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Il linguaggio dell'arte romana

di Tonio Holscher
Archeologia
Università degli Studi di Salerno
29 pag.

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Il linguaggio dell’arte romana


Tonio Hölscher
Capitolo secondo
L’esempio greco: modello di comportamento, oggetto della formazione o
componente della civiltà imperiale?

A parte rare eccezioni, le opere d’arte romana corrispondono talmente


poco all’ide moderna di un’«arte» creativa, che la ricerca ha dovuto fare
un enorme sforzo teoretico per comprenderle. Questo si è rivelato però,
almeno da un lato, un vantaggio: mentre l’arte greca suscitava facilmente
l’impressione di una immediata e universale familiarità, l’arte romana è
sempre stata considerata come una posta a distanza superabile solo tramite
un ponte intellettuale.
Alla base di ciò stava l’istanza di originalità, che veniva posta
assolutamente, ristretta cioè alla sola forma artistica, e isolata così dal suo
contesto storico concreto. Collegata ad essa era una concezione assoluta
dell’individualità, riferita non solo a singole persone, ma anche a interi
popoli: l’originalità doveva garantire il carattere autonomo della
«romanità». In tal senso «greco» e «romano» divennero una coppia di
antitesi polare.
Se prima quest’arte era stata considerata di rilevanza secondaria a causa
dell’imitazione dello stile greco, ora era importante nonostante questo
temporaneo straniamento. In entrambe le prospettive, del tutto antitetiche,
si veniva a perdere dunque di vista un aspetto così rilevante dell’arte
romana quali le sue radici greche.
Ne conseguì che la ricerca si limitò in maniera unilaterale a quelle opere e
a quelle classi di opere sentite come particolarmente «romane»: il ritratto
(soprattutto quello repubblicano e tardoantico), il rilievo «storico»
(specialmente di età flavia e traianea, ma anche quello di arte «popolare»),
e alcuni settori dell’architettura.
Senz’altro non è molto produttivo considerare l’arte romana
semplicemente come un proseguimento dell’arte greca; ma d’altra parte il
suo carattere specificatamente «romano» non può essere neppure
individuato in una struttura formale di base autonoma, che costituisca

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un’antitesi commensurabile all’arte greca: esso si può fondare solo su


premesse funzionai e tematiche. La contrapposizione polare tra «greco» e
«romano», dunque, nasconde fenomeni storici decisivi. La
differenziazione e l’affinamento di tali categorie hanno pertanto aperto la
strada alla comprensione scientifica di quelle opere d’arte i cui caratteri
greci sono più marcati, e anche a una più generale discussione sul
fenomeno del classicismo.
La difficoltà di parlare del rapporto tra l’arte romana e i suoi modelli greci
è resa manifestata dai differenti usi del concetto di classicismo. In senso
ristretto esso sta a indicare la ripresa del modello delle epoche «classiche»
dell’arte greca (V e IV secolo a. C.), con un certo risalto per i decenni della
«piena classicità» di Fidia e Policleto. In senso più ampio, il concetto
contrassegna la ricezione dell’arte greca nella sua totalità, dal tardo-arcaico
alla fine dell’ellenismo. Arriviamo così alla domanda su quale fosse il
compito svolto dalla tradizione greca all’interno della civiltà imperiale
romana.

Capitolo terzo
I monumenti: problemi, categorie, tesi

Il modello, che si propone dapprima per la ricezione dei prototipi greci da


parte dell’arte romana sembra essere di una coerente semplicità: ogni
periodo della storia romana avrebbe ripreso quella fase dell’arte greca che
di volta in volta più si avvicinava ai propri ideali stilistici. Così, in età
augustea, il tipo principale del ritratto di Augusto testimonia un ricorso
all’ordinato linguaggio formale «classico» del V secolo a. C., in particolare
a quello di Policleto; in età flavia, invece, il ritratto di Vespasiano si
ricollega alle movimentate forme «barocche» dell’ellenismo.
L’idea che sta alla base di questa concezione è quella di un’arte romana
che si evolve oscillando tra fasi classicistiche e fasi barocche.
«Classicismo» e «barocco» sono intesi in questo caso come «stili
dell’epoca» e poli antitetici in senso wölffliniano (Heinrich Wolfflin,
Capire l’opera d’arte). Essi troverebbero compimento nella selezione
consapevole di stili propri di periodi specifici dell’arte greca; e l’identità di
ciascuna epoca romana verrebbe a esprimersi appunto mediante tale
selezione.

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In sostanza si tratta dell’applicazione, sia pure con mezzi piuttosto


differenti, di un modello elaborato per l’arte greca: uno sviluppo
progressivo secondo stili che caratterizzano ciascun periodo in maniera
fondamentalmente unitaria – con la differenza che ciò non avverrebbe più
soltanto in base a innovazioni autonome, ma soprattutto mediante la
selezione di esempi precedenti.
I diversi periodi romani, dunque, non si distinguono fondamentalmente per
la selezione di schemi di rappresentazione e tipi di figure determinati ed
esemplari, appartenenti ciascuno a un preciso periodo greco. Purtuttavia,
essi sono chiaramente segnati dallo stile delle rispettive epoche, anche se
sotto tutt’altri riguardi, e cioè attraverso l’esecuzione artigianale. Abbiamo
dunque tipi figurativi identici elaborati in stili differenti, e «stili
dell’epoca» affini in tipi figurativi di differente origine storico-formale. Il
concetto di tipologia è qui inteso in senso ampio, comprendendo sia
schemi di rappresentazione generali, come il rilievo mitologico di
paesaggio o la costruzione policletea del corpo umano, sia le rielaborazioni
più o meno consapevoli di determinati modelli, sia le copie fedeli di
singoli originali. Lo «stile dell’epoca», invece, ha per il momento
un’importanza secondaria, come nel caso della struttura della lingua. La
questione sarà qui limitata al suo rapporto con il linguaggio figurativo
tipologico.
Il pluralismo che regnava nella scelta dei modelli era tale da non poter
essere determinato dal gusto unitario di un’epoca intera, né da quello di
vari gruppi sociali, e nemmeno da singole persone (committenti o artisti).
La molteplicità ed eterogeneità dei modelli è infatti presente persino
all’interno di singole classi monumentali, e addirittura in uno stesso
monumento. Il fregio grande dell’Ara Pacis con la solenne processione
dell’imperatore si riallaccia strettamente a quello del Partenone. Due secoli
dopo, e a mille migliaia di distanza, la situazione è immutata: sul grande
monumento di Lucio Vero a Efeso la scena di rappresentanza con la casa
imperiale continua a esser situata nella tradizione del fregio grande
dell’Ara Pacis, mentre la scena di battaglia è nel solco del fregio di
Mantova.
Ancor più dettagliatamente si può analizzare il rilievo con Enea, sempre
dall’Ara Pacis. La scena nel suo insieme si pone nella tradizione delle
rappresentazione paesistiche dell’ellenismo; si può portare a confronto, per
esempio, la raffigurazione di un santuario di Dioniso nel fregio di Telefo
dell’Altare di Pergamo. Per contro, la figura di Enea si avvicina a quelle

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panneggiate greche della piena classicità, che è a sua volta arricchito di


particolari che furono elaborati solo in epoche successive: ne sono un
esempio le pieghe fortemente tese del panneggio attorno alle gambe, che si
ritrovano nel Poseidone tardo-ellenistico di Melo.
Accanto a ciò vi sono i fattori più strettamente stilistici. Lo stile proprio
del rilievo lega saldamente alla superficie personaggi e oggetti, le vedute
frontali e di profilo prevalgono, le figure sono pertanto distintamente
contornate, e tutte insieme si ordinarono in una composizione chiara che lo
sguardo po’ abbracciare agevolmente. Lo stile del rilievo e la lavorazione
del marmo concernono l’intera composizione, a prescindere della
provenienza eterogenea dei singoli elementi. È possibile cogliere qui lo
«stile» augusteo, inteso temporalmente, che si manifesta anche negli altri
rilievi dell’Ara Pacis e che, in quanto tale, si orienta per importanti versi
sui modelli classici.
Nel senso della distinzione operata all’inizio, lo «stile» sarebbe la
manifestazione di uno habitus generale, più o meno consapevole, e scelto
programmaticamente; i tipi figurativi e le formule, per contro, sarebbero
un patrimonio culturale fruibile collettivamente, generatore di un
linguaggio figurativo differenziato.
Nondimeno, il carattere eterogeneo di questo linguaggio è pur sempre
fastidioso. Infatti, se non è sul gusto o sullo stile dei diversi periodi, gruppi
sociali e individui, su che cosa si fonda la scelta dei modelli? È un
passatempo erudito? Un sintomo di mancanza di inventiva? Un
guazzabuglio di forme?
Le opere considerate sembrano favorire un’ipotesi diversa: la scena di
rappresentanza e la battaglia sul monumento di Lucio Vero a Efeso si
collocano in tradizioni formali totalmente differenti; le medesime
tradizioni, però, avevano determinato questi stessi temi già nella prima età
imperiale.
Formulando una tesi provvisoria, si può dire che l’arte romana non ha
regolato la scelta dei suoi modelli in base allo stile o al gusto, bensì
primariamente in base ai contenuti e ai temi. Essa ha di volta in volta
ripreso prototipi diversi da periodi diversi dell’arte greca in funzione di
ambiti tematici differenti. Questi prototipi, orientati secondo il contenuto,
furono mantenuti, in linea di massima, durante tutto il corso della storia
dell’arte romana, indipendentemente dallo stile proprio di ciascun singolo
periodo.

