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La volpe che amava i libri

di Nicola Pesce
La volpe che amava i libri
di Nicola Pesce
© 2020, Edizioni NPE
© Nicola Pesce
Tutti i diritti riservati.
Collana Himself, 4
Prima edizione, APRILE 2021
Prima ristampa, AGOSTO 2021
Seconda ristampa, AGOSTO 2021
Terza ristampa, SETTEMBRE 2021
Quarta ristampa, FEBBRAIO 2022
Ordini o informazioni: info@edizioninpe.it
Caporedattore: Stefano Romanini
Ufficio Stampa: Gloria Grieco –ufficiostampa@edizioninpe.it
Progetto grafico: Nicola Pesce
Stampato nel mese di FEBBRAIO 2022
tramite Tespi srl –Eboli (SA)
Edizioni NPE – Nicola Pesce Editore
è un marchio in esclusiva di Solone srl
Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA)
Scritto dal 1° gennaio 2020 al 23 settembre 2020
nicolapesce.it
Nota dell’autore:
Mi è piaciuto far finta che questo libro
fosse come quei grossi volumoni russi
che leggevo da bambino,
con le note di traduzione a piè di pagina.
Perdonatemi questo vezzo!
Indice

Copertina
Frontespizio
Copyright
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII.
XIX.
XX.
XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
XXVIII.
XXIX.
XXX.
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI.
Postfazione alla seconda ristampa
I.

C
’era una volta – nell’immensa taiga russa – una volpe di nome
Aliosha1. L’inverno si stava avvicinando, Aliosha se ne accorgeva
dal fiato che si faceva fumo quando – sull’uscio della sua tana – si
guardava intorno per gli ultimi preparativi, prima del suo lungo letargo.
Quel giorno cadeva dal cielo una pioggerella leggera. Sulla punta di un
suo baffo atterrò un fiocco di neve: era il momento.
Camminò in tondo due o tre volte, senza risolversi a entrare, infine varcò
la soglia e sbarrò la porta di legno.
Dovete sapere che Aliosha era una volpe diversa dalle altre, perché
amava i libri.
Non avrebbe saputo dire quando era iniziato il tutto. Forse quella volta
che era a caccia di cibo in paese e a terra aveva trovato uno di quegli
assurdi oggetti degli umani.
Che cos’era? Era incomprensibile. Un dorso rigido dal quale partivano
tante ali di carta.
La copertina, tutta umida e stropicciata, recava il disegno di un bimbo dai
capelli biondi con un mantello.
Poi aveva sentito un profumino di patate alla brace e aveva girato la testa.
Sdraiato nella neve, un povero vecchio beveva pochi metri più in là e
gridava il nome di una donna.
Il vento impetuoso intanto aveva cercato di trascinare via il libriccino, ma
lei aveva pur sempre i riflessi di una volpe e lo aveva bloccato con una
zampina tra le pagine, senza volgere il capo, continuando ad annusare
l’aria.
Quello che aveva visto quando era tornata a studiare l’oggetto l’aveva
colpita: accanto all’impronta fangosa della sua zampetta, tra le pagine di
quel libro, c’era il disegno di una piccola volpe che parlava col fanciullo
biondo in un campo di grano.
Così, invece di rubare le patate, quel giorno si era ritirata alla tana con un
libro!

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1. In questo libro, il narratore parla dei vari personaggi talvolta al maschile, talvolta al femminile.
Il traduttore ha ritenuto opportuno non modificare questa circostanza.
Aliosha ad esempio è un nome maschile, diminutivo di Aleksej. Tuttavia, quando ad esempio il
narratore parla di «la volpe», tutti i riferimenti sono al femminile. Quando invece è qualcosa di
molto personale, per Aliosha, allora tutto è regolarmente al maschile.
II.

C
’era voluto un intero inverno per decifrare quei piccoli segni tra le
pagine, un anno prima. In letargo nella sua tana di terra del resto
avrebbe avuto ben poco da fare per una intera stagione.
Così lo aveva letto tre volte, scoprendovi ogni volta nuovi significati, via
via più profondi, che alla lettura precedente non avrebbe sospettato.
Lo stupore più grande, tuttavia, lo aveva provato la primavera seguente.
Dovete sapere infatti una cosa: Aliosha non aveva capito che ne
esistessero altri, di libri! Del resto bisogna comprenderla: era una volpe!
Dapprima, sbirciando da una finestra l’interno di una misera casetta,
aveva notato un vecchietto tutto imbacuccato che leggeva un tomo molto
più grande del suo. Non poteva essere lo stesso libro: aveva più del doppio
delle pagine!
Quando l’umano era uscito fuori in cerca di altra legna da ardere, era
sgattaiolata dentro – pur essendo una volpe – e senza pensarci due volte
aveva rubato il libro così come era solita rubare le fette di carne.
Ma il vecchietto era tornato prima del previsto e si era dovuta
nascondere.
Ora, potrete immaginare da soli l’assurdità della scena se vi figurate un
signore in ciabatte un po’ svampito che cerca il libro dappertutto – persino
sotto una tazza di thé! – guardando e riguardando più volte negli stessi
posti, borbottando in un russo via via più spazientito, mentre una volpe con
un grosso libro in bocca se ne sta nascosta dietro al sofà!
Se il vecchietto ciabattando faceva il giro del sofà, anche lei lo faceva,
finché i loro sguardi si erano incrociati mentre il fuoco del camino
disegnava a terra la lunga ombra della volpe. Dopo diversi secondi, di
stupore l’umano si era ripreso e – dandole della “birbantella” – aveva
cercato di raggiungerla.
Il portone era chiuso e così Aliosha aveva dovuto scappare in un’altra
stanza. C’era una finestra socchiusa e da lì, un attimo dopo, sarebbe fuggita,
ma cosa aveva visto in quella stanza!
Una piccola biblioteca!
III.

Q
uesta cosa di leggere in un primo momento l’aveva sottovalutata.
Certo, le piaceva molto, ma non avrebbe mai immaginato le terribili
conseguenze che avrebbe avuto nella sua vita.
Quando a primavera aveva incontrato nuovamente altre volpi, si era pian
piano resa conto che tra loro si era scavata una grande distanza.
Per esempio, un giorno che con delle amiche aveva attraversato un
campo di grano, a un tratto si era accorta di provare un certo piacere e
anche una certa malinconia. In lei c’erano stati infatti non uno, ma due
campi di grano: quello reale e quello di cui aveva letto.
Aveva rallentato il passo crogiolandosi nei pensieri, assaporando quello
strano riverbero. Aveva notato che il sole che stava tramontando gettava i
suoi lunghi raggi obliqui con maggiore dolcezza. Intanto le altre volpi erano
corse molto più avanti. Avrebbe voluto spiegare loro ogni cosa, ma come
avrebbe potuto fare? Loro un libro non l’avevano mai letto!
A un certo punto – peggio ancora! – i campi di grano erano diventati tre!
Infatti si era riscoperta a vedere la scena dall’alto, come fosse un uccello:
c’erano delle volpi che si rincorrevano tra le spighe; un sole rosso acceso in
lontananza e una volpina cento arshin1 più indietro, seduta a riflettere e a
guardarle, mentre un corvo attraversava il cielo stagliandosi contro il sole. E
quanta tenerezza in quella scena!
Ma quale prodigio era accaduto? Il mondo si era fatto più grande e più
bello. C’erano cose da pensare, cose da guardare, cose da ricordare!
Eh sì, perché allora era apparso anche un quarto campo di grano: quello
del ricordo. E proprio in quel momento era stata percorsa da un brivido e si
era messa a correre per scrollarselo di dosso, raggiungendo le altre.
Leggere in primavera, con quel bel sole che scioglieva le brine, le era
stato più difficile, eppure aveva trovato il tempo di finire quel grosso tomo
rubato da poco. Cominciando l’estate, le era parso normale riportarlo
sull’uscio di casa del vecchietto. Rubare il cibo era una cosa, rubare un libro
un’altra. Non poteva sapere che il vecchietto l’aveva vista!
Il giorno dopo, passando di lì, quale non fu la gioia! Su quel gradino
c’era un altro libro ad aspettarla!

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1. Antica misura di lunghezza usata nell’Impero russo, equivalente circa a settanta centimetri.
IV.

L
a sua tana era piccola e accogliente. C’era un piccolo foro
d’ingresso, scavato ai piedi di una betulla. Siccome sulla betulla
cresceva rigogliosa un’edera di un verde intenso, in primavera per
entrare bisognava passare con la testa tra le foglie come attraverso una
tendina.
In inverno sarebbe stato diverso: l’edera avrebbe temporaneamente
seccato, e la neve avrebbe ricoperto tutto.
Dopo uno stretto corridoio che scendeva nella terra per poco più di un
sazen1, una splendida porticina chiudeva quel mistero.
Se le altre volpi avessero potuto sbirciarvi dentro, che stranezze
avrebbero visto!
C’era un piccolo letto, dove lei si accucciolava facendo sempre prima un
po’ di giri su sé stessa. Un fuocherello nel camino le dava il calore e le
candele alle pareti la luce giusta per leggere.
Davanti al focolare c’era un bel divano, un po’ vecchiotto ma comodo.
Alle pareti qualche pentola vecchia di terracotta e soprattutto, gioia dei suoi
occhi e delle lunghe giornate di letargo, una piccola biblioteca!
Forse non erano molti libri, ma li aveva letti tutti e questo era più
importante.
Un altro piccolo cunicolo conduceva alla sua dispensa.
Cosa non c’era lì dentro! Patate, fagioli, mele, salumi, soppressate,
formaggi appesi al soffitto con un filo di spago, cioccolata, thé, tisane,
infusi e, perché no, anche una bottiglia di vodka e qualche altro liquore!
Con tutto quel ben di Dio da mangiare, da leggere e da bere, che
soffiassero pure i freddi venti dell’inverno siberiano, che nevicasse, che
facesse bufera, tempesta, che tardasse la primavera: non importava!
Aveva appena chiuso la porta dietro di sé; la legna scoppiettava nel
camino; una candela accesa ardeva danzando e, una gocciolina di cera alla
volta, andava preparandosi uno splendido abito da sposa intorno al collo
della bottiglia nella quale era infilata.
Si accomodò sul divano, prese il libro accanto a sé e ne tolse la foglia
secca che usava come segnalibro. Prima di iniziare a leggere mise una
zampina fra le pagine, bevve un sorso di tisana calda alla cannella e sospirò
felice: era giunto l’inverno!

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1. Antica misura di lunghezza usata nell’Impero russo, equivalente a poco più di due metri.
V.

M
a un pensiero la corrucciò per un momento. Prese la fogliolina
secca e la mise fra le pagine; posò il libro sul tavolino e perse i
suoi occhi nel fuocherello.
Si alzò, mise un altro ceppo sulle braci e, prima ancora di sedersi, sentì il
crepitare della fiamma che lo avvolgeva.
In fondo Aliosha aveva sempre amato la solitudine. Ripensava a
numerosi momenti primaverili, alle altre volpi, agli altri animaletti che nel
corso della sua vita aveva incontrato.
Ricordava con eccessiva intensità alcune parole che le erano state dette.
Che cosa avevano voluto dire? Altre volte pensava a parole che aveva detto
lei stessa.
In fondo Aliosha era sempre stata troppo sensibile. Per esempio, una
volta, quando lei era ancora piccolina e il suo pelo era ancora chiaro come il
miele, aveva invitato degli amichetti a casa. Si era in quella notte dell’anno
in cui si dice che gli spiriti dei morti possano camminare di nuovo sulla
terra.
Lei e i suoi amichetti giocavano a rincorrersi nella grande tana di suo
padre. A un certo punto, coperta da un lenzuolo bianco con due fori al posto
degli occhi, ululando in modo teatrale, una figura era apparsa da un
cunicolo.
I giovani già allora non conoscevano più la meraviglia. Ormai, per
scoprirla, bisogna prima invecchiare molto, e avere molte delusioni, e non
meno di due o tre grossi rimpianti.
E allora lei di fronte a quel fantasma bislacco cosa aveva detto,
sentendosi osservata dai suoi amici? Aveva detto, con voce forte: «Bòsge
mòi1, ditemi che non è mia madre, vi prego!».
Si vergognava molto di sua madre e di quella messa in scena. Ma quando
la propria voce aveva rimbombato forte in tutte le stanze della tana, Aliosha
si era vergognata di sé stessa. No, a pensarci bene, allora non ci aveva
badato, ma nel corso degli anni a venire spesso quell’eco l’aveva
tormentata. La vecchia madre aveva riso di un riso triste, si era tolta il
lenzuolo e scherzando era andata via, ma non le ridevano gli occhi.
Ora la rivedeva nelle braci del camino, curva sotto il peso degli affanni e
dei suoi troppi anni, allontanarsi fino a sfumare nell’oscurità.
Adesso che avrebbe voluto inseguirla e abbracciarla non era più tempo;
un’altra oscurità l’aveva presa, e lei non aveva potuto dirle scusa e farle
ridere gli occhi.
Sì, Aliosha era sempre stata troppo sensibile, e il passato le appariva
come un firmamento di stelle tristi, attimi cui non avrebbe voluto pensare
che pure tornavano a pungerla nelle lunghe notti dei suoi inverni, tra una
pagina e l’altra.
Mentre era nel letto o mentre cucinava i fagioli, ecco che si ricordava ad
esempio di sua madre. Era come se non fosse morta una sola volta, ma
mille piccole volte. Mentre i fagioli borbottavano sul fuoco, le veniva in
mente che non li avrebbe più cucinati insieme a lei; chiudendo la porta della
tana per l’inverno si accorgeva che non l’avrebbe più chiusa insieme a lei,
che lei non avrebbe più fatto quel verso buffo che faceva ogni volta per il
freddo; che suo padre durante il letargo non l’avrebbe più mandata a
controllare se nevicasse ancora e Aliosha non avrebbe più sentito la sua
voce che rispondeva: «Nevica, nevica». Dove era finita la voce di sua
madre?
«Mi costruirò una solitudine,» pensava Aliosha, «dove non penetrerà mai
più il dolore. E se per questo non dovesse penetrare neanche la gioia,
pazienza! Non voglio vedere mai più nessuno!».
Ma proprio in quel momento udì chiaramente: «Toc toc!».

____________
1. «Oh mio Dio!».
VI.

«C hiAliosha
può essere che bussa alla mia porta durante l’inverno?» pensò
senza muoversi dal divano, riponendo ancora una volta la
fogliolina secca al centro del libro. «Andate via e non tornate più da queste
parti. Non vedete che è tardi? Sono molto stanca e non mi sento bene. Non
desidero altro che stare da sola. Andate via, non invadete la mia tana. È
meglio se non entrate, perché potrei soltanto scappare fuori e nascondermi».
Ma proprio in quel momento si ripeté ancora: «Toc toc toc!» stavolta con
maggiore premura.
«Saranno solo i rami dell’edera, ormai rinsecchiti dal freddo, che una
folata di vento troppo forte ha spinto a tentare la mia porta con le dita
ossute. Sarà l’inverno russo che bussa alla mia tana?». Ma l’inverno non
era.
«Sarà un amico che ha allungato la strada e ha pensato di passare a
trovarmi? È bello che si sia ricordato di me. A volte nei momenti di
profonda tristezza si ha la sensazione di essere soli al mondo, come un
ciottolo sul fondo di un freddo fiume infinito, dove ogni suono è ovattato ed
è impossibile comunicare con chiunque».
Quando giunge l’inverno nel cuore di una volpe è come se ormai tutti i
giochi siano fatti e se la tana è vuota è vuota. Ed è vero che era stata lei a
volerla vuota, ma ad Aliosha non sarebbe dispiaciuto che un amico l’avesse
cercata.
Come per ogni vera creatura russa, oltre il pavimento dei propri desideri
più forti e radicati c’era sempre l’abisso del loro opposto, dietro ogni
solitudine il desiderio di essere voluti bene, dietro ogni sforzo per avere
successo la profonda e perversa voglia di fallimento, dietro ogni virtù
l’abisso della perdizione e viceversa.
E così, in quella terra, le creature più nobili erano quelle perdute, e i santi
erano grandi peccatori, mentre gli ubriaconi erano puri come statue di luce.
Anche le creature della foresta lo sapevano, che si poteva dormire sereni ai
piedi dell’assassino e bisognava tenersi alla larga dal pacato commerciante.
Ma alla porta della volpe che amava i libri non era stato un amico a
bussare.
Senza fare alcun rumore, camminò in punta di zampette fino alla porta.
Aveva paura che, se il visitatore l’avesse sentita, sarebbe rimasto poi a
bussare per sempre!
Ma perché la disturbavano? Non aveva fatto del male a nessuno e voleva
restare un intero inverno sola con i suoi libri, il suo thé e i suoi pensieri.
Sentì fischiare la tormenta con lunghi sibili, le batteva forte il cuore.
Poteva essere suo fratello che l’aveva perdonata ed era tornato a trovarla?
Ma il fratello non era tornato.
Poteva essere lei stessa alla porta? Una Aliosha di tanti anni fa, quella
che credeva ancora nelle cose?
Poggiò la fronte rovente contro il legno del portone e sentì che era
ghiacciato. Poteva essere il suo amore che aveva ritrovato la strada?
Ma non era il suo amore. Aprì la porta. Un piccolo topolino tutto
intirizzito dal freddo – con una specie di filo rosso attorcigliato intorno a
una zampetta – spalancò due occhietti minuscoli come punte di spillo nel
constatare, terrorizzato, che quella fosse la tana di una volpe, e svenne.
Aliosha lo portò dentro e lo distese sul divano di fronte al fuoco.
VII.

I
l camino crepitava nella tana e il topolino tremava agitato da mille
incubi in preda alla febbre. Aliosha lo guardava e le si stringeva il
cuore: con una zampina si stringeva forte al petto quelli che scoprì
essere dei sottili capelli rossi. Così piccolino, così indifeso, le ricordava la
propria anima. Le ricordava di sé stessa quand’era ancora un cucciolo e
ogni cosa la spaventava, e gli altri si prendevano gioco di lei.
Le erano sempre parse importanti cose di cui le altre volpi non si
curavano: un tramonto struggente dietro un campo di grano, il richiamo
metafisico di un gufo nel folto della notte.
E le erano sempre parse stupide le cose che ai suoi coetanei parevano
tutto: un pettegolezzo su qualcuno che avesse detto o fatto qualcosa, una
gara di caccia o di velocità.
Soltanto adesso cominciava a trovare la forza delle proprie convinzioni,
soltanto adesso non si vergognava più di sé stessa e aveva scoperto quanto
fosse meraviglioso essere unica.
E così aveva arredato con gusto la propria tana, l’aveva riempita di libri e
d’inverno, invece di dormire, leggeva.
Leggendo i libri aveva scoperto che esistevano persone che si erano
sentite sole come lei, che erano uniche, e aveva capito che poteva anche
accadere che lei fosse nel giusto e diecimila altri nel torto.
Ma lei era una volpe, una volpe che amava i libri, e non c’era nessuna
altra volpe simile a lei. Ci voleva forza per reggere questo, e vedendo quel
minuscolo topolino grigio che ansimava, per la prima volta Aliosha si sentì
forte.
Tutti i suoi sentimenti di paura e inadeguatezza, di solitudine, di
incertezza nel futuro, ora erano in quell’animaletto. Aliosha sentì che se
avesse potuto aiutarlo a superare l’inverno, forse si sarebbe salvata anche
lei. E quando quel topolino in primavera avrebbe lasciato la sua tana, anche
le paure della sua infanzia l’avrebbero lasciata per sempre insieme a lui.
In molti romanzi – e in certi strani volumi in cui le righe andavano
continuamente a capo cosicché le pagine erano quasi tutte bianche – aveva
letto la parola «amure». Non le era chiarissimo cosa fosse.
Aveva capito che poteva esserci amure tra un uomo e una donna, ma
anche tra un padre e un figlio, o tra due amici. Un libro molto strano che
l’aveva colpita particolarmente la invitava a provare amure anche per gli
sconosciuti, per il suo prossimo, per i deboli, e nessun essere al mondo
poteva essere più debole di quel topolino.
Così gli si avvicinò e gli toccò la fronte con una zampetta: scottava. Mise
sul fuoco una pentolaccia pesante piena di acqua, carote, cipolle, sedano e
mille altre cose. Dopo poco la tana si riempì di un tale profumo che il
musetto baffuto del suo ospite cominciò a fiutare l’aria e a rianimarsi.
Aliosha preparò due ciotole: la sua a grandezza naturale, di terracotta,
quella del suo ospite invece era una tazzina da caffè. Poi prese una fettina di
pane raffermo – duro come una pietra, ma che nel brodo caldo sarebbe
presto diventato appetitoso – la spezzò con le mani e mise la parte più
grande nella propria ciotola. In quella del suo nuovo amico andarono invece
qualche pezzetto e qualche briciola. Quando le ciotole furono piene, cercò
di svegliarlo dolcemente, rimboccandogli la coperta.
Il topino aprì gli occhi e cacciò un grido, rintanandosi sotto la stoffa, ma
– cosa buffissima! – ne usciva una zampetta. Aliosha gli avvicinò la sua
tazzina di brodo caldo: «Non devi avere paura. Tieni, avrai fame. Come ti
chiami?».
Dalla coperta uscì prima un nasino che tastava l’aria, poi una zampetta
che tirò a sé la tazzina. Infine dopo qualche secondo apparve la piccola
testolina: «Mu… Musoritz!».
VIII.

