sicuri di
sé a vergognarsi del proprio agire e a metterlo in questione. Ironia socratica nel decostruire
le abitudini e provare a cambiare il punto di vista. Paradossale saggezza che consisteva nel
sapere di non sapere nulla e che lo spingeva a confutare i dogmi altrui, cercando di portare
coloro cui si rivolgeva a un esame di sé che permetteva di vedere i propri errori, le
mancanze, le incoerenze.
Procedimento che traghettava, attraverso un tuffo nell’ignoto, verso un rovesciamento del
proprio modo di guardare a sé e al mondo. Così nel Lachete Nicia dice di Socrate: «Non mi
sembra che tu sappia che chi si avvicina molto ai discorsi di Socrate e ha con lui familiarità
nel dialogare, di necessità, se anche comincia in un primo momento a discutere di
qualcos’altro, viene da lui condotto nel discorso in un giro senza tregua sino a che non
finisce con il dare ragione di se stesso e in quale modo viva e come abbia vissuto la vita
trascorsa» (Platone, Opere).

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Ancora più estremi di Socrate erano i cinici, maestri nella decostruzione coraggiosa che
apre alla possibilità di immaginare altrimenti. Diogene entrava nei teatri quando tutti
uscivano, si svestiva in inverno e si copriva in estate, si masturbava in piazza e non si
curava di sottomettersi all’imperatore Alessandro Magno.
Più che orientare e dare senso alla vita sembra che ci siamo messi a scardinare ogni
direzione.
Il pensiero della morte ha di solito un effetto simile. E alcuni sogni a volte sembrano più
significativi e intensi di qualsiasi esperienza diurna, al punto da disorientare l’ordine delle
nostre prospettive. Ora, sotto l’etereo candore della betulla, vi propongo una domanda di
Socrate: «Stiamo dormendo, e discutiamo così nel sogno, oppure i nostri discorsi si
svolgono nella realtà?» (Teeteto, in Platone, Opere).

Cinicamente... fra viali di ippocastani

Adesso passeggeremo in questi vialetti ben tracciati, cui fanno da sponda in bell’ordine gli
ippocastani. Vi invito a un passeggiare cinico. Il vocabolo viene dal greco ky’nos, cane. I
filosofi cinici sono stati guardati con molto sospetto e studiati meno di altri, anche perché
non hanno lasciato molti scritti. Forse però è la loro stessa filosofia a condannarli a una
certa marginalità, la sua radicalità e il suo aspetto critico e rivoluzionario.
Essi tentavano infatti di semplificare nella misura più estrema il loro vivere, di distaccarsi
dal possesso e più in generale da tutte le convenzioni sociali della società cui
appartenevano. Di farsi simili alle bestie, in certo qual modo, riappropriandosi di
un’animalità in grado di sfuggire le ipocrisie e tutto ciò che imprigiona gli uomini
stabilendo leggi e usi nel regolamento naturale delle funzioni fisiologiche è vitali. Celebre
è l’aneddoto che vede Diogene gettare via la sua ciotola per l’elemosina quando vede un
bambino che si abbevera a una fontana con le nude mani.
Potete intuire l’uso per certi aspetti improprio e per certi aspetti pertinente con cui si
designa oggi un atteggiamento cinico. E ancora visibile il versante della critica e della
decostruzione, e anche una certa ferocia. Nel linguaggio attuale un cinico è un disilluso e
caustico distruttore di un’ingenua e positiva visione delle situazioni e del mondo. Un po’
meno comprensibile invece il disincanto nichilista, poiché i cinici, come la maggior parte
degli antichi filosofi, decostruivano alcuni aspetti di sé e della società, ma in vista di una
felicità più autentica cui consideravano possibile avvicinarsi.
E allora come sarà questo passeggiata cinica? Sarà cinica per gioco, per paradosso.
Gli ippocastani sono strani alberi. Innanzitutto generano castagne che non sono castagne,
nel senso che non si mangiano. Le cosiddette castagne matte, che secondo un uso popolare
avrebbero il potere di proteggere dai raffreddori e le influenze della stagione fredda se
tenute in tasca. Ho scritto che le castagne matte non sono commestibili, ma non è esatto:
non lo sono per gli uomini, ma pare piacciano ai cavalli, da qui il nome della pianta,
ippocastano, castagno dei cavalli. In Italia sono stranieri, benché di vecchia data: sono stati
infatti introdotti intorno al 1500. Ebbene il gioco che vi propongo è quello di cercare di

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rendervi per questo tratto stranieri a voi stessi, dimenticando le vostre umane e usuali
abitudini. Vi chiedo di provare ad assumere andature che vi siano inconsuete. Camminate
come vi pare, a zigzag, saltellando, contando, stando attaccati agli alberi, a grandi passi o
come le formiche, come giocassimo a Regina Reginella. Lo conoscete? O regina reginella
quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello bello bello con la fede e con l’anello? E la regina
risponde cinque da gambero, uno da formica, due da elefante e così via. Ciascuno come
vuole, quel che vuole. Giocate, giochiamo, abbandoniamoci senza vergogna a un
divertimento assurdo e a un’andatura che ci attirerà gli sguardi, alla meglio interrogativi,
dei passanti. Se pur per scherzo e in una modesta contingenza, cerchiamo come i cinici di
non curarci del giudizio altrui. Come i cinici, cerchiamo di ritrovare un modo di sentire da
bambini, meno convenzionale. Chi vuole si raccolga pure, en passant, il suo talismano
invernale.

Un pino silvestre in difficoltà

Sotto questo pino, lo noto già dal vostro sguardo, preferireste non sostare. Senza essere dei
botanici, infatti, si può comprendere che è malato e sta soffrendo. Proprio un pino
silvestre, un sempreverde, emblema immaginario di una forza che non soccombe all’arrivo
del freddo. Nelle parole della poetessa Antonia Pozzi: «Anima, sii come il pino: / che tutto
l’inverno distende / nella bianca aria vuota / le sue braccia fiorenti / e non cede, non cede, /
nemmeno se il vento, / recandogli da tutti i boschi / il suono di tutte le foglie cadute, / gli
sussurra parole d’abbandono;/» (Pozzi, Guardami sono nuda).

Ho scelto invece di fare questa sosta per parlare di un altro tipo di coraggio e di un altro
tipo di esercizio che il confronto con la morte, il vuoto e la perdita spesso implicano e
richiedono. L’esatto contrario dell’abbandono e del lasciarsi andare incontrati finora.
Vorrei infatti provare a mettere a fuoco la capacità di resistenza, che è cosa diversa da una
stanca rassegnazione o dall’atto di ribellione, pur potendo coincidere in parte con l’una o
con l’altro. A volte siamo costretti a subire situazioni che non possiamo cambiare.
Situazioni difficilissime, malattie gravi, proprie o altrui, licenziamenti ingiusti e incidenti,
morti improvvise e premature, inganni, truffe e così via. Si può pensare anche a cose più
modeste e quotidiane: un lavoro che non ci piace, sgridate ingiuste, fraintendimenti,
equivoci, cadute. Oppure ad avvenimenti più grandi, eventi storici come le guerre, le
dittature, i genocidi, il colonialismo.
Una leggenda dei Nootka, indiani dell’isola di Vancouver, racconta la storia di una
ragazza che approda in una terra sconosciuta dopo un lungo viaggio in canoa insieme a
dodici donne più anziane. Le compagne hanno fatto di tutto, tempesta dopo tempesta, e
con le scorte di cibo sempre più scarse, affinché la giovane sopravviva. Giunte a
destinazione muoiono stremate, e la ragazza rimane da sola su una spiaggia deserta in un
luogo ignoto. Piange insieme alla pioggia, ma con la pioggia beve e poi piano piano

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allestisce una pira funebre, impara a raccogliere molluschi per nutrirsi e infine a pescare e
via via altre piccole cose per sopravvivere. Non vive, sopravvive, ma a volte, dice nel
romanzo in cui questa storia viene riportata, non importa vivere bene, non è neppure
possibile, bisogna solo sopravvivere e resistere. Andando avanti, questa giovane riuscirà a
creare con il proprio muco un bambino, che, una volta cresciuto, le farà da amante e le
darà una figlia, Mowita, che darà origine mitica a tutta la tribù e che a sua volta sarà messa
alla prova e dovrà fortificarsi (Cameron, Le figlie della donna di rame).

L’idea di un bambino di muco potrebbe suscitare una reazione di disgusto, ancora più
profonda per il congiungimento con questo Ragazzo-Moccio, figura che nella storia
rimarrà sempre quella di un buono a nulla. Ma fare un figlio con il proprio piangere, con il
segno tangibile di ciò che è difficoltà e melma, di ciò che normalmente si scarta ed elimina
volentieri, non è niente affatto un’immagine assurda o incomprensibile. Potrebbe essere
una metafora del movimento psichico che va da un pianto inconsolabile, con relativi
lamenti, struggimenti o rancori alla costruttiva accettazione delle difficoltà. Un movimento
che approda alla comprensione di cosa si potrebbe fare nel concreto, giorno dopo giorno,
per sopravvivere e per trasformare qualcosa di sgradito e inevitabile, il muco, in un
bambino. Senza lasciarsi andare alla propria disperazione, senza lasciare che si trasformi
in quella rabbia cieca che rende cattivi e feroci e soli. Un risentimento sordo che ci porta a
incolpare gli altri e il mondo dei nostri mali e a perdere fiducia in tutti e tutto.
La capacità di resistere, che può avere tratti eroici anche in certi gesti quotidiani, come
alzarsi ogni mattina alle sette per andare a lavorare, implica costanza, volontà e fatica. E
stata oggetto forse di un’eccessiva venerazione nel passato e soffre invece di un discredito
e di una negazione eccessivi nel presente. Ma è talvolta una necessità e ha un indubbio
valore psichico in una prospettiva eudaimonica, vale a dire nella ricerca della felicità.
In quasi tutte le fiabe i protagonisti devono superare prove ed equivoci, difficoltà e
sventure per approdare al lieto fine.
La fatica può essere foriera di grande felicità, ma bisogna imparare a sopportarla. Penso
alla cima cui si arriva dopo una lunga escursione, al record raggiunto in una corsa, alla
soddisfazione che ci prende guardando indietro, quando siamo contenti e fieri di come
abbiamo superato una difficoltà. Perché ogni difficoltà superata significa apprendimento,
cambiamento. La prima strofa di una poesia di Brecht, L’uomo che impara, dice: «Prima
costruii sulla sabbia, / poi costruii sulla roccia. / Quando la roccia crollò / non ho più
costruito su nulla. / Poi ancora talvolta costruivo / su sabbia e roccia, come capitava, ma /
avevo imparato.» (Brecht, Poesie). Mi chiedo se si possa imparare qualcosa senza
sperimentare neppure un crollo; in un pianeta in cui il crollo e le frane e gli scontri sono
parte importante dello sviluppo della vita e delle vicende geologiche. La terra stessa è
roccia erosa. Così si conclude la poesia di Brecht: «Le cicatrici dolgono / nel tempo di
gelo. / Ma spesso dico: soio la fossa / non m’insegnerà più nulla» (Brecht, Poesie).
Il pino silvestre mal sopporta l’inquinamento, e non è neanche un albero europeo. Eppure
qui in qualche modo deve resistere. Imparare a resistere, a non piegarsi significa allenarsi,
esercitarsi. E uno dei sensi dell’antico esercizio dell’ascesi. Esercitarsi a fare a meno di ciò

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che si ha, imparare a sopportare.
Ora possiamo andare, ci aspetta infatti un percorso piuttosto lungo.

Risalendo come stoici una strana collina

È già un po’ che camminiamo e la luce è sempre più fioca. Le foglie che cadono e i rami
che si spogliano prendono il sopravvento sulla bellezza dei colori delle chiome
rosseggianti. E il silenzio ci sembra ora più greve, meno incantato di quello che ci ha visto
epicurei oltre la siepe dei noccioli.
Ma siamo quasi arrivati. Dobbiamo passare in mezzo a due alberi dai tronchi così scuri che
appaiono un po’ sinistri nel parco che comincia a svuotarsi.
La due chiome imponenti sembrano formare una soglia, creando una specie di ingresso
invisibile.
Attraversiamolo e saliamo sull’inaspettata collina che abbiamo davanti. Inaspettata perché
siamo nella Pianura padana, dev’essere una collina artificiale. Lo è, è una collina fatta di
rifiuti, perlopiù scorie di alto forno.

Dalla cima della nostra modesta altura lo vedrete meglio: oltre il confine del parco, ci sono
palazzi e strade, strade e palazzi a perdita d’occhio e il cielo solcato dagli aerei che
provengono da un aereo- porto poco lontano.
L’esercizio che vi chiedo è quello di resistere, seguirmi, e ascoltarmi ancora per un poco,
sospendendo, stoicamente, il vostro istintivo giudizio negativo sulla situazione presente.

Una porta di pioppi neri: verso dove?

Non siamo poi molto in alto, è vero, ciò nonostante da qui il nostro sguardo si può
spingere al di là dei confini del parco e ancora più in là. Vediamo parte delle strade
percorse da un altro punto di vista. Sono ormai accese tutte le luci della città circostante.
Una delle forme dell’esercizio filosofico di imparare a morire era il cosiddetto «sguardo
dall’alto». Secondo una certa psicologia storica nel mondo antico e medioevale non si
salivano le vette delle montagne. Pierre Hadot ha invece raccolto una serie di
testimonianze di segno contrario a partire dall’epoca greco-romana: la salita sull’Etna di
Adriano, il consiglio di avventurarsi nella medesima impresa che darà Seneca a Lucilio,
come vera e propria «pratica della fisica, della contemplazione del mondo» e non come
semplice curiosità turistica o esercizio del corpo (Hadot, N’oublie pas de vivre).

La pratica poteva tuttavia essere anche immaginaria: «L’individuo si sforza di ricollocarsi


nel Tutto; si potrebbe dire che si tratta di fisica vissuta, interiorizzata. Che fa comprendere
all’anima la piccolezza delle cose umane, la vanità della gloria, il vero senso del destino
dell’uomo, un richiamo a vivere, non sulla terra, ma nell’immensità del cosmo» (Hadot,

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Che cos’è la filosofia antica?). Hadot lo chiama il «punto di vista di Sino».
Nel libro vi della Repubblica troviamo: «E a quella mente in cui alberga la possibilità
straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare
grande la vita di un uomo?» (Platone, Opere).
Così racconta Scipione in uno scritto di Cicerone a seguito di una visione dello stesso tipo:
«La terra mi è parsa così piccola che avevo vergogna del nostro impero romano» (I-Iadot,
N’oublie pas de vivre).
Possiamo trovare il medesimo esercizio anche nella letteratura e nella filosofia successiva.
In Goethe, per esempio: nel romanzo di formazione Gli anni di apprendistato di Wilhelm
Meister è proprio sulle cima delle montagne e guardando dall’alto che il protagonista
attraversa i più significativi cambiamenti del modo di sentire e vedere se stesso e il mondo.

Mi fa sorridere parlare di tutto ciò su una colli- netta di pochi metri e fatta di rifiuti. E
invece proprio questo luogo e questa posizione ci permettono di tenere maggiormente in
conto una questione di una certa importanza, già nota nell’antichità greco-romana.
Parlo del rischio di insuperbirsi, del rischio che questo sguardo, invece di aiutare a
ridimensionarsi, possa diventare uno sguardo potente e tronfio, di chi vede tutto dall’alto,
appunto, tutto potenzialmente nelle sue mani, tutto gestibile e disprezzabile.
Un altro rischio potrebbe essere quello di sottovalutare i limiti della natura umana, il cui
corpo non può non soggiacere anche alla gravità e all’orizzontalità dello sguardo, e a cui il
volo è concesso, almeno senza aerei, solo in sogno, nella fantasia o come esperienza
spirituale che richiede grande esercizio e tecniche di trasformazione peculiari e difficili.
Nella commedia di Luciano di Samostata Icaro menippo ovvero un viaggio tra le nuvole
troviamo una parodia dell’esercizio di sguardo dall’alto. L’opera racconta appunto del
tentativo di un filosofo, il cinico Menippo, di volgersi alla cose celesti. Facendo il verso alle
ambizioni filosofiche, Luciano ne sottolinea acutamente gli errori possibili. Una volta
raggiunta la sua meta, la luna, racconta il cinico, «mi è bastato chinare un po’ la testa verso
la terra, ed ero in grado di scorgere distintamente le città, gli uomini, e tutto quello che
succedeva, non soltanto all’aperto, ma anche tutto quello che faceva, in casa propria, chi
pensava di essere al riparo da sguardi indiscreti E...] C’era Ermodoro, l’epicureo, che
giurava il falso per mille dracme, e Agatocle, lo stoico, che portava in tribunale un suo
allievo per quei quattro soldi di compenso che gli toccavano, e Clinia, il retore, che faceva
sparire elegantemente un ex-voto dal tempio di Asclepio, e il cinico Erofilo che dormiva in
un bordello» (Luciano, Racconti fantastici) . Oltre la semplice constatazione che uno dei
problemi connessi alla scelta filosofica sarebbe la decisione di adottarla per vari tipi di
convenienza senza davvero metterla in pratica, di tale scelta vengono anche messi in luce i
pericoli connessi al desiderio di elevarsi, di guardare tutto, uomini e natura, dal punto di
vista di un dio.
Non è un caso che Luciano abbia chiamato il suo personaggio volante Icaro menippo.
Mella mitologia greca Icaro era il figlio di Dedalo, il costruttore del labirinto cretese che,
fuggendo con le sue ali di cera, per l’eccessivo orgoglio suscitato dal volo si avvicinò a tal

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punto al sole da liquefare le ali, precipitando così in quel mare attorno all’isola di Samo
che prese appunto il nome di Icario.

