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Mario Rigoni Stern

ARBORETO SALVATICO

Nota editoriale
Con "Arboreto salvatico" Rigoni Stern fa un appassionato omaggio a
quello che Gadda chiamava il popolo degli alberi, un popolo antico,
dignitoso, saggio. L'affetto di Rigoni Stern per gli alberi come quello
portato a un fratello maggiore, un fratello che si riconosce sostanzialmente
migliore. E come fratelli maggiori gli alberi hanno sempre aiutato gli uomini,
ne hanno reso possibile la vita e favorito l'affinarsi delle civilt. Per contro gli
uomini spesso li umiliano, li feriscono o li distruggono, soprattutto per
stupidit e per ignoranza. Rigoni Stern sceglie venti alberi a lui
particolarmente cari e li descrive, ne d le necessarie caratteristiche botaniche
e ambientali, ne illustra la storia e le ricchezze, ne spiega gli influssi che
hanno avuto nella cultura popolare e nella letteratura, e naturalmente anima il
tutto con le proprie esperienze di uomo di montagna, i ricordi, la sua
sensibilit di scrittore di razza. Come uno scienziato Rigoni Stern ci racconta i
meccanismi logici di queste straordinarie forme di vita; come uno psicologo
ci svela l'anima del salice, del frassino, della quercia, della betulla e degli
altri amici a cui dedica le sue pagine; come amante degli alberi ci trasmette
il suo amore per tutti loro.

Mario Rigoni Stern ha pubblicato presso Einaudi "Il sergente nella neve.
Ricordi della ritirata di Russia" (1953), "Il bosco degli urogalli" (1962),
"Quota Albania" (1971), "Ritorno sul Don" (1973), "Storia di Tnle" (1978),
"Uomini, boschi e api" (1980), "L'anno della vittoria" (1985), "Amore di
confine" (1986). Nel 1989 uscito "Il magico Kolobok e altri racconti", edito
da La Stampa.

Introduzione.
Cechov, nel 1888, scriveva: Chi conosce la scienza sente che un pezzo di
musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l'uno e l'altro sono creati
da leggi egualmente logiche e semplici. Dieci anni dopo a un amico che va a
trovarlo in Crimea dice: Qui ogni albero l'ho piantato io e mi sono cari. Ma
ci che importa non questo, il fatto che prima che venissi io qui non c'era
che un terreno incolto e fossi pieni di pietrame e cardi selvatici. Ho
trasformato quest'angolo perduto in un luogo bello e civile. Lo sa? Fra tre,
quattrocento anni, tutta la terra si trasformer in un bosco fiorito e la vita sar
meravigliosamente leggera e facile... Quando vagabondo per le mie
montagne boscose ripenso a quanto diceva Anton Cechov e lo ripeto anche
agli amici che vengono quass a trovarmi. Ma a volte provo anche sfiducia
se mi capita di constatare quanto poco gli uomini si occupino dei problemi
degli alberi. E s che da tempo studiosi e tecnici vanno scrivendo dei pericoli
che li minacciano, e ai pochissimi che li ascoltano o che si interessano
corrispondono i troppi che si accorgono degli alberi solo quando, presi dalla
calura estiva, cercano la loro ombra per posteggiare l'automobile. Se incontro
un albero sradicato dal vento, o schiantato dalla neve, o roso dal ghiro, o
morso dal cervo provo dispiacere, ma quando vedo una corteccia incisa da
un barbaro coltello o un albero tagliato da una scure di frodo provo amarezza
e rabbia perch se coltivare boschi segno di civilt, danneggiarli e
distruggerli incivilt e regresso. Un giorno ritornando dalla passeggiata
mattutina e passando vicino a una contrada, con disgusto il mio sguardo era
andato a posarsi su due frassini e un sorbo ai quali qualche violento imbecille
aveva spezzato le cime. Erano stati posti a dimora in un'aiuola erbosa
nell'area comune dove un tempo si raccoglieva l'acqua piovana per
abbeverare il bestiame e in quella primavera avevano ripreso a vegetare con
vigore e bellezza. Ora i tre cimali pendevano spezzati, con le foglie appena
sbocciate che appassivano e la linfa che gemeva dalle ferite mortali. Ma chi
poteva essere stato? Non certo i ragazzi che conosco: lass non
arriverebbero, e poi i tronchi sono ancora troppo esili per arrampicarli. Forse
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era stato l'emigrante ritornato dall'Australia e che ogni tanto si ubriaca? O


quei giovani dall'automobile rossa che quasi ogni sera vanno a fumare alla
curva del bosco? Ero amareggiato e andando verso casa pensavo a un
articolo letto su un giornale e che aveva per titolo: "Uccise un albero,
all'ergastolo". Era per una quercia secolare sacra a certe trib indiane ma
anche nota come La quercia del trattato di Austin perch alla sua ombra era
stato firmato l'accordo per l'annessione del Texas agli Stati Uniti e per gli
americani era simbolo di storia concreta e viva. Forse l'ergastolo richiesto per
un uomo colpevole di aver ferito gravemente un albero storico era una
condanna troppo severa, ma dieci anni di lavori silvocolturali, pensavo, ci
starebbero bene. Anticamente, per chi profanava un bosco sacro in certi casi
c'era la pena di morte perch dagli alberi erano nati gli dei e gli uomini...

"A Giulio Einaudi amatore d'alberi".

Arboreto salvatico

Il larice. Albero cosmico lungo il quale scendono


il sole e la luna.
Da sempre l'albero ha esercitato sugli uomini sensazioni di mistero e di
sacro e il bosco stato il primo luogo di preghiera. Dice Plinio il Vecchio
nella sua "Naturalis historia" che ... non meno degli Dei, non meno dei
simulacri d'oro e d'argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste.
Agli alberi come specie o anche come singole creature sono legati miti e
leggende, favole e fiabe ma anche storie vere. Gli antichi poeti raccontano di
Egido, mostro spargitore di fuoco, che distrusse le foreste dalla Frigia alle
Indie e dal Libano alla Libia; infine fu vinto e venne ucciso dalla dea Atena
nella pianura dell'Epiro.
Forse questo mostro sacro era stato ideato per esprimere le violenze
devastanti dei conquistatori o, anche, il bisogno delle societ in crescita di
aumentare i terreni coltivabili. Ma il risultato fu anche che questi grandi e
disordinati diboscamenti portarono diminuzione delle piogge, inaridimento
delle sorgenti e l'inizio del deserto. Fu da allora, come scrive Adolfo di
Brenger nel suo bel saggio "Dell'antica storia e giurisprudenza forestale"
(Venezia, 1863) che gli uomini al fine di dover proteggere gli alberi e i boschi
decisero leggi per la conservazione: ... e l'afforzarono col mistero della
religione, perch fossero meglio rispettate ovunque e da tutti.
Oggi, dopo migliaia d'anni, il fenomeno della distruzione forestale si va
ripetendo in altri luoghi della Terra; e se poco valgono gli allarmi degli
scienziati, se leggi non vengono emanate o rispettate, quali miti, quale forza
di religione si dovrebbero ideare, quale nuova dea Atena dovrebbe
intervenire per fermare il novello Egido ignivomo che devasta la grande
foresta dell'Amazzonia?
Con queste rievocazioni, amici lettori, vorrei raccontarvi di quanto sugli
alberi sono venuto a sapere nel corso dei miei anni, di quanto ho appreso
camminando e lavorando per boschi, da testi anche antichi, da poeti e
boscaioli, da dottori forestali, e spero, come vado dicendo da un po' di
tempo, che la carta che uso per questo mio scrivere valga almeno l'albero che
l'ha data Incomincer dagli alberi del mio brolo e poi dir di quelli della mia
terra, perch di tutti sarebbe impossibile scrivere e se, alla fine, qualcosa
sono riuscito a comunicarvi, mi sentir lieto nel cuore. Prossimi alla mia casa
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sono due larici, me li vedo davanti agli occhi ogni mattino e con loro seguo
le stagioni; i loro rami quando il vento li muove, come ora, accarezzano il
tetto.
Quando misi mano a tirare su i muri perimetrali, questi larici erano gi
nati dalla terra smossa da una granata che nel 1918, esplodendo, aveva ferito
il pascolo, ma non avevano l'aspetto di oggi: erano alti, s, a dondolarsi nel
cielo, ma i loro diametri non superavano i venti centimetri. Sotto di loro in
quell'autunno raccolsi un bel cesto di agarici violetti, profumati e sodi funghi
che chiudono la stagione. Quando nella primavera ripresi i lavori, anche i
due larici si vestirono di un bel verde chiaro rallegrato dai fiori gialli e
arancioni; e sotto questi alberi luminosi raccolsi ancora i funghi di San
Giorgio, primizia di primavera. Il "Larix decidua" appartiene alla famiglia
delle "Pinacee": albero di bell'altezza pu raggiungere anche i cinquanta
metri; molto longevo e il suo tronco diritto e slanciato vestito da una
leggera corona piramidale di rami sparsi: gli alti guardano verso l'alto, i bassi
sono penduli; da giovane la sua corteccia liscia e tendente al grigio ma con
il passare degli anni diventa bruno-rossastra, profondamente solcata e molto
spessa.
Gli strobili hanno la forma di piccole uova brune, sono lunghi da tre a
quattro centimetri e quando si aprono lasciano cadere i semi, ognuno unito a
una piccola ala lunga poco pi di un centimetro. (Nel trascorso inverno ho
osservato centinaia di lucherini e di fringuelli che sul terreno si cibavano di
questi semi). Il larice albero tipicamente alpino e si spinge fin oltre i
duemilacinquecento metri di quota; ma si trova anche nei Carpazi, specie
particolari vivono in Polonia, in Siberia e in Giappone. Ama il sole, inverni
freddi e nevosi, estati asciutte; specie d'avanguardia e lo si riscontra quando
spontaneamente occupa terreni denudati per frane, o alluvioni, o fratte rase:
ogni terreno smosso, purch asciutto, buono per attecchire. Forma boschi
puri (lariceti) e si consorzia sovente con le altre conifere delle Alpi.
Sui pascoli l'albero preferito perch con la sua leggera copertura non
impedisce la produzione dell'erba e sotto la sua ombra, nei meriggi estivi, il
bestiame ama sostare. Dal suo tronco, quando viene inciso alla base, cola una
resina ambrata dalla quale si ricava la "trementina di Venezia", un tempo
molto usata in farmacia e dai pittori. Il suo legno ha un durame rosso-bruno,
l'alburno pi chiaro, gli anelli di accrescimento sono ben distinguibili;
odoroso, compatto e duro. Da sempre servito agli uomini delle montagne
per costruire capanne e case. (Pi il larice cresce in alta montagna migliore
il suo legno). In Val di Fassa certi architravi maestosi portano scolpiti date e
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nomi che vanno indietro nei secoli. Ma anche con il larice si fanno assicelle
per la copertura dei tetti (le "scandole"), mastelli, botti, mobili e suppellettili.
Nell'acqua immarcescibile e, oltre a costruire le navi, i Veneziani, sopra i
pali di larice, hanno edificato chiese e palazzi.
Venezia, per, aveva anche regolato con leggi severissime lo sfruttamento
delle foreste e a questo scopo, nei primi anni del Cinquecento, aveva
nominato uno specifico magistrato. Plinio ci racconta che Tiberio per la
costruzione del Ponte Naumachiario fece venire dalle Alpi Rezie una trave di
larice che lasci stupefatti i Romani: era lunga centocinquanta piedi e aveva
una grossezza uniforme di due piedi per ogni lato. Ma oggi, a pensarci, ci
stupisce ancora di pi il suo trasporto. I tre larici della Ultental, in Sudtirolo,
oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi pi antichi delle Alpi.
Il pi maestoso di questi misura pi di otto metri di circonferenza e la sua
altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l'apice, di
ventotto metri. Il quarto fratello di questi tre venne divelto da un bufera nel
1930 e contando gli anelli si pot determinare che aveva duemiladuecento
anni. Ora gli esperti dicono che il maggiore l a guardare le montagne da
duemilatrecento anni!
Anche il mioalbero da ragazzo era un larice. L'aveva fatto piantare mio
nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella
corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918 si trov tra l'una e
l'altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora,
attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era
dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre
alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lass,
sul mio larice, tra gli aghi d'oro infiammati dal sole verso il tramonto. A
volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi
impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava a
scendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno
scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami
flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lass, di
poter guardare pi a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di
navigare con la fantasia verso avventure infinite.
Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero,
restavamo silenziosi. Dalla lontana Siberia, dove cresce il "Larix sibirica", un
viaggiatore ha raccontato che certe popolazioni primitive lo considerano
"albero cosmico" lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma
d'uccelli d'oro e d'argento. Lass avevano anche un Bosco Sacro dove ai rami
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dei larici appendevano le pi belle pellicce e ogni cacciatore vi deponeva una


freccia.
Ma i larici che personalmente ammiro e fors'anche venero, sono quelli che
nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono l nei
secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici
prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni
primavera quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si
rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli.
E all'autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d'oro le
pareti.

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L'abete. Albero della nascita e a lui era dedicato


il primo giorno dell'anno.
Il peccio, "Picea excelsa" Link, o abete rosso, l'albero che sempre stato
presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho
trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le
grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei
nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessit di coltura, tra il
1919 e il 1922, si dovette abbattere.
Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che
mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come
sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani
piantavano appena la neve liberava il terreno.
C'erano diversi vivai, "orti forestali" li chiamavamo, ubicati in localit
distinte per clima e altitudine al fine di poter procedere nel lavoro di semina e
di rimboschimento in armonia con la stagione meteorologica. I semi
venivano dalle foreste della Val di Fiemme che, dicono gli esperti, sono le pi
belle e dnno il migliore legname delle Alpi.
Quello del "piantar piantine" e del recupero dei materiali bellici stato il
principale lavoro della nostra gente per molti anni; ma tante volte, anzi
sempre, scavando le piccole buche per il rimboschimento, assieme alla terra e
ai sassi uscivano cartucce, bombe inesplose, resti di caduti perch ovunque
era stato campo di battaglia.
Ora, a distanza di settant'anni, ci si rende conto che fu errore impiantare
boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneit hanno un equilibrio
molto fragile perch parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e
inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale.
Ma allora si trattava di ricostruire in fretta la foresta distrutta e di coprire cos
i vistosi disastri della guerra.
Anche nel mio brolo, assieme ad altre diverse specie d'alberi di alto fusto,
ci sono i pecci: crescono rigogliosi tanto che ormai, anche se sono nel terreno
pi in basso, mi riducono lo sguardo sul paesaggio.
Quand'erano ancora piccoli, mi era molto comodo raccogliere da loro gli
sciami delle mie api; poi, quindici anni fa, vennero i fringuelli a fare i nidi tra
i loro rami a ogni primavera (che regolarmente, alla schiusa, le cornacchie
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distruggevano anche se restavo all'erta); quest'anno una coppia di tordi stata


scacciata da una coppia di cesene che ora, mentre scrivo, porta vermi e larve
ai nidiacei che, sgraziatamente, stridono. Il peccio resta pur sempre l'albero
per eccellenza delle nostre foreste alpine, e da lui hanno tratto da vivere tante
famiglie di montanari che dal suo legno ricavavano oggetti che poi venivano
commerciati in paesi anche lontani.
Fino alla scoperta e all'uso della plastica, attorno alle case delle nostre
contrade c'erano sempre castelli di assicelle o doghe messe a essiccare al sole,
e poi da queste, quando il lupo mangiava l'inverno, si ricavavano mastelli,
secchie, tini, fasce per il formaggio, scatole di varie misure per le farmacie e
gli orefici. Rari pecci con particolari caratteristiche (denudati dalla corteccia
mostrano delle piccole verruche regolarmente distribuite lungo il tronco)
venivano e vengono chiamati "alberi di risonanza" e abbattuti, stagionati e
segati in maniera accurata e seguendo le fasi lunari (l'abbattimento deve
essere fatto subito dopo il plenilunio e, dopo qualche anno il tronco segato in
luna calante perch cos il legno, materiale vivissimo, risulta pi stabile). Di
queste assi cos ottenute i liutai si servono per costruire le casse degli
strumenti a corda.
La foresta pura di peccio uniforme, cupa, qualche volta priva di
sottobosco o con sottobosco povero. Gli alberi si alzano diritti come colonne
e la luce filtra tra loro creando forti contrasti come in una cattedrale gotica.
D'inverno, a volte, la neve rimane sospesa sui rami per pi giorni e quando
scivola al suolo crea delle trincee attorno ai tronchi. Le abbondanti nevicate
primaverili accumulano grande quantit di neve pesante sulle cime uniformi
del bosco e se a queste nevicate si accompagna forte vento, il fenomeno
provoca grandi schianti di tronchi e sradicamenti, con rumori violenti e
improvvisi, boati, scrosci e nuvole di neve.
E chi passer per una strada forestale o per una mulattiera in tali momenti,
prover profonda emozione e anche spavento. Il peccio, della famiglia delle
"Pinacee", da molti, e non solo dai cittadini sprovveduti, erroneamente
chiamato pino. Ma altri alberi sono i pini. Questo peccio, o abete rosso,
albero di primaria grandezza, alto, talvolta, pi di quaranta metri; longevo
tanto che in alcune foreste ancora intatte se ne possono trovare di quattrocinque secoli d'et. I rami sono disposti a piramide con le estremit rivolte
verso l'alto. Nelle quote pi alte o nelle regioni del Nord assumono forma
colonnare perch dalla neve e per lungo tempo i loro rami vengono
schiacciati contro il tronco. La corteccia rossastra e a piccole squame,
invecchiando si fessura e si dispone a placche. Le foglie aghiformi lunghe
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due-tre centimetri sono disposte tutt'intorno ai ramuli; i fiori maschili, sui


rami pi giovani, sono amenti giallo- rossastri; i femminili di un bel colore
rosso vivo.
Gli strobili sono penduli, lunghi anche venti centimetri e cadono al suolo
prima di aprirsi. (Ma gli scoiattoli comodamente seduti tra i rami amano
desquamarli per mangiarne i semi e a terra lasciano cadere il torsolo nudo). I
semi sono bruni e grandi come un grano di miglio, con un'ala lunga quindici
millimetri. Quest'albero ama l'ombra, i terreni sciolti e acidi; forma anche
boschi misti con il faggio e l'abete bianco e, nelle quote pi alte, con il larice.
Riveste le montagne tra gli ottocento e i duemila metri ed specie tipicamente
boreale in quanto la sua distribuzione va dalle Alpi alle montagne pi alte
della Grecia, dalla Transilvania alla Scandinavia fin oltre il Circolo Polare.
Narrano i poeti greci e latini che il peccio era albero pronubo e sacro a
Imeneo perch dal suo legno resinoso si ricavavano le tede per illuminare il
talamo nuziale.
L'abete bianco, "Abies alba" Mill, pure un grande e maestoso albero che
pu raggiungere i cinquanta metri d'altezza e superare i quattro di
circonferenza, come il bellissimo "Avez del prinzep" (Abete del principe) in
quel di Lavarone, alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che
certamente stato ammirato anche da Robert Musil. Il portamento dell'abete
eretto, il fusto diritto e cilindrico; la chioma slanciata ma con gli anni, o con
i secoli, assume la forma a nido di cicogna. Il suo colore verde intenso
con i riflessi d'argento dovuti alle pagine inferiori delle foglie aghiformi,
appiattite e persistenti, disposte a pettine su un solo piano ai lati del ramulo
che le porta. La corteccia liscia e argentea, con bolle resinose; con il tempo
si screpola a placche e s'inscurisce come in tutti gli alberi. I rami principali
sono robusti e fitti, a palchi. Come il peccio albero monoico; i fiori
compaiono in primavera, i maschili, sulla parte medio bassa della chioma,
sono di colore giallastro; i femminili, sui rami pi alti, sono rosso-violacei.
Gli strobili, lunghi anche dieci centimetri o pi, sono prima verdi e poi
bruni, portati verso l'alto. Il suo areale comprende l'Europa centro-orientale,
ma alcune razze di abete bianco si trovano persino in Marocco, in Calabria, in
Sicilia, nella Grecia e sulle rive del Mar Nero. Sulle Alpi si spinge sino ai
limiti della vegetazione forestale, e lo troviamo di solito consociato con
l'abete rosso e il faggio; ama i climi umidi e piovosi. Il suo legno bianco ma
tendente al giallino o al rosato, con gli anelli di crescita ben distinti. I tronchi
pi belli e alti venivano usati per le alberature delle navi a vela, ma anche
nelle armature e nelle capriate di certo impegno perch robusti e forti. Invece
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le tavole per falegnameria sono meno pregiate di quelle che si ottengono dal
peccio. La corteccia di abete bianco, ricca di tannino, macinata e ridotta in
polvere, fino agli inizi di questo secolo veniva usata dai miei conterranei per
conciare i pellami.
Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il
Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande
avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con
danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non
gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande
novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di
noi. Cos per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del
Sole. Da allora si diffuse la tradizione dell'albero di natale che oggi
ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e
poco razionale, che migliaia se non milioni di abeti vengono cos sacrificati,
che boschi vengono distrutti con grave danno ecologico.
E si indignano. Ma le cose non stanno cos. Intanto si pu subito dire che
dove per cos tanto tempo questa tradizione viva e viene praticata, i boschi
non sono affatto scomparsi. Nei Paesi del Nord Europa le foreste di conifere
coprono ancora grandi estensioni di quei territori, ed da credere che le
superfici boscate sono aumentate. Ben altre sono le minacce alla loro vita! Da
noi, invece, per i boschi delle nostre montagne, si deve dire che non saranno
certo gli alberi di natale a stravolgere l'ambiente.
E mi spiego.
Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine hanno
verso la punta un sigillo del Corpo Forestale che ne garantisce la
provenienza. Per lo pi vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni
abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto- dieci anni
una entrata extra per il suo magro vivere. Vengono pure utilizzati per alberi
natalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessit colturali. Si sa che
la migliore foresta, la pi utile all'uomo sotto ogni aspetto, non la foresta
vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e
coltivata. Lo dicono da tempo l'esperienza e gli studiosi che tutta la vita
hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna
appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da
opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il
ritorno del Sole e la nascita di Cristo.
Qui, al confine con il mio brolo, c' un pascolo ai margini del bosco. Nel
corso degli anni ho potuto constatare come va cambiando nell'aspetto. Un
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tempo vi pascolavano nove vacche; poi stato abbandonato. Ha incominciato


