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ARBORETO SALVATICO
Nota editoriale
Con "Arboreto salvatico" Rigoni Stern fa un appassionato omaggio a
quello che Gadda chiamava il popolo degli alberi, un popolo antico,
dignitoso, saggio. L'affetto di Rigoni Stern per gli alberi come quello
portato a un fratello maggiore, un fratello che si riconosce sostanzialmente
migliore. E come fratelli maggiori gli alberi hanno sempre aiutato gli uomini,
ne hanno reso possibile la vita e favorito l'affinarsi delle civilt. Per contro gli
uomini spesso li umiliano, li feriscono o li distruggono, soprattutto per
stupidit e per ignoranza. Rigoni Stern sceglie venti alberi a lui
particolarmente cari e li descrive, ne d le necessarie caratteristiche botaniche
e ambientali, ne illustra la storia e le ricchezze, ne spiega gli influssi che
hanno avuto nella cultura popolare e nella letteratura, e naturalmente anima il
tutto con le proprie esperienze di uomo di montagna, i ricordi, la sua
sensibilit di scrittore di razza. Come uno scienziato Rigoni Stern ci racconta i
meccanismi logici di queste straordinarie forme di vita; come uno psicologo
ci svela l'anima del salice, del frassino, della quercia, della betulla e degli
altri amici a cui dedica le sue pagine; come amante degli alberi ci trasmette
il suo amore per tutti loro.
Mario Rigoni Stern ha pubblicato presso Einaudi "Il sergente nella neve.
Ricordi della ritirata di Russia" (1953), "Il bosco degli urogalli" (1962),
"Quota Albania" (1971), "Ritorno sul Don" (1973), "Storia di Tnle" (1978),
"Uomini, boschi e api" (1980), "L'anno della vittoria" (1985), "Amore di
confine" (1986). Nel 1989 uscito "Il magico Kolobok e altri racconti", edito
da La Stampa.
Introduzione.
Cechov, nel 1888, scriveva: Chi conosce la scienza sente che un pezzo di
musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l'uno e l'altro sono creati
da leggi egualmente logiche e semplici. Dieci anni dopo a un amico che va a
trovarlo in Crimea dice: Qui ogni albero l'ho piantato io e mi sono cari. Ma
ci che importa non questo, il fatto che prima che venissi io qui non c'era
che un terreno incolto e fossi pieni di pietrame e cardi selvatici. Ho
trasformato quest'angolo perduto in un luogo bello e civile. Lo sa? Fra tre,
quattrocento anni, tutta la terra si trasformer in un bosco fiorito e la vita sar
meravigliosamente leggera e facile... Quando vagabondo per le mie
montagne boscose ripenso a quanto diceva Anton Cechov e lo ripeto anche
agli amici che vengono quass a trovarmi. Ma a volte provo anche sfiducia
se mi capita di constatare quanto poco gli uomini si occupino dei problemi
degli alberi. E s che da tempo studiosi e tecnici vanno scrivendo dei pericoli
che li minacciano, e ai pochissimi che li ascoltano o che si interessano
corrispondono i troppi che si accorgono degli alberi solo quando, presi dalla
calura estiva, cercano la loro ombra per posteggiare l'automobile. Se incontro
un albero sradicato dal vento, o schiantato dalla neve, o roso dal ghiro, o
morso dal cervo provo dispiacere, ma quando vedo una corteccia incisa da
un barbaro coltello o un albero tagliato da una scure di frodo provo amarezza
e rabbia perch se coltivare boschi segno di civilt, danneggiarli e
distruggerli incivilt e regresso. Un giorno ritornando dalla passeggiata
mattutina e passando vicino a una contrada, con disgusto il mio sguardo era
andato a posarsi su due frassini e un sorbo ai quali qualche violento imbecille
aveva spezzato le cime. Erano stati posti a dimora in un'aiuola erbosa
nell'area comune dove un tempo si raccoglieva l'acqua piovana per
abbeverare il bestiame e in quella primavera avevano ripreso a vegetare con
vigore e bellezza. Ora i tre cimali pendevano spezzati, con le foglie appena
sbocciate che appassivano e la linfa che gemeva dalle ferite mortali. Ma chi
poteva essere stato? Non certo i ragazzi che conosco: lass non
arriverebbero, e poi i tronchi sono ancora troppo esili per arrampicarli. Forse
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Arboreto salvatico
sono due larici, me li vedo davanti agli occhi ogni mattino e con loro seguo
le stagioni; i loro rami quando il vento li muove, come ora, accarezzano il
tetto.
Quando misi mano a tirare su i muri perimetrali, questi larici erano gi
nati dalla terra smossa da una granata che nel 1918, esplodendo, aveva ferito
il pascolo, ma non avevano l'aspetto di oggi: erano alti, s, a dondolarsi nel
cielo, ma i loro diametri non superavano i venti centimetri. Sotto di loro in
quell'autunno raccolsi un bel cesto di agarici violetti, profumati e sodi funghi
che chiudono la stagione. Quando nella primavera ripresi i lavori, anche i
due larici si vestirono di un bel verde chiaro rallegrato dai fiori gialli e
arancioni; e sotto questi alberi luminosi raccolsi ancora i funghi di San
Giorgio, primizia di primavera. Il "Larix decidua" appartiene alla famiglia
delle "Pinacee": albero di bell'altezza pu raggiungere anche i cinquanta
metri; molto longevo e il suo tronco diritto e slanciato vestito da una
leggera corona piramidale di rami sparsi: gli alti guardano verso l'alto, i bassi
sono penduli; da giovane la sua corteccia liscia e tendente al grigio ma con
il passare degli anni diventa bruno-rossastra, profondamente solcata e molto
spessa.