Proprio Icaro, assieme a Prometeo, colui che nella leggenda donò il fuoco agli uomini
rubandolo a Zeus, potrebbero essere considerati emblemi e simboli di un atteggiamento
nei confronti della natura caratterizzato dalla volontà di svelarne i segreti meccanismi in
vista dei propri fini, con l’astuzia oppure con la forza, in ogni caso in virtù dei propri
interessi e in contrapposizione a essa (Hadot, Il velo di Iside). Parlo di un atteggiamento che
nell’antica Grecia è stato definito con il termine h:’9bris: potremmo tradurlo come
tracotanza, ma anche violenza o infine, più semplicemente, assenza di misura,
inconsapevolezza del limite. E un concetto di cui i greci si occuparono spesso nelle
tragedie, nelle commedie, nella filosofia. Icaro ne è appunto uno dei possibili
rappresentanti, spingendosi troppo vicino al sole e ignorando le raccomandazioni del
padre, neanche fosse invincibile, immortale. Andando troppo in alto è precipitato. il motto
Altum sapere pericolosum ovvero «è sempre rischioso avanzare pretese troppo alte»,
potrebbe fare da controcanto all’illuministico Sapere aude, ovvero «osa cercare di sapere»
(Hadot, Il velo di Iside).
La nascita della scienza sperimentale nel Seicento ha sicuramente rappresentato una forte
spinta nella seconda direzione, diciamo prometeica. Così Francesco Bacone: « i segreti
della natura si rivelano sotto la tortura degli esperimenti più di quando seguono il loro
corso naturale » (Hadot, Il velo di Iside). La natura diventa nemica, gelosa dei suoi segreti
da interrogare come giudici, o appunto da torturare. Si tratta di una prospettiva del tutto
estranea all’antica fisica. Epicurei, stoici e cinici riconducevano lo studio della natura alla
conoscenza di sé, considerando inutile, se non dannoso, ogni sapere che avrebbe potuto
incoraggiare l’intemperanza e la presunzione, o il folle desiderio di riuscire a dominare o
comprendere nel dettaglio e secondo criteri propri la natura di ciò che è.
I due alberi dai tronchi maestosi ai piedi della collina, con la corteccia scura che si fa quasi
nera nella sera, l’uno di fronte all’altro quasi a formare una porta, stanno perdendo i loro
contorni nel buio. Ma sono due pioppi neri.
I pioppi neri, con la loro corteccia scura e la chioma verde intenso, sono associati a una
leggenda di morte e di pianto. Si narra che Fetonte, figlio di Elio, il dio Sole, continuasse a
supplicare il padre di prestargli il suo carro, per poter volare come lui nel cielo. Tanto
insistette che il padre acconsentì, ma quando Fetonte vi fu montato, l’ebbrezza e
l’eccitazione furono tali che egli non faceva che violenti su e giù, rischiando di bruciare
tutta la terra. Non sapeva tenere le briglie, non era un abile auriga. Zeus fu costretto a
fulminarlo per evitare il peggio e il suo corpo cadde nel fiume Eridano, che è poi il nostro
Po. Le sue sorelle, le Eliadi, figlie del Sole, ne furono a tal punto addolorate che non
riuscivano a smettere di piangere fino a che Zeus, impietosito, le trasformò in pioppi neri.
In qualche versione del mito il fiume Eridano è la madre di Fetonte. Eris in greco significa
rosso. Rosso come il sangue, l’impeto, lo slancio guerriero. Il desiderio di conoscere,
involarsi, superare se stessi. Non credo sia possibile condannare un simile desiderio, forse
senza di esso non ci sarebbe neppure vita. Ma, come ci ricordano questi pioppi, bisogna

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saper guidare il carro, vale a dire non avvicinarsi troppo al sole e neppure alla terra, sa-
per stare in equilibrio. Il tentativo di trasfigurare il dolore e la sofferenza, il tentativo di
trascendere e trasformare il negativo e di oltrepassare il limite e salire deve accompagnarsi
alla conoscenza, alla consapevolezza permessa dal discendere e dal vedere il limite e la
morte.
Umiltà come principio di una filosofia scientifica, in cui scompare l’arroganza ma non la
fierezza di chi sa di aver fatto quello che ha potuto, come ha potuto, insieme agli altri
esseri viventi con cui condivide certezze di morte e gioia di vivere.
Capite ora perché questa modesta collina di rifiuti provenienti da una vecchia fabbrica di
armi, la Breda, proprio di fronte a quella porta di pioppi neri, è un buon posto per provare
a fare insieme un esercizio di sguardo dall’alto.
Eppure lo sguardo dall’alto è anche esercizio di ampliamento ed espansione, esercizio
legato alla gioia che deriva dalla contemplazione della bellezza di tutto ciò che esiste. I
rami dei due pioppi neri che si trovano ai piedi del nostro falso promontorio sembrano
formare un sipario. Per ora l’apertura del sipario ci ha mostrato le luci della città, la natura
residuale di una collina artificiale e il parco che si immerge nell’oscurità. E il pianto delle
Eliadi per il nostro urbanesimo infelice e irrispettoso, per il nostro inquinamento
sconsiderato e le guerre, per la volontà di sopraffazione e la limitatezza miope. Ma questo
luogo è anche altro. Sui rifiuti è cresciuta l’erba che ora profuma di terra nella sera. Non
possiamo non mettere in scena un’altra testimonianza dell’umano e del suo rapporto con
gli altri esseri che questo luogo può mostrare. Sedetevi comodi. Vi racconto, alle porte
della notte, l’ultima parte della storia.

Un teatro vegetale

Lo spazio in cima alla collina, delimitato da queste strane colonne tutto intorno, fa in effetti
assomigliare il luogo a un teatro a cielo aperto. Anche le colonne sono rifiuti, della
medesima fabbrica di armi. Hanno deciso di lasciarle in piedi, per testimoniare, per
ricordare ciò che è stato prima.
Il che rende ancora più rilevante il contrasto con ciò che è ora, un luogo di incontro e di
piacevole possibilità di coltivazione di sé e di condivisione nel mezzo di un parco,
chiamato convenzionalmente il teatrino, quasi tutti i giorni ci trovate persone che suonano
o fanno tai chi, leggono o chiacchierano.
Che idea testimoniare il negativo proprio nell’atto della sua avvenuta e più felice
trasformazione.
Avrebbero potuto cancellare tutto, cercare di nascondere agli occhi dei frequentatori
presenti e futuri questo passato poco glorioso, e invece hanno cercato di renderlo visibile
in un contesto di senso esattamente opposto. Un esempio riuscito di umana intelligenza, di
antropomorfa capacità di immaginare cose diverse, di progettarle e crearle. Un volo
dell’immaginazione frutto di uno sguardo elevato e lungimirante sul tempo e sul luogo.
Potremmo considerano una perla. Perché le perle, come le favole dei poeti, «sono un

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malanno trasformato in bellezza» (Blixen, I capricci del destino).
In questa chiave è buona metafora del senso del nostro camminare alle porte dell’autunno.
Riassume e incarna le tappe del nostro percorso: è come se suggerisse tacitamente alla
psiche di provare a fare quanto descritto. Non rifiutare il negativo: il nocciòlo. Accettare,
tuffarsi e scendere verso questo magma: la buca accanto alla betulla. Inizialmente e a tratti,
resistere, senza perdersi d’animo:
il pino silvestre. Nonostante la difficoltà, guardare, osservare, tentare di conoscere le
tristezze, gli errori, i fallimenti: i pioppi neri. Poi provare a trasformare. E infine
testimoniare di questa possibilità di trasformazione, delle sue difficoltà, del tempo e del
lavoro necessari per riparare le ferite, perché le cose possono sempre essere modificate, ma
sempre hanno conseguenze che non si cancellano né col pensiero, né dall’oggi al domani,
né facilmente: il teatrino.
Ci vogliono fatica, pazienza, tenacia, estro, fantasia, speranza, organizzazione, ispirazione
e molto altro per fare cose migliori. Moltissime e diverse forme di coraggio.
Così, con questi rifiuti, pensate all’audacia che ha richiesto a un gruppo di cittadini
visionari immaginare alloro posto un parco. Poi quella richiesta, nonostante il piano
regolatore che già prevedeva nuovi condomini, nell’iniziare a piantare dove possibile
pioppi, svelti nella crescita, adattabffi ai terreni più impervi. Poi continuare con costanza a
portare avanti le procedure burocratiche e non solo, di un progetto senza nessuna garanzia
di esito e senza guadagno. Alla fine, l’impresa è ufficialmente partita coinvolgendo le
amministrazioni e tutt’oggi va avanti, cresce, e continua a rubare ettari al cemento e a
ospitare le iniziative, le attività, gli esseri più diversi.
È bello vedervi ancora qui intorno, con questo freddo, con questo buio. Ma è giunto il
tempo del saluto. Voglio lasciarvi con la favola di una poetessa che è una dichiarazione di
fedeltà a questo perlaceo mutarsi, al dolce e faticoso morire, per testimoniare, ogni volta di
nuovo, la possibilità di rinascere:
«Che ognuno dei semi inghiottiti / Si farà in me fiore / Fino al capogiro del frutto / Lo
giuro. / Che qualunque dolore verrà / Puntualmente cantato, e poi anche /quella
leggerezza di certe / ore, di certe mani delicate, tutto sarà / guardato mirabilmente /
ascoltata ogni onda di suono, penetrato / nelle sue venature ogni canto ogni pianto / lo
giuro adesso che tutto è impregnato di spazio siderale. / Anche in questa brutta città
appare chiaro / Sopra i rumorosissimi bar / Lo spettro luminoso della gioia. / Questo lo
giuro» (Gualtieri, Bestia di gioia).
Un ultimo invito, per il congedo, un ultimo esercizio da sposare alle parole. Proviamo a
chiudere gli occhi e a sentire dentro il nostro stare al buio. A bere l’oscurità della notte,
come una bevanda inebriante. E nel riposo misterioso di ciò che è notturno, avvolti dal
mantello di Nut, possiamo lasciarci tramontare in lei, facendo risuonare dentro

Seconda passeggiata

Dell’umiltà: le nozze di acqua e terra

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«Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi e frequentando il futuro nella vita di
ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso».
Boris Pasternak, Le onde

Con i salici lungo un fiume: lasciarsi accadere

Ci siamo lasciati all’ingresso della notte, all’inizio dell’autunno con un sorso di buio in un
parco cittadino. E ora ci ritroviamo in una riserva naturale lungo le rive di un fiume nel
freddo dell’inverno, in pieno giorno per sfruttare quel poco di calore e di luce che il sole
riesce a dare nonostante le basse temperature invernali. Un isolotto di terra divide in due
rami il corso d’acqua che scorre davanti a noi azzurro e impetuoso. Quel piccolo lembo di
sabbia battuto dal vento, con i rami spogli dei salici che si piegano e ondeggiano sotto i
soffi impietosi dell’aria, conferisce al paesaggio un aspetto lunare. Fosse anche primavera,
o estate, le chiome dei salici mostrerebbero il loro verde dai riflessi argentati che non può
comunque non ricordare la luna, nel suo ancestrale rapporto con le acque terrestri.
Osserviamo i salici. Il nome latino, Salix viminalis, ci aiuta a ricordare la natura del suo
legno capace di flettersi; i suoi rami sono infatti vimini, con cui si possono intrecciare ceste
e cestini. Rami che sanno ondeggiare assieme alle correnti senza spezzarsi, delicati e
potenti nell’arginare i fiumi.
E i suoi semi, come i rami, sanno adattarsi. Possono arrivare, volando nel vento, su un
ghiaione di montagna, ovvero su roccia frantumata, senza suolo, senza terra vera e
propria, con l’acqua che corre via veloce. E sufficiente che incontrino un minuscolo grumo
di limo tra pietra e pietra per riuscire ad annidarsi nonostante tutto, pronti a germinare. Le
piantine svilupperanno risolute le radici tra i sassi e queste, assieme al clima e all’acqua,
frantumeranno ulteriormente le pietre e altro limo arriverà dal ruscellamento della
pioggia. Si formerà una piccola zolla attorno a ciascuno dei salici appena nati, zolla dove
erbe, funghi e batteri cominceranno piano piano a trasformare la biomassa in humus, quel
tanto che basta perché possano poi seguirli altre specie pioniere, come i sorbi e i pioppi.
Semi che si adattano, rami che si piegano, corteccia dalla virtù febbrifuga che tutt’oggi ci
dona l’acido acetilsalicico dell’aspirina.
Tutto nel vivere flessuoso di queste piante assomiglia all’acqua e alla natura dell’acqua
rimane fedele. Metafore vive in grado di mostrarci le caratteristiche di un certo tipo di
morbida, cedevole e inesorabile forza. La forza di chi sa adattarsi e perdere forma, di chi sa
accogliere, aspettare e ascoltare con pazienza. La forza di chi sa cadere e far accadere. La
forza di chi sa con freschezza scorrere e trascorrere e mutare, e così facendo,

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impercettibilmente, trasforma tutto ciò che tocca e attraversa, come i fiumi attraversano le
valli e i paesaggi.
Pensiamo ora a questa forza acquatica come qualità psichica. In un antichissimo scritto
sapienziale cinese, l’I King, un simbolo, chiamato l’abissale, rappresenta proprio le
caratteristiche dell’acqua, come interna disposizione d’animo, virtù e modo di affrontare le
situazioni.
Innanzitutto ci viene detto che come l’acqua, la quale anche nelle aspre gole montane trova
sempre modo di proseguire il suo corso superando ogni ostacolo proprio rimanendo
fedele alla sua natura liquida, così noi, rimanendo sinceri e trasparenti a noi stessi,
potremo riuscire, senza spigoli, a superare difficoltà e pericoli. La sentenza recita: «Se sei
sincero hai riuscita nel cuore, e qualsiasi cosa fai hai successo» ed è associata a
un’immagine così descritta: «L’acqua fluisce ininterrottamente e arriva alla meta» (I King).
E il commento puntualizza che l’acqua è un buon esempio di un giusto comportamento in
circostanze difficili. Vale a dire che come lei si può provare a non fuggire di fronte agli
ostacoli, continuare a scorrere.
Il seme alato del salice non si scoraggia, comincia a mettere radici persino nella sabbia. Il
ramo flessibile senza opporre resistenza evita di spezzarsi, e così inizia a creare boschi,
trasforma terreni, rafforza le sponde. Facendosi simile all’acqua argina e cura il
raffreddore.
E noi possiamo esercitarci a imitarlo, cercando di diventare perseveranti e semplici.
Una prima forma di allenamento: provare a stare con quello che c’è, dentro e fuori, ogni
giorno. Invece di cercare l’evasione diventando impermeabili, sordi e ciechi, arrendersi per
cominciare a cambiare. Accettare ciò che si è e si ha o non si ha più. È il presupposto che,
unico, può permettere l’inizio di una terapia psicologica con una possibilità di riuscita. La
consapevolezza che è inutile inasprirsi, chiudersi, rifiutare ciò che accade. Inutile pensare
che la propria sofferenza sia colpa degli altri o di qualcosa che ci manca. Più in generale è
il principio di ogni possibilità di trasformazione di sé e del mondo.
In un passaggio del poema epico indiano Mababbarata i protagonisti, i Pandava, cinque
fratelli con la loro unica e amata sposa, pur essendo in diritto di regnare e in grado di farlo
con giustizia e in pace, vengono costretti ad accontentarsi di essere re di misere paludi. Il
dio Krishna, che è loro guida e alleato, ne ferma le proteste, invitandoli a mettere da parte i
loro giudizi e ad accettare il modesto e squallido territorio che è stato loro ingiustamente
offerto, per cominciare a coltivano, con pazienza e senza scoraggiarsi. Ne nascerà così un
reame fondo e sereno cui non mancherà nulla.
Mi sembra qualcosa di simile a quello che gli stoici chiamavano disciplina dell’assenso,
tentativo sistematico di vedere le cose così come sono, cercando di eliminare il giudizio e il
pathos che le rende terribili e temibii per noi. Cercando di prescindere dalle nostre
rappresentazioni, positive o negative, di esse: «Non dire a te stesso più di quanto ti dicano
le prime rappresentazioni. Ti è stato detto che si parla male dite? Ti è stato detto questo. Il
resto invece, cioè che questo sia in sé un fatto negativo e dannoso, non ti è stato detto»
(Marco Aurelio, Pensieri).
Voglio ora raccontarvi un esempio contemporaneo di questo esercizio, una storia

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realmente accaduta narrata in un libro della fiosofa Freya Mathews, Riabitare la realtà.
Proprio come un salice, la scrittrice ha deciso di seguire il corso di un fiume fino alla
sorgente. Sceglie il torrente che scorre accanto a casa sua, in una città dell’Australia, non
perché sia particolarmente bello o interessante, ma perché è lì. E decide di costeggiano a
piedi, dovunque l’avesse portata, senza sfuggire a eventuali zone di degrado, senza
abbandonano mai. Seguire il torrente Merri ovunque conducesse alla ricerca della capacità
di stare con tutto quello che avrebbe incontrato.
Non sono mancate nel suo pellegrinaggio discariche né vecchi depositi di macchine
abbandonati. Neppure eucalipti rossi e stormi di anatre, visi benevoli e giardini fioriti. Ma
il viaggio, scrive, sarebbe stato altrettanto significativo accanto a qualsiasi fiume avesse
scelto di risalire. Il fatto è che tutto ciò che ha conosciuto e osservato si è fatto esperienza di
trasformazione per il suo modo di viverlo, camminando senza mai sottrarsi alla presenza
del mondo, senza mai perdere una certa presenza a sé. Un misero torrentello inquinato
senza nome né storia, a malapena notato nel tragitto da casa a scuola, si è trasformato così
in un vero e proprio universo. E la ricerca di ciò che sempre, senza nome né forma, dà
senso a ciò che è e che non è facile notare poiché è di continuo sotto i nostri occhi.
Assomiglia a quanto descritto da Wislawa Szymborska nella poesia Non occorre titolo e che
la descrive seduta sotto un albero a osservare un fiume che scorre:
«Fitto e intricato è il ricamo delle circostanze. Il punto della formica nell’erba. L’erba cucita
alla terra. Il disegno dell’onda in cui si infila un fuscello. Si dà il caso che io sia qui e guardi
E...] A tale vista mi abbandona sempre la certezza che ciò che è importante sia più
importante di ciò che non lo è» (Szymborska, La gioia di scrivere).
Come giovani rami di salice, proviamo a seguire questo fiume che sembra incontrare
l’azzurro grigio del cielo invernale nel suo scorrere ampio. Deciso, impetuoso e quieto si fa
strada tra le sponde e noi accanto a lui camminiamo nell’aria fredda. Costeggiandolo e
contemplandolo, cerchiamo di percepire e fare nostra la limpidezza che ci circonda.
Respiriamo a pieni polmoni e poi diamo le spalle all’acqua imboccando il sentiero che si
inoltra nel bosco.

Ontani e paludi: prendere forma

È più difficile riconoscere gli alberi e gli arbusti privi di foglie. Camminando sul sentiero
tra rami spogli che di primo acchito sembrano tutti uguali, si sente il rumore del fiume che
si fa più attutito. L’aria diventa meno tersa. L’atmosfera meno luminosa. Andando avanti
non si può evitare di imbattersi, seguendo il sentiero, in una sorta di lago dall’acqua un
po’ torbida, formato da un braccio di fiume che sembra staccato dal corpo scorrevole e
fresco del suo corso principale. Pericoloso non è, ma sicuramente non è un posto dove
molti avrebbero scelto di andare.
Gli alberi sembrano guardiani messi lì affinché nessuno entri, e hanno un tronco molto
scuro. Le canne palustri sono così fitte e compatte da apparirci come una barriera, seppur

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una barriera dolce che il vento modella e scompiglia. Effettivamente non ci troviamo in un
luogo ameno. Non sappiamo neanche dove sederci e la terra sotto i piedi si è fatta fangosa
e cedevole. L’acqua ferma impedisce di vedere eventuali pesci o distinguere alghe e sassi
sul fondale. Fosse primavera avremmo le anatre e i tarabusi, vedremmo forse galleggiare
le belle ninfee. Ma così il laghetto sembra non aver altro da fare che mischiarsi al fango e
raccogliere sterpaglie e foglie morte.

