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Investigatori e matematici

L’evoluzione della figura dell’investigatore


dalle origini al postmodernismo

Giovanni Darconza
Il detective e lo scienziato
È forse lecito paragonare i lettori di un simile romanzo [il giallo perfetto] agli scienziati che di generazione in
generazione continuano a cercare la soluzione dei misteri che il libro della natura racchiude? […] Dagli ammirevoli
racconti di Conan Doyle in poi, in quasi tutti i romanzi gialli viene il momento in cui l’investigatore ha raccolto tutti
gli indizi occorrenti per arrivare per lo meno a una certa tappa sulla via della soluzione. Quei fatti sembrano spesso
strani, incoerenti e senza alcun rapporto tra di loro. Ciò malgrado l’acuto detective si rende conto che per il momento
non è il caso di spingere più oltre le ricerche, e che soltanto la pura riflessione perverrà a stabilire una correlazione fra
i fatti accertati.[…]

Lo scienziato che legge nel libro della natura, se è lecito usare una locuzione ormai stantia, deve trovare la
soluzione da sé, non potendo, come sogliono fare i lettori impazienti di romanzi comuni, saltare alla fine del libro.[…]
Per giungere anche soltanto ad una soluzione parziale, lo scienziato deve raggruppare i fatti caotici che gli sono
accessibili e renderli coerenti ed intelligibili con il sussidio del proprio pensiero creatore.

A. Einstein, L’evoluzione della fisica, Torino, Bollati Boringhieri 2011.


Auguste Dupin, il primo investigatore
La facoltà di risolvere è probabilmente molto rinforzata dallo studio delle matematiche e in modo particolare
dall’altissimo ramo di questa scienza che è stata chiamata analisi.. […] Approfitto dunque dell’occasione per
asserire che il massimo potere della riflessione è più decisamente e utilmente provato dal modesto gioco della
dama che non dalla complicata futilità degli scacchi. In quest’ultimo essendo i pezzi dotati di movimenti diversi e
bizzarri e di valori diversi e variabili, quello che è soltanto complessità vien preso (errore abbastanza comune)
per profondità.
E. A. Poe, “I delitti della Rue Morgue” (1841), in Racconti di enigmi, Milano, Mondadori, 1990.

“Come poeta e matematico poteva ragionar bene, come semplice matematico non avrebbe ragionato affatto, e
sarebbe stato alla mercé del prefetto.”[…]
“Io sapevo però che oltre a matematico era anche poeta, e avevo fatto i miei calcoli secondo le sue capacità.”

E. A. Poe, “La lettera rubata” (1845), in Racconti di enigmi, cit.


Una notte passavamo per una lunga e sordida strada nelle vicinanze del Palais Royal. Immersi ciascuno nei propri
pensieri, da almeno un quarto d’ora non avevamo pronunciato sillaba. A un certo punto Dupin venne fuori con queste
parole:
«È molto, molto piccolo, è proprio vero; starebbe meglio al Théâtre des Variétés.»
«Non ci può essere il minimo dubbio» replicai senza pensare e senza sulle prime osservare (tanto ero assorto nelle
mie riflessioni) il modo straordinario con cui le sue parole si adattavano ai miei pensieri. Un momento dopo, tornato
in me, fui profondamente stupefatto.
«Dupin,» gli dissi gravemente «questo sorpassa il mio intendimento. Non esito a confessarvi il mio stupore; riesco
appena a credere a me stesso. Come avete fatto a indovinare che stavo pensando a…?» […]
«A Chantilly?» disse lui. «E perché v’interrompete? Non stavate pensando che la sua piccola statura lo rende
inadatto alla tragedia?» […]
«Per l’amor di Dio,» esclamai «ditemi il metodo, se un metodo esiste, col quale siete riuscito a penetrar
nell’anima mia in questo modo.»

E. A. Poe, “I delitti della Rue Morgue” (1841), in op. cit.


Edgar Allan Poe, nel racconto “Lo scarabeo d’oro”, pubblicato sul settimanale di
Filadelfia Dollar Newspaper tra il 21 e il 28 giugno 1843, scriveva:
«Dubito che l’ingegno umano possa costruire un enigma che l’ingegno umano,
applicandosi a fondo, non sappia risolvere.»