«S ono nato tra i sacchi di farina di un forno, ultimo di cinquanta


fratelli.» così esordì il piccolo topolino, lisciandosi tra le zampe la sua
ciocca di capelli rossi.
«Quando mia madre mi partorì, forse non si aspettava altri topini, o non
ricordava di avermi in grembo. Infatti era già in giro e quando uscii fuori la
prima cosa che mi disse fu – Ah, ci sei anche tu! –. Eh sì, c’ero anche io.
«Così tornammo alla tana, che era nell’intercapedine di un muro, dietro
delle assi rosicchiate, e per i miei fratelli maggiori rimasi sempre “quello
venuto da fuori”, perché non ero nato insieme a loro, e questo doveva essere
evidentemente una grande colpa. Forse il fatto di non avermi visto nascere
aveva insinuato per sempre nelle loro menti il dubbio che io fossi un
estraneo o – come mi chiamavano spesso – un trovatello.
«Quando mamma si ritirava per allattarci, io non riuscivo mai ad
avvicinarmi a lei distesa, c’era sempre qualche zampina che mi scacciava
indietro. Quando veniva il mio turno, le mammelle erano già esauste, il latte
era finito e lei si era addormentata, cosicché a me restava soltanto un vago
ricordo del latte, un retrogusto, qualche gocciolina.
«Allora, non potendo avere il nutrimento, cercavo almeno di prendermi
un po’ di affetto, un po’ di quel calore che i miei fratelli mi negavano, non
volendomi con loro. Le alzavo una zampetta addormentata e mi ficcavo lì
sotto. Nel sonno poi piano piano mi convincevo che quell’abbraccio fosse
voluto e fosse tutto per me. Quando mi svegliavo, lei non c’era mai».
Musoritz interruppe un attimo il racconto perché una folata di vento più
forte delle altre lo aveva fatto rabbrividire. Aveva il musetto inzuppato di
brodo fino ai baffi. Si ripulì un pochino e riprese il suo racconto: «Intanto i
miei fratelli crescevano più grandi e più forti e per me diventava sempre più
difficile vivere in mezzo a loro.
«Un bel giorno – lo ricordo come se fosse adesso – mi dissero che un
gattone enorme era stato avvistato nei paraggi del forno. Me lo dipinsero
come l’essere più cattivo e vorace del mondo. Poi mi trascinarono fuori e
cominciarono a fare rumore per attirarlo.
«Si sentì miagolare, e in un attimo erano spariti tutti. Io non ero mai stato
fuori, e quel mondo ampio e senza soffitto mi faceva tremare. I miei piedi
affondavano in una specie di fango bianco freddissimo e morbido. Balzai
indietro sbuffando. Una grande quantità di quel fango bianco si agitava
nell’aria. Ero pietrificato dal freddo, dalla paura e dalla confusione. Mi
scossi, ma quella roba continuava a venirmi addosso. Provai a leccarla:
sulla lingua sembrava fuoco e subito dopo scompariva. Non capivo più
nulla. Sentivo i miei fratelli – nascosti – che ridevano forte. Mi sentii pieno
di vergogna senza sapere perché: era la prima neve che vedevo.
«Intanto il miagolio si era fatto più vicino e le mie zampette scattarono e
corsi piangendo e squittendo verso l’ingresso della calda tana dalla quale mi
avevano appena sbattuto fuori. Quale non fu il mio stupore quando trovai
l’ingresso sbarrato!
«Quello era l’unico posto che conoscevo, il buio era l’unico colore,
quello della mia famiglia l’unico odore. E così, all’improvviso, mi trovai
buttato fuori in un mondo completamente nuovo. Li imploravo, piangevo
così tanto che mi colava il muco dal naso, e presto si faceva di ghiaccio.
Grattavo contro lo sbarramento: me ne arrivavano soltanto risa.
Cominciarono a chiamare il gatto più forte che potevano.
«Mi infilai tra dei sacchi di farina e vi restai un tempo indefinito,
addormentandomi e svegliandomi più volte. Il gatto era tra quelle mura.
Attraverso un pertugio riuscii a rivedere la neve. C’erano delle persone, dei
giganti che passavano ritti su due gambe, e ridevano di un vecchio
ubriacone che strisciava e chiedeva l’elemosina.
«Il pensiero andò solo un istante a quegli abbracci rubati a mia madre, al
suo odore, al sapore di quell’ultima goccia di latte che qualche volta mi
riusciva di leccare e corsi attraverso la neve senza più voltarmi indietro».
IX.

«M ic’erano
intrufolai subito tra le assi di legno di una casetta. In una cucina
1
del burro e della smetàna e ci inzuppai i baffetti! Non
avevo mai conosciuto un altro sapore e fu una sensazione che non saprei
descrivere. Prima che potessi mangiare a sazietà un terribile urlo mi fece
scappare a nascondermi dietro una testa di lattuga.
«Pare, amico mio,» disse Musoritz sgranocchiando una briciola grossa
quanto il suo naso, «che gli uomini non abbiano una grande passione per
noi topi! La vecchia cuoca – con una pancia grande quanto un sacco di
farina – gridando “Bòsge mòi! Bòsge moi!”mi inseguì per tutta la stanza
con un forchettone che a volte usava per cercare di schiacciarmi, altre per
cercare di infilzarmi. Non potei che uscire dallo stesso foro dal quale ero
venuto. Era la seconda volta quel giorno che venivo sbattuto nella neve.
Pareva proprio che nessuno volesse questo povero Musoritz!».
Il topo poggiò la tazzina accanto a sé e gli scappò un ruttino. «Pardon!»
esclamò subito ridendo, come se la cosa lo imbarazzasse terribilmente
nonostante la sua specie fosse poco incline alle buone maniere.
«Ma qualcuno mi volle.» disse dopo qualche secondo, incantandosi a
guardare per un tempo indefinito quei sottilissimi capelli dai quali non si
separava mai. Aliosha non avrebbe saputo dire se fosse stato il camino che
l’aveva colpito con una luce diversa, ma il suo ospite si illuminò in volto,
con gli occhi allegri e tristi.
Adesso aveva messo le zampine sulla propria pancia gorgogliante di
zuppa, aveva intrecciato le dita e sorrideva guardando il fuoco.
«La neve era bella, ma io avevo freddo. Le zampe erano così fredde da
bruciare. Sembrava che in ogni casa vi fosse un nemico. Vedevo i loro caldi
fuochi accesi e non potevo avvicinarmici, vedevo i loro cibi e non potevo
mangiarne.
«Quella notte scavai una buca nella neve e mi ci addormentai,
scaldandomi col mio fiato. La mattina quasi non riuscii ad uscirne. Persino
il gatto fu sconcertato di veder sbucare un topo dalla neve! Era l’inizio di un
nuovo mondo, in cui i topi gli sbucavano addosso dalla neve?» Musoritz e
Aliosha scoppiarono a ridere insieme. «Fece un tale balzo!» e risero ancora
fino alle lacrime. Poi Musoritz si asciugò gli occhi con l’angolo della
copertina, si alzò e si fece serio: «Cominciò l’inseguimento».
Si avvicinò al fuoco e cercò di ravvivarlo. Tutto preso dall’enfasi, vi
gettò un ciocco di legno che rotolò alla fine del camino. In realtà le sue cure
impacciate stavano facendo più male che bene al fuoco, ma Aliosha non se
la sentiva di interromperlo.
Raccontò di mille peripezie, agitando le mani per aria, imitando la voce
del gatto, mostrando le sue finte, le volte che aveva accelerato e quando si
era infilato sotto una radice sporgente e il gatto ci aveva sbattuto il muso.
«Ma non ce la facevo più,» continuò, «Correre nella neve era
faticosissimo, mentre il gatto era ancora nel meglio delle sue forze. Ormai
eravamo quasi fuori dal villaggio e sembrava non ci fosse più alcuna casa
dove nascondermi infilandomi tra le assi quando, lontano, vidi una piccola
dacia tutta rotta con del fumo che usciva da un comignolo storto.
«Riuscivo a pensare solo a quel fumo e mi dicevo che presto sarei stato al
caldo. Ma era impossibile: troppo grande la distanza, io troppo stanco.
«Non so come, ma ci riuscii. E quando dico che non so come lo intendo
davvero. Non me lo spiego. Resterà uno dei grandi misteri della mia vita.
Perché il gatto non mi prese? Mah! Ero dentro. Ero salvo.
«A proposito,» si interruppe Musoritz come parlando del più e del meno,
«tu intendi mangiarmi?»
«Ma no!» rispose Aliosha.
«Ecco un secondo mistero!» rispose il topo.

____________
1. La “smetana” è una panna acida molto diffusa nella cucina russa.
X.

D
i nuovo sul volto di Musoritz si dipinse una espressione trasognata,
come se stesse per parlare di un sogno e non di un ricordo.
«Quando fui dentro,» ricominciò, «ciò che mi colpì fu soprattutto la
pace. Mi ero convinto che la stanza fosse vuota. Vedevo un lettino, con
delle coperte morbide che davano un’idea di calore. Delle piccole ciabatte,
qualche casetta per terra…»
«Casetta?» la interruppe la volpe.
«Sì, proprio così. Li chiamano “giochi”. Come posso spiegarti? Esistono
degli umani in miniatura…»
«E vivono in queste casette?»
«No, aspetta. Le casette sono poco più grandi di me. Gli umani in
miniatura invece hanno varie dimensioni, ma sono tutti più grandi di queste
casette… “bambini” li chiamano.»
«Ah, sì, “bambini”! Ne ho letto in un libro…»
«Tu leggi libri!?» esclamò Musoritz illuminandosi, «Anche la mia umana
leggeva i libri!»
«La tua umana?»
«Eh, sì, io ho una umana che è tutta mia e io, io sono tutto suo. Se mi
dicesse – Musoritz! Salta nelle fauci del gatto! – io lo farei. Perché so che
vuole solo il mio bene, e io voglio solo il suo. Ora, so che può sembrare
strano, ma io so che in questo momento lei sta pensando a me, e lo so
perché io sto pensando a lei. Nel farlo, non mi sento solo, non è come un
ricordo: c’è una corrispondenza, una sorta di eco. Ecco, io sento che in
questo momento i suoi piedini calpestano la neve e sta andando a scuola. Io
so che in questo momento si sta togliendo lo zainetto e si sta sedendo. Le
amiche le parlano, lei risponde, e loro credono che lei sia lì con loro, che
stia pensando a loro, e invece lei è qui.
Sta pensando a me, preoccupata, e si chiede – Chissà cosa fa ora il mio
Musoritz! –».
Il volto del topo si illuminò di nuovo. Si alzò e, ancora una volta, per
sistemare il fuoco come aveva visto fare alla sua amica volpe, lo guastava
tutto.
Aliosha ebbe l’impulso di alzarsi e fermarlo, ma non lo fece: certe volte
non bisogna interrompere un amico che ha avuto una brutta giornata e ti sta
raccontando qualcosa. Una buona storia, in una tana durante l’inverno
russo, vale più di ogni altra cosa.
XI.

«L achemiala umana è una bimba e ha dei lunghi capelli rossi. La prima volta
vidi sbucavo da dietro un comodino. Lei era seduta di spalle al
centro della stanza e faceva cento voci diverse giocando con le sue casette e
le sue piccole bambole. Inventava delle storielle e gliele faceva vivere.
«Ma a quelle bambole non accadeva mai nulla di bello. Erano storie tristi
della profonda Russia. Quando mi accorsi che stava per voltarsi mi infilai
subito in una ciabattina. Sentii le assi del pavimento scricchiolare
lievemente, poi la sua testolina curiosa apparve nel mio campo visivo. Il
cuore mi batteva all’impazzata!
«Devi immaginare che giornata d’inferno era stata quella, e io ero
bagnato, avevo freddo e mi dolevano le zampe per tutto quel correre. Attesi
l’urlo e pensai distintamente che stavolta mi sarei lasciato ammazzare. Non
mi andava più di correre piangendo senza sapere dove andare, senza niente
da mangiare».
Il cuore batteva forte anche ad Aliosha. Era come per certi libri che aveva
letto, dove l’autore narrava in prima persona. Questo in un primo momento
toglieva un po’ di suspense al racconto poiché – se l’autore era lì a
scriverne – evidentemente era sopravvissuto, anche perché magari
mancavano per esempio duecento pagine!
Però ogni volta Aliosha cominciava a voler bene al narratore e così le
pagine scorrevano veloce nell’ansia di sapere come sarebbe andata a finire.
E così era per quel suo nuovo amico: il topo era lì, lo vedeva sano e salvo, e
quindi in qualche modo doveva essere andata bene, ma “bene” non bastava!
Aliosha avrebbe voluto poter mettere le zampe in quella storia e tessere un
paradiso per Musoritz, perché non meritava di soffrire ancora.
«La prima volta che vidi il suo visetto rimasi incantato. Pallida come la
neve, o forse rosa, con due labbrucce su cui indugiava un eterno broncio.
Due occhioni verdi: era come se a un pittore fosse caduta la tavolozza su
una tela bianca e ci fosse stata una esplosione di colori puri. Era… era…»
«Bella?» lo aiutò la volpe.
«Sì, bella, ma non era la parola che stavo cercando. Era buffa!»
«Buffa?»
«Penso che niente possa essere davvero bello se non è almeno un po’
buffo. La vera bellezza non accetta né autocompiacimento né presunzione.
Chi è davvero bello non sa di esserlo, se lo sapesse sarebbe un buffone. E la
vera bellezza richiede anche un difetto, che incatena il tuo sguardo come un
fiore che sbuca dalla neve, come un’unica nuvola in cielo. E quando sorrise,
oh quando sorrise!
«Mi guardò incuriosita nella ciabattina che mi faceva da rifugio e quel
broncio divenne un largo sorriso: aveva un dente che in un punto era
scolorito, e io pensai che avrei voluto farla sorridere sempre per poterlo
guardare più a lungo. – Topino! – disse sottovoce, – Aspettami qui! – e uscì
dalla stanza. Tornò con un po’ di pane e un pezzettino di kalbasà1».
Musoritz aveva gli occhi lucidi, si alzò e andò di nuovo a guastare il
fuoco.
«Da quel giorno diventammo amici. La aiutavo con i compiti
avvicinandole la matita o la gomma sulla scrivania e qualche volta mi
infilavo nella sua vestaglia e le facevo il solletico. Iniziai a recitare nelle sue
storielle di bambole e da quel giorno si fecero via via meno tristi.
«Alle volte ridevamo come matti, altre mi leggeva un libro stesa a pancia
in giù sul letto con i piedini per aria. Io li aggredivo come se fossero dei
topolini bianchi e giù a ridere. Avevo requisito una di quelle casette e ne
avevo fatto la mia dimora. Sembrava che nulla ci avrebbe potuto mai
separare!».

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1. La “kalbasà” è un salume molto diffuso in Russia che ricorda lontanamente la nostra
mortadella.
XII.

Q
uando Musoritz si alzò per l’ennesima volta, con aria grave, a dare
fastidio a quel poco di fuoco che era rimasto, Aliosha fece un balzo
in avanti e cercò di togliergli la pinza per la legna dalle zampe.
Ma con un semplice passettino il topo le aveva dato le spalle e aveva
spostato quell’unico tizzone che ancora avrebbe potuto riscaldarli.
«Questo fuoco…» disse, mentre la volpe cercava di circumnavigarlo, «è
proprio ostinato! Non ne vuole sapere!» e con un passetto dell’altro piede le
diede di nuovo le spalle ora che lei aveva compiuto il giro.
Aliosha per un secondo si ricordò di essere una volpe e che quella era la
sua tana: fu sul punto di sbatterlo fuori. Intanto pensava che lei sapeva bene
come accendere un fuoco domestico: con le sue cure una fiamma sarebbe
divampata in men che non si sarebbe detto.
E pensò anche a tutte quelle volte che aveva coltivato sola soletta la
semplice e difficile arte di capire un fuoco. L’aveva accesso ogni mattina
per un intero inverno, aiutandosi soltanto col fantasma delle braci della sera
prima.
Le prime volte era stato lungo e difficile, anche se non era mai stata
imbranata come quel topo. In seguito aveva capito molti trucchi ed era
diventata padrona dell’argomento.
Quanto avrebbe voluto raccontare a qualcuno le cose che aveva imparato,
che le sembravano un segreto tra lei e lei sola. Sentiva quasi come se, non
avendole mai dette a nessuno, quelle cose non fossero vere, fossero come i
personaggi di un libro scritto male, che non si rivestissero di carne. Beh,
adesso poteva dirle al topo!
Intanto questi si era lasciato cadere sconsolato sul divano: «Niente da
fare!».
Persino gli uomini delle caverne avevano saputo come conservare il
fuoco – aveva letto in un libro – solo Musoritz non sapeva farlo!
Andò un attimo nella dispensa e prese una pesante bottiglia di kvas1 e
due bicchieri. Ne versò uno al suo ospite e uno per sé. «Guarda, Musoritz,»
disse «guarda come si fa».
Si abbassò di fronte al camino e con una paletta di ferro arrugginita, con
poche, sicure palate prese tutta la cenere e la gettò via, in fondo al camino.
«È importante togliere la cenere quando devi accendere un fuoco: non lo
fa respirare, e lui ha bisogno di ossigeno. Inoltre potrebbe essere umida,
perché cattura tutta l’umidità che è nell’aria».
Il topo bevve un sorso di kvas e diede un colpetto di tosse. Non era mai
stato al mondo, nel vero senso della parola. Non conosceva che qualche
asse di legno marcio, dei sacchi di farina, qualche bambola e, ovviamente,
la neve. Non aveva mai bevuto del liquore chiacchierando con un amico,
non aveva mai scorrazzato tra i fiori della primavera, e così ascoltando la
sua amica pensò distintamente: «Guardati, Musoritz! Stai vivendo! Sei in
una calda tana sperduta nell’immensa taiga siberiana e discorri con una
volpe sorseggiando liquore. Una volpe!». Sul suo viso, così, si era impresso
un sorrisetto persino un pochino ebete.
«Musoritz, mi segui?» lo riprese Aliosha dandogli due colpetti nel
pancino con la punta di un rametto.
«Certo, amica mia,» rispose, «Ti seguo!»
«Sai a cosa serve questa grata sotto il camino?»
Musoritz scosse la testa.
«Serve perché mentre il fuoco è acceso la legna si brucia e diventa
cenere. La cenere depositandosi soffocherebbe le braci. invece così cade giù
sotto la griglia perché…»
«Il fuoco deve respirare,» concluse il topo al suo posto, e bevve un sorso
di kvas.
«È come tutte le cose della vita,» pensò Aliosha, che un po’ si
vergognava a filosofeggiare ad alta voce. Ma pensò: «Che diavolo! Io lo
dico!» e disse: «È come tutte le cose della vita. Se gli togli l’aria,
muoiono». E il topo annuì gravemente.