Però ecco, dopo un lungo elogio alla natura fresca delle acque che irrorano il pianeta,
questo luogo ha la possibilità di mostrarci un lato oscuro della forza acquatica, le sue
ombre, i suoi rischi. Quando il saper seguire e adattarsi alle situazioni diventa passività,
fino a un’immobilità stagnante e mortifera. Una palude. Una situazione psichica in cui
tutto è annacquato e non ci si può appoggiare a nulla, i contorni si sciolgono e non
permettono appigli. Un po’ come nel famoso quadro di Dalf degli orologi che colano. E la
consistenza vischiosa del catarro e del muco, l’acqua batterica e sporca che ci intasa
quando abbiamo un forte raffreddore o l’influenza.
Jean-Paul Sartre analizza la vischiosità da un punto di vista filosofico come metafora e
simbolo della più totale assenza di libertà. Un’avvolgente impotenza data dalla mancanza
di distinzioni e confini. E l’acqua che inghiotte le sponde, che divora gli argini.
Immaginate di fare il bagno in un pozzo di melassa, spiega Sartre: diversamente
dall’acqua limpida di un ruscello la sostanza appiccicosa non permetterebbe al nostro
corpo di muoversi e di mantenere la sua autonomia (Sartre, L’essere e il nulla). Immaginate
di sprofondare nelle sabbie mobili, senza alcuna possibilità di appoggiare un piede, nulla
che riesca a rimanere impermeabile e il liquido che perde la sua leggerezza.
Il sociologo Zygmunt Bauman riprende questa immagine per descrivere alcuni aspetti
culturali e sociali del mondo occidentale attuale. Ha parlato di società liquida, per
descrivere un’odierna forma di instabilità permanente e continuamente mutevole che
richiede a ciascuno un folle grado di adattabilità nel tentativo di «trovare una soluzione
biografica a contraddizioni sistemiche assai complesse» (Bauman, Modernità liquida). Una
progressiva erosione di regole, certezze e punti di riferimento in cui rimangono sempre
meno superfici d’appoggio collettive. Una libertà che nel farsi apparentemente priva di
confini diviene la più impressionante esperienza di impotenza per i singoli. Un tutto
indiviso e vischioso in cui è difficile trovare orientamento e forma.
Stati paludosi di incertezza paralizzante di fronte a scelte importanti, ma anche piccoli
ottundimenti quotidiani, come per esempio di fronte allo scaffale di un supermercato.
Vi invito a osservare questi alberi scuri che riescono a crescere qui senza affogare né
marcire, con le radici nell’acqua di palude. Siamo circondati da ontani. Cerchiamo di
capire chi sono per vedere se riescono ad aiutarci a non soffocare e sprofondare negli stati
depressivi che ci rendono passivi e senza forma.
Una delle principali caratteristiche del legno di ontano è quella di essere immarcescibile:
fin dall’antichità fu impiegato proprio per questa caratteristica. Vitruvio scrive che venne
usato nelle paludi di Ravenna per la costruzione di strade. Le fondamenta delle cattedrali
medioevali poggiano perlopiù su pali di ontano, come anche il ponte di Rialto a Venezia

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(Cattabiani, Florario). Questo legame con fondazioni e fondamenta risulta evidente in tutte
le leggende e le fiabe che, in diverse tradizioni, riguardano quest’albero di palude.
Nei racconti gallesi dei Mabinogion un ontano è il gigante Bran. Bran era talmente grande,
viene raccontato, che non poteva essere contenuto da nessuna casa. Per capire il significato
di questa immagine dobbiamo rispondere all’indovinello:
«Che cos’è che non può essere contenuto da nessuna casa? I pilastri su cui è costruita»
(Cattabiani, Florario). Le prime case dell’antica Europa erano costruite su palafitte di
ontano in riva ai laghi.
E interessante osservare tuttavia come l’utilizzo per fondare materialmente le case, per
offrire la possibilità di un appoggio terreno sull’acqua, diventi subito anche una metafora
perché si istituiscano leggi, per fondare un ordine armonico e stabile che fornisca regole a
una comunità. In questa chiave l’ontano è il simbolo di un’antica regalità, laddove il re
diviene figura mitica del legislatore giusto.
Nella stessa saga il gigante Bran è la figura del legislatore giusto e saggio che dà ordine e
fonda-mento alla vita di tutti. In tante civiltà troviamo re che per primi istituiscono gli
ordinamenti comuni e che perdono in questo modo le loro fattezze storiche di uomini.
Come Numa nell’antica Roma, per esempio, a cui le leggi vengono dettate da una Ninfa in
una grotta. Potrebbe essere un simbolo collegato alla necessità di ricordare che l’ordine
degli uomini deve intrecciarsi armonicamente a quello dell’intero universo. Il re era nella
Roma arcaica anche pontefice massimo, facitore di ponti, simboli di possibili collegamenti
tra i diversi aspetti del mondo e della realtà.
Anche il re divino Bran ha simbolicamente un corpo capace di farsi ponte. Così è
raccontata la spedizione militare che egli guidò dall’Inghilterra verso l’Irlanda, quando,
con le sue gambe immarcescibili come radici di ontano, attraverserà il mare a piedi,
seguito dalle altre navi. Gli irlandesi lo scorgono avvicinarsi all’orizzonte e rimangono
stupefatti di fronte a quella che sembra una grande montagna ricoperta di alberi avanzare
lentamente nel mare. Riferiscono alloro re: «Signore, abbiamo notizie incredibili, abbiamo
visto un bosco ergersi sul mare, dove non si era mai visto neppure un albero» (I
Mabinogion). La montagna che si muove è Bran. Così gli irlandesi, spaventati dalla potenza
e dalla forza del condottiero e del suo esercito, decidono di ritirarsi al di là di un fiume, sul
cui fondale si trova una magnetite che impedisce a chiunque e a qualsiasi imbarcazione di
attraversarlo, distruggendo l’unico ponte che per un antico incantesimo aveva permesso
fino a quel giorno il passaggio. Ma Bran riuscì a distendervi il suo corpo e i soldati in
questo modo poterono attraversarlo.
Questa immagine del re che si fa ponte è molto antica, è una figurazione presente in
moltissime tradizioni per simboleggiare l’idea sacra di regalità. E qualcosa di oscuro ai
notri occhi moderni, di cui nella storia più recente si possono raccogliere riflessi sbiaditi e
male interpretati nelle credenze popolari o nelle superstizioni che attribuiscono ai re poteri
straordinari di guarigione e magia. Ma il senso del governare inteso come dare leggi e
portare armonia e convivenza fra gli esseri, cercando di costruire un ponte o un contatto
tra la dimensione del visibile e quella dell’invisibile, ha un significato importante. L’idea è
che il potere, lungi dall’essere un desiderio e una possibilità di sfruttare gli altri, possa

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essere piuttosto un difficile dovere, quello di dare architetture, regole e ordine alla vita di
un popolo.
Impresa quasi impossibile, e infatti questi re divengono figure divine, simboli della
possibilità di una rarissima eccellenza umana.
Persino Bran, che all’inizio nei Mabinogion è appunto un re giusto e pacifico, commette un
errore. Bran era garante dell’ordine perché sapeva simbolicamente mantenere un ordine in
sé. Nel racconto è evidente come Bran sia sempre capace di prescindere dai desideri
personali e mettere davanti ai propri i bisogni della comunità. Non favorisce i suoi figli
rispetto agli altri, non si occupa mai in prima battuta dei suoi interessi. Ma a un certo
punto, proprio lui, che è il fondamento delle case degli uomini, per avere una propria casa
perde quel dono che è il simbolo della sua possibilità di regnare in modo giusto. E sarà la
prima guerra. Il primo tentativo di difendere un ordine che è stato violato.
Arriviamo così alla terza caratteristica mitica dell’ontano, e del re Bran. Quella di essere
abili e forti guerrieri, capaci di difendere l’ordine che si è stabilito.
Bran dimostrerà, nonostante la sua proverbiale mitezza ed equanimità, di sapere
all’occorrenza reagire con forza, vestendo i panni di un coraggioso guerriero. E nel
calendario celtico il mese dell’ontano è quello del solstizio di primavera che scaccia via
l’inverno. In un poema in cui si narra di una guerra arborea che vede gli alberi schierati in
combattimento, gli ontani saranno in prima linea, come capi.
Non bisognerebbe guardare solo al lato materiale di questa storia, secondo una nostra
abitudine di pensiero che separa la materia dalla mente. Invito piuttosto a pensare alla
profondità di questi pali di ontano che si identificano con il re Bran come simbolo di una
prima fondazione di ordine e di pace che richiede di essere stabilita e protetta dalla
voracità dei desideri singolari che altrimenti tutto possono arrivare a inghiottire. Voglio
ricordare il significato simbolico della fondazione sia di un primo lembo di terra su cui, a
differenza dell’acqua, si può appoggiare il piede, sia di un primo insieme dileggi che
permettono di dare ordine ai pensieri e agli atti. Troviamo la stessa compresenza di
significati nell’antica parola indoeuropea per «legge», dhaman, che significa mantenimento,
statuto, regola, ma anche luogo e sede. La radice ciba- dhe- indica l’atto del porre, del
collocare, dello stabilire e dalla stessa radice vengono anche il latino facio e il greco tithemi,
che indicano esattamente l’atto inaugurale del fare, creando ordine e regole, assemblando
sistemi, cose che staranno insieme (Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee).
Cosa può insegnarci l’ontano nel suo rapporto con l’acqua di palude cui unico sa resistere?

Antropologicamente e psicologicamente credo ci ricordi che nel mondo non si può eludere
la necessità della forma. Oltre all’acqua occorre una terra su cui possano poggiare piedi e
zampe, germogliare radici che impediscano al liquido di mangiarsi il tutto riportando il
mondo a un indistinto viluppo informe. Il continuo mutare indefinibile necessita di
definizione: l’instabilità, termine di origine eminentemente nautica, non può non invocare
presto o tardi, con desiderio e nostalgia, un lembo di terra all’orizzonte. La necessità di
stabilire argini, limiti, leggi, distinzioni, regole e forme. Di porre le fondamenta per abitare
da qualche parte insieme, in qualche modo, con usi e costumi che il luogo contribuirà a

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formare.
Certo agli argini contribuiscono anche i dolci salici. Ma dove l’acqua ristagna ecco nascere
gli ontani a fissare l’azoto dell’aria e a resistere. E una necessità di equilibrio e
complementarietà, saper lasciare accadere e scegliere, accogliere e decidere, abbandonarsi
e sforzarsi, ascoltare e prendere la parola, cedere e proporre, coltivare pace e saper
combattere. Saper mettere da parte la propria volontà quando occorre, ma anche saperla
esercitare se serve.
L’ontano ci mostra anche la necessità di imparare a essere sovrani di noi stessi, quella che i
filosofi antichi chiamavano autarchia, letteralmente avere dentro di sé un principio e una
legge, avere possibilità di fondarsi. Parliamo del bisogno imprescindibile di dare un
ordine alla propria vita, sia pratico — nella successione delle giornate che devono
mantenere una qualche forma di equilibrio, senso e coerenza — sia psicologico, nel senso
di decidere cosa vale la pena o meno di fare nella ricerca della propria felicità e nelle
proprie relazioni. Non solo, ci ricorda anche come a volte tale ordine necessiti di essere
difeso o ristabilito con un po’ di forza e volontà, con piglio guerriero.
Si tratta a mio avviso di un esercizio peculiare, un movimento di distacco che permette
scelta, forma e separazione. Potrebbe essere l’esercizio quotidiano di darsi limiti e obiettivi,
di stare nei tempi, di stabilire le regole e rispettarle anche quando non ne abbiamo voglia e
ci costa fatica. Origine di ogni possibilità di legislazione e ordine. Senza arrivare agli
eccessi di Vittorio Alfieri, che si legava alla sedia per studiare ripetendo il motto «volli,
fortissimamente volli», ma a volte stabilendo di mettere un freno, piantarla.
Sarebbe stupido negare la volontà e la difficoltà che richiede talvolta tentare di essere
costanti in un esercizio, o vincere pigrizie e mollezze, o superare momenti di dispersione,
eppure per gli uomini non c’è benessere esistenziale che possa prescindere da una simile
capacità. Perché la felicità umana non può coincidere con la possibilità di fare tutto ciò che
si desidera, quando e se lo si desidera, in modo indiscriminato. Troviamo un esempio in
un dialogo tra Liside e Socrate, quando il secondo vuole dimostrare al primo che non può
esistere felicità senza autocontrollo e autodisciplina. Poiché Liside insiste che la vera
felicità consiste nel poter fare tutto ciò che si vuole, ecco che Socrate lo conduce
ironicamente in un tranello finale. Sarebbe dunque felice chi avesse la scabbia e fosse
libero di grattarsi a piacimento?
Problema che certo oggi, nella nostra società liquida, ci riguarda individualmente e
collettivamente, e che pure ha che fare con la crisi ecologica.
Voglio dunque concludere mostrandovi un esempio attuale di esercizio. Lo troviamo in un
romanzo di Goliarda Sapienza, L’arte della gioia. La protagonista, Modesta, di quando in
quando mette in atto degli esercizi autoanalitici in cui, provando a guardare se stessa e le
circostanze in cui si trova dall’esterno, tenta di comprendere le radici del suo sentire e, se
le sembrano imprigionanti, prova, con un atto di distacco volontario e consapevole, a
cambiarsi e a cambiare la situazione. Quando si accorgerà del rischio di diventare schiava,
nel suo lavoro di scrittrice, della ricerca del successo e della fama postuma, smetterà di
dedicarsi a questa attività per andare a nuotare o per cavalcare e correre, fino a che non
riuscirà a riprendere a scrivere per se stessa e per gioco. O ancora, quando avrà dei figli

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piccoli, andrà di tanto in tanto in albergo per lasciarli senza di lei e liberarsi dal desiderio
di proteggerli fino a controllarli e dal piacere che deriva dal sentirsi indispensabile, fino a
soffocare gli altri impedendo loro di crescere e diventare autonomi. Mette dei paletti a se
stessa, quei paletti che ritiene possano aiutarla a vivere meglio. Si prende la responsabilità
della scelta di allontanarsi.
Mi chiedo ora con voi se questa parola, responsabilità, possa avere qualcosa a che fare con
la necessità delle sponde. Rispondo che ora dobbiamo deciderci ad abbandonare la riva di
questo laghetto un po’ fangoso tra i tronchi scuri per inoltrarci nuovamente nei folto del
bosco. E mia responsabilità che non diventi troppo freddo e buio.

In un bosco di querce: solidarietà radicale

Proseguendo sui sentiero, costeggiando i cespugli di ginestra senza fiori e i sambuchi, ci


lasciamo gradualmente alla spalle salici e ontani. Basta piante igroflie, amanti dell’acqua, e
pioniere, colonizzatrici di suoli. Adesso siamo in quello che un agronomo chiamerebbe un
querco-carpineto. Un bosco composto principalmente dalle farnie (Quercus robur) e dal
carpino bianco (Carpinus betulus), a cui si associano in maniera variabile il frassino
(Fraxinus angustifolia) e, nelle zone più umide, l’acero (Acer campestre) e l’olmo campestre
(Ulmus minor). Qua e là diversi arbusti, tra cui rose canine, delizie per le volpi.
In mezzo a una radura, si erge maestosa e imponente una bella quercia. E una farnia con
un tronco robusto, conforme al proprio appellativo botanico. I rami solidi che non temono
di allargarsi fanno venire voglia di una sosta quieta. Trasmettono qualcosa della loro
crescita lenta e paziente e della loro proverbiale longevità. Troneggia in mezzo al prato
senza timore di tuoni e fulmini, ma potrebbe anche pacificamente convivere nel folto del
bosco assieme alle sue simffi. Le querce sanno fare entrambe le cose, sono un esempio di
piante gregarie in grado di essere anche autonome. Ma dettano al terreno condizioni
difficili, al contrario degli alberi sulle rive dei fiumi e anemofile. Vanno piantate per bene e
non si sviluppano in fretta.
Senza urgenza allora noi ci sediamo ai suoi piedi per descriverne meglio alcune
caratteristiche. Immaginiamo con pazienza le foglie che ora non vediamo, con il loro
contorno ondulato e la chioma estiva che diventa fitta e ombrosa. Immaginiamo le
ghiande. E immaginiamo anche di incontrare le loro amiche volanti, le ghiandaie con tanto
di ali blu, petto bianco, occhi tondi e manto rosso-bruno. Proviamo a seguire una
ghiandaia immaginaria che sarà per un poco la protagonista della nostra storia. Assieme
alla quercia, naturalmente.
La ghiandaia, in un angolo riparato, dopo essersi guardata attorno sospettosa, si posa sul
terreno per sputare dal becco diverse ghiande. Sembra osservarle con attenzione per poi
ingoiarle di nuovo, tutte tranne una. Si sposta un po' più in là e fa la stessa cosa, sputa,
guarda, sceglie e le mette nel becco tutte tranne una, e così a seguire. Fino ad averne una
sola, con cui si invola.
Ci porta al limitare del bosco, in una specie di radura piena di luce. Qui l’uccello sotterra la

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sua ghianda, ricoprendola per bene di foglie e ramoscelli. E un suo consueto lavoro
stagionale: ogni autunno ne seppellisce in media più di 4500, che le serviranno per nutrirsi
d’inverno e per sfamare i piccoli in primavera. Però, anche se la ghiandaia ha una
memoria eccellente, ne dimentica sempre qualcuna, più o meno una su quattro, pare. E
così aiuta le querce a riprodursi, piante che altrimenti farebbero una bella fatica a
espandersi, in assenza di semi sparsi in aria e pronti a crescere dappertutto. Le ghiandaie
si spostano e portano le ghiande ai confini del bosco dove c’è sole in abbondanza. Le
sotterrano nel terreno giusto, né troppo acquoso né troppo secco.
Le proteggono così da altri predatori o animali che se ne ciberebbero.
Quercia e ghiandaia si sono evolute insieme, coordinandosi perfettamente, nell’arco di
sessantacinque milioni di anni.
La loro co-evoluzione ha portato la ghiandaia a formarsi un esofago estensibile in grado di
contenere molte ghiande e un becco con la parte superiore ricurva, ottima per spezzare i
gusci (Logan, La quercia. Storia sociale di un albero).
Ecco un elegante e ben congegnato esempio di sinergia e cooperazione. Spesso si sente
dire che l’evoluzione biologica comporta la selezione e la vincita del più forte sul più
debole; non è sempre così. Anche perché l’evoluzione è necessariamente co-evoluzione di
più organismi, mai di uno da solo. La nostra esigenza di dare nomi ci induce a farci
dimenticare questa caratteristica per cui in realtà, nel mondo vivente, tutto è collegato.
Gregory Bateson ricorre a un esempio per spiegare questo concetto.
Un cavallo, scrive, non sarebbe tale senza l’erba, nel senso più radicale per cui esso
avrebbe, in assenza di pascoli, altre zampe, altri denti, sarebbe in definitiva un altro
animale che nulla avrebbe a che fare con ciò che noi chiamiamo cavallo. E probabilmente
senza il cavallo non ci sarebbe neppure il prato. Ironicamente Bateson scrive che in fondo
un cavallo è un naturale equivalente di un tagliaerba. La bocca e l’apparato digerente
servono per mangiare e digerire l’erba, dunque tagliarla, gli zoccoli per compattarla, il suo
letame per concimaria e farla crescere.
Un antico esercizio della fisica stoica — cercare di inserire ogni oggetto nella catena delle
cause — serviva a ricordare e a tenere viva questa consapevolezza; le cose non possono
esistere da sole.