Il matematico David Hilbert a Parigi l’8 agosto del 1900, dichiarò:


«ogni problema matematico ben definito deve necessariamente essere suscettibile di
una soluzione esatta» […] «Noi sentiamo interiormente un perpetuo richiamo: ecco il
problema; cerca la soluzione; puoi trovarla con la pura ragione».
Poe e le convenzioni della detective story
[Poe] è il creatore del detective trascendente ed eccentrico; il partner un po’ stupido e pieno di
ammirazione; i guardiani ufficiali della legge, benché volenterosi, impacciati e privi di immaginazione,
le convenzioni della stanza chiusa […], la deduzione vestendo i panni di un altro […], l’occultamento
mediante l’ultra ovvio, l’astuzia allestita per forzare la mano del colpevole, persino l’estesa e
accondiscendente spiegazione quando il caso viene risolto.

H. Haycraft, Murder for Pleasure: The Life and Times of the Detective Story, 1941.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Or non molto, sul finire di una sera d’autunno, me ne stavo seduto dinanzi all’ampia vetrata del caffè D… a Londra.
Per mesi e mesi ero stato malato, e allora convalescente, con le forze che mi ritornavano poco a poco, mi trovavo in una
di quelle felici disposizioni di spirito che sono l’opposto della noia; una di quelle disposizioni, voglio dire, in cui gli
appetiti morali sono meravigliosamente tesi, e il velo che prima appannava la mente è strappato mentre le facoltà
spirituali vanno in modo prodigioso oltre le loro ordinarie capacità […].
Provavo un calmo eppur intenso interesse per ogni cosa. Con un sigaro in bocca e un giornale sulle ginocchia, mi ero
divertito la maggior parte del pomeriggio ora a leggere attentamente gli avvisi pubblicitari, ora ad osservare la gente
promiscua che affollava le sale del caffè, ora a guardare attraverso i vetri velati dal fumo nella via. La quale è una delle
principali arterie della città e tutto il giorno era stata piena di folla che passava.

E. A. Poe, “L’uomo della folla” (1840), in Racconti del terrore, Milano, Mondadori, 1990.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Dapprincipio le mie osservazioni furono di natura astratta e generalizzatrice. Consideravo i passanti in quanto masse,
correndo col pensiero solo ai loro rapporti collettivi. Ma poco a poco venni ai particolari e con minuzioso interesse mi
applicai ad esaminare la varietà dei loro tipi nei loro abiti, e negli aspetti, nell’andatura, nelle facce, nell’espressione delle
fisionomie.
Per la maggior parte erano persone dall’aria convinta propria agli uomini d’affari, e parevano preoccupati soltanto di
aprirsi un varco nella ressa. […] Altri, in gran numero anch’essi, procedevano con un fare inquieto, rossi in volto, e
parlavano tra sé gesticolando […]. Queste due numerose categorie di persone nulla presentavano di notevole, oltre a ciò
di cui ho detto. Gli abiti loro appartenevano a quel genere di abiti che la parola decente definisce con esattezza. Non c’era
dubbio sulla loro condizione; si trattava di nobili e di mercanti, di magistrati, provveditori e agenti di cambio, gente che
viveva di rendita e gente che trafficava.
E. A. Poe, “L’uomo della folla” (1840), in op. cit.
L’uomo della folla e le origini del metodo investigativo
Quanto più la notte diveniva profonda tanto più si faceva profondo in me l’interesse per quello spettacolo; e non solo
perché la folla mutava di aspetto perdendo, col graduale ritirarsi dei migliori, i suoi tratti più nobili e accentuando, per il
progressivo sbucar fuori dell’infamia, i suoi tratti più volgari, ma anche perché la luce delle lampade a gas […] andava
adesso prendendo il sopravvento e avvolgeva le cose del suo spasmodico, abbagliante fulgore. […]