a coprirsi di cardi, di cespugli di ginepro, rosa canina e crespino. Tra questi
cespugli sono comparsi dei piccoli abeti e qualche frassino. Qualche anno fa
il contadino ha voluto riprendere l'allevamento e al posto delle dieci vacche,
sullo stesso pascolo, non pu tenere pi di sette vitelle: hanno trovato poca
erba e cos ha dovuto decespugliare e ripulire l'area. Ma intanto sono anche
cresciuti gli alberi che con la loro ombra e con il loro sviluppo hanno ancora
ridotto il pascolo.
Ora, proprio in questi giorni di dicembre, il proprietario ha avuto dal
Corpo Forestale l'autorizzazione a tagliare qualche centinaio di alberelli al
fine di far crescere l'erba per alimentare le vitelle. Questi alberelli
diventeranno alberi di natale per voi che vivete in citt e questa operazione
non la trovo per niente antiecologica. A conferma di questo, proprio l'altro
giorno un agronomo Rettore d'Universit, mi diceva come, a causa
dell'abbandono della montagna, anno dopo anno aumenti notevolmente la
superficie boscata delle nostre Alpi, Prealpi e Appennini.
Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di natale
che vedrete vendere nelle vostre citt: hanno lo stesso valore morale dei fiori
nelle fiorerie. E a coloro che verranno a trascorrere le vacanze natalizie e di
fine anno in montagna, vorrei solo dire di non essere loro ad andare nel
bosco a tagliarsi l'albero di natale, che s potrebbero fare danno, oltre al furto.
E poi sotto quell'abete che rallegrer le nostre case non mettiamo solo doni
costosi, inutili o diseducativi per i nostri ragazzi, ma assieme a qualche libro
anche qualcosa per la ricerca sul cancro, o per i vecchi del ricovero.

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Il pino. Il cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi,


, con il larice, il pi bello.
Abete bianco, abete rosso o peccio, larice sono pinacee; altro genere, pur
delle stessa famiglia, sono i pini: una novantina di specie distribuite
nell'emisfero boreale, dall'Atlantico al Pacifico. Ma anche se con pazienza e
l'aiuto di testi potrei distinguerne un discreto numero, mi limito o parlarvi dei
pini che sono nel mio brolo: del "Pino silvestre", del "Pino montano" e del
"Pino cembro". Il pino silvestre che sta a mezzogiorno e che ben si armonizza
tra le due betulle, lo raccolsi e lo trapiantai da una antica morena un giorno
che ero andato a camminare con mio figlio, sul finire di un lungo inverno.
Ma come ora cresciuto! Ed a guardarlo che mi rendo conto di come
passano le stagioni. Albero di primaria grandezza il pino silvestre pu
arrivare a quaranta metri e oltre; anche lui, come tutte le conifere molto
longevo e pu passare i cinque secoli di vita. Il suo fusto diritto, ma la
neve, i fulmini, le pietre che cadono dall'altro della montagna, il vento lo
possono rendere tormentato. La sua chioma rada e irregolare, i rami hanno
gli apici rivolti verso l'alto; dove cresce stretto ad altri consimili ha forma
piramidale allungata, si distende quando isolato o rado. La sua corteccia
squamosa, rossastra da giovane, tendente al grigio e solcata da maturo, ma
sempre portata al rosso verso la cima. Le foglie sono aghiformi, di colore
verde-glauco, raggruppate a due a due, lunghe da tre a sette centimetri,
contorte a spirale (sono pi corte nei Paesi freddi, pi lunghe nel
Meridione).
Come le altre conifere albero monoico e i fiori di questo pino sono
molto ricchi di polline, tanto che le api ne fanno abbondante raccolto che
concorre alla produzione della cera. Quando tra maggio e giugno sono in
fioritura, camminando sotto di loro ci si pu ritrovare con gli abiti tutti
spruzzati di una polvere gialla che si stacca dagli stami a ogni leggero soffiare
di vento; un tempo questo fenomeno veniva chiamato pioggia miracolosa di
zolfo. E' un albero che ama il sole e i climi continentali; sopporta molto bene
freddo e siccit ed anche specie pioniera nei terreni degradati.
Se uno percorre la Val Venosta pu osservare come il lato di sinistra,
quello arido rivolto a mezzogiorno, sia qua e l popolato da macchie di pino
silvestre, mentre quello a destra, rivolto a mezzanotte e umido, sia invece
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coperto da pecci, abeti e latifoglie. Il buon legno del pino silvestre, con
l'alburno bianco-rosato e giallino e il durame pi tendente al bruno, varia di
qualit secondo la provenienza: il migliore quello che cresce lentamente nei
luoghi freddi o elevati; di lunga durata, resistente, ottimo per costruzioni
navali ma anche per mobili e oggetti casalinghi. Dai tronchi che non vengono
usati in segheria si ricava cellulosa da carta. Dalla ramaglia un tempo si
otteneva un carbone dolce particolarmente ricercato e usato per la fusione di
acciai speciali. Dagli alberi adulti, quando raggiungono l'et di centocentoventi anni, incisi al piede fuoriesce una resina grassa che, distillata, d
un'ottima acquaragia; dal residuo di questa distillazione si ottiene la pece
greca o colofonia e quella ricavata dal pino silvestre la migliore tra tutte per
impeciare i crini degli archi degli strumenti musicali.
Secondo rilievi fatti nel secolo scorso da Adolfo di Brenger nei boschi
della Stiria, ogni pino adulto produce tra i tre e i quattro chilogrammi di
resina all'anno; sicch un ettaro di pineta pu dare circa millesettecento
chilogrammi dai quali si ricavano per distillazione trecentocinquanta
chilogrammi di olio di trementina e circa mille di colofonia. Dopo essere stata
cos utilizzata, la parte del tronco scortecciata e che restava impregnata di
resina, era un prezioso legno da teda perch tagliata in asticelle forniva
facelline da usarsi al posto delle candele o delle lucerne e, un tempo, ne
veniva fatto grande commercio.
Ricordo come cinquant'anni fa in Albania, nei mercati di Tirana e di
Koriza, i montanari scesi dai villaggi vendevano per poche lire i mazzetti di
queste stecche di pino silvestre che gocciolavano ragia; e come nei boschi
vedevamo ogni tanto un pino scavato nel tronco, da dove anche noi abbiano
poi imparato a staccare le tede per illuminare i ricoveri. Bruciando il legno di
quest'albero, disposto in cataste simili a quelle delle carbonaie ma con pi
cura, si raccoglieva il catrame che colava in una fossa o in un recipiente
sottoposti; questo distillato serviva per le vele delle navi e per i cavi.
Raffinato o ricotto dava altri preziosi prodotti come la pece rossa che si
usava spalmare nell'interno dei vasi vinari, o quella pece bruna che in
Germania adoperavano mista a creta per impeciare le botti da birra.
La pece navale era indispensabile per calafatare le navi; la pegola
serviva a calzolai e sellai per impegolare lo spago da cucito. Marziale scrive
che la pece rabulana veniva aggiunta al vino per renderlo pi abboccato. Il
pino silvestre pure pianta medicinale: le gemme, gli aghi e i ramuli
contengono principi balsamici attivi e disinfettanti; e se volete fare un bagno
veramente salutare mettete nell'acqua molto calda della vasca un bel mazzo di
17

ramuli freschi ricchi di aghi, allungate l'acqua alla temperatura desiderata e


poi immergetevi respirando i vapori.
Al di l delle Alpi si raccolgono gli aghi del sottobosco e dopo averli
messi a macerare si ottiene la "lana di bosco" (Waldwolle) che per le sue
propriet igieniche e salutari (cura i reumatismi) pu sostituire la lana di
pecora nei materassi e nei guanciali. Tante cose ha sempre dato all'uomo
quest'albero! Plinio ci racconta che dal pino silvestre si ricavavano i cannelli
per scrivere ("fasces calamorum"): temperati a forma di penna d'oca
venivano induriti per mesi dentro un letamaio. Vitruvio descrive come dentro
appositi forni o dentro capanne chiuse da ogni lato si ottenesse il "nero di
fuliggine" bruciando legno di pino, e questo "nero" veniva usato dai pittori, e
pi ancora come ingrediente principale nella composizione dell'inchiostro.
Presso i Greci il pino silvestre era il simbolo della verginit e per questo
dedicato a Diana; ma anche a Pan in memoria di una fanciulla da lui amata e
insidiata che Borea spinse sulle montagne e fece precipitare da una roccia. La
Terra pietosa la trasform in pino e quando Pan sentiva il soffio di Borea non
cessava mai di piangere.
Le gocce di ragia che il pino geme sono le lacrime della fanciulla amata. Il
pino montano. Il "montano" dei pini il pi polimorfo, ossia assume forme
diverse da luogo e luogo, o anche sullo stesso luogo e, persino, assicurano gli
esperti, sullo stesso individuo; tanto che per classificarlo da preferire il suo
portamento che non i caratteri degli strobili. In linea di massima possiamo
dire che nell'area occidentale: Pirenei, Alpi occidentali, Engadina, si trova il
tipo "arborea" a fusto unico o anche a pi fusti eretti e slanciati che possono
raggiungere i venticinque metri d'altezza; nelle Alpi orientali, nei Carpazi e nei
Balcani il tipo "prostrata" a fusti numerosi e striscianti pure lunghi sui venti
metri ma che, al massimo, raggiungono in altezza i quattro.
La sua corteccia scura, quasi grigio-nera, i rami sono verticillati, ossia
inseriti a due o a pi di due nello stesso nodo; hanno gli apici rivolti verso
l'alto; le foglie, lunghe tra i tre e gli otto centimetri, sono diritte e pungenti, di
colore verde cupo. I fiori maschili sono gialli, i femminili violacei. Gli
strobili mutano da variet a variet: "uncinata", "pumilio", "mughus" e sono
lunghi dai tre ai cinque centimetri. I semi sono piccoli, con una piccola ala, e
il vento delle tormente li dissemina nei luoghi pi impervi. Fiorisce tra la fine
della primavera e l'inizio dell'estate, quando le pernici bianche dischiudono le
uova. Sulle montagne forma boscaglie pure, o anche miste con larice, peccio,
cirmolo, ontano verde; si arrampica a coprire ghiaieti, rocce, ripiani, scende
dagli orli degli abissi o risale al limite della vegetazione forestale fino oltre i
18

duemilacinquecento metri di quota.


Per questo suo comportamento esercita in alta montagna una notevole
azione protettiva, trattenendo l'acqua e la dilavazione del suolo. Se la neve
non tanto alta da coprirlo interamente, specialmente nelle forme "prostrata",
impedisce la caduta di valanghe.
Distillando i suoi ramuli si ottiene il "mugolio", un olio essenziale di
grandi propriet medicamentose ad azione balsamica e antiflogistica per le vie
respiratorie dei bambini e dei vecchi. Il legno del pino montano non vale
molto perch, a causa delle modeste dimensioni che raggiunge il tronco, non
utilizzabile come legname da opera. A cagione della sua breve estate cresce
lentamente e cos diventa pesante e compatto, flessibile anche al vento e al
peso della neve. Dopo due o tre anni dal taglio (che deve essere fatto in luna
calante!) brucia bene e d un buon calore; e questo ben lo sanno i pastori che
dopo averlo reciso lo lasciano per due agosti alle intemperie e al sole.
A me, sin da ragazzo durante le escursioni, e poi nel tardo autunno nei
ricoveri di caccia, il suo fuoco ha fatto compagnia, e riscaldato e asciugato
dalla pioggia o dalla neve. Il pino montano variet mugo del mio brolo l'ho
portato gi dalla montagna di Campo Filon, giusto vent'anni fa, quel giorno
che Ermanno Olmi era salito lass per girare una scena dei "Recuperanti",
quella dove si vede una grossa bomba nel mentre che passa un gregge. Le
pecore, camminando, avevano smosso la poca terra denudando cos le radici
di un piccolo mugo che poi raccolsi e trapiantai qui a casa.
Ora cresciuto molto di pi che se fosse rimasto lass; ma invece di
essere prostrato e contorto, il clima e le precipitazioni nevose dovute ai mille
metri di differenza di quota, lo hanno sviluppato policormico ed eretto come
i pini montani delle Alpi occidentali. Ma i pini mughi delle nostre montagne,
ora che i carbonai pi non li tagliano e i sentieri si rinchiudono a causa del
loro sviluppo, sono anche famosi per i problemi che possono creare ai
viandanti che osano attraversarli; e anch'io la settimana scorsa ho girato a
vuoto per pi di un'ora sotto la pioggia e tra l'intrico dei loro tronchi
striscianti e alla fine mi sono ritrovato, sfinito, al punto di partenza. E dai
vecchi ricordata come la Barancia una compagnia del Settimo Alpini che
alla fine del secolo scorso, durante una manovra, si perdette tra i baranci, i
mughi delle Dolomiti.
La mancata utilizzazione da parte dell'uomo di questa specie di pino,
fenomeno che si verificato in questi ultimi cinquant'anni, ha portato un
notevole cambiamento non solo nel paesaggio ma anche negli habitat della
selvaggina, e Oggi non raro trovare a quote insolite famiglie di caprioli
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mentre, per mancanza di pascolo a loro confacente, si sono fatti pi rari i


galli di monte e le pernici bianche. Il pino cembro. Per i due piccoli pini
cembri che ho nel brolo ci vorranno molti anni perch diventino alberi ben
visibili! Ma se gli uomini saranno saggi e avremo posteri, i nipoti dei miei
nipoti potranno dire: Questi cembri li aveva messi a dimora il nonno di
nostro nonno.
Il "Pino cembro", o cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi , con il larice,
il pi bello: socievole e sempreverde non raggiunge l'altezza dell'abete o del
peccio, ma pu arrivare oltre i settecento anni di vita. Dove i fulmini, le
valanghe, i sassi feriscono il tronco, assume forme tormentate e
inconfondibili; e lass, tra i millecinquecento e i duemilacinquecento metri di
quota, tra nevai, rocce e ghiacciai vedetta arborea della natura. E' di
lentissimo accrescimento; i rami sono grossi e irregolari, incurvati verso l'alto
a formare una densa chioma; la corteccia grigia, profondamente fessurata
lungo il tronco; gli aghi delle foglie sono riuniti a fascetti di cinque, teneri e
sottili, di colore verde- glauco e durano sul ramo quattro-cinque anni; gli
strobili (che messi in infusione nella grappa donano un bel colore ambrato e
un sapore non piccante di resina) sono lunghi otto centimetri e al secondo
anno maturano i semi dentro una guaina legnosa. Questi pinoli sono cibo
molto ricercato da scoiattoli e nocciolaie che molte volte li nascondono tra le
crepe delle rocce per i tempi di carestia; quelli dimenticati germogliano e le
piantule allungano le radici a cercare tra le pietre e i muschi un briciolo di
vita: tanto che sempre stupefacente vederle poi cresciute sopra un masso al
margine di un ghiacciaio o su una parete di roccia.
Il legno del cirmolo bianco-crema, il durame rosso-bruno odoroso e
inintaccabile dagli insetti; per la sua grana fine e per la sua omogeneit
albero da sculture e molto bene lo us Andrea Brustolon, grande scultore
decorativo del rococ veneziano, artefice di altari, stalli, sedie, bastoni e di
elementi decorativi.
Augusto Murer dai tronchi di cirmolo delle sue montagne ricavava le sue
amorose "maternit".
Ma per i montanari soprattutto grande legno da casa per mobili e oggetti,
e per rinvestire contro il gelo le stanze da godere nei lunghi inverni.

20

La sequoia. A ricordo dei compagni che sono


morti su queste montagne.
Tra quelli del mio brolo l'unico albero fuori dal suo naturale ambiente
una "Sequoia gigantea"; ormai alta sei-sette metri, ma solo in questi ultimi
anni ha preso vigoroso sviluppo perch quando la misi a dimora, una
quindicina di anni fa, era alta poco pi di un metro. La sua forma
decisamente conica, i suoi rami bruni un poco pendenti, le foglie di un bel
colore verde prato lineari-lanceolate lunghe da due a cinque millimetri
appressate al ramulo, la corteccia grigiastra tendente al bruno, fessurata lungo
il tronco con chiazze di licheni alla base, tutto questo, la fa ben distinguere
dalle altre conifere.
La mia sequoia non ha ancora gli strobili: troppo giovane; ma spero di
vederli un giorno: dovrebbero venire lunghi circa cinque centimetri, prima
eretti e poi penduli, e dentro le venticinque squame nascondere i piccoli semi
con la loro ala. E il vento, forse, li porter a germinare su qualche buona terra
delle mie montagne. Dicono che il legno delle sequoie sia leggero e tenero,
ma anche resistente e inintaccabile dagli insetti; ma credo che quello di questa
mia che ha ormai cos bene attecchito, non sar certo io a usarlo.
E qui scrivo che dovr essere lasciata fin che la natura vorr. Anche se tra
secoli sar cos grande da far crollare la mia casa con le sue radici!
Dell'ordine delle "Conifere", famiglia delle "Taxodiacee", hanno solo due sole
specie: "Sequoia gigantea" e "Sequoia sempervirens". Un tempo
lontanissimo, milioni di anni fa, erano distribuite su tutto l'emisfero
settentrionale e i paleontologi sono riusciti a descriverne quaranta specie
fossili.
Qualche anno or sono, a Dunarobba, una frazione del comune di
Avigliano Umbro, degli operai di una fornace scavando materia prima per
laterizi, si imbatterono, increduli, contro una massa dura e insolita in quel
sottosuolo: pietre giganti infisse nell'argilla. Si resero subito conto che, per
qualche ragione, quelle strutture meritavano attenzione e notificarono la
scoperta.
Arrivarono da Perugia i paleontologi che dissero quelle cose alberi
pietrificati. Vennero cos alla luce, su due ettari di superficie, una cinquantina
di tronchi colossali con il diametro di oltre due metri, alti tra i sette e i dieci.
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Si tratta di resti fossilizzati di sequoia vissuta forse un milione e mezzo di