Gli strobili hanno la forma di piccole uova brune, sono lunghi da tre a
quattro centimetri e quando si aprono lasciano cadere i semi, ognuno unito a
una piccola ala lunga poco pi di un centimetro. (Nel trascorso inverno ho
osservato centinaia di lucherini e di fringuelli che sul terreno si cibavano di
questi semi). Il larice albero tipicamente alpino e si spinge fin oltre i
duemilacinquecento metri di quota; ma si trova anche nei Carpazi, specie
particolari vivono in Polonia, in Siberia e in Giappone. Ama il sole, inverni
freddi e nevosi, estati asciutte; specie d'avanguardia e lo si riscontra quando
spontaneamente occupa terreni denudati per frane, o alluvioni, o fratte rase:
ogni terreno smosso, purch asciutto, buono per attecchire. Forma boschi
puri (lariceti) e si consorzia sovente con le altre conifere delle Alpi.
Sui pascoli l'albero preferito perch con la sua leggera copertura non
impedisce la produzione dell'erba e sotto la sua ombra, nei meriggi estivi, il
bestiame ama sostare. Dal suo tronco, quando viene inciso alla base, cola una
resina ambrata dalla quale si ricava la "trementina di Venezia", un tempo
molto usata in farmacia e dai pittori. Il suo legno ha un durame rosso-bruno,
l'alburno pi chiaro, gli anelli di accrescimento sono ben distinguibili;
odoroso, compatto e duro. Da sempre servito agli uomini delle montagne
per costruire capanne e case. (Pi il larice cresce in alta montagna migliore
il suo legno). In Val di Fassa certi architravi maestosi portano scolpiti date e
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nomi che vanno indietro nei secoli. Ma anche con il larice si fanno assicelle
per la copertura dei tetti (le "scandole"), mastelli, botti, mobili e suppellettili.
Nell'acqua immarcescibile e, oltre a costruire le navi, i Veneziani, sopra i
pali di larice, hanno edificato chiese e palazzi.
Venezia, per, aveva anche regolato con leggi severissime lo sfruttamento
delle foreste e a questo scopo, nei primi anni del Cinquecento, aveva
nominato uno specifico magistrato. Plinio ci racconta che Tiberio per la
costruzione del Ponte Naumachiario fece venire dalle Alpi Rezie una trave di
larice che lasci stupefatti i Romani: era lunga centocinquanta piedi e aveva
una grossezza uniforme di due piedi per ogni lato. Ma oggi, a pensarci, ci
stupisce ancora di pi il suo trasporto. I tre larici della Ultental, in Sudtirolo,
oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi pi antichi delle Alpi.
Il pi maestoso di questi misura pi di otto metri di circonferenza e la sua
altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l'apice, di
ventotto metri. Il quarto fratello di questi tre venne divelto da un bufera nel
1930 e contando gli anelli si pot determinare che aveva duemiladuecento
anni. Ora gli esperti dicono che il maggiore l a guardare le montagne da
duemilatrecento anni!
Anche il mioalbero da ragazzo era un larice. L'aveva fatto piantare mio
nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella
corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918 si trov tra l'una e
l'altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora,
attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era
dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre
alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lass,
sul mio larice, tra gli aghi d'oro infiammati dal sole verso il tramonto. A
volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi
impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava a
scendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno
scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami
flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lass, di
poter guardare pi a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di
navigare con la fantasia verso avventure infinite.
Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero,
restavamo silenziosi. Dalla lontana Siberia, dove cresce il "Larix sibirica", un
viaggiatore ha raccontato che certe popolazioni primitive lo considerano
"albero cosmico" lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma
d'uccelli d'oro e d'argento. Lass avevano anche un Bosco Sacro dove ai rami
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le tavole per falegnameria sono meno pregiate di quelle che si ottengono dal
peccio. La corteccia di abete bianco, ricca di tannino, macinata e ridotta in
polvere, fino agli inizi di questo secolo veniva usata dai miei conterranei per
conciare i pellami.
Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il
Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande
avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con
danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non
gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande
novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di
noi. Cos per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del
Sole. Da allora si diffuse la tradizione dell'albero di natale che oggi
ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e
poco razionale, che migliaia se non milioni di abeti vengono cos sacrificati,
che boschi vengono distrutti con grave danno ecologico.
E si indignano. Ma le cose non stanno cos. Intanto si pu subito dire che
dove per cos tanto tempo questa tradizione viva e viene praticata, i boschi
non sono affatto scomparsi. Nei Paesi del Nord Europa le foreste di conifere
coprono ancora grandi estensioni di quei territori, ed da credere che le
superfici boscate sono aumentate. Ben altre sono le minacce alla loro vita! Da
noi, invece, per i boschi delle nostre montagne, si deve dire che non saranno
certo gli alberi di natale a stravolgere l'ambiente.
E mi spiego.
Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine hanno
verso la punta un sigillo del Corpo Forestale che ne garantisce la
provenienza. Per lo pi vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni
abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto- dieci anni
una entrata extra per il suo magro vivere. Vengono pure utilizzati per alberi
natalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessit colturali. Si sa che
la migliore foresta, la pi utile all'uomo sotto ogni aspetto, non la foresta
vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e
coltivata. Lo dicono da tempo l'esperienza e gli studiosi che tutta la vita
hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna
appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da
opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il
ritorno del Sole e la nascita di Cristo.
Qui, al confine con il mio brolo, c' un pascolo ai margini del bosco. Nel
corso degli anni ho potuto constatare come va cambiando nell'aspetto. Un
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coperto da pecci, abeti e latifoglie. Il buon legno del pino silvestre, con
l'alburno bianco-rosato e giallino e il durame pi tendente al bruno, varia di
qualit secondo la provenienza: il migliore quello che cresce lentamente nei
luoghi freddi o elevati; di lunga durata, resistente, ottimo per costruzioni
navali ma anche per mobili e oggetti casalinghi. Dai tronchi che non vengono
usati in segheria si ricava cellulosa da carta. Dalla ramaglia un tempo si
otteneva un carbone dolce particolarmente ricercato e usato per la fusione di
acciai speciali. Dagli alberi adulti, quando raggiungono l'et di centocentoventi anni, incisi al piede fuoriesce una resina grassa che, distillata, d
un'ottima acquaragia; dal residuo di questa distillazione si ottiene la pece
greca o colofonia e quella ricavata dal pino silvestre la migliore tra tutte per
impeciare i crini degli archi degli strumenti musicali.