Con la fronte attaccata al vetro, me ne stavo intento così a passare in rassegna la folla quando ad un tratto la
fisionomia di un vecchio di sessantacinque o settant’anni attrasse e fermò, per l’assoluta singolarità della sua espressione,
tutta la mia attenzione.[…] Subito mi sentii più che mai desto, colpito e affascinato. «Quale strana storia» mi chiesi «è
scritta dentro a quel petto?» E preso da un ardente desiderio di non perdere l’uomo di vista e di sapere qualcosa di più sul
suo conto, mi infilai in un batter d’occhio il pastrano, afferrai cappello e bastone e mi lanciai nella strada facendomi largo
tra la folla nella direzione in cui quello era già scomparso. Riuscito con qualche difficoltà a ritrovarlo, lo raggiunsi e gli
tenni dietro da vicino, studiandomi però, si capisce, di non destare il suo sospetto.

E. A. Poe, “L’uomo della folla” (1840), in op. cit.


Poe e la «finzione scientifica»

L’importanza di Poe è considerevole se la giudichiamo storicamente. Si potrebbe dire che


quella che oggi si chiama finzione scientifica trae origine da Poe. È evidente che Poe è
l’inventore del genere poliziesco, e che ci sono suoi racconti – La lettera rubata, per esempio
– che forse non sono stati superati. È evidente che Baudelaire trae origine da Poe.

J. L. Borges, in F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges, Torino, Einaudi 1999.


Sherlock Holmes e la «scienza della deduzione»
“Al nostro primo incontro, lei è apparso sorpreso quando le dissi che proveniva
dall’Afghanistan.”
“Senza dubbio qualcuno glielo aveva detto.”
“Assolutamente no. Sapevo che lei veniva dall’Afghanistan. Per forza d’abitudine,
il filo dei miei pensieri si era sdipanato così rapidamente nel mio cervello che ero
arrivato alla conclusione senza rendermi conto delle tappe intermedie. Ma queste tappe
c’erano state. Il filo del ragionamento è stato questo: ecco un signore che ha il tipo del
medico ma l’aria di un militare. Quindi, un medico militare. È appena arrivato dai Tropici poiché è abbronzato,
e quello non è il colore naturale della sua pelle; infatti, i polsi sono chiari. Ha attraversato un periodo di stenti e di
malattia, come rivela chiaramente il viso teso e stanco. Ha una ferita al braccio sinistro. Lo tiene in modo rigido e
innaturale. In quale zona dei Tropici un medico militare inglese può aver passato tante traversie e riportato una ferita al
braccio? Ovviamente in Afghanistan. Questa sequenza di pensieri è durata meno di un secondo.”

A. C. Doyle (1887), Uno studio in rosso, Milano, Rizzoli 1972.


Sherlock Holmes e la «scienza della deduzione»

“Come lo spiega lei, sembra molto semplice”, risposi sorridendo. “Mi fa venire in mente Dupin
di Edgar Allan Poe. Avrei pensato che simili individui esistessero solo nei romanzi.” Sherlock
Holmes si alzò e accese la pipa.
“Indubbiamente lei crederà di farmi un complimento paragonandomi a Dupin” osservò. “Ora a
mio parere Dupin era un tipo molto mediocre. Quel suo vezzo di interrompere il filo dei pensieri dei
suoi amici con una osservazione azzeccata dopo un quarto d’ora di silenzio in realtà è molto
esibizionistico e superficiale. Aveva un certo talento analitico, senza dubbio; ma non era poi quel
fenomeno che sembra immaginare Poe.”

A. C. Doyle, (1887), Uno studio in rosso, cit.


Professor Moriarty, l’arcinemico di Holmes

[Moriarty] è dotato di una mente matematica fenomenale. All’età di ventun anni ha scritto un trattato sul
Teorema del Binomio che ha avuto risonanza europea. Grazie a questa monografia poté ottenere la cattedra di
matematica in una delle nostre università minori, e secondo tutte le previsioni lo attendeva una carriera
brillantissima. Ma è anche uomo che ha tendenze di natura diabolica […], fu costretto a dare le dimissioni dalla
cattedra che occupava per divenire a poco a poco l’organizzatore di metà del male e di quasi tutto quel che rimane
impunito nella città di Londra. È un genio, un filosofo, un pensatore astratto. Siede immobile come un ragno al
centro della sua tela, progetta soltanto; ma la sua tela si suddivide in mille diramazioni di cui egli conosce
perfettamente il minimo tremito.

