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- Il tuo libro ha riscosso un successo editoriale notevole nell’ambiente dei giardinieri.

È tra i
più consigliati, recensiti e commentati. Ti ha sorpreso questa qualità di apprezzamento tra i
giardinieri, noti per favorire la tecnica a scapito della filosofia? Soprattutto in un contesto
come quello italiano, in cui si dà molto peso editoriale all’orto-chic o pseudo-biologico?
Mi pare che ci sia un interesse crescente per un approccio più filosofico, più profondo
del giardino. Negli ultimi decenni, in Italia come in Francia, c’è stato un ritorno al
giardino e questo è un passo positivo. Ora si tratta di andare oltre le questioni
puramente tecniche, formali, di vedere il giardinaggio come più che un semplice
hobby. Creco che ci si rivolga al giardino perché si avverte, magari confusamente, che
ha delle risposte da dare alla crisi profonda che stiamo vivendo, risposte capaci di fare
rinascere la speranza là dove l’avvenire pare del tutto chiuso, semplici e immediate.
Che i “valori” del giardino sono opposti a quelli della nostra società materialista e delle
nostre vite hors sol. Le mode superficiali ci saranno sempre io non gli darei troppo
peso. Credo che una nuova cultura del giardino, fondata su valori e idee forti, come
avvenne nel Rinascimento italiano o nell’Inghilterra dell’800, stia cominciando a
prendere forma. Oggi si parla di giardini in termini assai superficiali, è vero, ma i
cambiamenti importanti avvengono sempre nell’ombra, come sai, lontano dai
riflettori.

- Il titolo del tuo libro era molto diverso da quello con cui è uscito in Italia. Ponte alle Grazie
è conosciuta per le modifiche sostanziali che apporta ai titoli originali. La cosa ti ha
disturbato o no? È stata concordata?
Mi hanno chiesto il mio parere. Mi piaceva di più il titolo originale, “Le jardin perdu”,
ma pare che “Il giardino perduto” non suoni bene. Il titolo di Ponte alle Grazie è un
po’ complicato ma niente affatto sciocco. Sovverte un’immagine tradizionale. Non è
l’uomo a creare il giardino. E’ il giardino che lo crea, permettendolgi di accedere di
nuovo alla sua umanita, di rinascere a se stesso.

- Come diavolo ti è venuto in mente di inventarti il fantomatico Jorn de Précy?


Avevo cominciato a scrivere un saggio sul giardino e il genius loci e mi sono accorto
che mi stavo annoiando seriamente. Mi è sembrato che sarebbe stato più piacevole –
anche per il mio ipotetico lettore – fare dire le stesse cose a un altro autore. E che un
aristocratico giardiniere anglo-islandese dell’800, solitario, eccentrico e un po’
misantropo, lo avrebbe fatto meglio di me. Alla fine il mio portaparola è diventato un
vero personaggio, con una biografia, un carattere (non facile) e gusti tutti suoi.

- L’escamotage narrativo è stato molto criticato, in positivo e in negativo, qui in Italia. Alcuni
hanno pensato ad una trovata per tirare le vendite, altri ad un imbroglio filosofico, altri
ancora sono rimasti stupiti dalla tua audacia. Un buon numero di persone che l’ha letto alla
luce della verità editoriale l’ha trovato “scontato”, per altri è proprio la dislocazione
cronologica l’unico elemento piacevole del libro. Sei riuscito a sollevare molte opinioni
contrastanti, cosa ne pensi?
Mi stupisce che se ne parli tanto. Ovviamente questo piccolo trucco non è molto utile
commercialmente, anzi è piuttosto il contrario. E’ un modo come un altro per
raccontare una storia o per dire cio’ che si ha da dire. Non sono certo il primo ad avere
tentato questa strada. In fondo si tratta di un gioco con il lettore, ma non è sempre di
questo che si tratta in letteratura? Un libro non dovrebbe sempre spiazzare un po’ chi
legge? Quanto alla novità delle idee sul giardino e sulla modernità, non ho mai avuto la
pretesa di inventare nulla, soltanto di parlare di queste cose a modo mio – cioè o modo
di Jorn de Précy.

- Perché hai deciso di collocare la figura di Jorn de Précy in un periodo così delicato della
storia del giardinaggio? Avevi un intento particolare?
Sono sempre stato attratto da certe figure un po’ marginali che nell’Inghilterra
vittoriana, frigida e borghese, pensavano in modo del tutto indipendente. Un po’
bohemien, un po’ stravaganti, mescolavano con una certa grazia poesia, pittura,
giardinaggio, impegno politico e talvolta amori illeciti. Alcune idee oggi diffuse, come il
giardino naturale, vengono da quel periodo. De Précy era amico e contemporaneo di
William Robinson (a cui rimprovera pero’ di non andare abbastanza lontano...),
l’autore di “The Wild Garden” (1870).