Quella che a volte viene definita lotta e competizione è spesso semplicemente una forma di
cooperazione, organizzazione, equilibrio e coordinazione. Ecco un esempio che riguarda le
querce. In ogni foresta ci sono alberi che vengono chiamati dominanti, perché si
espandono più rapidamente e occupano più spazio guadagnandosi maggiore luce, e alberi
che vengono chiamati soppressi perché faticano a crescere e rimangono dunque più piccoli
degli altri, benché abbiano la stessa età: «Eppure, le querce dominanti offrono talvolta
supporto a quelle oppresse. Attraverso gli innesti radicali, il nutrimento viaggia dagli
alberi che ne hanno in abbondanza a quelli che non ne hanno a sufficienza» (Logan, La
quercia. Storia sociale di un albero). E questo vale anche tra le querce malate e quelle sane o
tra quelle vive e quelle morte.
Una solidarietà radicale.

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Tutto il mondo vive grazie a un delicato e complesso gioco di parti e quando una sola di
esse vuole prevalere sulle altre non può che portare l’insieme a un disastro di cui tutti
subiranno le conseguenze.
L’esercizio della quercia è un invito a praticare la generosità, a coltivarla, nella
consapevolezza che il benessere dell’insieme è imprescindibilmente collegato alla felicità
del singolo. La quercia è un albero generoso, in grado di nutrire da solo più di 5000 specie.
Fornisce poi all’uomo ottimo legno per costruire mobili, galle per produrre inchiostro,
carbone e molto altro ancora. Ha nutrito e sostenuto, in diversi luoghi e tempi, fiorenti
civiltà, le cosiddette balaniculture, ovvero culture la cui alimentazione si basava sulla
farina di ghiande e sui prodotti che si possono ricavare da queste piante. Ma, a dispetto di
questo generoso donare, è anche una delle piante più diffuse in moltissime parti del
mondo. Prospera.
Gli stoici sembravano pensarla allo stesso modo sostenendo che per un singolo fare il bene
della comunità volesse dire in realtà fare anche il proprio bene. L’invito era verso
l’esercizio dell’azione al servizio degli altri. Scrive Marco Aurelio: «Noi siamo infatti nati
per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Ecco
perché è cosa contro natura agire l’uno contro l’altro» (Marco Aurelio, Pensieri).
Cercare di praticare in maniera il più possibile costante l’azione amorevole e disinteressata
era per Marco Aurelio esercizio filosofico da concretizzare nel quotidiano, in quanto
foriero di grande felicità. Un tentativo di dare ogni volta che è possibile, senza aspettarsi
nulla in cambio: «Che cosa vuoi di più, quando hai fatto del bene a un uomo? Non ti basta
aver compiuto un’azione conforme alla tua natura? Cerchi una ricompensa? Come se
l’occhio pretendesse un compenso perché vede, oppure i piedi perché camminano!» Fino a
donare istintivamente, entrando nella schiera di coloro che, in un certo senso, «fanno il
bene senza neanche rendersene conto» (Marco Aurelio, Pensieri).
Di questo esercizio posso fare un esempio un pò più recente. E tratto da un romanzo di
Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. E la storia di un uomo che in solitudine, su un
terreno brullo che non gli appartiene, e che non sa neppure di chi sia, comincia, come una
ghiandaia, a piantare querce. Giorno dopo giorno, sceglie e seleziona con pazienza e
attenzione le ghiande più belle e poi le pianta, alla giusta profondità nel terreno. Arriva a
piantarne migliaia fino a far crescere una foresta e a far tornare l’acqua in un posto che era
inizialmente sterile, secco e inospitale, rovinato da un’umanità perlopiù gretta, ostile e
incapace di cura. il libro è basato su una storia vera, la storia di un uomo che Giono
incontrò camminando da solo per la Provenza e che da subito osservò incuriosito: «Da tre
anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne
erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa
dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza,
restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era
nulla». (Giono, L’uomo che piantava gli alberi)

Bouffier, il protagonista del racconto, presta una cura umile a ogni semplice gesto che
compie nel succedersi dei giorni e delle stagioni.

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Umiltà viene da humus ma dalla medesima radice vengono umidità e umore. In una
poesia di Goethe troviamo l’immagine di un seme che confida nell’umidore clemente, che
attende paziente che la terra venga bagnata e innaffiata dalla pioggia (Goethe, Cento
poesie). La terra umida potrà essere fertile. Umidità è sinonimo dunque di opportunità.
Aprendosi a ciò che cade dal cielo il terreno, lasciando interstizi e pori nel suo essere
compatto, si fa visitare e compenetrare dall’acqua. Ed ecco fiori, prati, alberi.
L’uomo incontrato da Giono, Bouffier, aperto agli altri e capace di solitudine, volenteroso
ma ben consapevole dei limiti del suo volere e potere, accurato e metodico senza rigidità,
sa esercitare l’umiltà. La sua umiltà è un fruttuoso incontro di elementi diversi o
addirittura opposti che si mescolano in equilibrio e che sanno dell’importanza della
mescolanza e della proporzione, della relazione e della necessità di collaborare. L’esercizio
si è in lui fatto indole e si è trasformato in profonda, spontanea disposizione. La sua natura
è divenuta semplice e forte, generosa e sobria, come le querce che per anni ha piantato
senza alcun riconoscimento in un terreno che non sapeva neppure a chi appartenesse.
Ma questo esercizio di umiltà ed equilibrio è talmente arduo da sembrare a volte
impossibile, ancora di più quando si è lontani dagli alberi silenziosi e dai boschi. Quando
né erba né fiumi, né querce né ghiandaie ci offrono la loro alleanza e il loro esempio.
Cerchiamo ora di capire come si possa rimanere fedeli all’acqua e alla terra, fertili come
humus, anche in città, sulle strade asfaltate. In che modo appartenere ai tavoli semplici ed
«essere come le cose di terracotta, fatte di terra dei campi» tra le lamiere e le macchine, «in
mezzo a tanto acciaio che rulla» (Kunze, Sentieri sensibili).
Cominciamo a pensarci mentre ci incamminiamo, insieme, verso la rumorosa metropoli.

Terza passeggiata

Dell’ardore: le nozze di aria e fuoco

«Non c’è scatto nel cielo.


Solo il fulmine ha spigole e fuoco.
Solo il fulmine viaggia nervoso.
Ma guarda ora — che pace —
A me pare di averlo percorso
Tutto a volo — questo azzurro
Che si dispiega pacato. Mi pare
Un luogo che conosco. Che è stato
Di me. E lo è ancora.
Se guardo — entra nella radice
Dà da bere al mio
Alimenta il mio fuoco».
Mariangela Gualtieri, Bestia di gioia

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In un parcheggio, sotto i platani: anima e città

Non è entusiasmante ritrovarsi in un parcheggio. Un parcheggio che è anche uno


spartitraffico ampio che divide due viali, con le macchine in sosta davanti e dietro, e quelle
in marcia che corrono rumorose intorno. Neanche una panchina su cui sedersi per godere
dell’ombra di questi platani alti e fieri che costeggiano entrambe le strade.
I platani potrebbero evocare l’immagine di quelle piazzette greche o turche, con i tavolini
dei bar a cui sedersi a chiacchierare nell’aria estiva e anziani signori dall’età indefinibile
che sembrano immersi nel tempo immobile di una sosta di cui non si vede la fine. Invece
qui è difficile immaginare di intavolare una conversazione, in piedi, circondati dagli odori
e i suoni di un traffico abbastanza intenso.
Pare che i platani fossero gli alberi vicino all’Accademia, la famosa scuola platonica, sotto
la cui ombra gli antichi filosofi discorrevano e apprendevano. Alberi che Platone poteva
conoscere senza uscire dalle mura. Per un curioso caso, inoltre, le parole Platone e platano
hanno una medesima radice, che ha che fare con l’idea di larghezza. Le foglie di
quest’albero, infatti, belle ampie con i loro cinque lobi che si aprono, le fanno assomigliare
a mani aperte, e danno un’idea di estensione e distensione. Ricordano una certa potenza di
apertura del pensiero platonico, qualcosa che ha a che fare con la sensazione che si può
provare uscendo finalmente, dopo tanto tempo, da una caverna stretta e buia, incontrando
l’ampiezza del paesaggio e il cielo.
Proviamo ad alzare lo sguardo verso questo cielo estivo così azzurro che possiamo
contemplare sopra di noi. E un colore tanto limpido e intenso che riesce a dare una
sensazione di libertà e di spazio nonostante sia ritagliato tra i palazzi. Le foglie dei platani
sui rami superano le finestre degli ultimi piani slanciandosi verso l’alto incuranti, lassù,
dei viali e del loro intasarsi. Le foglie brillano nel sole e sembrano accendersi come stelle
filanti tra le diverse sfumature del verde che sovrastano le cortecce lisce e chiare. Sembra
l’effetto del sole su una distesa d’acqua, con la luce che luccica od ogni leggera
increspatura. Viene voglia di fare grandi e distesi respiri, quasi si potesse, dopo, provare a
spiccare il volo.
Poi però guardiamo di nuovo di fronte e intorno, osserviamo le macchine dietro i platani,
ritorniamo a quello che, visto così, è uno dei tanti esempi del cosiddetto verde urbano. Un
verde senza sfumature né identità, come questa etichetta poco felice — «verde urbano» —
sembra indicare. Quel verde che porta i fiori nelle rotonde, narcisi, tulipani o primule che
siano, a perdere gran parte della loro bellezza insieme al ricordo del prato e del bosco, in
virtù del loro confinare con la strada. Distogliere lo sguardo dal cielo e dai rami, dai colori
e dai particolari, per ritrovare la geometrica distanza tra i tronchi e le radici che sembrano
affondare nel cemento è come guardare di nuovo nel buio della caverna, un buio che
ritorna a essere tale dopo aver visto il sole.
Sia come sia, nonostante la difficoltà di immaginare un mondo differente da quello cui si è
abituati, vorrei proporvi, sotto questi bei platani, in un anonimo e spazioso spartitraffico
tra le vetture parcheggiate, di riflettere insieme sulla natura della metropoli e sulla nostra,

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aprendo uno spazio di elaborazione e pensiero ci permette di allargare gli orizzonti fino a
immaginare modelli molto diversi, e magari migliori, di vita urbana e di anima. Modelli
migliori di convivenza e relazione fra alberi e strade, rotonde e fiori, marciapiedi e prati,
piante e finestre e passanti.
Sui viali di una circonvallazione, tra i clacson, non viene spontaneo conversare, riflettere o,
peggio, fare esercizi meditativi. Il ritmo frenetico e l’aria inquinata della metropoli non
invitano al respiro calmo della meditazione.
Un giorno Milarepa affermò che certo, è molto bello ritirarsi fra le montagne selvagge,
l’amicizia delle cime immacolate aiuta il progresso spirituale, tuttavia, se quando ci si reca
al mercato in città non si riesce a rimanere calmi e sereni, se anche fra le la folla non si è in
grado di praticare la meditazione, allora significa che non si è ancora riusciti a trasformarsi
davvero.
Spesso nelle parole dei maestri buddisti o del Buddha stesso ritorna l’immagine di
un’inquietudine perpetua, un continuo fuoco di passioni, di brama o repulsione, che non
lascia mai requie alla mente e al corpo e che con la pratica meditativa si cerca di calmare.
In alchimia esiste un simbolo simile: un fuoco divoratore mai pago che tutto distrugge. E il
desiderio che desidera desiderio, rappresentato anche in forma di drago che si morde la
coda, per rendere l’idea di un circolo vizioso, di qualcosa che gira a vuoto in eterno.
L’immagine può essere usata anche per indicare il movimento psichico che ci vede intenti
a cercare di raggiungere o avere sempre qualcosa che non abbiamo. E appena si
interrompe il flusso delle novità, ecco la noia.
E un meccanismo che si può osservare nel proprio animo, ma anche per la strada. Basta
guardare il numero dei cartelloni pubblicitari.
Nel 1903 George Simmel scrisse un libriccino, La metropoli e la vita dello spirito, in cui
sostiene che in città sono così tanti gli stimoli per la vita mentale da indurre nei suoi
abitanti una sorta di anestesia delle fondamenta sensorie della vita psichica, una specie di
ottundimento della sensibilità e dei sensi, a suo avviso funzionale alla logica mezzi-fini che
domina la vita metropolitana e l’economia di mercato. Si può essere più o meno d’accordo
con la sua affermazione, ma mi pare valga la pena di raccogliere questo suggerimento di
guardare al rapporto tra l’anima della città e l’anima dei cittadini.
Non è assolutamente mia intenzione condannare né la città, tanto meno la curiosità e il
desiderio di incontro, conoscenza, esperienza. E vero tuttavia che l’industria
dell’intrattenimento sta progressivamente erodendo, assieme a politiche urbanistiche che
privilegiano profitti ed economia al benessere del territorio, possibili cartografie affettive o
poetiche degli spazi cittadini. L’accaparramento di suolo a fini commerciali, la
parcellizzazione pianificata e la privatizzazione, l’aumento dei dispositivi di controllo e
l’omogeneizzazione delle attività legate al consumo rendono sempre più difficile abitare
felicemente il territorio urbano.
I luoghi dello scambio e dell’ozio, della creatività e della condivisione sono sempre meno.
Alcuni antropologi hanno denunciato l’aumento della distanza tra progettazione e
fruizione sociale dello spazio. E diversi studiosi, per esempio Mike Davis o Paul Virilio,
hanno cercato di ricostruire criticamente il problema di quella che è stata definita

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un’architettura della paura, tutta improntata a una ricerca di sicurezza e protezione che
moltiplica il numero dei cancelli e delle telecamere.
Il desiderio di sfruttare, utilizzare, comprare, prendere sembra omnipervasivo e quello di
difendersi dalla predazione altrettanto forte. Ma forse esiste, è esistito e sicuramente potrà
sopravvivere un desiderio altrettanto intenso di liberarsi di tutto ciò. Un desiderio che
mira a costruire vite, strade e case differenti. E il desiderio filosofico, un bisogno di
trasformazione e miglioramento di sé e del mondo che con il possesso non ha nulla a che
vedere. Platone scrive proprio di un ardore filosofico che brucia come un fuoco.
Cerchiamo di approfondire la natura e le caratteristiche di questo desiderio che può
nutrire l’immaginazione di città, comunità e individui più felici.
Seguitemi. Magari, nonostante il traffico e i rumori, riusciremo per un poco, con racconti
antichi e contemporanei, a sospendere il tempo come in quelle piazzette greche circondate
dai platani.

Un fico che rompe il cemento: epifania vegetale

Abbiamo camminato su marciapiedi stretti e sporchi, in mezzo a strade che proprio non
possono mettere a loro agio i pedoni. Poi abbiamo imboccato una via meno frequentata in
fondo alla quale, dopo un passaggio a livello, sembra di essere entrati in un luogo del tutto
diverso, in tutta un’altra città. Il giardino di una piccola chiesa circondata da oleandri e
pini, che abbiamo costeggiato per un tratto, non aveva proprio niente di urbano, sembrava
piuttosto un giardino non troppo lontano dal mare. E questa strada su cui ora siamo ospita
più biciclette che automobili e invita finalmente a un passo più lento e disteso. Il fatto che
costeggi un canale, per quanto sporco e modesto, ci fa sentire, magari in forma indistinta e
poco consapevole, del legame ancestrale che fin dalle origini ha legato i fiumi e l’acqua alle
città, ci riporta alla parentela ineludibile tra fiorire delle civiltà e generosità della natura.
Ma sentite questo profumo improvviso? E così forte che ha il potere di distrarre da
riflessioni e da pensieri e ci spinge a cercarne l’origine e a guardarci intorno con più
attenzione. E strano sentire questo odore mediterraneo così intenso sull’asfalto, tra le case.
Quasi in fondo alla strada, da una crepa del muro che fa da argine al fiume, con il suo
viluppo di rami, irrompe, potente, un fico. Epifania vegetale, da tempo immemore e in
chissà quanti luoghi, di illuminazione spirituale.
Esistono molti tipi di fico, ma ovunque è stato considerato simbolo di illuminazione e di
conoscenza. In Egitto il sicomoro era sacro al dio Osiride e alla dea dell’amore Hathor e
veniva rappresentato come dispensatore di un’acqua di vita, resurrezione e sapienza
immortale in diversi sarcofagi. Sotto un caprifico vennero ritrovati Romolo e Remo, futuri
fondatori di Roma. Sotto una Ficus religiosa Buddha conobbe il risveglio e fu una Ficus
benghalensis ad aprirgli le porte del regno degli dei. In India si possono ancora contemplare
enormi e secolari piante di Ficus, i cui rami, ripiegandosi verso terra, mettono nuove radici
nel terreno e si estendono, formando schiere di colonne vegetali che sembrano dare forma
a veri e propri templi, entro cui si trovano offerte di fiori e piccoli altari di pietra.