Doyle, A. C. (1894), Le Memorie di Sherlock Holmes, Milano, Mondadori 2016.


Il filo della deduzione, metafora della matassa da dipanare
A. C. Doyle, Il mastino dei Baskerville (1902) cap.5,

«Questa vicenda che la riguarda è molto complessa, Sir Henry. Se la colleghiamo con la morte di suo
zio, non sono sicuro che fra tutti i cinquecento casi di capitale importanza di cui mi sono occupato ce ne sia
uno altrettanto ingarbugliato. Ma abbiamo in mano numerosi capi, e le probabilità ci insegnano che uno o
l’altro di questi ci condurrà alla verità. Può darsi che perdiamo del tempo nel seguire il filo sbagliato, ma
prima o poi incapperemo in quello giusto». […]
«Ed ecco che si spezza il nostro terzo filo, e ci troviamo al punto di partenza»,

nel cap. 9, Watson scrive a Holmes

«E ora passo a un altro filo che ho districato dall’aggrovigliata matassa»

E finalmente, nel cap. 15, Holmes afferma:

«Ho in mano tutti i fili della vicenda. Anche se la signora non dovesse mai riacquistare la conoscenza,
possiamo ugualmente ricostruire quanto è accaduto la scorsa notte e assicurarci che sia fatta giustizia.»
Poliziesco classico di origine anglosassone
• Crimine, evento che perturba un ordine preesistente.
• Indagine investigativa mediante ragionamento logico-matematico (deduttivo o abduttivo).
• Soluzione che ristabilisce l’ordine dal caos originatosi dal crimine.

Atteggiamento positivista. Investigatori come scienziati, perfettamente informati dell’ambiente


(spesso artificiale, o formale, proprio come in una teoria matematica).

Modello della letteratura poliziesca classica : da un numero esiguo di prove (assiomi) si deducono
conseguenze (teoremi). Detective in poltrona.

Modello euclideo, Determinismo laplaciano


Hercule Poirot, modello di ordine e precisione
Poirot era un piccolo uomo dall’aspetto straordinario. Era poco più alto di cinque piedi e quattro
pollici, ma mostrava una grande dignità. La sua testa aveva l’esatta forma di un uovo, e la
inclinava sempre un po’ da un lato. I suoi baffi erano molto rigidi e militareschi. La compostezza
del suo abbigliamento era quasi incredibile. Credo che anche una macchiolina di polvere gli
avrebbe causato più dolore della ferita di una pallottola. Eppure questo piccolo e pittoresco uomo
che adesso, mi dispiaceva osservarlo, zoppicava malamente, era stato ai suoi tempi uno dei più
celebrati membri della polizia belga. Come detective, il suo fiuto era stato straordinario, ed aveva
ottenuto trionfi sbrogliando alcuni dei più sconcertanti casi del momento.

A. Christie (1920), Poirot a Styles Court, Milano, Mondadori 1979.


Sam Spade e il noir d’azione nordamericano
La mascella di Samuel Spade era ossuta e pronunciata, il suo mento era una V appuntita sotto la
mobile V della bocca. Le narici disegnavano un’altra V, più piccola. Aveva occhi giallo-grigi,
orizzontali. Il motivo della V era ripreso dalle spesse sopracciglia che si diramavano da due rughe
gemelle al di sopra del naso aquilino e l’attaccatura dei capelli castano-chiari scendeva a punta
sulla fronte partendo da un’ampia stempiatura. Somigliava, in modo abbastanza attraente, a un
diavolo biondo. […] Era alto un buon metro e ottantacinque. L’ampio giro delle spalle faceva
apparire quasi conica la parte superiore del corpo (era largo quanto era grosso) e non permetteva
alla giacca grigia appena stirata di cadere a perfezione. […] La glabra grossezza delle braccia,
delle gambe e del corpo, la curva delle ampie spalle rotonde lo facevano apparire simile a un orso.

