Giovanni Darconza
Il detective e lo scienziato
È forse lecito paragonare i lettori di un simile romanzo [il giallo perfetto] agli scienziati che di generazione in
generazione continuano a cercare la soluzione dei misteri che il libro della natura racchiude? […] Dagli ammirevoli
racconti di Conan Doyle in poi, in quasi tutti i romanzi gialli viene il momento in cui l’investigatore ha raccolto tutti
gli indizi occorrenti per arrivare per lo meno a una certa tappa sulla via della soluzione. Quei fatti sembrano spesso
strani, incoerenti e senza alcun rapporto tra di loro. Ciò malgrado l’acuto detective si rende conto che per il momento
non è il caso di spingere più oltre le ricerche, e che soltanto la pura riflessione perverrà a stabilire una correlazione fra
i fatti accertati.[…]
Lo scienziato che legge nel libro della natura, se è lecito usare una locuzione ormai stantia, deve trovare la
soluzione da sé, non potendo, come sogliono fare i lettori impazienti di romanzi comuni, saltare alla fine del libro.[…]
Per giungere anche soltanto ad una soluzione parziale, lo scienziato deve raggruppare i fatti caotici che gli sono
accessibili e renderli coerenti ed intelligibili con il sussidio del proprio pensiero creatore.
“Come poeta e matematico poteva ragionar bene, come semplice matematico non avrebbe ragionato affatto, e
sarebbe stato alla mercé del prefetto.”[…]
“Io sapevo però che oltre a matematico era anche poeta, e avevo fatto i miei calcoli secondo le sue capacità.”
H. Haycraft, Murder for Pleasure: The Life and Times of the Detective Story, 1941.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Or non molto, sul finire di una sera d’autunno, me ne stavo seduto dinanzi all’ampia vetrata del caffè D… a Londra.
Per mesi e mesi ero stato malato, e allora convalescente, con le forze che mi ritornavano poco a poco, mi trovavo in una
di quelle felici disposizioni di spirito che sono l’opposto della noia; una di quelle disposizioni, voglio dire, in cui gli
appetiti morali sono meravigliosamente tesi, e il velo che prima appannava la mente è strappato mentre le facoltà
spirituali vanno in modo prodigioso oltre le loro ordinarie capacità […].
Provavo un calmo eppur intenso interesse per ogni cosa. Con un sigaro in bocca e un giornale sulle ginocchia, mi ero
divertito la maggior parte del pomeriggio ora a leggere attentamente gli avvisi pubblicitari, ora ad osservare la gente
promiscua che affollava le sale del caffè, ora a guardare attraverso i vetri velati dal fumo nella via. La quale è una delle
principali arterie della città e tutto il giorno era stata piena di folla che passava.
E. A. Poe, “L’uomo della folla” (1840), in Racconti del terrore, Milano, Mondadori, 1990.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Dapprincipio le mie osservazioni furono di natura astratta e generalizzatrice. Consideravo i passanti in quanto masse,
correndo col pensiero solo ai loro rapporti collettivi. Ma poco a poco venni ai particolari e con minuzioso interesse mi
applicai ad esaminare la varietà dei loro tipi nei loro abiti, e negli aspetti, nell’andatura, nelle facce, nell’espressione delle
fisionomie.
Per la maggior parte erano persone dall’aria convinta propria agli uomini d’affari, e parevano preoccupati soltanto di
aprirsi un varco nella ressa. […] Altri, in gran numero anch’essi, procedevano con un fare inquieto, rossi in volto, e
parlavano tra sé gesticolando […]. Queste due numerose categorie di persone nulla presentavano di notevole, oltre a ciò
di cui ho detto. Gli abiti loro appartenevano a quel genere di abiti che la parola decente definisce con esattezza. Non c’era
dubbio sulla loro condizione; si trattava di nobili e di mercanti, di magistrati, provveditori e agenti di cambio, gente che
viveva di rendita e gente che trafficava.