anni fa, nel Pleistocene Inferiore, che un incomprensibile fenomeno aveva
schiantato nel loro vigore vegetativo; lasciando in piedi questi tronchi a
testimonianza di quel tempo e come esempio unico al mondo di resti
vegetali fossilizzati in posizione di vita.
Ora, dopo milioni di anni, il loro ambiente naturale rimane limitato a
poche aree lungo la Serra Nevada, in California, a un'altitudine tra i
millecinquecento e i duemilaquattrocento metri: l che troviamo gli alberi
viventi pi vecchi della terra che dall'alto dei loro cento e pi metri d'altezza,
dai loro diametri di oltre dieci metri e dai millenni di vita (la pi anziana si
calcola abbia pi di quattromila anni!) guardano la nostra storia. Il nome a
questi giganti del mondo vegetale era stato dato dagli indiani in onore di un
uomo della loro trib chiamato Sequoiah, inventore dell'alfabeto cherokee.
Nei libri di botanica dell'Ottocento la sequoia viene anche chiamata
"Wellingtonta gigantea", o anche "Albero mammouth". Il Figuer nella sua
"Storia degli alberi" cos la descrive: E' un albero della famiglia delle
Conifere, che fu, a quanto dicesi scoperto da un viaggiatore inglese, il
naturalista Lobb, su una montagna della California... Anche il botanico
Mller nella sua opera "Meraviglie del mondo vegetale" dice di questa
scoperta, e dopo averlo descritto nella sua maestosit dice: ... Egli perci
che l'albero venne eretto in genere particolare e chiamato "Wellingtonia
gigantea", bench recentemente la vanit americana, a quanto pare, ne abbia
fatto una "Washingtonia". Sovra un miglio si incontrano circa novanta di
questi alberi. La massima parte trovasi riuniti in gruppi di due o tre sopra un
suolo fertile, nero, bagnato da un rivo. Perfino i cercatori d'oro vi hanno
prestato attenzione. Infatti uno di questi alberi porta il nome di "Capanna del
minatore" e possiede un tronco di trecento piedi d'altezza, in cui praticata
una cavit di diciassette piedi di altezza. Le "Tre sorelle" sono individui
procreati da una sola ceppaia. Il "Vecchio scapolo", arruffato dagli uragani,
mena vita solitaria. La "Famiglia" si compone di una coppia di antenati con
venticinque figli...
Per dare l'idea di come questi alberi isolati siano da per se stessi un bosco,
si pensi che la sequoia denominata "Generale Sherman" ha un volume
calcolato di oltre millesettecento metri cubi: l'equivalente di circa mille abeti
maturi dei nostri boschi! Ma perch una giovanissima sequoia capitata nel
mio brolo? Attorno agli anni Sessanta ogni estate veniva sull'Altipiano, da
Torino, un signore alto e magro, distinto, che qualche volta si accompagnava
a passeggiare con mio padre.
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Venni cos anch'io a conoscere il signor Giuseppe e a sapere che la sua


puntuale presenza era dovuta al fatto che nel 1915 e 1916 era stato quass
come fantaccino della Brigata Ivrea. Con i suoi compagni nascosti dentro i
boschi la mattina del 24 maggio 1915 aveva sentito quel colpo di cannone che
annunciava la nostra entrata in guerra contro l'Austria- Ungheria.
Sei giorni dopo gli alpini dei battaglioni Bassano e Val Brenta e i fanti
della Brigata Ivrea tentarono di forzare le linee di fortificazioni sulla strada
per Trento subendo molte perdite. Ma fu l'anno dopo, nel maggio, che in
questa zona del fronte si scaten la Spedizione punitiva contro l'Italia, e il
battaglione dove era il signor Giuseppe venne quasi annientato da un
violentissimo bombardamento.
Si legge nella relazione: ... La lotta sul Costesin fu veramente tra le pi
epiche di questa battaglia, nella quale rifulse il tenace valore dei difensori e in
particolare della Brigata Ivrea.
Un corrispondente austriaco della Neue Freie Press scriveva al suo
giornale: ... osservando le postazioni nemiche si nota un caos
raccapricciante: un ammasso di reticolati divelti, contorti, di tronchi a terra,
enormi buche nel terreno generate dallo scoppio delle granate. Quando il
bombardamento ebbe inebetiti i nemici cagionando loro terribili perdite,
allora fu sferrato l'assalto delle fanterie...
Il generale Murari Br che comandava la Brigata Ivrea, ha lasciato scritto
nelle memorie di quei giorni: ... Fu l'artiglieria che ci vinse, la fanteria fu
sempre preceduta da vere cortine di proiettili. Ogni qualvolta le due fanterie
si urtavano noi avevamo il vantaggio...
Il signor Giuseppe, che nella sua casa in collina coltivava il bel giardino,
era sopravvissuto a tutto questo e ogni estate, negli ultimi anni della sua vita,
veniva al Costesin dove ancora ci sono i segni della terribile lotta. Anch'io lo
accompagnai un giorno; non disse nemmeno una parola ma quando
giungemmo su quel dosso i suoi occhi erano pieni di lacrime.
Quando venne l'ultima volta mi port la sequoia che era passato a
prendere in un vivaio dell'Appennino Pistoiese. La pianti qui nel suo brolo,
- mi disse, - a mio ricordo e a ricordo dei miei compagni che sono morti su
queste montagne. Insieme scegliemmo il posto. Quando negli scorsi inverni
era gravata dalla neve mi facevo premura a liberarla, e quando il vento
l'asciugava, le bagnavo le foglie.
Ora non ha pi bisogno del mio aiuto e i miei nipoti sanno che quello
l'albero del signor Giuseppe e dei fanti della Brigata Ivrea.
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Il faggio. Si costruisce e si conserva la foresta.


Questo, per me, il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia
dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata
al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia
con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; cos
che alzando la testa dal tavolo e vedendo l'inverno sulle montagne e sui
boschi ancora pi piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per
scrivere a un amico. Ho incominciato da ragazzo a sentire il faggio come
albero felice agli dei, e non lo sapevo.
Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigli e mio
padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell'assegnazione
d'uso civico. I forti cavalli nell'autunno portavano i pesanti carri verso le case
degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i
mucchi in bell'ordine.
Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si
segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche
questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le
contrade era tutto un fervore, e dove c'erano vedove o vecchi c'era sempre
qualcuno che dava una mano a preparare la legna.
Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall'America, anch'io
segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere
rivolto verso un poggiolo dove c'era una ragazzina che usciva a guardarmi.
L'odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi pi
tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si
confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al
paese.
Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta,
venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione
lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno
spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli,
picconi, scalpelli perch il faggio il legno che meglio di ogni altro si adatta
alle mani dell'uomo, e ben lo sapevano i Veneziani che saggiamente
amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi. Dove
un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva
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scelto per costruire la "slitakufa", slittastorta: dal tronco smussato in punta si


ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi
si mettevano su un'asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso
di bosco o di campo.
Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e
dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe
ricavato gli sci. Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo
trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco
comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano
alti meno di un metro, e siccome specie che ama l'ombra e l'umidit li ho
messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E l crescono portando i rami verso
l'alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere
diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell'aspetto
rotondiforme che li far solenni.
Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti. L'anno
scorso in autunno, perch questa la stagione pi bella per la foresta di
latifoglia, sono andato a visitare forse la pi classica faggeta d'Europa.
Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e l tra quelle fustaie
eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai
rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa
primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma
tra cinquant'anni richiameranno l'attenzione dei passanti.
Il "Fagus silvatica" albero socievole ed dotato di facolt pollonifera,
ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto diritto e regolare,
nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi
isolati i rami sono pi grossi e la chioma arrotondata. La corteccia di
colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il
pedale, da muschi dal verde intenso. I rami pi giovani tendono al
grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque-dieci centimetri, ovali e
brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella
parte superiore, pi pallide e un po' pelose nella pagina inferiore. Quando
fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta,
nel ricordo di una fame tra le montagne dell'Austria, le mastico e le mangio
come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma
nell'autunno, tra l'ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel
colore giallo- rosso squillante che rallegra la selva. Le radici del faggio sono
ben sviluppate e ben "radicate". Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi,
penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il
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tempo ha fatto l'humus con l'aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi
faggi ci dnno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi
da notte di Natale.
L'albero del faggio monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli
dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti
maturano alla fine dell'estate; sono a cupola chiusa, un po' spinosa, a quattro
valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi
circa un centimetro e mezzo. L'areale di questa latifoglia tipicamente
oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al Mar Nero e dalle Alpi
Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e
sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le
caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un'area
fitoclimatica particolare: il "Fagetum" che sta tra il pi caldo "Castagnetum" e
il pi rigido "Picetum".
Le foreste possono essere pure ma anche miste con l'abete bianco e altre
latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i
terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualit di crearsi le condizioni
vitali, il terreno della faggeta uno tra i pi fertili. Il faggio si costruisce e
conserva la foresta!

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Il tiglio. Albero di giustizia perch attorno ad


esso si riunivano i saggi.
Perch quest'anno i tigli del mio brolo non hanno profumato l'aria dei
crepuscoli?
Ogni anno, a luglio, raccolgo in abbondanza i loro fiori e li distendo in
soffitta sopra un graticcio e, quando sono bene asciutti, li ripongo al buio in
vasi di vetro. Nelle sere dell'inverno, dopo cena o prima di coricarmi, una
tazza di infuso di fiori di tiglio con un cucchiaio di miele di salvia delle isole
dalmate un'ottima bevanda che concilia il sonno e agevola la respirazione.
Le propriet medicinali di questi fiori sono note sino dai tempi pi antichi:
contengono zuccheri, tannino, acido malico e acido tartarico, olio essenziale.
Tutte queste cose in loro raccolte hanno propriet sudorifere,
antispasmodiche e sedative.
Qualche volta persino le api, quando con insistenza raccolgono nettare da
certi tigli, vengono come assopite e si adagiano sull'erba all'ombra
dell'albero.
La famiglia delle "Tiliaceae" ha solamente il genere "Tillia"; da noi sono
tre le specie che crescono, ma se ne conoscono molte di pi, ed curioso
leggere come certi autori ne classifichino diciotto e altri sessantacinque.
Da noi il tiglio pi comune il "Selvatico" o "Maremmano"; dei tre
nostrani il meno grande, ma pure pu raggiungere i venticinque metri
d'altezza. Il "Tilia platiphillos" il pi maestoso e bello: albero di prima
grandezza pu raggiungere i trentacinque-quaranta metri e una circonferenza
anche superiore ai dieci metri.
Tra gli alberi uno dei pi longevi: due-trecento anni una et comune;
gi nelle cronache medioevali troviamo citati tigli venerandi e robusti che
ancora oggi vivono, e che quindi dovrebbero avere superato i mille anni
come quello di Neustadt, nel Wrttemberg. Meritano pure di essere ricordati
il Tiglio di Sant'Orso a Aosta e il Tiglio del Maso Widum (Bolzano) che alla
base misura sette metri di circonferenza.
Da parte mia ricordo una maestosa e solenne "linta" che ombreggiava le
case del mio paese: la sua chioma era come un bosco bello e misterioso e la
tradizione diceva che ai suoi piedi, all'inizio della buona stagione e al
principio dell'inverno, si radunavano i reggitori della comunit eletti dai
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capifamiglia.
Discutevano delle rendite dei beni comuni, del governo dei boschi e dei
pascoli; trattavano i rapporti con la gente della pianura e con quella al di l
delle montagne; ma anche con i preti che avevamo s l'obbligo di mantenere,
ma che a loro volta erano scelti e non dovevano interessarsi della cosa
pubblica, ma solo della cura delle anime.
Dopo qualche secolo venne costruita la chiesa in tronchi e il "Palazzo
della Reggenza dei Sette Confederati Comuni", rustico e severo ma non sacro
come il tiglio: la "linta delle vicinie", che vide incendi, invasioni, pestilenze
ma anche balli e feste, la vita, insomma, della mia gente. Sopravvisse persino
alla Grande Guerra che in piedi non aveva lasciato nemmeno una casa.
Quando tornarono nel 1919 trovarono tutto distrutto, ma non la nostra "linta"
che, bench ferita, in quella primavera sopra l'odore della morte mandava il
suo mormorio e il suo profumo.
Ora non c' pi: avevano detto che minacciava di crollare sopra le case
che stavano intorno. Su quel brolo hanno costruito un condominio e siamo
rimasti in pochi a ricordarla. Il fusto del tiglio slanciato e diritto, nei luoghi
freddi ho osservato che si dirama in fusti secondari; la corteccia, nei soggetti
giovani, liscia, di colore grigio-bruno; con gli anni si fessura screpolandosi
in senso verticale e assume un colore pi scuro.
Negli esemplari isolati l'impalcatura dei rami, che sono robusti e di colore
pi carico del tronco, non molto discosta dal suolo; nel bosco, invece,
come in quasi tutti gli alberi, si raccoglie verso l'alto. La chioma folta,
rotondeggiante, armonicamente disposta. Le foglie, che misurano quattro per
sette centimetri, sono caduche, cuoriformi, con un apice appuntito, seghettate
ma liscie alla base, con le nervature ben marcate, di colore verde denso, pi
chiare e coperte da leggera peluria nella pagina inferiore.
Ma che colore giallo-dorato ci donano all'autunno! Il cerchio d'oro del
tiglio / come un serto nuziale, dice Pasternk in una sua poesia. I fiori
sono ermafroditi, di un bel colore bianco-ambrato che la pioggia estiva rende
luminoso; il loro peduncolo fissato a una brattea oblunga; i sepali sono a
corolla e i cinque petali contornano numerosi stami. Fioriscono verso la met
di luglio e nei giorni favorevoli per clima e umidit sono a uno a uno
perlustrati e bottinati da miriadi di insetti. Ancora Pasternk in "Un viale di
tigli" scrive: ... Vengono i giorni della fioritura / e i tigli in una cinta di
steccati / diffondono insieme con l'ombra / un irresistibile aroma. / La gente
che passeggia sotto i tigli / col cappello d'estate vi respira / questo forte odore
inesplicabile, / ma familiare all'intuito delle api...
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E tanto profumato il miele di tiglio che non da tutti gradito per il forte
aroma. I frutti sono ovali, di circa un centimetro, legnosi; i semi contengono
un olio simile per aspetto e sapore a quello dell'oliva. Il legno bianco
avorio, brillante e quasi sericeo, omogeneo e tenero; non si scheggia e per
questo si pu tagliare in ogni senso: pi di ogni altro si presta ad essere
scolpito.
E poi i tarli non lo intaccano. Di legno di tiglio sono gli zoccoli olandesi,
cornici intagliate, ornamenti di mobili, altorilievi. Il carbone che si ottiene da
quest'albero un ottimo "carboncino" per disegnare e, un tempo, era
componente della polvere da sparo. Tra i rami pi grossi e nelle biforcazioni
degli alberi adulti, alle volte una macchia di verde pi compatta denota la
presenza del "Viscum album", caro a noi ragazzi di un tempo quando con il
"vischio di Cles" facevamo le panie per catturare gli uccelli.
Si racconta che agli inizi del tempo la ninfa Filira, figlia di Oceano, si
giacque con Crono padre di Zeus; colti sul fatto da Rea che assieme a Crono
sovraintendeva al pianeta Saturno, Crono si tramut in stallone e galopp
via. Da Filira nacque un esserino mezzo uomo e mezzo cavallo; ma poich
allattandolo le faceva ribrezzo chiese agli dei di diventare un'altra e cos fu
trasformata in "Philyra": tiglio. Il piccolo mostro, crescendo, divenne il
saggio centauro Chirone, che si dimostr pure grande medico, ma questo
dono gli era venuto dalla madre "Tilia" piena di virt medicamentose date a
lei in cambio del latte.
Per Plinio, invece, il tiglio uno degli alberi felici perch dalla sua scorza
messa a macero si ricavavano le lunghe fibre con cui si tessevano i nastri per
legare le corone dedicate a Venere e le bende per fasciare le ferite dei
guerrieri. Il tiglio era anche chiamato albero di giustizia perch attorno ad
esso si riunivano i saggi a sentenziare.
E se passate dalla Val di Fiemme non mancate di andare al Parco della
Pieve di Cavalese: tra i secolari tigli, in anelli circolari, ci sono i sedili
monolitici dove le autorit della valle prendevano posto durante le assemblee
per amministrare la giustizia. Ancora oggi l'antica opera conosciuta come
Banco de la Resn.
(Ma perch quest'anno i tigli del mio brolo non avevano profumo? Forse
per l'inverno senza neve, la primavera fredda, l'estate troppo piovosa? O per
qualche causa provocata dagli uomini?)

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Il tasso. ... Talee di tasso colte mentre la luna in


eclisse... (SHAKESPEARE).
Sembra strano come a volte i contrapposti simboli convivano in un solo
albero. Questo il caso del tasso ("Taxus baccata" L.) che
contemporaneamente l'albero della morte e dell'eternit.
Forse perch fra gli alberi considerato tra i pi longevi e le sue fronde
contengono un veleno mortale?
Ma chi, oggi, va a cercare e conoscere il tasso? I miti, le leggende e la
venerazione che per millenni gli alberi hanno suscitato negli uomini si vanno
sempre pi affievolendo, perdono interesse e non sono pi nemmeno
curiosit.
Eppure ancora qualcuno da un grosso ramo di tasso ha pensato di scolpire
per me un bellissimo bastone da montagna: giustamente alto da poter posare
le braccia per l'osservazione con il binocolo, giustamente leggero da non
stancare nel cammino e sufficientemente forte da poter fare raspa nella
discesa sui ghiaioni.
Il pensionato che si diletta di scultura ha scelto il tasso per le sue qualit e
bellezza: ha polito e levigato il ramo al fine di far risaltare il bel colore rossobruno e poi con grande pazienza ha intagliato i finti nodi; come faceva
Andrea Brustolon per i nobili veneziani o anche per s quando andava per le
montagne del Cadore e nel riposo, all'ombra di un larice, si dilettava a
intagliare bastoni che ora sono diventati ricercati oggetti d'antiquariato.
Da noi non esistono boschi di tassi, e quest'albero si trova sporadico tra le
altre specie che vegetano dalle Alpi al mare. Ama l'ombra pi densa e i posti
reconditi, quasi volesse nascondersi alla vita e lentissimamente cresce per
vivere moltissimo. (Studia lentamente se vuoi studiare a lungo,
raccomandava un abate della mia terra a uno studioso di Padova alla fine del
Settecento).
Secondo leggende e tradizioni anche scritte, i pi antichi tassi sono quelli
che vivono in Scozia, valutati a oltre duemila anni d'et; ma anche sul monte
Catria, negli Appennini, dove sorge l'eremo di Fonte Avellana, vi ancora un
tasso millenario con una circonferenza di quasi cinque metri e un'altezza d
quindici. Una decina di tassi contorti a portare il tempo vive in localit
Tadderieddu, sul Gennargentu a 1500 metri d'altitudine, e sono i relitti di una
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antica foresta.
Sono arrivati sino a noi perch soggetti a un misterioso culto? Un amico
lettore mi ha segnalato che in una costa scoscesa, alta sopra il mare di
Liguria, dove la Dolomia del Trias erosa dalle acque assume forme
fantastiche, andando un giorno alla ricerca di fossili, ha scoperto tra le cavit
di una roccia un minuscolo bosco di tassi: sono una trentina che vivono con
qualche goccia d'acqua su pochissima terra e non raggiungono l'altezza di
quaranta centimetri. Quando si arrampica tra quelle rocce per le sue ricerche,
non manca mai di andare a visitare questo miracolo della natura e un giorno
port con s il moncone di uno di questi alberelli spezzato da una pietra
caduta dall'alto.
Giunto a casa ha voluto sezionare il tronco, lucidarlo e, con l'aiuto di una
lente, contargli gli anelli: dimostrava di avere centocinquanta anni!
Nell'era Terziaria, quando l'uomo non era ancora apparso sulla Terra e
stavano formandosi le grandi catene montagnose, il tasso era albero molto
diffuso e si sono trovati i suoi resti fossili. Attualmente in Europa occupa
un'area che va dalla Scandinavia al Mediterraneo e lo ritroviamo in Algeria a
occidente e nel Caucaso a oriente. Il genere "Taxus" monotipico e le razze
geografiche che vivono in America settentrionale e in Asia sono tutte simili
alle nostre.
Non albero di grande altezza, raramente supera i quindici metri; certe
volte si presenta come arbusto. Il tronco si ramifica a poca uscita dal suolo; la
chioma di un intenso e immutabile colore verde cupo, espansa e a corona
leggermente ovale. Il tronco, sempre tozzo rispetto all'altezza, ha la corteccia
di colore rossastro come pure i rami pi grossi; con il passare degli anni il
ritidoma si arriccia e si stacca a placche o a striscie. I rami principali sono
grossi e alterni, i rami secondari piuttosto corti e a volte penduli; i ramuli
sono verdi, le gemme piccole e squamose. Le foglie assomigliano un po' a
quelle dell'abete bianco: sono lineari, appiattite, un poco falcate, acuminate
ma non pungenti perch tenere; sono lunghe dai quindici ai trenta millimetri e
inserite a spirale tutt'intorno sui rametti; verde cupo sulla pagina superiore,
pi chiare e tendenti al giallo nell'inferiore. I fiori maschili e femminili sono
portati da individui diversi (pianta dioica) e fioriscono sul finire dell'inverno;
i fiori maschili sono numerosi in amenti gialli inseriti sotto i rami, i femminili
si distinguono dalle gemme foliari per il colore che tende pi al giallo che al
verde. Il frutto un arillo composto da una parte carnosa fatta a coppa che in
autunno diventa di un bel rosso laccato contenente un seme ovoide di colore
bluastro che matura nell'anno.
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La parte carnosa del frutto dolce e si pu mangiare, contrariamente a


certe convinzioni che risalgono ai Greci; anche gli uccelli ne sono ghiotti e
cos, siccome il seme protetto da un tegumento, disseminano la pianta
lungo le loro vie migratorie. Il legno del tasso di grande pregio: e per il
colore giallognolo dell'alburno e porporino del durame, e per la sua grana
che la pi fine tra i legni d'opera e ben si presta per i lavori al tornio, di
ebanisteria e di intaglio; inoltre molto elastico e fino alla scoperta delle armi
da fuoco era molto ricercato per costruire archi.
Oggi il valore del tasso prevalentemente decorativo nei parchi e nei
giardini; ma sarebbe bello vederlo nelle alberature stradali, specialmente l
dove tira il vento, e questo anche perch resiste ai parassiti, alle intemperie e
alla neve. Quest'albero bello dalla lunghissima vita era dedicato alle Furie e
agli dei dell'Averno; lo troviamo ancora come pianta ornamentale dei cimiteri,
e in certi luoghi delle Alpi usanza onorare le tombe dei defunti con i
ramoscelli di tasso dai rossi arilli. Forse per questo chiamato "Albero della
morte", ma anche perch il veleno contenuto nelle sue foglie ritenuto
mortale.
Scriveva il Mattioli nel Cinquecento ... Sono alcuni che dicono da qui
chiamato il veleno tassico, che hora diciamo tossico co'l quale s'avvelenano
le saette... Per la sua qualit venefica lo troviamo citato fino dall'antichit.
Teofrasto nella "Storia delle piante" dice che le sue fronde ingerite fanno
morire il bestiame che non rumina.
Plinio scrive che i tassi dell'Arcadia hanno in loro cos potente veleno che
per morire sufficiente dormire o mangiare alla loro ombra, che il fumo
delle sue fronde ammazza i topi, ma anche che piantando un chiodo di rame
nel suo legno si annulla ogni effetto mortale.
Cesare, nel Libro sesto della "Guerra gallica" ci racconta che Catuvolco re
degli Eburoni, sfinito dagli anni e dalla guerra, si tolse la vita con il veleno di
tasso.
Shakespeare nel "Macbeth" (atto terzo, scena prima) nel diabolico
intruglio che stanno preparando le streghe fa mettere ... talee di tasso / colte
mentre la luna in eclisse...; come succo tratto dal tasso quello che
nell'"Amleto" Claudio versa nell'orecchio del re per farlo morire.
Ma anche curioso notare come il nostro Mattioli nei suoi "Discorsi"
asserisca che gli uccelli che si cibano dei frutti del tasso diventano neri; (A
questo punto mi permetto di aggiungere una mia piccola osservazione: i merli
nati nell'anno, in autunno tendono ancora al marrone ed sul principio
dell'inverno che diventano tutti neri, completando la muta, e i merli, come
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tutti i turdidi, sono molto ghiotti di arilli di tasso).