Secondo rilievi fatti nel secolo scorso da Adolfo di Brenger nei boschi
della Stiria, ogni pino adulto produce tra i tre e i quattro chilogrammi di
resina all'anno; sicch un ettaro di pineta pu dare circa millesettecento
chilogrammi dai quali si ricavano per distillazione trecentocinquanta
chilogrammi di olio di trementina e circa mille di colofonia. Dopo essere stata
cos utilizzata, la parte del tronco scortecciata e che restava impregnata di
resina, era un prezioso legno da teda perch tagliata in asticelle forniva
facelline da usarsi al posto delle candele o delle lucerne e, un tempo, ne
veniva fatto grande commercio.
Ricordo come cinquant'anni fa in Albania, nei mercati di Tirana e di
Koriza, i montanari scesi dai villaggi vendevano per poche lire i mazzetti di
queste stecche di pino silvestre che gocciolavano ragia; e come nei boschi
vedevamo ogni tanto un pino scavato nel tronco, da dove anche noi abbiano
poi imparato a staccare le tede per illuminare i ricoveri. Bruciando il legno di
quest'albero, disposto in cataste simili a quelle delle carbonaie ma con pi
cura, si raccoglieva il catrame che colava in una fossa o in un recipiente
sottoposti; questo distillato serviva per le vele delle navi e per i cavi.
Raffinato o ricotto dava altri preziosi prodotti come la pece rossa che si
usava spalmare nell'interno dei vasi vinari, o quella pece bruna che in
Germania adoperavano mista a creta per impeciare le botti da birra.
La pece navale era indispensabile per calafatare le navi; la pegola
serviva a calzolai e sellai per impegolare lo spago da cucito. Marziale scrive
che la pece rabulana veniva aggiunta al vino per renderlo pi abboccato. Il
pino silvestre pure pianta medicinale: le gemme, gli aghi e i ramuli
contengono principi balsamici attivi e disinfettanti; e se volete fare un bagno
veramente salutare mettete nell'acqua molto calda della vasca un bel mazzo di
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tempo ha fatto l'humus con l'aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi
faggi ci dnno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi
da notte di Natale.
L'albero del faggio monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli
dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti
maturano alla fine dell'estate; sono a cupola chiusa, un po' spinosa, a quattro
valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi
circa un centimetro e mezzo. L'areale di questa latifoglia tipicamente
oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al Mar Nero e dalle Alpi
Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e
sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le
caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un'area
fitoclimatica particolare: il "Fagetum" che sta tra il pi caldo "Castagnetum" e
il pi rigido "Picetum".
Le foreste possono essere pure ma anche miste con l'abete bianco e altre
latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i
terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualit di crearsi le condizioni
vitali, il terreno della faggeta uno tra i pi fertili. Il faggio si costruisce e
conserva la foresta!
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capifamiglia.
Discutevano delle rendite dei beni comuni, del governo dei boschi e dei
pascoli; trattavano i rapporti con la gente della pianura e con quella al di l
delle montagne; ma anche con i preti che avevamo s l'obbligo di mantenere,
ma che a loro volta erano scelti e non dovevano interessarsi della cosa
pubblica, ma solo della cura delle anime.
Dopo qualche secolo venne costruita la chiesa in tronchi e il "Palazzo
della Reggenza dei Sette Confederati Comuni", rustico e severo ma non sacro
come il tiglio: la "linta delle vicinie", che vide incendi, invasioni, pestilenze
ma anche balli e feste, la vita, insomma, della mia gente. Sopravvisse persino
alla Grande Guerra che in piedi non aveva lasciato nemmeno una casa.
Quando tornarono nel 1919 trovarono tutto distrutto, ma non la nostra "linta"
che, bench ferita, in quella primavera sopra l'odore della morte mandava il
suo mormorio e il suo profumo.
Ora non c' pi: avevano detto che minacciava di crollare sopra le case
che stavano intorno. Su quel brolo hanno costruito un condominio e siamo
rimasti in pochi a ricordarla. Il fusto del tiglio slanciato e diritto, nei luoghi
freddi ho osservato che si dirama in fusti secondari; la corteccia, nei soggetti
giovani, liscia, di colore grigio-bruno; con gli anni si fessura screpolandosi
in senso verticale e assume un colore pi scuro.
Negli esemplari isolati l'impalcatura dei rami, che sono robusti e di colore
pi carico del tronco, non molto discosta dal suolo; nel bosco, invece,
come in quasi tutti gli alberi, si raccoglie verso l'alto. La chioma folta,
rotondeggiante, armonicamente disposta. Le foglie, che misurano quattro per
sette centimetri, sono caduche, cuoriformi, con un apice appuntito, seghettate
ma liscie alla base, con le nervature ben marcate, di colore verde denso, pi
chiare e coperte da leggera peluria nella pagina inferiore.
Ma che colore giallo-dorato ci donano all'autunno! Il cerchio d'oro del
tiglio / come un serto nuziale, dice Pasternk in una sua poesia. I fiori
sono ermafroditi, di un bel colore bianco-ambrato che la pioggia estiva rende
luminoso; il loro peduncolo fissato a una brattea oblunga; i sepali sono a
corolla e i cinque petali contornano numerosi stami. Fioriscono verso la met
di luglio e nei giorni favorevoli per clima e umidit sono a uno a uno
perlustrati e bottinati da miriadi di insetti. Ancora Pasternk in "Un viale di
tigli" scrive: ... Vengono i giorni della fioritura / e i tigli in una cinta di
steccati / diffondono insieme con l'ombra / un irresistibile aroma. / La gente
che passeggia sotto i tigli / col cappello d'estate vi respira / questo forte odore
inesplicabile, / ma familiare all'intuito delle api...