D. Hammett (1930), Il falcone maltese, Milano, Mondadori 1981.


Alcune delle «venti regole» di Van Dine
1. Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce
debbono essere chiaramente elencati.
3. Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre il criminale davanti alla
Giustizia, non due innamorati all’altare.
4. Né l’investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon
gioco. […]
5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso o coincidenza, o non motivata
confessione. […]
14. Il metodo del delinquente e i sistemi d’indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz’altro
escluse la pseudoscienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. […]

S. S. Van Dine (1928), Venti regole per scrivere romanzi polizieschi.


Il successo del poliziesco nel mondo contemporaneo

Lo schizofrenico contrasto tra normalità e degenerazione andrebbe annoverato a monte di un gusto


letterario che proprio in questi ultimi decenni ha incontrato enorme fortuna: mi riferisco al giallo (e
alle sue numerose declinazioni, dal noir al thriller, dal poliziesco al fantasy storico) che nasce dal
desiderio di mettere ordine nel disordine e, mentre da una parte incentiva il compito di smascherare
delitti, dall’altro denuncia devianze psicologiche e orrori. Il successo commerciale-editoriale del
giallo potrebbe nascondere il bisogno di placare le inquietudini, mitigare le incertezze, moderare le
fobie che la comunità di lettori avverte e su cui desidera sentirsi rassicurata.

G. Lupo, Mosé sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura, Brescia, Editrice La Scuola 2016.
Detective fiction e religione
La Detective Novel – il Mito Popolare del XX secolo. Collegherei l’ascesa della crime fiction con
il declino della religione alla fine dell’era vittoriana… Quando una religione ha perso la sua presa
sul cuore degli uomini, questi devono trovare un’altra valvola di sfogo per il senso di colpa.[…] La
struttura della detective novel è rigidamente formale come quella di un rituale religioso, con il suo
peccato originale necessario (il delitto), la sua vittima, il suo sacerdote (il detective). Il devoto si
identificava sia con il detective che con l’assassino, che rappresentavano i lati oscuri della sua stessa
natura.

C.D. Lewis, “The Detective Story-Why”, in H. Haycraft (ed.), The Art of the Mystery Story,
Simon and Schuster 1946.
Poe, ne «Il mistero di Marie Rogêt» (1842) afferma:

Per quanto riguarda l’ultima parte della supposizione, si dovrà considerare che la più insignificante differenza nei fatti
delle due vicende potrebbe dar luogo ai più importanti errori di calcolo, facendo divergere radicalmente le due
sequenze dei fatti; proprio come in aritmetica un errore che in sé non ha valore, alla fine, moltiplicandosi da un punto
all’altro del procedimento, produce un risultato lontanissimo dal vero.»

anticipando Poincaré (1908) (in Scienza e metodo, Torino, Einaudi 1997)

Ma se pure accadesse che le leggi naturali non avessero più alcun segreto per noi, anche in tal caso potremmo
conoscere la situazione iniziale solo approssimativamente. Se questo ci permettesse di prevedere la situazione
successiva con la stessa approssimazione, non ci occorrerebbe di più e dovremmo dire che il fenomeno è stato previsto.
Ma non è sempre così; può accadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali ne producano di grandissime nei
fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produce un errore enorme nei secondi. La previsione diviene
impossibile.
Guglielmo da Baskerville e la verità dei segni
“Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall’Abate, il miglior
galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo
ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi,
in ogni caso.” […]

“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”

“Mio buon Adso,” disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci
parla come un grande libro. Alano delle Isole […] pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le
sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla
delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo.
Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere.

U. Eco (1980), Il nome della rosa, Milano, Bompiani 1986.


Guglielmo da Baskerville e la verità dei segni

«Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo,
che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che
lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto
che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia
naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove
l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda,
tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al
deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo
ai piedi del torrione orientale, bruttando la neve.»