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Uno dei nomi greci dei fico, Chelid6n, significa rondine ma anche matrice, organo genitale
femminile che dà vita a tutto. E il fico, nella mitologia greca, è legato alla conoscenza
misteriosa e travolgente del dio Dioniso, che si diceva avesse un cuore di legno di fico.
Dioniso, dio dell’ebbrezza e di un sapere ineffabile di cui ricorderemo ora solo uno degli
epiteti, quello per cui era invocato come portatore della fiaccola, di un fuoco inestinguibile.
Fuoco simbolo di una conoscenza in relazione con la natura di un amore in grado di dare
la vita e la morte a tutto ciò che esiste. Forse quel fuoco che in India era chiamato Lila,
tradotto come guizzo della fiamma, o come grazia, ma che significa anche gioco e
corteggiamento ed è usato a volte per designare la creazione come manifestazione di una
gioiosa attività divina.
Pare che uno degli obiettivi esistenziali di mistici e asceti di epoche diverse fosse arrivare a
sentire e a vivere il reale in questo modo, come scintillante bellezza. Un modo di sentire
per cui tutti i fenomeni divengono sacre scritture, come cantò Milarepa. Una comprensione
profonda che tutto ciò che è non è altro che un continuo lucente bruciare: la biologia dei
nostri corpi resi tiepidi dai processi metabolici della vita, o i raggi solari, l’atmosfera.
Gli antichi Veda parlano con insistenza di questa importante necessità di praticare il tapas,
l’ardore. Anche facendo offerte rituali al fuoco. Ma non per ottenere favori dagli dei,
piuttosto per ricordare l’importanza del gesto dell’offerta. Ogni mattina, prima di bere il
latte, bisognava versarne un pò nel fuoco. Occorreva sempre saper rinunciare a una parte
affinché venisse dedicata all’invisibile, al tutto. Un episodio vedico narra di un re che
interroga un saggio gigante sulla natura del rituale dell’agnihotra, il gesto sacrificale di
offrire ogni mattina del latte al fuoco. Il re domanda: se non ci fosse latte da offrire, cosa
accadrebbe? E il gigante risponde che si potrebbero usare riso e orzo. E se non ci fossero?
Erba, risponde quegli. E se non ci fosse? Frutti, replica il gigante. E se neanche quelli
fossero disponibili? Acqua, continua lui. E se neppure l’acqua esistesse? Srhaddha
risponde il saggio, vale a dire fiducia e verità.
La fiducia e la verità risiedono dunque nel modo in cui l’officiante compie il gesto
liturgico. Un gesto attento di consapevole offerta a qualcosa che lo eccede e che pure gli
permette di vivere in questo tutto che per vivere deve continuamente bruciare, ardere.
L’ardore in questa chiave è anche l’esercizio peculiare che comporta, in una prima
approssimazione, l’attenzione alla sensazione e alla consapevolezza di essere vivi, «che,
ridotta alla sua essenza al tempo stesso propriocettiva e termodinamica, è sensazione di
qualcosa che sta bruciando, qualcosa che arde su un fuoco lento e costante» (Calasso,
L’ardore). Sentire la vita minuta, a partire dalla base del dato fisiologico del corpo vivo,
come misterioso e immenso piacere. E sapersi offrire a essa senza limiti e senza calcolo.
Con le parole di Pasternak:
«Dove io non ricevo alcun resto / in vita spicciola dall’esistenza, / ma segno solo ciò che spendo / e
spendo tutto quello che conosco» (Pasternak, Poesie). Saper andare oltre il proprio interesse nel
desiderio di alimentare la fiamma del mondo. Per poi comprendere che, misteriosamente,
soffiando sul fuoco del mondo si soffia su un fuoco che pure è nostro e ci è intimo.
Un’ultima storia in proposito. Riguarda una delle incarnazioni precedenti di Buddha
prima di diventare Siddharta, il principe che conobbe la libertà del risveglio. I Jataka

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raccontano le vite anteriori del Buddha. A volte si tratta di vite animali, a volte umane. In
una di queste Buddha è una lepre che, non avendo null'altro da donare, decide che
sarebbe disposta a darsi volontariamente in pasto a un bramano questuante pur di offrire
qualcosa ad altri. Il dio della brama e della morte, sentendo di questa ardita risoluzione,
vuole metterla alla prova. Si trasforma dunque in un bramano che chiede l’elemosina. E
prontamente la lepre gli si offre: dopo essersi tolta dal pelo gli insetti e i parassiti per non
farli morire contro la loro volontà, si butta nel fuoco che lei stessa ha acceso. Ma le fiamme
non la bruciano. La lepre è stupita e chiede spiegazioni al bramano, e quello confesserà di
essere il dio che l’ha messa alla prova. La lepre, divertita, dice che sarebbe pronta a rifarlo
in ogni momento: non conosce infatti cosa più bella che l’offerta.
La forza esuberante del fico, in grado di nascere, come questo che abbiamo accanto, anche
da una crepa nel muro, le sue radici capaci di scalzare marciapiedi e cemento, la dolcezza
zuccherina del frutto pieno di semi, il lattice che trasuda dal tronco, il seme in grado di
attecchire dovunque e crescere possente, con l’odore selvatico e intenso che diffonde
attorno devono aver evocato, di continente in continente, questa forza misteriosa di vita
che si propaga e si espande. Oltre la morte. Instancabile. Eterna. E una volontà umana che
cerca perseverante, nonostante il morire, il senso della vita. Una ricerca caparbia,
nonostante gli umani limiti e le sofferenze, di conoscenza e di felicità. Un tentativo
inesausto di superare le prigioni dell’egoismo e del calcolo e di conoscere la gioia del dono
di sé.
Persino in città il fico fa irrompere il selvaggio e il perturbante, senza compromessi,
offrendo ai passanti, generoso, sensazioni e pensieri che non appartengono al reticolo
squadrato del tragitto verso l’ufficio. Il fico va dove vuole e cresce imprevisto e
imprevedibile come una lepre che sbuca nell’erba. Il fuoco dell’immaginazione come
possente linfa di fico può ora mischiare il luccichio delle foglie illuminate dal sole con le
scintille di antiche tradizioni sapienziali.
Meravigliose idee, meravigliosi mondi.
C’è una lepre con il panciotto e l’orologio o stiamo sognando? E una bambina che lo segue.
E uno strano buco in cui si infila, nascosto tra le foglie. Ovviamente, proviamo a seguirla.

Dietro una porta di biancospini: le città poetiche del futuro

«Per gli dei, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano essere
mai queste visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini». Risponde
Socrate a Teeteto: «E...] Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il
meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia se non questo» (Platone, Opere complete).
Alice, nel suo viaggio nel Paese delle Meraviglie, imparerà che nulla può essere dato per
scontato, che le cose mutano assieme ai punti di vista, le domande con le risposte, la realtà
a seconda di chi e come la guarda. Dovrà imparare che parlare di gatti a un topo è
maleducazione poiché significa spaventarlo. Dovrà imparare che dire a un bruco lungo

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venti centimetri che è molto brutto essere diventate alte venti centimetri lo offenderà. Che
non importa la strada che prendi se non sai dove vuoi andare...
Vediamo cosa possiamo apprendere scivolando con Alice in una buca senza gravità.
Cadiamo senza peso.
Cadendo, entriamo nel registro dell’immaginazione, e abbandoniamo la città in cui
stavamo passeggiando per una breve visita in un mondo fantastico. Dietro una porta di
biancospini, arbusti legati nella mitologia irlandese alle soglie dei mondi fata- ti,
immaginiamo di arrivare, assieme ad Alice, in un giardino in cui i fiori possono parlare, i
gatti sparire striscia dopo striscia, noi essere e comprendere ogni cosa. Cambiare forma e
natura, a piacimento. Come bambini che giocano guardando le nuvole e ci vedono orsi e
draghi e case e unicorni. Come i bambini quando giocano e si dicono: «Adesso facciamo
che io ero...» e si trasformano in marziani, casalinghe, postini e pescecani.
Qui proviamo a immaginare una città che tenga conto delle diverse altezze di adulti e
bambini, una città che prenda in seria considerazione le esigenze degli uccelli e dei conigli
e che conservi memoria del suo aurorale bisogno di sorgere su un fiume, all’inizio. Una
Parigi che possa bere l’acqua della Senna, una Londra che possa fare il bagno nel Tamigi,
una Milano che possa ancora pescare nel Naviglio.
«Avrei amato vivere in un mondo / di donne e uomini in collusione / gioia con foglie verdi, steli, /
costruire città minerali, cupole trasparenti, / piccole capanne d’erba intrecciata, / ognuna col
proprio disegno — /una cospirazione a coesistere / con la nebulosa Granchio, l’universo / che
esplode, la Mente» scrive Adrienne Rich, nella Fenomenologia della rabbia, misurando la
distanza tra desiderio e realtà. Ma rimaniamo ancora un poco in questo immaginario,
ampio e leggero, dei poeti.
Continuiamo a immaginare una città come descritta da quel cieloscrivente, che fu il poeta
Velimir Chlebnikov: «Le città del futuro saranno di vetro, come calamai, e condurranno tra loro
la lotta per il sole e per un pezzo di cielo, come se appartenessero al mondo vegetale [...1 Che nelle
case così come son fatte oggi, frutto della cupidigia e della stupidità dei proprietari, si fa una vita da
carcerati, la casa così com’è fatta estende il suo potere a tutti gli abitanti e li costringe a vivere una
vita come se fossero in isolamento [...1 Le case del futuro, invece, saran piccole, piccole cabine
personali di vetro sulle ruote, che si potran spostar dove si vuole» (Chlebnikov, 47 poesie facili e
una difficile).
Una città tutta piena d’aria, mobile come le nuvole.
Ma forse la descrizione si sta facendo troppo inconsistente. Il non senso deve stare insieme
a un poco di senso per non smarrirsi nel vuoto. L’immaginazione con la realtà e il nostro
giardino insieme al fico lassù, sul marciapiede. Il compito di passare e disperdersi è quello
delle nuvole. Per noi si tratta di farsi attraversare dall’aria e respirare e ricordarsi di molte
cose. Torniamo al fico e ai suoi rami che si piegano verso la terra per nascere di nuovo. Ci
basterà un bel salto e potremo planare senza peso.
Come nei sogni. E che i sogni rimangano memoria della possibilità di leggerezza, nella
nostra vita diurna. Memoria dell’infanzia, nell’adulto. Desiderio di case che si spostano e
si condividono, nel cittadino. Un balzo, torniamo in città.

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Il canto del vento fra i pioppi tremuli

Entusiasmarsi non vuoi dire poi niente di diverso che avere un soffio dentro. In fondo
accade ogni volta che respiriamo. Ma non sempre l’aria riesce ad attraversarci benefica con
tocco leggero. Non sempre apre le porte dell’anima, né manifesta quel potere
trasformativo che tutte le tradizioni le attribuiscono. Forse dipende dall’atmosfera, cioè
appunto dal tipo di aria che c’è, dentro e fuori di noi, da chi la respira e come e quando e
con chi.
I Sioux dicevano che il vento era una delle forme del Grande Spirito. E il suo canto, il canto
del mondo. Ci sono degli alberi, i pioppi tremuli, che quando si alza il vento stormiscono e
producono una musica inconfondibile. I Sioux per questo motivo li considerarono alberi
sacri e li usarono come asse centrale delle loro capanne.
Jean Giono, nei suoi romanzi, quando vuole descrivere una situazione benevola, di
pacifica se pur laboriosa convivenza di uomo e natura, usa la metafora di un vento che
produce un suono melodioso soffiando sui tetti delle case. Quando invece vuole indicare
una situazione negativa, di abbandono o di guerra, descrive un suono terribile generato
dall’urto fra il vento e i muri.
L’aria non sempre ci alleggerisce, il vento non sempre ci tocca benevolo. Quale può essere
un esercizio per renderci leggeri senza superficialità, aperti senza essere esposti, volatili
senza divenire inconsistenti?
Il nostro desiderio, come accade nei sogni, può sospendere il tempo e la causalità, ma ogni
giornata ha la sua alba e il suo tramonto. Diverse misure scandiscono il continuum di ciò
che è. Ma non tutto è misurabile dagli orologi.
Forse bisogna imparare dai pioppi tremuli, imparare a oscillare con il vento. Senza
fermano, senza imprigionarlo, senza farsi sbatacchiare qua e là.
Non si tratta forse di eliminare obiettivi, scopi, direzioni, misure e progetti. Se non importa
dove vuoi andare allora non importa che direzione prendi, fa notare lo Stregatto ad Alice.
E anche se la nostra vita è un cerchio, tra la nascita e la morte passa un tempo che ci muta
e che, sempre uguale, fa sì che tutto sempre cambi: «Nulla due volte accade / né accadrà. Per
tal ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione». (Szymborska, Elogio dei
sogni).

Dove andremo ora? A cercare dei pioppi tremuli da stare ad ascoltare. Non lontano da qui,
c’è un giardinetto che offre pioppi di tutti i tipi e pan- chine, su cui potremo finalmente
sederci.
Andiamo a cercarlo. Dobbiamo lasciare questa via più tranquilla accanto al canale, e
immergerci di nuovo in grandi viali trafficati. Dobbiamo percorrerne, due, piuttosto
lunghi e neppure alberati. Ma l’invito è a non abbandonare lo sguardo attento e curioso
che abbiamo guadagnato in queste strade più piccole e riparate.
Mentre camminate alzate la testa, questa volta non per guardare direttamente il cielo,

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bensì i balconi e i davanzali nelle loro fioriture estive, con tutte le variopinte forme vegetali
che ci possono aiutare ad allargare l’anima in città. Vi segnalo che questa metropoli in cui
siamo ci offre gelsomini, edere, ibischi, salvie, lavande. La cascata di rosso dei gerani di cui
si ricopre un intero davanzale può cancellare la bruttezza della facciata che lo ospita
suscitando un moto improvviso di allegria.
Si potrebbe fare una mappatura di tutta questa vegetazione aerea delle città, e indagare i
moti che le diverse piante riescono a suscitare in chi passa e le guarda. Potrebbe essere un
esercizio di curiosità e attenzione urbana che permette poi l’artigianale stesura di una
cartografia filosofica. Una cartina che illustra le possibilità contemplative offerte dai
diversi fiori, nelle diverse stagioni, visibili da particolari prospettive lungo le strade
alzando la testa verso terrazzi e balconi. E che magari vi associ dei versi. Ma siamo arrivati
al cancello del nostro giardinetto e così abbandoniamo le strade per entrare in un
fazzoletto di prato, pur striminzito.
Un piccolo assieparsi di pioppi tremuli ci svetta davanti, con le foglie che agitandosi
brillano sotto il sole. Possiamo sederci e ascoltare, al minimo soffio di vento, il canto di
questi pioppi. Qui abbiamo almeno qualche possibilità di udirlo. Ogni città dovrebbe
avere luoghi in cui poter percepire ciò che non è solo umano. Dove mettersi ad ascoltare la
voce del vento. Per addolcire la scansione meccanica dei ritmi quotidiani e la visione
ristretta del tempo rigidamente organizzato. Per rimettere tutto questo nell’orizzonte
terrestre, nel succedersi delle stagioni e delle ore geologiche. Luoghi di contemplazione
urbana. Quanti sforzi ci richiede una continua sfidante prigionia del tempo degli orologi.
E come un vento rinchiuso in una stanza, il tempo finisce per produrre sibili sinistri contro
le pareti. Guardateli invece i nostri pioppi maestri, ben radicati nel terreno e slanciati, con
le loro foglie che ondeggiano, flessibili e porose.
Non tutto è partenza e traguardo, non tutti i desideri hanno un soddisfacimento che è
meta e risultato. Esiste anche il desiderio di cantare. E di ballare. A cosa serve? Ad
alleggerire? Senza giocare con il vento la nostra vita soccomberebbe alla gravità. Il fuoco
della vita va alimentato. Bisogna soffiarci sopra. Come la brezza tra le foglie del pioppo.

Utopie urbane: il sogno di un calicanto metropolitano

Ecco che è riapparsa Alice. Di nuovo, con l’immaginazione, la seguiamo, stavolta non nel
mondo delle meraviglie bensì nella Casa dietro lo Specchio, un mondo immaginario in cui
tutto è all’incontrano. E lei che ha voluto recarvisi. E una differenza abbastanza
importante. Riflettere potrebbe voler dire anche cercare di guardare alle cose come sono
per immaginarsi come altro potrebbero essere, come potrebbero diventare, passando oltre
lo specchio, in una realtà con altre leggi. La fantasia può diventare strategia, una strategia
poetica per modificare il concreto. Del resto l’immaginario tende a diventare reale.
Dunque costruire un immaginario diverso potrebbe servire davvero per costruire diverse
città e diversi cittadini. Si tratterebbe di immaginare qualcosa che permetta poi di

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architettare, concretamente, un sogno. Combattendo, astuti e invisibili come Alice dietro lo
specchio, la visione monoculare di un utilitarismo gretto. Forse sapete del vizio di questa
bimba immaginaria di poter essere tante persone diverse. Assecondiamola, lasciamo che
Alice si trasformi per noi in diversi mentori che ci serviranno per riflettere, sotto i pioppi di
questo giardinetto a un primo sguardo non entusiasmante, sulle caratteristiche di una
possibile città ideale, con un verde urbano che si diversifica e si riprende tutte le sfumature
della natura e dei paesaggi più diversi. Una natura urbana che non si contrapponga alla
cultura e agli edifici né che si limiti a un carattere ornamentale, ma che sappia piuttosto
mostrare una bellezza frutto dell’intelligenza di uno sguardo sistemico.
La prima delle nostre guide immaginarie potrebbe essere James Hillman. Lo psicoanalista
è andato a cercare l’anima in città, e ci suggerisce in questa chiave alcune idee. Un solo
esempio.
Una prima caratteristica dell’anima, scrive, è quella di poter riflettere. Nelle nostre città la
capacità di riflessione dovrebbe comparire nella forma di specchi d’acqua, laghetti, zone
d’ombra, luoghi riparati dove la riflessione può avere luogo (Hiilman, Politica della
bellezza).
Come secondo mentore seguiamo Michel de Certeau, antropologo che ha dedicato uno dei
suoi libri, L’invenzione del quotidiano, all’uomo comune. In questo testo rende conto di una
sua ricerca sulle pratiche di spazio cittadine dei pedoni, i quali camminano con i loro corpi
vivi per le strade al di là dell’organizzazione urbana che ne pianifica con più o meno
intelligenza i percorsi. Studia i nomi che fra amici si danno ai luoghi, studia i ricordi che vi
si depositano. Guarda i modi e gli stili del cammino, le espressioni, i contatti, le sorprese.
Qualcosa di simile a ciò che fece la terza controfigura della nostra Alice metropolitana,
Guy Debord, autore più noto per aver saputo prevedere con precisione negli anni
Cinquanta le principali conseguenze sul mondo culturale e sociale dello sviluppo di una
realtà televisiva che cominciava allora a diffondersi. Egli si dedicò, con alcuni amici, a
quelli che chiamò esperimenti psicogeografici cittadini. Accanito nemico di tutte le
industrie dell’intrattenimento preconfezionato, standardizzato e a pagamento, si
proponeva di studiare i possibili effetti piacevoli dei luoghi sulla psiche alla ricerca di
modi felici di vivere lo spazio cittadino. Sosteneva che occorresse in tutti i modi
incoraggiare «en presence a qualche capitolazione visionaria», quale quella che può
derivare da una passeggiata senza alcuno scopo, da soli o con amici (Debord, Introduzione
a una critica della geografia urbana).
Una capitolazione visionaria come quella che abbiamo fatto seguendo Alice, tentando di
immaginare, mischiando la città al mondo delle Meraviglie, un urbanesimo sensoriale e
partecipativo. Un urbanesimo che non dimentichi la profumatissima e spettacolare
fioritura invernale dei calicanto, per esempio. I fiorellini bianchi dei calicanto fanno
esplodere infatti un forte profumo simile a quello dei gelsomini nell’austera e gelata aria di
gennaio. Una meraviglia.
Mi chiedo cosa succederebbe se i percorsi per andare a scuola variassero con le stagioni. In
inverno, passare fra i calicanto. In primavera accanto ai biancospini. E magari con strade
solo pedonali dedicate ai bambini, che così potrebbero tornarsene insieme liberando i

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genitori dal dovere di accompagnarli e andarli a prendere. Mi chiedo cosa succederebbe
se, con l’arrivo della primavera, gli studenti facessero lezioni nei parchi e nei giardini. E se
le abitazioni fossero di tanti tipi diversi e non solo palazzi e palazzine e villette. E se ci
fossero vari tipi di luoghi predisposti a incoraggiare la contemplazione urbana in tutte le
sue possibili forme, nelle diverse stagioni e nei differenti momenti del giorno.
Potrebbero sembrare solo sogni, ma ogni tanto cose di questo tipo accadono: persone che
trasformano spazi abbandonati in giardini per tutti. Giunte comunali che chiedono ai
bambini di collaborare con gli architetti per progettare spazi cittadini. Individui che per
aiutare piccole librerie a sopravvivere al monopolio delle grandi catene di distribuzione si
inventano strategie di festa e di pubblicità nei quartieri. Adulti che si incontrano nelle sere
estive lungo i fiumi a suonare e a ballare. Sotto i platani, tra i pioppi.
Ogni tanto abbiamo bisogno di leggerezza, la cronaca nera ha bisogno di un controcanto.
Se i giornali non si limitassero a fornire cattive notizie, ma indagassero le strategie mute
che eventi tanto negativi arrivano a produrre e dall’altra parte ci in- formassero di alcune
delle pur rare meraviglie che accadono, se ci fornissero mappe cittadine che guidassero ai
calicanto fioriti nel freddo, sarebbe più facile per l’anima spogliarsi un po’ dell’armatura
dell’insensibilità della folla. Diventerebbero per la città dei veri specchi da guardare e
attraversare strategicamente. Sarebbe felice Socrate, che potrebbe smettere di fare il tafano
e andare in giro a chiedere a tutti: siete proprio sicuri che ci piace come viviamo? Che ha
senso? E forse potrebbe uscire un po’ più spesso fuori le mura. E godersi l’ombra di un
platano accanto al fiume, disteso, a parlare d’amore.
Anche noi ora possiamo andare a distenderci sul prato per ascoltare insieme alle foglie dei
pioppi il nostro respiro e soffiare sul nostro fuoco. E alimentarlo. Tenere accesa la
curiosità, l’immaginazione. Il quieto tepore del corpo vivo. La gioia di sentire un profumo.
Chi vuole abbandoni pure la panchina, per sdraiarsi, comodamente, accanto alle lavande
laggiù.