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1. Il “kvas” è una tipica bevanda slava ottenuta dalla fermentazione di pane o cereali.
XIII.

T
utta la tana ora era illuminata soltanto da una candela celeste che
ardeva danzando infilata nel collo di una bottiglia. Una veste di un
blu ceruleo ormai copriva quello che era stato il vestito da sposa
della bianca candela precedente e la cera, tra le sue balze, aveva ormai
nascosto quasi l’intera bottiglia.
Musoritz la guardò attentamente, come incantato, mentre la volpe
parlava. Su quella bottiglia, già altre fiammelle avevano danzato, già altre
candele avevano pianto.
«Musoritz, mi segui?» lo riprese Aliosha, e lui fu contento di essere stato
sottratto ai suoi pensieri. Fuori infuriava la tempesta. Alcuni spifferi
entravano, non si sa come, e la fiamma danzava con più gioia e bruciava più
in fretta.
«Brrr… Senti che vento fuori! Meno male che noi siamo qui, e abbiamo
cibo, libri, qualche vizio e un buon amico».
«Adesso che il camino è sgombro, guarda, stropiccio un po’ di carta, non
troppa, giusto un paio di foglietti.
«Faccio in modo che uno di questi arrivi fino a fuori: ci farà da miccia,
così dovremo dare fuoco ad un solo punto.
«Poi sopra ci aggiungo delle foglioline secche – ma andrebbe bene anche
un po’ di cartone – e dei rametti minuscoli, sottili come matite.
«Dopo non aggiungo subito la legna grande. È come tutte le cose della
vita: va fatto in modo graduale. La carta e le foglioline prenderanno fuoco
subito, faranno una grande fiammata, ma durerà pochi secondi. Ed ecco che
però prenderà fuoco il cartone, e i rametti, che bruceranno più piano: giusto
quel minuto che servirà a dar fuoco a questi rami medi che sto mettendo.
«Vedi inoltre che i rami medi non li sto stendendo a terra come gli altri?
Li poggio su qualcosa, che sia un grosso ceppo sul fondo del camino o gli
alari di metallo. Guarda: sembra quasi il lato di una piramide, in salita. In
questo modo…»
«Il fuoco respira!» concluse il topo.
«Esatto, Musoritz!... Solo adesso metto su un gran ceppo di legno: sarà la
legna media che, ardendo per una mezz’oretta, lo accenderà.
«Se mettessi soltanto la carta e il ceppo grande, in un minuto si
spegnerebbe: ci vuole gradualità. La Natura non fa mai grandi salti».
Intanto il camino era pronto, e ne sporgeva fuori solo un pezzetto di carta
arricciata.
«Musoritz!» disse la volpe sedendosi, «A te l’onore!».
Il topo si alzò e si guardò intorno, poi prese la bottiglia con la sua sposa
di cera multicolore e avvicinò la fiammella alla miccia, che subito prese
fuoco. Il fuoco risalì la miccia fin verso il centro della legna e presto una
enorme fiammata la invase e cominciò a crepitare. Musoritz applaudì con le
zampette complimentandosi con la volpe.
«È bella questa cosa che hai detto,» aggiunse, «la vita è tutta collegata, è
un’unica maestra. Accendere un fuoco ti insegna mille cose. Che tutto deve
essere graduale. Che le cose, le persone, gli amuri, li devi far respirare. Che
è importante la preparazione: ci abbiamo messo un quarto d’ora a preparare
e un solo istante per accendere.
Forse tutte le cose della vita andrebbero prima preparate con questa cura,
e non bisogna stupirsi di un fallimento se nella fretta uno ha messo solo la
carta e il ceppo grande.
«A partire da oggi osserverò sempre tutto: come cade la neve, come
l’acqua vada da monte a valle, come il vento pieghi le piantine verdi e
spezzi gli alberi duri. Da oggi avrò mille maestri, ovunque io mi volti. E
quando sarò troppo triste ricordandomi che nessuno mi ha mai voluto,
baderò al fatto che la meravigliosa primavera arriva sempre, anche dopo
l’inverno più freddo. Grazie, Aliosha! Ora so che arriverà la primavera
anche per me.»
«Grazie a te, Musoritz,» concluse la volpe commossa e bonaria, poi
sollevarono i loro bicchieri di kvas e li finirono in un sorso prima che il topo
– dopo un colpetto di tosse (non aveva mai bevuto alcol prima) –
riprendesse il suo racconto.
XIV.

«Q uando penso che potrei non vederla mai più,» riprese il topo e,
colpendosi in testa più volte con la zampetta in un modo che
spaventò Aliosha, continuò: «mi dico – Stupido! Stupido! Stupido! Non
l’hai guardata abbastanza! –.
«Se chiudo gli occhi,» riprese dopo poco chiudendoli e descrivendo
nell’aria dei movimenti che avevano qualcosa di mistico, «se chiudo gli
occhi al mattino io posso immaginare di essere ancora là, con lei. Ecco che
esco dalla mia casetta di bambola, ecco che vedo il suo letto, le sue
ciabattine.
«Ricordo ogni libro dove fosse stato poggiato. Mi sembra quasi di
toccare con le dita le rughe delle assi del pavimento, che rammento una per
una. Eppure lei mi sfugge. Volerle bene è come un secchio che non si colma
mai. Io ricordo com’era quando sorrideva eppure non lo ricordo. Io ne
ricordo il suono e se mi concentro mi si drizzano i peli perché è come se
stessi per udirla, ma poi non la odo! Io ho bisogno, amica volpe, io ho
bisogno di vederla ancora!
«A volte la sogno e mi sveglio con gli occhi umidi di dolore e il sorriso
sulle labbra. Mi rigiro ancora e nel dormiveglia spesso mi riesce di sognarla
ancora, e come mi arde di speranza il petto! Ma poi devo uccidere questa
speranza ogni mattina con le mie zampette. Io purtroppo non so la strada
per tornare da lei, non so se mi vorrà ancora!
«Quando al mattino mi pare di sentirla in un fischio del vento, e poi mi
accorgo che aprendo gli occhi non mi ritroverò in quella stanza mi sembra
di impazzire. Allora faccio respiri corti, per non piangere. Mi pare di avere
una spina tra le costole e sembra che se respirassi a fondo mi straccerebbe i
polmoni. E mi dico – Piano, Musoritz, calma. Lo sai che il rosso dei suoi
capelli è chissà dove oltre questo sconfinato mare di neve. Questo suono…
non è la mia umana. Ora la casa è buia e vuota, non questi i suoi passi,
come di seta. La sua voce non è il vento. Essa è dispersa per sempre nei
meandri del tempo».
Adesso anche Aliosha sentiva quella spina del fianco, e respirava a
piccoli sorsi interrotti. Avrebbe voluto avvicinarsi e abbracciarlo, ma non
aveva mai avuto un amico e non amava il contatto fisico – pensando altresì
che gli altri non lo amassero. Forse sbagliava, non poteva saperlo. E in
questa indecisione si consumava il dolore del topo.
«Ma… cosa è successo?» le riuscì infine di domandargli.
La spina stavolta doveva averlo finalmente lacerato, quel petto, perché
Musoritz piangeva a dirotto. Ma non faceva rumore, non si lagnava. Le
lacrime sgorgavano copiose e lui si passava le zampe sul viso.
Anche se quell’animaletto aveva dieci volte meno anni e meno peso di
lei, Aliosha notò che piangeva come un adulto. Lui aveva già amato, aveva
un sogno, una breve vita avventurosa, e sentimenti non mediati dalla
ragione che schizzavano fuori da quel cuore, per quanto minuscolo.
Mentre provava una grande pena per lui, si riscoprì a invidiarlo. “Mille
maestri”, aveva detto lui poco prima, e aveva proprio avuto ragione: una
notte, in una tana, durante una bufera, anche una maestosa volpe poteva
imparare da un topolino.
«Io…» disse a un tratto Musoritz, «Io ho fatto una cosa orribile!» e
proruppe in un pianto stavolta straziante, pieno di singhiozzi. Aliosha gli
andò accanto e lo strinse forte. «Raccontami,» gli disse.
Quando riuscì a calmarsi, si asciugò il viso e bevve un altro sorso di kvas.
Guardò la sua amica volpe e vide che anche lei aveva il muso rigato dalle
lacrime. Le donò un sorriso caldo e sincero e l’abbracciò, consolando lui a
lei. Se qualcuno piange dei tuoi pianti e ride coi tuoi sorrisi, pensò fra sé e
sé, stai pur certo di aver trovato un amico vero.
XV.

«L ’infanzia è un’età terribile,» disse Musoritz. «Non permetterò a


nessuno di dire che sia l’età più bella della nostra vita. Se lo dicono è
perché la maggior parte delle persone dimentica. Dimentica ogni cosa.
Dimentica come si sentiva e – guardando con gli occhi dell’adulto – i
problemi del bambino sembrano piccoli, così come guardando con gli occhi
del vecchio sembreranno irrilevanti quelli dell’uomo. Allo stesso modo
all’aquila potranno sembrare irrilevanti i miei problemi, ma sono i miei, io
sono qui, il mio cuore è spesso soverchiato dal dolore, se mi colpisci piango
e se mi mordi sanguino.
«Io crescendo so che non dimenticherò, anche se lo vorrei tanto, una
madre che mi ha avuto senza volermi e dei fratelli che mi hanno sbattuto
nella neve. Li ho già perdonati, ma questo non mi toglie il dolore. Forse da
adulto penserò al lavoro e guarderò col sorriso alle mie ansie di oggi? Non
credo. Guardo a quel topo che corre nella neve come se non fossi io e mi
dico: – Non è giusto! – e piango per lui. Non per me, bada bene.
«La mia piccola umana viveva in casa con i nonni. Loro la amavano, era
evidente, ma come un’aquila possa amare un topolino. Non riuscivano a
prendere sul serio le sue cose. Non sapevano che quelle bambole valevano
per lei tanto quanto un gioiello da un milione di rubli. La amavano, e
sapevano essere generosi, pur nella loro povertà, sapevano fare un sacrificio
per farle un regalo, ma non sapevano tutelare la sua dignità.
«Essere bambini, o cuccioli, significa essere dei piccoli uomini con
piccole forze in un mondo di giganti. Questi giganti non credono che tu
possa avere lo stesso amor proprio e la stessa dignità di chiunque altro.
Possono trattare una tua bambola senza cura, buttarla in un cesto, senza
ricordarsi che vale un milione di rubli ed è in tutto e per tutto una persona
vera in ogni istante. In un momento in cui pensano ad altro, tu puoi andare a
parlargli e non ti dicono – Adesso no –, ma ti lasciano parlare senza
ascoltarti: un’offesa che non farebbero mai a un loro pari. Poi sapranno
anche ripeterti quello che hai detto parola per parola, ma solo perché il loro
orecchio ha registrato, non perché il loro cuore ha partecipato.
«C’era della presunzione nel loro affetto, nel fare un regalo alla mia
piccola umana dicendole: – Se fai la brava –. Io non li avrei accettati. Io
avrei detto: – Io faccio il bravo perché è giusto, e non voglio premi. Se mi
fai un regalo me lo devi dare senza calcoli e condizioni. E vedrai quanto più
bravo sarò per il solo fatto che sento il tuo affetto che incoraggia il mio! –.
«Non educherei mai i miei figli a questa cultura del baratto, del premio e
della punizione, perché la vita non funziona così, e finita l’adolescenza
rimaniamo con un palmo di naso ad aspettare premi che non arrivano più e
a temere punizioni che non possono esserci.
«Se fossi Dio toglierei di mezzo inferno e paradiso, perché non voglio
che salga in cielo gente che ho ricattato e minacciato – di cui non conosco il
vero animo – né tanto meno che vada all’inferno gente che si è ribellata alla
mia legge, e che forse è buona».
Musoritz fece una pausa per riprendere fiato: «Scusa se parlo tanto: non
ho mai avuto un amico prima».
Aliosha sorrise bonariamente: «E del resto, l’inverno è freddo e le notti
sono lunghe: che teniamo da fare?». Dopo poco aggiunse: «Non sento più la
bufera, vuoi andare a vedere se nevica?».
Musoritz si alzò e con due passettini fu alla porta della tana, la aprì.
Subito il gelo gli riempì le vene con una bella sensazione di energia.
Percorse il piccolo tunnel e guardò il mondo esterno all’ora del tramonto.
Là, da qualche parte oltre l’oceano di neve, c’erano dei capelli rossi e un
dentino scolorito, c’era una bimba che lui aveva ferito e deluso, una bimba
che forse l’aveva perdonato.
Richiuse la porta dietro di sé. «Nevica, nevica,» disse. Poi, scuotendosi il
gelo di dosso, tornò a raccontare davanti al fuoco.
XVI.

«L anonni
mia umana si chiamava Milla, e una volta la sentii discutere con i
e poi tornare tutta trafelata in camera piangendo. Quel giorno
mi trattò come un topo qualsiasi. Piangeva rigirandosi sul letto e si
stringeva qualcosa contro il suo piccolo seno. Io cercavo di avvicinarmi,
volevo consolarla. Lei era tutto il mio universo, e padre, madre, amica e
figlia. E se lei era triste, tutto il mio universo si scuriva. Le sue lacrime
erano i miei giorni di pioggia, i suoi singhiozzi i tuoni e i lampi del mio
cuore.
«Non si lasciò avvicinare. Mi disse solo: – Basta, Musoritz, – e poi: – Vai
via! –. Io, con la morte nel cuore, rimasi immobile per un tempo indefinito,
che non rammento se fu poco o tanto. Raccolsi le mie cose, che erano un
po’ di pane secco e un laccio di scarpe e a passi lenti mi avviai per
scomparire dalla sua vita.»
«Ma non era meglio restare lì, al caldo, e aspettare che le passasse?»
domandò allora la volpe.
«Volersi bene è facile come respirare, ma è anche complicato. Se un
estraneo mi trattasse male, mi sputasse addosso, mi inseguisse per
schiacciarmi con una scopa – un panettiere, per esempio – io potrei anche
restare lì nascosto in un buco del muro e attendere per rubargli il cibo. Non
mi sentirei un ladro, lo farei per vivere, sono un topo alla fine. Nessun senso
di colpa, nessuna complicazione mi impedirebbe di far questo in eterno,
prima che la scopa del Fato si abbatta su di me.
«Ma quando subentra il bene, ecco che l’offesa di un amico, anche lieve,
ti ferisce nel profondo. Solo un amico può ferirti veramente, perché sa dove
colpire, e quando lo fa tu ti fai trovare senza corazza: più gli vuoi bene e più
fa male.
«Io volevo un bene assoluto alla mia umana, e credevo che anche lei me
ne volesse. Quando mi disse quelle cose, mi immaginai morto nella neve e
mi dissi – Va bene, meglio morto nella neve che un secondo di più qui
dentro –. Cosa che per un panettiere non avrei mai fatto.
«Ma quando mi vide andare via, sentii le assi del pavimento scricchiolare
e i suoi passettini scalzi: era corsa a riprendermi e mi afferrò e mi trattenne
contro la mia volontà, mentre tra le lacrime mi chiedeva mille volte scusa. E
io cercavo di divincolarmi, piangendo a mia volta, felice che mi trattenesse
contro la mia volontà. Capii che mi voleva davvero bene, che “mi benava”,
mi pare che si dica. Non stava facendo di me il suo prigioniero, ero libero.
Stava solo cercando di ritirare quella freccia che aveva scagliato al mio
cuore, o come il mare che ho letto in quel libro, che dopo aver portato un
naufrago al largo, lo risospinge in seguito verso la riva».
«Ho capito quello che vuoi dire,» rispose Aliosha, «Ho capito che
quando ci si bena è tutto diverso. Per esempio, molte volpi mi hanno
infastidito, o preso in giro perché leggevo i libri, ma la cosa non mi ha
nuociuto più di tanto. Invece adesso che mi hai raccontato parte della tua
storia e ho riso e pianto con te, sento che una tua parola potrebbe ferirmi.»
«Mi beni?» chiese Musoritz.
«Sì,» rispose la volpe. Il topo sorrise.
«Non ti dirò – Anch’io – perché secondo me è la cosa più brutta che si
possa dire. Come se tu mi lanciassi una pallina e io te la rilanciassi indietro.
Alla fine, tu avresti ancora la pallina, che volevi darmi, e io non avrei
niente. Te lo dirò quando sarà il momento».
«Chi me lo doveva dire a me,» rise Aliosha, «che questo inverno avrebbe
bussato alla mia tana un topo tanto profondo!».
Risero di gusto perché i cuori gli ridevano, finché la pancia del topo
gorgogliò di fame.
«Ah,» disse Aliosha, «deve essere già ora di cena!».
XVII.

«N eiQualche
giorni che seguirono,» continuò Musoritz, «qualcosa era cambiato.
volta sentivo che la mia umana mi benava alla follia, altre
volte si chiudeva in sé stessa – in un luogo nel quale non potevo
raggiungerla – si stendeva sul letto e taceva a lungo.
«Sempre più spesso si alzava e apriva quel diario, lo fissava, fissava
qualcosa al suo interno, poi lo richiudeva con forza e piangeva. Quando si
dedicava a me, mi dava tutto il suo affetto, ma era come se fingesse, e le sue
carezze avevano ormai un altro sapore.
«C’era un luogo dove non poteva mentire: quando giocavamo con le
bambole. Le opere che mettevamo in scena si fecero via via più tristi,
nuovamente, e parlavano di padri che abbandonavano le figlie, di bambine
sole e incomprese che li cercavano nella neve e chiedevano l’elemosina per
sopravvivere durante il viaggio, di amici che si tradivano l’un l’altro.
«In quella che poi si sarebbe rivelata essere la mia ultima notte in quella
casa, decisi che avrei scoperto il mistero celato in quel diario. Non fu affatto
facile arrampicarmi su quel mobile. Feci tutto quello che un topolino che
voglia mantenersi in salute non dovrebbe fare, ma alla fine fui lì sopra, sul
grande settimino di legno, tra un pettine nel quale si ammucchiavano alcuni
dei suoi capellini rossi e uno specchietto che per poco non mi fece cacciare
un grido!»
«Cos’è uno “specchietto”?» chiese Aliosha, che pur con tutti i suoi libri
non era mai stata nel mondo degli umani.
«Uno specchio,» spiegò Musoritz dandosi delle buffe arie da conoscitore
della vita, «è un coso magico. Credo che abbia un qualche potere sulle
persone poiché non passa giorno senza che lo guardino per qualche minuto.
Ha la forma di un libro sottile, con una mazzarella al centro che fa da
manico. Quando Milla ci si metteva davanti, ecco che c’erano due Mille! Io,
che ci fossero due Mille, in quegli ultimi giorni lo avevo già notato: quella
che mi voleva più bene e quella per la quale non ero niente.»
«In che senso “due Mille”?»
«Quel coso rappresenta dentro di sé il mondo. Se lo porti fuori, ci vedi
dentro un pezzo di cielo, se lo tieni dentro ci vedi la stanza. Qui ci vedresti
la tana. E quella sera ci ero finito sopra e vidi sotto di me un altro
Musoritz!»
«Nooo!» si stupì Aliosha.
«Sì, ti dico! Mi toccava le zampette con le sue zampette fredde ed era in
tutto e per tutto identico a me tranne che per una cosa. E insieme,
abbracciati in questo modo, stavamo volando attraverso il soffitto della
stanza!»
«Assurdo!» disse la volpe, ma non poté trattenersi dal domandare in cosa
differissero.
«Era la prima volta che mi “specchiavo”,» rispose il topo, che in vita sua
non avrebbe mai saputo dare una risposta senza fare un lungo giro, «e devo
dire che le zampette, lo stomaco, il pelo, era tutto incredibilmente uguale.
Però, ora tu sai che io sono un topo tutto d’un pezzo, coraggioso, forte,
conoscitore della vita, un filosofo che non manca di un certo suo
fascino…».
La frase rimase sospesa nel vuoto, forse in attesa di una conferma della
volpe. L’unica risposta fu il sibilare del vento che faceva cento voci.
«Invece quell’altro topo aveva un faccino brutto, spaventato, teso. Si
guardava intorno all’impazzata! Io lo guardavo, calmo, quasi eroico, perché
lui aveva bisogno di rassicurazioni. Gli feci lo sguardo più bonario che
potevo e persino l’occhiolino, che lui ricambiò. Sembrò trovare subito la
calma, grazie a me. Gli dissi che sarei passato dopo a salutarlo e andai verso
il diario».
XVIII.