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Capitolo quarto
Le scene di battaglia e la tradizione del pathos ellenistico

Le rappresentazioni romane di battaglie rientrano quasi per intero nel solco


di una tradizione che deve aver trovato numerose realizzazioni nell’arte
ellenistica.
Le raffigurazioni di battaglie dell’età classica – che si trattasse di temi
mitici o di soggetti contemporanei, nella grande pittura come sui vasi –
risolvevano lo svolgersi degli eventi in monomachie [duelli, singole
battaglie]. Ciascun personaggio era posto in relazione esclusivamente con
il suo diretto avversario; i vari gruppi di combattenti non erano invece
legati da nessun rapporto effettivo tra di loro. L’immediatezza
dell’interagire umano che in tal modo viene a esprimersi ben caratterizza i
concetti di individuo e di azione delle prime epoche della grecità.
Nel dipinto, invece, abbiamo un intreccio di azioni di più personaggi posto
all’interno di un ampio spazio continuo: Alessandro e i macedoni
attaccarono da sinistra e si scontrano con il centro dell’armata persiana
mentre un reparto di cavalieri con le lance in spalla aggira i nemici da
tergo, volgendo a destra presso uno stendardo; intanto l’auriga del Gran Re
spinge in fuga in avanti verso destra. In questo intreccio di nessi spaziali
ciascun personaggio ha un suo posto e un suo ruolo.
Uno degli aspetti più pronunciati del quadro, tuttavia, è proprio il gran
numero di destini particolari che vi sono contenuti: n nobile persiano si
interpone all’ultimo momento sulla via di Alessandro che avanza
impetuoso; un altro con estrema fatica tiene pronto per la fuga del Re un
cavallo imbizzarrito, il cavallo di un terzo va a scontrarsi con il carro
regale che sta cambiando direzione; a sua volta questo travolge tre altri
persiani caduti, dei quali uno è capitato sotto gli zoccoli dei cavalli mentre
sugli altri due incombe l’enorme ruota chiodata. Nelle scene di battaglia
classiche vincitori e vinti erano stati legati come non mai in un medesimo
contesto di fato e di azione. L’isolamento delle sorti individuali del
mosaico non contraddice certo alla coerenza complessiva della trama del
singolo all’interno di una totalità superiore assurgesse a soggetto
figurativo, perché si potesse rappresentarne anche l’isolamento. Il nuovo
concetto di spazio è la premessa necessaria per questa distinzione dei
destini individuali.
Tutto lo spettro dei personaggi viene esposto con un pathos finora
inconcepibile. La consapevolezza con cui è introdotto codesto motivo del

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pathos si può vedere dai gesti afflitti dei persiani dietro il carro che, in
quanto spettatori nel quadro, sembrano illustrare il turbamento che deve
provare l’osservatore esterno.
Il dipinto di Alessandro, con la sua rappresentazione di fato e di pathos,
dell’insieme e dei singoli, di potenza e di distruzione, punta con
straordinaria audacia verso il mondo nuovo, sia politicamente che
socialmente e psicologicamente, dell’ellenismo. Ma ciò era possibile in
modo così marcato solo nella pittura: gli altri generi poterono seguirla solo
per singoli aspetti.
Più significativo è il grande monumento per le vittorie di Attalo I di
Pergamo, che rappresentava su un lungo basamento un gran numero di
avversari vinti, galati e persiani. I vincitori non erano compresi nella
rappresentazione: la loro presenza era sottintesa grazie all’impianto in ci il
monumento si trovava, e cioè il recinto sacro di Atena Nikephoros
(«portatrice di vittoria»); essi erano inoltre impersonati nella figura di
Attalo stesso, la cui statua equestre, pur erigendosi su un basamento
separato, costituiva però senza dubbio il punto di riferimento tematico per
le figure dei vinti.
Ancora oltre si spinge il monumento a più figure dedicato da Attalo II
sull’Acropoli di Atene. In esso erano rappresentate le tanto celebrate lotte
di difesa, mitiche e storiche, dei greci contro le aggressioni dei barbari;
senza dubbio, anche in questo caso comparivano solo gli avversari vinti:
Giganti, Amazzoni, persiani, galati. Qui pure – sembra – i vincitori storici,
Attalo II ed Eumene II, cui si riferivano sia i personaggi del mito che
quelli della stria, erano presenti come immagini collocate separatamente;
ma stavolta non si ponevano in relazione al tema della lotta nemmeno
mediante il motivo della statua equestre, bensì erano raffigurati come
colossi stanti e con gli attributi della divinizzazione – quindi da ogni punto
di vista in posizione di superiorità rispetto al resto della scena.
La concezione che sta alla base di queste immagini di battaglia ha una
controparte letteraria nella storiografia drammatizzante (tragica)
dell’ellenismo. Gli storici di questo indirizzo si proponevano di far rivivere
la storia in prima persona ai lettori. Volevano porre gli eventi davanti agli
occhi in maniera viva e credibile, destando pathos, e muovendo a spavento
e ira, a terrore e compassione. Al centro erano gli uomini, mentre agivano
e pativano, di solito isolati, consegnati in balìa della Tyche [dea del fato,
nella sua concezione positiva]. Già dal IV secolo a. C. si possono cogliere
tendenze in questa direzione, e vi sono tappe preliminari anche più antiche;

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un sostanziale rafforzamento si è poi forse avuto grazie all’applicazione


dei principi dell’estetica aristotelica della tragedia alla storiografia.
Già per Aristotele il mezzo principale per suscitare pathos erano «fatti
mortali o luttuosi, come uccisioni a scena aperta, sofferenze intense,
ferimenti, e cose del genere». Duride e Filarco descrissero a forti tinte tali
scene e in particolare il primo dovette raccontarle in ogni loro dettaglio
(κατά μέρος); a un effetto del tutto analogo tende la rassegna di terribili
estini di morte nel Mosaico di Alessandro.
Ma a destare terrore e compassione (φόβος ed έλεος), al di là di una
passione generica, Aristotele consiglia particolarmente la morte violenta
ad opera di familiari e amici. Anche questo tratto fu ripreso dalla
storiografia «tragica»; e vi si aggiunse, anche se Aristotele non lo nomina,
il suicidio. Filarco portò a effetti drammatici e di grande forza psicagogica
la narrazione della morte di Cleomene e dei suoi compagni che, venutisi a
trovare in una situazione disperata, si uccisero fra loro o commisero
suicidio.
La sensibilità per tali situazioni-limite è solo un aspetto dell’attenzione
generale di questo periodo per le imprese e i destini degli individui. Come
una tragedia ha pochi eroi in primo piano, così anche la storiografia
«tragica» incentra su singole personalità il complesso intrecciarsi degli
eventi delle varie epoche.
Aristotele e gli storici volgono lo sguardo specialmente ai sofferenti e ai
soccombenti. La storiografia «tragica» si interessa con una partecipazione
inedita a coloro che sono stati travolti dal Fato e dalla storia. È un punto di
vista che appare distintamente già nel Mosaico; i monumenti pergameni
per le guerre galate non fanno altro che rendere assoluta tale prospettiva.
Per ottenere questi effetti i generi letterari dovevano sforzarsi
particolarmente di raggiungere un’evidenza quasi visiva. Di fatto, già
Aristotele aveva espresso per la tragedia l’istanza di plastica chiarezza
(έυάργεια) e come fine quello di condurre gli eventi come davanti agli
occhi; la storiografia «tragica» – usando i medesimi termini – ne fece poi
il proprio obiettivo principale. Specialmente efficaci erano ritenuti gli
avvenimenti più vicini nel tempo, la cui evidenza veniva rafforzata
«visivamente» mediante una descrizione il più ricca possibile dei singoli
fatti concreti e di motivi secondari sottolineati ad hoc.
L’arte figurativa, ovviamente, non doveva superare ostacoli del genere per
raggiungere la concretezza. Ciononostante, il concetto di έυάργεια acquistò
pregnanza di significato in età ellenistica anche per le rappresentazioni