I pastori delle valli delle Alpi occidentali dicono anche che il morso delle
vipere viene neutralizzato applicandoci sopra foglie di tasso ben pestate.

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Il frassino. ...Il cervo lo morde in alto / ai lati


marcisce / lo addenta Ndhhrggr in basso (Snorri
Sturluson)
Vicino alle vecchie case, a Levante, c'era sempre un frassino. Qualcuno
sopravvissuto anche alla Grande Guerra e ora allarga i suoi rami sui tetti e sui
prati intorno. I tordi e le cesene che si cibano dei suoi frutti hanno distribuito
i semi nei boschi dove vanno a posare di notte e tra gli abeti e i faggi, i
giovani frassini stanno ridando al bosco quell'aspetto che certamente avr
avuto un tempo lontano.
Anche nell'orto della vecchia casa mio nonno, quando ritorn per
ricostruirla, volle piantare un frassino al posto di quello ucciso dalle granate.
Ma non era grande e i due pioppi che stavano agli angoli dell'orto ben presto
lo sovrastarono. Io aspettavo che crescesse e ogni anno gli misuravo il tronco
perch volevo fare tavole da sci. Quando tornai dalla mia guerra non trovai
pi quel frassino e ora dove mia madre andava a raccogliere le dalie ci sono
le automobili in parcheggio.
Sar per tutto questo che a nord dell'orto ho voluto piantare anch'io un
giovane frassino che ho levato dal bosco?
E' alto e diritto, flessibile al vento e alla neve, e solo adesso incomincia ad
allungare i rami che dalle piccole gemme nere gli erano spuntati. Non lo
vedr allargare i suoi rami verso il tetto, e ora che gli sci si fabbricano con le
resine sintetiche e fibre di carbonio, i miei nipoti non avranno bisogno di
immaginare tavole dal suo tronco.
Crescer.
Crescer da diventare come i vecchi frassini secolari accostati alle antiche
e piccole case?
Mi chiedo questo perch sempre pi ardua diventata la vita degli alberi,
ora che gli uomini si manifestano insensibili verso il mondo vegetale. Ma
quest'usanza di avere un frassino accanto alla casa viene forse dai tempi
remotissimi quando si credeva che da quest'albero discendessero gli umani. Il
genere "Fraxinus" appartiene alla famiglia delle "Oleacee"; di questo genere si
conoscono una settantina di specie che si trovano esclusivamente
nell'emisfero settentrionale.
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Vegetano dal Mediterraneo alla Norvegia e, sulle nostre montagne, li


incontriamo sino a millecinquecento metri d'altitudine. Possono raggiungere i
trenta- quaranta metri d'altezza e un diametro di tre, quattro metri. Ma se ne
conoscono di pi maestosi, con secoli di vita, specialmente nei Paesi a nord
delle Alpi. Il tronco slanciato, non molto ramificato; negli alberi cresciuti
isolati la corona ampia e densa. Da giovane la sua corteccia liscia, di
colore olivastro, con gli anni diventa grigia, rugosa e fessurata. (Come con
l'et gli umani assomigliano agli alberi!)
Le foglie sono decidue, composte da nove o pi foglioline sessili,
lanceolate, ai bordi leggermente seghettate, di colore verde scuro e glabre
nella parte superiore, pi pallide nella pagina inferiore. Le gemme sono
vellutate e scure, quasi nere come carboncini. I fiori si sviluppano prima
delle foglie, tendono al colore violetto e sono riuniti in racemi. I frutti che
contengono i semi gi pronti a germinare, sono formati da samare allungate
di due, quattro centimetri; munite di un'ala apicale nell'inverno o in
primavera vengono disseminate dal vento o dagli uccelli. Il legno del frassino
bianco-rosato con riflessi madreperlacei; viene usato per manici di attrezzi
da lavoro o da sport, per costruire mobili, carri, recipienti. Dai tronchi grossi
e diritti si ricava un bel tavolame e dai pedali marezzati un pregiato ebano
grigio. Le foglie dei frassini sono anche un buon foraggio sia verde che
secco; messe in infuso nell'acqua bollente curano i reumatismi e sono
diuretiche; la corteccia veniva usata per conciare le pelli, ma anche per
abbassare la febbre perch, come quella del salice, contiene salicilina.
Della specie "Fraxinus ornus", l'orniello, si ha una buona produzione di
manna: un essudato giallastro che stilla dalle ferite del tronco e che a contatto
dell'aria diventa bianco e si rapprende. Ha un gusto morbido e dolce, si
scioglie bene nell'acqua ed un buon rinfrescante e blando purgante.
Un tempo se ne faceva un grande uso, tanto che a Venezia se ne
consumavano migliaia di libbre provenienti dall'Italia del Sud con una spesa
di ventimila ducati annui. Il Senato pens allora di poter ricavare la manna
dai boschi entro i confini della Repubblica e su consiglio di un frate,
Francesco da Cosenza, nel 1769 decret intangibili persino ai privati
proprietari tutti i frassini-orni della Dalmazia e di appaltare la raccolta,
stabilendo i prezzi.
Ma la cosa non ebbe buon esito e nel 1790, con altro decreto ritorn
ognuno in piena libert di estrarre la manna dai boschi anche pubblici e di
venderla al miglior offerente (Adolfo di Brenger, "Archeologia forestale"). I
migliori frassini da manna si trovano in provincia di Palermo perch vi sono
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l le particolari condizioni di clima, di precipitazioni e di fertilit del suolo; si


ha, inoltre, un periodo vegetativo lungo, luminoso e relativamente asciutto.
Durante l'estate e ogni giorno, con una particolare tecnica in modo da non
offendere eccessivamente l'albero, vengono praticate sul tronco delle
incisioni orizzontali da dove poi la linfa discende e rapidamente si rapprende
in manna, cos da essere raccolta. Ma se quel giorno dovesse piovere il
prodotto viene disciolto!
Anche il frassino era per i Greci albero felice; lo avevano consacrato a
Nemesi e alle ninfe Mele, nate dal sangue di Urano. Ma nei loro miti pi
remoti facevano discendere dal frassino, da cui caddero come frutta matura,
gli uomini della terza stirpe, quella degli antichi invasori elleni allevatori di
bestiame, che portavano armi di bronzo, insolenti e spietati che al frassino
dedicavano il loro culto.
Esiodo, in "Opere e giorni", ci ha lasciato scritto: ... Zeus padre una terza
stirpe di gente mortale / fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento, /
nata da frassini, potente e terribile: loro di Ares / avevano care le opere
dolorose e la violenza, n pane / mangiavano, ma d'adamante avevano
l'intrepido cuore,...
Ma in un luogo molto lontano, lass nel Nord dell'Europa dove gli dei
tengono consiglio ogni giorno, che esiste un frassino particolare e unico:
"Yggdrasill", l'albero del destino. Si innalza nel cielo a sorreggere l'universo e
i suoi rami si espandono su tutta la terra. E' sostenuto da tre radici: una
finisce nel mondo della morte, "Hel", l'altra nel mondo dei Giganti del
ghiaccio, "Mmir", la terza nella terra degli "Asi". Accanto al primo degli
alberi si trova la fonte di "Urdhr", dove le Norme determinano il destino
degli uomini e spruzzano d'acque e fango bianco il frassino "Yggdrasill"
perch non dissecchi: ... di l proviene la rugiada / che cade nella valle.
La sibilla della Vlusp ricordava quest'albero prima ancora che fosse,
prima che si alzasse dal suolo, e quando appare nella sua pienezza gi
incomincia la decadenza perch i cervi ne mangiano le foglie e un serpente le
radici.
Canta Snorri Sturluson nell'"Edda": Il frassino Yggdrasill / patisce pene /
pi di quanto si sappia / il cervo lo morde in alto / ai lati marcisce / lo
addenta Ndhhggr in basso.
Questo frassino gigante, stipite e colonna dell'universo, con gli elementi
del mito diventa simbolo dei tanti mortali pericoli incombenti e provenienti
da incontrollato sviluppo tecnologico che rode le radici stesse della vita e ne
intorbida le fonti.
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La betulla. ... o seno di fanciulla, verde


capigliatura (S. ESENIN).
Da ragazzo, nel mondo vegetale, non erano le betulle ad attirare la mia
attenzione; i larici e i grandi abeti erano gli alberi che mi affascinavano e, tra
gli arbusti, il salicone e il maggiociondolo quelli che ricercavo ai margini dei
pascoli per ricavare forcelle per il tirasassi e aste per l'arco e le frecce dei
nostri giochi. Delle betulle non capivo la bellezza; vicino a loro giocavamo in
primavera quando scioglieva la neve, senza alzare gli occhi ai loro rami
celestiali.
E l'uso dei nostri antichi, che a maggio manifestavano il loro amore alle
ragazze del villaggio con rami di betulla appena sbocciati posti davanti agli
usci delle loro case, si perduto a contatto con la civilt mediterranea.
"Beth", la betulla, nel "Calendario degli alberi", era la prima delle tredici
specie e apriva l'anno dei tredici mesi della luna, e il suo simbolo aveva il
tempo tra il 24 dicembre e il 21 gennaio: albero cosmico e luminoso che
indicava la risalita del sole nell'arco del cielo.
Con gli ontani forma la famiglia delle "Betulacee" e i botanici ne
conoscono quaranta specie che vivono tutte nell'emisfero boreale. Da noi due
sono le betulle pi conosciute: la "Betula verrucosa", pi nota come betulla
bianca o pendula, e la "Betula pubescens", betulla pelosa, in Italia abbastanza
rara ma che copre vastissime aree nel Settentrione d'Europa. Una variet
particolare della verrucosa la "Aetnensis", endemica dell'Etna, che troviamo
a 2700 metri di quota: estremo limite vegetativo di questa famiglia verso il
Sud.
Se da noi la betulla, rimasta al di qua delle Alpi dopo l'ultimo periodo
glaciale, albero solitario o a piccoli gruppi forma allegre macchie chiare nei
boschi misti, oltre le montagne, su verso il Grande Nord, quest'albero forma
estesissime foreste perch, pi di ogni altro, sopporta i grandi geli e gli sbalzi
termici.
Sono alberi monoici, a foglie caduche; gli amenti maschili o gattici,
appaiono tra l'estate e l'autunno; hanno forma cilindrica allungata ma si
aprono la primavera successiva quando compaiono i fiori femminili che sono
gracili e lievi. I semi maturano tra luglio e ottobre ed con la neve che cince
e lucherini vanno tra i rami delle betulle per beccare i piccoli semi per
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nutrirsi. (Mai ne avevo visto cos tanti sulle quattro betulle del mio brolo
come lo scorso inverno).
La betulla pu raggiungere e superare i venti metri d'altezza, ma non
molto longeva rispetto agli altri alberi perch a cento anni da considerarsi
gi vecchia. Il fusto cilindrico ed elastico, ma quando la neve o il vento lo
spezzano pu anche ramificarsi; la corteccia sottile, bianco argento, e il suo
colore dovuto a una sostanza, la "betulina", che impregna il ritidoma;
qualche striscia orizzontale pi scura pu interrompere il bianco e, verso la
base, nelle piante adulte, si ispessisce e si screpola assumendo un colore
giallastro. I rami principali, tendenti verso l'alto, e i rami piccoli penduli,
dnno alla betulla quell'immagine gentile, elegante e leggera.
Dalle sue gemme viscose le api raccolgono un liquido gommoso per
comporre la propoli: quella specie di resina da loro arricchita di enzimi e
forse antibiotici che usano per rivestire all'interno le loro case (e che in
soluzione alcolica io uso per disinfettare e fare cicatrizzare in fretta le piccole
ferite). Le foglie sono di un colore denso e brillante nella pagina superiore,
pi tenue e un poco attaccaticce sul rovescio; hanno forma romboidale acuta,
seghettate lungo i bordi pi lunghi, e sono inoltre cibo ricercato da molti
insetti che, in certi anni, riescono a denudare le ultime crescite dei rami. Le
radici della betulla sono piuttosto superficiali, ramificate. Dalle mie parti,
quando c'era carenza di funi, venivano usate come stroppo. Il legno
omogeneo, elastico e docile alla lavorazione, di colore bianco avorio e senza
distinzione tra durame e alburno; ma prima della messa in opera deve essere
ben stagionato perch soggetto a forte retrattilit.
Ed peccato che sia anche soggetto al tarlo! Sin dai tempi pi remoti
usato e apprezzato per particolari lavori: cornici, ornamenti per carrozze e
navi, mobili, bastoni da passeggio, oggetti vari da ricavarsi al tornio. Nei
Paesi nordici la parte basale del tronco, il colletto, molto ricercata per
cavarne mobili di particolare bellezza.
Serve anche nella preparazione di compensati resistenti e leggeri, ancora
oggi usati nell'industria aeronautica, e per fabbricare sci da fondo per nevi
secche. (Ancora conservo, accanto a quelli di materiale plastico forti e sottili,
i miei vecchi sci di betulla come caro cimelio e magari un giorno di
particolare malinconia ci infiler i piedi per ritrovare la giovinezza). In
Russia, dal legno di betulla, sono anche ricavati bicchieri, vasi, mestoli, tazze,
cucchiai e quelle bellissime scatole laccate e mirabilmente dipinte dai famosi
grandi artigiani di Palech. Dalla corteccia, ricca di tannino e di betulina, si
ottiene da tempo immemorabile quella particolare concia per pelli che d a
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queste il celebre profumo cuoio di Russia; ma ancora, dalla corteccia


immarcescibile, impermeabile e coibente, si ricavavano calzature, coperture
per capanne e per pavimenti, borse per il tabacco, stuoie, piroghe. In tempo
di carestia, successo anche durante la Seconda Guerra mondiale, si
macinava la scorza delle giovani betulle per ottenere una farina da pane.
Albero generoso: dalle sue foglie opportunamente trattate con allume si
ottiene un colorante verde, bollite con creta dnno una tintura gialla per la
lana. E in primavera, praticando un piccolo foro al piede del tronco e
introducendo in questo un cavicchio, si fa colare a goccia a goccia la linfa
che ha grandi virt terapeutiche. Le ragazze usano questa linfa per dare ai
capelli un bel colore ambrato o biondo-rosso; fermentandola si ottiene una
bevanda leggermente alcolica e spumeggiante.
Le popolazioni del Nord euroasiatico amano quest'albero pi di ogni altro.
Lo divinizzano, anche; e per gli sciamani durante le loro manifestazioni
divinatorie, la scala per il cielo.
La "beriza" simbolo e soggetto d'amore in tante canzoni popolari e per
Sergej Esenin, il poeta arcangelo-contadino che pass attraverso il bene e il
male dell'esistenza per lasciarci un dolce messaggio, la betulla l'albero
fanciullo, l'albero-amore: ... Solleva la tua brocca, o luna calma, / ad
attingere latte di betulla...
... O seno di fanciulla, / verde capigliatura, / perch guardi, o betulla, / la
pozzanghera scura?
... Il vento-giovinetto sino alle spalle / ha sollevato la veste della betulla.

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Il sorbo. Teneva lontani i fulmini, gli spiriti


malefici e le streghe.
In questi giorni, dopo la pioggia che ha pure rinfrescato i prati sfalciati, i
rami dei sorbi dell'uccellatore s'incurvano sotto il peso dei frutti. Da qualche
anno non li vedevo cos abbondanti e belli, e se continua questo caldo, nel
trascorrere di una settimana, li vedr prendere colore: prima quelli sui rami
esposti a mezzogiorno e poi via via gli altri.
Sul finire d'agosto diventeranno di rosso lacca e poi quei grappoli vistosi
sui rami che si vanno spogliando delle foglie saranno irresistibile richiamo
agli uccelli che scenderanno affamati dai paesi del Nord. Come in
quell'inverno del 1946-47 quando i bellissimi beccofrusoni sembravano fiori
gentili e vivi tra i rami innevati. (C'erano ancora, tra le case del paese, gli orti
con gli alberi di "Sorbus aucuparia"!)
Dalle finestre dell'Ufficio del Catasto li vedevo inghiottire avidamente le
bacche rosse e il loro comportamento distoglieva la mia attenzione dai registri
polverosi. Se alzandomi dal tavolo e mi avvicinavo alla finestra e da dietro i
vetri ricamati dal ghiaccio mi soffermavo a osservarli, la mia presenza non li
distoglieva dal loro pasto. In breve tempo il sorbo su cui erano posati restava
spoglio di bacche; quindi se ne stavano immobili, ingozzati, e dopo aver
scorporato sulla neve che diventava rossa s'involavano su un altro sorbo per
continuare il pasto: erano come una nuvola colorata di giallo, rosso, bianco e
nero, e seguivo immagato i loro movimenti e il ciuffo pastello che rizzavano
sul capo. Erano come li vedeva Bors Pasternk in Siberia nel 1919 ... Gli
uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore di gelo, fringuelli e
cingallegre, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente,
scegliendole, le bacche pi grosse e, sollevando i capini, allungando in collo,
le inghiottivano faticosamente.
Fra gli uccelli e l'albero si era stabilita una sorta di viva intimit. Come se
il sorbo capisse e, dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo
impietosito, e sbottonandosi desse loro il seno, come una madre al neonato:
"Che posso fare per voi! Ma s, mangiatemi pure. Nutritevi".
E sorrideva ("Il dottor Zivago").
Chiss se ritorneranno anche quest'anno, che si preannuncia cos ricco di
bacche; ma se non i beccofrosoni arriveranno certamente a nutrirsi cesene,
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peppole, tordi e ciuffolotti. Era questa una ragione per cui accanto alle
contrade, se non accosto a ogni casa di montagna, c'erano sempre alberi di
sorbo: attirati dai rossi frutti alle soglie dell'inverno arrivavano
immancabilmente gli uccelli frugivori, ed era facile cos catturarli, o con il
fucile o con le trappole o con il vischio. E se questa usanza oggi ci pu
apparire come cosa barbara, occorre per capirla rifarsi a quei tempi quando
pochi erano i denari, rara la carne e arretrata la fame: una teglia di uccelli con
tanta polenta era festa per tutti.
Ma noi, ragazzi di paese, con le bacche di sorbo, che seppure acidule e
aspre molte volte mangiavamo, facevamo anche giochi. Dopo aver vuotato
un ramo di sambuco usavamo questo come cerbottana per lanciarci a tutto
fiato le bacche di cui prima, arrampicati sugli alberi, ci eravamo riempite le
tasche dei calzoncini. Le ragazze, invece, le usavano come granate per farsi
braccialetti e collane. Ed erano affascinanti con quei monili attorno ai polsi e
al collo.
Al genere "Sorbus", della grande famiglia delle "Rosacee", appartengono
oltre cento specie, e tutte, anche queste, sono distribuite nell'emisfero
boreale. In Europa partono dall'area mediterranea per arrivare fino alla gelida
Islanda e sulle nostre montagne si spingono fino ai limiti della vegetazione
arborea. Sono alberi di media grandezza, alti dai quindici ai venti metri e che
possono raggiungere i cinquanta centimetri di diametro. Qualche volta
assumono anche la forma arbustiva. Il domestico pu arrivare anche a cinque
secoli di vita, meno le altre specie. Si adatta ai climi pi diversi e cresce
spontaneo sia tra i boschi di latifoglie che di aghifoglie; nelle radure e sulle
pendici dei monti. Ama i posti solatii, ma il "Sorbus aucuparia" cresce bene
anche all'ombra. Il fusto snello, cilindrico, la chioma piuttosto rada
slanciata l dove le piante sono accostate ad altre; pi arrotondata, larga e
densa nei soggetti isolati. La corteccia grigio-cenere, lucente e liscia, con il
tempo si scurisce e si screpola lungitudinalmente verso il pedale. I rami sono
un poco pi scuri del tronco, elastici nel sopportare il peso della neve e
l'abbondanza dei frutti; i ramuli sono invece pelosi, le gemme scagliose e
cigliate. Le radici sono estese, le barbe si allungano in distanza e il fittone nel
profondo del suolo. Non tutte le foglie delle varie specie di sorbo sono
uguali: quelle del "Ciavardello" ("Sorbus terminalis") e del "Farinaccio"
("Sorbus aria") si assomigliano perch picciolate e ovali, con lobi pi
seghettati nel "Ciavardello"; quelle del "Sorbo degli uccellatori" sono
composte con foglioline imparipennate, pelose da giovani, lanceolate. Il
legno del sorbo per la sua finissima grana, si presta molto bene a lavori di
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tornitura, e lo apprezzano gli artigiani di montagna che nei lunghi inverni,