«Q uando aprii il diario della mia umana, sfogliai alcune pagine e vidi
che parlavano anche di me! Quante cose belle diceva! Ma a un tratto
le cose belle si interrompevano e con esse le matite colorate! Tutto
diventava nero e una parola ritornava più volte: “parde”.
«Io non ho capito a cosa si riferisse, ma poco dopo trovai quella cosa che
Milla stringeva sempre al petto piangendo: era una vecchia fotografia tutta
rovinata.»
«Cos’è una fotografia?» chiese Aliosha.
«È un po’ come lo specchio.» rispose il topo, che in vita sua non aveva
mai dato una risposta senza fare un lungo giro, «Solo che uno specchio
mostra quello che è adesso, mentre una fotografia è uno specchio del
passato: ferma un istante di qualche cosa che è stato e che non sarà mai
più.»
«Mi sembra una cosa molto triste,» commentò Aliosha.
«Non lo so. Ci devo ancora pensare,»
«E che istante aveva fermato?»
«Dentro c’era l’immagine di una bimba piccolissima, che le somigliava
molto, e dietro i nonni, ma più giovani, e vestiti come dei nobili. La bimba
era seduta sulle gambe di un uomo che non avevo mai visto, vestito da
militare. Aveva uno sguardo severo e insieme gentile. Un uomo dal quale si
desiderava di essere voluti bene, e di non dargli mai un dispiacere. Parde,
parde, non riuscivo davvero a capire cosa volesse dire, ma pensai che forse
– se quella foto le dava tanto dolore – avrei potuto nasconderla!
«Quella era la foto che lei benava e si stringeva al petto e così mi dissi
che era comunque qualcosa a cui lei teneva e io dovevo averne la massima
cura!».
Aliosha intanto si era alzata, aveva preso una grande pentolaccia di
terracotta e vi aveva versato dell’acqua e del sale, per poi adagiarla sul
fuoco. Tornò a sedersi borbottando tra sé e sé: parde, parde…
«Presi la foto in bocca per un angolino e la trassi fuori dal diario. Lo
richiusi con cura,» continuò Musoritz. Fu allora che ricordai che avevo
promesso al topo nello specchio di passare a salutarlo.»
«Ah, certo,» commentò la volpe un po’ sorridendo, «l’educazione prima
di tutto.»
«Giusto, lo dico sempre anche io. O almeno lo avrei detto se avessi avuto
qualcuno a cui dirlo!» convenne Musoritz, poi proseguì il suo interminabile
racconto: «Nello specchio il topo non c’era, allora lasciai un attimo la foto
per guardare meglio e mi sporsi sulla sua superficie. Mi faceva impressione
vedervi riflesso il soffitto e mi dava l’idea di precipitarvi, così mi affacciai
piano piano, cautamente, ed eccolo lì! Da un angolino mi sbirciava
timidamente, e mi sorrise.
«Gli feci segno di aspettare un momento e corsi a raccogliere la foto. Mi
fermai un secondo, nella penombra, ad ascoltare il respiro lento della mia
umana che pochi metri più in là si era voltata nel sonno. Che pace quella
stanza, quella vita! Se mi avesse sorpreso con la fotina in bocca mi avrebbe
certo sgridato o, peggio, mi avrebbe detto di nuovo di andar via. Così cercai
di essere ancora più silenzioso sulle mie zampette.
«Quando mi avvicinai allo specchio… orrore! Il mio topo gemello aveva
afferrato tra i suoi denti l’angolo opposto della fotografia! Cercai di fargli
segno di lasciarla, non volevo aprire la bocca e parlargli per non farmela
sfuggire. Ma era un osso duro e dovetti afferrare la foto anche con le zampe
anteriori per non fargliela trascinare in quel suo mondo alla rovescia.
«Tirai così forte che la carta si strappò, ma lui subito ne afferrò un altro
lembo e ricominciammo da capo. Era pazzo! Vidi in quegli occhi un essere
cattivo e insicuro. La sua idea era stata fin dall’inizio di distruggere la foto
ed ero stato proprio io a portargliela, guidato dal mio bene per Milla. Io
volevo solo che lei non soffrisse, lui invece voleva distruggere la foto per
avere la sua umana tutta per sé. Così su quello specchietto quella notte si
combatté una guerra tra il bene e l’egoismo, tra i migliori e i peggiori moti
dell’animo di ognuno di noi.
«Quando mi riuscì di mettere in salvo ogni cosa lontano dallo specchio,
mi resi conto che ormai non c’erano che brandelli ovunque. Un occhio
severo qua, un cappello elegante là, un piedino di bimba: qualcosa che era
stato e che non sarebbe stato mai più».
XIX.

L
’acqua nella pentola sul fuoco ormai bolliva e la volpe si alzò per
prendere gli ingredienti necessari alla loro zuppa. «Continua,
continua,» disse, ma Musoritz non parlava, cosicché dovette
esortarlo di nuovo, dalla dispensa: «Continua, io ti sento!».
«L’inverno è lungo, mia cara amica,» rispose il topo, «e io sto
raccontando una cosa a cui tengo. Per la prima volta, per giunta. La
racconto a te, perché ti beno, ma non la racconterei a nessun altro,
nemmeno a mia madre. Se non vuoi sentirla, basta dirmelo, e io non la
racconterò, ma se ti interessa, possiamo ben aspettare di aver messo a
cucinare la zuppa. Se io ti metto il mio cuore in mano, devo essere certo di
avere tutta la tua attenzione: un attimo di distrazione e potrebbe cadere per
terra.»
«L’inverno è lungo, mio caro amico topo,» rispose la volpe, «e la tua
storia mi è cara forse anche più della mia. Ho solo pensato che sarebbe stato
un po’ più dolce a te dirla e a me ascoltarla, mentre fuori soffia il vento e
cade la neve e qui, nella tana, si diffonde l’odore della nostra cena.»
«È vero,» convenne Musoritz, «sapere che sotto la taiga infinita, sotto un
metro di neve, ci siamo io e te al caldo e non ci manca di che bere e di che
mangiare è molto bello. Persino l’inverno diventa bello, persino quella neve
che mi battezzò, nella quale fui cacciato. E allora soffi pure la bufera!»
disse, mentre versava altro kvas per sé e per Aliosha e poi levava il calice in
alto: «Ogni cosa si ghiacci, si spezzino gli alberi! Noi siamo qui e non
manchiamo di nulla. Alla tua, amica mia! Za sdaròvie1!» e brindarono
ridendo.
La volpe vuotò il suo bicchiere e aggiunse: «Però hai ragione, e voglio
scusarmi con te. Tu ti aprivi a me e io ti gridavo dalla dispensa. Tra un
minuto mi dirai tutto. Ora prepariamo questo borsch, poi continueremo».
Insieme si versarono altri due bicchierini e, sorseggiando, tagliuzzarono
gli ingredienti tra cui le barbabietole, un mezzo cavolo, delle patate e dei
pomodori. A dire il vero, Musoritz era così piccolo che riusciva solo a
sminuzzare un fungo e faticò a lungo intorno a una cipolla. «È un temibile
avversario!» commentò ormai un po’ brillo e con gli occhi rossi, e in men
che non si dica un profumo si diffuse per la tana e misero tutto a bollire sul
fuoco. «Adesso ci vorrà un’oretta,» disse Aliosha mettendosi a sedere, «ci
vorrebbe qualcuno con qualcosa da raccontare…».
Musoritz sorrise e riprese il racconto: «Fu una notte lunghissima. Con le
zampette feci cadere dall’alto mobile tutti i coriandoli in cui si era ridotta la
foto, ma subito mi resi conto dell’errore: se ne volavano come pazzi di qua
e di là! Il pavimento della stanza ne fu pieno. Mi avvicinai al pettinino che
avevo visto prima, con un brutto presentimento nel cuore. Afferrai quanti
più capelli della mia umana mi fu possibile e mi precipitai giù a raccogliere
tutti quei pezzetti di carta, per nasconderli nella mia casetta di bambola!
«Ma era tardi ed ero stanco. A quanto pare qualche pezzetto era sfuggito
e tutti gli indizi portavano alla mia casetta. Al mattino sentii un grido, era la
mia umana. Mi accorsi di avere ancora un pezzetto di carta che mi usciva
dalla bocca e lo sputai. Non mi aveva ancora visto, potevo cavarmela. Ma il
senso di colpa era troppo. Gridò il mio nome. Io uscii… cosparso su tutto il
pelo di brandelli di foto che chissà come mi si erano appiccicati addosso,
gridando: – Non sono stato io, non sono stato io! – e correndo in tondo
all’impazzata».
Aliosha rideva tanto da doversi tenere la pancia, immaginando la scena, e
anche Musoritz rideva, ma si fermò presto con gli occhi tutti arrossati –
probabilmente ancora per via della cipolla – e concluse: «La mia umana
piangeva e picchiava i pugni per terra. Senza guardarmi gridava: – Vai via!
– e, questa volta, con una ciocca di capellini rossi stretta nella zampa, me ne
tornai nella neve».

____________
1. «Alla salute!».
XX.

«M inelvoltai un’ultima volta a guardare quello che perdevo. Sapevo che


tempo a venire mi sarei mosso spesso col fantasma del rimpianto
tra quelle mura e volevo memorizzare ogni particolare.
«Ancora adesso, se chiudo gli occhi…» continuò il topo. Aliosha fu lì lì
per interromperlo e dirgli: – L’hai già detto –, ma il topo sembrava così
incantato con quegli occhietti chiusi e le sue zampette per aria, a descrivere
un posto in cui era stato felice, che preferì lasciare che si ripetesse.
Sedettero a tavola, poco dietro il divano che era davanti al fuoco, e si
gettarono sul borsch a grandi cucchiaiate. Il topo si faceva più simpatico
con un po’ di cibo in corpo.
«La neve era molto più fredda di come la ricordassi! Ora lo so che fa
ridere sentire questo caspita di topo che si lamenta, ma ti assicuro che quel
giorno io uscii con in testa l’idea di morire!»
«Ahahah!» rise la volpe. Con la pancia piena e un piattone caldo sotto al
naso, molte cose assumevano un colore diverso. Anche il topo rideva e si
asciugò una lacrimuccia dal bordo dell’occhio, continuando: «Appena
svoltai l’angolo, chi ti vedo? Il gatto! – È la volta buona! – mi dico. Gli
vado sotto e non apre gli occhi. Dormiva su uno zerbino che aveva riempito
di peli, su di un gradino di legno.
«Mi avvicino apposta al nasone umido, mi accorgo che mi fiuta,
socchiude gli occhi e dopo si risistema a dormire! Lo chiamo: – Hey, tu!
Non mi hai sognato, guarda! – e gli sfilo davanti al muso mostrandogli
quanto fossi appetitoso. Niente, si riaddormenta, demonio di un gatto!
«Mi faccio coraggio e gli infilo le dita in una narice. Non se lo aspettava:
fa un balzo e mi dà una zampata senza unghie, facendomi tuffare nella
neve. – Oggi ho già mangiato, – mi dice raggomitolandosi di nuovo, –
Torna domani! –».
«Incredibile!» commentò la volpe con qualche gocciolina rossa di brodo
che le pendeva dai baffetti.
«– È un segno! – mi dissi, che il gatto non mi avesse preso la vita, ma
continuai a cercare un posto dove morire. Intanto sorgeva una fitta nebbia,
tuttavia potevo ancora vedere il cielo stellato sopra di me. Piangevo. Mi
sarebbe piaciuto vivere una vita tranquilla, avere un amico con cui guardare
le stelle, seduto su di un tronco, sorseggiando del thé. Invece la mia vita era
una continua sequenza di allontanamenti e fughe.»
«Beh,» lo interruppe la volpe, «Forse Dièd Maròs1 ha ascoltato il tuo
desiderio e ora ce l’hai, no?»
«Quando sarà primavera verrò a trovarti la sera e guarderemo insieme le
stelle sorseggiando un thé?»
«Certo, sarebbe meraviglioso. A destra ci saranno le mie stelle e a
sinistra le tue… e poi le mischieremo!».
Il topo sedeva sul tavolo e la volpe su una sedia, così dové solo correrle
incontro per abbracciarla. Poco dopo, piccolo com’era, prese a mimare le
sue avventure tra la saliera e il cucchiaio, si nascondeva dietro a un
bicchiere e così via. Raccontò della prima volta che aveva visto il mondo,
intanto che si incamminava nella nebbia, e ogni cosa lo stupiva. Su una
collinetta si era fermato ad annusare l’aria, che recava con sé il profumo
pungente della legna che ardeva in qualche camino lontano. In quel
momento, uno sciame di farfalline bianche gli era passato attraverso.
E un grosso gufo, con gli occhi grandi come pozzi, aveva cominciato a
seguirlo sempre più da vicino. In un primo momento Musoritz non se n’era
accorto!
Camminando col suo unico bagaglio – i capelli rossi di Milla – si era
fermato a specchiarsi dentro una pozzanghera. Non aveva visto sé stesso ma
soltanto le stelle: il cielo… per terra! E questa cosa lo aveva incantato.
Anche il gufo, poco dopo, chiedendosi che diavolo ci avesse visto il topo di
tanto bello, sarebbe andato a specchiarcisi, ma essendo grande e grosso lo
specchio d’acqua avrebbe riflesso soltanto i suoi grandi occhi, il becco
adunco da padrone dei cieli della notte e il suo piumaggio arruffato. Il gufo
si sarebbe sentito nascere dentro chissà quali pensieri nel fissarsi così a
lungo e con un artiglio avrebbe mosso l’acqua per cancellare l’immagine un
po’ per gioco un po’ per paura, prima di riprendere a seguire il topo che
doveva essere la sua cena.
Ed eccolo lì in fondo, che aveva trovato un buco tanto profondo da
restituirgli una eco e ci faceva versi dentro. L’eco! Era la prima volta che
Musoritz la sentiva, e ci si sfiziò. Il gufo invidiava quell’animaletto triste
così contento di vivere. Lo guardava con aria di superiorità, un po’ blasé,
ma aspettava con trepidazione che andasse via per gridare anche lui nel
buco!
Il topo malinconico si allontanò saltellando e il gufo ululò come un
matto, tendendo poi l’orecchio per riascoltarsi e ridere come quando era un
pulcino e le cose lo stupivano ancora e aspettava sua madre accoccolato in
un nido scavato in un tronco, protendendo il suo sguardo speranzoso verso
la sfera di cielo che riusciva a vedere da lì. No, non poteva mangiare quel
topo. Era stato piccolo anche lui.
Il bosco si faceva più fitto e Musoritz avanzava tra il fogliame. Il freddo e
la fame gli arrivavano alle ossa e si mise a pensare a un caldo samovar
poggiato su un fuoco profumato di rametti di ginepro e a una marmellata di
lamponi. Pensarlo non gli bastò e cominciò a parlarne ad alta voce: «Sì,
marmellata di lamponi, e altri ramoscelli di ginepro…», quando vide un
essere meraviglioso che non aveva mai visto prima.

____________
1. “Dièd Maròs” – letteralmente “Nonno Gelo” – è un personaggio del folklore russo che
originariamente era “l’inverno fatto uomo”. Ricorda in qualche modo il nostro Babbo Natale. Con
una lunga barba bianca e un abito blu ancora più lungo, insieme alla sua bella nipote Sniegùrachka
(“Fanciulla di Neve”) distribuisce i doni a Capodanno.
XXI.

C
on quali parole descrivere quello che Musoritz provò alla vista di un
cavallo bianco che apparve sul limitare del muro di nebbia? Brucava
qualche ciuffetto di piante che dovevano sbucare dalla neve. Il topo
non avrebbe potuto dirlo, perché gli zoccoli del cavallo e tutto ciò che era
alla loro altezza era perduto nella nebbia.
Le zampe si ergevano da essa come quattro torri infinite; il fiato caldo
che gli usciva dalle narici sarebbe bastato a spazzarlo via.
Presto la bruma catturò anche lui e non poté vedere altro, ma continuò a
pensarvi a lungo, quasi avesse visto un dio.
Lo sconcertava che tra il bianco infinito della neve e l’infinito bianco
della nebbia, potesse esistere un dio bianco così immenso e quieto.
Lo immaginò dormire placidamente come se fosse una parte indissolubile
di quel tutto a cui lui non riusciva ad aderire, venendo sempre scacciato da
ogni cosa, parte di quel tutto in cui lui era niente.
Avanzava, senza veramente sapere dove mettesse i piedi.
In qualche modo, la visione di quel cavallo lo aveva reso meno triste,
riempendolo di una speranza confusa eppure evidente.
Ma se il cavallo si fosse addormentato nella nebbia sarebbe soffocato?
Che sciocchezze andava pensando!, si disse quasi ridendo e, lentamente,
iniziò a scendere per la collina per vedere con i suoi occhi come fosse
trovarsi completamente all’interno della bruma.
Vi entrò come sarebbe entrato in un lago, camminando sulle zampe di
dietro e tenendo sollevate quelle davanti, quasi tenendo in salvo il ciuffo di
capelli di Milla.
«Accidenti,» sussurrò, «non riesco a vedere neanche le mie zampe!». Era
un’ombra impercettibile in un nulla completo. «Cavallina?» chiamò
tremando con la voce. Ma la cavalla non disse una parola. Un mostro del
cielo planò su di lui rotolando e gli balzò il cuore in gola sentendoselo
poggiare sulle carni. Si portò le zampette a coprirsi gli occhi mentre
schizzava fuori qualche lacrima. Era solo una foglia secca!
Riaprì piano gli occhi e in un punto dove c’era meno nebbia e meno neve
la vide poggiarsi sull’erba ormai secca, e tremare in attesa che una nuova
folata di vento la sollevasse, facendole chissà quali promesse, per poi
portarla a morire un’altra volta.
Si avvicinò alla fogliolina, ch’era grande quanto lui e si paralizzò quando
vide che da sotto ne usciva qualcosa. Senza capire cosa fosse, vide il guscio
di una grossa chiocciola ritardataria che si affrettava allontanandosi per
sfuggire all’inverno, tastando la nebbia con le sue antennine.
Il topo guardò ancora la foglia, combattuto tra la paura e la voglia di
toccarla. La tastò prima con un piedino, come avrebbe tastato l’inizio di una
pozzanghera per valutarne la freddezza. La fogliolina crepitò sotto il suo
tocco leggero, senza rompersi neppure una delle venuzze cristallizzate
dell’autunno. Musoritz si fece coraggio e la prese. Se la rigirò sotto al naso
pieno di stupore: era la prima foglia che vedeva!
Qualcosa si mosse nella nebbia. Ne sentiva il respiro profondo, doveva
essere enorme. Riposò la foglia lì dove l’aveva presa, con cura, come a dire:
«Ecco, non te la tocco la tua foglia!» e scappò via. Non poté vederlo, ma
poco dopo apparve lì vicino il muso del cavallo che brucava e che, con un
respiro, la fece volare via chissà dove.
Stretto ai capelli rossi di Milla, Musoritz si rese conto di una cosa: non
voleva più morire.
XXII.