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figurate e in specie per i quadri con battaglie. È vero che nel Mosaico di
Alessandro, come nelle altre figurazioni di storia, l’avvenimento
contemporaneo è scelto non secondo considerazioni estetiche, bensì in
base alla sua funzione politica; tuttavia è significativo che proprio questo
dipinto, dall’argomento della più stretta attualità, sia probabilmente l’opera
con i dettagli più realistici di tutta l’arte greca. Tale realismo appartiene ai
mezzi con i quali si ottiene l’ έυάργεια.
Come vanno intese queste somiglianze fra storiografia e arte figurativa? Se
si guarda alla funzione di tali generi, si vedranno emergere anche delle
differenze: le immagini di battaglia sono monumenti statali, la cui azione
encomiastica muove esclusivamente dalla prospettiva del vincitore; la
storiografia, invece, conserva di solito un punto di vista più distaccato. È
comunque chiaro che il modo drammatico e «tragico» di rappresentazione
è relativamente indipendente dalle funzioni di comunicazione dei vari
generi. Fenomeni affini si possono individuare in ampi settori della civiltà
ellenistica. Nell’epos storico, per esempio, vi erano tendenze analoghe. E
soggetti mitici sono stati più volte rappresentati in maniera simile nell’arte
figurativa: Niobe e Laocoonte con i loro rispettivi figli, Marsia torturato, i
compagni di Odisseo – tutti patiscono dolorosamente la propria fine ad
opera di un destino spietato e impersonale che li travolge. La storiografia
«tragica» è senza dubbio solo un aspetto particolare, nel campo della
storia, di tendenze più generali nell’ellenismo.
Al di là di questo è però evidente che i principi della storiografia «tragica»
potevano anche esser posti al servizio di rappresentazioni encomiastiche.
Purtroppo non ci rimane abbastanza della letteratura panegiristica
dell’ellenismo per poter giudicare in che misura venissero adottati mezzi di
rappresentazione «tragici» o drammatici.
Anche nei monumenti per le vittorie galate l’attenzione al dolore degli
sconfitti non comporta una limitazione della gloria del vincitore: la sua
condizione non ne viene toccata.
La storiografia «tragica» e i monumenti politici hanno senz’altro funzioni
e finalità differenti, ed è anche probabile che si siano sviluppati senza
influenzarsi reciprocamente in maniera troppo diretta. Li congiungono
tuttavia l’effetto emozionale cui essi mirano, e i motivi e i mezzi formali
impiegati.

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Capitolo quinto
Scene di battaglia: la ricezione a Roma

È in questo senso che la tradizione ellenistica di rappresentazioni di


battaglia è stata accolta a Roma. Un ruolo importante devono aver svolto i
quadri su tavola, noti solo dalle fonti letterarie, che venivano portati nei
cortei trionfali ed esposti nelle piazze e negli edifici pubblici. Secondo
Polibio, questi dipinti dovevano contribuire, assieme ad altri oggetti
esposti nel corteo trionfale, a quell’έυάργεια tanto importante nella
storiografia ellenistica; tale concetto abbracciava, nel III e II secolo, anche e
soprattutto la puntualità circostanziata nella descrizione di luoghi ed
eventi, analogamente a quanto facevano gli storici nell’impiegare la
rappresentazione delle situazioni paesistiche e topografiche come mezzo
per raggiungere l’evidenza. Nel trionfo di Pompeo del 61 a. C. erano
presenti immagini dipinte di un assalto notturno e di come in tale
occasione venne mantenuto il silenzio; analogamente, la descrizione di
episodi notturni e la suggestione esercitata dalla calma e dallo strepito
rientravano fra i mezzi psicagogici più efficaci della storiografia «tragica».
Nel trionfo di Cesare del 45 a. C. erano raffigurate le circostanze della
morte dei suoi avversari: il suicidio di L. Scipione, quello di Petreio e
quello di Catone. Appiano riporta la notizia che la folla scoppi in gemiti
alla vista di tali immagini; la definizione che egli dà dei motivi figurativi
come παθήματα («sventure») è conforme una volta di più all’origine
ellenistica di quest’arte .
Il proseguimento di tale tradizione in età imperiale può essere dimostrato
da numerosi monumenti. È vero che, immediatamente dopo Azio, il
tempio di Apollo in circo fu onorato con un fregio che reca monomachie
accostate alla maniera classica. L’ideologia romana ha in questo caso
portato ad accentuare maggiormente la superiorità dei vincitori, che
cavalcano in una fascia più alta sorpassando i nemici giacenti per terra.
L’esaltazione della propria vittoria non esclude l’attenzione partecipe al
destino dell’avversario, e nemmeno il riconoscimento dei suoi tratti
notevoli: vincitori e sconfitti sono così distanti tra di loro che ciascuno può
essere rappresentato con ricchezza di dettagli nella sua rispettiva gloria o
miseria.
Fa senz’altro parte della tradizione ellenistica il grande fregio di battaglia
traianeo reimpiegato sull’Arco di Costantino: la scena centrale con
l’imperatore dipende direttamente dalla composizione del dipinto di

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Alessandro: Traiano spinge i suoi nemici in massa davanti a sé, ma nessun


comandante avversario compare a fare da controparte.
La Colonna Traiana comprende non solo numerose immagini di battaglia
costruite nella maniera ellenistica, ma anche altre scene di alta efficacia
«tragica». Per esempio, i daci di una città assediata che scelgono di
suicidarsi in massa con il veleno attinto da un grosso recipiente e
distribuito da uno dei capi: alcuni si affollano con le braccia protese, altri
già si accasciano e vengono sorretti e compianti dai loro compagni, altri
ancora giacciono inanimati al suolo, e infine un’ultima parte della
guarnigione cerca scampo nella fuga.
Obiettivo evidente di questa maniera di rappresentazione era, da un lato,
accrescere la gloria del vincitore mediante il pathos della lotta e le
sofferenze degli sconfitti; d’altro canto, il linguaggio dinamico delle forme
ellenistiche permetteva di esprimere al meglio gli sforzi per la vittoria. Un
aspetto ideologico del genere doveva contribuire alla ripresa di tali forme a
Roma: qui infatti il concetto di labor circolava un ideale che poteva essere
espresso in forme analoghe.
Oltre ai combattimenti di schiere addensate, l’arte romana ha proseguito
anche le tradizioni che descrivevano eventi militari complessi ambientati
in spazi ampi, come gli assedi. Le fonti letterarie ne danno testimonianza
per il quadro della presa di Cartagine con le raffigurazioni del situs e delle
oppugnationes, che fu collocato e illustrato nel Foro da L. Ostilio Mancino
nel 146 a. C., in occasione della sua candidatura al consolato.
A causa del legame che stabilisce tra le figure umane e lo spazio
circostante, tale maniera di rappresentazione si differenzia ancor più
nettamente dalle forme classiche. Ma, raffigurando i luoghi in cui le azioni
sono ambientate, essa è in grado di fornire un elemento di importanza
centrale per il modo di pensare romano, e cioè l’indicazione delle
condizioni geografiche e culturali nelle quali ( e contro le quali ) l’esercito
romano si era affermato. Anche qui si tratta dunque soprattutto di una
raffigurazione del labor.
Luciano, nel suo scritto sulla storiografia, che si ricollega a idee di età
cesariana, sostiene le posizioni classicistiche dell’atticismo in genere senza
discostarsene molto; ma per la rappresentazione di battaglie sia terrestri
che navali ammette un’amplificazione poetica più forte, sia pure entro i
limiti di uno stile medio generale. La pratica storiografica opera in maniera
analoga. Sallustio, che pure mantiene uno stile di marca rigidamente
classicistica, usa i mezzi di rappresentazione della storiografia ellenistica

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quando deve descrivere una scena di panico a Roma, o un campo


disseminato di cadaveri. Livio, nonostante lo stile nel complesso
classicistico, impiega mezzi fortemente psicagogici nel parlare di battaglie,
assedi, epidemie. In misura ancora maggiore ciò vale per Tacito. Come
nell’arte figurativa, vengono anzitutto scelti dei modelli, anche eterogenei,
secondo una prospettiva determinata dal tema; in un secondo momento li
si integra in uno stile il più possibile unitario.