con abilit e pazienza, ricavano oggetti per uso domestico di un bel colore
naturale che tende al rosso.
Ma pure per le sue qualit viene usato dagli incisori per xilografie (legno
di testa, tagliato traversalmente le fibre); dai liutai per fabbricare strumenti
musicali; ma anche, un tempo, per fare congegni per macchine.
Il Mattioli, nei suoi "Discorsi" parlando dei sorbi scrive: ... Fa i fiori a
zecche quasi come ombrelle, onde nascono i frutti, i quali da un solo
nascimento tirano i picciuoli... le sorbe quando sono ancora rosse, e non
sono mature, tagliate e seccate al sole, mangiandole restringono il corpo.
Macinate al molino e mangiate a modo di polenta, fanno il medesimo effetto.
Il che fa ancora la decottione loro bevuta. Sono assai pi nelle medicine che
nei cibi convenevoli. Le tavole del sorbo per essere ben dure, e ben salde,
s'usano per fare tavoli da mangiare, e per altre cose durevoli.
Nel celtico "Calendario degli alberi" al sorbo era dedicato il secondo mese
che va dal 22 gennaio al 17 febbraio: il mese della luce; e Plinio lo poneva tra
gli alberi felici per il colore dei suoi frutti. Ed bello e luminoso albero, e
bene sarebbe che nelle alberature delle strade ci fossero pi sorbi a rallegrare
gli occhi degli uomini e a saziare la fame degli uccelli.
Gli antichi abitatori dell'Europa del Nord dicevano che l'albero di sorbo
piantato accosto alle case e alle stalle teneva lontani i fulmini, gli spiriti
malefici e le streghe; con un ramoscello forcuto di sorbo i rabdomanti
cercavano i metalli nel sottosuolo. I contadini della Boemia distillando le
bacche ben mature ottengono una grappa molto secca e profumata.
Ma fu un giorno d'autunno che in Val Gardena rimasi incantato da un
sorbo dell'uccellatore forse antico quanto la casa a cui era addossato: sul
muro bianco dai balconi scuri i grappoli rosso-lacca creavano un
meraviglioso gioco di luci che rallegrava la contrada.

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Il castagno. Sogno dei nostri soldati affamati di


cibo e di casa.
La montagna dove sono nato e vivo non montagna da castagni;
l'altitudine, il clima piuttosto continentale con alti sbalzi termici e il terreno
fortemente calcareo non ne consentono la vegetazione.
Ma ora che ci penso e mi viene l'occasione di parlarne, forse un paio di
castagni avrei dovuto impiantarli nel mio brolo; forse, quest'anno, avrebbero
potuto dare frutti per i nipoti. Se lungo il viale dell'Asilo della nostra infanzia
c'erano grandi ippocastani che a fine ottobre facevano i loro marroni matti
per i nostri giochi, anche le castagne sarebbero potute maturare.
Ma perch i nostri avi non hanno mai provveduto a piantare castagni?
Forse perch erano scesi dal lontano Nord e lass altri erano gli alberi a cui
erano legati? Ma ai piedi delle nostre montagne, sia verso la pianura veneta
che verso il Tirolo, ci sono ancora antichi castagneti.
E ora i proprietari per difendersi dai cittadini, che non sanno quello che
dovrebbero, hanno messo dei cartelli con su scritto: PRENDERE LE
CASTAGNE E' FURTO. Non ho trovato, o non conosco, miti legati alle
castagne, anche se nell'antichit ne hanno scritto Teofrasto, Plinio, Ovidio e
altri autori.
Secondo la tradizione pi remota quest'albero originario dal Monte
Timolo nei pressi di Sardi, citt della Lidia, un tempo famosa per i suoi
boschi, e da l venne trapiantato in Ellade dove i suoi frutti erano chiamati
"ghiande sardiane" o anche "ghiande di Giove", Quasi a dirle dono di
provvidenza scrive Adolfo di Brenger, nella sua "Archeologia forestale".
I Greci e gli Italici, che da Saturno avevano appreso l'arte d'innestare gli
alberi per avere frutti migliori e abbondanti, furono forse i primi a mangiare i
marroni.
Plinio ci racconta che a Corellio di Ateste, ai piedi dei Colli Euganei,
venne l'idea di innestare un castagno selvatico con una marza staccata dallo
stesso albero, e in questo modo ebbe castagne abbondanti e grosse che in suo
onore vennero chiamate corelliane; dopo di lui un suo liberto di nome
Eterejo ritorn a incalmare lo stesso albero e le castagne migliorarono in
sapore. E sempre il Brenger scrive ... Cos l'accidente e il capriccio stesso
dei coltivatori avrebbero prodotto dappoi altri diversi modi d'innesto.
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Nel Cinquecento il nostro Mattioli scriveva nei suoi "Discorsi a proposito"


delle castagne: ... la polpa loro mangiata, utile a chi avesse bevuto quel
veleno che si dimanda ephemero. Ristagnano le castagne, e massime le
secche, valentemente i flussi stomacali, e del corpo; e vagliono a gli sputi del
sangue. Peste con mele (miele) e con sale, s'applicano utilmente in sul morso
del can rabbioso. Risolvono la durezza delle mammelle, impiastratevi suso
con aceto e farina d'orzo...
Dalle "Epistole" del Mattioli si apprende anche che a Costantinopoli si
trovano delle castagne che si chiamano cavalline ... per giovar elle i cavalli
bolsi, e che tossiscono date loro mangiare. (Ecco perch il nome
dell'"ippocastano").
Un castagno anche l'albero pi famoso e forse pi vecchio d'Italia: in
Comune di Trecastagni, sulle pendici dell'Etna, vive forse da pi di tremila
anni il Castagno dei Cento Cavalli. Sotto i suoi rami, durante un temporale
trovarono rifugio Giovanna d'Aragona e i suoi cento cavalieri che
l'accompagnavano a una gita sull'Etna. I tre castagni che dnno il nome al
paese hanno rispettivamente la circonferenza di dodici, venti e ventidue metri
e un'altezza di venti. La tradizione dice che un tempo, fino a qualche secolo
fa, i tre castagni erano un unico albero di oltre cinquanta metri di
circonferenza, e dentro di esso erano scavate una casetta e una rientranza
dove trovavano rifugio un pastore con il suo gregge.
E c'era persino un forno che era alimentato con la legna levata dal tronco
per ingrandire il ricovero. Ma questa rimane solo una leggenda e i tre
immensi e plurimillenari castagni derivano forse da tre polloni sviluppatisi da
un tronco preesistente. (Come effimero il nostro tempo nel confronto di
questi patriarchi vegetali!) Il castagno appartiene alla famiglia delle
"Cupolifere", chiamate cos non per la forma della loro chioma, come
potrebbe sembrare, ma per quella dell'involucro che racchiude il frutto.
E' un albero di grande sviluppo che qualche volta pu raggiungere i
trentacinque metri d'altezza. La sua longevit, come abbiamo visto,
eccezionale; e il suo portamento maestoso. Le radici si espandono robuste
anche se non profonde. Il fusto diritto, ma certe volte a breve altezza del
suolo si dirama in robuste branche. I rami sono grossi, i ramuli irregolari e
vigorosi; le gemme sono lisce e tozze, di colore bruno. La corteccia rossobruna e liscia nelle piante giovani per poi diventare grigiastra, rugosa e
screpolata profondamente con andamento a spirale. La chioma ampia e
rotondeggiante ben si distingue anche tra gli alberi di altre specie. Le foglie
sono semplici, alterne, con breve picciolo e alla base due membrane che
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presto cadono; lanceolate, lunghe dieci- venti centimetri e larghe da quattro a


otto, dentate in corrispondenza delle singole nervature. Il loro colore verde
cupo, lucide e lisce nella pagina superiore, pi pallide e quasi tendenti al
giallo nella inferiore dove le nervature sono in rilievo. In giugno sullo stesso
albero appaiono sia i fiori maschili che i femminili in amenti lunghi anche
venti centimetri, i maschili, e alla base di questi le infiorescenze femminili
destinate a formare la cupola o riccio.
Dai fiori di castagno le api raccolgono abbondante polline e nettare, e
questo miele prende quel sapore caratteristico e un po' amarognolo che non a
tutti piace. E dentro il riccio, in autunno, gli acheni, le castagne, che tutti
conosciamo, in numero variabile da uno a tre. Sono molte le variet di
quest'albero, forse centinaia, e a Firenze, presso la Stazione Sperimentale di
Selvicoltura abbiamo il Centro Studi del Castagno che ha il compito di
studiare incroci e la lotta contro i parassiti, animali e vegetali, che attaccano i
castagneti. L'areale originale di questa pianta , si pu dire, quello dell'antica
civilt mediterranea, ma poi da qui il castagno stato diffuso fin dove
possibile la sua vita. Ama il sole e i terreni acidi, le colline e i fianchi delle
montagne fino ai mille metri; vegeta, grosso modo, da sopra la zona dell'ulivo
fino a quella del faggio, e pu formare boschi puri o misti con altre
latifoglie.
In Italia i boschi di castagno erano i pi diffusi d'Europa e davano una
provvigione annua di quasi un milione di metri cubi di legname che veniva
utilizzato in vari modi: tavolame, travature, doghe per botti, pali per miniere e
linee telefoniche e telegrafiche; dal legname di castagno veniva estratto anche
il tannino. Vale ben poco, invece, come legna combustibile perch brucia
male e produce poco calore.
Ma i frutti di quest'albero benedetto erano pane quotidiano in molte
valli delle montagne dal Caucaso alla Spagna; cibo rituale alla Sera dei Morti
e nel giorno dedicato a San Martino, abbinandole al vino nuovo.
E sogno dei nostri soldati affamati di cibo e di casa sui fronti lontani di
guerra e nei campi di prigionia, come testimoniano molte lettere che
scrivevano a casa.

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La quercia. Persino i soldati di Cesare, in Gallia,


avevano timore di affrontarne il taglio.
Il genere "Quercus" nella famiglia delle "Cupolifere" il pi numeroso:
sono pi o meno trecento le varie specie. In Europa le troviamo quasi
ovunque: sulle montagne nelle zone calde, nella pianura in quelle pi fredde.
Le pi note da noi sono la "Farnia" (che ha numerose razze ecologiche o
climatiche), il "Rovere", il "Leccio", la "Roverella", il "Farnetto", la
"Sughera", il "Cerro", la "Vallonea" maestosa e la cespugliosa "Quercia
spinosa" sulla quale vive una cocciniglia che serviva per preparare una
tintura scarlatta eccellente per sete e lane. Alcune di queste specie hanno le
foglie caduche, altre semipersistenti, altre persistenti, variabili nella forma.
Comuni a tutte le foglie sono le stipole membranose alla base delle stesse.
Sono alberi monoici; i fiori femminili sono piccoli, isolati o anche riuniti
in glomeruli; i maschili, pure piccoli, formano penduli amenti; fioriscono sul
finire della primavera. In alcune specie i frutti, le ghiande, maturano in due
anni, in altre in uno. Tutti sono alberi robusti, resistenti; alcuni raggiungono i
quaranta-cinquanta metri di altezza e otto-dieci metri di circonferenza.
La grande "Farnia" la pi estesa e occupa un areale che va dagli Urali
all'Atlantico e dal Mediterraneo al Mare del Nord; molto longeva e pu
arrivare a mille anni di vita. Il robusto tronco si biforca a formare una corona
irregolare molto ampia, ma non ha una punta che prevale e la cima formata
da pi branche raddrizzate. Da giovane la corteccia liscia e grigia, diventa
poi bruno-nerastra e si fessura in solchi lungitudinali e sinuosi. I rami sono
molto sviluppati e per un buon tratto privi di foglie e irregolarmente piegati; i
ramuli sono ravvicinati con le foglie riunite alle estremit. Le foglie caduche
sono alterne e semplici, con breve picciolo, lunghe da quattro a quindici
centimetri, larghe da due a otto, strette alla base, ovato-oblunghe con da
cinque a sette lobi arrotondati; il loro colore verde scuro brillante nella
pagina superiore, pi chiare e opache sotto. Da noi presente nelle regioni
settentrionali; sulle Alpi arriva fin verso i milleduecento metri d'altitudine e
predilige i terreni freschi e profondi ma non dove sono ristagni d'acqua. Ama
il sole e si trova anche in boschi misti di latifoglie, specialmente con la
betulla. In un tempo lontano la farnia copriva con fitte selve tutte le nostre
pianure fino a raggiungere le pendici degli Appennini e delle Alpi.
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E della grande selva solo poche isole sono rimaste a ricordarla. Il suo
legno tra i pi pregiati, ha l'alburno bianco-avorio e il durame pi scuro, i
raggi midollari sono evidenti; duro, compatto, molto richiesto fin
dall'antichit per le costruzioni navali, pavimenti, mobili, rivestimenti. Le
botti d'invecchiamento per i vini pi pregiati e per i distillati sono fatte con il
legno di "farnia", e anche il famoso "rovere di Slavonia" proviene dalla
farnie della Jugoslavia. Ma con le farnie si fanno anche le traversine
ferroviarie e palafitte durevoli pi di ogni altre. Bruciando, il suo legno d
una fiamma bella chiara; il carbone di farnia era richiesto per la fusione
dell'oro. Le ghiande erano privilegiate tra tutte quelle della famiglia delle
querce perch poco tanniche e dolci al palato; fino a non molti anni fa erano
cibo d'emergenza nelle carestie.
Il "Rovere" ha portamento pi regolare della farnia e lo ritroviamo dal
Danubio ai Pirenei e fin su in Inghilterra. Pi che le pianure umide, ama i
fianchi delle montagne solatie e si alza fin oltre i millecinquecento metri
d'altitudine. A differenza della farnia le sue foglie hanno uno o due paia di
lobi in pi; a volte si consorzia con il faggio e il carpino. Il suo legno pi
pesante ma pregiato al pari di quello della farnia. Il "Leccio" bello, forte e
gentile; il suo verde cupo persistente un elemento di grande ornamento
paesaggistico lungo le rive del Mediterraneo e nell'Italia insubrica. Non arriva
a grandi altezze perch raramente supera i venti metri e il suo tronco non
raggiunge le circonferenza delle farnie e del rovere; a volte assume anche
forma cespugliosa. Le foglie si rinnovano ogni tre, quattro anni, sono dure e
spesse, oblunghe, dentate. Il legno del leccio difficile a lavorarsi perch
duro e compatto, elastico; ma bene si presta per i lavori del carradore o parti
di macchine soggette a forti sollecitazioni, come i torchi o i meccanismi dei
mulini.
Se molti grandi pittori hanno dipinto querce, se musicisti hanno cercato di
capire la voce delle fronde, la pi bella descrizione di una quercia quella
che fa Lev Tolstj in "Guerra e pace", e che il principe Andrj incontra sulla
strada per Rjazn' una mattina di primavera del 1809: ... Sul margine della
strada c'era una quercia. Probabilmente dieci volte pi vecchia delle betulle
che formavano il bosco, era dieci volte pi grossa e due volte pi alta di ogni
betulla. Era un'immensa quercia che aveva due braccia di circonferenza, con i
rami spezzati certo da molto tempo e la corteccia screpolata, coperta da
antiche ferite. Con le sue enormi braccia e le sue dita tozze, divaricate senza
simmetria, essa si ergeva come un vecchio mostro, irato e sprezzante, in
mezzo alle sorridenti betulle. Soltanto i piccoli abeti morti, e sempre verdi,
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che erano sparsi per il bosco, si univano alla quercia e non volevano
sottomettersi al fascino della primavera e non volevano vedere n la
primavera n il sole.
Questa visione suscita in Andrej amare considerazioni sulla primavera,
sulla vita, sull'amore: ... E tutta una nuova catena di pensieri sconfortanti,
ma maliconicamente dolci, sorse nell'anima del principe Andrej a proposito
della quercia...
Delle querce e delle loro virt cos scriveva il Mattioli: ... Ogni quercia
ha virt costrettiva, e massime quella corteccia sottile che tra la grossa
corteccia, e i legno: e cos medesimamente quella pellicina sotto al guscio
delle ghiande. Dassi la decottione loro nei flussi disenterici, e stomachali e
allo sputo del sangue. Mettonsi trite ne i pessoli de i luoghi secreti delle
donne per ristagnare i lor flussi. Vagliono mangiate i morsi de gli animali
velenosi. Tenute le foglie fresche della Quercia sopra la lingua, curano gli
ardori dello stomaco. L'acqua piovana, che resta nelle concavit delle quercie
vecchie, sana lavandosene, la rogna ulcerata...
Per le loro qualit e per la loro maest le querce erano venerate dagli
uomini sin dai primordi della civilt: erano l'Albero, e le loro foreste pi
belle consacrate alle divinit e per questo intangibili. Dalle querce, secondo i
poeti, erano nati anche certi uomini: Evandro, fondatore della rocca romana,
racconta a Enea (Virgilio, "Eneide", 8, 314-18) che i primi abitatori del Lazio
erano "gensque virum truncis et duro robore nata". Anche le Ninfe e le
Driadi, racconta Callimaco, sono nate dalle querce e insieme agli uomini
esultano quando la pioggia le ristora. Questa pioggia era impetrata dai
sacerdoti etruschi agitando verso il cielo fronde di quercia.
La farnia detta anche "Albero di Giove" e a lui consacrata. Era gi
simulacro di Saturno e la mitologia spiega che al tempo in cui gli uomini si
cibavano con la carne dei loro simili, Giove, per far cessare questa crudelt,
indic a loro la quercia invitandoli a cibarsi di ghiande. Da quel giorno fu
dedicata a lui e per le sue ghiande dichiarata "albero felice".
Tanto erano sacre le foreste di querce che Tacito racconta che persino i
soldati di Cesare, in Gallia, avevano timore ad affrontarne il taglio: credevano
che se avessero usato le scuri contro quei sacri tronchi, ne sarebbero uscite
lacrime e sangue e i colpi si sarebbero poi riversati contro di loro sui campi
di battaglia. Le querce furono anche le prime chiese perch sotto di esse si
radunava il popolo per porgere preghiere alle divinit, ma anche a fare diete e
assemblee, ad apprendere la sapienza dagli anziani.
Queste usanze nei paesi del Nord durarono fin verso la fine del
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Medioevo.
Dalle mie parti, al principio di questo secolo c'era un luogo denominato
"Kan schn Oachen" (Alle belle querce) nella localit dedicata alla profetessa
Ganna. E dalle querce, con un falcetto d'oro, i sacerdoti Druidi recidevano il
vischio, seme degli dei, per ornare i tori sacrificali.
Quel vischio che ancora oggi si usa donare agli amici all'inizio dell'anno, e
viene appeso sull'architrave della porta di casa come propiziatorio, e sotto
questo gli innamorati si scambiano il bacio augurale.