S
cendeva la sera quando un pipistrello che si muoveva a scatti gli
sfiorò le orecchie. Musoritz si rituffò nella nebbia come per
nascondersi, senza capire cosa fosse stato.
Ne cacciò soltanto la testa e gli occhietti per sbirciare se la via fosse
libera. Un gufo lanciò il suo mistico bubolìo, da qualche parte, tra le cime
degli alberi, mentre un odore di erba bagnata si levava dalla terra.
Un altro sciame di farfalline bianche lo travolse facendogli il solletico.
Le guardò ammirato che girovagavano leggere e misteriose seguendo una
logica tutta loro.
Si mise a ridere e cercò di danzare con quella stessa leggerezza, intanto
però il freddo si era fatto pungente ed era ora di trovare un riparo.
Il gufo e i suoi occhi grandi sbucarono di nuovo dalla nebbia, a un passo
da lui, bubolando forte apposta per farlo spaventare. Chissà da quanto
tempo stava seguendo quel magico topolino che gli faceva tornare la voglia
di meravigliarsi delle cose più ovvie e gli mostrava il bosco come per la
prima volta!
Fu avviluppato di nuovo dalla foschia, un altro gufo rispose da lontano.
«Bah!» sussurrò Musoritz, «Com’è strano!».
Il pipistrello planò ancora facendogli rizzare il pelo e indietreggiare,
prima che sparisse in alto. Allora il topolino indietreggiò fino a sbattere
contro qualcosa. Fece un balzo in avanti e si voltò a guardare: non c’era
niente. Stese la mano attraverso tutto quel bianco: nulla.
Si voltò ancora e, retrocedendo, sbatté di nuovo contro quella enorme
sagoma scura. Stavolta si voltò ancora più in fretta, per coglierla sul fatto,
ma non vi riuscì.
Raccolse un rametto a forma di una “Y” contorta e tastò l’aria nella quale
non vedeva, tutto intorno a sé. Un suono sordo: aveva colpito qualcosa!
Riprovò e sentì ancora: tup!
Poggiò a terra con cura il ciuffo di capelli di Milla per non perderli, e
lasciò la punta del ramoscello ben a contatto con quella sagoma. Quindi la
risalì con le zampine senza perdere mai la presa.
Ecco! Poteva vedere un’enorme colonna di pelle rugosa, dura come…
dura come il legno! Quello era un albero!
Appoggiò le mani sul tronco e alzò lo sguardo. L’aria era un po’ più pura
in quel momento e poté vederne l’immensità. Era infinito. Così grande che
persino il cavallo sarebbe stato niente al suo cospetto.
E così, forse, ogni creatura era un po’ tutto e un po’ niente
nell’immensità della taiga. Nessuno era abbastanza e ciascuno però era
qualcosa. Un piccolo topo non era né più né meno di un cavallo o di un
gatto. Tutti avevano bisogno degli occhi degli altri per essere quello che
erano e non finire inghiottiti per sempre nella nebbia.
Accarezzò prima con le mani, poi con il viso la sua corteccia e,
minuscolo com’era, abbracciò l’albero e se ne sentì abbracciato. Si sentì
come sull’orlo di avere una grande rivelazione ma poi la sensazione passò,
o forse la rivelazione era quello stesso orlo.
Avrebbe anche potuto smettere di pensare per sempre, e dimenticare il
suo dolore e la catena di tutti i suoi rifiuti, e vivere così, sentendo le
cortecce degli alberi e le farfalline sulla faccia, i versi dei gufi e le stelle nel
cielo, e quando si sentì del tutto sperduto in questa immensità, fu nello
stesso tempo incredibilmente triste e incredibilmente felice.
XXIII.

L
’albero aveva una grossa fenditura nel tronco e Musoritz vi entrò.
Quando ne uscì guardò ancora in alto e vide una foglia secca planare
lentamente da un’altezza che a lui non riusciva neppure di
immaginare.
Anche nel tronco vi era l’eco e il topo se ne accertò squittendovi una sola
volta. Indietreggiò, continuando a fissare quell’immensità di legno vivo.
Non era abbastanza riparato per passarvi la notte; già ora era molto freddo.
Spalancò gli occhi visualizzando nella sua mente la ciocca di capelli rossi
che aveva lasciato chissà dove! Cominciò a correre all’impazzata! Tornò
all’albero, ma no, non era lì che li aveva poggiati. Ne uscì.
Fece un giro del tronco, sempre più svelto, vi rientrò, pensando di essere
andato così nel panico da non aver guardato bene un istante prima. Si piegò,
cominciò a frugare fra l’erba umida con le zampette, poi si tirava su e
cercava in un altro posto, intanto che la notte dall’alto e la nebbia dal basso
si avvicinavano a lui.
Quando fu soltanto un piccolo nulla in un grande nulla bianco, prese a
indietreggiare per avere almeno l’albero alle sue spalle, quello stesso albero
che prima lo aveva spaventato e ora lo avrebbe rassicurato.
Sperava forse che ripetendo una azione, ritrovando uno stato d’animo,
avrebbe ritrovato una situazione, ossia il tronco contro le spalle, e con essa
un luogo, ma così non fu: un topolino non può bagnarsi due volte nella
stessa foschia, perché innanzitutto non è più la stessa foschia e secondo poi
lui non è più lo stesso topo. Anche l’albero – così maestoso – era perduto
per sempre.
Correva, correva in un buio sempre più bianco e in un bianco sempre più
nero, da cui riusciva a distinguere sempre meno fili d’erba, sempre meno
sagome lontane di abeti e pecci. Una luce!
Una grande luce lontana danzava quasi planando come una foglia. Le
corse incontro per ritrovare la speranza, convinto di correre incontro a una
stella, ma in men che non si dica… l’aveva superata!
Si voltò, eccola lì! Una lucciola poco sopra la sua testa! C’erano lucciole
in inverno!? Non era affar suo. La osservò finché si poggiò sulla punta di
uno stelo d’erba, così leggera che non lo piegò neppure. Gli balenò una
strana idea in testa. Si avvicinò e colse lo stelo con tutta la delicatezza
possibile. Ed eccolo lì, un topo nella taiga siberiana con una lucciola per
lanterna!
Avanzando, donava luce alle cose e poi gliela toglieva con grazia, e ogni
cosa che vedeva, la vedeva per la prima volta quando vi giungeva la luce.
Anche se ritornava in un punto, quando quel punto si illuminava diventava
la prima volta. – Ecco, – pensò, – faccio tutte le cose nuove –.
Pensò un attimo ai suoi fratelli, non sapeva nemmeno lui perché, e li
immaginò tra le assi marce nella intercapedine di quel muro, a rubare farina
e a ingrassarsi, vivendo giorni tutti uguali fra loro e uguali per ognuno di
loro. Ora, nel freddo che si faceva più spietato, nella notte più profonda,
armato solo di un filo d’erba con in punta un insettino che sarebbe potuto
volare via in qualsiasi momento… non avrebbe fatto a cambio con loro.
Forse lui non era un topo come gli altri. Forse valeva meno, non gli
importava più. Lui poteva piangere per un ciuffo di capelli smarrito; lui era
un topo che zompava addosso ai gatti da una buca nella neve, che aveva
volato avvinghiato a un altro topo attraverso il soffitto di una stanza, che
aveva recitato in una casa di bambola, che amava una bimba dai capelli
rossi.
Stette chino sull’erba secca a cercare il suo talismano finché non ce la
fece più. Poi si alzò e camminò attraverso la bruma col pianto in gola, ritto
come un profeta. Un’altra lucciola volteggiò strane forme nell’aria e come
senza volerlo attirò nel suo vortice anche la sua luce personale. Ecco, ora
era solo al buio, col cuore che batteva forte.
XXIV.

T
utte le sue paure si fecero più vivide e presero a vorticargli intorno
mentre correva senza sapere dove. Chissà quanto si era allontanato
ormai dal villaggio!
Si scontrò contro qualcosa di umido che lo annusava. Un cane di taglia
media, che per lui era enorme, gli fece il solletico col suo naso curioso,
prima di spalancare la bocca in un ampio sbadiglio. Aveva un’aria
bonacciona e lunghi peli marroncini.
Un fischio! Un fischio umano lo richiamò via e disparve nella foschia.
Forse allora non si era allontanato dal villaggio! Non gli era chiaro.
Il rumore delle zampe veloci del cane si dissolse in lontananza mentre lui
indietreggiava pensando alle zanne che aveva visto in quello sbadiglio. Ma
poco dopo lo sentì avvicinarsi in tutta fretta. Si paralizzò, ritto sulle
zampette posteriori. In quella nebbia l’olfatto del cane poteva vedere più dei
suoi occhi. Li chiuse. Ecco di nuovo quel naso umido su di lui!
Qualcos’altro gli si strusciava contro, facendogli il solletico, finché se lo
ritrovò in una mano, e il cane sparì di nuovo. Aprì gli occhi, stupito di
essere ancora vivo: aveva tra le dita il ciuffo di capelli della sua umana!
Il cane doveva aver riconosciuto l’odore di Musoritz sui capelli di Milla
oppure l’odore di Milla su Musoritz! In quella folle serata qualcuno aveva
fatto qualcosa di buono per lui.
Camminò ancora, finché inciampò e con un pluff! cadde nella
freddissima acqua di un fiumiciattolo. Si dibatté qualche secondo prima di
accorgersi che galleggiava. Si voltò col viso verso le stelle e le fronde degli
alberi. Fu preso da una grande pace. Fu così perfettamente parte del tutto e
della sua quiete che smise di muoversi, calmo e stanco come una foglia
secca.
«Mi lascerò trasportare dalla corrente del fiume,» pensò. Gli sembrò di
nuovo di volare, sospeso tra due cieli, perché tutte le costellazioni si
specchiavano nell’acqua nera.
Galleggiando, a pancia in su, coi capelli rossi stretti a sé e le braccia
conserte, passò accanto al cavallo bianco che lo osservò curioso curvando la
testa. Anche questo gli diede una grande sensazione di benessere. Inspirò
profondamente, sereno. «Sono tutto bagnato e presto affogherò,» sussurrò.
All’improvviso, qualcosa che era nell’acqua sfiorò la sua zampa
posteriore.
«Mi scusi,» disse qualcuno, a bassa voce.
«Chi è lei? Come è finito qui?» gli domandò mentre compiva dei lenti
giri intorno a quello strano topo galleggiante.
«Sono Musoritz,» rispose, «e sono caduto nel fiume.»
«Allora si sieda sulla mia schiena, la porterò a riva».
Mosoritz si sentì sollevare di pochi centimetri e si accomodò.
Attraversavano il fiume a grande velocità e lui si sentiva come un eroe in
missione, uno di quei pirati di cui gli aveva letto la sua umana, quando,
scesi dalla nave più grande, con delle barchette arrivavano alle spiagge di
isole sconosciute.
Ogni cosa lo stupiva e si voltava continuamente con la bocca aperta a
destra e a sinistra. Guardò in basso: stava navigando tra le stelle.
Alla riva saltò giù e ringraziò, tutto infreddolito.
«Di niente,» rispose qualcuno.
Un brivido gli percorse la piccola coda guardando l’acqua prima
incresparsi e poi tornare placida. In quella folle serata, era la seconda volta
che qualcuno faceva qualcosa di buono per lui.
L’inverno sembrava esser sceso tutto in un momento. Guardò per
un’ultima volta le stelle prima di correre a cercare un riparo.
«Perché mai dovrei contare le stelle senza la mia umana,» si disse. La
bufera lo sorprese. Bagnato com’era si sentì morire e la neve lo punse tanto
da bruciare. Vide un buco nel terreno e vi si tuffò.
Era certo che sarebbe morto. Pensò al cavallo, a come stava laggiù, nella
nebbia.
Poco prima di chiudere gli occhi vide una cosa che proprio non si
aspettava: una porticina di legno! E bussò.
XXV.

«E tivolpe!»
aprii io!» concluse Aliosha al suo posto, «Eri finito nella tana di una
e risero insieme pensando allo spavento che si era preso quel
giorno.
La tavola era un macello. Musoritz, raccontando, aveva anche
interpretato le sue vicissitudini e ora la saliera era rovesciata da un lato, le
posate erano a terra e i bicchieri rotolavano descrivendo dei semicerchi.
Zitto zitto, mise tutto in ordine, un po’ imbarazzato, si schiarì la voce e
domandò: «E tu? Qual è la tua storia?».
Aliosha nella sua vita aveva pensato tanto – quando le altre volpi
giocavano e correvano attraverso la taiga lei era spesso rimasta in disparte a
rimuginare – ma non aveva mai pensato di avere una propria storia.
Ciò che aveva raccontato il suo nuovo amico descriveva perfettamente
chi egli fosse: era un animaletto piccolo e indifeso, pieno di dolcezza,
rifiutato da tutti, ma ancora con la speranza negli occhi, ancora con la
meraviglia.
«Io… Io… Io amo i libri,» concluse Aliosha.
«Ti piacciono i libri d’amure?» chiese il topo.
«No, quelli non li sopporto. Ce ne sono troppi. Cosa mi interessa a me di
due che si amano? È un fatto troppo grosso, non è che chiunque può
parlarne. Forse è meglio evitare quella parola. Forse è meglio tenere vicine
due persone, e descrivere come il dolore di uno venga osservato dall’altra
con altrettanto dolore, e con pietà, e non dire mai quella parola. Due che si
stanno vicini contro il mondo, ecco, lo preferirei.
«Ma piuttosto io vorrei sentir parlare di terre lontane, conoscere le loro
tradizioni, i loro cibi, voglio sapere perché cade la neve e come mai la luna
si consuma uno spicchio alla volta e poi rinasce come la mia voglia di
vivere. Oppure voglio conoscere la storia di un uomo che mette da parte i
soldi per comprarsi un cappotto nuovo, o quella di un principe che fissa un
ragnetto rosso. Voglio carpire la vita dai libri. L’amure va bene, ma è una
cosa rara, bisognerebbe parlarne sottovoce e non scriverne mai. È come un
segreto. Se lo dici a qualcuno già non lo è più.»
«Se permetti,» la interruppe il topo, «non sono d’accordo. L’amure non
può essere un segreto perché quando ami è palese, lo vedono tutti. Passa un
tizio, vede una coppia e già sa dirlo: – Quei due si amano –. Quando lo
provi hai voglia di alzarti dal letto la mattina e quando non lo provi non ce
l’hai. E gli altri animali lo sanno, sprizza fuori da tutti i pori.
«Una volta uno scrittore disse che la prova che Dio esiste sta nel profumo
dei fiori. Era già tutto fatto, era già tutto perfetto… e paff!, lui ci ha dato
anche il profumo dei fiori! Quando ami sei come un fiore che profuma, e
che male c’è a scriverlo! E quando sarai innamorata, ti sfido a non gridarlo
e a non scriverlo!
«Ecco, un altro scrittore disse che i fiori sono segreti della terra svelati al
cielo. Forse l’amure è un segreto che devi dire. E anche dopo che l’hai detto
continua a bruciarti nel petto perché non l’hai detto tutto. È come un
rametto infuocato con il quale puoi dare fuoco ad altri rami senza che la
fiamma perda calore…».
Il topo parlava, parlava, e Aliosha si sentiva un rametto secco e stanco.
Lo ascoltava e si domandava come quel cosino minuscolo scacciato da tutti
potesse davvero credere che fosse «tutto perfetto», proprio lui!, che non
aveva avuto mai niente nemmeno di decente.
Musoritz, dal canto suo, guardava la volpe negli occhi e pensava che le
aveva chiesto della sua vita e lei aveva risposto coi libri, aveva detto che dai
libri voleva «carpire la vita» invece di pensare a viverla.
A sentirlo parlare, Aliosha pensò a un tratto che i rametti secchi sono i
primi a prendere fuoco. Interruppe bruscamente il suo buon amico e
fingendo uno sbadiglio si mise a letto, dove aveva l’abitudine di leggere un
po’ prima di prender sonno.
Il topo – nella sua infinita e paziente dolcezza – lasciò che la volpe
fuggisse il discorso. «Ogni cosa a suo tempo,» borbottò andando a sua volta
verso il suo giaciglio, «non posso mettere la legna grande subito dopo il
cartone». Da lì, ogni tanto, la guardava e, ogni tanto, lei guardava lui. E le
ore passavano.
XXVI.

V
erso la mezzanotte, mentre il topo dormiva e la volpe meditava
sopra uno strano volume, mentre debole e stanca chinava la testa
quasi sonnecchiando, d’un tratto sentì un colpo leggero – come di
qualcuno che leggermente picchiasse, picchiasse alla porta della loro tana.
«Sarà la punta di una radice che, col vento, batte alla porta della mia
tana.» questo pensò, e nulla più.
Musoritz aprì stancamente gli occhietti da sotto la sua coperta: ogni brace
moribonda proiettava il suo fantasma sul pavimento. Li richiuse. Tutti i
pensieri che aveva già fatto quando aveva bussato il topo, attraversarono la
mente di Aliosha; pensò a suo fratello, e si chiese cosa ne fosse ormai di lui,
e dopo pensò al suo amure – che non aveva ritrovato la strada.
Si riscoprì a desiderare ardentemente la primavera. Invano aveva cercato
di trarre dai libri un sollievo al dolore – al dolore per la sua Nastja perduta –
a quella rara e radiosa volpe che gli angeli probabilmente ora chiamavano
Nastja, e che nessuno avrebbe chiamato in terra mai più.
Il pacato, irregolare respiro del topo – agitato da chissà quale sogno di
abbandono – la faceva trasalire e la riempiva di una tristezza difficile da
spiegare. Così, per calmare i battiti del suo cuore, «È un altro topo,» si
disse, «che chiede, supplicando, di entrare nella mia tana. Qualche altro
topo, questo soltanto, e nulla più».
Subito si rincuorò e, senza esitare oltre, si avviò verso l’uscio: «Signore,»
disse, «o signora, vi domando scusa veramente, ma il fatto è che stavo
sonnecchiando e tanto leggermente, tanto lievemente bussaste alla mia
porta che mi stavo domandando se davvero vi avessi udito, o se piuttosto mi
stessi sbagliando».
E a questo punto, spalancò la porta. Vi era solo tenebra, e nulla più.
Scosso da una ventata, Musoritz si sistemò alla meno peggio nella
coperta attorcigliandosi come un baco nel suo bozzolo.
Aliosha, scrutando in quella profonda oscurità, rimase a lungo stupita,
impaurita e sospettosa, sognando sogni e pensando pensieri che da tempo
non osava fare, come un sentiero che conduceva alla cuccia di un grosso
cane, che aveva evitato da tempo con cura ma di cui ora riconosceva
l’inizio.
Ma l’oscurità non diede alcun segno di vita, e il silenzio rimase intatto,
finché solo due parole sentì dire, da quel nero tutto: «Nastja vive…».
Soltanto questo, e nulla più.
Ritornando nella camera, con la sua anima in fiamme, ben presto udì di
nuovo battere, un po’ più forte di prima. «Maledette radici,» si disse, «devo
tagliarle una buona volta! Così il vento non mi disturberà più!».
Spalancò la porta e fu spintonato da un maestoso corvo, che non fece la
minima riverenza e, entrando tutto infreddolito e arrabbiato, «Mai più!»
gridava, «Mai più!».
Si appollaiò sul divano davanti al fuoco. Musoritz socchiuse gli occhietti
e vide una enorme sagoma scura che si scrollava la neve dalle ali e
borbottava: «Mai più con questo tempaccio!».
XXVII.