Capitolo sesto
Il cerimoniale di stato: la tradizione del decoro classico

Le forme di rappresentazione ellenistiche limitate ad alcuni temi,


continuarono dunque a circolare anche a Roma; ma nel complesso furono
le tradizioni del V e IV secolo a guadagnare il sopravvento: per la
storiografia accadde un fenomeno analogo. Al più tardi a partire dalla metà
del I secolo a. C., però, gli uomini politici romani cominciarono a opporsi
radicalmente a queste forme patetiche in letteratura e arte. La ragione di
ciò si ricava con chiarezza dalle critiche di Cicerone alla retorica
cosiddetta «asiana», di indirizzo patetico; tali critiche possono valere
senz’altro anche per la storiografia «tragica». Secondo Cicerone lo stile
asiano non è conciliabile con la gravitas e l’autoritas di un funzionario
romano: lo stile oratorio è nel contempo stile politico, le parole sono un
riflesso dell’anima.
Ma anche nella ripresa dei modelli della grecità è condizionata fortemente
da una prospettiva tematica. Policleto, la grande figura-guida per una
strutturazione formale razionale e classicistica, assurse a modello nell’arte
ufficiale, in particolare per il primo ritratto programmatico di imperatore:
si tratta del tipo principale dell’effigie di Augusto, che si collega al
Doriforo di Policleto nelle fattezze del viso nettamente definite, a larghi
piani curvi, senza indicazioni di età, e nelle ciocche falciformi dei capelli
armoniosamente composte. Le caratteristiche di gravitas (dignità) e
sanctitas (venerabilità) che Quintiliano ravvisa nel Doriforo sono qualità
delimitate tematicamente, che nel contesto romano valevano in primo
luogo per il sovrano e per lo stato, considerati dal punto di vista della loro
venerabilità; quanto si fosse consapevoli della funzione specificamente
tematica del modello usato, lo mostra l’effigie di Agrippa che, nella stessa
epoca, doveva render visibile il dinamismo del capo militare, e proseguiva
perciò la tradizione ellenistica.

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Lo stesso vale per la processione sul fregio grande della recinzione


dell’Ara Pacis, che rappresenta la solenne cerimonia di fondazione, cui
partecipano il princeps, gli alti dignitari e la famiglia imperiale. La
composizione dei personaggi mostra notevoli affinità con i fregi classici,
per esempio nello stratificarsi delle figure, fra cui alcune di quelle
posteriori sembrano sfumare totalmente sullo sfondo piatto; o anche
nell’allenamento del corteo grazie ai personaggi rivolti all’indietro. Anche
le singole persone dell’Ara Pacis si avvicinano molto a tipi classici; per i
togati, in particolare, l’atteggiamento insieme naturale e solenne delle
figure sul fregio del Partenone e su rilievi affini si presentava
spontaneamente come modello, tanto più che la foggia del vestiario
richiedeva solo alcune modifiche di scarsa importanza rispetto all’himation
greco.
Tutte queste forme non compaiono in un aspetto classico puro, bensì sono
frammiste a componenti più recenti, ma non si può mettere in subbio il
rapporto sostanziale, e voluto, con la grecità classica. Nella concezione
romana lo stile di Fidia incarnava maiestas (regalità), pondus (solennità) e
auctoritas (maestà), concetti vicinissimi alla gravitas e sanctitas di
Policleto. Entrambi questi soddisfano l’esigenza ciceronica di decoro
(dignitas).
Con il classicismo Augusto prendeva pubblicamente le distanze da
Antonio, cui rimproverava le tendenze «asiatiche» nell’eloquenza, atte a
provocare stupore più che convinzione: era una presa di posizione
dell’intelletto contro l’emotività. Augusto cercò di ripristinare la dignitas
degli ordini sacerdotali e del Senato e, nello stesso senso, provvide che al
Foro, centro della vita pubblica, l’unica foggia di vestiario consentita fosse
la toga.
Ma proprio in quanto si trattava di uno stile generale di Augusto, esso
ruotava chiaramente attorno a determinati temi: il Senato, gli ordini
sacerdotali più importanti, e soprattutto la propria persona. Lo confermano
i suoi gusti letterari: ascoltava volentieri le opere di qualsivoglia ingegno,
sicuramente eterogenee tra di loro; ma di quelle che riguardavano sé stesso
apprezzava solo quante fossero serie e nel contempo eccellenti,
paragonabili al fregio grande dell’Ara Pacis.
Le forme greche classiche venivano però impiegate in accezione
modificata: esse dovevano rappresentare la dignitas e l’autoritas, idee-
guida strettamente inserite nel sistema di valori romano. Solo con questi

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presupposti si può comprendere la tradizione successiva di tale stile


rappresentativo.
La forma compositiva del fregio grande dell’Ara Pacis era evidentemente
tanto adeguata per il tema della solenne cerimonia di stato, che rimase
sostanzialmente in vigore per secoli, malgrado le singole modifiche
tematiche nella rappresentazione degli eventi: le grandi scene a rilievo
dell’«Ara Pietatis», quelle dell’Arco di Tito, dell’Arco di Traiano a
Benevento, dell’Arco di Marco Aurelio, sono tutte anelli di una salda
catena che parte dall’Ara Pacis. Evidentemente le forme di
rappresentazione della dignitas dei cerimoniali di stato, che in un primo
tempo si erano sviluppate con una larga autonomia: la ripresa diretta di
forme greche classiche non fu più necessaria, conseguirono ben presto una
larga autonomia: la ripresa diretta di forme greche classiche non fu più
necessaria, dato che la tradizione aveva acquistato abbastanza forza, anche
prescindendo dalle sue origini, per trasmettere da sé il significato voluto, al
di là di qualsiasi mutamento epocale.

Capitolo settimo
Il sistema semantico: le sue componenti e il loro impiego

I fenomeni considerati costituiscono le componenti di un sistema. Il


motivo della battaglia e quello della solenne cerimonia statale mostrano
chiaramente che per determinati temi si sceglievano determinate forme di
rappresentazione appartenenti a periodi diversi dell’arte greca. Queste
modalità di rappresentazione permettevano senz’altro di contrassegnare in
maniera differenziata ciascun evento storico nei suoi tratti specifici;
tuttavia, la tradizione della battaglia di massa serrata e quella della
cerimonia rappresentazione scenica.
Solo ricerche approfondite in singoli ambiti tematici potrebbero illustrare
la basilarità di questo principio nell’arte romana.
La faccia principale dell’altare augusteo di Arezzo mostra la lupa con i
gemelli e i pastori in un paesaggio di derivazione ellenistica; su quelle
laterali, invece sono due Vittorie «neoattiche», una arcaizzante, l’altra nel
solco dello stile ricco. Come il paesaggio ellenistico si confaceva all’idillio
ambientato già in età protostorica, così le forme «neoattiche», isolando le
figure a mo’ di vignette, conveniamo a delle personificazioni astratte e,
mediante la loro eleganza capricciosa, alla delicatezza del loro carattere.

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Figure a tutto tondo

Nella statuaria è istruttiva la ripresa di forme di Policleto e della cerchia di


Lisippo. Le opere di Policleto servivano evidentemente da modello per
quelle figure del mondo mitico e divino caratterizzate da una bellezza
fisica ideale. Conformemente, Quintiliano loda di Policleto, l’aver
conferito un decor supra verum alla figura umana. Per contro, il tipo della
testa dell’Ares Ludovisi, strettamente legato a Lisipo, è stato adoperato in
seguito soprattutto per immagini di Hermes. Evidentemente l’agilità del
dio poteva esser riprodotta nei suoi aspetti atletici soprattutto mediante il
linguaggio formale di Lisippo e Prassitele, che Quintiliano attesta essersi
accostati perfettamente alla verità di natura (ad veritatem accessisse
optime).
Tra le figure femminili greche un influsso particolarmente vario è stato
esercitato dal tipo dell’Afrodite Capua, del tardo IV secolo a. C.: si tratta di
un’immagine della dea dell’amore che ammira il suo corpo seminudo
riflesso nello scudo di Ares. In questo caso è particolarmente chiaro che le
ragioni della ricezione sono state in primo luogo in ordine iconografico e
contenutistico.
Nella Venere di Milo il modello è stato adattato a un diverso motivo di
movimento, non più ricostruibile: ma senza dubbio doveva essere
determinante l’attributo cui si adeguava la posizione delle braccia.
Senz’altro di ordine oggettivo e tematico è la causa della trasformazione di
Afrodite in dea della vittoria che iscrive le lodi del vincitore su uno scudo.
La Nike che scrive è un motivo che si trova già nel IV secolo a. C.; anche
lo scudo è noto fin dall’età classica come supporto rappresentativo di
iscrizioni di vittoria. La fusione di questi due motivi in quello della
Vittoria che scrive sullo scudo è presente al più tardi dal II secolo a. C. su
gemme e pase vitree: una gemma di età ancora repubblicana (≈ 100 a. C.),
testimonia la trasformazione dell’Afrodite tipo Capua in Vittoria,
effettuata pressappoco all’epoca della Venere di Milo.
Nella prima età imperiale il tipo godette, nella versione di Vittoria, una
rinnovata attualità, con la ripresa fedele – avvenuta al più tardi in questo
periodo – delle fattezze del corpo e del panneggio dell’originale. Un
esempio famoso ne è la statua bronzea di Brescia, che in origine non aveva
le ali, e che però scriveva su uno scudo, Venere e Vittoria, allo stesso
tempo; più tardi le figure a rilievo sulle colonne di Traiano e Marco
Aurelio saranno caratterizzate univocamente come Vittorie. Grazie alla

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ripresa di un particolare tipo di Afrodite per la rappresentazione della