E. A. Poe, “L’uomo della folla” (1840), in op. cit.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Quanto più la notte diveniva profonda tanto più si faceva profondo in me l’interesse per quello spettacolo; e non solo
perché la folla mutava di aspetto perdendo, col graduale ritirarsi dei migliori, i suoi tratti più nobili e accentuando, per il
progressivo sbucar fuori dell’infamia, i suoi tratti più volgari, ma anche perché la luce delle lampade a gas […] andava
adesso prendendo il sopravvento e avvolgeva le cose del suo spasmodico, abbagliante fulgore. […]
Con la fronte attaccata al vetro, me ne stavo intento così a passare in rassegna la folla quando ad un tratto la
fisionomia di un vecchio di sessantacinque o settant’anni attrasse e fermò, per l’assoluta singolarità della sua espressione,
tutta la mia attenzione.[…] Subito mi sentii più che mai desto, colpito e affascinato. «Quale strana storia» mi chiesi «è
scritta dentro a quel petto?» E preso da un ardente desiderio di non perdere l’uomo di vista e di sapere qualcosa di più sul
suo conto, mi infilai in un batter d’occhio il pastrano, afferrai cappello e bastone e mi lanciai nella strada facendomi largo
tra la folla nella direzione in cui quello era già scomparso. Riuscito con qualche difficoltà a ritrovarlo, lo raggiunsi e gli
tenni dietro da vicino, studiandomi però, si capisce, di non destare il suo sospetto.
“Come lo spiega lei, sembra molto semplice”, risposi sorridendo. “Mi fa venire in mente Dupin
di Edgar Allan Poe. Avrei pensato che simili individui esistessero solo nei romanzi.” Sherlock
Holmes si alzò e accese la pipa.
“Indubbiamente lei crederà di farmi un complimento paragonandomi a Dupin” osservò. “Ora a
mio parere Dupin era un tipo molto mediocre. Quel suo vezzo di interrompere il filo dei pensieri dei
suoi amici con una osservazione azzeccata dopo un quarto d’ora di silenzio in realtà è molto
esibizionistico e superficiale. Aveva un certo talento analitico, senza dubbio; ma non era poi quel
fenomeno che sembra immaginare Poe.”
[Moriarty] è dotato di una mente matematica fenomenale. All’età di ventun anni ha scritto un trattato sul
Teorema del Binomio che ha avuto risonanza europea. Grazie a questa monografia poté ottenere la cattedra di
matematica in una delle nostre università minori, e secondo tutte le previsioni lo attendeva una carriera
brillantissima. Ma è anche uomo che ha tendenze di natura diabolica […], fu costretto a dare le dimissioni dalla
cattedra che occupava per divenire a poco a poco l’organizzatore di metà del male e di quasi tutto quel che rimane
impunito nella città di Londra. È un genio, un filosofo, un pensatore astratto. Siede immobile come un ragno al
centro della sua tela, progetta soltanto; ma la sua tela si suddivide in mille diramazioni di cui egli conosce
perfettamente il minimo tremito.
«Questa vicenda che la riguarda è molto complessa, Sir Henry. Se la colleghiamo con la morte di suo
zio, non sono sicuro che fra tutti i cinquecento casi di capitale importanza di cui mi sono occupato ce ne sia
uno altrettanto ingarbugliato. Ma abbiamo in mano numerosi capi, e le probabilità ci insegnano che uno o
l’altro di questi ci condurrà alla verità. Può darsi che perdiamo del tempo nel seguire il filo sbagliato, ma
prima o poi incapperemo in quello giusto». […]
«Ed ecco che si spezza il nostro terzo filo, e ci troviamo al punto di partenza»,
«Ho in mano tutti i fili della vicenda. Anche se la signora non dovesse mai riacquistare la conoscenza,
possiamo ugualmente ricostruire quanto è accaduto la scorsa notte e assicurarci che sia fatta giustizia.»
Poliziesco classico di origine anglosassone
• Crimine, evento che perturba un ordine preesistente.
• Indagine investigativa mediante ragionamento logico-matematico (deduttivo o abduttivo).
• Soluzione che ristabilisce l’ordine dal caos originatosi dal crimine.
Modello della letteratura poliziesca classica : da un numero esiguo di prove (assiomi) si deducono
conseguenze (teoremi). Detective in poltrona.
G. Lupo, Mosé sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura, Brescia, Editrice La Scuola 2016.
Detective fiction e religione
La Detective Novel – il Mito Popolare del XX secolo. Collegherei l’ascesa della crime fiction con
il declino della religione alla fine dell’era vittoriana… Quando una religione ha perso la sua presa
sul cuore degli uomini, questi devono trovare un’altra valvola di sfogo per il senso di colpa.[…] La
struttura della detective novel è rigidamente formale come quella di un rituale religioso, con il suo
peccato originale necessario (il delitto), la sua vittima, il suo sacerdote (il detective). Il devoto si
identificava sia con il detective che con l’assassino, che rappresentavano i lati oscuri della sua stessa
natura.