U
n torvo e antico corvo errante, approdato dalle spiagge della notte,
si era installato nella loro tana. Musoritz aveva aperto gli occhietti
neri da sotto la coperta e scrutava il nuovo ospite, che aveva un’ala
spezzata.
«Come ti chiami?» chiese la volpe.
«Mi chiamano Ptiza1.» rispose il corvo in modo secco e possente.
«Io sono Aliosha, piacere,» aggiunse la volpe, ma non ci fu risposta.
«E lui è il mio amico Musoritz,» concluse.
Il corvo voltò lentamente il collo verso di lui, senza muovere gli occhi,
tenendoli sempre fissi davanti a sé. Si giravano soltanto perché girava la
testa.
«Ehilà, salve!» disse il topo con una voce quasi in falsetto e in un attimo
l’uccello fu si di lui. Il becco adunco si serrava nell’aria con rapidi e spietati
schiocchi mentre Musoritz correva prima dietro al divano e poi sotto al
tavolo. Gli artigli raspavano il terreno gettando spruzzi di terra nel fuoco
infastidito, mentre le loro ombre ballavano contro il muro.
La volpe gli fu addosso, e anche se all’aria aperta le volpi vengono
spesso beffate dai corvi e dalle cornacchie, nel chiuso della tana le fu facile
avere la meglio.
«Musoritz è un mio amico.» gli disse, «La dispensa è piena di ogni cosa.
Possiamo superare quel che resta dell’inverno insieme, ma se lo ucciderai io
ucciderò te. Sono chiare le premesse?»
«Sono chiare,» rispose il corvo, e smise di opporre resistenza. Aliosha lo
lasciò e Ptiza si tirò su e riassunse il suo aspetto maestoso. Non bisogna
stupirsi che tornasse al suo orgoglio beffardo subito dopo aver perduto
contro la volpe: essendo una creatura fatta di rabbia e di odio, ogni sconfitta
era una vittoria, perché non faceva che accrescere il suo odio e la sua
rabbia.
Musoritz si avvicinò circospetto, l’annusò e – quando capì di non essere
più in pericolo – si sollevò sulle zampette posteriori e gli tese la mano con
un gran sorriso: «Piacere, Musoritz!».
Il corvo non rispose. «Non mi stringi la zampa, ma rispetti Aliosha,
perché lei è più forte di te ed io più debole?».
Il corvo non rispose. «Ma allora il lupo, l’aquila, il serpente non
dovrebbero parlare con te? Se nessuno parlasse con chi è inferiore a lui in
un campo, vedi bene che nessuno parlerebbe con nessuno. Ti pare giusto?»
Il corvo non rispose. «Così potrai convincere chi sta nel mezzo,» disse
Aliosha che era sempre divertita quando il topo cominciava a
filosofeggiare, «ma che diresti al lupo per convincerlo a parlare?».
«Al lupo non dovrei dire niente,» rispose il topo, «lui parla, perché non
deve dimostrare nulla».
Lentamente Musoritz porse di nuovo la zampina speranzoso.
Il corvo taceva ma alzò un artiglio cosicché il topo poté stringergli la
punta di un dito. Intanto ne osservava il piumaggio: era così nero da
sembrare viola.
«Perché vivi con un topo?» chiese alla volpe con la sua voce cavernosa.
«Perché siamo amici,» rispose Aliosha con semplicità.
«Capisco.» rispose il corvo, «Se l’inverno fosse più lungo del previsto,»
continuò ruotando di nuovo il collo a quel modo, finché il topo entrò nel
suo campo visivo, «avresti qualcos’altro da mangiare».
Musoritz tremava, ma la volpe gli circondò le spalle con una zampa
affettuosa e commentò: «No. Nella dispensa ho cibo abbastanza per dieci
inverni, e il mio piccolo amico mangia ben più di quanto pesi: mi sarebbe
più conveniente esser sola! Ma una sola notte d’inverno può durare cento
anni senza un buon amico che navighi con te tenendoti a galla sul mare dei
ricordi tristi e dei rimpianti».
Ptiza cercò sotto una sua ala e ne tirò fuori una pipa e del tabacco. La
caricò: mise prima del tabacco senza premerlo molto, poi un altro po’
premendo un po’ di più, infine un ultimo pizzico premendo forte. Le cose
dovevano essere graduali. La portò alla bocca e la accese con un tizzone
preso dal fuoco.
«Vero,» disse, e tirò un’ampia boccata.
In un attimo la tana fu piena di fumo e il topo cominciò a tossire.
«Non vedi che stai riempendo di fumo la tana dove anche tu devi stare?
Ma tu perché fumi?» gli chiese.
«E tu perché non muori?» rispose il corvo, e nulla più.

____________
1. Gioco di parole intraducibile in italiano. In russo sono gli altri che chiamano: “Menià zavùt
Ptiza”, ossia “mi chiamano uccello”. Probabilmente gli esseri umani che lo avevano visto devono
essersi riferiti a lui come a “un uccello”. Non possiamo sapere se sia o meno il suo nome.
Allo stesso modo, non ci è chiaro se Musoritz (che si legge “Musarìz”) sia davvero un nome, in
quanto “Mùsarit” significa “rifiuti”.
XXVIII.

I
l corvo fumava silenzioso e immemore seduto accanto al fuoco. Vi
espirava dentro in modo da non riempire la tana di fumo.
Aliosha e Musoritz rimasero a guardarlo per un bel pezzo. Era una
creatura nera come la notte, quasi un’ombra stagliata sul muro, e il fumo
che gli usciva dalle piccole narici sul becco lo rendeva simile a un demone
che, quella notte, avesse deciso di visitare la loro dimora.
«E così sei un corvo!» esordì Musoritz che, pur avendo ritrovato parte del
suo innato buonumore, non riusciva a ritrovare ancora la sua baldanza.
Ptiza prese un altro piccolo ramo incandescente e lo usò per ravvivare la
sua pipa che, a quanto pareva, si spegneva spesso.
«Già.» rispose.
«E da dove vieni?» lo incalzò il topo.
«Da fuori.» rispose brevemente.
«Sì, ma dove?» continuò il topo che non intendeva accettare di non
essere un grande amico anche del loro nuovo ospite.
«Non mi piace dire di venire da un posto preciso. Odio il posto da dove
vengo, e non ritengo di venire da lì.» concluse il corvo.
«Capisco. E hai visto molti posti?»
«Sì.»
«Ad esempio?».
Il corvo sospirò, poi rispose: «Sono stato tra le rovine dei castelli
ricoperti di edera rossa in una terra che gli uomini chiamano Scozia. Sono
stato ai piedi di un enorme orologio astronomico, in una città dalle cento
torri. Sono stato in una città fumosa e nebbiosa che gli uomini chiamano
Londra, e sono stato in molti posti che non hanno un nome perché gli
uomini non li chiamano più, e in molti altri che non chiamano ancora».
«Che cos’è un orologio astronomico?» chiese il topo.
«È un monumento,» rispose Ptiza, «con un enorme orologio sopra, con
tre quadranti, che rappresentano la posizione del Sole e della Luna, delle
costellazioni e tante altre cose dell’universo».
Il topo annuì gravemente, poi si avvicinò e andò a sedersi sul divano di
fronte al fuoco. Si portò le mani in grembo e incrociò le dita.
Aliosha lo guardava e le veniva da ridere: sapeva che avrebbe
ricominciato a far domande da un momento all’altro. Cercava di sfoggiare
un faccino noncurante, ma era una pentola a pressione sul punto di
esplodere.
«Eee…» cominciò.
«Ascolta, topo,» lo interruppe il corvo, «io non amo parlare».
Il topo chiuse la bocca e tornò a fissare il fuoco. «Certo, certo,» disse, ma
aveva la stessa identica espressione di poco prima.
Il corvo e la volpe scoppiarono a ridere nello stesso momento. Musoritz
rise insieme a loro, senza sapere perché, contò fino a dieci e ricominciò:
«Un’ultima domanda, poi giuro che la smetto!»
«Ma non mi va di parlare, topo, io non faccio amicizia, non stringo
rapporti, non ti racconto la storia della mia vita e non desidero ascoltare la
tua!».
«Oh,» rispose Musoritz con un viso raggiante: «tu mi amerai. Prima che
sia finito l’inverno avrò penetrato la tua scorza così a fondo che non passerà
giorno in cui non ti ricorderai di me e ti domanderai: – Chissà che fa
Musoritz! –. Bada che più secco è un cuore e più è facile che vada a
fuoco!».
«Sei un topo molto ottimista. Odio gli ottimisti,» rispose Ptiza, ma
aggiunse: «Avanti, qual era questa domanda?».
Il topo sorrise, poi domandò: «E che cos’è questo universo?».
XXIX.

M
a Ptiza non degnò di risposta il piccolo topo. «Ascolta,» gli disse
lui allora, «tu sei venuto in questa tana a cercare riparo dal gelido
inverno siberiano,» – intanto Aliosha aveva porto al nuovo ospite
una caldissima tazza di sbiten e il corvo aveva deposto la pipa – «Noi ti
abbiamo accolto con infinito piacere, ma prima hai cercato di mangiarmi e
adesso non vuoi neanche scambiare due paroline cortesi. Ti rendi conto che
sei uno che prende e non dà? Mi dispiace per te.»
«Cosa vuoi dire?» domandò il corvo accigliandosi.
«Mi dispiace perché l’unica gioia è quella del dare. “Prendere” è
sopravvivere, “dare” è vivere,»
«E cosa prenderei io?» chiese Ptiza rizzandosi sulle zampe, convinto che
loro avrebbero dovuto sentirsi onorati già soltanto della sua presenza.
«Beh, non so. Prendi il nostro fuoco, il riparo, persino la tazza che hai fra
le mani!».
Ptiza scaraventò la tazza a terra, mandandola in frantumi e si diresse
verso la porta.
«Non voglio niente da nessuno io!»
«Aspetta!» gli disse la volpe, «Fuori fa freddo!»
«Non fa nulla, grazie per la premura.»
«Ma morirai!»
«E sia.»
Intanto aveva spalancato la porta e il vento l’aveva investito coi suoi
mille aghi ghiacciati.
«Ma c’è la bufera!» gridò il topolino, correndo ad abbracciare un artiglio
di Ptiza, come se fosse stato il suo più caro amico.
«Nessun compromesso,» disse il corvo guardandolo con disprezzo,
«nemmeno di fronte all’Apocalisse».
«Ti prego!»
«Perché mi preghi, topo?»
«Voglio che resti! Ti chiedo scusa, non sei tu che hai preso, siamo noi che
abbiamo dato. Ho sbagliato la scelta delle parole. Resta almeno finché non
ti sarà guarita l’ala!».
Il vento era effettivamente freddo, ma questo sortiva sul corvo l’effetto
opposto. La sua voglia di dimostrare a sé stesso che non scendeva a
compromessi lo spingeva a uscire, a morire pur di non accettare niente da
nessuno. Ma quel topolino così morbido, così strenuamente stretto contro la
sua zampa, rappresentava un piccolo mistero: aveva gli occhietti chiusi,
pronto a essere trasportato in volo nella notte siberiana. Il corvo si permise
un sorriso, sapendo che Musoritz non avrebbe potuto vederlo. Aliosha, che
lo aveva visto, non se ne fece accorgere e andò a raccogliere i cocci della
tazza. Ptiza chiuse la porta, si scrollò il topo di dosso e si precipitò a
raccogliere gli ultimi frammenti.
«Va bene, resto,» disse e, dopo poco, aggiunse: «Grazie».
Quando si furono sistemati nuovamente, Aliosha versò di nuovo la sua
bevanda rovente in tre tazze e cominciarono a sorbirle in silenzio davanti al
fuoco.
Ptiza era orgoglioso, e così attese a lungo prima di parlare; attese finché
si rese conto che nessuno voleva nulla da lui: erano tre animaletti che
sorseggiavano qualcosa di caldo sperduti sottoterra nell’inverno russo.
«È buono, che cos’è?»
«È sbiten,» rispose la volpe, «una nostra antica bevanda a base di erbe
medicinali, spezie, miele e acqua. La beviamo rovente in inverno e talvolta
fredda in estate,»
«Interessante,» rispose il corvo e – dopo qualche minuto – cominciò:
«Dunque, l’universo…».
XXX.

«L ’universo,» riprese il corvo, «è lo spazio in cui siamo. Tu sei in questa


tana, la tana è in una foresta, la foresta è in Russia, la Russia è nella
Terra…»
«La tana è nella terra!» esclamò il topo, tutto contento d’aver capito.
Aliosha si passò le zampe sul viso in segno di disperazione.
Dopo tante spiegazioni, riuscirono a convincere il piccolo topo che
esisteva una sfera gigante che si muoveva nell’Universo, riuscirono a
convincerlo che esistesse la forza di gravità e per questo le persone – e gli
animaletti (Musoritz ci tenne a specificarlo) – non cadevano anche se
nell’emisfero australe, sempre secondo Musoritz, stavano, evidentemente,
«a testa in giù».
«Ho capito!» esclamò tutto contento, e finalmente la volpe e il corvo
poterono tirare un sospiro di sollievo e si lasciarono andare spossati, chi a
terra, chi sul divano.
«Ricapitolando…» cominciò il topo, «c’è questa enorme sfera che sta
nell’Universo…» e si guardò intorno per vedere se i suoi amici annuissero.
«Sì!» dissero soddisfatti.
«E noi siamo sulla superficie di questa sfera che è chiamata Terra…»
«Sì!!!» risposero ancora levando in alto i calici di sbiten pronti a
brindare.
«…che non è la terra, ossia il terriccio comune – diciamo così – nel quale
siamo noi ora…»
«Sìii…»
«E la Terra sta ferma al centro dell’Universo e ci gira intorno il Sole?»
«No!!!» proruppero in un boato.
«È la Terra che gira intorno al Sole,» biascicò la volpe.
«Impossibile!» sentenziò il topo.
«Io lo vedo che il Sole, la sera, sta in un punto diverso che al mattino.
Ergo, non sta fermo! Mai e poi mai!»
«Tu lo vedi!» gracchiò il corvo perdendo la pazienza, «Ma che vedi tu?!
Un bel niente. Guardi come un allocco, come… come un topo! Guardare è
molto diverso che vedere!».
Mano a mano che parlava Ptiza alzava la voce e si infuriava e per poco
non gli saltò addosso, ma Aliosha con un gesto gli fece capire che se ne
sarebbe occupata lei.
«Musoritz,» disse, «vieni a sederti qui!» e indicò una piccola sedia,
«Questa sedia è la Terra. Questa lampada è il Sole,»
«Bello!» disse il topo, «e io chi sono?»
«Tu sei tu!» gridò il corvo intromettendosi, e a Musoritz parve assai
deluso di essere ancora una volta soltanto Musoritz, ma poi tornò attento.
Aliosha poggiò la lampada sul tavolino e si piazzò dietro alla sedia.
«Dov’è il Sole? A destra o a sinistra?» gli chiese.
«A sinistra!» rispose il topo già piuttosto soddisfatto di avere imparato a
distinguere la destra dalla sinistra.
«E come può venirti a destra?»
«Beh,» rispose il topo, «se ce lo porti tu.
Si capisce!» «Si capisce?» chiese Aliosha, poi sollevò il topo con tutta la
sedia e compì con lui un mezzo giro.
«Dov’è il Sole adesso?»
«A destra!» rispose il topo sbigottito.
«E chi si è mosso?»
«Lui no.»
«E chi si è mosso allora?»
«La sedia!»
«E cioè?»
«La Terra!».
A questo punto i suoi amici lo applaudirono sfiniti e soddisfatti: aveva
capito.
E così, nel lungo inverno siberiano, in una tana sperduta nella Russia,
sperduta nella Terra, sperduta nell’Universo, tre animaletti discutevano dei
massimi sistemi.
XXXI.

«C apisci allora,» disse lentamente Ptiza riaccendendosi la pipa, «uno dei


tanti motivi per cui parlo poco e non amo nulla?» «Hai viaggiato
molto,» obiettò la volpe, «Non ami viaggiare?»
«No, non amo nulla. Inganno il tempo in attesa della morte.»
«Quindi, fammi capire bene,» intervenne Musoritz, «mi state dicendo che
siamo tre esseri insignificanti, sperduti in un pezzetto di terra, che è
minuscolo rispetto al nostro pianeta…»
«Sì,» rispose il corvo, e soffiò il fumo nel camino.
«…E che tutta la Terra non è che un minuscolo granello di sabbia
nell’infinito universo…»
«Sì,» rispose la volpe guardando basso.
«…Che siamo sperduti nel Tempo e nello Spazio, in un attimo fugace tra
l’infinito Tempo che c’è stato prima e il Tempo infinito che ci sarà dopo?»
«Già,» annuirono entrambi.
«E questo vi intristisce?» domandò stupito il topo.
«Non dovrebbe?» chiese il corvo.
«Ma se moriremo e nessuno si ricorderà più di noi tra un milione di anni,
se la vita durerà solo un istante, vi rendete conto di quale infinito privilegio
ci è stato dato? Siamo come dei turisti!!!»
«Che cosa vuoi dire?»
«Non lo so cosa voglio dire, ma dopo questi discorsi mi sento cento volte
più fortunato! Sono capitato proprio qui, proprio ora! Se la vita dura solo un
istante bisogna viverla appieno. Se nessuno si ricorderà di me, non devo
rendere conto a nessuno, posso vivere come voglio io! Non esiste
fallimento né trionfo. Sono come un turista, sono qui solo per godermi il
meglio di ogni cosa! Che grande dono che la vita sia limitata nel tempo!
Pensate se invece avessimo avuto infinito tempo da sprecare! Invece ne
abbiamo poco! È per questo che io ho amato – senza saperlo ancora –
quella bimba dai capelli rossi di un amore lancinante: in qualche modo
sapevo che il tempo era limitato! E se la rivedessi dovrei amarla più
intensamente ancora!»
«Non l’avevo mai guardata sotto questo punto di vista,» convenne la
volpe.
«Un lungo inverno con un topo filosofo,» gracchiò il corvo, e subito
dopo accennò un sorriso.
«E tu,» lo incalzò il topo, «perché viaggi tanto?»
«Amo vedere cose nuove… ehm, no, scusa, mi sono lasciato trascinare…
non “amo”, diciamo che la cosa che mi dispiace di meno…»
«E perché non ti lasci trascinare?» sussurrò il topo, in un modo strano
che gli entrò dentro.
«…è vedere posti nuovi, scoprire le tradizioni. Come questo buonissimo
sbiten… ma non la gente. Io non voglio amici, non voglio parlare…»
«Ma i posti siamo noi!» lo interruppe il topo. «Vuoi le tradizioni dei
popoli e non vuoi i popoli? Vuoi l’edera rossa abbarbicata sopra i muri di
un castello e non vuoi chi quel castello l’ha costruito? Vuoi la Siberia e non
vuoi le vecchiette vestite di nero che cucinano borsch con smetàna nelle
loro casette col fumo che esce dai comignoli? I posti siamo noi! I posti sono
i popoli, i popoli sono le persone. Io sono un posto, questa tana è un posto e
tu – di tutta la Russia – ricorderai queste conversazioni accanto al fuoco,
mangiando pelmèni1 e bevendo vodka con i tuoi amici. E se non fossi
capitato qui non avresti potuto dire: – Io sono stato in Russia –, ma avresti
solo visto quattro alberi e un po’ di neve! La stessa neve che c’era in
Scozia, la stessa neve che c’era in Italia!».
«Hai ragione,» disse qualcuno, ma a dirlo fu la volpe, improvvisamente
scossa nell’animo da quello che Musoritz aveva detto.
Ptiza invece non disse nulla e per un po’ nella tana regnò il silenzio. «Ti
piace la Russia?» chiese Musoritz allora. Il corvo non sapeva ora se si
riferisse alla terra, o a quella tana, o a quell’esperienza.
«Amo il popolo russo,» rispose. E usò proprio quella parola, “amo”,
senza ripensamenti.
«Come mai?».

____________
1. I “pelmèni” sono vagamente simili ai nostri ravioli. Ripieni di più tipi di carne mischiati, sono
un piatto tipico della Siberia.
XXXII.