- Il tuo libro si può definire un “ messaggio in bottiglia”? Pensi che varrà ancora per i
giardinieri del 2050? O magari di più?
Ben detto, “un messaggio in bottiglia”. Di certo, un messaggio che ci viene dal passato
ci mette di fronte alle nostre responsabilità. E’ di questo senso della responsabilità,
verso la terra, verso i giardini, ma ancora più verso noi stessi, che parla il libro.

- C’è chi ha letto il diario di Jorn de Précy come un monito a non lasciare sfilacciare la corda
che unisce tutti i momenti della storia del giardino in un groviglio di mode, chi vi ha trovato
un avvertimento di non perdere il senso della sacralità della natura, altri un inno al wu wei,
altri ancora l’hanno letto come un riportare il giardino tra gli argomenti culturali. Tra queste
opzioni c’è la chiave di lettura al tuo libro? O perlomeno la chiave che tu volevi porgere?
Tutto quello che dici è giusto. De Précy detestava cordialmente l’idea moderna del
giardino come luogo di svago e aborriva gli “spazi verdi”. Probabimente si
annoierebbe da morire in mezzo nei giardini ecologici oggi alla moda, con le loro
graminacee scapigliate e il loro finto aspetto campestre, e li troverebbe tutti
disperatamente uguali. Per lui occorre tornare a un’idea forte del giardino, come luogo
esistenziale, come opera poetica. E come spazio in cui si puo’ recuperare quel senso del
sacro iscritto nella natura, e in noi, a cui l’uomo occidentale ha voluto rinunciare. In
giardino si ridiventa, in un certo senso, animisti. Il giardiniere sa di lavorare sempre
con le energie della natura, presenze vive che avverte continuamente attorno a sé.
Opera in un tempo altro, più lento e abitabile, quello della crescita delle piante e
dell’avvicendarsi delle stagioni. Il mistero dell’esistenza è la sua materia. Nel mondo
disincantato della modernità, per usare la formula di Max Weber, egli ritrova
l’incanto di muoversi all’interno di un luogo abitato, non è più separato dalla natura e
quindi non più separato da se stesso. E’ soprattutto questo a fare del giardino uno
spazio di resistenza, sovversivo. E quello che valeva già nell’Inghileterra vittoriana, già
trasfigurata dalla Rivoluzione industriale, vale ancora di più oggi.
Quanto al “wu wei”, il principio del “lasciar fare” del Taoismo, credo dipenda molto
dal fatto che de Précy era notoriamente un giardiniere pigro...
- La figura di Jorn ha appassionato molti lettori, alcuni dei quali non hanno seguito le vicende
editoriali e nel recensire il tuo libro lo attribuiscono al gentiluomo mai esistito. La
costruzione narrativa del suo personaggio è estremamente vivace, carica di sentimento e di
vitalità, tanto che molti lettori hanno apprezzato più il lato narrativo che quello filosofico o
culturale. Hai pensato che Jorn potrebbe essere un ottimo protagonista di un romanzo?
Pare che nel 1915, quando era già vecchissimo e mentre l’Europa sprofondava nella
Prima guerra mondiale, de Précy abbia fatto un viaggio a Kyoto, per vedere prima di
morire i giardini giapponesi di cui aveva sempre sognato. Alcuni dicono che sia tornato
in Italia, a ritrovare i luoghi in cui era nato il suo amore per i giardini, ancora avvolti
da quel mistero che oggi hanno in parte perso, come Bomarzo o Villa d’Este. E di certo
ne ha voluto scrivere un resoconto. O almeno spero di ritrovare le lettere che ha
sicuramente scritto al suo caro giardiniere, Samuel, che lo aspettava a casa. Percio’
chissà...

- Dopo questo libro ci lasci orfani? La tua rivista «Jardins» arriva solo in alcune grandi
librerie italiane e il francese è oggi meno studiato dello spagnolo…
In ottobre uscirà, sempre in Francia, e poi, speriamo, in Italia, un altro libro che ho
appena finito di scrivere. Ahimé, si tratterà ancora una volta di un autore che non è
mai esistito. Un erede di Jorn, anche se meno battagliero, e con una storia del tutto
diversa dalla sua. La mia famigliola si allarga...

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