C.D. Lewis, “The Detective Story-Why”, in H. Haycraft (ed.), The Art of the Mystery Story,
Simon and Schuster 1946.
Poe, ne «Il mistero di Marie Rogêt» (1842) afferma:
Per quanto riguarda l’ultima parte della supposizione, si dovrà considerare che la più insignificante differenza nei fatti
delle due vicende potrebbe dar luogo ai più importanti errori di calcolo, facendo divergere radicalmente le due
sequenze dei fatti; proprio come in aritmetica un errore che in sé non ha valore, alla fine, moltiplicandosi da un punto
all’altro del procedimento, produce un risultato lontanissimo dal vero.»
Ma se pure accadesse che le leggi naturali non avessero più alcun segreto per noi, anche in tal caso potremmo
conoscere la situazione iniziale solo approssimativamente. Se questo ci permettesse di prevedere la situazione
successiva con la stessa approssimazione, non ci occorrerebbe di più e dovremmo dire che il fenomeno è stato previsto.
Ma non è sempre così; può accadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali ne producano di grandissime nei
fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produce un errore enorme nei secondi. La previsione diviene
impossibile.
Guglielmo da Baskerville e la verità dei segni
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall’Abate, il miglior
galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo
ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi,
in ogni caso.” […]
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
“Mio buon Adso,” disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci
parla come un grande libro. Alano delle Isole […] pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le
sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla
delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo.
Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere.
«Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo,
che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che
lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto
che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia
naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove
l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda,
tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al
deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo
ai piedi del torrione orientale, bruttando la neve.»
E nelle «Postille a Il nome della rosa» (1983) Eco scriverà, a proposito del suo romanzo:
Il libro parte come se fosse un giallo (e continua a illudere il lettore ingenuo, sino alla fine, così che il lettore ingenuo
può anche non accorgersi che si tratta di un giallo dove si scopre assai poco, e il detective viene sconfitto). […] È che il
romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca
scientifica, anche una interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo la domanda base della filosofia (come
quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa?
«Come dai romanzi di cavalleria sono nati l’Orlando furioso e il Don Chisciotte, è
possibile che un giorno un grande autore ricavi dallo sterminato materiale greggio
dei romanzi polizieschi un’ opera popolare e di stile.»
U.Saba, da Prose, Mondadori, 1964.
«Il romanzo poliziesco rappresenta nel ventesimo secolo ciò che il romanzo
cavalleresco rappresentava all’epoca di Cervantes. Dirò di più: credo che si
potrebbe fare qualcosa di equivalente al Don Chisciotte: una satira del romanzo
poliziesco. Immaginatevi un individuo che ha trascorso tutta la vita leggendo
romanzi polizieschi e che è giunto alla pazzia di credere che il mondo funziona
come un romanzo di Nicholas Blake o di Ellery Queen. Immaginatevi quel povero
tipo che alla fine se ne va a scoprire crimini e a comportarsi nella vita reale come si
comporta un detective in uno di quei romanzi.»
Ernesto Sábato, Il tunnel, 1948.
Honoré Daumier, 1865-70.
Una definizione di «giallo metafisico»
«un testo che parodia o sovverte le convenzioni della detective story tradizionale […]
con l’intenzione, o almeno l’effetto, di porre domande sui misteri dell’essere e della
Quando le prove sono indipendenti l’una dall’altra, cioè quando gli indizi si provano d’altronde
che da se stessi, quanto maggiori sono le prove che si adducono, tanto più cresce la probabilità del
fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull’altra. Io parlo di probabilità in materia di
delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che
rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata
certezza.
Ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e
il caso a decidere a nostro favore. Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che
subito dopo diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. […] E ciò che
è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande. Le nostre leggi si fondano soltanto sulla probabilità, sulla
statistica, non sulla causalità, si realizzano soltanto in generale, non in particolare. […] Ma voi scrittori di questo non vi
preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare.
Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna.
Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali
e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati,
una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui
buona parte dell’umanità si abbevera.
Nella realtà le cose stanno però diversamente; e i coefficienti dell’impunità e dell’errore sono alti non perché
(o non soltanto, o non sempre) è basso l’intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre
sono di solito assolutamente insufficienti. […] Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano
con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso.
E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti.