«T iaveva
piace la Russia?» aveva chiesto il topo. «Amo il popolo russo.»
risposto il corvo.
«Come mai?»
«Perché soffre.»
«Altrove i popoli non soffrono?»
«Sì, ma è diverso. Lì hanno creato delle strane case chiamate fabbriche,
tanto grandi che non potreste immaginarle. Lavorano tutto il giorno per un
pezzo di pane. E chi sta meglio lavora per comprare cose che non gli
servono per stupire persone che non gli piacciono. Si sono fatti abbagliare,
si sono fatti addomesticare, e i loro comignoli riempiono il cielo di un fumo
più nero delle mie piume.
«Ma il popolo russo soffre. Avrebbe grandi spazi dove far correre i
cavalli bradi dei suoi sogni ma non ha nulla. È sfruttato fino all’osso. E il
freddo, e l’alcol! Il Popolo russo beve. Beve perché non può reggere la
profonda differenza tra i diamanti che ha dentro e il fango che c’è fuori. E
come un diamante in mezzo al fango, l’anima della Russia non si sporca.
«E in questa sofferenza infinita… Guarda queste vecchie curve che
camminano al freddo e al gelo, coperte di stracci, e i mariti che bevono, e
che bevendo si sono tagliati una gamba sul lavoro – e serbano rancore – e
questi bambini che purtuttavia ancora giocano rincorrendosi nella neve
sporca! Tutto questo mi commuove!
«È in questa sofferenza infinita – e solo qui – che si agitano le
rivoluzioni! È qui che sta la possibilità che un popolo intero – ignorante,
come sono tutti i popoli, e giusto, come sono tutti i popoli – un giorno dica
“No”, e poi gridi “No!”, e che preferisca la giustizia al pane. Solo l’anima
del Popolo russo potrebbe rinunciare al pane.
«È l’anima che c’è in ognuno di noi, in tutte le nazioni, quando si soffre
troppo, e da troppo tempo. Quando agli occhi le cose si fanno opache e
lontane, perché dentro brucia troppo viva una fiamma insopportabile,
perché dentro si agita un dolore. Qui non si faranno addomesticare, e anche
quando sembreranno paghi saranno solo dei lupi che dormono.
«Per questo amo le persone di questa sconfinata taiga, perché dietro ogni
bellezza hanno un demone, e sotto ogni bruttura un’anima incorruttibile che
non si arrende e su cui il fango non attecchisce!
«Guarda quel vecchio vagabondo, l’ubriacone del paese, lo zimbello di
tutti! Dopo tanti anni ancora trema di umiliazione nell’accettare l’elemosina
di una mela bacata, e spende gli spicci che riceve per bere, per distruggersi,
e non ci riesce. E siccome avvampa di vergogna allora se la vuole meritare,
si vuole degradare, e beve di più, e ha il naso gonfio e rosso come una
ciliegia e striscia per terra e canta e balla per un rublo! Perché se deve fare
schifo lo vuole fare completamente. Ma basterebbe una carezza della
manina bianca di quella ragazzina magra che era l’amore suo – e che morì
di tubercolosi appena ventenne – per farlo splendere nella notte e tornare un
uomo migliore di tutti loro. E a volte ci pensa – non riesce a non pensarci –
e lo vedi piangere e bere nella neve.
«Se un giorno qualcuno preferirà la libertà al pane, sarà quel vecchio.
Sarà lui a dire “No!”. Perciò, è tra queste steppe desolate, è in questa terra
sconfinata che dorme la speranza del mondo. Riposa come un drago
immenso sotto la neve, nel cuore di chi soffre davvero. E tutti i tiranni, gli
oppressori, e tutti i popoli della Terra, faranno bene a non alzare troppo la
voce, ad avere il passo leggero e pretese limitate, perché potrebbe
svegliarsi, girarsi nel sonno, scrollarsi di dosso tutta la neve della Siberia e
abbattere i loro imperi».
Così il corvo parlò in quelle terre dimenticate da Dio – dove Dio ancora
comandava il cuore degli uomini.
XXXIII.

A
desso, piccole lacrime scorrevano lungo il viso di Musoritz e
Aliosha, presto assorbite dai loro manti. Quanta bellezza e quanta
passione covava dentro di sé quel corvo burbero. Avrebbero voluto
dire tante cose, ma anche una sola non avrebbe potuto che diminuire quel
momento. Era il turno del silenzio.
Il corvo li guardò e si rese conto di essere giunto per la prima volta in un
posto dove c’era qualcuno disposto ad ascoltare, che dava valore alle
parole. In qualche modo sapeva che quelle parole sarebbero restate dentro
di loro per sempre, insieme a quelle che aveva detto prima e quelle che
avrebbe detto poi.
Era stato in molti luoghi, che erano entrati dentro di lui per sempre, ma di
lui in quei posti non era rimasto nulla, se non forse qualche piuma nera
spazzata dal vento insieme alla polvere. Questa volta qualcosa di lui
sarebbe rimasto anche se lui fosse volato via e – al pensiero di volare via –
si sentì un ago di pino conficcato nel cuore. Pensò che sarebbe potuto
rimanere a fare il corvo in Siberia, perché no?, e gli venne un grande
languore pensando a tutte le terre che aveva già visto e a tutto quelle che
non avrebbe potuto vedere più.
Un brivido di rabbia gli arruffò il piumaggio e avrebbe voluto rimangiarsi
le parole e i sorrisi. Guardò con profondo odio il topo e la volpe, ma l’ago
di pino continuava a trafiggerlo.
Quei due gli sembravano due forzieri nei quali, senza impoverirsi, avesse
depositato un tesoro prezioso, e sentiva forte il desiderio di parlare ancora,
di aprirsi, di dar loro di più e aumentare il suo investimento fino al punto
che non sarebbe più stato possibile abbandonarli.
Chiuse gli occhi e sbuffò lentamente del fumo dalle narici. Li riaprì, ed
eccoli lì, la volpe e il topo, i suoi primi amici. Cosa c’era poi di così
importante da vedere a questo mondo? Poteva continuare a viaggiare,
restando sulla superficie delle cose? Forse adesso era il momento di fare un
viaggio in profondità.
Tutto quel volare, attraverso migliaia di verste1, a pensarci ora aveva il
retrogusto di una fuga. E da cosa poteva fuggire se non aveva mai avuto
nulla, né casa, né parenti, né un amore? Probabilmente fuggiva da sé stesso,
probabilmente aveva paura di avere una casa, dei parenti, un amore. Forse
aveva paura di non essere all’altezza, di non saper vivere. Ma a un certo
punto aveva capito che vivere è una cosa che si impara un po’ per volta,
come tutte le altre, e il suo stesso corpo aveva detto “Basta!” e gli si era
spezzata un’ala. Forse era giunto il momento di smettere di scappare e di
provare ad essere un vero corvo.
Anche quella rabbia, quella sfiducia nel prossimo, quelle parole cattive e
rare che sputava sempre fuori con pungente precisione erano un modo per
tener lontani gli altri, per paura che entrassero dentro di lui e scoprissero
che non valeva niente, che non lo amassero, così come non si amava lui.
E così, per non dover scoprire di non esser degno né dell’amore degli
altri né del proprio, faceva in modo che non lo amassero fin da subito.
Quell’ago di pino lo stava ormai distruggendo.
Corse nella dispensa, prese una bottiglia di vodka e ne uscì tracannandola
mentre camminava. Per un attimo pensò che il topo e la volpe avessero
visto questo suo momento di debolezza e l’avrebbero giudicato. Smise di
bere, col cuore a mille, si guardò intorno: Musoritz saltellava sulla sedia per
convincersi del fatto del Sole, Alosha aveva gli occhi perduti nelle braci
scoppiettanti, con un bicchiere vuoto in grembo.
Ptiza avanzò tremando come quando camminava su dei rametti troppo
sottili pronti a spezzarsi sotto i suoi artigli, temeva che la terra stesse per
inghiottirlo. Intontito dall’alcol, con le zampe rigide e incerte, con troppo
sangue alla testa, terrorizzato da quella improvvisa epifania, decise che
sarebbe restato. Allora il fiatone svanì e il cuore si alleggerì: era rinato.
«Ah, bene, hai preso la vodka di patate,» disse Aliosha stendendo la
zampa con il bicchiere vuoto, «è quella che preferisco, versamene un po’,
stasera voglio bere! Musoritz, smettila con quella sedia! Vieni a bere con
noi ma, prima, vedi se nevica!».
Musoritz scese dalla sedia e aprì la porta: «Nevica, nevica...».

____________
1. Antica misura di lunghezza usata nell’Impero russo, equivalente a poco più di un chilometro.
XXXIV.

C
ome le lucciole – che certe sere d’estate sembravano lanciarsi un
richiamo di luce disperato per combattere la notte immensa con i
loro limitati mezzi, senza per questo arrendersi mai – così dové
accadere quando, sentendo che per un istante l’anima di Ptiza aveva vibrato,
anche l’anima di Aliosha si accese.
Un po’ brilla, la volpe fissava le braci, in quel dormiveglia che è più
fertile di sogni del sonno vero e proprio. Ptiza e Musoritz parlavano tra loro,
ma era come se fossero lontani.
La volpe pensò a un campo di grano scosso dal vento un giorno d’estate
particolarmente afoso. Si sentì avvampare tutta senza sapere perché, in un
misto di paura e di dolcezza. Le spighe inchinavano il loro capo al vento e
poi lo rialzavano, incessanti, come certe vecchie che aveva visto piangere
un giorno in un cimitero, accanto a una piccola bara bianca.
Avrebbe potuto sembrare che fosse il vento ad accarezzare la criniera di
quello sconfinato campo, dandogli l’aspetto di un mare giallo in tempesta,
ma il vento non era: il grano piangeva.
Aliosha aveva preso l’abitudine che hanno tutte le volpi di consumare il
suo cibo in certi spiazzi rotondi di grano calpestato, ma adesso non stava
mangiando: osservava la processione e i lamenti di quelle spighe.
In essi le parve di riconoscere gli amori perduti, gli amici lontani, persi in
un pianto infinito. In una rivide la sua Nastja, quando gli disse che sarebbe
andata via lontano.
Mai si erano amati come nel momento dell’addio, quando lei aspettava
che lui dicesse – Resta! – e lui aspettava che lei dicesse – Non voglio
andare più! – e le loro lacrime si mischiavano nei baci e nel pelo sempre più
arruffato.
E così il grano gli parve la somma di tutte le promesse non fatte e di
quelle non mantenute in tutta la Terra.
In un’altra spiga gli sembrò di vedere suo fratello Vania, sempre così
odiosamente saggio, e quando si rese conto che non l’avrebbe rivisto mai
più, cadde in un sonno ancora più profondo e il sogno cambiò, o forse la
volpe del sogno prese a sua volta a sognare, assopita nello spiazzo rotondo
di un campo di grano.
Avanzava, di notte, in una casa di umani del tutto vuota, con un
fiammifero nella zampa, ma la fiamma aveva le sembianze di un occhio,
che ogni tanto sbatteva invisibili palpebre. In un lungo corridoio si
affacciavano tante stanze che emanavano una luce fioca, e Aliosha
camminava.
In una stanza alla sua sinistra c’era Nastja, rannicchiata in un angolo, che
singhiozzava sola e abbandonata da tutti, ed era contemporaneamente
Nastja e una lanterna.
Lo stesso accadeva nella stanza successiva, alla sua destra, con suo
fratello che era anche una lanterna e che era ritto, volgendo il viso al muro
e, a lui, delle spalle che non sapevano perdonare.
Nella stanza dopo, alla sua sinistra, c’erano i suoi genitori – da quanto
tempo non sognava i suoi genitori? – schiena contro schiena, che non si
guardavano e non si parlavano come avevano fatto negli ultimi anni della
loro vita, bisognosi l’uno dell’altra.
E così via, nelle stanze successive, accendendo un fiammifero dietro
l’altro, come occhi nella notte, di camera in camera amici, conoscenti,
sconosciuti, animali intravvisti una volta sola e chissà quando nel fitto della
foresta. Poi, in questo corridoio senza fine, tutte quelle lanterne presero a
spegnersi. Corse indietro a cercare un amico e non lo vide più. Nel pieno
del panico si precipitò da Nastja, ma si ritrovò in una stanza vuota.
Capì che, anche se per colpa del suo carattere non aveva mai frequentato
nessuno, tutti – amici e sconosciuti – erano importanti, erano lanterne
accese in altre stanze, pronte a illuminargli una notte o tutta la vita, e che
non importava chi e quando, e quanto sconosciuto: ogni lanterna che si
spegneva era qualcosa che spariva, era il buio che avanzava fino a
inghiottirlo del tutto.
Ma, tastando le mura di quella notte senza confini che, in fin dei conti,
era stato lui stesso a crearsi intorno, trovò una porta, e una pesante e fredda
maniglia impolverata.
XXXV.

S
olo con un grande sforzo riuscì a spostare quella porta di pietra e ad
evadere dal labirinto vuoto e buio che era diventata la sua vita.
Oltre di essa, suoni, risate, e tanta luce che scendeva da vasti
candelabri a soffitto. Vi erano di nuovo tutte quelle persone, tranne suo
fratello e i suoi genitori. Cercava Nastja con lo sguardo su grandi balconate
che si affacciavano nella sala, ma non la trovava.
Tutti gli animali erano… vestiti! Aveva letto di balli in maschera nella
Venezia dell’Ottocento, e il sogno gliene restituiva una copia esatta.
Al centro del salone, in lontananza, c’erano alcuni gradini e qualcosa
coperto da un pesante velluto viola. Tutti tacquero nel vederlo entrare.
Avanzò mentre un quartetto di gufi riempiva l’aria di una magnifica
melodia. La folla si divise al suo passaggio, creandogli un sentiero fino al
velluto viola, accanto a un cerbiatto che aveva delle rose secche tra le
giovani corna acerbe.
Salì i gradini e un grosso corvo con un cappuccio da boia afferrò col
becco un lembo del velluto. Anche la musica cessò. Il drappo fu tolto e
scoprì un alto specchio che rifletteva la sua immagine confusa e smarrita.
Un brusìo si levò tra la folla, il cerbiatto compì qualche passo e, con un
rapido gesto dei suoi zoccoli posteriori, infranse lo specchio e, con esso,
l’immagine della volpe.
I frantumi caddero in terra, grandi, piccoli e taglienti, e in ognuno di essi,
stranamente, rimaneva impressa l’immagine di una parte di Aliosha.
Le parve di non ricordare più il proprio nome, né il suo passato, né che
animale fosse.
La folla mascherata si mosse all’improvviso e salì i gradini, accalcandosi
intorno ai cocci.
Li stavano mangiando! Il corvo prese un pezzetto di coda e lo mandò giù.
Un topolino afferrò una scheggia di vetro e la portò alla bocca.
Tutti stavano divorando la sua immagine e ci si tagliavano le zampe e le
bocche, e il sangue scorreva. «Fermatevi!» avrebbe voluto gridare ma non
le usciva un verso.
Allora si precipitò anche lei alla ricerca della propria immagine,
sussurrando «Chi sono? Chi sono!?», ma era rimasto soltanto un coccio.
Lo prese in una zampa e lo osservò: sembrava un orecchio. Proprio in
quel momento un falco lo afferrò planando con i suoi artigli e glielo rubò.
«Aspetta!» gridò finalmente e cercò di inseguirlo. Dall’alto del soffitto
del grande salone tre gocce di sangue caddero su un folto tappeto bianco e
la volpe le fissò senza un solo pensiero nella testa. Non ricordava più nulla.
Un topolino mascherato le sfrecciò di fronte con qualcosa di luccicante in
bocca e per istinto lo inseguì.
Avevano già varcato la pesante porta di pietra da cui prima era entrata,
quando riuscì ad afferrarlo e a guardarlo negli occhi. La piccola maschera
veneziana cadde: era Musoritz! Si ricordava di Musoritz! E lei era Aliosha!
Il topo sorrideva.
Il corvo che aveva spostato il drappo le sfrecciò sul capo e cominciò un
nuovo inseguimento lungo quel labirinto di stanze semibuie. Scarse luci si
riflettevano nel vetro che portava nel becco e Aliosha lo seguiva scintillare
nel buio. Il corvo si posava sui mobili, silenzioso, e sembrava irriderla,
mentre nel corridoio le parve di vedere con la coda dell’occhio una volpe
meravigliosa che correva.
Riuscì ad afferrare il corvo che l’aveva creduta distratta e gli tolse il
cappuccio: era Ptiza, ora ricordava!
Il corvo burbero col quale fino a poco prima aveva bevuto e diviso la
tana. La sua tana! Ora ricordava anche quella. Ptiza sorrideva e gracchiava.
Quando quella volpe meravigliosa sfrecciò ancora nel corridoio cominciò
a inseguirla e a capire che quello era soltanto un sogno. Ma sentiva che era
importante e pregava di non svegliarsi, non ancora.
Ne sentiva l’odore, ne seguiva l’usta, era sempre più vicino finché lei
entrò in una camera e fu in trappola.
Aliosha le si avvicinò. Lei in bocca aveva il frammento di specchio più
grande: il suo cuore.
Il cuore batteva forte a entrambi mentre Aliosha le si avvicinava, con le
zampe fragili per la paura, per il rimpianto e per un senso di sconfinata,
possibile felicità che lo atterriva.
L’altra volpe mangiò il suo cuore fissandolo negli occhi, con dolcezza, e
quando le fu vicino sentì l’odore del grano in estate.
«Cercami,» gli disse.
Ma non riuscì a toglierle la maschera e a ricordarsi il suo nome, perché in
quel momento si svegliò con il volto rigato di lacrime.
XXXVI.

M
usoritz e Ptiza si erano accorti che qualcosa aveva sconvolto i
pensieri di Aliosha, ma non avevano fatto domande. Il corvo,
ripensando a quella sola volta che in vita sua aveva pianto,
ricordava bene di essere stato “felice” che fosse accaduto in volo, cosicché
nessuno potesse vederlo, cercare di consolarlo o dirottarne i pensieri.
Il topo, pensando a tutte le volte che aveva pianto lui, e ricordandosi
quanto fosse terribile essere stato solo, corse ad abbracciare Aliosha senza
una parola.
La volpe con una zampa gli accarezzò la piccola testolina e il corvo
pensò che qualcosa nel cosmo intero doveva essere in subbuglio quella sera,
se due epifanie erano avvenute quasi nello stesso momento.
E davvero qualcosa c’era, considerando quello che accadde poco dopo,
qualcosa di così terribile che le mani di uno scrittore tremerebbero nel
raccontarvelo. La porta della tana si spalancò, tanto forte era fuori la bufera,
e gli ululati del vento coprirono le loro parole. Era come se tutta la foresta
gridasse – e gridava loro di uscire.
L’albero ai piedi del quale era stata scavata con tanta cura la tana da
Aliosha tremò fin nelle radici e un rumore come non l’avevano mai sentito
prima squarciò la fragile notte allo stesso modo in cui qualcuno avrebbe
potuto strappare un foglio: l’albero si era spezzato e stava cadendo.
La terra a pezzi cadeva dal soffitto della tana e in un attimo la dispensa fu
distrutta. Aliosha corse verso i sui libri ma il corvo l’afferrò con un artiglio
per la coda e la trascinò in salvo fuori, nel freddo inverno siberiano. Il topo
seguiva, poco distante.
«I miei… i miei libri!» balbettò Aliosha cercando di tornare dentro, ma la
presa del corvo era salda. «Lascia stare i libri,» disse, «adesso è il momento
di vivere!».
Si allontanarono nella neve mentre la volpe tornava in sé senza smettere
di tremare. Si voltarono a guardare l’albero gigantesco che crollava come
un dio morente, travolgendo e abbattendo i suoi vicini nella rovina. Le
radici apparvero fuori dal suolo, pronte a morire.
Ma non era il momento di piangersi addosso e, sferzati dal freddo,
corsero per cercare riparo. Il corvo tentava piccoli voli a mezz’aria con l’ala
non del tutto guarita, ma con quel vento non avrebbe potuto fare molto.
Musoritz era rimasto indietro e, piccolo com’era, era affondato ancora una
volta nella neve.
Aliosha corse indietro a cercarlo, lo afferrò tra i denti e se lo issò sulla
schiena. Il vento si calmò, improvviso com’era venuto, e così eccoli lì a
passeggiare in un bosco innevato: un corvo che avanzava goffamente nella
neve, perdendo equilibrio a ogni passo, una volpe che amava i libri e un
topolino sulla groppa.
Tutto era perduto, pensò uno di loro, anche ciò che li aveva uniti. D’un
tratto il corvo affondò su un artiglio e finì con la testa nella neve. Tirandosi
su, ce l’aveva ancora tutta sul becco, mentre gli occhi avevano
un’espressione truce. Musoritz lo guardò e scoppiò a ridere. Dopo poco
ridevano tutti e tre, senza sapersi trattenere.
Il topo aveva tra le zampine ciocche del manto di Aliosha, su cui si
aggrappava per non cadere, quasi fossero redini. Alzò la testa e vide le cime
degli alberi che ondeggiavano senza sosta tra le stelle: era finito di nuovo in
un mondo pieno di meraviglie.
XXXVII.