Quarta passeggiata

L’esperienza filosofica della primavera: riflessioni mito-botaniche su nascita


e rinascita
Parco Nord, equinozio di primavera, alba e passaggio dal buio alla luce

«Ma se risvegliassero, i morti senza fine, una metafora in noi,


vedi, indicherebbero forse gli amenti delle spoglie
avellane, penduli, oppure
la pioggia, che sulla terra scura cade a primavera.
E noi che la felicità la pensiamo
in ascesa sentiremmo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,

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per una cosa felice che cade».
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, x.

Un teatro di glicine

Dopo aver passato la notte a risposare e pascolare beatamente nella mitica isola, fertile e
incantata, in cui risiedeva la maga Circe, i cavalli del carro solare si preparavano ad
attraversare ancora una volta il cielo. Ed è, con parole omeriche, l’arrivo dell’Aurora dalle
dita rosate.
Con un’immagine simile, in un inno vedico dedicato all’inizio della primavera, troviamo i
rosei raggi del mattino emergere senza ostacoli, «attaccando al loro carro le sollecite nubi
rosse. Riportando a tutte le cose la loro antica chiarezza, le rosse Aurore, hanno assunto
brillante splendore [...1 Ora abbiamo raggiunto l’altra sponda dell’oscurità. L’aurora
splendente, reca una limpida chiarezza. Sorride come un’incantatrice, lucente di gloria. La
sua bella sembianza ci sveglia alla gioia» (Panikkar, Gli inni cosmici dei Veda).
L’aurora è luminosa, delicata, prodiga e seducente. Come la primavera.
Tutto tace e dorme e la luce è ancora fioca. Ma è già possibile distinguere le forme e i
colori. Non c’è nessuno oltre a noi, a parte gli uccelli e i conigli che si possono intravedere
mentre attraversano veloci il grande prato ancora bagnato. Le margherite non sono aperte
di fronte al sole, troppo pallido. I fiori gialli del tarassaco si distinguono senza risplendere.
Ma dalla cima di questa modesta collinetta, lasciando che lo sguardo si abbandoni
all’ampiezza del grande spazio concesso fra gli alberi all’erba, possiamo godere delle
sfumature delicate e cangianti della luce. Tanto più che il prato sembra incorniciato come
un quadro dalle chiome di quei due pioppi neri che crescono alla base della collina, fra le
cui cortecce giace un lungo tronco abbattuto reso sedile comodo per poter sostare.
Guardando dall’altra parte della collina, la strada pedonale e la pista ciclabile che si
snodano tra i filari dei pioppi sono ancora vuote e silenziose. Senza il solito viavai diurno è
più facile lasciare che lo sguardo si spinga libero in ogni direzione verso i prati più in là
circondati dagli ippocastani e dai tigli. Se si guarda l’orizzonte si vedono in ogni direzione
i palazzi che confinano con il parco, ma senza i rumori delle strade trafficate in lontananza.

Il silenzio invita alla concentrazione e al raccoglimento. Guardando ciò che abbiamo


accanto, possiamo osservare le colonne di questa strana specie di teatrino ricoperte di un
folto glicine che presto fiorirà, con il suo superbo intreccio di lilla.
Anche il glicine, come l’alba, è tenue in attesa del suo trionfo primaverile.
L’esplosione dei suoi grappoli non può fiorire senza appoggio. Qui sono queste colonne a
permettergli di arrampicarsi, rifiuti non rifiutati di una fabbrica di armi su cui è cresciuta
l’erba. Materiali brutti e inutili trasformati in steli e gambi dal viluppo della pianta.
Rigenerati, vale a dire messi al mondo di nuovo con un nuovo senso, reggere un
pergolato, abbellire un teatro nel mezzo di un parco. Si guarda questo luogo e si fatica a
capire cos’è, perché esiste, a cosa serve. Vi si svolgono le attività più diverse. Un vago

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senso di stupore stordisce all’idea delle colonne che sbocceranno insieme al glicine prima
dell’arrivo dell’estate e che renderanno per qualche tempo questo luogo
meravigliosamente profumato.
Osserviamo la relazione tra il rampicante e la colonna. Così recita un motto zen
giapponese, un koan: «Essere o non essere. E come un glicine che si appoggia a un albero»
(Cattabiani, Florario). Il koan è una frase che mette in crisi la logica e il pensiero, talvolta
fino ad accedere a una conoscenza che è illuminazione, comprensione folgorante della
natura di un reale che eccede parole e ragionamenti.
Un koan può essere un albero per il glicine del risveglio nel buddismo zen.
In molte tradizioni la parola «risveglio» indica un tipo di conoscenza non nozionistica ma
spirituale che permette di essere felici e vedere le cose da un punto di vista più ampio o,
come disse una volta il Buddha, in modo sconfinato.

C’è una rigenerante possibilità di apertura, un peculiare tipo di piacere legato all’assenza
di categorie e griglie, nomi e pregiudizi, di cui i bambini piccoli sono spesso maestri. Un
antico ideogramma cinese indicava con un medesimo simbolo il bambino e il saggio.
Perché lo sguardo vergine del saggio rinnova ogni giorno l’esperienza del mondo. E lo
sguardo di colui che riesce a vivere nel principio. Nonostante lo scorrere del tempo. Colui
che ogni mattina si risveglia sentendo il miracolo del sole. Il risvegliato.
Eraclito dichiarava che per coloro che sapevano restare svegli ogni giorno «non solo il sole
è nuovo ogni giorno, ma è sempre nuovo di continuo» (Eraclito, I frammenti e le
testimonianze).
La semplicità, l’ingenuità, la freschezza, la meraviglia e l’allegria sono in questa chiave
testimonianza di saggezza, divengono sapere difficile e prezioso. «Oltre, lo sentiamo /
forma non serve — nome nemmeno / si lascia qui l’ingombro si depone / perché poi si
scavalca il mondo / e un volo si accende / immenso oltre l’aurora. Ah! Libertà vorticosa! /
Stare bene profondo. / Essere ogni cosa» (Gualtieri, Bestia di gioia).
Eraclito, Buddha, e molti altri saggi hanno parlato della possibilità del risveglio spirituale,
sempre sottolineando come tale conoscenza rendesse immortali. Può sembrare in contrasto
con l’elogio dell’importanza dell’esercizio del tramonto e del morire, ma è un contrasto
solo apparente. Accettata la morte come parte della vita, una volta riconciliati con la Certa,
non rimane che la vita. Parafrasando un verso di Quevedo, si diventerà polvere, ma
polvere innamorata.
Bisogna tuttavia comprendere come esercitarsi a rinascere, e a innamorarsi. Il memento
mori, ricordati che devi morire, si trasforma in memento vivere, ricordati di vivere.
Ricordarsi di vivere. Non è affatto scontato. Del resto svegliarsi ogni mattina non vuole
dire risvegliarsi.
Un paragone con il risveglio quotidiano può sembrare banale, un semplice gioco di parole.
Non è così. Rimane vero che ogni mattina si vive un’eco lontanissima e sbiadita di
un’esperienza che è quella di vedere tutte le volte la luce di nuovo e di nuovo il mondo. E
familiare a chiunque il sentire benefico di avere a disposizione rinnovate energie dopo il
riposo. La piacevolezza di lavarsi la faccia, aprire la finestra per cambiare l’aria.

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Ricominciare. Un’eco pallida, certo. Se non si sta male, e non si è troppo insoddisfatti della
propria routine, la freschezza mattutina è parente della primavera. I pensieri che la sera
appaiono foschi e contorti facilmente torneranno a essere più chiari e leggeri al mattino.
Ogni mattina, del resto, tutto riprende a essere, da capo.

In Egitto, ma anche in Polinesia, per celebrare il sorgere del sole si recitava


quotidianamente un mito cosmogonico. Pensate l’emozione di evocare in forma poetica, di
fronte al sole nascente, l’emergere primigenio della luce e della vita.
Fare le cose per la prima volta implica di solito stupore, richiede attenzione, intensità,
presenza. I vichinghi, ogni volta che conquistavano un nuovo territorio o una città, vi
recitavano alloro ingresso un poema che descriveva come gli dei avessero pian piano
messo in ordine prodigiosamente il caos informe che precedeva il mondo. Lo stesso
avveniva in diverse civiltà quando si costruiva una casa. Ogni volta che si vuole
cominciare a creare qualcosa, si fonda ciò che si fa, si celebrano la nascita e l’inizio. Si
allontanano pericoli e tristi presagi, si fa spazio al dischiudersi delle possibilità.
Le nostre inaugurazioni sono forme, spesso sbiadite, della stessa necessità. Si fa festa, si
presenta, si dispone. L’esempio delle inaugurazioni potrebbe dare l’idea di come a volte le
cose possano svuotarsi, smarrire il loro senso pieno. E avvenuto per diverse celebrazioni
che scandivano le nostre vite, per funerali o nuove nascite. Sono in molti casi diventate
formalità.
In un articolo dell’antropologa Carla Pasquinelli dal titolo Mettere in ordine la casa. Note per
un ‘ontologia domestica, l’autrice sottolinea che quando si mette in ordine la propria casa si
imitano, nel proprio microcosmo quotidiano, i gesti di un’antica cosmogonia. Si sceglie un
posto dove collocare ogni cosa e poi la si mette davvero là. Si fa ordine.
Nell’argomentazione di Carla Pasquinelli, l’analisi dei significati dello spazio universale e
di quello casalingo in diverse civiltà procede in parallelo. Fino a qualche decennio fa,
conclude l’autrice, le pulizie di primavera si svolgevano nelle case nei medesimi giorni,
per permettere di accendere il falò con le cose vecchie che occorreva distruggere. La
volontà di ordine e di pulizia doveva accordarsi e coordinarsi, tra gli uomini e con il
tempo delle stagioni. Era un rito, un modo di mettersi insieme, di collegarsi a un senso che
poteva aiutare a fare un po' di ordine in ciascuno e nel mondo.
Il primo magistrato di Creta, civiltà in cui natura e cultura non erano ancora contrapposte
ma alleate, si chiamava k6smos, che vuole dire universo e ordine.
Ma poi l’ordine si consolida, si irrigidisce e diventa regola, abitudine, routine.
Automatismo, obbligo. Adesso essere qui tra le nubi pastello che si sfilacciano tra i glicini
fa risuonare dentro ogni sfumatura di luce. Le parole di antichi miti cosmogonici ci fanno
godere appieno della meraviglia rosa dell’alba. Pensate se ci vedessimo qui ogni giorno,
per la medesima passeggiata: nessun colore del cielo riuscirebbe a salvarci dall’orizzonte
della noia. Tutto diverrebbe scontato. Lo scriveva amaramente già Seneca: «Il sole non ha
spettatori se non durante le eclissi» (Seneca, Questioni naturali).
Eppure questa dimensione sorgiva dell’esperienza, la qualità ingenua e fresca dei primi
sguardi, la sensazione dell’aurorale è qualcosa che istintualmente ha molto a che fare con

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la gioia. Varrebbe la pena di esercitarsi alla meraviglia. Sentite le parole aspre di Lucrezio
nel ricordare la necessità di una simile pratica per chi voglia diventare saggio e felice:
«Innanzitutto contempla il colore chiaro e puro del cielo e tutto quanto esso racchiude in
sé: gli astri erranti, la luna, il sole e la sua luce di incomparabile splendore : se tutte queste
cose oggi per la prima volta apparissero ai mortali, se bruscamente, all’improvviso,
sorgessero dinanzi al loro sguardo, che cosa si potrebbe menzionare di più meraviglioso di
questo insieme, del quale l’immaginazione umana neppure avrebbe osato concepire
l’esistenza? Nulla a mio parere, tanto prodigioso è uno spettacolo del genere. Guarda
adesso: nessuno, tanto ormai si è stanchi e stufi di questa vista, si degna più di alzare gli
occhi verso le regioni luminose del cielo» (Lucrezio, La natura).
Ma attenzione non è di per sé sinonimo di meraviglia. E rimane il contrasto di un invito
allo stupore con l’imperativo. La caratteristica peculiare di tale stato è la sorpresa, il suo
sorgere spontaneo e imprevisto. Difficile perciò pensare di ottenerlo con semplice
applicazione, fatica, impegno, sforzo.
Gregory Bateson racconta a questo proposito la storia del vecchio marinaio del poema di
Coleridge. Il protagonista ha ucciso un albatros, uccello simbolo di incanto e poesia, e ne
porta al collo il pesante cadavere. Da quando l’albatros morto gli pende gravoso addosso,
la sua navigazione non riesce a procedere, e la sua vita sembra andare avanti priva di
felicità ed entusiasmi, fredda e senza significato. Ma ecco che un giorno egli vedrà nuotare
nel mare dei serpenti marini che lasciano scie iridescenti nell’acqua e si commuove.
Incantato e pieno di gratitudine per quello spettacolo che trova di grande bellezza, ecco
che si libera dall’albatros morto e tutto può finalmente ricominciare, la sua navigazione, la
sua esistenza. E un riconoscimento improvviso e meravigliato della vita e della sua
bellezza, un’illuminazione. Se il marinaio si fosse riproposto di ottenere una simile
conoscenza, se si fosse messo a cercare i serpenti ripetendo a se stesso quanto fosse
importante trovarli per liberarsi dell’albatros, probabilmente nulla sarebbe accaduto.
Cerchiamo dunque di approfondire la natura di questa conoscenza che è anche
riconoscenza, percezione istintiva di un dono che si riceve e si rinnova. Primavera, primo
verde, primo fuoco. Tentiamo innanzitutto di identificare la folla di ostacoli nteriori che
possono impedire di gioire della rinascita stagionale dei fiori.

I pioppi bianchi sono anche neri: una porta invisibile

Platone nel Timeo ha scritto che le cose che si odo- io da bambini si ricordano in modo
straordinario vivo, ben più di altre, magari ancora vicine nel tempo e recentissime e subito
dimenticate. E perché, ci spiega, da piccoli si ascolta per gioco e con ;rande piacere.
Era anche un’indicazione filosofica epicurea:
«Nelle altre occupazioni a malapena, una volta compiute, giunge il frutto; nella filosofia
invece la gioia s’accompagna al conoscere: non infatti dopo l'apprendere il piacere, ma
insieme l’apprendere e I piacere» (Epicuro, Opere).
È invece uno dei difetti delle nostre scuole queta separazione tra studi e divertimento, tra

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desiIeri e doveri, tra corpo e pensiero. Un difetto che fra le cause e le conseguenze della
nostra separa:ione dalla terra.
Francesca Rigotti, nel suo libro Partorire con il corpo e con la mente, fa notare che la maggior
pare dei concetti che utilizziamo per pensare ha una matrice corporea e spaziale, mutuata
dai cosiddetti saperi minori. E che ogni descrizione di creatività intellettuale affonda le sue
radici nell’esperienza della nascita. «Concetto» viene da concepire. «Spiegare» dallo
stendere un tessuto.
In diverse opere Francesca Rigotti tematizza quello che chiama il problema del paradosso
di Arianna della filosofia e dei saperi occidentali: aver disprezzato e sottovalutato il
contributo del corpo nella conoscenza, al punto che tutti i saperi legati alla cura e alla
trasformazione della materia e del corpo sono diventati minori e sono stati esclusi
dall’istruzione ufficiale. La tessitura, la cucina per esempio. E importante solo l’astrazione.
Il più grande dei peccati culturali, sostiene la psicoanalista Lou Andreas-Salomé, è quello
di smettere di dare la dovuta importanza alla base fisiologica e corporea del nostro vivere,
al mangiare e al dormire, al nascere e al morire. La cultura dovrebbe servire piuttosto per
dare forma significativa a queste azioni, che sono il tessuto vivente senza il quale nulla
può esistere.
Come una fontana deve sempre far ricadere i getti che si slanciano verso l’alto nel suo
bacino, così il pensiero e l’invenzione devono sempre tornare ad alimentare il benessere
della nostra vita corporea, inseparabile da quella spirituale. Creo in latino vuole dire faccio
crescere l’erba, le piantine. Autore e autorità hanno una radice simile, provengono dal
verbo augere, che significa far crescere da un terre- fertile. La radice indoeuropea indica che
si tratta una prerogativa esclusiva degli dei e delle grandi forze naturali, un atto di
creazione. A dispetto di Bacone, il quale scrisse che generare figli è umano mentre creare
opere è divino, possiamo pensare che entrambi, sia gli autori dei bambini che i genitori i
libri, possano essere umani o divini.
E, checché ne pensi Bacone, torturare la natura per carpirne i segreti non può non
equivalere a torturare la nostra stessa natura, la nostra sensibilità animale.
In greco esistevano due modi diversi e complementari per indicare la vita. La parola bios,
da cui biografia, che designava la vita legata al nostro nome e la nostra storia, che iniziava
con la data di nascita e terminava il giorno della morte. E poi la zoè, da cui zoologia, che
designava invece la vita universale che ciascuno di noi si porta dentro, intrecciata alla bios
ma più ampia, vita senza nome e di là del pensiero, animale o animica che dir si voglia.
E quando arriviamo a costruire gli zoo e le gabbie, assieme agli animali rinchiudiamo
questa nostra parte dell’anima, invisibile. A volte, purtroppo, i nostri spazi cittadini e
quotidiani, gli appartamenti gli uffici, le scuole, finiscono per parcellizzare e restringere gli
spazi di vita al punto da somigliare alle gabbie degli zoo.
Nel ricostruire la storia del rapporto con l’idea di natura della nostra filosofia e cultura,
Pierre Hadot distinse, ben consapevole del loro inevitabile intersecarsi, due atteggiamenti
diversi. Quello che definì come prometeico implica una contrapposizione e una guerra, un
continuo tentativo di appropriazione e dominio. Il secondo lo ricollegò invece a Orfeo,
figura mitica di musicista e cantore, le cui melodie sapevano incantare tutti gli esseri, i

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pesci nelle acque, gli uccelli nel cielo, addirittura le pietre. Il suo era un canto creatore, che
celebrava il mondo e la natura facendosi mondo e natura, la sua lira sapeva risuonare
assieme agli usignoli e accordarsi al vento. Si diceva che Orfeo fosse disceso nell’Ade, il
regno greco dell’oltretomba, da vivo. E che il suo canto cosmico sapesse destare
incontenibile meraviglia e gratitudine per la bellezza di tutto ciò che vive ed è destinato a
scomparire.
Ora vi invito a osservare le foglie di questi pioppi bianchi, molto scure da un lato, molto
chiare dall’altro, al punto da creare un’iridescenza argentea di grande bellezza. In alcune
tombe risalenti al v secolo a.C. sono state trovate delle laminette, cosiddette orfiche, che
davano alcune indicazioni metaforiche per il percorso dell’anima dopo la morte. Sulle
laminette si legge che vicino a un cipresso bianco, albero che alcuni studiosi
contemporanei hanno appunto voluto identificare con il pioppo bianco, si trovava una
fonte sacra alla dea Mnemosine, Memoria. L’anima assetata che desiderava abbeverarsi
doveva trattenersi dal desiderio di bere a un primo fiume detto Lete, vale a dire oblio, e
chiedere piuttosto il permesso di attingere l‘acqua alla seconda fonte.
Per poter bere l’anima doveva dichiarare ai custodi di questa fonte di essere figlio della
Terra e del Cielo. Si narrava che, bevendo l’acqua di Mnemosine, l’anima andasse incontro
alla saggezza e potesse ricordare, nel ciclo delle successive incarnazioni, il principio e
l’origine, il suo legame con la erra e il cielo e l’invisibile.
Non importa se si creda o meno alla metempsicosi, cioè alla reincarnazione dell’anima. Si
tratta anche di un simbolo, di una metafora. Il fatto che per bere alla fonte della saggezza
bisognasse riconoscersi e presentarsi come figli della terra e del cielo sembra il segno
tangibile della consapevolezza Del singolo di essere parte del tutto e della natura.
consapevolezza dell’intreccio di bios e zoé. Con le attuatali parole del poeta Chlebnikov: «Io
non porto cappelli professorali / io non porto calzari professorali / il nudo cielo è il mio
cappello / la nuda terra mie scarpe» (Chlebnikov, 47 poesie facili e una ‘difficile).