U. Eco (1980), Il nome della rosa, cit.


Eco e la sconfitta del detective
«Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò
che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a […] uno schema apocalittico che sembrava reggere
tutti i delitti, eppure era casuale. […] Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una
parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo.»

E nelle «Postille a Il nome della rosa» (1983) Eco scriverà, a proposito del suo romanzo:

Il libro parte come se fosse un giallo (e continua a illudere il lettore ingenuo, sino alla fine, così che il lettore ingenuo
può anche non accorgersi che si tratta di un giallo dove si scopre assai poco, e il detective viene sconfitto). […] È che il
romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca
scientifica, anche una interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo la domanda base della filosofia (come
quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa?
«Come dai romanzi di cavalleria sono nati l’Orlando furioso e il Don Chisciotte, è
possibile che un giorno un grande autore ricavi dallo sterminato materiale greggio
dei romanzi polizieschi un’ opera popolare e di stile.»
U.Saba, da Prose, Mondadori, 1964.

«Il romanzo poliziesco rappresenta nel ventesimo secolo ciò che il romanzo
cavalleresco rappresentava all’epoca di Cervantes. Dirò di più: credo che si
potrebbe fare qualcosa di equivalente al Don Chisciotte: una satira del romanzo
poliziesco. Immaginatevi un individuo che ha trascorso tutta la vita leggendo
romanzi polizieschi e che è giunto alla pazzia di credere che il mondo funziona
come un romanzo di Nicholas Blake o di Ellery Queen. Immaginatevi quel povero
tipo che alla fine se ne va a scoprire crimini e a comportarsi nella vita reale come si
comporta un detective in uno di quei romanzi.»
Ernesto Sábato, Il tunnel, 1948.
Honoré Daumier, 1865-70.
Una definizione di «giallo metafisico»

Patricia Merivale e Susan Elizabeth Sweeney (1999), definiscono con l’espressione


«Metaphysical detective fiction»

«un testo che parodia o sovverte le convenzioni della detective story tradizionale […]

con l’intenzione, o almeno l’effetto, di porre domande sui misteri dell’essere e della

conoscenza che trascendono le mere macchinazioni della trama poliziesca.»


Delitti e probabilità

Quando le prove sono indipendenti l’una dall’altra, cioè quando gli indizi si provano d’altronde
che da se stessi, quanto maggiori sono le prove che si adducono, tanto più cresce la probabilità del
fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull’altra. Io parlo di probabilità in materia di
delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che
rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata
certezza.

C. Beccaria (1764), Dei delitti e delle pene, Milano, RCS 2010.


L’investigatore e lo scrittore
Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il
complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il
criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto
parzialmente alla verità. […]

Ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e
il caso a decidere a nostro favore. Ma nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che
subito dopo diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. […] E ciò che
è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande. Le nostre leggi si fondano soltanto sulla probabilità, sulla
statistica, non sulla causalità, si realizzano soltanto in generale, non in particolare. […] Ma voi scrittori di questo non vi
preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare.
Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna.

F. Dürrenmatt (1958), La promessa, Milano, Feltrinelli 1997.


Leonardo Sciascia (1921-1989)

Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali
e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati,
una sicura attribuzione, è corollario di tutti quei romanzi polizieschi cui
buona parte dell’umanità si abbevera.

Nella realtà le cose stanno però diversamente; e i coefficienti dell’impunità e dell’errore sono alti non perché
(o non soltanto, o non sempre) è basso l’intelletto degli inquirenti, ma perché gli elementi che un delitto offre
sono di solito assolutamente insufficienti. […] Gli elementi che portano a risolvere i delitti che si presentano
con carattere di mistero o di gratuità sono la confidenza diciamo professionale, la delazione anonima, il caso.
E un po’, soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti.