P
resto giunse il mattino, dapprima come una luce soffusa, quasi
timida: sembrava che il sole non volesse sorgere mai. Poi i primi
raggi diretti tagliarono il bosco filtrando tra i rami, lasciando i tre
animaletti a bocca aperta.
La neve cadeva così leggera da sparire appena toccava il manto di
Aliosha, intanto che i loro respiri si facevano fumo. Un fiocco atterrò sulla
punta di uno dei baffetti di Musoritz, che cercò di prenderlo in una zampa.
Poi la riaprì: era svanito.
Per molte ore non avevano trovato riparo e la stanchezza si faceva
sentire. La volpe scavò una piccola buca nella neve e tutti e tre, non senza
un po’ di imbarazzo, vi entrarono e riposarono uniti come una sola cosa,
scaldandosi l’un l’altro, in un sonno profondo e senza sogni.
Chi l’avrebbe mai potuto dire, pensò Musoritz aprendo gli occhietti, che
sotto quel manto di neve uniforme dormivano accoccolati un corvo, una
volpe e un topolino, magicamente diventati amici durante il freddo inverno
siberiano!
Chissà, si domandò, se sotto la silente coltre di neve si agitavano altre
storie magiche, se altri animaletti avevano vissuto avventure, scampato
pericoli, capito cose, e ora riposinavano accoccolati là sotto. Chissà quante
storie si erano concluse, quante erano nel mezzo e quante stavano appena
per cominciare. Chissà quali vite, quali fili aveva intrecciato la sconfinata
taiga russa. Musoritz sapeva che dietro quel bianco c’erano un milione di
alberi, di animali che, come altrettanti libri, aspettavano solo di essere letti.
Uno alla volta si destarono anche i suoi due amici e, scrollatisi la neve di
dosso, ripresero il cammino. Gli alberi si diradavano mano a mano che
salivano lungo la collina e, quando furono in cima, videro in lontananza un
piccolo villaggio che Musoritz conosceva bene.
Non stava più nella pelle! «Va’!» gridò al corvo, «e vedi se trovi una casa
di legno più povera, in mezzo a tante case più belle. Vedi se ha un
comignolo storto, che caccia meno fumo. Vedi se hanno poca legna
accatastata fuori, e vedi se trovi una bimba dai capelli rossi così bella e pura
che quando la vedrai ti sembrerà di morire e di nascere per la prima volta!».
Piangeva, e così il corvo fu felice di ricevere quell’ordine. Ora non c’era
vento e così provò a volare di nuovo. Si levò di un metro appena e inclinò
da un lato, ma poi riprese quota: l’ala era guarita.
Volteggiò su di loro un paio di volte e sentì Musoritz che squittiva di
gioia. Le zampe di Aliosha erano irrequiete nella neve finché, incapace a
controllarsi, guaiolò tre volte, felice per il suo nuovo amico.
L’attesa fu lunga, il cuore del topo batteva all’impazzata. Guardarono
Ptiza volteggiare a lungo fra le case, perdendosi in lontananza.
Ptiza sentiva l’ebbrezza del volo e il suo sguardo si incantò
nell’orizzonte. Aveva bisogno di raggiungerlo. Dimenticò la tana che lo
aveva accolto, dimenticò il topo, ma per quanto volasse l’orizzonte
rimaneva là, irraggiungibile, da tutta una vita.
Sentì che le ali, sentì che il cuore non gli reggeva più e si fermò su un
comignolo a raccogliere i suoi pensieri. Pensò: «Adesso volerò forte come
non ho mai volato, e non mi volterò indietro. Vedrò altre terre, assaggerò
altri cibi, ascolterò nuove lingue». Si preparò a volare via per sempre,
allargando le ali e spostando il peso una volta su un artiglio, una volta
sull’altro, ebbro di voglia di quella che lui chiamava libertà.
La prima cosa che vide fu la bimba dai capelli rossi, e solo dopo notò che
la casa di fronte a lui era triste. Una vecchietta avanzava a piccoli passi,
tutta curva e stanca, sulla neve ghiacciata, e la bimba la teneva per mano.
Dopo poco, Musoritz e Aliosha videro tornare un corvo che aveva nel
becco una piccola ciocca di capelli rossi.
XXXVIII.

M
usoritz saltò giù dalla volpe e abbracciò forte l’artiglio di Ptiza
avvolto dai capelli rossi, e piangeva e li baciava. La volpe e il
corvo si guardarono imbarazzati, svettando ampiamente sopra la
sua testa. Il topo spalancò gli occhi e fissò ingenuamente l’uccello: «Ma…
non glieli avrai mica strappati?».
«Cra-hahahahahahah!» gracchiò il corvo, «Ma no, ma no! Che vai a
pensare!».
A Musoritz tornò il sorriso e si misero in cammino, non smettendo mai di
parlare tanta era l’emozione. Il villaggio era tale quale lo ricordavano. C’era
solo meno legna nei depositi e sotto le baracche, perché gli abitanti avevano
dovuto tener testa già a più di metà dell’inverno.
Svoltando un angolo videro il vecchio vagabondo che conoscevano bene,
assopito e rosso in viso. Ptiza spiccò in volo e poco dopo tornò con un rublo
nel becco. Si avvicinarono a lui, che li guardava come in un sogno, con un
mezzo sorriso. Alzò una mano e Aliosha vi passò sotto più volte,
lasciandosi accarezzare come un gatto. Il corvo gli depose il rublo in
grembo, lui lo guardò e non lo toccò. Il vento lo portò via là da dove era
venuto. La sua attenzione era tutta per loro tre. Li guardava e rideva, per lui
era come se tutta la Natura, se tutta la Russia lo stesse abbracciando e gli
stesse dicendo: «Noi vediamo che sei ancora puro; non giudichiamo il tuo
bere; sappiamo quanto hai sofferto e non lo dimenticheremo. Abbiamo fatto
tesoro di tutte le lacrime. Nemmeno una è andata sprecata. E quando sarà il
momento le poggeremo tutte sulla bilancia per scoprire quanto vale la tua
anima.
«Ci ricordiamo persino di lei e presto sarete di nuovo insieme; chi ride di
te non ha capito e non ha ancora vissuto la vita; presto tu e lei vi
scambierete carezze né giovani né vecchie, né pure né impure, e tornerai a
vedere il mondo e le cose, perché finalmente potrà vederle di nuovo anche
lei. Noi lo sappiamo che non hai voluto più vedere dal momento che i suoi
occhi si erano chiusi e non vedevano più; che non hai voluto vivere e non
hai voluto invecchiare, perché lei nella tomba è rimasta ragazzina. Hai fatto
bene, non un solo giorno è andato perduto, e tutto è perdonato».
Quando si avvidero che il vecchio si era assopito accarezzandoli, perso
nei suoi ebbri pensieri, ripresero il loro cammino.
Un grosso gatto strisciò rasentando uno steccato dalla parte opposta della
strada, fissando il topo con desiderio. Ma bastò un’occhiata della volpe per
togliergli ogni velleità, così scappò via.
Di tanto in tanto il corvo si levava alto in volo e gracchiava loro la
direzione da seguire: «È vicina!» gridava – e a Musoritz mancava il fiato –
«È dietro quel muro!» – e a Musoritz scoppiava il cuore.
Il topo dovette fermarsi perché gli si piegavano le zampe. I suoi occhietti
si appannarono.
«Oddio, oddio!» sussurrò mentre i suoi amici gli si facevano accanto.
«Cosa c’è?» gli domandò Aliosha.
«È dietro quel muro!» disse con un filo di voce, mentre tutte le immagini
della sua passata felicità lo assalivano.
L’emozione e la promessa di nuove felicità erano così forti da
terrorizzarlo. Si lasciò cadere a terra e iniziò a piangere senza sapersi
trattenere: «Riconosco la via, riconosco il profumo!» e si portava le mani
agli occhi. Ebbe l’impressione di stare piangendo… a causa del pianto
stesso: non sapeva fermarlo, voleva precipitarvi dentro.
«Su, su!» gracchiò Ptiza spostandolo col dorso del becco. Musoritz rise
forte, solleticato in un punto. Allora Ptiza insistette finché tutto il viottolo fu
pieno di squittii.
Ora il topolino non seppe più distinguere – toccando il proprio viso – le
lacrime del pianto da quelle del riso, così si fermò, trasse un profondo
sospiro e avanzò precedendoli come un impavido condottiero. Svoltò dietro
l’angolo: ecco il comignolo, ecco la casa, ecco la porta! Riconosceva ogni
cosa.
XXXIX.

E
ra il momento. Tutti e tre davanti all’uscio si domandarono: «E
adesso cosa facciamo?». Cioè… fino a quel momento non si erano
proprio posti il problema!
Il corvo fece qualche passo avanti: «Busserò col becco!».
«Prova!» disse la volpe.
Ptiza diede tre colpetti e aspettarono. Niente.
Musoritz sussurrò qualcosa nell’orecchio della volpe, che annuì. Le si
arrampicò sul dorso come durante la bufera: voleva apparire bellissimo al
primo colpo d’occhio. Il corvo bussò ancora; si voltò frastornato: «Ma
come diavolo fanno i picchi…» si sentirono dei rumori all’interno, «…a
fare questo…» qualcuno aprì la porta, «…sempre!?».
Sull’uscio stava ritta una vecchina con lo sguardo ancora rivolto verso
l’interno. «Chi è!?» le aveva gridato una voce da dentro, burbera e gentile
allo stesso tempo. «E un attimo!» aveva sussurrato lei, che in tutta la sua
vita non aveva mai gridato una volta.
Era tutta bianca da capo a piedi, con i capelli avvolti in un fazzoletto; ai
piedi aveva delle vecchissime ciabatte bucate. Sembrava così fragile, come
una persona che per tutta la vita avesse retto un peso superiore alle sue
forze, uno stelo d’erba curvo, ormai piegato irrimediabilmente dal vento.
Si voltò verso il fuori, non vide nulla. Abbassò lo sguardo e tacque
qualche secondo, stupita. «Chi è?» ripeté la voce. La vecchina cercò le
parole: «Sono un corvo, una volpe… e un topolino cavaliere…».
«Nonno, che succede?» disse una vocina da dentro, «Ho sentito gridare,»
«Niente, piccolina, vai a vedere chi è alla porta, per favore. È andata tua
nonna, ma io ho capito solo “topolino”,»
«Topolino!» gridò Milla, e corse alla porta con gli occhi lucidi. Passò
sotto il braccio della nonna ancora appoggiato allo stipite.
Il cuore del topo anticipò la sua umana e prese a battere forte. La sua
testolina rossa apparve come in un sogno. Lei non ebbe il tempo di stupirsi
e lo riconobbe e corse ad abbracciarlo gridando: «Musoritz!!!» e il topo
squittì più forte.
«Dove sei stato, Musoritz! Devi raccontarmi tutto! Andiamo dentro,
entrate!».
La vecchina osservò senza capire la sua nipotina con addosso un topolino
che le correva da una spalla all’altra sbucando fuori dai capelli rossi come
dalle tende di un teatro, seguita da un corvo con gli artigli che ticchettavano
sulle assi di legno del pavimento e da una volpe che guaiolò qualcosa, forse
per dire: «Buonasera…».
Non c’era molta legna, ma un fuocherello comunque scoppiettava. Il
nonno – un vecchietto barbuto che non si alzava dalla sua poltrona da chissà
quante ore perché le gambe non lo reggevano più – vi era seduto accanto e
si trovò di fronte i nostri tre eroi.
«Riconosco la casa,» disse infine Aliosha, «qui ci sono già stato! Sono
poveri di cibo ma ricchi di libri!».
«Ti riconosco,» disse il vecchio indicandola con un dito tremolante,
gonfio come una melanzana, «Tu sei la volpe… la volpe che amava i
libri!».
Aliosha fece come un inchino, poi corse in un’altra stanza – conosceva il
posto – si arrampicò tra gli scaffali della libreria in cerca del titolo giusto.
Tornò un minuto dopo con un grosso volume tra le fauci. Lo poggiò sulla
coperta che il vecchio aveva sulle gambe. Lui lo prese fra le mani: erano le
Fiabe di Puškin. Notò che sulla cartonatura del libro era comparso il segno
di un dentino della volpe. Sorrise: ora il libro era ancora più bello.
Il corvo volò sul camino, la volpe fece un paio di giri su sé stessa e si
mise ai piedi del vecchio. Musoritz sedeva su una gamba della sua umana e
ne riceveva le carezze, dimentico di tutto. La normalità era tornata. La
nonna prese a cucinare il poco che avevano.
Siccome il vecchio indugiava, Aliosha si alzò e col muso gli spostò il
libro sulle gambe. Allora lui lo avvicinò al naso e inspirò profondamente:
«Un buon libro è come un buon vino,» disse, «bisogna prima annusarlo!».
Poi cominciò a leggere: «Vivevano un vecchio con la sua vecchia…».
XL.

Q
uando fu l’ora di andare a dormire scese il silenzio sull’intero
villaggio, i nostri tre eroi avrebbero voluto dire moltissime cose
ancora. Ptiza e Aliosha rimasero nei pressi del camino, mentre
Musoritz si avviò nella stanza di Milla, verso la sua casa di bambola.
Chissà cosa dicevano i due vecchietti nel loro letto intorno a quella strana
giornata appena trascorsa!
Milla e Musoritz giocarono ancora, per un tempo che parve loro lungo e
breve, poi il sonno prese anche lei. Musoritz scese dal letto con un saltino.
Quello che pochi mesi prima gli era parso enorme – il letto, le cose, persino
la chioma rossa della sua umana – ora gli appariva soltanto grande. Era
cresciuto, dentro e fuori, e ora tutto sembrava più piccolo e più dolce.
Mentre andava verso il suo giaciglio coi suoi passettini sopra lo spesso
tappeto, gettò una occhiata distratta a quel mobile pieno di cassetti che
aveva scalato a fatica quella sera terribile. Lo aveva tormentato nei sogni
come un totem insormontabile, come una montagna sulla cui vetta i lampi
decretavano le sventure per tutti i quieti animaletti della terra.
Come sarebbe stato facile arrampicarcisi ora! Meglio non pensarci, si
disse. Ma poi si domandò: «Chissà cosa fa adesso quell’altro topo! Quello
che fu la causa di tutto e che strappò la fotografia a morsi». Allora cominciò
la sua scalata per dirgliene quattro, e quando fu in cima si accorse che in
realtà era salito per dirgli che lo aveva perdonato.
Su di un piccolo diario che lui conosceva bene, tra il pettine ricamato di
capellini rossi e il piccolo specchio che lui conosceva bene, era adagiato un
cartoncino con i brandelli della fotografia del padre di Milla tutti incollati, e
sotto c’era scritto: «Mio padre».
«Padre!» gridò Musoritz ridendo, «non parde!».
Lo specchio era poggiato all’ingiù e così Musoritz faticò per voltarlo, ed
eccolo, quel benedetto maledetto topo. Si guardarono in silenzio, a lungo.
Se ancora era rimasta in lui qualche parola astiosa, svanì come fumo
nell’aria buia. Com’era invecchiato!
Qualche peletto bianco qua e là guastava il suo manto un tempo di un bel
grigio intenso. Ciò che in lui era stato simpatico adesso era triste; quelle che
un tempo erano state espressioni adesso erano rughe. Ma quelle rughe,
narrando la storia delle sue espressioni, narravano anche la storia della sua
anima, come un vinile che suoni là dov’è il solco. Non se la sentì di dire
qualcosa di brutto al topo nello specchio, e così sorrise soltanto, mentre
quello gli sorrideva di rimando.
Ridiscese dal mobile che ora non gli faceva più paura e andò a dormire
nella sua casetta, che s’era fatta piccola persino per lui, e sognò. Sognò i
giorni che dovevano ancora venire, gli scherzi, le risate, le coccole, i suoi
amici e tutte quelle cose che aveva avuto nel cuore di fare con la sua piccola
umana e i suoi nuovi amici.
Quando si svegliò, l’inverno era passato. Stupito, guardò alla finestra che
non s’appannava più dei suoi respiri. Non era stato un sogno! Avevano
davvero letto libri accanto al fuoco, giocato tutti insieme, mangiato al
tavolo con una bimba e due vecchietti!
Tutto era andato come doveva andare. Solo Aliosha, negli ultimi tempi, si
era fatto più irrequieto – ma non triste – e di tanto in tanto si era assorto nel
fissare la neve scendere alla finestra.
La piccola Milla aprì la porta per andare a scuola col suo zainetto ed
entrò la primavera. Musoritz, Aliosha e Ptiza si ritrovarono così sull’uscio
come quando erano arrivati. Il corvo decise che si sarebbe costruito un nido
lì vicino e avrebbe iniziato a vivere davvero, ma fu quando guardarono la
volpe negli occhi che capirono che era il momento degli addii.
XLI.

A
liosha era molto taciturna e abbracciò gli amici in lacrime:
«Perdonatemi, io… io devo andare, è tempo di trovare la mia
Nastja». L’inverno era stato duro, ma in quel momento si
riscoprirono a desiderare che tornasse presto, per riunirli un’altra volta:
adesso si volevano bene.
«Tu cosa farai?» chiese Ptiza al topo.
«Io resterò qui,» rispose, «questo è il mio posto».
La volpe stava ormai per voltare l’angolo e sparire, ed il corvo stava per
spiccare il volo, quando il topo disse: «Sarebbe bello…» e poi tacque,
avvolto in un suo pensiero.
Aliosha si voltò e fermò il passo, Ptiza richiuse le ali.
«Sarebbe bello,» riprese Musoritz, «pensare che siamo stati solo il sogno
di uno scrittore, e che la volpe troppo chiusa, il topo troppo dolce, il corvo
cattivo dall’ala spezzata sono parti di lui che non dormono, e che ama una
bimba dai capelli rossi, da qualche parte, perduta nel tempo, nella neve e
nella nebbia. E che attraverso un inverno lungo e freddo, la volpe si è
aperta, il topo scacciato da tutti ha trovato conforto e calore e al corvo ferito
è guarita l’ala. E così, tutte queste parti della sua anima, in contraddizione
tra di loro, si sono conciliate, si vogliono bene, e il suo pensiero è di nuovo
libero, diritto e puro.
«E sarebbe bello pensare che la neve si è sciolta nel suo cuore e che
adesso uscirà nella primavera e andrà a cercare la sua bimba dai capelli
rossi».
FINE
Postfazione alla seconda ristampa

C
ari lettori, che bello che avete letto questo libro che io ho scritto con
tanto amore! Se il vostro cuore somiglia al mio, adesso vi
mancheranno da morire Musoritz e Aliosha, forse il corvo no!
Scrivo qui questa mini postfazione, oggi 8 luglio 2021, perché dopo aver
letto La volpe che amava i libri tutti mi scrivono: cos’altro posso leggere di
tuo?
Io scrivo in tanti modi diversi – magari altri libri potrebbero non piacerti,
o non essere adatti a persone con meno di 15 anni – così se vuoi leggere un
libro simile a questo ti suggerisco il mio secondo romanzetto Il fiato di
Edith. Puoi trovarlo sul sito nicolapesce.it
Non dimenticarti di venirmi a trovare iscriverti alla mia newsletter: se la
lettura ti è piaciuta potrai seguirmi nelle mie piccole pazzie!
Dello stesso autore abbiamo pubblicato:

Le cose come stanno, NOV. ’19


Il fiato di Edith, AGO. ’20
La cura del dolore, GEN. ’21
L’uomo più piccolo del mondo, GEN. ’22
Di prossima pubblicazione:

I Fiori del Bene, GIU. ’22

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