Arrivate le indagini a un punto morto (cioè a quell’ora e passa trascorsa dal procuratore chi sa dove
e come, oscura zona ai cui confini gli ardori polizieschi erano tenuti a spegnersi), per restituire
all’opinione pubblica quella fiducia nella efficienza della polizia, che peraltro l’opinione pubblica mai
aveva nutrito, o per farla rassegnare alla insolubilità del mistero, il ministro della Sicurezza Nazionale
decise di mandare sul posto l’ispettore Rogas: il più acuto investigatore di cui disponesse la polizia,
secondo i giornali; il più fortunato, a giudizio dei colleghi. […] Rogas aveva dei principî, in un paese
in cui quasi nessuno ne aveva.
Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo
solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza. Quando
nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un luogo, che mi fingevo remoto e inaccessibile,
di alberi e acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano,
e infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di essere nato e per anni
vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani (al punto che tra le
pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuta fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella
memoria e nei sentimenti)
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di
sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella
sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale
s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. […]
Sosteneva , fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia
d’un unico motivo, d’una causa singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella
coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche
nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. L’opinione che bisognasse
«riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele
Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi.
Giorgio Scerbanenco, in Venere privata (1966) presenta l’investigatore Duca Lamberti,
ex-medico, radiato dall’Ordine per aver praticato l’eutanasia su una paziente in stato
terminale:
Dopo tre anni di carcere aveva imparato a passare il tempo coi mezzi più semplici, solo che per i primi
dieci minuti fumò una sigaretta senza pensare ad alcun gioco, ma quando buttò il mozzicone sulla ghiaietta
del viale pensò che il numero dei sassolini dei viali e vialetti del giardino, era un numero finito. Anche il
numero dei granelli di sabbia di tutte le spiagge del mondo poteva essere calcolato ed era in numero finito,
per quanto grande fosse, e così, fissando in terra, cominciò a contare. In cinque centimetri quadrati poteva
stare una media di un’ottantina di sassolini; poi calcolò a occhio l’area dei vialetti che conducevano alla
villa davanti a lui e concluse che tutta la ghiaietta dei viali, che sembrava infinita, era costituita da un misero
numero di un milione e seicentomila sassolini, con lo scarto del dieci per cento in più o in meno.
L’investigatore atipico di Dürrenmatt
Le due pompe della benzina si trovavano davanti alla parte di pietra della casa, su uno spiazzo accidentato, mal
lastricato; tutto dava l’impressione di decadimento, nonostante il sole che ora quasi sembrava scottare maligno. […]
Vicino alla porta aperta della casa, su una panca di pietra, stava seduto un vecchio. Non era rasato né lavato, indossava
una blusa chiara, un po’ sudicia e macchiata, pantaloni scuri, lucidi di grasso, che erano stati un tempo parte di uno
smoking. Ai piedi vecchie pantofole. Guardava fisso davanti a sé, istupidito, e anche da lontano puzzava di liquore.
Assenzio. Intorno alla panca il lastrico era coperto di mozziconi di sigaro galleggianti nella neve fusa. […]
[Il vecchio] guardava fisso davanti a sé, istupidito, spento. Ma quando raggiungemmo la macchina e ci voltammo
ancora una volta, il vecchio serrò i pugni, lì agitò, e spingendo fuori le parole a sussulti mormorò: «Aspetto, io aspetto,
verrà, verrà.» […]
«Lei si deve anche essere meravigliato perché poco fa mi sono fermato presso quel miserabile distributore, e io
voglio confessarle subito il motivo: quella triste carcassa ubriaca che ci ha servito la benzina era il mio uomo più in
gamba. […] Matthäi era un genio, ed in misura maggiore di uno dei vostri detectives.»
• Ambiguità, mancanza di senso di ogni chiave o indizio per comprendere il mondo e l’altro.
• La persona dispersa, “l’uomo della folla”, gli specchi e il doppio, l’identità perduta, rubata o
scambiata.
“C’è differenza fra la verità e la parte di verità che può essere dimostrata. Questo è uno dei corollari di
Tarski al Teorema di Gödel” disse Seldom. “Naturalmente giudici, medici, archeologi, tutti sapevano ciò
molto prima dei matematici. Pensate a un qualsiasi delitto con due soli possibili colpevoli. Entrambi i
sospettati conoscono la parte di verità che conta, cioè sono io o non sono io. Ma la legge non può arrivare
direttamente a quelle verità; deve seguire un laborioso cammino per raccogliere prove, interrogatori, alibi,
impronte e così via. Tutto ciò spesso non è sufficiente per provare la colpevolezza dell’uno o l’innocenza
dell’altro. E ciò che Gödel dimostrò nel 1930 nel suo Teorema di Incompletezza è che la stessa cosa può
accadere in matematica.”