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E tanto profumato il miele di tiglio che non da tutti gradito per il forte
aroma. I frutti sono ovali, di circa un centimetro, legnosi; i semi contengono
un olio simile per aspetto e sapore a quello dell'oliva. Il legno bianco
avorio, brillante e quasi sericeo, omogeneo e tenero; non si scheggia e per
questo si pu tagliare in ogni senso: pi di ogni altro si presta ad essere
scolpito.
E poi i tarli non lo intaccano. Di legno di tiglio sono gli zoccoli olandesi,
cornici intagliate, ornamenti di mobili, altorilievi. Il carbone che si ottiene da
quest'albero un ottimo "carboncino" per disegnare e, un tempo, era
componente della polvere da sparo. Tra i rami pi grossi e nelle biforcazioni
degli alberi adulti, alle volte una macchia di verde pi compatta denota la
presenza del "Viscum album", caro a noi ragazzi di un tempo quando con il
"vischio di Cles" facevamo le panie per catturare gli uccelli.
Si racconta che agli inizi del tempo la ninfa Filira, figlia di Oceano, si
giacque con Crono padre di Zeus; colti sul fatto da Rea che assieme a Crono
sovraintendeva al pianeta Saturno, Crono si tramut in stallone e galopp
via. Da Filira nacque un esserino mezzo uomo e mezzo cavallo; ma poich
allattandolo le faceva ribrezzo chiese agli dei di diventare un'altra e cos fu
trasformata in "Philyra": tiglio. Il piccolo mostro, crescendo, divenne il
saggio centauro Chirone, che si dimostr pure grande medico, ma questo
dono gli era venuto dalla madre "Tilia" piena di virt medicamentose date a
lei in cambio del latte.
Per Plinio, invece, il tiglio uno degli alberi felici perch dalla sua scorza
messa a macero si ricavavano le lunghe fibre con cui si tessevano i nastri per
legare le corone dedicate a Venere e le bende per fasciare le ferite dei
guerrieri. Il tiglio era anche chiamato albero di giustizia perch attorno ad
esso si riunivano i saggi a sentenziare.
E se passate dalla Val di Fiemme non mancate di andare al Parco della
Pieve di Cavalese: tra i secolari tigli, in anelli circolari, ci sono i sedili
monolitici dove le autorit della valle prendevano posto durante le assemblee
per amministrare la giustizia. Ancora oggi l'antica opera conosciuta come
Banco de la Resn.
(Ma perch quest'anno i tigli del mio brolo non avevano profumo? Forse
per l'inverno senza neve, la primavera fredda, l'estate troppo piovosa? O per
qualche causa provocata dagli uomini?)
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antica foresta.
Sono arrivati sino a noi perch soggetti a un misterioso culto? Un amico
lettore mi ha segnalato che in una costa scoscesa, alta sopra il mare di
Liguria, dove la Dolomia del Trias erosa dalle acque assume forme
fantastiche, andando un giorno alla ricerca di fossili, ha scoperto tra le cavit
di una roccia un minuscolo bosco di tassi: sono una trentina che vivono con
qualche goccia d'acqua su pochissima terra e non raggiungono l'altezza di
quaranta centimetri. Quando si arrampica tra quelle rocce per le sue ricerche,
non manca mai di andare a visitare questo miracolo della natura e un giorno
port con s il moncone di uno di questi alberelli spezzato da una pietra
caduta dall'alto.
Giunto a casa ha voluto sezionare il tronco, lucidarlo e, con l'aiuto di una
lente, contargli gli anelli: dimostrava di avere centocinquanta anni!
Nell'era Terziaria, quando l'uomo non era ancora apparso sulla Terra e
stavano formandosi le grandi catene montagnose, il tasso era albero molto
diffuso e si sono trovati i suoi resti fossili. Attualmente in Europa occupa
un'area che va dalla Scandinavia al Mediterraneo e lo ritroviamo in Algeria a
occidente e nel Caucaso a oriente. Il genere "Taxus" monotipico e le razze
geografiche che vivono in America settentrionale e in Asia sono tutte simili
alle nostre.
Non albero di grande altezza, raramente supera i quindici metri; certe
volte si presenta come arbusto. Il tronco si ramifica a poca uscita dal suolo; la
chioma di un intenso e immutabile colore verde cupo, espansa e a corona
leggermente ovale. Il tronco, sempre tozzo rispetto all'altezza, ha la corteccia
di colore rossastro come pure i rami pi grossi; con il passare degli anni il
ritidoma si arriccia e si stacca a placche o a striscie. I rami principali sono
grossi e alterni, i rami secondari piuttosto corti e a volte penduli; i ramuli
sono verdi, le gemme piccole e squamose. Le foglie assomigliano un po' a
quelle dell'abete bianco: sono lineari, appiattite, un poco falcate, acuminate
ma non pungenti perch tenere; sono lunghe dai quindici ai trenta millimetri e
inserite a spirale tutt'intorno sui rametti; verde cupo sulla pagina superiore,
pi chiare e tendenti al giallo nell'inferiore. I fiori maschili e femminili sono
portati da individui diversi (pianta dioica) e fioriscono sul finire dell'inverno;
i fiori maschili sono numerosi in amenti gialli inseriti sotto i rami, i femminili
si distinguono dalle gemme foliari per il colore che tende pi al giallo che al
verde. Il frutto un arillo composto da una parte carnosa fatta a coppa che in
autunno diventa di un bel rosso laccato contenente un seme ovoide di colore
bluastro che matura nell'anno.
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nutrirsi. (Mai ne avevo visto cos tanti sulle quattro betulle del mio brolo
come lo scorso inverno).