Vittoria, tale legame ha ricevuto una formulazione convincente dal punto
di vista iconografico.
Motivazioni contenutistiche ancora diverse determinarono l’impiego del
tipo Capua nelle rappresentazioni di Marte e Venere. Sono noti vari
esempi di età antonina che si servono del gruppo per ritrarre delle persone
nelle vesti delle due divinità. Per il dio della guerra si ricorse al modello
dell’Ares Borghese di Alcamene, di piena età classica: la figura illustrava
quella divina solennità e maestà che Quintiliano elogia in questo artista,
inoltre essa poteva esprimere l’idea romantica della sottomissione a
Venere grazie alla testa in posizione chinata. Per la dea dell’amore il tipo
Capua si presentava ovvio già solo a causa delle movenze dei gesti, che si
potevano facilmente trasformare in un abbraccio. La scelta di modelli
eterogenei per il nuovo gruppo era chiaramente il punto di vista orientato
sui contenuti e sui motivi. Il successo di questa composizione mostra che
la provenienza da epoche diverse non veniva sentita come una discrepanza
fastidiosa.
La gamma delle riprese di forme stilistiche greche si amplia con il gruppo
di Bacco con un Satiro. Per il dio risultava particolarmente adatto un tipo
che era sviluppato a partire dalla statua tardo-classica dell’Apollo Liceo,
mentre per raffigurare la compagnia del tiaso di solito si preferiva un tipo
ellenistico di Satiro: il dio era messo in rilievo proprio grazie al contrasto
con la bruttezza semiferina del monello dal corpo robusto e muscoloso, dai
movimenti bruschi e dallo sguardo voyeuristico.
Certo questo tipo statuario non comprendeva l’essenza del dio nella sua
interezza: per mostrare il lato primitivo del culto, si poteva facilmente
ricorrere a un tipo arcaizzante. Ciò dimostra che le varie forme stilistiche
greche non erano collegate meccanicamente a temi stabiliti, ma valevano
come espressioni di determinate caratteristiche.
Per completare il quadro, si vede che, nel complesso, per dèi ed eroi di
tradizione elevata si riferivano le nobili forme della piena classicità o
addirittura del tardo arcaismo e dello stile severo, mentre le figure librate e
danzanti come Vittorie e Menadi si sceglievano le forme mosse dello stile
ricco della fine del V secolo. Va da sé che non mancano eccezioni a quella
che non è una norma vincolante.

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L’allestimento della Villa dei Papiri.

L’apparato della Villa dei Papiri a Ercolano è concepito, secondo un


programma puramente contenutistico, come collegamento antitetico
dell’attività politica e di una vita ritirata volta alle gioie dello spirito.
In ogni caso, all’interno del gran numero di effigi di politici, oratori,
filosofi e poeti greci non sussistevano né possibilità né motivi per operare
scelte secondo il gusto relativo allo stile.
Più istruttive sono le figure ideali. Nel grande peristilio a giardino, un
busto di Atena costituisce il centro di una vasta galleria di esponenti
insigni della politica e della cultura.
Sempre dal peristilio proviene una testa severa arcaizzante che, a giudicare
dalla sua collocazione accanto a una poetessa, raffigura probabilmente
Apollo.
L’Atena Promachos che costituiva il punto di fuga del tablinum si
riallaccia a forme dell’ultima fase dell’arcaismo. In questa stanza gli
esponenti della paidea greca e i rappresentanti della pietas e della nobilitas
romana erano posti gli uni di fronte agli altri. Le forme anticheggianti
revocano la grande epoca delle prime eroiche vittorie dei greci contro i
persiani, vittorie che nella Roma di Augusto venivano nuovamente
celebrate come modello della propria affermazione politica e culturale.
Nello stesso tempo l’ideale del καλὸς καὶ ἀγαθός (bello e buono) mostra
un affinamento tale che la bellezza e la grazie possono essere caratterizzate
nella maniera attica post-fidiaca, l’abilità atletica nelle forme della scuola
di Policleto.
Un caso simile si ha in una stanzetta attigua, dove il busto di un
personaggio barbato, probabilmente Dioniso, è contrapposto a Eracle: il
dio rappresenta un decoro dal sapore di primitività, mentre l’eroe incarna
l’ideale della più alta ἀρετή (virtù) eroica. Significato analogo sembra aver
avuto anche la famosa coppia di busti del Doriforo policleteo e della
controparte femminile, da intendere come Achille e Pentesilea.
Si deve anche aggiungere il mito nel suo aspetto tragico, ovvero una serie
di statue femminili bronzee che sembra rappresentassero le Danaidi,
dipendente da grande gruppo con le Danaidi del santuario di Apollo sul
Palatino e, come questo, fungente da corrispettivo mitico della battaglia
contro Antonio e Cleopatra.
Altri temi però richiedevano modelli diversi. Nel peristilio a giardino le
immagini bronzee di due lottatori dovevano dare l’impressione di esercizi

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atletici reali: una resa convincente del loro movimento si poteva ottenere
riallacciandosi a Lisipo.
Infine modelli ancor più recenti, di età ellenistica, furono ripresi per i
numerosi personaggi del tiaso dionisiaco che popolavano sia l’atrio che
parte del giardino: Satiri che danzano o che suonano il flauto, mentre
schioccano le dita o dormono, Fauni, putti, anche un Pan che si accoppia
con una capra, e inoltre diversi animali. Nessun gusto, per quanto
classicistico, avrebbe potuto indurre a cercare modelli di V e IV secolo per
questi motivi: la scelta delle rappresentazioni possibili era predeterminata
dal tema.
Il gusto della prima età imperiale influenza in vari modi la ricezione dei
modelli: il passo successivo sarebbe allora quello di indagare i mutamenti
delle forme stilistiche dell’epoca in relazione a ciò che vogliono esprimere;
ma tale problema oltrepassa i confini della semantica qui presa in esame.
Rimanendo nell’ambito di tipologia e semantica, un ultimo esempio varrà
a illustrare il grado di raffinatezza a cui poteva essere portato questo
linguaggio figurativo.

I rilievi dell’Ara Pacis

Nel caso dell’Ara Pacis emergono in maniera evidente le difficoltà di


comprendere l’impiego dei tipi figurativi greci a Roma.
L’Ara Pacis, con la sua pluralità di livelli, è un’ottima pietra di paragone
per stabilire fino a che punto possiamo afferrare la maestria e la flessibilità
dei romani nella ripresa dei modelli.
Nell’accostare al fregio del Partenone la cerimonia statale rappresentativa
sul fregio grande, la somiglianza che si nota concerne innanzitutto la
composizione e la concezione del rilievo in generale. Ciononostante i
singoli componenti del corteo si collocano in tradizioni distinte. Mentre gli
uomini in toga si avvicinano ai tipi di figure dell’epoca del Partenone,
all’avvenente consorte del princeps e alle giovani madri di più tipi delle
forma corporee rilevate, nella maniera tardo-classica ed ellenistica.
Sarebbe stato impossibile trovare per le donne modelli convincenti nel V
secolo. Vanno inoltre ricordati i flamines con il loro abbigliamento
specificamente romano per i quali non ci si poteva affatto attenere a
schemi tipologici precedenti, ma solo alla realtà.
Il tipo «classico» della figura di Agrippa possiede, nella parte inferiore
della toga, una serie di pieghe tese e rigidamente contrapposte, che non

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possono che derivare dalla tradizione ellenistica, viceversa, il personaggio


femminile principale del fregio nord ha un panneggio di tipo ellenistico in
cui sono inserite delle pieghe appena increspate, sorprendentemente vicine
allo stile dei panneggi del Partenone. Questa unione di classicità ed
ellenismo aveva un aspetto formale e uno contenutistico: da un lato si
intensificava l’efficacia visiva, arricchendo con i forti contrasti dello stile
ellenistico la forma del decoro classico. Dall’altro si poteva rendere la
processione in maniera convincente come evento concreto solo
conferendole un certo grado di realismo; analogamente, si potevano dare
delle teste individualizzate ai personaggi senza il rischio di una
discrepanza con il resto del corpo.
Nel fregio grande la cerimonia storica della fondazione è rappresentata
come festività di stato alla presenza delle più alte cariche politiche: è
infatti limitata ai personaggi più importanti della casa imperiale e ai
rappresentanti della classe dirigente. Invece nel fregio piccolo è
evidentemente raffigurato il sacrificio di culto annuale in tutti i suoi
dettagli rituali. Solo l’esatto compimento di ogni dettaglio rendeva il
sacrificio «giuridicamente» ineccepibile.
La genesi di tale maniera compositiva è controversa. Ne troviamo dei
precedenti non solo nell’Etruria ellenistica, ma anche in Grecia, per
esempio sulla base di Atarbos ad Atene: è evidente che non si tratta di un
fenomeno schiettamente «italico», bensì di una koiné senza pretese,
particolarmente diffusa nell’ellenismo medio-italico, e rimasta in uso per
funzioni precise anche in seguito, a lato delle nuove e più ambiziose forme
di rappresentazione ellenistiche e classicistiche. Il fregio piccolo dell’Ara
Pacis riprendeva, assieme all’aspetto contenutistico della scrupolosità
religiosa, anche questa tradizione di realismo facilmente leggibile; veniva
così a differire dal fregio grande, con gli accenti posti in modo diverso,
anche se tematicamente affini.
Ancora diverse sono le tradizioni seguite nei rilievi mitologici e allegorici
dei lati di accesso dell’Ara Pacis. Nella lastra con Enea il tipo di scena
ripreso è quello del rilievo ellenistico di paesaggio, dato che
l’immolazione della scrofa di Lavinio in onore dei Penati doveva aver
luogo in un paesaggio idillico-sacrale. La figura di Enea, invece, segue tipi
classici, poiché solamente così riceveva quelle connotazione di auctoritas
e pietas cui egli era tenuto in quanto capostipite e modello dell’imperatore:
la sua «classicità» ha fondamenti contenutistici tanto quanto il
corrispondente atteggiamento politico di Augusto.