L. Sciascia(1966), A ciascuno il suo, Milano, Adelphi 2010.


Leonardo Sciascia, «Una storia semplice» (1989)

Il magistrato, di fronte all’anziano professore, esordisce dicendo:


“Professore, si ricorda di me?”
“Certo che mi ricordo.”
“Posso permettermi di farle una domanda? Poi gliene farò altre, di altra natura … Nei componimenti
d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”
“Perché aveva copiato da uno più intelligente.”
Il magistrato scoppiò a ridere: “L’italiano, ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è stato
poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”
“L’italiano…, non è questione di italiano: è il ragionare” disse il professore “Con meno italiano, lei
sarebbe forse ancor più in alto”.
La battuta era feroce, il magistrato impallidì.
I detective non euclidei di Sciascia

Arrivate le indagini a un punto morto (cioè a quell’ora e passa trascorsa dal procuratore chi sa dove
e come, oscura zona ai cui confini gli ardori polizieschi erano tenuti a spegnersi), per restituire
all’opinione pubblica quella fiducia nella efficienza della polizia, che peraltro l’opinione pubblica mai
aveva nutrito, o per farla rassegnare alla insolubilità del mistero, il ministro della Sicurezza Nazionale
decise di mandare sul posto l’ispettore Rogas: il più acuto investigatore di cui disponesse la polizia,
secondo i giornali; il più fortunato, a giudizio dei colleghi. […] Rogas aveva dei principî, in un paese
in cui quasi nessuno ne aveva.

L. Sciascia (1971), Il contesto, Torino, Einaudi 1982.


Sciascia e Pirandello

Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo
solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza. Quando
nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un luogo, che mi fingevo remoto e inaccessibile,
di alberi e acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano,
e infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di essere nato e per anni
vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani (al punto che tra le
pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuta fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella
memoria e nei sentimenti)

L. Sciascia (1974), Todo modo, Milano, Adelphi 2013.


Carlo Emilio Gadda, in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957), presenta il suo
investigatore, il dottor Francesco (Ciccio) Ingravallo:

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di
sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella
sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale
s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. […]

Sosteneva , fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia
d’un unico motivo, d’una causa singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella
coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche
nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. L’opinione che bisognasse
«riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele
Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi.
Giorgio Scerbanenco, in Venere privata (1966) presenta l’investigatore Duca Lamberti,
ex-medico, radiato dall’Ordine per aver praticato l’eutanasia su una paziente in stato
terminale:

Dopo tre anni di carcere aveva imparato a passare il tempo coi mezzi più semplici, solo che per i primi
dieci minuti fumò una sigaretta senza pensare ad alcun gioco, ma quando buttò il mozzicone sulla ghiaietta
del viale pensò che il numero dei sassolini dei viali e vialetti del giardino, era un numero finito. Anche il
numero dei granelli di sabbia di tutte le spiagge del mondo poteva essere calcolato ed era in numero finito,
per quanto grande fosse, e così, fissando in terra, cominciò a contare. In cinque centimetri quadrati poteva
stare una media di un’ottantina di sassolini; poi calcolò a occhio l’area dei vialetti che conducevano alla
villa davanti a lui e concluse che tutta la ghiaietta dei viali, che sembrava infinita, era costituita da un misero
numero di un milione e seicentomila sassolini, con lo scarto del dieci per cento in più o in meno.
L’investigatore atipico di Dürrenmatt
Le due pompe della benzina si trovavano davanti alla parte di pietra della casa, su uno spiazzo accidentato, mal
lastricato; tutto dava l’impressione di decadimento, nonostante il sole che ora quasi sembrava scottare maligno. […]
Vicino alla porta aperta della casa, su una panca di pietra, stava seduto un vecchio. Non era rasato né lavato, indossava
una blusa chiara, un po’ sudicia e macchiata, pantaloni scuri, lucidi di grasso, che erano stati un tempo parte di uno
smoking. Ai piedi vecchie pantofole. Guardava fisso davanti a sé, istupidito, e anche da lontano puzzava di liquore.
Assenzio. Intorno alla panca il lastrico era coperto di mozziconi di sigaro galleggianti nella neve fusa. […]
[Il vecchio] guardava fisso davanti a sé, istupidito, spento. Ma quando raggiungemmo la macchina e ci voltammo
ancora una volta, il vecchio serrò i pugni, lì agitò, e spingendo fuori le parole a sussulti mormorò: «Aspetto, io aspetto,
verrà, verrà.» […]
«Lei si deve anche essere meravigliato perché poco fa mi sono fermato presso quel miserabile distributore, e io
voglio confessarle subito il motivo: quella triste carcassa ubriaca che ci ha servito la benzina era il mio uomo più in
gamba. […] Matthäi era un genio, ed in misura maggiore di uno dei vostri detectives.»