La betulla pu raggiungere e superare i venti metri d'altezza, ma non
molto longeva rispetto agli altri alberi perch a cento anni da considerarsi
gi vecchia. Il fusto cilindrico ed elastico, ma quando la neve o il vento lo
spezzano pu anche ramificarsi; la corteccia sottile, bianco argento, e il suo
colore dovuto a una sostanza, la "betulina", che impregna il ritidoma;
qualche striscia orizzontale pi scura pu interrompere il bianco e, verso la
base, nelle piante adulte, si ispessisce e si screpola assumendo un colore
giallastro. I rami principali, tendenti verso l'alto, e i rami piccoli penduli,
dnno alla betulla quell'immagine gentile, elegante e leggera.
Dalle sue gemme viscose le api raccolgono un liquido gommoso per
comporre la propoli: quella specie di resina da loro arricchita di enzimi e
forse antibiotici che usano per rivestire all'interno le loro case (e che in
soluzione alcolica io uso per disinfettare e fare cicatrizzare in fretta le piccole
ferite). Le foglie sono di un colore denso e brillante nella pagina superiore,
pi tenue e un poco attaccaticce sul rovescio; hanno forma romboidale acuta,
seghettate lungo i bordi pi lunghi, e sono inoltre cibo ricercato da molti
insetti che, in certi anni, riescono a denudare le ultime crescite dei rami. Le
radici della betulla sono piuttosto superficiali, ramificate. Dalle mie parti,
quando c'era carenza di funi, venivano usate come stroppo. Il legno
omogeneo, elastico e docile alla lavorazione, di colore bianco avorio e senza
distinzione tra durame e alburno; ma prima della messa in opera deve essere
ben stagionato perch soggetto a forte retrattilit.
Ed peccato che sia anche soggetto al tarlo! Sin dai tempi pi remoti
usato e apprezzato per particolari lavori: cornici, ornamenti per carrozze e
navi, mobili, bastoni da passeggio, oggetti vari da ricavarsi al tornio. Nei
Paesi nordici la parte basale del tronco, il colletto, molto ricercata per
cavarne mobili di particolare bellezza.
Serve anche nella preparazione di compensati resistenti e leggeri, ancora
oggi usati nell'industria aeronautica, e per fabbricare sci da fondo per nevi
secche. (Ancora conservo, accanto a quelli di materiale plastico forti e sottili,
i miei vecchi sci di betulla come caro cimelio e magari un giorno di
particolare malinconia ci infiler i piedi per ritrovare la giovinezza). In
Russia, dal legno di betulla, sono anche ricavati bicchieri, vasi, mestoli, tazze,
cucchiai e quelle bellissime scatole laccate e mirabilmente dipinte dai famosi
grandi artigiani di Palech. Dalla corteccia, ricca di tannino e di betulina, si
ottiene da tempo immemorabile quella particolare concia per pelli che d a
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peppole, tordi e ciuffolotti. Era questa una ragione per cui accanto alle
contrade, se non accosto a ogni casa di montagna, c'erano sempre alberi di
sorbo: attirati dai rossi frutti alle soglie dell'inverno arrivavano
immancabilmente gli uccelli frugivori, ed era facile cos catturarli, o con il
fucile o con le trappole o con il vischio. E se questa usanza oggi ci pu
apparire come cosa barbara, occorre per capirla rifarsi a quei tempi quando
pochi erano i denari, rara la carne e arretrata la fame: una teglia di uccelli con
tanta polenta era festa per tutti.
Ma noi, ragazzi di paese, con le bacche di sorbo, che seppure acidule e
aspre molte volte mangiavamo, facevamo anche giochi. Dopo aver vuotato
un ramo di sambuco usavamo questo come cerbottana per lanciarci a tutto
fiato le bacche di cui prima, arrampicati sugli alberi, ci eravamo riempite le
tasche dei calzoncini. Le ragazze, invece, le usavano come granate per farsi
braccialetti e collane. Ed erano affascinanti con quei monili attorno ai polsi e
al collo.
Al genere "Sorbus", della grande famiglia delle "Rosacee", appartengono
oltre cento specie, e tutte, anche queste, sono distribuite nell'emisfero
boreale. In Europa partono dall'area mediterranea per arrivare fino alla gelida
Islanda e sulle nostre montagne si spingono fino ai limiti della vegetazione
arborea. Sono alberi di media grandezza, alti dai quindici ai venti metri e che
possono raggiungere i cinquanta centimetri di diametro. Qualche volta
assumono anche la forma arbustiva. Il domestico pu arrivare anche a cinque
secoli di vita, meno le altre specie. Si adatta ai climi pi diversi e cresce
spontaneo sia tra i boschi di latifoglie che di aghifoglie; nelle radure e sulle
pendici dei monti. Ama i posti solatii, ma il "Sorbus aucuparia" cresce bene
anche all'ombra. Il fusto snello, cilindrico, la chioma piuttosto rada
slanciata l dove le piante sono accostate ad altre; pi arrotondata, larga e
densa nei soggetti isolati. La corteccia grigio-cenere, lucente e liscia, con il
tempo si scurisce e si screpola lungitudinalmente verso il pedale. I rami sono
un poco pi scuri del tronco, elastici nel sopportare il peso della neve e
l'abbondanza dei frutti; i ramuli sono invece pelosi, le gemme scagliose e
cigliate. Le radici sono estese, le barbe si allungano in distanza e il fittone nel
profondo del suolo. Non tutte le foglie delle varie specie di sorbo sono
uguali: quelle del "Ciavardello" ("Sorbus terminalis") e del "Farinaccio"
("Sorbus aria") si assomigliano perch picciolate e ovali, con lobi pi
seghettati nel "Ciavardello"; quelle del "Sorbo degli uccellatori" sono
composte con foglioline imparipennate, pelose da giovani, lanceolate. Il
legno del sorbo per la sua finissima grana, si presta molto bene a lavori di
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E della grande selva solo poche isole sono rimaste a ricordarla. Il suo
legno tra i pi pregiati, ha l'alburno bianco-avorio e il durame pi scuro, i
raggi midollari sono evidenti; duro, compatto, molto richiesto fin
dall'antichit per le costruzioni navali, pavimenti, mobili, rivestimenti. Le
botti d'invecchiamento per i vini pi pregiati e per i distillati sono fatte con il
legno di "farnia", e anche il famoso "rovere di Slavonia" proviene dalla
farnie della Jugoslavia. Ma con le farnie si fanno anche le traversine
ferroviarie e palafitte durevoli pi di ogni altre. Bruciando, il suo legno d
una fiamma bella chiara; il carbone di farnia era richiesto per la fusione
dell'oro. Le ghiande erano privilegiate tra tutte quelle della famiglia delle
querce perch poco tanniche e dolci al palato; fino a non molti anni fa erano
cibo d'emergenza nelle carestie.