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Anche qui, però, in ciascuna figura sono fuse delle forme non ricavabili
dalla tradizione del tipo corrispondente, come si è già visto per il mantello
di Enea con le sue pieghe tese e condotte con una certa rigidità, di origine
ellenistica.
Quanto più a fondo si conduce l’analisi del processo di strutturazione
formale, tanto più evidente diventa il fatto che l’utilizzo delle forme tradite
avveniva secondo una scala di gradi solitamente differenziate. Si tratta di
una ricca gradazione che va dall’intero al particolare; per ogni livello era a
disposizione tutto il repertorio dell’arte greca, applicabile a seconda del
contenuto del messaggio da trasmettere.

Capitolo ottavo
Il sistema semantico: premesse e struttura

Componendo gli elementi fin qui esaminati, risulta che in età tardo-
ellenistica e romana le forme stilistiche dei vari periodi dell’arte greca
venivano riprese soprattutto perché in tal modo si potevano rappresentare
adeguatamente temi e contenuti differenti in forme di volta in volta
specifiche. Per ciascun tema, ovvero per ciascun aspetto contenutistico di
uno stesso tema, erano a disposizione modelli già pronti che, pur se di
origine eterogenea in una prospettiva diacronica, potevano adesso essere
impiegati sincronicamente l’uno accanto all’altro. Si produsse così un
sistema in cui le forme dell’arte greca venivano filtrate da criteri non
stilistici ma principalmente semantici, risultando utilizzabili in senso del
tutto nuovo. È in questo senso che si può parlare di una semantizzazione
degli stili.

Premesse generali

Le condizioni di questo processo sono basate su presupposti generali


dell’arte greca antica e di quella tardo-ellenistica e romana. Nei secoli che
vanno dall’età arcaica a quella ellenistica l’arte greca aveva subito un
rapido e radicale processo di cambiamento, fortemente influenzato dalle
esperienze collettive dei periodi che si susseguivano, e corrispondente al
grande passaggio storico dai principati omerici dell’oikoumene ellenistica.
L’unitarietà dei prodotti contemporanei era perciò relativamente forte
rispetto alla connessione di temi determinati attraverso i confini dei vari
periodi.

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Dunque queste prime fasi della civiltà greca la trasposizione delle


condizioni storiche in forme artistiche si basava su un’esperienza molto
concreta del mondo e della vita. Il risultato però è evidente: le concezioni
di base circa la realtà umana, grazie alla loro concretezza, trovarono
espressione visibile nelle forme dell’arte figurativa in maniera
estremamente diretta; la relazione dell’uomo con l’ambiente circostante
venne palesata nella concezione dello spazio, la concezione delle
interazioni umane nella composizione di gruppo, il concetto delle funzioni
organiche del corpo nella costruzione delle figure, l’interesse alla realtà
materiale e al suo aspetto nell’esecuzione delle superfici.
Rispetto a questo, il nuovo sistema del linguaggio figurativo, creato in
Grecia nel tardo ellenismo e rimasto in vigore in tutto l’Impero in età
romana, non costituisce solo un altro gradino evolutivo, ma anche una
fondamentale rottura.
Nello stesso tempo, però, la coesistenza di differenti forme di
rappresentazione testimonia un profondo distacco dalla percezione della
realtà finora esperita radicalmente. Le possibilità di raffigurazione
realistica non furono certo abbandonate, e anzi furono ulteriormente
affinate, fino a giungere ai noti tipi di realismo dell’arte romana; ma esse
rimasero limitate a determinati settori, comparendo a lato di molte altre
forme di rappresentazione. Si smise così di afferrare la realtà in maniera
unitaria.

Astrazione dei contenuti e tipizzazione delle forme

Alla base di tutto ciò sta un mutamento di ampia portata: la realtà visibile
diveniva sempre più segno di idee non empiriche. Nelle teorie artistiche
coeve tale tendenza si compì mediante l’elaborazione di un sistema di
concetti astratti.
Esiste una serie di sarcofagi di comandanti romani, che mostrano in
successione scene tipiche della carriera dell’élite militare, disposte però in
maniera sorprendente dal punto di vista cronologico: prima una battaglia,
con i nemici poi sottomessi e graziati, di seguito il sacrificio per la
partenza all’inizio della guerra – che in realtà era precedente –, e infine la
celebrazione del matrimonio, che normalmente si compiva in un momento
antecedente. il raggruppamento di tali scene va inteso come una
concezione sistematizzata dei valori ideali, ossia delle virtù politiche
primarie1: virtus, clementia, pietas e concordia.

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Queste virtù formano complessivamente una sorta di sistema ideologico il


quale, creato alla fine della repubblica, e pur subendo alcune modifiche
durante l’età imperiale, rimase sostanzialmente in vigore con relativa
staticità nel corso dei secoli, proponendosi in tal modo a ciascun
imperatore e uomo politico di Roma come compito da realizzare.
Le scene di sacrificio dei sarcofagi ripetono puntualmente un tipo di
composizione che, conservato frammentariamente, compare già su un
grande monumento di età claudia. Qui il tipo non contrassegna un
sacrificio di preghiera a Giove da parte del comandante in partenza, bensì
un solenne sacrificio di stato a Marte Ultore, con al centro sicuramente il
princeps. Dello stesso tipo esistono altri esempi, che rappresentano generi
d sacrificio ancora diversi.
Lo stesso vale per i temi della scultura a tutto tondo. Le figure di divinità,
le personificazioni e gli eroi espressero in misura crescente messaggi di
ordine concettuale, spesso abbreviati a guisa di slogan.
Corrispondentemente venne meno l’interesse per creazioni «individuali», e
il repertorio si ridusse sempre più ai tipi correnti. I contenuti astratti
richiedevano formule che traessero la loro forza di persuasione non dal
grado di oggettività di volta in volta presente, bensì dalla loro efficacia a
livello concettuale.
Gli elementi di realismo non vengono certo rimossi per questo dall’arte. Al
contrario, la concezione artistica romana propendeva in molti casi al
massimo grado a effetti realistici e all’ingannevole dissimulazione del
confine tra arte e natura. Ma anche questi tipi di realismo erano subordinati
al sistema semantico.
Il linguaggio figurativo che si sviluppò in tal modo era un ricco sistema di
comunicazione visiva che per qualsiasi tema e contenuto metteva a
disposizione formule già fissate oppure schemi di formulazione facilmente
applicabili. La relativa staticità dei mezzi formali corrispondeva alla
relativa costanza dei contenuti concettuali.

La struttura del sistema semantico

In che modo poté tale linguaggio figurativo avere efficacia in tutto


l’Impero con le sue popolazioni così disparate? Quali erano le sue
premesse e quale il suo livello culturale?
Il fatto decisivo è che in questo sistema i singoli tipi figurativi non erano
connessi meccanicamente a determinati temi di rappresentazione. Le