Figli del cielo e della terra e non solo impiegati o professori, titolari di appartamenti o
nullatenenti.
Il fatto che bisognasse poi trattenersi dall’urgenza del desiderio di bere pur essendo
assetati, mitologema presente in diverse tradizioni, sembra alludere a una capacità di
prescindere dalla volontà irriflessa e istintiva di appropriazione.
Occorreva sapersi trattenere, ma poi bere. Anche questo è significativo. Perché nella nostra
cultura l’esercizio di prescindere dal desiderio di dominio e di uso si è spesso trasformato
nella condanna del desiderio tout court. Desiderio che è stato così ride- finito come basso e
irrimediabilmente individuale e competitivo nei confronti degli altri e di tutto il resto. Un
desiderio che diviene immediatamente voglia di possesso di oggetti, anche quando
riguarda persone e non cose. Così la fame, la sessualità, tutte le esigenze corporee e
fisiologiche diventano imprigionanti e negative. Invece in questa leggenda il problema
non era che bere fosse un male in sé (così come mangiare o fare l’amore, se vogliamo
proseguire con la nostra interpretazione del mito), ma di essere capaci di non bere subito,

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per forza e al di là di tutto, di non desiderare l’acqua, come oggetto senza vita propria.
Dopo, si poteva, anzi doveva, attingere alla fonte di Memoria, a sua volta figlia di Urano e
Gea, del cielo e della terra. Per l’uomo bere alla fonte di questa dea poteva rappresentare la
possibilità di mantenere il ricordo di ciò che è eterno nella fuga del tempo, un ricordo e
una conoscenza che è riconoscimento e riconoscenza in relazione all’origine e alla vita
della natura.
E possibile forse all’uomo avere sete e non soggiacere all’urgenza dell’arsura per scegliere
di dissetarsi un po’ più in là con un’acqua che non è solo strumento della nostra volontà di
bere ma che è anche ricordo di essere figli del cielo e della terra.
E questa consapevolezza è Memoria, una mediazione tra l’uomo e il tutto, un coniugarsi
della necessità della morte a quella della vita.
Mnemosine era anche la madre delle Muse, le dee che avevano il potere di ispirare le arti
umane. Ispirarle perché si credeva che la loro matrice, come l’aria, non appartenesse
all’uomo soltanto, piuttosto l’uomo doveva fare spazio e accogliere qualcosa di più grande
di lui. Generare implica un dare e un ricevere. Il genio, termine che a sua volta proviene
dalla radice di «generare», è forse colui che con naturalezza accoglie l’informe e dà forma.
Con le parole, la voce, le mani. Con il corpo e con lo spirito. Con la notte e il giorno che
stanno insieme come i due lati delle foglie di questi pioppi. Che come tutti i pioppi, e come
Orfeo, cantano assieme al vento. Con le parole di Rilke: «Il canto che tu insegni non è
brama, non cerca meta che s’attinga al termine. Canto è esistenza» (Rilke, Poesie).

Ma la poesia prosegue dicendo che è cosa facile per gli dei, non certo per gli uomini
seguire l’esempio di Orfeo. Agire senza agire, volere senza volere, agli uomini richiede
molto esercizio. Gli antichi filosofi stoici avevano riflettuto a fondo su questo punto. Fino
ad arrivare a una disciplina del desiderio che li conducesse all’amorfati, cioè
all’innamoramento verso ciò che naturalmente accade:
«Non devi cercare di ottenere che gli avvenimenti avvengano come tu vuoi, ma desiderare
gli avvenimenti così come avvengono e sarai sereno» (Marco Aurelio, Pensieri). Fino ad
arrivare al punto che «tutto ciò che è in armonia con te è in armonia con me, o Mondo!
Nulla di ciò che per te arriva al momento giusto arriva per me troppo presto o troppo
tardi! Tutto ciò che le tue stagioni producono, o Natura, è per me un frutto: da te viene
tutto, in te è tutto, a te viene tutto» (Marco Aurelio, Pensieri). Desiderare e amare assieme al
mondo e non contro di esso. Questo implicava tuttavia una strana spontaneità che
presuppone una pratica. E come nelle arti zen, in cui ci si esercita moltissimo in una
tecnica per poter prescindere dalla tecnica stessa e si arriva al risultato quando si rinuncia
al risultato.
Questa idea non è così lontana dalla disciplina dell’azione stoica che si associava alla
disciplina del desiderio. Per gli stoici esercitarsi all’azione significava esercitarsi ad agire al
di là del risultato o, con le loro parole, esercitarsi ad agire con clausola di riserva, cioè con
la costante consapevolezza che non tutto dipende da noi ed è gestibile negli accadimenti
della vita. Ciò che dipende da noi è piuttosto il nostro modo di viverli e sentirli.
Fino ad arrivare, come Orfeo, a vedere la bellezza e l’armonia in tutto quello che nasce e

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rinasce, la gratitudine per ciò che mangiamo e beviamo e per tutto quello che amiamo e ci
si offre. Per il sonno e per la veglia, e l’inverno e la primavera e il lato chiaro e il lato scuro
di queste foglie di pioppo che grazie al contrasto dei lati risplendono più intensamente. Il
pianto delle Eliadi, le sorelle di Fe- tonte e dei pioppi neri, è così trasfigurato e cantato
felicemente dal vento sulla terra avvolta dal cielo.
Ora ci incamminiamo e, come vedrete, costeggeremo dei vecchi ruderi che i rovi stanno
riconquistando alla terra. Ci fermeremo a guardarli e faremo un antico esercizio stoico.
Andiamo.

Stoicamente, fra mura inghiottite dai rovi

Di primo acchito questa casa diroccata e inselvatjchita accanto a cui si snoda il nostro
sentiero ci appare un po’ malinconica, una sconfitta, un abbandono, lo scorrere impietoso
di un tempo che consuma e distrugge. Un contrasto con tutte le sfumature di verde che
esplodono grazie alle nuove foglie degli alberi tutt’intorno. Un contrasto con il sottobosco
fiorito di pervinche e di viole, con il giallo delicato delle primule selvatiche. Ma questo è il
giudizio che noi diamo pensando a qualcosa che sta morendo e finendo, senza tenere
conto degli esiti possibili di una successiva trasformazione.
Guardiamo dunque la casa in mezzo ai rovi, il brulicare delle lucertole, le pietre ricoperte
dai rami spinosi, con sguardo stoico, ricordando le parole di Marco Aurelio: «Qualsiasi
cosa capiti, è consueta e ovvia come le rose a primavera e la frutta d’estate; questo vale
anche per le malattie, la morte, la calunnia, l’insidia e tutto ciò che rallegra o rattrista gli
stolti» (Marco Aurelio, Pensieri).
Amore del fato. Amore di una primavera capace di non dimenticare l’autunno. E viceversa
di un autunno capace di non dimenticare la primavera.
Continuando a camminare lungo il nostro sentiero sarà un esplodere del giallo delle
forsizie. Di gemme che se ne stanno gonfie e lussureggianti sui rami dei biancospini e dei
noccioli. Godiamo di una tale esplosione di vita, rievocando però nel transito il nostro
passaggio autunnale per questi stessi sentieri. I bei colori degli alberi rosseggianti della
sera hanno lasciato il posto ai nuovi verdi nel mattino. Camminiamo memori di queste
alternanze, sereni come coloro che si esercitano a non avere paura di ciò che normalmente
si considera negativo. Tentando di imparentarci alle ginestre che ancora devono fiorire e ci
circondano, intrecciando i loro futuri fiori a quelli invernali e spogli nel ricordo della
stagione passata, camminiamo. Stoicamente, camminiamo.

Un pino silvestre, straniero sempreverde

Eccoci al pino che, alle soglie dell’autunno, si preparava a soffrire della mancanza di sole e
luce senza perdere neppure una foglia. AI pino silvestre straniero ed estraneo all’aria
inquinata delle città. Come vedete, sembra stare meglio. I suoi aghi sono ora di un bel

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verde brillante. Tra aprile e maggio si apriranno gli amenti maschili per diffondere con il
vento i pollini.
Le pigne sono da sempre simbolo di fecondità e il legno pare fosse usato per le fiaccole
delle nozze nell’antica Roma. I fiori sono sia maschili che femminili, e in effetti nelle
Metamorfosi di Ovidio il pino è il corpo vegetale di un fanciullo androgino, Attis, celebrato
in Frigia a poi a Roma con l’arrivo della primavera con una festa che durava dal 15 al 28
marzo. Fino al 22 ci si dedicava ai tristia, commemorazioni della morte e della mitologica
evirazione di Attis, e dal 23 se ne celebrava la rinascita.

In Grecia invece le feste di primavera erano dedicate a Dioniso, di cui uno dei simboli era
appunto la pigna, che compariva nelle rappresentazioni del dio e dei suoi seguaci in cima
a un bastone rituale chiamato tirso.
Anche Dioniso del resto, come Orfeo, si recò nell’oltretomba da vivo alla ricerca di sua
madre. Durante questo viaggio, per vivere tale esperienza di conoscenza, dovette
trasformarsi in donna. In effetti Dioniso era dio androgino, come Attis e come i fiori del
pino, maschio e femmina insieme, nonché dio associato a culti legati alla sacralizzazione
della sfera sessuale, come il dio Shiva in India. Era rappresentato spesso in forma di fallo,
come il dio indù.
Possiamo collegare tutto questo a quanto abbiamo detto di Orfeo, del suo canto e della
fonte della dea Memoria sotto i pioppi. Ricordate? L’idea che i desideri, la vita animale e
fisiologica non fosse inferiore a quella intellettuale o di pensiero nell’esperienza umana. In
effetti Dioniso era il dio della vita corporea, ebbrezza del vino e gioia del banchetto, della
festa, del riso, dello stupore, della rinascita e della primavera. Dio della vita sentita come
zoé, cioè vita infinita, sconfinata, senza morte, vale a dire eternamente mortale e dunque
immortale, visibile e invisibile, non interamente descrivibile, come tutto ciò che riguardava
i culti misterici di Dioniso.

Un frammento del filosofo Eraclito dice: «In effetti, se le processioni che fanno e il canto
del fallo non fossero per Dioniso, le azioni che compiono sarebbero le più vergognose: ma
Ade [il dio degli Inferi] e Dioniso, per il quale essi folleggiano e baccheggiano, sono la
medesima cosa» (Eraclito, I frammenti e le testimonianze).
Potremmo tradurre a questo punto il frammento eracliteo con termini più comprensibili:
poiché, e laddove, il dio della vita e della morte sono una medesima cosa, vale a dire non
esistono paradisi e inferni come normalmente vengono intesi dalla religioni, ma solo
aspetti visibili e invisibili in una vita che continuamente si trasforma, crea e distrugge,
senza per questo mostrarsi priva di senso e di spirito, allora la stessa sessualità, e tutte le
altre funzioni fisiologiche grazie alle quali la vita si mantiene ed è, hanno natura spirituale
e significativa in sé.
Ma la sacralità o meno ditali azioni non dipende dal tipo di atti — mangiare o pregare,
bere, fare l’amore — ma dal modo in cui si compiono, dall’attitudine e dal senso che
assumono. Se non fossero canti in onore di Dioniso, sarebbero osceni, scrive Eraclito. Se il
desiderio diviene desiderio di uso e scarica libidica che non implica il rispetto e la

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gratitudine, allora, potremmo forse dire in termini odierni, diviene pornografia.
Vita corporea privata dello spirito. La differenza non starebbe nella materialità degli atti
compiuti, più o meno normali e morigerati secondo un codice morale, quanto più nel
sentire e nella qualità di esperienza che sottendono.
Prendiamo le sculture a soggetto erotico piuttosto sfrenato di diversi templi indiani, tra cui
il più celebre è quello di Khajuraho. Potremmo ricondurre le diverse scene rappresentate
alle categorie pornografiche di un sito come YouPorn: rapporto anale, orale e così via. Ma
credo che chiunque, senza neppure riflettere a lungo, potrebbe descrivere la differenza dei
moti d’animo suscitati dai due tipi di immagine. Da una parte le sculture, degne di
stupore per la bellezza dei seni tondeggianti e delle braccia che divengono rami, dall’altra
parte i filmati pornografici, figli dell’Oblio del cielo e della terra a uso e consumo delle vite
nelle gabbie. Ma non è questione di moralismo né di condanna della dimensione erotica.
Anzi. La primavera è associata in tutte le tradizioni alla fioritura dell’amore. Perché non si
può nascere né rinascere né vivere senza voluttà.
Lo stupore per l’esplosione della fioritura primaverile, l’arte di seduzione del fiore che
sboccia, il brivido di fronte alla bellezza amorale della natura, era esperienza per cui gli
antichi greci disponevano di un vocabolo, aidos, che viene perlopiù tradotto come pudore
nei confronti del sacro, in quanto mistero da rispettare: «La pudica riservatezza davanti
all’intangibile, la dolcezza e il timore estranei a ogni sfrontatezza, lo stupire e il rimanere
ammutoliti di fronte al miracolo della purezza, che è in sé al contempo sacro silenzio»
(Kerényi, Miti e misteri). Nell’Ippolito di Euripide troviamo: «Dove il pastore ha pudore di
pascolare le greggi, dove non irrompe l’affilatezza d’alcun ferro, e solo l’ape ronzante sosta
in primavera; qui regna la dolcezza [aidos] e stilla la rugiada del puro elemento» (Otto, Le
Muse e l’origine divina della parola e del canto).
Aidos era anche uno dei nomi di Artemide e delle sue Ninfe: si racconta che chi avesse
avuto l’impudenza di guardarle nude senza il loro permesso, sarebbe diventato cieco.
Aidéomai è un verbo che si può applicare a tutti gli elementi inviolati della natura. Si tratta
di un’esperienza di stupore, incanto e al tempo stesso timore che il grecista Kerényi
descrive così: «Qui non esiste alcun conflitto tra visibile e invisibile, fra morale e naturale,
fra spirituale e fisico. In questa concezione del mondo è qualcos’altro che non è stato
armonizzato: l’immagine complessiva del mondo. il mondo reale ha una pluralità di
aspetti e offre immagini differenti» (Kerényi, Miti e misteri). Vale a dire biodiversità, lo
stupore della realtà di un uomo di fronte a una certa inesauribile eterogeneità di una
donna e viceversa, la distanza fra la natura di un serpente e di un volatile, fra le nuvole e
l’erba. È la vertigine della molteplicità delle differenze fra tutti gli esseri che convive con il
mistero di una loro sostanziale unità.
E l’umiltà che ne deriva intesa non come assenza di stima e possibilità di domandare, ma
come consapevolezza della plurivocità irriducibile delle risposte e quindi il
ridimensionamento delle proprie pretese. Gli antichi greci ritenevano che l’aidos è il
contrario dell’arroganza, della hybris, del sentimento certo e univoco.
Aidoion sono in greco i genitali, misteriose matrici, al di là di ogni dualismo, di tutto ciò
che è. Sacri a Dioniso, che trasfigura la morte in una vita sentita come gioia completa e

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incontenibile, pericolosa per l’io, la coscienza e il pensiero, nel momento in cui mostra loro
che sono solo una piccola parte del tutto, non la più importante, una delle tante possibili.
In Grecia Dioniso era anche il dio straniero, colui che simbolicamente veniva sempre da
fuori. Il perturbante, l’illogico. Colui che mostrava i limiti di ciò che è abituale,
amministrabile, ragionevole.
Naturalmente non è mia intenzione calunniare il pensiero, meraviglioso dono dell’umano
che si aggiunge a tutte le altre forme della vita terrestre che gli danno nutrimento ed
esistenza. Pensiero, che al contrario di quanto sostiene una tradizione culturale consolidata
in Occidente e non solo, potrebbe allearsi al sole e alla luce e fiorire assieme lle gioie delle
mani e degli occhi, divenire lucido dopo un buon sonno, godendo dell’aria mattutina.
Concediamoci ora dunque ancora un po’ di movimento. In autunno abbiamo raccontato
della faticosa resistenza sempreverde del pino al diminuire della luce. Ora guardiamo alla
sua gioia compie a Alle pigne e alla resina. E con la bella immagine della corteccia bruno-
rossastra e il profumo e il verde nuovissimo degli aghi sottili, proseguiamo la nostra
ricerca e il cammino.

Cinicamente... oltre un ponte

Dobbiamo passare da una parte all’altra del parco. Quella da cui proveniamo è un pò più
selvatica, oltre il ponte ci aspettano viali e filari di ippocastani pioppi cipressini, la matrice
artificiale e progettata dei luogo è maggiormente visibile, laddove qui troviamo ancora
intrichi di caprifogli e cespugli di ore, fichi che spuntano all’improvviso e pioppi
indisciplinati e fruscianti.
In mezzo, la superstrada che divide le due aree.
Vi chiedo di guardare a questo ponte che attraversiamo con occhio cinico. Cinico nel senso
di un antico motto di Diogene, che invitava a cambiare il valore della moneta, ossia
trasfigurare i valori, prendersi la libertà di attribuire importanza o meno sulla base di
giudizi non standardizzati. Nei casi più estremi, superare tutte le convenzioni umane.

Senza immaginarsi esercizi troppo difficili, proviamo a suggerire alcuni usi modesti e
possibili di questa indicazione cinica.

Un gruppo di urbanisti, osservando il funzionamento del mondo vegetale, a dispetto della


sempre più diffusa architettura della paura, parcellizzata e ipercontrollata, ha voluto
progettare spazi cittadini equivalenti a ciò che in natura sono le siepi, gli eco- toni. Luoghi
di passaggio e comunicazione da uno spazio all’altro. Così mi appare questo ponte che
permette al parco di passare sopra la città e di andare a costituire un piano superiore per le
rose selvatiche e i pedoni, l’edera e i ciclisti, l’ibisco e i cani. Con questo ponte, a dispetto
di ciò che è più consueto e frequente, l’intelligenza e la tecnica sono state messe al servizio
della gioia di poter passeggiare fra gli alberi.