Il "Rovere" ha portamento pi regolare della farnia e lo ritroviamo dal
Danubio ai Pirenei e fin su in Inghilterra. Pi che le pianure umide, ama i
fianchi delle montagne solatie e si alza fin oltre i millecinquecento metri
d'altitudine. A differenza della farnia le sue foglie hanno uno o due paia di
lobi in pi; a volte si consorzia con il faggio e il carpino. Il suo legno pi
pesante ma pregiato al pari di quello della farnia. Il "Leccio" bello, forte e
gentile; il suo verde cupo persistente un elemento di grande ornamento
paesaggistico lungo le rive del Mediterraneo e nell'Italia insubrica. Non arriva
a grandi altezze perch raramente supera i venti metri e il suo tronco non
raggiunge le circonferenza delle farnie e del rovere; a volte assume anche
forma cespugliosa. Le foglie si rinnovano ogni tre, quattro anni, sono dure e
spesse, oblunghe, dentate. Il legno del leccio difficile a lavorarsi perch
duro e compatto, elastico; ma bene si presta per i lavori del carradore o parti
di macchine soggette a forti sollecitazioni, come i torchi o i meccanismi dei
mulini.
Se molti grandi pittori hanno dipinto querce, se musicisti hanno cercato di
capire la voce delle fronde, la pi bella descrizione di una quercia quella
che fa Lev Tolstj in "Guerra e pace", e che il principe Andrj incontra sulla
strada per Rjazn' una mattina di primavera del 1809: ... Sul margine della
strada c'era una quercia. Probabilmente dieci volte pi vecchia delle betulle
che formavano il bosco, era dieci volte pi grossa e due volte pi alta di ogni
betulla. Era un'immensa quercia che aveva due braccia di circonferenza, con i
rami spezzati certo da molto tempo e la corteccia screpolata, coperta da
antiche ferite. Con le sue enormi braccia e le sue dita tozze, divaricate senza
simmetria, essa si ergeva come un vecchio mostro, irato e sprezzante, in
mezzo alle sorridenti betulle. Soltanto i piccoli abeti morti, e sempre verdi,
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che erano sparsi per il bosco, si univano alla quercia e non volevano
sottomettersi al fascino della primavera e non volevano vedere n la
primavera n il sole.
Questa visione suscita in Andrej amare considerazioni sulla primavera,
sulla vita, sull'amore: ... E tutta una nuova catena di pensieri sconfortanti,
ma maliconicamente dolci, sorse nell'anima del principe Andrej a proposito
della quercia...
Delle querce e delle loro virt cos scriveva il Mattioli: ... Ogni quercia
ha virt costrettiva, e massime quella corteccia sottile che tra la grossa
corteccia, e i legno: e cos medesimamente quella pellicina sotto al guscio
delle ghiande. Dassi la decottione loro nei flussi disenterici, e stomachali e
allo sputo del sangue. Mettonsi trite ne i pessoli de i luoghi secreti delle
donne per ristagnare i lor flussi. Vagliono mangiate i morsi de gli animali
velenosi. Tenute le foglie fresche della Quercia sopra la lingua, curano gli
ardori dello stomaco. L'acqua piovana, che resta nelle concavit delle quercie
vecchie, sana lavandosene, la rogna ulcerata...
Per le loro qualit e per la loro maest le querce erano venerate dagli
uomini sin dai primordi della civilt: erano l'Albero, e le loro foreste pi
belle consacrate alle divinit e per questo intangibili. Dalle querce, secondo i
poeti, erano nati anche certi uomini: Evandro, fondatore della rocca romana,
racconta a Enea (Virgilio, "Eneide", 8, 314-18) che i primi abitatori del Lazio
erano "gensque virum truncis et duro robore nata". Anche le Ninfe e le
Driadi, racconta Callimaco, sono nate dalle querce e insieme agli uomini
esultano quando la pioggia le ristora. Questa pioggia era impetrata dai
sacerdoti etruschi agitando verso il cielo fronde di quercia.
La farnia detta anche "Albero di Giove" e a lui consacrata. Era gi
simulacro di Saturno e la mitologia spiega che al tempo in cui gli uomini si
cibavano con la carne dei loro simili, Giove, per far cessare questa crudelt,
indic a loro la quercia invitandoli a cibarsi di ghiande. Da quel giorno fu
dedicata a lui e per le sue ghiande dichiarata "albero felice".
Tanto erano sacre le foreste di querce che Tacito racconta che persino i
soldati di Cesare, in Gallia, avevano timore ad affrontarne il taglio: credevano
che se avessero usato le scuri contro quei sacri tronchi, ne sarebbero uscite
lacrime e sangue e i colpi si sarebbero poi riversati contro di loro sui campi
di battaglia. Le querce furono anche le prime chiese perch sotto di esse si
radunava il popolo per porgere preghiere alle divinit, ma anche a fare diete e
assemblee, ad apprendere la sapienza dagli anziani.
Queste usanze nei paesi del Nord durarono fin verso la fine del
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Medioevo.
Dalle mie parti, al principio di questo secolo c'era un luogo denominato
"Kan schn Oachen" (Alle belle querce) nella localit dedicata alla profetessa
Ganna. E dalle querce, con un falcetto d'oro, i sacerdoti Druidi recidevano il
vischio, seme degli dei, per ornare i tori sacrificali.