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L'ulivo. Il letto che Odisseo stesso aveva


costruito.
Molti decenni fa, nella nostra vecchia casa ricostruita nel centro del paese,
ogni sabato convergevano gli incaricati che per noi raccoglievano le uova per
i paesi dell'Altipiano. Il gioved successivo, a migliaia, venivano spedite a
Bassano dove un grossista le distribuiva per le grandi citt.
Una sera di marzo, avevo quindici anni, mio nonno mi chiam per dirmi
che n mio padre n mio zio potevano scendere a Bassano e dovevo io
accompagnare il trasporto. E l giunto guardare i prezzi sulla tabella del
mercato, concordare con il grossista, riscuotere il denaro e ritornare a casa.
Fu in questo viaggio che incontrai per la prima volta gli alberi d'ulivo.
Conoscevo i rami perch alla domenica delle Palme ero sul sagrato della
chiesa con quelli che li brandivano verso l'alto, e in attesa che la porta si
aprisse ai colpi dell'arciprete davamo colpi in testa alle ragazze tutte vestite di
bianco.
E mia madre i ramoscelli d'ulivo benedetto li bruciava nella stufa quando
il temporale girava per le montagne e mio padre era in viaggio per le malghe.
Quel giorno della mia andata a Bassano avevo incontrato gli ulivi dopo
essere passato per i boschi ancora innevati: erano l in quelle vallette a
mezzogiorno ai piedi delle montagne dove li avevano impiantati i Benedettini
dell'Abazia di Campese, figlia di quella pi famosa di Cluny, e quei tronchi
attorcigliati e screpolati, a volte traforati, reggevano i rami che portavano le
palme d'ulivo. Guardandoli attraverso i vetri della corriera certamente mi
commossi.
A quindici anni si innamorati di tutto; ma se di tante cose con il passare
del tempo ci si pu disamorare, l'ulivo l'albero che ancora mi rinnova
quella prima emozione ogni volta che lo ritrovo.
E mi ricorda gli ulivi di Puglia dove piantammo le tende prima
d'imbarcarci a Brindisi; e quelli dell'Albania nella primavera del 1941 dopo
un inverno passato sulle montagne battute dalle tormente; e quelli delle isole
dalmate che vivono tra le pietre frammisti ad alberi di fico, e quelli di
Sirmione tra i ruderi della grande villa romana; della Liguria sulle montagne
aride sopra il mare (Punte argentee di mare attraversavano il cielo, quasi una
risposta al richiamo degli ulivi, scrive Francesco Biamonti in "Vento largo");
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e della Provenza dagli acuti odori d'erbe, e delle rive dell'Atlantico, in


Portogallo. Ma l'"Oleo europaea sativa", che comprende tutte le varie forme
coltivate in area mediterranea sino dall'antichit, deriva dall'"olivastro" o
dall'"oleastro"?
I pareri dei botanici sono discordi, ma ora sembra convinzione che gli
olivastri rappresentino forme evolutive degli oleastri e che dagli olivastri
siano poi derivati gli ulivi.
L'oleastro un arbusto molto ramoso, pi o meno grande, che qualche
volta diventa albero alto anche venti metri; ha rami spinosi, foglie ellittiche a
volte arrotondate lunghe quattro centimetri; il frutto rotondo, piccolo e
povero di olio; le inflorescenze sono a racemo.
L'olivastro, invece, appare come il pi rustico tra gli ulivi veri e propri;
pu diventare un albero molto grande, ha forme diverse nelle foglie e i frutti
hanno varie grandezze. Oleastri e olivastri e olivi sono sensibili alle cure
dell'uomo: abbandonati a loro stessi assumono la forma di grandi cespugli
arruffati perch dalle loro basi nascono malformazioni degenerative e
succhioni emergono dal piede della ceppaia. Le radici degli ulivi si
distendono sugli strati superficiali del suolo, dove l'areazione pi attiva e il
terreno pi fertile. Ma dove le rocce e le grosse pietre lo coprono, le radici si
insinuano tra le fessure seguendone il corso alla ricerca dell'alimento.
Ed cos che l'ulivo vive anche in terreni rocciosi e aridi dove altri alberi
non riuscirebbero. Il fusto alla base ha una porzione posta un poco al di sotto
della superficie del suolo, e questa grossa, con imbugnature e gobbe; nelle
piante secolari qualche volta questa parte del tronco fuoriesce per
dilavamento. Il tronco dalla ceppaia si assottiglia e parte diritto nelle piante
giovani, ma nelle piante vecchie e antiche si contorce in mille modi, si
screpola, si apre, s'incava, si divide assumendo forme che lasciano stupiti,
come il grande olivastro presso Luras, in Sardegna, che misura oltre otto
metri di circonferenza e venti d'altezza. Poco lontano da questo gigante
vegetano vigorosamente due oleastri selvaggi di cui uno, chiamato il padre
ha undici metri di circonferenza!
All'ombra di questi sostano le greggi e la loro et stata calcolata in
duemila anni: veri relitti di antichissimi boschi abitati dagli dei. I miti pi
remoti dicono che Eracle Dattilo figlio di Zeus, giunto nell'Elide dal monte
Ida, volle istituire i giochi olimpici per onorare il padre. Sulla collina dedicata
a Cronos innalz sei altari per gli dei dell'Olimpo, ma la collina era brulla e
per questo and dagli Iperborei dove dai sacerdoti di Apollo si fece dare
degli oleastri per piantarli accanto alla are di Olimpia.
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Con i rami di questi oleastri venivano incoronati i vincitori dei giochi.


Cos ci racconta Pindaro. Ma come potevano dagli Iperborei crescere gli
olivastri? Trovo pi attendibili i miti che li fanno derivare dalla Libia, da
dove Atena venne con un ramoscello dell'albero a lei sacro. D'ulivo era la
clava di Ercole e quella del Ciclope omerico.
E fuggendo l'ira di Poseidone il naufrago Odisseo trov ricovero ... sotto
un doppio cespuglio, / cresciuto insieme da un ceppo d'olivo e oleastro,
dove ... cos tra le foglie stette nascosto Odisseo: e Atena / gli vers il sonno
sugli occhi, perch guarisse pi presto / la spossante stanchezza, fasciando le
palpebre.
E il letto che Odisseo stesso costru usando il grande ulivo attorno al quale
aveva edificato la sua casa? ... C'era un tronco ricche fronde, d'olivo, dentro
il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come colonna: / intorno a questo
murai la stanza...
A Roma l'ulivo era dedicato a Minerva, e con le sue fronde venivano
incoronati i vincitori nei trionfi. Le donne romane usavano l'olio d'oliva con
l'aggiunta di essenze profumate per curare la loro bellezza, e per ogni parte
del corpo avevano uno specifico miscuglio: alla rosa, al giglio alla
maggiorana, alla lavanda.
Tra tutti gli alberi l'ulivo quello a cui pi numerosi sono legati miti e
leggende.
E come altro poteva essere: dai suoi frutti si ricava l'olio che d salute e
bellezza agli uomini.
E lume ai poeti, e materiale ai pittori.
E il suo legno polito e duro si usa per gli intarsi, per i lavori al tornio, per
pavimenti preziosi?
E bruciando in luminosa fiamma d calore e luce alle grigie sere
d'inverno.

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Il salice. ... Ai salici in mezzo ad essa


appendemmo le nostre cetre. (Salmo 136)
Nei giorni del prossimo febbraio i saliconi gonfieranno i gattici e
sbocceranno i fiori dove le prime api coraggiose, dopo aver sorvolato i prati
ancora coperti dalla neve, andranno a raccogliere il primo polline e il primo
nettare dell'anno che serviranno a nutrire larve e adulte, e daranno forza
all'arnia dopo il forzato riposo invernale. Pure le lepri, tra l'uno e l'altro gioco
amoroso al chiaro di luna sulla neve indurita, andranno bramose a mangiare
le gemme e le cortecce fresche e verdi dei salici.
La famiglia delle "Salicacee", nel genere "Salix", molto ricca di specie; i
botanici ne hanno calcolato circa trecento che vegetano su vaste aree dalle
regioni pi fredde alle temperate. E abbiamo alberi alti fino a venti e pi
metri come il "Salix alba", detto anche salice delle pertiche e salice bianco, e
altri cos nani e striscianti da confondersi con le erbe dei pascoli o i licheni
delle rocce d'alta montagna, come il "Salix erbacea" della serie "glaciales",
che Linneo riteneva il pi piccolo albero della terra e che sulle nostre Alpi si
ritrova anche oltre i tremila metri di quota e vive ben oltre il Circolo polare
artico.
Numerosi sono anche gli ibridi perch i salici si incrociano tra loro con
una certa facilit. Come diversi e mutevoli sono i comportamenti. Il "Salix
babylonica" (s, quello della Bibbia, salmo 136: Sui fiumi di Babilonia, / l
sedemmo e piangemmo, / ricordandoci di Sion! / Ai salici, in mezzo ad essa, /
appendemmo le nostre cetre...) ha rami lunghi e pendenti, per questo
conosciuto come salice piangente; ed bello e malinconico vederlo
specchiarsi nell'acqua di uno stagno o di un fiume. Il salice delle pertiche, tra
i nostrani, il pi alto. Ha il tronco diritto e un'ampia corona; la corteccia di
colore grigio-rossastro e nelle piante adulte si screpola e cade in lunghe
striscie longitudinali. I rami sono lunghi, ascendenti e divaricati, di colore
argenteo; i ramuli giallastri e serici. Le foglie sono a forma di lancia
acuminata e leggermente seghettate; di verde mutabile, da giovani hanno una
pelosit argentea su entrambe le facce, poi, solo sulla pagina inferiore: da
questo colore argenteo e serico gli viene il nome di salice bianco.
Dalla variet "vitellitta", che ha i ramoscelli gialli dorati flessibili e lunghi,
abbiamo i migliori vinchi che da tempo immemorabile vengono usati cos
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come sono per fabbricare culle (come quella accanto al letto di mia madre,
dove abbiamo dormito io e i miei fratelli fino ai due anni), mobili, cestini,
panieri, setacci, colini, inoltre per legare i tralci delle viti e, persino come
corda dai legnaioli.
Questo tipo di salice vive in tutta l'Europa centro- meridionale, sulle
montagne si spinge fin oltre i mille metri. Il carbone che si otteneva entrava
nella composizione della polvere pirica (e forse lo si usa ancora per i fuochi
d'artificio); il suo legno non di grande pregio ma ottimamente si presta per
la fabbricazione degli zoccoli. Il "salice fragile" assomiglia al salice delle
pertiche ma, lo dice il suo nome, ha i rami molto pi fragili e le gemme e le
foglie sono un poco vischiose. Il suo areale di espansione dal Mediterraneo
raggiunge la penisola scandinava e l'Asia occidentale; la sua funzione quella
di consolidare i terreni alveali e se ha poco valore tecnologico ne ha invece
moltissimo di ambientale.
Il "salice delle ceste" invece un piccolo alberello che il pi delle volte si
presenta come un arbusto alto fino a sette-otto metri; vive sui terreni di ripa
che periodicamente vengono inondati dalle piene. La sua corteccia grigia e
liscia e con l'et si sfalda mettendo in luce la nuova corteccia giallo-bruna. I
ramuli sono nudi, flessibili e robusti.
Dalle rive europee dell'Atlantico questo salice raggiunge il Pacifico
all'altezza del Giappone (compreso) e tutti i popoli dentro quest'area da
sempre lo usano per fare ceste da trasporto: per soma, per naviglio, per slitta,
per carro, e graticci per sostegni e recinti.
Ma anche il "Salix viminalis" da ricordare, se non altro perch diede il
nome al famoso colle di Roma: un arbusto o alberello che fornisce vimini
lunghi anche quattro metri, tenaci e non ramificati, che vengono impiegati
con la scorza. Ho descritto sommariamente questi pochi, tra la ventina o pi
di specie italiane e forse gli oltre cinquanta ibridi. In comune hanno tutti
gemme coperte da una sola squama a forma di cappuccio, le foglie semplici e
alterne, lanceolate o ellittiche, brevemente picciolate, a margine leggermente
dentellato, con la pagina inferiore quasi sempre pi chiara. I fiori sono
unisessuali su individui distinti (piante dioiche), in amenti penduli oppure
orizzontali di grigio-giallo porporino, i fiori femminili tendono al verde e in
molte specie sia gli uni sia gli altri compaiono prima delle foglie.
Fioriscono da febbraio a giugno, ma i "glaciales" (sulla Grivola sono stati
trovati a 3400 metri! ) anche in agosto. Il frutto matura pochi giorni dopo
l'apparizione del fiore e il piccolissimo seme, munito di un soffice pappo,
viene portato dal vento anche a grande distanza. Con le fronde del salice,
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raccontano gli antichi poeti, si adornavano le cune dei bambini appena nati, e
la mitologia ci dice che Giove e Era furono da Rea partoriti sotto un salice e
tra questi rami nascosta la loro culla perch il padre Crono voleva divorarli
affinch non lo spodestassero. Furono allattati dalla capra Amaltea che dal
salice ricavava il suo nutrimento, ed da allora che le capre sono golose di
foglie e di ramuli di salice; Linneo, poi, classific "Salix caprea" il salice di
montagna, o salicone, quello, appunto, bottinato dalle mie api. Il Mattioli, nei
"Discorsi", tra le altre cose riferite al salice, scrive che certi parti di
quest'albero: ... tolte sole con acqua non lasciano ingravidare le donne.
Ristagna il seme, bevuto, lo sputo del sangue. Il che fa parimente la sua
corteccia. La cui cenere macerata in aceto, guarisce i porri, e i calli, che s
impiastrano con essa. Il succo delle frondi, e della corteccia cotto con olio
rosado in un guscio di melagrano, giova i dolori delle orecchie. La
decottione d'ambedue giova per via di fumento alle podagre, e mondifica la
farfarella. Cogliesene il liquore, intaccandogli la corteccia nel tempo ch'ei
produce il fiore: e ritrovasi poi congelato nelle intaccature: utile per tutti gli
impedimenti, che offuscano la vista. Ma anche curioso sapere che: ...
Bagnansi con utilit grande nella decottione del salice, messa in una tina, cos
calda quanto basta per far bagno, coloro che cominciano, diventare gobbi.
Imper che fa risolvere questo bagno meravigliosamente i tumori. E
conclude dopo molti altri consigli: Et per si potrebbe quando pur fusse
tale, usare anchora in molte altre cose.
In vecchi libri leggo che dal salicone, in Russia e in Germania, si ricavava
una sostanza per conciare le pelli e colorare le stoffe, e ancora che il legno di
salice quando fradicio e lo si guarda nell'oscurit, per un movimento
molecolare intimo diventa fosforescente ed causa talvolta di spavento ne'
fanciulli che non conoscono simile propriet.
Se il salice bianco, simbolo di sterile castit, era dedicato a Iside, il salice
piangente era dedicato a Giunone, e come albero lunare era pure votato a
Ecate.
Per salvaguardare e governare i vincheti (famosi quelli di Minturno) ai
tempi dei romani vennero istituiti i "salictarii", guardiani dei salici; la legge
"Aquilia", emanata verso l'anno 467 di Roma, prevedeva pene e il
risarcimento dei danni per chi avesse tagliato un "salicale" immaturo o, se
tagliato maturo, guastate le ceppaie.
Anche lo Statuto di Sarzano, emanato a Parma nel 1529, proibiva il taglio
dei salici lungo i fiumi e i torrenti per la virt che quest'albero ha di legare il
terreno.
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Dal salice ha pure origine un farmaco tra i pi usati e utili ancora oggi: si
ricavava pestando nel mortaio la corteccia e serve per le febbri d'ogni genere
e come analgesico: la silicilina con i suoi derivati che ora si ottengono in
sintesi.
Umile e generoso albero quanto ti debbono gli uomini! Questi uomini che
ti passano accanto dentro le loro veloci automobili o in treno.
E nemmeno ti notano.

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Il noce. Ti ricordi quelle sere sotto l'albero di


noce mi dicevi a bassa voce...
Canto popolare. Il mio noce sempre l'ultimo a buttare le foglie: il colore
verde- bruno appare subito dopo il verde-lacca del maggiociondolo.
Nella prima quindicina di maggio annuso nell'aria del mattino e del
crepuscolo della sera anche il suo odore amarognolo; ma pure d'autunno mi
piace strapazzare tra le mani le sue foglie per sentire a lungo sulla pelle quel
particolare profumo.
Credo che questo noce sia quello che attualmente vive alla quota pi alta
di tutto il circondario e quando un signore di campagna volle donarmelo per
trapiantarlo quass ero molto scettico: Siamo troppo alti, - gli dicevo, - non
ho mai visto alberi di noce oltre i margini meridionali del nostro altipiano.
Ma prova, - insisteva lui, - quest'angolo ben protetto dai venti del Nord,
esposto a Mezzogiorno e vedrai che il noce vivr.
Allora scavai una buca ben larga e alquanto profonda, attorno al fittone
posai terra nera di bosco e letame ben stagionato.
Vedremo, - dissi. - Le nogare vivono laggi sulle colline e sui monti tra
Schio e Bassano, ma tra loro e noi ci sono i boschi di faggio e poi di
conifere. Vedremo.
Prima di giugno l'alberello apr le sue gemme a poche e incerte foglie;
all'autunno fu l'ultimo a farle cadere e la neve lo copr. La primavera
successiva betulle, aceri, tigli faggi, ciliegi e pruni si vestirono di nuovo
verde ma lui, il noce, restava l come un palo secco senza dar segni di vita e
quasi mi veniva di tagliarlo al piede. Lascialo ancora l, mi disse l'amico
quando venne a trovarmi, - forse ancora vivo.
E cos una mattina quando aprii la finestra della camera, sentii il suo
odore perch le gemme si erano aperte.
Da allora sono passati pi di vent'anni; questo noce alto una decina di
metri e, persino, produce qualche frutto. Non tanti, ma forse verr la stagione
buona e allora potr raccoglierne un mezzo cesto. Noci rare, se gli scoiattoli
non me le ruberanno prima, raccolte a millecento metri d'altitudine e dove gli
sbalzi termici possono arrivare a cinquanta e pi gradi centigradi.
Il noce, "Juglans regia" L., appartiene alla famiglia delle "Juglandacee" e
in Europa l'unico rappresentante indigeno di questa famiglia; di specie se ne
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conoscono una quarantina e tutte nell'emisfero boreale. Da noi giunse in


tempi molto remoti dalle regioni dell'Asia e il suo areale primario va dalla
Cina, all'India, alla Turchia ai Balcani. Recentemente per, dall'America
settentrionale sono state introdotte delle specie esotiche, come il "noce nero",
cos chiamato per il colore del legno che da certuni ritenuto (a mio giudizio
a torto) pi bello del nostro. Il suo nome deriva dal latino "nux" che
indicava, oltre al noce, anche altri alberi che producevano frutti con la scorza
dura. Ama la luce e predilige i terreni profondi, freschi e fertili. E' specie
tipica del "Castanetum" ma non sale mai tanto in alto perch il freddo non gli
conf e per ben fruttificare necessita anche di piogge regolari.
Albero socievole ma non da bosco perch l'ombra densa lo farebbe
deperire; per questo lo troviamo accosto alla case, nelle alberature campestri,
nelle vallicelle, nei campi o nei pascoli. Sui fianchi dei monti che guardano la
pianura degradando in colline gli alberi di noce sono numerosi e belli; hanno
dato nome anche a contrade e famiglie: Nogara, Dalle Nogare, Nogarole,
Nus, Nocera, Noceto, Nogaredo.
Solo che gli alberi pi antichi e maestosi sono stati tagliati e venduti ad
alto prezzo ai fabbricanti di mobili falso-antichi e anche da noi, come in altri
paesi d'Europa, si dovrebbe incrementare la diffusione fin dove possibile:
di grande resa economica pi per il legno che per i frutti. Il noce albero di
media grandezza, eccezionalmente pu raggiungere i trenta metri, longevo
ma non supera mai i tre secoli di vita; il tronco robusto e diritto, i rami, o
meglio le branche principali, si suddividono a non grande altezza e formano
una chioma ampia, dapprima ogivale e poi arrotondata. Negli alberi giovani
la corteccia liscia e grigio-chiara, poi con l'et si screpola e si fessura
verticalmente; sulle branche e sui rami dapprima bruna, poi anche qui con
il tempo si schiarisce. I rametti sono corti e piuttosto grossi, le gemme
rivestite di scaglie coperte da peluria. Le foglie sono composte, ossia sull'asse
principale si innestano a paio da quattro a otto foglioline e una solo terminale
cos che in totale le foglioline sono sempre dispari; sono leggermente
vellutate, di verde scuro e denso la pagina superiore, pi chiare nella parte
inferiore; il loro odore penetrante deriva dal tannino di cui sono molto ricche.
I fiori sono monoici, in amenti: i maschili sessili e penduli di colore verdebruno, lunghi una decina di centimetri e si sviluppano sui rami dell'anno
precedente; i femminili si trovano invece riuniti in piccoli gruppi terminali sui
getti novelli.
E il frutto chi non lo conosce? E' secco e non si apre a maturazione, la
parte esterna un epicarpio carnoso, ricco di tannino, comunemente detto
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mallo, ed usato in liquoreria per fare il nocino; l'endocarpo molto duro,