F. Dürrenmatt (1958), La promessa, Milano, Feltrinelli 1997.


Il detective inesistente di Denevi
«Ispettore Julian Baigorri. Perdoni se vengo a disturbarla qui, ma poiché lei non ha voluto parlare con… con i
ragazzi, mi è sembrato meglio che noi due parlassimo un po’ dove nessuno possa interromperci. Fuma?»
«Camilo Canegato. No grazie».
«Non fuma? Guardi, avrei giurato che lei fumasse. Sa perché? Le sue dita, così ingiallite, mi sembrano dita da
fumatore.»
«Gli acidi»
«Lei usa acidi?»
«Acidi, vernici, colori, solventi…»
«Ah, lei si riferisce al suo mestiere di…»
«Di restauratore di quadri. Lei a cosa credeva che…?»

M. Denevi (1955), Rosaura alle dieci, Palermo, Sellerio 1999.


Caratteristiche dei gialli metafisici
• La sconfitta dell’investigatore e l’impossibilità della ricerca di una verità che non sia puramente
soggettiva. Vittoria del caos su ogni tentativo di ristabilire ogni parvenza d’ordine.

• Il mondo, la città e il testo come labirinto. Labirinti postmoderni e rizomi.

• Metanarratività o il testo nel testo.

• Ambiguità, mancanza di senso di ogni chiave o indizio per comprendere il mondo e l’altro.

• La persona dispersa, “l’uomo della folla”, gli specchi e il doppio, l’identità perduta, rubata o
scambiata.

• L’assenza, la falsità, la circolarità o la natura auto-frustrante di ogni conclusione del lavoro di


investigazione. Il testo come opera aperta, ambigua, incompiuta.
Investigatori «per caso» nei gialli metafisici
• “L’uomo della folla” di E. A. Poe (narratore-detective?)
• Laurana di A ciascuno il suo di Sciascia (professore)
• Il narratore di Todo modo di Sciascia (scrittore di gialli)
• Quinn nella Città di vetro nella Trilogia di New York di Paul Auster (scrittore di gialli sotto lo pseudonimo di William
Wilson)
• Lucas Corso ne Il Club Dumas di Pérez-Reverte («mercenario» di libri rari e antichi)

• Soluzioni per caso:


• “La morte e la bussola” di Jorge Luis Borges
• La Promessa di Friedrich Dürrenmatt
• Il nome della rosa di Umberto Eco

• Nessuna soluzione o soluzione insoddisfacente:


• Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda (Excusatio non petita?)
• Rosaura alle dieci di Marco Denevi
• Todo Modo di Leonardo Sciascia
Guillermo Martínez e il teorema di Gödel

“C’è differenza fra la verità e la parte di verità che può essere dimostrata. Questo è uno dei corollari di

Tarski al Teorema di Gödel” disse Seldom. “Naturalmente giudici, medici, archeologi, tutti sapevano ciò

molto prima dei matematici. Pensate a un qualsiasi delitto con due soli possibili colpevoli. Entrambi i

sospettati conoscono la parte di verità che conta, cioè sono io o non sono io. Ma la legge non può arrivare

direttamente a quelle verità; deve seguire un laborioso cammino per raccogliere prove, interrogatori, alibi,

impronte e così via. Tutto ciò spesso non è sufficiente per provare la colpevolezza dell’uno o l’innocenza

dell’altro. E ciò che Gödel dimostrò nel 1930 nel suo Teorema di Incompletezza è che la stessa cosa può

accadere in matematica.”

G. Martínez, La serie di Oxford (Crimini impercettibili) (2003).

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