Quel vischio che ancora oggi si usa donare agli amici all'inizio dell'anno, e
viene appeso sull'architrave della porta di casa come propiziatorio, e sotto
questo gli innamorati si scambiano il bacio augurale.
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come sono per fabbricare culle (come quella accanto al letto di mia madre,
dove abbiamo dormito io e i miei fratelli fino ai due anni), mobili, cestini,
panieri, setacci, colini, inoltre per legare i tralci delle viti e, persino come
corda dai legnaioli.
Questo tipo di salice vive in tutta l'Europa centro- meridionale, sulle
montagne si spinge fin oltre i mille metri. Il carbone che si otteneva entrava
nella composizione della polvere pirica (e forse lo si usa ancora per i fuochi
d'artificio); il suo legno non di grande pregio ma ottimamente si presta per
la fabbricazione degli zoccoli. Il "salice fragile" assomiglia al salice delle
pertiche ma, lo dice il suo nome, ha i rami molto pi fragili e le gemme e le
foglie sono un poco vischiose. Il suo areale di espansione dal Mediterraneo
raggiunge la penisola scandinava e l'Asia occidentale; la sua funzione quella
di consolidare i terreni alveali e se ha poco valore tecnologico ne ha invece
moltissimo di ambientale.
Il "salice delle ceste" invece un piccolo alberello che il pi delle volte si
presenta come un arbusto alto fino a sette-otto metri; vive sui terreni di ripa
che periodicamente vengono inondati dalle piene. La sua corteccia grigia e
liscia e con l'et si sfalda mettendo in luce la nuova corteccia giallo-bruna. I
ramuli sono nudi, flessibili e robusti.
Dalle rive europee dell'Atlantico questo salice raggiunge il Pacifico
all'altezza del Giappone (compreso) e tutti i popoli dentro quest'area da
sempre lo usano per fare ceste da trasporto: per soma, per naviglio, per slitta,
per carro, e graticci per sostegni e recinti.
Ma anche il "Salix viminalis" da ricordare, se non altro perch diede il
nome al famoso colle di Roma: un arbusto o alberello che fornisce vimini
lunghi anche quattro metri, tenaci e non ramificati, che vengono impiegati
con la scorza. Ho descritto sommariamente questi pochi, tra la ventina o pi
di specie italiane e forse gli oltre cinquanta ibridi. In comune hanno tutti
gemme coperte da una sola squama a forma di cappuccio, le foglie semplici e
alterne, lanceolate o ellittiche, brevemente picciolate, a margine leggermente
dentellato, con la pagina inferiore quasi sempre pi chiara. I fiori sono
unisessuali su individui distinti (piante dioiche), in amenti penduli oppure
orizzontali di grigio-giallo porporino, i fiori femminili tendono al verde e in
molte specie sia gli uni sia gli altri compaiono prima delle foglie.
Fioriscono da febbraio a giugno, ma i "glaciales" (sulla Grivola sono stati
trovati a 3400 metri! ) anche in agosto. Il frutto matura pochi giorni dopo
l'apparizione del fiore e il piccolissimo seme, munito di un soffice pappo,
viene portato dal vento anche a grande distanza. Con le fronde del salice,
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raccontano gli antichi poeti, si adornavano le cune dei bambini appena nati, e
la mitologia ci dice che Giove e Era furono da Rea partoriti sotto un salice e
tra questi rami nascosta la loro culla perch il padre Crono voleva divorarli
affinch non lo spodestassero. Furono allattati dalla capra Amaltea che dal
salice ricavava il suo nutrimento, ed da allora che le capre sono golose di
foglie e di ramuli di salice; Linneo, poi, classific "Salix caprea" il salice di
montagna, o salicone, quello, appunto, bottinato dalle mie api. Il Mattioli, nei
"Discorsi", tra le altre cose riferite al salice, scrive che certi parti di
quest'albero: ... tolte sole con acqua non lasciano ingravidare le donne.
Ristagna il seme, bevuto, lo sputo del sangue. Il che fa parimente la sua
corteccia. La cui cenere macerata in aceto, guarisce i porri, e i calli, che s
impiastrano con essa. Il succo delle frondi, e della corteccia cotto con olio
rosado in un guscio di melagrano, giova i dolori delle orecchie. La
decottione d'ambedue giova per via di fumento alle podagre, e mondifica la
farfarella. Cogliesene il liquore, intaccandogli la corteccia nel tempo ch'ei
produce il fiore: e ritrovasi poi congelato nelle intaccature: utile per tutti gli
impedimenti, che offuscano la vista. Ma anche curioso sapere che: ...
Bagnansi con utilit grande nella decottione del salice, messa in una tina, cos
calda quanto basta per far bagno, coloro che cominciano, diventare gobbi.
Imper che fa risolvere questo bagno meravigliosamente i tumori. E
conclude dopo molti altri consigli: Et per si potrebbe quando pur fusse
tale, usare anchora in molte altre cose.
In vecchi libri leggo che dal salicone, in Russia e in Germania, si ricavava
una sostanza per conciare le pelli e colorare le stoffe, e ancora che il legno di
salice quando fradicio e lo si guarda nell'oscurit, per un movimento
molecolare intimo diventa fosforescente ed causa talvolta di spavento ne'
fanciulli che non conoscono simile propriet.
Se il salice bianco, simbolo di sterile castit, era dedicato a Iside, il salice
piangente era dedicato a Giunone, e come albero lunare era pure votato a
Ecate.
Per salvaguardare e governare i vincheti (famosi quelli di Minturno) ai
tempi dei romani vennero istituiti i "salictarii", guardiani dei salici; la legge
"Aquilia", emanata verso l'anno 467 di Roma, prevedeva pene e il
risarcimento dei danni per chi avesse tagliato un "salicale" immaturo o, se
tagliato maturo, guastate le ceppaie.