osseo, e sta a contatto con il seme: nel nostro caso un gheriglio diviso in
quattro globi irregolari; matura verso ottobre. Una canzone popolare che
cantavamo in guerra diceva: Ti ricordi quelle sere / sotto l'albero di noce /
mi dicevi a bassa voce...
Cos come il frutto, conosciuto il legno che sin dai tempi pi lontani
apprezzato per le sue qualit duro, pesante, compatto; si pu facilmente
dividere in fogli per intarsi e impiallacciature, buono al tornio, allo
scalpello alla pialla, per mobili di pregio, per calci di fucile, per pavimenti di
lusso. L'alburno grigio mentre il durame ha un bel colore scuro sfumato in
venature pi o meno chiare; levigato e lucidato mette in risalto quella sua
insita bellezza che lo fa principe dei legni pi fini.
E il maestro Nicola, che all'Avviamento al lavoro ci insegnava a lavorare il
legno e a capirne le qualit, ci diceva che la nogara era legno non da ricchi
ma da signori. Dal pedale e dalla capitozza si ricavano le radiche variegate da
sinuosit eleganti con toni e riflessi di colore che si staccano dal fondo.
Secondo Vitruvio il "noce eubeo" ha per il difetto di imbarcarsi e
intorcinarsi, e anche dopo molte stagionature di screpolare con tanto scroscio
da spaventare gli abitanti della casa dove stato impiegato. Anche al noce,
come a tutti gli alberi, sono legate leggende e favole.
Si raccontava, ma ancora si dice, che riposare alla sua ombra porta male e
chi si addormenta si ritrova col mal di testa. Gli altri alberi non possono
vivere vicino a lui perch ha veleno nelle radici; Plinio lo dice nemico della
quercia. Sin dall'antichit quest'albero era dedicato alle divinit infernali e
nell'Alto Medioevo sotto i noci si radunavano le streghe: famoso quello di
Benevento la cui storia ci stata raccontata da Piperno nel suo "De Nuce
Maga Beneventana".
Ma allora perch gli innamorati andavano sotto il noce?
Risalendo nel tempo si scopre che le noci erano di buon auspicio nelle
nozze, un simbolo religioso oltrech essere ritenute afrodisiache, e venivano
lanciate agli sposi come oggi si usa fare con il riso. Foglie, mallo, gherigli e
persino i gusci triturati e pestati venivano usati per curare molte malattie:
l'infuso di foglie stimola l'appetito, depura il sangue, d tono ai muscoli; il
mallo alle virt delle foglie aggiunge anche quella di cacciare i vermi
dall'intestino e di curare la dissenteria.
Con i gusci, dice ancora Plinio, si curavano i denti cariati. L'olio che si
ricava dalle noci (ne contengono il 25 per cento del loro peso) viene usato
per far lume, per curare malattie, per unguenti, per i mobili che divengano
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cotanto lucidi che l'uom vi si specchierebbe dentro. Ma anche, dicono i


buongustai, quest'olio indispensabile per cucinare il pesce persico.
Nel 1614 il Castelvetro suggeriva questa ricetta a base di noci: ai gherigli
pestati in un mortaio che deve essere di pietra e non di metallo, si
aggiungono due o tre spicchi d'aglio, mollica di pane raffermo bagnata in
brodo di carne, pepe franto, e ancora pestando si fa una pappina: ... tiepida
in tavola si manda.
S'usa poi dagli uomini pi regolati di mangiar tal salsa con la carne fresca
del porco, come antidoto contra la rea qualit di cotal carne, e con le oche,
pur poco sano cibo. Usano ancora di coprirne i piatti di maccaroni e sopra le
lasagne, che sono grossi mangiari di pasta.

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Il pioppo. Quando le bianche farfalle uscivano


dalla crisalide.
Quando nel 1919 i miei rientrarono al paese distrutto dalla guerra per
ricostruire le case pensarono, chiss perch, di portare con loro dalla pianura
emiliana dove erano andati profughi, due giovani pioppi.
Li piantarono nell'orto sconvolto dalle cannonate (la cantina della nostra
casa era diventata il comando di un reggimento d'artiglieria austriaca).
Li ricordo come sono cresciuti con noi, ragazzi della via Monte Ortigara, e
come in ogni stagione hanno seguito i nostri giochi. Specialmente nelle
lunghe sere di giugno quando le bianche farfalle uscivano dalle crisalidi e noi
le cacciavamo con i fazzoletti spiegati, abbattendole al suolo per poi
raccoglierle e donarle alle ragazze.
Non sapevamo che si trattava dello "Stilpnotia salicis", un dannoso
lepidottero i cui bruchi in certi anni defogliano completamente gli alberi.
Quando non c'erano queste farfalle o prima che comparissero, erano i
maggiolini oggetto delle nostre catture: quando ne avevamo un bel mucchio
li mettavamo in un barattolo e dopo averli innaffiati di petrolio davamo loro
fuoco. I nostri maestri ci avevano spiegato che erano dannosi, non perch li
portavamo a scuola, ma perch oltre a divorare le foglie delle piante le loro
larve mangiavano le radici.
D'inverno, invece, tra l'uno e l'altro tronco dei due pioppi con blocchi di
neve pressata costruivamo il forte di Macall dal cui interno lanciavamo le
bombe di neve ai ragazzi di via Cavour.
Probabilmente questi nostri alberi erano dei "pioppi neri" ("Populus
nigra" L.) e tocc proprio a me abbatterli nel 1938, prima di andare
volontario alla Scuola Militare Alpina: erano diventati troppo grandi e le loro
radici avevano smosso il muretto che dava sulla strada, inoltre i loro rami
avevano invaso la linea elettrica della pubblica illuminazione e le foglie
intasavano le grondaie delle case vicine che poi in inverno, per effetto del
gelo, scoppiavano. Per abbatterli dovetti arrampicarmi in alto e incominciare
da l, sramando a mano a mano che scendevo lungo il tronco. Lo feci
dispiaciuto perch sotto di loro era trascorsa la nostra felice infanzia.
I pioppi appartengono alla famiglia delle "Salicacee" e il loro genere,
"Populus", comprende molte specie (alcuni botanici dicono venti, altri cento);
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vegetano nell'emisfero boreale, dalle zone calde dell'Africa settentrionale fino


a quasi il Circolo Polare. Sono piante dioiche, ossia un soggetto porta solo
fiori maschili o fiori femminili, e sono caratteristiche per il poliformismo
delle foglie che si pu riscontrare sullo stesso individuo; le stesse sono
caduche, alterne, semplici. Si distinguono dai salici per avere le foglie con le
nervature come le dita divaricate di una mano anzich una sola nervatura
primaria, e il loro peduncolo pi lungo. Gli amenti sono lunghi e pendenti e
quando i semi sono maturi si staccano con lunghi filamenti setosi che
vengono portati dal vento. Le gemme sono coperte da pi squame. Tutti i
pioppi per bene vegetare hanno bisogno di terreno fertile e areato, ben
soleggiato, e sono piante colonizzatrici che lasciano poi il posto ad altre
specie.
Certe volte il loro comportamento arbustivo ma raggiungono anche
trenta metri in altezza e oltre un metro di diametro. Nel pioppo bianco la
chioma arrotondata, nel nero a piramide con grossi rami, nel cipressino alta
e affusolata, nel tremolo globosa. Il bianco ha le foglie a triangolo, lobate e
dentate, verdi nella pagina superiore, bianche e pelose nella inferiore; le
gemme sono pelose ma non attaccaticce; la corteccia negli alberi adulti tende
al biancastro ed ricoperta da una farina cerosa. Il nero ha le foglie non
lobate con il margine leggermente dentato, verdi da ambo le parti; le gemme
sono nude e vischiose e da queste le api raccolgono abbondante propoli per
le necessit dell'arnia; la corteccia sul bruno tendente al nero alla base e si
screpola anche negli alberi giovani. Il tremolo ha in genere le foglie pi
piccole degli altri pioppi, ovali, pi o meno a forma di cuore, irregolarmente
dentate, il picciolo pi lungo; le gemme sono pelose ma non gommose; la
corteccia tende al verdastro, negli alberi adulti si scurisce e si screpola.
Natura e uomini hanno creato molti incroci, e siccome sono alberi a rapido
crescimento sono coltivati per avere legno per compensati, pannelli,
imballaggi, paniforti, fiammiferi ma specialmente pasta da carta e cellulosa.
Ricercati sono i pedali marezzati per fare tranciati da impiallacciature. Il
pioppo bianco a lungo stagionato d anche particolari pezzi per strumenti
musicali.
In uno studio che Alfonso Alessandrini ha dedicato a quest'albero, si
legge come il pioppo sia, tra gli alberi, il pi efficiente accumulatore di
energia solare attraverso la biomassa; la scienza ha dimostrato che la foresta
pi attiva quando giovane e .. tagliare pioppi e piantare pioppelle vuol dire
contribuire alla causa biosferica, vuol dire ridurre l'effetto serra, vuol dire
aver legno...
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Ancora, scrive Alessandrini, il pioppo una sorta di salvabosco in


quanto la sua produzione legnosa fa risparmiare quella del bosco. ... Fare
pioppi pare cosa da vecchi romantici e invece dovrebbe essere cosa da
giovani che guardano al futuro.
Governato a capitozzo, dopo i venti anni, rendeva ogni anno una o due
fascine di legna per fusto; si usava anche sbroccarli, ossia levare le foglie dai
rami pi bassi che si tagliavano da sotto in su ogni tre o quattro anni, al fine
di avere cibo invernale per gli animali con i corni. Le gemme del pioppo
nero si usavano in medicina per ricavare un unguento balsamico e
cicatrizzante chiamato "populeo" e la corteccia, come quella del salice, ricca
di tannino e di salicilina.
Secondo sant'Isidoro il nome deriva da "populus" perch una volta
tagliato pullula numeroso dal ceppo a guisa di popolo.
Orazio dice che i pioppi, "arbores insignes", si piantano ai limiti delle
propriet; cos la presenza del pioppo "certis limitibus vicina refugit iurgia"
("Epist." 2, 170, 171), determinando il confine evita le contese con i vicini.
Plinio scrive che i pioppi sono di quattro specie: il bianco, il nero, il libico
(tremulo?) e il nero di Creta. Il pioppo bianco era consacrato alle Muse, ma
pi specificatamente a Eracle a cui si dava il merito di averne diffusa la
coltivazione perch, dopo esser stato nel Tartaro e sconfitto Cerbero,
ritornando alla luce del sole si intrecci una corona con un ramoscello
staccato da un pioppo bianco. Il pioppo nero, invece, era dedicato alla dea
della morte, e a Persefone, regina d'Oltretomba, era sacra una foresta di
pioppi neri nell'Occidente.
Ma a Fetonte che i pioppi hanno legato il loro mito pi bello. Si racconta
che un mattino Elio cedette alle insistenze del figlio che da tempo chiedeva di
guidare il carro del Sole. Fetonte voleva dimostrare la sua bravura alle sorelle
Climene e Prote. Ma non fu capace di controllare la forza dei bianchi cavalli
che le sorelle avevano attaccato al carro del Sole e cos si lasci trascinare
verso l'alto, e tutti gli uomini rabbrividirono per il freddo; poi si accost alla
terra cos da seccare i campi. Zeus si incoller e scagli la sua folgore contro
Fetonte che precipit nel Po. Climene e Prote furono tramutate in pioppi
lungo le rive del grande fiume e le loro lacrime diventarono ambra.

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Il melo. Distillando il sidro si ottiene una


profumata acquavite.
Ci sono luoghi tra le mie montagne dove crescono dei meli selvatici.
Chiss da dove sono venuti i semi che li hanno fatti nascere.
Forse quello che dimostra pi anni nato dove un soldato austriaco ha
mangiato una mela nel 1917 dopo averla raccolta passando sotto un albero in
una valle trentina, o forse avuta in dono da una ragazza del Sud Tirolo.
Quest'alberello, alto cinque o sei metri, l a ridosso di uno scavo della
trincea che era la loro prima linea, a mezzacosta e ben esposto al sole. E'
cresciuto disordinato e arruffato nella chioma, e il tronco, dove le vitelle
vanno a sfregarsi il collo e i fianchi quando sono al pascolo, ha la corteccia
lucida e lisca.
Ricordo che da ragazzo, quando si andava su quella montagna per cercare
dei particolari pezzi di marmo per fare palline da gioco, raccoglievamo quelle
piccole mele rosse e gialle per mangiarle al sole sulle rocce.
Un altro melo cresce selvatico dove fino a quarant'anni fa si seminavano
lino, orzo, segale, patate. Quel terreno, abbandonato dopo secoli di faticoso
lavoro, si era coperto di cespugli di ginepro, di crespino e di rose canine; ora
a sua volta il bosco di conifere sta ricoprendo i cespugli.
Questo luogo appartato, un tempo remoto, era l'alveo di un ghiacciaio
(Sette volte bosco / Sette volte prato / E tutto ritorner / Come era stato,
cantano gli gnomi dentro la montagna). Il rustico melo l e lo credo nato da
un seme caduto da una mela addentata da una ragazza venuta a zappare dal
paese che sta al di l della morena e che per antico diritto aveva l'enfiteusi su
questi terreni della comunit. I pometti di quest'albero, succosi e aspri,
maturano a fine ottobre e quando passo li faccio cadere al suolo per farli
mangiare ai tassi.
Il mio terzo melo selvatico poco lontano da casa: l dove il bosco
confina con il pascolo. Era nascosto da un grumo di abeti e mi accorsi di lui
quando sentii la mia cagna masticare qualcosa nel folto dei rami bassi. Ma
da dove vengono queste mele?, mi dissi. E alzando gli occhi vidi con
sorpresa che tra i rami folti e scuri degli abeti c'erano pure quelli del melo
selvatico che ancora tenevano appesi i piccoli frutti acerbi. Mi ricordai,
allora, che quello era il posto dove era uso sdraiarsi all'ombra del bosco, per
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il riposo meridiano, un amico contadino che in tasca aveva sempre qualche


mela per mangiarla quando gli doleva l'ulcera allo stomaco.
Per far luce attorno a questo melo ho fatto alberi da natale degli abeti che
l'intricavano e nel tardo autunno, prima della neve, vado a raccogliere i suoi
frutti (equivalenti al volume di due noci!) Senza lavarli e pulirli, tanto sono
lucidi e brillanti, li taglio a piccole fette e li metto a essiccare in soffitta.
Quando il vento e la neve mordono il tetto li faccio bollire, aggiungo un po'
di miele e bevo lo sciroppo e mangio le mele contro le affezioni dell'inverno.
E questo ricordando le mele essiccate trovate in un villaggio sul Don
nell'inverno del 1943 e mangiate camminando nella tormenta.
Certo, sono supposizioni di un botanico dilettante un po' poeta la nascita
di questi tre meli selvatici tra le mie montagne; chiss quanti altri ce ne
saranno in luoghi che non conosco o che non ho osservato, perch il
"Melastro" ("Pyrus malus" L. o anche il "Malus sylvestris" Mill) della famiglia
delle Rosacee largamente diffusa, pu vegetare spontaneo sino alla zona del
faggio, a 1500 metri.
E' un albero che pu raggiungere i dieci metri d'altezza e vivere fino a
ottanta anni; il suo fusto irregolare, la chioma distesa e, se ben disposta alla
luce, abbondante di foglie. La corteccia che sul principio rossastra, con gli
anni d pi sul grigio e tende a scagliarsi; i rami sono robusti e si allontanano
dal supporto quasi orizzontalmente (rami patenti); i ramuli sono verdastri e
pelosi per poi diventare glabri e rossicci. Le foglie sono alterne e variabili,
con un picciolo lungo da uno a tre centimetri, dentate, pelose da giovani,
coriacee e nude poi, con nervature ben marcate. I fiori sono ermafroditi, in
corimbi, hanno cinque petali bianchi e rosei, appariscenti gli stami con antere
gialle. Il pomo un frutto rotondeggiante, ombelicato ai poli, i colori variano
dal verde al giallo, dallo striato al chiazzato di rosso, al rosso; il diametro
varia dai due a quattro centimetri. Il melo selvatico distribuito in tutta
Europa e in Italia lo troviamo dalle Alpi alla Sicilia; sporadico nei boschi di
latifoglie, ai margini delle radure; ama il sole e non ha particolari preferenze
per la qualit del suolo. Viene usato per portainnesto, ma dal melo selvatico
che sono derivate tutte le numerose qualit di meli coltivati, e questo sin
dall'antichit.
Si legge che nel secolo di Plinio molti erano i pomologi che si
applicavano a selezionare i meli, e alle variet che creavano davano il loro
nome, o il nome del luogo dove venivano coltivati.
Famosi sui mercati di Roma erano il "malum spadonium" (pomo di san
Giovanni), il "malum orbiculatum" (mela Francesca), la "melimela" (mela
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zuccherina). Gli antichi autori classici (Catone, Frontone, Apuleio, Plinio


eccetera) pongono il melo tra gli "alberi felici", ossia tra quelli che servir
potevano gli intendimenti della relalbigione, della morale, e dell'agricoltura.
E quante leggende, miti, versi e opere d'arte sono state ispirate da
quest'albero! Anche se nella Genesi non scritto, era un pomo che Eva porse
ad Adamo dopo averlo staccato dall'albero bello agli occhi e dilettoso
all'aspetto che era in mezzo al paradiso terrestre: la tradizione come tale ce lo
ha presentato, e Dante dice ("Purgatorio" 33, 61-63) che Per morder quella,
in pena e in disio / cinquemilia anni e pi l'anima prima / bram colui ch 'l
morso in s punio. Nel "Cantico dei Cantici" (2, 3) abbiamo del melo
selvatico la pi bella immagine allegorica: Come un melo tra gli alberi del
bosco, / cos il mio diletto tra i giovani. / All'ombra di colui che ho bramato
mi sono riposata, / e dolce il suo frutto al mio palato.
E il pomo che Paride assegn ad Afrodite dopo che Zeus lo scelse come
arbitro nella famosa disputa?
E i meli e i pomi dipinti dai grandi Maestri del Rinascimento e dai
Fiamminghi?
E quelli delle sculture gotiche?
Quest'albero accompagna da sempre la vita degli uomini e i suoi frutti,
oltre che sano alimento erano (sono!) considerati quali medicina da Galeno,
da Dioscoride e dal nostro Mattioli. Efficaci contro le infiammagioni dello
stomaco, le posteme del sedere, provocano l'urina, caciano fuori li
vermi e ancora altro. Le mele grattugiate e date fresce, ai bambini piccoli
sono indicate quando questi hanno la cacca sciolta, e il Castelvetro nel suo
"Brieve racconto di tutte le radici di tutte l'erbe e ditutti i frutti che crudi o
cotti in Italia si mangiano" scrive del "pomo paradiso": Questo frutto non
niente pi grosso che il pomo di due anni et molto simile di forma a quello,
ma la corteccia sua gialla, macchiata di picciole macchie rosse quanto il
sangue; e quanto pi si guarda (conserva) tanto migliore; e, oltre all'ottimo
suo gusto, ha un soavissimo odore e tanto che, messo tra' pannilini, d loro
un dolce odore, e le corteccie (bucce) sue poste sopra brace, profuma tutta la
camera di gratissimo profumo.
Ecco, proprio come faceva la zia Marietta, che era pure la quasi centenaria
zia del nonno: metteva sempre le bucce dei pomi sopra la stufa di cotto del
tinello, e profumava cos gli inverni della nostra fanciullezza. Solo che ora
per ritrovare questo odore devo raccogliere le mele selvatiche; quelle stesse
che dalla loro fermentazione si ricava il sidro migliore e, distillando il sidro,
una profumata acquavite.
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L'acero. Il suo legno tra i pi belli e pregiati. In primavera, nell'ora


meridiana, ritornando a casa dall'ufficio per il pranzo, passavo per un viale
fiancheggiato da aceri (ora sono stati tagliati per far largo alle automobili) e
sopra la mia testa c'era un brusio allegro di api felici: assieme alle foglie
questi alberi sbocciano i fiori che sono sempre ricchi di nettare. Il miele
d'acero, poi, profumato e limpido ed un vero peccato che sempre pi rari
diventino questi alberi nei pubblici giardini e lungo le strade, dove
amministratori incolti preferiscono sostituirli con alberi esotici e costosi che,
magari, mal si adattano al nostro clima e non rallegrano l'autunno dei cittadini
come potrebbe l'acero.
Quando a fine estate si tagliava l'ultimo fieno, il pi profumato e
desiderato dagli animali che stanno d'inverno rinchiusi nelle stalle, e alla sera
si rientrava, ci facevano salire sopra il carro: da lass pareva d'essere alti
sopra il mondo, e come ubriachi di odori, di sole e di aria. Il cavallo baio era
condotto alla briglia da mio padre o da un famiglio, e quando il carro passava
sotto un arco ombroso di aceri, ci sembrava cosa ardita alzarci in piedi sul
fieno traballante per strappare le dismare dai rami che poi, giunti a casa,
lanciavamo dall'alto del poggiolo verso il cortile per vederle vorticare
nell'aria.
Noi, le dismare, le chiamavamo eliche. Un mattino d'autunno inoltrato,
quando le foglie erano cadute e le cime all'orizzonte imbiancate dalla neve,
camminando in silenzio sul muschio del bosco arrivai a una radura che si
allungava verso i pascoli. Ero sottovento e potei sorprendere una femmina di
capriolo con i suoi due piccoli dell'anno che con il muso verso terra
smuovevano le foglie ogni tanto scegliendone una che poi, alzando la testa,
lentamente mangiavano. Osservando con pi attenzione con il binocolo potei
vedere che erano le foglie dell'acero isolato che confinava con il prato, e che
sceglievano quelle che avevano il colore pi vivo e brillante. Lessi poi che le
foglie di questi alberi sono particolarmente ricche di sostanze minerali,
vitamine e azoto, che contengono poca cellulosa e che per gli erbivori sono
persino pi appetite dell'erba medica.
Il genere "Acer", della famiglia delle "Aceraceae", molto ricco di specie;
quasi tutte in Europa, in Asia e nell'America settentrionale. Sono alberi a
foglie caduche; i nostrani hanno le foglie palmato- lobate, con picciolo lungo,
senza stipole. I fiori sono racemosi, giallognoli, pentameri: ossia hanno il
calice e la corolla divisi in cinque elementi; sono poligami o ermafroditi. Il
frutto formato da due smare affiancate che a maturit si dividono,
portando nel vento il seme che contenuto in un carpello appiattito. (Da
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ragazzo mi piaceva masticarlo).