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Nell’attraversarlo propongo una poesia della polacca Szymborska: «Ieri mi sono
comportata male nel cosmo. / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza
stupirmi di niente. / Ho svolto attività quotidiane, /come se ciò fosse tutto il dovuto. /
Inspirazione, / espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze, / ma senza un pensiero che
andasse più in là / dell’uscire di casa e del tornarmene a casa. / Il mondo avrebbe potuto
essere preso per un mondo folle, / e io l’ho preso solo per uso ordinario. / E...] Il savoir-
vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa da noi»
(Szymborska, La gioia di scrivere). Esige talvolta di provare a cambiare il valore della
moneta, di non accettare acriticamente l’esistente, di non dare tutto per scontato.
Andiamo, ci aspetta ora, al di là, la misteriosa buca e la sua amica bianca e intrigante, la
sottile betulla.

La misteriosa radura della betulla

È l’essere nascosto a mio avviso, il suo non darsi immediatamente allo sguardo, a rendere
bello questo prato. E l’incomprensibiità a rendere degna di nota questa buca modesta, con
quel poco d’acqua che raccoglie.

«La natura ama nascondersi» scrisse Eraclito in quell’opera che depose ai piedi della
statua dalle molte mammelle della dea Artemide, nel tempio di Efeso. E un tema filosofico
molto antico, riguarda il segreto di natura o, potremmo anche dire, il mistero della realtà.
Più di duemila anni dopo Goethe, si dedicò allo studio della vita vegetale a partire dal
presupposto che essa costituisse un miracolo costante che avviene continuamente davanti
a noi eppure difficile da riconoscere e notare. In una poesia intitolata Epirrema,
letteralmente «tutto ciò che scorre e diviene», definisce la Natura intera come divino,
palese mistero, parvenza verace, gioco austero e con altri ossimori, fino all’affermazione
secondo cui ogni singolo essere vivente è sempre Molteplicità.
Lascio sospeso ancora per un poco questo enigma e vi racconto una storia che potrebbe
aiutarci a risolverlo. Si tratta di una leggenda balinese narrata da Gregory Bateson in Non
sappia la tua sinistra (Bateson, Dove gli angeli esitano).
Un giorno Adji Darma ricevette in dono la Capacità di comprendere il linguaggio degli
animali dopo aver denunciato al re dei serpenti l’amore illecito di una vipera con un cobra.
Doveva tuttavia tenere segreto il regalo ricevuto. Una sera era a letto con sua moglie
quando udì dei gechi sul tetto raccontarsi barzellette oscene. Allora non riuscì a non ridere.
Naturalmente la moglie non comprese il motivo delle sue risate e gli chiese spiegazioni.
Lui cercò di minimizzare, spiegò che stava ridendo senza un motivo, ma la moglie non gli
credette e cominciò ad accusano di ridere di lei e di non amarla più. Adji, deciso a
custodire il segreto nonostante le insistenze della consorte, continuò a non dire nulla.
Questo rattristò a tal punto la donna da farla precipitare nella depressione, ammalarsi e
morire. Adji fu allora preso dal rimorso: si sentiva un egoista che, per non perdere il suo
privilegio, aveva causato la morte dell’amata. Decise perciò di buttarsi sulla pira funebre
assieme a lei. Ma quando era sul punto di farlo si avvicinarono un capro e una capretta e

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lui ascoltò la loro conversazione. La capretta chiedeva al capro di prenderle delle foglie
lontane e il capro rispondeva semplicemente belando, così la capretta cominciava a
lamentarsi del disamore di lui e il maschio replicava belando. A quel punto Adji capì di
non essere il responsabile della morte di sua moglie e se ne tornò a casa.
Il tema di imparare a parlare con gli animali, come dono fatato da custodire segretamente,
ricorre in diverse fiabe e mitologie. Così era per Cenerentola, o Biancaneve e molti altri.
Capire la lingua degli animali potrebbe essere metafora di un ricongiungimento, inteso
filosoficamente, con quella che abbiamo chiamato la zoé, la vita in noi di un frammento
dell’anima del mondo. Il fatto che si tratti sempre di un dono da parte di entità magiche o
invisibili, comunque non umane, potrebbe alludere all’idea che tale capacità non dipenda
solo dalla volontà e non possa essere ottenuta seguendo piani totalmente umani. E forse
anche uno dei motivi per cui tale linguaggio deve rimanere un segreto per gli altri uomini.
Ma non l’unico. Mi pare infatti che con la necessità del segreto venga sottolineata e messa
in luce altresì la natura ineffabile, non completamente dicibile, di tale conoscenza. Ma
neppure questo è sufficiente. Credo vi sia un ulteriore riferimento all’idea secondo cui
l’uomo non può spiegare e comprendere tutto, almeno riguardo all’ordine degli esseri nel
cosmo. Rimarrà sempre una certa incomprensibilità rispetto alle molteplici logiche che
regolano il sentire e la vita delle diverse specie e dei differenti generi. Tra cobra e vipere o
tra maschile e femminile.
La conoscenza ottenuta da Adji lo porta esattamente alla comprensione del fatto che non
sempre è possibile parlare la stessa lingua e capirsi, e che possono esistere sistemi
esistenziali lontani da quello umano, così come distanze incommensurabili e cose
inspiegabili anche fra uomini e donne, o fra individui. Che esistono differenze che non
possono essere comprese e che dunque bisogna accettare senza tormentarsi e senza
pretendere chiarimenti.
Come non si può in fondo comprendere il perché si nasce per morire.
Un inno tantrico di lode a Prakriti, la natura, la invoca come colei che fa ciò che noi non
possiamo comprendere. Potrebbe essere il senso della strana storia balinese di Adji, così
come della sentenza di Eraclito, «la natura ama nascondersi». La quale può essere tradotta
anche, grazie all’ambivalenza della lingua greca, «ciò che nasce ama morire». O ancora, «il
processo di costituzione delle cose che nascono, è difficile da conoscere» (Hadot, Il velo di
Iside).
Ogni esplorazione e sconfinamento, ogni accettazione del mistero richiede un tuffo, una
certa dose di coraggio. Non ci vuole coraggio solo per lasciare andare e accettare o
guardare cose negative. Anche tuffarsi nella bellezza, o nell’amore, spesso è difficile.
Lasciarsi sbocciare a primavera. Cambiare la pelle come i serpenti con le prime giornate di
sole.
Questa betulla, sorella silenziosa e frusciante della buca ai suoi piedi, nella sua enigmatica
delicatezza, mi appare come un simbolo vivente del coraggio di fare le capriole o
abbandonarsi alle intuizioni o alla fiducia. O a quello che i bambini provano giocando a
scavare buche nel terreno. Perché la betulla non è solo una pianta pioniera, come il
nocciòlo, che coraggiosamente s’infiltra nel terreno e cresce nonostante tutto, spargendo i

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suoi semi nel vento. Non solo è la prima nelle fredde primavere russe a osare il rinnovarsi
delle foglie. Non solo.
E pianta aurorale anche nel nome e nella leggenda. Nobile anticonformista dall’esile
tronco bianco, che è solita spingersi, a dispetto della sua apparente fragilità e della sua vita
arborea tutto sommato breve, fino ai limiti più estremi e remoti della tundra, la betulla è
celebrata come albero cosmico e sacro in diverse tradizioni sciamaniche siberiane. Tra i
samoiedi una leggenda la vede all’inizio del mondo, in una storia di creazione, assieme a
uno sciamano il cui nome significa proprio «Colui che si immerge» (Eliade, Lo
sciamanesimo e le tecniche dell’estasi). E gli sciamani erano i detentori di un sapere estatico,
capace di uscire da sé e dal proprio consueto modo di percepire e di intendere il reale,
anche attraverso tecniche di trasformazione piuttosto pericolose ed estreme che
richiedevano molto coraggio. Che richiedevano di imparare a morire per rinascere.
I celti associavano questo albero al primo mese dell’inverno, dopo il solstizio, e gli antichi
contadini europei pare usassero verghe di betulla per cacciare lo spirito dell’anno vecchio
(Graves, La Dea bianca). Il suo nome potrebbe derivare dalla radice indoeuropea Bhirg, che
indica la luce e la luminosità, ciò che splende e brilla come il fuoco. Dalla stessa radice
viene il nome di una dea irlandese, Brigit, la luminosa. Protettrice dei fabbri e dei medici,
che bruciano e sciolgono malattie e metalli, era anche dea della poesia e dei poeti, portatori
di quell’ardore che illumina la vita e la purifica, dei versi e dell’ispirazione cui ci si può
solo abbandonarsi e soggiacere, madre delle Muse e delle arti, come la greca Mnemosne
(Green, Dizionario di mitologia celtica). La sua festa, il primo febbraio, l’antica Imbolch, che
nella liturgia cristiana diventò la Candelora legata a santa Brigida, festa legata anche al
parto e alle nascite, inaugurava proprio il mese che in latino è detto delle febbri, e tutti
sappiamo a cosa serve la febbre, a scacciare le infezioni, a guarire; la febbre purifica, con il
fuoco della temperatura corporea che si alza.
In un mito di creazione irlandese è proprio Bngit a creare la terra, acconsentendo alla
coraggiosa idea di tuffarsi in un ignoto e oscuro abisso, l’abisso che era la terra prima di
essere la terra, dopo essersi accorta che quella voragine oscura e informe aveva sognato la
bellezza. Di quel canto lascio risuonare alcuni versi: «Lasciate che l’onda si franga, lasciate
che la stella sorga, lasciate che la fiamma s’innalzi» (Young, Le meravigliose leggende
celtiche). La terra, spiega Brigit dopo aver cantato, ha sognato la bellezza, «ha sognato il
bianco silenzio dell’alba, la stella che sorge prima del levarsi del sole e una musica simile
alla musica del mio canto» (Young, Le meravigliose leggende celtiche). Perciò la dea vi si deve
recare per stendere il suo mantello di gioia intorno all’abisso e gli altri la seguono, pur
riluttanti all’idea di dover cadere in quel buco nero sotto di loro.

In Russia, il primo maggio ancora fino al Novecento, le bambine, secondo un’usanza


ancestrale, andavano in giro per le case e le campagne vestite di bianco con corone di fiori
intrecciate nei capelli. Graziose come betulle celebravano l’esultanza della fioritura di
maggio appendendo nastrini di buon augurio a questi alberi, danzando e cantando.
E allora adesso basta con le parole. Andiamo.

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Con Epicuro i tronchi e l’edera, ancora una volta

Lasciamo posto ai suoni e al bosco. Cerchiamo di attraversarlo senza violarne il mistero.


Anche se è un luogo in apparenza modesto e per nulla solenne, se guardate il sottobosco,
qua e là, bianchi come betulle e ancor più delicati, vedrete spuntare i bucaneve. I candidi
anemoni dei boschi, le viole scure e nascoste. Il prato sembra un ricamo. Un dipinto della
primavera stessa che oggi comincia e che già si sente nell’aria del mattino inoltrato. La
bellezza sbuca da ogni parte. Spensierati e leggeri, percorriamo il sentiero con l’intenzione
di non guardare più particolari, ma di aprire il più possibile il nostro sguardo, cercando di
trasformare i nostri occhi in canali vuoti di tutto ciò che è intorno, cercando di far entrare i
colori assieme all’aria, i fiori assieme ai suoni. Cerchiamo di abbandonarci senza cancelli e
senza chiavi, di svuotarci e farci transito della brezza e del tepore, delle foglie e dei rami.
Facciamo spazio e silenzio a un epicureo piacere di vivere aperto alla primavera, a uno
stato della mente e del corpo che ci disponga a sentirla e accoglierla. Un’apertura che ci
permetta di avvertirne tutta la bellezza e la forza. Un’apertura dei sensi e del corpo che ci
dia la possibilità di sentire il potere che la primavera ha di rallegrare, stupire e far
innamorare. E con le parole di Mariangela Gualtieri, un’altra volta, passeggiamo tra i
tronchi e l’edera:
«Natura risvegliata / scatena tutte le forme apprese in sogno. / Ecco la gemma. Ecco la
foglia. / Ecco un volo perfetto di ala. Ecco un canto esperto di uccello. Ben istruita ogni
creatura / fa la sua parte di fidanzata. S’ingravida e si espande. Ripete l’avventura del
venire alla luce / la traversata grande fino alla scomparsa» (Gualtieri, Bestia di gioia).

Al limitare del bosco, difronte a una siepe di noccioli

Alla fine siamo tornati all’inizio, di fronte a una siepe di noccioli di natura ibrida. Nella
luce piena splende il prato ricoperto di margherite e botton d’oro, trionfante. Il volo delle
prime farfalle comincia leggero. Nel bosco di fronte splendono i fiori bianchi di qualche
ciliegio sparso senza ordine tra una macchia di alberi più difficili da distinguere. La luce
dorata del mezzogiorno rende i colori più netti e abbaglianti e cattura. Questa ora del
giorno, il momento misterioso il cui il sole non getta ombre, era associato in Grecia a Pan, il
cui nome significava «tutto». Si diceva potesse anche essere pericoloso.
Ci è stato tramandato che la cosiddetta grande opera di trasformazione alchemica non
poteva essere compiuta se non come un gioco di bambini, ludus puerorum. Con gioia.
Altrimenti è impossibile trovare i giusti farmaci, ovvero i modi per trasformare i veleni in
medicine. Ogni abilità e modalità del sentire contiene luce e ombra. La serietà e la
pesantezza, la leggerezza e l’inconsistenza, l’accoglienza e la passività, la fragilità e la
sensibilità, l’autocentratura e l’arroganza, non sempre sono facilmente separabili. Un
bugiardo può essere un formidabile narratore. E aiutarci a vivere oppure un truffatore
capace di ingannarci. E una questione di equilibrio. E forse legato a questo aspetto uno dei

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pericoli della chiarezza del mezzogiorno, priva di ombre, il fatto cioè di spingerci a
dimenticare, con la sua luce splendente che definisce nettamente i contorni, il carattere
ambivalente della realtà. I lati parziali del tutto.

Finalmente posso ora rispondere alla prima domanda su Cenerentola e il nocciòlo.


Cenerentola chiede al padre il primo rametto che l’avesse colpito per caso nel bosco.
Sceglie così di aprirsi all’ignoto, di non stabilire in anticipo e precisamente cosa vuole in
vista di un fine stabilito e in relazione alla propria volontà e a un desiderio personale di
qualcosa da usare per sé. Aprendosi al caso, all’imprevedibilità di un avvenimento,
domanda un dono collegato al grande concatenarsi degli eventi e agli intrecci fra gli esseri.
Non desidera vestiti o gioielli, solo il primo rametto che si incontra sulla via. Né
accumulare né apparire, ma aprirsi al mistero della realtà. Che è possibile percepire solo
attraverso il coraggio di provare a unire e mettere in relazione fra loro corpo e mente,
inconscio e coscienza, maschile e femminile, uomini e donne, bambine e betulle, morte e
vita.
Se Cenerentola, prima ancora che buona e sottomessa, fosse saggia e lungimirante, astuta e
consapevole? Fertile, generosa e misteriosa come una siepe di nocciòli. Come una siepe in
grado di divenire corridoio ecologico, passaggio per diversi tipi di vite, esseri, esperienze
sue e di altri. Nutrimento e protezione di ciò che è dentro e fuori di lei.
Riceverà appunto un ramo di nocciòlo. Pianta di confine e pianta pioniera, oltre che pianta
riparatrice, dai dolci frutti autunnali. Come un memento vivere, ricordati di vivere, di aprirti
al mondo e giocare, imparando una volta e una volta ancora a ricompattare il terreno dopo
le frane. Spargendo il polline dappertutto nel vento, a ogni primavera, passato l’inverno.
Esercitandosi con costanza e perseveranza a costruire una protezione per la dolcezza del
frutto di fronte al freddo che si fa più intenso con l’arrivo dell’autunno. Fino a diventare
così saggi che qualsiasi regalo diventa ben accetto, qualsiasi rametto. Fino a saper
trasformare qualsiasi ostacolo in occasione, qualsiasi pianto in acqua per annaffiare il
giardino e la terra che noi siamo. Con la freschezza e la leggerezza saggia che è l’arte della
primavera.
A questa Cenerentola sotto il nocciòlo, come a una donna amata, vorrei dedicare i versi di
Pasternak: «A primavera si sente il frullare dei sogni / ed il fruscio di novità e certezze. /
Tu sei della stirpe ditali principi. / Come l’aria il tuo senso è spassionato. / E facile
svegliarsi e veder chiaro, / spazzare via il pattume verbale / e vivere senza intasarsi in
anticipo. / Tutto questo è una piccola scaltrezza» (Pasternak, Poesie).
Sediamo a mezzogiorno tra gli alberi come Socrate e Fedro, e come loro ci accingiamo a
ritornare fra le mura. Seguendo l’antico filosofico esempio, per congedarci rivolgiamo una
preghiera agli dei del luogo e a Pan, che possano aiutarci nella difficile opera dell’accordo
fra parti e nell’esercizio dell’arte di bellezza e di felicità, dovunque vorremo, e ci capiterà,
di andare. I pollini volano tutto intorno noi. E noi con loro camminiamo, con i semi delle
parole che cercano al nostro interno la terra per mettere quelle radici che ci permettano di
vivere nel mondo come in un’amata dimora che per fortuna non ci appartiene. Radici che
ci permettano, assieme a tutte le piante della Terra, di fiorire e rinascere, ogni volta di

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nuovo, con l’arrivo della primavera.

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Indice
Ai piedi di un grande bagolaro: filosofia degli alberi
e tra gli alberi 7
Come sostare tra piedi e radici? 7
Raccontare miti per radicare la psiche 16
Geografie letterarie per udire i fruscii delle foglie 22
Cantare luoghi per abitare poeticamente
la terra 26
Esercizi filosofici per allargare l’anima:
un’accademia vegetale 31
Mettersi in cammino e sfuggire agli esaurimenti:
eccoci al primo passo filosofico 47
Prima passeggiata 57
Al limitare del bosco, di fronte a una siepe di noccioli 58
Cercando di imitare Epicuro: un sentiero fra tronchi ed edera 75
Un prato nascosto, una bianca betulla e una buca 76
Cinicamente... fra viali di ippocastani 83
Un pino silvestre in difficoltà 86
Risalendo come stoici una strana collina 90
Una porta di pioppi neri: verso dove? 91
Un teatro vegetale 98
205

Seconda passeggiata 103


Con i salici lungo un fiume: lasciarsi accadere 104
Ontani e paludi: prendere forma 110
In un bosco di querce: solidarietà radicale 121
Terza passeggiata 131
In un parcheggio, sotto i platani: anima e città 132

Pagina 79
Un fico che rompe il cemento: epifania vegetale 137
Dietro una porta di biancospini: le città
poetiche del futuro 144
Il canto del vento fra i pioppi tremuli 147
Utopie urbane: il sogno cli un calicanto metropolitano 151
Quarta passeggiata 157
Un teatro di glicine 158
I pioppi bianchi sono anche neri: una porta
invisibile 167
Stoicamente, fra mura inghiottite dai rovi 175
Un pino silvestre, straniero sempreverde 177
Cinicamente... oltre un ponte 183
La misteriosa radura della betulla 185
Con Epicuro i tronchi e l’edera, ancora una volta 192
Al limitare del bosco, di fronte a una siepe di noccioli 193
Bibliografia 199

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