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forme figurative e stilistiche tradite componevano invece anzitutto un


sistema di valori espressivi, ed erano questi valori a determinare la
connessione tra forma e tema.
Le concezioni artistiche nella teoria. Questo sistema possedeva, da
un lato, delle premesse teoretiche. Secondo la teoria dell’arte dominante,
quella classicistica, il giudizio e la recezione dei relativi alle varie forme
stilistiche si basavano piuttosto su una serie di valori generali i quali
univano la sfera delle forme visibili con quella dell’ethos; si tratta di un
fenomeno connesso a una sensibilità artistica più astratta, sviluppatasi a
partire dal tardo ellenismo.
L’arte di Fidia veniva esaltata a causa della sua sublime e venerabile
grandezza: grandezza e venerabilità ne sono appunto due caratterizzazioni
ricorrenti, collegate alla più alta bellezza.
Policleto invece, secondo Quintiliano, non ha rappresentato in maniera
così impressionante il pondus e l’auctoritas degli dèi, ma ha superato tutti
gli altri scultori in verum soprattutto alla figura umana, in particolare a
l’ideale fisico policleteo come adatto agli esercizi della guerra sia quelli
ginnici e lo pone accanto a quello di altri giovani combattenti e atleti.
Di Callimaco venivano a loro volta ammirate la finezza, la grazia,
l’elegantia. La sa opera più famosa, le saltantes Lacaenae dimostra che
con tali concetti si intendevano i delicati movimenti vibranti dello stile
ricco.
Di Lisippo e Prassitele, infine, Quintiliano loda il fatto che ad veritatem
accessisse optime ( il miglior approccio alla verità). Anche tale realismo,
che più volte viene rilevato a ciascuno dei due, doveva essere quasi ovvio
nel caso di determinati temi.
All’occasione, addirittura più epoche potevano valere come modello per
uno stesso ambito tematico, e senza sostanziali differenze di significato. Le
figure di animali erano la gloria dello stile severo, di Mirone e Calamide,
ma anche quella di Lisippo. Lisippo è inteso qui, come molte altre volte,
quale precorritore dell’ellenismo, le cui raffigurazioni di animali furono
spesso imitate nella pratica artistica.
Tramite i valori espressivi che stavano alla base del giudizio d’arte colto le
forme tramandate potevano essere impiegate per compiti «romani». Con
ciò si operava senz’altro un cambiamento di significato rispetto alle
finalità iniziali di tali forme: la cosa si può vedere già nel fatto che in
origine esse erano state create in tempi diversi, ciascuna come risultato

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dell’esperienza di n’intera epoca, abbracciando cioè vasti ambiti tematici


dell’arte.
Ma se le varie forme di rappresentazione appartenevano, l’una accanto
all’altra, a uno stesso sistema di linguaggio figurativo, esse si trovavano
anche in rapporto gerarchico tra di loro. Maiestas e pondus erano collocati
a un livello più alto rispetto al dinamismo emotivo, mentre le figure ostili e
di basso rango potevano invece rimanere entro la tradizione ellenistica,
come nel caso di barbari, Giganti e Satiri.
Una conseguenza decisiva di questo sistema fu che le varie forme
stilistiche, le quali erano comparse in sequenza diacronica nell’arte grecam
furono in una certa misura destoricizzate nel nuovo sistema di temi e di
valori espressivi. Concetti come maiestat, gratia, veritas hanno senso solo
in un sistema sincronico, non sul piano dell’evoluzione storica; lo stesso
vale per i contenuti delle rappresentazioni, come divinità, eroi, atleti,
animali.
In sostanza, i valori della riflessione artistica si innalzavano chiaramente al
di sopra della sfera delle impressioni sensoriali, entrando nell’ambito degli
ideali etici. Così si raggiungeva un gradino di astrazione mentale analogo a
quello relativo alla realtà del vivere storico, i cui eventi venivano
similmente intesi come realizzazioni di modelli generali di comportamento
etico.
Solo in base al loro significato concettuale generale, dunque, le forme
eterogenee di rappresentazione diventavano idonee a formulare temi
figurativi romani: la composizione di fregi fidiaca risultava naturale per le
dignitose cerimonie di stato soprattutto grazie alla sua maiestas, mentre i
movimenti di masse dell’ellenismo lo erano per le battaglie grazie al loro
dinamismo patetico.
Da un lato, i temi non erano fissati a priori nel loro significato concettuale,
ma lasciavano un certo margine di interpretazione. Il tema suggeriva
specifiche forme di rappresentazione, ma non determinava interamente la
forma.
D’altro canto neanche i vari modi di rappresentazione e i tipi figurativi
erano fissati rigidamente in rapporto alle idee che intendevano esprimere.
Già rispetto al significato che le forme possedevano originalmente
nell’arte greca la loro trasposizione in un nuovo contesto concettuale,
quello della civiltà romana, comportava un mutamento; e anche così non
erano esclusi altri slittamenti di significato.

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Questo sistema di temi, di valori concettuali e di forme figurative lasciava


dunque, nei suoi due punti di raccordo, una certa libertà di interpretazione
e di gusto artistico. La flessibilità della struttura di questo sistema
permetteva a ciascun tema di non comparire sempre con la medesima
forma di rappresentazione.
La pratica degli scultori. Di solito, però, gli scultori romani non
erano teorizzatori, bensì artigiani che non stavano a meditare su sistemi di
valori estetici; e lo stesso vale per la gran parte del pubblico. La
commissione di un’opera d’arte ovviamente concerneva innanzitutto il
tema. Lo scultore che poi cercava per esso un prototipo adeguato poteva
senz’altro riconoscere intuitivamente quali modelli dell’arte greca fossero i
più adatti secondo le idee correnti del tempo.
In maniera analogamente irriflessa doveva procedere la comprensione
dell’osservatore. Nella misura in cui l’attenzione veniva posta non soltanto
sul contenuto concreto, ma anche sulla forma, ciò che quest’ultima
comunicava erano impressioni generali che potevano nascere anche
abbastanza direttamente, senza un corredo teoretico.
Erano dunque impulsi e fattori imponderabili di varia natura a determinare
il linguaggio figurativo nella pratica di bottega degli scultori. Comunque,
deve aver evidentemente giocato un ruolo di primo piano l’utilizzabilità di
determinate forme stilistiche e tipi figurativi per i temi di volta in volta
stabiliti.
La connessione dei due atteggiamenti, quello teoretico e quello
antiriflesso, è evidente. Sia l’uno che l’altro non portarono alla formazione
di una rigida classificazione da rispettare, ma fecero sì che nella pratica
venisse adottato un certo ordine, in cui ciascun diverso tema o messaggio
da esprimere trovava i modi di rappresentazione e i tipi figurativi adeguati.

Capitolo nono
La nascita del sistema: dinamica e staticità

Gli inizi di questo modo di trattare le forme tradite riportano indietro verso
l’arte della Grecia. Anche questa elaborò, in relazione a singoli compiti e
temi, delle forme specifiche che non valevano per tutta la produzione
artistica.
Di rilevanza maggiore per il linguaggio figurativo successivo è il fatto che,
a partire dall’età classica, accanto alla vasta corrente dell’arte nel
complesso «moderna», si svolse un’esile tradizione di forme stilistiche

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arcaizzanti. Tale pratica si distingue dal sistema semantico successivo per


il fatto ce la forma arcaizzante era solo una deviazione anomala rispetto al
linguaggio formale del presente, e non uno dei suoi componenti naturali.
Perfino in questo sostanziale annullamento dell’unitarietà evolutiva
emerge il ruolo primario del cambiamento storico.
Premesse e inizi di questo linguaggio figurativo furono prodotti non a
Roma ma nella Grecia del II secolo a. C. Il tardo ellenismo portò a un
mutamento sostanziale nell’attitudine stilistica, intensificando le forme di
stile ellenistiche e riprendendo contemporaneamente le tradizioni
classiche. Gli impulsi e i retroscena storici di tale svolgimento sono ancora
poco chiari, e qui non se ne può dire nulla.
In Grecia la ripresa di modelli antichi possedeva, fin da quando nel II
secolo a. C. cominciarono le tendenze retrospettive, anche connotati
tematici.
In una bottega greca sono nate anche le composizioni dei crateri neoattici a
rilievo del tipo Pisa. Il tiaso dionisiaco è qui formato da elementi della
provenienza più disparata: Dioniso e la sua compagnia derivano da tipi
tardo-ellenistici, che ritrovano anche nella composizione del cosiddetto
Rilievo di Icario, mentre le danzatrici vengono da un girotondo tardo-
classico con ninfe, di cui una è stata alla fine sostituita con una Menade di
un noto ciclo della fine del V secolo.
Gli artisti greci portarono presto a Roma questa attitudine formale; la città
si andava allora sviluppando in un centro d’arte ellenistico. Nello stesso
tempo, però, venivano realizzati ritratti delle personalità-guida di Roma
nelle forme stilistiche dell’ellenismo: un esempio è il cosiddetto Dinasta
delle Terme che, a causa del luogo di ritrovamento (Roma) e della
mancanza del diadema, rappresenta probabilmente un leader romano della
metà del II secolo.
Particolarmente notevole è l’uso di forme eterogenee nello stesso periodo
per due teste appartenenti entrambe a monumenti urbani per le vittorie sui
cimbri e sui teutoni, e prodotte dunque verso il 100 a. C. Già qui abbiamo
una forma di rappresentazione patetica per il tema della lotta e della
sconfitta dolorosa che si trova immediatamente accanto all’elevatezza
classica dello stile nell’immagine della dea.
Lo spettro delle possibilità formali si ampliò costantemente nel corso del II
e I secolo a. C. grazie al progressivo sfruttamento del passato storico-
artistico.