L'"acero minore" un alberello che di rado supera i cinque metri; viene
anche chiamato "Acero di Montpellier" perch frequente in Provenza.
Vegeta nel bacino del Mediterraneo, nelle Prealpi, nelle zone temperate della
Svizzera e della Germania, nel Caucaso, nella Persia; ama il sole e non teme
la siccit; a volte cresce tra le rocce. Il suo legno ha il peso specifico
superiore a quello dell'acqua ed un ottimo combustibile.
Anche l'"acero campestre" non un albero di grande altezza, ma pu
raggiungere i quindici metri; la sua chioma larga e fitta. Lo si trova in tutta
Europa fino in Inghilterra e in Russia; anche sparso nei boschi di conifere. E'
chiamato "campestre" perch un tempo veniva usato a sostegno dei filari
delle viti e sopporta molto bene le potature pi drastiche; inoltre si adatta a
climi e terreni diversi.
L'"acero riccio" un grande e bellissimo albero: pu raggiungere anche i
trenta metri d'altezza; il suo fusto diritto, la corteccia grigio-cenere, i rami
eretto-patenti, la corona densa e larga; ha foglie simili a quelle del platano.
Nell'autunno assume quello splendido colore rosso vivo che pi di ogni altro
spicca, come grande solista, nella sinfonia del bosco. Ama i climi freddi e
continentali e, a Settentrione, arriva fino in Norvegia e in Finlandia; supera i
freddi inverni e le primavere a volte nevose come questa del 1991 perch ha
la caratteristica di ritardare il suo risveglio dopo il riposo invernale. La sua
foglia rossa lo stemma nella bandiera canadese.
E da questi alberi gli indiani del Nord America sanno ricavare una dolce
linfa che diventa medicina e alimento; e in Canada, e oggi anche da noi, si
pu trovare in commercio uno sciroppo d'acero per preparare particolari
dolci. Pure l'"acero di monte" un albero che pu arrivare a quaranta metri
d'altezza; la sua corteccia pi scura del riccio; le foglie sono grandi anche
quindici centimetri, a cinque lobi, dentate; le dismare sono arcuate a V. Il
suo nome ci dice che ama di pi le pendici delle colline e dei monti (pu
arrivare fino a duemila metri) che non le pianure; non forma boschi puri ma
si trova isolato o a piccoli gruppi. Il suo legno tra i pi belli e pregiati, di
colore bianco- avorio, sericeo, facile da lavorare e di lunga durata se usato
negli interni. Stagionato per lungo tempo, anche dieci anni, viene usato dai
liutai per i fondi, le fasce, il manico e i ricci degli strumenti ad arco.
Uno di questi aceri montani diventato famoso nell'Appennino bolognese
dove, si racconta, che tra le secolari fronde era stata appesa l'immagine
miracolosa di una Madonna portata dall'Oriente al tempo delle Crociate.
Nel 1358 all'ombra di quest'albero, si costru una chiesetta dedicata alla
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Madonna dell'Acero e ancora oggi, al 5 agosto di ogni anno, si celebra una


festa. Aceri di molti secoli si trovano sui monti del Gennargentu in Sardegna,
e sui Nebrodi, in Sicilia. In Abruzzo, nel comune di Pizzone, se ne trova uno
che misura quasi sette metri di circonferenza.
E pensare che un mio compaesano che aveva intenzione di creare un
boschetto di aceri su un prato abbandonato, un luned mattina si vide tagliati
da incivili turisti, che forse volevano farsi bastoni da passeggiata, tutti i
giovani virgulti che aveva impiantato! Anche i poeti hanno cantato gli aceri.
Virgilio, nell'"Eneide" (Libro Secondo, 112) Ci racconta che di travi
d'acero era fatto il cavallo dell'inganno di Troia: Gi sorgeva il cavallo / fatto
di travi d'acero: allora pi che mai / i nembi risuonavano per tutto il vasto
cielo....
Anche Pasternk, sia nello "Zivago" che nelle poesie, ricorda gli aceri e in
"Autunno d'oro" scrive: ... Casette tra gli aceri gialli / come in cornici dorate,
/ dove a settembre sull'alba / gli alberi stanno a due a due / e sulla corteccia il
tramonto / lascia una traccia d'ambra.
Esenin, il biondo-rosso poeta contadino, canta di un Acero antico che:
Veglier sulla Russia celeste / l'acero ritto su un piede. / So che tu sei
grandissimo amico / di chi bacia la pioggia dei tigli, / anche perch, acero
antico, / a me nel capo somigli. (La traduzione di Renato Poggioli). T
eofrasto, nei suoi trattati di botanica scrive che l'acero era prescelto per i
mobili di maggiore eleganza, e Ovidio ci ha lasciato scritto che di acero era il
trono di Tarquinio Prisco.

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Il gelso. Gli alpini del Garda mi dissero che


erano morari.
Giunti alla classe terza la maestra Elisa, che l'autunno precedente aveva
voluto che ogni scolaro arrivasse a scuola con un diverso ramoscello
d'albero, alla fine del maggio 1929 ci port dei bozzoli dalla pianura. Ci
spieg che dentro ognuno c'era una farfalla che prima era bruco e prima
ancora piccolo ovetto che, dischiuso al tempo che i gelsi mettono le foglie,
mangiando queste era mutato e cresciuto fino a costruirsi intorno la sua casa
di fili di seta. Ma qui in montagna non avevamo n gelsi n filugelli n,
quindi, bachicoltura, e aspettammo con curiosit di veder uscire il "bombice
del gelso" dal bozzolo che la nostra maestra aveva posato tra i doppi vetri
della finestra al sole.
Per vedere i primi gelsi, ma senza distinguerli ancora dagli altri alberi,
dovetti aspettare qualche anno, e fu verso Bassano quando ancora la
bachicoltura era in pieno sviluppo e gli alberi di gelso rispettati e protetti da
una legge apposita del 1937 che ne vietava l'abbattimento.
Nel 1941, con altra legge, si precis che i prefetti avevano facolt di
vietare anche il capitozzamento e la potatura invernale di piante di gelso i
cui rami non abbiano raggiunto i tre anni di et, consentendo solo la
rimondatura e la spuntatura a sfogliatura eseguita. Possono altres vietare che
la foglia di gelso sia utilizzata per scopi diversi dall'allevamento del baco da
seta...
Altre cose indicava ancora questa legge a protezione dei gelsi. Poi, con gli
anni, la bachicoltura mor, si chiusero le filande e si dimenticarono anche le
canzoni delle filandaie (che ora sono oggetto di ricerca antropologica). Quasi
tutti i gelsi sparirono dalle nostre campagne perch la seta veniva importata
dall'Oriente come nei tempi lontani.
Ora, da qualche anno, qui nel Veneto che per secoli era stato il luogo di
maggior produzione, si riparla di gelsi, di filugelli e di seta; solo che sono
sorti altri problemi di origine genetica in merito al bombice del gelso.
E poi bisognerebbe reimpiantare i filari di gelsi come erano un tempo,
perch pochi ne sono rimasti a segnare le cavedagne tra campo e campo. (In
questi giorni un amico scultore va lungo i margini dei coltivi in cerca di
vecchi ceppi di moraro che poi porta nel suo studio dove li lavora al fine di
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mettere in luce le forme e le qualit del legno variegato, inserisce in essi


ciottoli di fiume levigati dai millenni e metalli preziosi creando cos opere
d'arte che hanno il mistero della creazione).
Se anche il gelso non albero della mia terra montana, mi caro per un
particolare ricordo che risale alla tarda primavera del 1941. In quell'anno, con
la resa della Grecia, avevamo finito di penare freddo e fame tra le pi alte
montagne dell'Albania dove la tormenta non dava mai requie. Scendemmo
gi da l a ricalpestare l'erba novella dopo mesi di neve e un giorno di
giugno, con grande caldo, andando gi alle rive del fiume Devoli per lavarmi
e rinfrescarmi dalla rogna e dai pidocchi, mi imbattei in alcuni alberi grandi e
forse antichi che tra i rami portavano frutti che per la forma mi ricordavano i
lamponi. Il mio istinto mi disse di mangiarli e subito mi piacquero per il loro
dolce non stucchevole ma piuttosto acquoso.
Ce n'erano di bianchi, di rosa, di rossi quasi viola e questi mi lasciavano il
loro colore sulle dita e attorno alla bocca.
Gli alpini del Garda mi dissero che erano morari e mi venne da pensare
che forse erano stati impiantati al tempo della Repubblica di Venezia quando
questa aveva il commercio mondiale della seta, dopo che un frate aveva
portato dall'Estremo Oriente le uova del filugello dentro una canna di bamb
che gli faceva da bastone. (Anche questo ce lo aveva raccontato la maestra
Elisa).
Ma stando a Procopio furono due monaci che nell'anno 551 portarono a
Costantinopoli i primi bachi da seta; Teofane da Bisanzio dice invece che fu
un persiano, al tempo dell'imperatore Giustiniano, a contrabbandare il seme
dal paese dei Serii, dentro la cavit di un bastone.
Il gelso, "Morus alba" L., appartiene alla famiglia delle Moracee, di cui fa
parte pure il fico, e la caratteristica di questa pianta un lattice che viene
secreto come difesa a ferite o lesioni per evitare la penetrazione di parassiti
nel loro organismo. Al genere "Morus" appartengono dodici specie distribuite
nelle zone temperate del nostro emisfero. Il gelso albero di media
grandezza, ma pu arrivare anche a venti metri e vivere qualche secolo; ha
una corona espansa e densa; la corteccia, quando giovane, grigia, poi si
incupisce tendendo al bruno e si fessura nel senso della lunghezza; i rami
sono lisci e glabri. Le preziose foglie che attraverso il filugello ci dnno la
seta, sono alterne quasi contrapposte, con breve picciolo scanalato; a volte
hanno forma di cuore altre trilobata, con i margini seghettati irregolarmente,
acute agli apici; il loro colore di un bel verde chiaro. Fiorisce in aprilemaggio e lo stesso soggetto porta fiori maschili e femminili in amenti
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peduncolati. I frutti originati dalla infiorescenza sono lunghi un paio di


centimetri, di colore avorio, o bianco-rosato, o rosso vivo e cupo; il loro
sapore risulta dolce ancora prima della maturazione. Il "Morus alba", la cui
terra d'origine la Cina, giunto in Europa in antichissima data; la sua
coltivazione si poi estesa fin dove era possibile, seguendo lo sviluppo
dell'industria della seta. Il "Morus nigra" L., o moro, viene un po' pi grande
del gelso e ha l'aspetto pi rustico e robusto; il fogliame pi denso, il
picciolo delle foglie pi corto, queste sono anche pi grandi e la pagina
inferiore coperta da una peluria simile a feltro. La sua patria d'origine
l'Asia Minore e veniva coltivato per i suoi frutti che fermentati davano un
vino leggero e, distillati, un'ottima grappa.
Secondo Ovidio, che nelle sue "Metamorfosi" lo collega alla leggenda di
Piramo e Tisbe, un gelso moro ombrava la tomba di Nino fondatore di
Ninive. Questa usanza di piantare alberi sulle tombe si manifestava nei popoli
antichi perch sapevano che il corpo disciolto e decomposto in umori veniva
assorbito dalle radici e che la materia si sarebbe vivificata negli alberi
continuando cos, per anni e per secoli, a testimoniare l'affetto e la memoria
ai posteri.
Il gelso era da Plinio considerato Albero sapientissimo perch l'ultimo
a sbocciare e il primo a maturare la frutta; in questo modo evita i dannosi
effetti del freddo intempestivo e i frutti restano poi a lungo sui rami. Pare
anche che le donne romane e greche con il succo di questi frutti si tingessero
le guance.

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Il ciliegio. Al suo posto costruiranno un


condominio per i villeggianti.
La neve che aspettavo a dicembre e che per tutto l'anno non venuta, si
fatta vedere in aprile quando i tre ciliegi stavano per aprire le corolle.
Stando dentro il letto sentivo un differente silenzio; ma anche la luce, la
poca luce che sempre la notte conserva, aveva differente riflesso. Pensavo,
vagavo con la mente per contrade e tempi lontani ma poi il pensiero sempre
ritornava l: ai ciliegi.
Forse pu sembrare ridicolo che un uomo della mia et, con tutte le cose
che stanno accadendo, si soffermi a trepidare per i ciliegi in attesa della
fioritura.
Pensavo anche a quelle onde bianche di ciliegi in fiore che ai piedi delle
mie montagne aspettavano insetti pronubi o un leggero zeffiro, ma non la
neve e il vento del Nord. Ma forse laggi, attorno a Marostica, mi dicevo,
non arriver la neve; e poi i fiori avranno legato, nel profondo dei pistilli il
polline avr gi fecondato gli ovari.
Anche quest'anno il costante amico, a fine maggio, mi porter una o due
ceste di ciliegie che sempre mi suscitano meraviglia e golosa tenerezza. Pi
della selvaggina, pi del vino, pi ancora del pane, pi di ogni altro cibo,
insomma, sono attratto dalle ciliegie. Persino quell'inverno nella steppa russa
le sognavo, persino in campo di concentramento.
Nella mia adolescenza una delle prima letture stata "Il giardino dei
ciliegi" di Cechov; il mio primo viaggio stato quello con il trenino a
cremagliera, organizzato dal prete dei ragazzi, per arrivare a una frazione
dove in agosto maturano le marasche selvatiche.
In Val d'Aosta, in quel giugno del 1940 quando si stava per entrare in
guerra, ogni sera, con un amico che ora in Australia, dopo il rancio troppo
scarso si andava a saziare la nostra fame con le ciliegie selvatiche che
maturavano lungo la Dora o tra le rovine dei castelli. Erano piccole e
succose, le contendevamo ai tordi e ai merli e l'amico, come gli uccelli, le
inghiottiva con il ncciolo.
Ma le pi impensabili e incredibili furono quelle ciliegie secche che
scopersi in un ripostiglio sotterraneo di un'isba sulla riva del Don: che senso
di primavera hanno saputo donarmi in quel gelo fossile quando le bollivo
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nell'acqua di neve! Si dice che il ciliegio sia originario dall'Asia; sar forse
per questo che lo ritroviamo nelle antiche poesie cinesi e che in Giappone,
per gli scintoisti, oggetto di venerazione e culto, tanto che alla sua fioritura
riservata una grande festa: quelle bianche nuvole di petali rappresentano la
felicit effimera ma anche la beatitudine eterna.
Nella nostra vecchia Europa il ciliegio selvatico indigeno; nell'antica
Grecia si parlava di ciliegio domestico sin dai tempi di Alessandro; Erodoto,
nel Libro Quarto della sua "Storia", racconta che oltre il territorio degli Sciti
si trova un'ampia regione ai piedi di alte montagne dove gli abitanti si cibano
del frutto degli alberi: ... Pontico si chiama l'albero del cui prodotto si
cibano; ha le dimensioni di una pianta di fico, pi o meno, e produce un
frutto grande come una fava e che ha anche il ncciolo; quando maturo lo
filtrano attraverso panni e ne cola un succo denso e scuro che chiamano
"aschi"; se lo sorseggiano e lo bevono mescolato al latte... Secondo Plinio, il
grande buongustaio Lucullo, reduce dalla guerra contro Mitridate, port a
Roma le "aproniane", le nostre marasche, che in seguito furono esportate fino
alla Britannia.
A quel tempo erano gi conosciute le "duracinae" che venivano coltivate
fin sul Reno e in Belgio. I ciliegi appartengono alla grande famiglia delle
Rosacee, piante dicotiledoni con numerosissime specie sia erbacee che
legnose, distribuite in tutto il mondo. Il genere "Prunus" conta circa duecento
specie, ma dal ciliegio montano, "Prunus avium" L., che derivano le tante
"cultivar" per la produzione dei frutti. E' stato denominato "avium" perch
quasi tutti gli uccelli sono ghiotti delle sue drupe e anche perch da loro che
viene disseminato su larghe aree: il ncciolo che ingeriscono con la polpa
viene espulso con le feci e cade ai piedi degli alberi dove gli uccelli vanno ad
appollaiarsi per dormire la notte o per digerire. Nascer, e in pochi anni
diventer un alberello di bell'aspetto. Potr raggiungere un'altezza di
venticinque metri e il diametro di quasi un metro, diritto di fusto e non molto
ramificato. Si espande se isolato. La corteccia, formata da vari strati, bruno
chiara, ma con gli anni diventer pi scura e screpolata; le radici sono molto
estese, fittonanti, dalle pi superficiali fuoriescono numerosi polloni. Le
gemme sui rami sono raccolte a mazzetti, di colore nerastro, con le squame
orlate di chiaro. Le foglie alterne, ovate e lunghe fino a quindici centimetri,
dentate e con le nervature bene evidenti; i fiori sono ermafroditi, in fascetti
corimbosi penduncolati con la corolla a petali bianchi rotondato-smarginati.
Il frutto la bella drupa che tutti sanno; distillata d limpido "kirsch". Il legno
del ciliegio selvatico di meraviglioso colore rosato, lucido, elastico e
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particolarmente adatto per i lavori dei bravi artigiani falegnami (come sono
belle le rustiche credenze di ciliegio!). L'areale dove vegeta occupa una vasta
zona eurasiana; vive spontaneo nelle foreste di latifoglie e in certe localit si
arrampica fino a millesettecento metri d'altitudine. Ama le pendici solatie e i
terreni calcarei. D'autunno il suo fogliame diventa una brillante orifiamma
che illumina i boschi pi scuri.
Sar per tutto questo che attorno alla casa ho voluto tre ciliegi domestici e,
l'anno scorso, ho piantato diversi polloni di marasco selvatico? E in un mio
racconto ho voluto scrivere di un ciliegio selvatico cresciuto sul tetto di
paglia di una povera casa di montagna?
L'avevo sentito raccontare e poi ebbi occasione di vederlo in una
fotografia del 1915, prima che la guerra abbattesse casa e ciliegio.
Ma uno, per, nelle vicinanze rimasto; e il vecchio Titta, che ora avrebbe
pi di cento anni, diceva di ricordarlo quando lui era ancora bambino. E'
tutto contorto, scorticato, pieno di schegge di granata e di pallottole, eppure
fruttifica ancora e anche quest'anno butter i suoi fiori, anche se, quando le
ciliegie saranno mature, pi nessun ragazzo salir tra i rami a impiastricciarsi
mani, viso e camicia di rosso e dolce succo. La vecchia casa contadina vuota
e abbandonata ora in vendita, al suo posto costruiranno un condominio per
i villeggianti e anche il vetusto ciliegio sar abbattuto per far largo alle
automobili.
Con lui se ne andr un pezzo di storia, della nostra giovinezza.
Come nell'ultima scena del "Giardino dei ciliegi", dopo che Ljubov'
Andreevna costretta a vendere il ciliegeto alla speculazione, prima di
abbandonarlo, abbracciata al fratello Gaev, mormora singhiozzando: Mio
caro, dolce, meraviglioso giardino... Vita mia, giovinezza mia, felicit mia.
Addio!... Addio.
E il vecchio maggiordomo Firs rinchiuso e dimenticato dentro la casa
sente in lontananza la scure che si abbatte sugli alberi.

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