Anche lo Statuto di Sarzano, emanato a Parma nel 1529, proibiva il taglio
dei salici lungo i fiumi e i torrenti per la virt che quest'albero ha di legare il
terreno.
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Dal salice ha pure origine un farmaco tra i pi usati e utili ancora oggi: si
ricavava pestando nel mortaio la corteccia e serve per le febbri d'ogni genere
e come analgesico: la silicilina con i suoi derivati che ora si ottengono in
sintesi.
Umile e generoso albero quanto ti debbono gli uomini! Questi uomini che
ti passano accanto dentro le loro veloci automobili o in treno.
E nemmeno ti notano.
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nell'acqua di neve! Si dice che il ciliegio sia originario dall'Asia; sar forse
per questo che lo ritroviamo nelle antiche poesie cinesi e che in Giappone,
per gli scintoisti, oggetto di venerazione e culto, tanto che alla sua fioritura
riservata una grande festa: quelle bianche nuvole di petali rappresentano la
felicit effimera ma anche la beatitudine eterna.
Nella nostra vecchia Europa il ciliegio selvatico indigeno; nell'antica
Grecia si parlava di ciliegio domestico sin dai tempi di Alessandro; Erodoto,
nel Libro Quarto della sua "Storia", racconta che oltre il territorio degli Sciti
si trova un'ampia regione ai piedi di alte montagne dove gli abitanti si cibano
del frutto degli alberi: ... Pontico si chiama l'albero del cui prodotto si
cibano; ha le dimensioni di una pianta di fico, pi o meno, e produce un
frutto grande come una fava e che ha anche il ncciolo; quando maturo lo
filtrano attraverso panni e ne cola un succo denso e scuro che chiamano
"aschi"; se lo sorseggiano e lo bevono mescolato al latte... Secondo Plinio, il
grande buongustaio Lucullo, reduce dalla guerra contro Mitridate, port a
Roma le "aproniane", le nostre marasche, che in seguito furono esportate fino
alla Britannia.
A quel tempo erano gi conosciute le "duracinae" che venivano coltivate
fin sul Reno e in Belgio. I ciliegi appartengono alla grande famiglia delle
Rosacee, piante dicotiledoni con numerosissime specie sia erbacee che
legnose, distribuite in tutto il mondo. Il genere "Prunus" conta circa duecento
specie, ma dal ciliegio montano, "Prunus avium" L., che derivano le tante
"cultivar" per la produzione dei frutti. E' stato denominato "avium" perch
quasi tutti gli uccelli sono ghiotti delle sue drupe e anche perch da loro che
viene disseminato su larghe aree: il ncciolo che ingeriscono con la polpa
viene espulso con le feci e cade ai piedi degli alberi dove gli uccelli vanno ad
appollaiarsi per dormire la notte o per digerire. Nascer, e in pochi anni
diventer un alberello di bell'aspetto. Potr raggiungere un'altezza di
venticinque metri e il diametro di quasi un metro, diritto di fusto e non molto
ramificato. Si espande se isolato. La corteccia, formata da vari strati, bruno
chiara, ma con gli anni diventer pi scura e screpolata; le radici sono molto
estese, fittonanti, dalle pi superficiali fuoriescono numerosi polloni. Le
gemme sui rami sono raccolte a mazzetti, di colore nerastro, con le squame
orlate di chiaro. Le foglie alterne, ovate e lunghe fino a quindici centimetri,
dentate e con le nervature bene evidenti; i fiori sono ermafroditi, in fascetti
corimbosi penduncolati con la corolla a petali bianchi rotondato-smarginati.
Il frutto la bella drupa che tutti sanno; distillata d limpido "kirsch". Il legno
del ciliegio selvatico di meraviglioso colore rosato, lucido, elastico e
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particolarmente adatto per i lavori dei bravi artigiani falegnami (come sono
belle le rustiche credenze di ciliegio!). L'areale dove vegeta occupa una vasta
zona eurasiana; vive spontaneo nelle foreste di latifoglie e in certe localit si
arrampica fino a millesettecento metri d'altitudine. Ama le pendici solatie e i
terreni calcarei. D'autunno il suo fogliame diventa una brillante orifiamma
che illumina i boschi pi scuri.
Sar per tutto questo che attorno alla casa ho voluto tre ciliegi domestici e,
l'anno scorso, ho piantato diversi polloni di marasco selvatico? E in un mio
racconto ho voluto scrivere di un ciliegio selvatico cresciuto sul tetto di
paglia di una povera casa di montagna?
L'avevo sentito raccontare e poi ebbi occasione di vederlo in una
fotografia del 1915, prima che la guerra abbattesse casa e ciliegio.
Ma uno, per, nelle vicinanze rimasto; e il vecchio Titta, che ora avrebbe
pi di cento anni, diceva di ricordarlo quando lui era ancora bambino. E'
tutto contorto, scorticato, pieno di schegge di granata e di pallottole, eppure
fruttifica ancora e anche quest'anno butter i suoi fiori, anche se, quando le
ciliegie saranno mature, pi nessun ragazzo salir tra i rami a impiastricciarsi
mani, viso e camicia di rosso e dolce succo. La vecchia casa contadina vuota
e abbandonata ora in vendita, al suo posto costruiranno un condominio per
i villeggianti e anche il vetusto ciliegio sar abbattuto per far largo alle
automobili.
Con lui se ne andr un pezzo di storia, della nostra giovinezza.
Come nell'ultima scena del "Giardino dei ciliegi", dopo che Ljubov'
Andreevna costretta a vendere il ciliegeto alla speculazione, prima di
abbandonarlo, abbracciata al fratello Gaev, mormora singhiozzando: Mio
caro, dolce, meraviglioso giardino... Vita mia, giovinezza mia, felicit mia.
Addio!... Addio.
E il vecchio maggiordomo Firs rinchiuso e dimenticato dentro la casa
sente in lontananza la scure che si abbatte sugli alberi.
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