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Ma al più tardi in età augustea il patrimonio formale dovette raggiungere


una certa completezza. Da allora si ebbero sì creazioni ex novo, e anche
scelte e accentuazioni in direzioni mutevoli; ma nel complesso il sistema
semantico sembra aver avuto, almeno nei primi due secoli dell’Impero, un
carattere piuttosto statico.

Capitolo decimo
Il linguaggio figurativo e lo stile

Anche se il linguaggio figurativo raggiunse presto una condizione di


relativa stabilità, il tempo non cessava di scorrere, e il gusto mutava.
È qui che acquistarono la loro pregnanza le categorie di tipo e di stile. Il
linguaggio figurativo, formatosi a partire da elementi eterogenei e rimasto
poi in vigore in maniera abbastanza statica, era di natura sostanzialmente
tipologica. Invece il gusto generale, nel quale gli appartenenti a una stessa
epoca, da regione a regione, da un gruppo sociale all’altro, tale gusto si
cristallizzava nel fenomeno dello stile.
Ci si può chiedere come fosse possibile che una parte così essenziale della
strutturazione formale quale la creazione di tipi venisse esclusa
dall’ambito dell’espressione stilistica e inserita in quello della semantica. Il
problema può essere chiarito a livello teorico mediante le posizioni di
Cicerone. Chi, come appunto Cicerone, rifiutava forme retoriche patetiche
e raccomandava un eloqui classicamente misurato, poteva trarre
sostanzialmente due conclusioni diverse: si poteva trattare della scelta di
un habitus comune nel senso più ampio; oppure era una questione d
tematiche specifiche e allora le forme classicistiche di stile erano richieste
solo lì dove andavano espresse l’auctoritas e la gravitas dei dignitari
romani.
Entrambe le conclusioni erano in certa misura giustificate, ed entrambe
trovano corrispondenza nella pratica della scultura. Accanto alla dignità
delle cerimonie di stato bisognava raffigurare il pathos e le pene dei
combattimenti, senza però infrangere del tutto l’ideale di una compassata
dignità. La selezione di modelli fondata tematicamente rientrava
nell’ambito degli schemi di rappresentazione e dei tipi figurativi, mentre
l’ideale generale si situava sul piano dell’esecuzione stilistica.
Non possiamo qui analizzare sistematicamente quali lati della forma
artistica fossero aperti al cambiamento stilistico. Lo stile dei rilievi della
bottega augustea, che riunisce tradizioni tipologiche eterogenee, si

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ripercuote nella lastra con Enea dell’Ara Pacis principalmente sotto due
rispetti: nella salda concessione dei personaggi e degli oggetti con al
superficie; e nella lavorazione del marmo, dall’esecuzione viva e naturale
ma nello stesso tempo dura e netta. In età flavia, invece, il voluto ritorno a
forme più prossime al vero causò un certo avvicinamento allo stile dei
rilievi ellenistici.
È una spia nello stesso senso il fatto che si conoscano copie di opere
policletee soprattutto di età giulio-claudia adrianea, e solo più raramente
di età flavia.
A giudicare dal risultato complessivo, però, quest’aspetto della selezione
di modelli tipologici secondo i gusti mutevoli delle varie epoche, su cui ha
molto insistito la ricerca del passato, ha un’importanza solo relativa. Ma
per la gran parte della produzione è senz’altro vero che i temi e i tipi
eterogenei di rappresentazione rimanevano fondamentalmente validi
attraverso le epoche e da una regione all’altra.
Il ritratto è significativo in questo contesto come caso estremo del rapporto
tra tipo e stile. Se nel ritratto il fattore dello «stile dell’epoca» traspare
molto più decisamente che in altri ambiti artistici, ciò mostra che tale tema
era aperto ad accogliere le esperienze proprie di un determinato periodo in
misura maggiore rispetto ad altri campi della produzione d’arte. Il sistema
di valori cui appartenevano, avendo un carattere astratto, collettivo e
relativamente statico, trovava una formulazione adeguata nelle figure
ideali tipizzate della tradizione.
Grazie a questo speciale collegamento con la realtà, il ritratto divenne in
maniera particolare un campo aperto a molteplici e mutevoli esperienze
esistenziali.
Il fatto che la scultura ideale romana si sia finora rivelata molto refrattaria
a datazioni stilistiche non costituisce solamente una circostanza spiacevole
da superare, ma anche un fenomeno significativo: nell’arte romana i
cambiamenti sono meno generali, meno sostanziali e meno rapidi che
nell’arte greca dall’età arcaica a quella ellenistica.

Capitolo undicesimo
Sistema formale e stile nelle teorie retoriche e artistiche

Il sistema descritto sembra, a prima vista, corrispondere poco


all’immagine che le testimonianze esplicite sul classicismo romano
lasciano riconoscere.

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Una via alla comprensione è indicata da Quintiliano quando discute le


maniere stilistiche della retorica in connessione con l’arte figurativa. Nel
far ciò si basa su una teoria d’arte classicistica del tardo ellenismo.
Da un lato viene constatato uno sviluppo a partire da origini imperfette
fino a vertici assoluti: la perfezione è rappresentata nella scultura da
Policleto e Fidia, e anche, dal punto di vista non altrettanto elevato della
veritas, da Prassitele e Lisippo; nella pittura tengono i primi posti Zeusi,
Parrasio, e poi Apelle. Solo la forma è determinante; essa viene valutata
nella prospettiva di un sostanziale classicismo.
La teoria d’arte classicistica che ne è alla base collegava le due concezioni
con l’inserire i vari temi artistici in una scala che corrispondeva all’ascesa
stilistica dell’arte verso le vette della classicità.
In ogni caso, l’aspetto diacronico di tale concezione risultava irrilevante
agli effetti della ricezione pratica di questi modelli nell’arte romana, dove i
vari temi, e quindi le forme di volta in volta «migliori», occorrevano
contemporaneamente e fianco a fianco: in realtà lo spettro dei temi
concreti, dall’animale alla divinità, non aveva carattere storico e
diacronico, ma sistematico e sincronico.
La trasposizione della successione diacronica degli artisti esemplari con i
loro temi in un sistema sincronico di elementi contenutistici e formali si
può riconoscere in Quintiliano nella trattazione degli stili teorici. Sono
stili appartenenti in origine a epoche diverse, ma che per Quintiliano sono
disponibili simultaneamente come possibilità antitetiche per lo stile
retorico attuale: da una successione diacronica si passa a un campo
sincronico di possibilità tra le quali l’oratore deve operare una scelta di
fondo.
La teoria d’arte classicistica su cui si basa Quintiliano è già riconoscibile
in Cicerone e, ridotta a frammenti, anche in Plinio; idee affini si trovano
già nell’Auctor ad Herennium e poi in Dionisio di Alicarnasso e Luciano.
Tale concezione fece sì che lo schema di evoluzione diacronica venisse
collegato dappertutto a un sistema di concetti etico-formali, a loro volta
connessi con determinati ambiti tematici.
Le opere conservate dell’eclettismo tardo-ellenistico mostrano che questo
filtro semantico, pur non divenendo pienamente canonico, guidò spesso in
tale direzione la scelta dei modelli.

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Capitolo dodicesimo
Conclusione: il linguaggio figurativo e la civiltà imperiale

Lo specifico compito richiesto al sistema formale dell’arte romana


consisteva nel soddisfare le pretese di un’élite colta così come la necessità
della larga popolazione dell’Impero.
I capolavori celebri dell’arte greca erano diventati norme riconosciute per
specifici temi e messaggi di ordine contenutistico. È probabile che
all’inizio rispondessero a un’elevata esigenza spirituale; ma, essendo
esemplari, erano anche convincenti, e ottennero perciò ampia diffusione,
divenendo scontate. Le forme tramandate potevano diventare gli elementi
di un linguaggio figurativo, neutri dal punto di vista dei valori e
semplicemente da usare.
Questo linguaggio figurativo esteso e comprensibile ovunque ebbe una
grande portata storico-culturale. Si costituì rapidamente in un sistema di
comunicazione visiva differenziato e accessibile senza troppe difficoltà.
Ma se il linguaggio figurativo doveva servire come mezzo comune
d’informazione visiva, allora la ripetitività e l’assenza di «creatività», che
si potrebbero deplorare in base alla concezione odierna dell’«arte», non
erano una mancanza, bensì un punto di forza. Cionondimeno non è affatto
illegittimo voler tracciare un bilancio critico di quest’arte: esso dovrà però
per un verso partire da una prospettiva consapevole del presente, e per
l’altro non isolare l’arte ma considerarne la funzione all’interno di tutta la
civiltà imperiale, così come nell’ambito della sua situazione storica. La
tipizzazione sempre più forte del linguaggio figurativo corrisponde al
crescente standardizzarsi e fissarsi, a livello concettuale, dei temi
figurativi. Proprio perché si tratta di un processo in gran parte
inconsapevole, esso è una buona cartina di tornasole per misurare la lenta
cristallizzazione dell’intera civiltà imperiale romana.

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