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ARTE ROMANA - Zanker

Archeologia e storia dell'arte greca e romana (i+p) (Università degli Studi di Verona)

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ARTE ROMANA di Paul Zanklr


QUARANT’ANNI DOPO BANDINELLI
 
Il libro di Zanker è un’introduzione all’arte romana, con l’obiettivo di descrivere il mondo figurativo romano come un
“sistema” alla base del complesso delle immagini appartenenti ai singoli ambiti della vita. I volumi di Bianchi
Bandinelli rappresentano l’ultimo sintetico tentativo di fornire una visione d’insieme, costruita in base all’esigenza di
superare da un lato l’archeologia filologica, dall’altro l’analisi stilistica. A questi due orientamenti Bandinelli
affiancava un approccio storico-sociale che si fondava sulla presenza nell’arte romana di due tendenze figurative
diverse, corrispondenti a due strati sociali: arte ‘ufficiale’ grecizzante e arte ‘plebea’ di origine medio-italica. Da allora
si sono molto intensificate le ricerche in questo settore, le quali stanno sviluppando una nuova idea dell’arte romana
e delle sue funzioni nella vita quotidiana. Inoltre, se in passato lo sguardo era quasi esclusivamente rivolto verso
Roma, oggi dedichiamo pari interesse anche alle testimonianze archeologiche delle province dell’impero romano. Al
centro dell'interesse del libro si trovano le concrete condizioni storiche che hanno condotto alla formazione delle
immagini e al loro uso nei singoli contesti sociali, non più vincolata, come in Bandinelli, a una struttura bipolare
dell'arte romana. Al contrario, le strutture fondamentali dell'arte imperiale romana sono descritte come un
linguaggio figurativo unitario: l'obiettivo è quello di rendere evidente e comprensibile il sistema o la struttura a cui
possono riferirsi le singole immagini. Ogni cultura, infatti, e ogni epoca sviluppano le proprie forme espressive, con
cui stabiliscono e assicurano i propri riti, valori e forme di vita sociale: anche le immagini appartengono a queste
forme di concreta e creativa affermazione di sé. Al pari del linguaggio, esse costituiscono primariamente uno
strumento di comunicazione sociale. Questo strumento si sviluppa in base alle forze motrici di una società, ai valori e
alle circostanze fondamentali e caratteristiche di ogni comunità. Agli inizi del XX secolo, gli archeologi si sono
interrogati sulle specifiche peculiarità, soluzioni formali e il contributo originale caratteristiche di un'arte romana,
principalmente allo scopo di distinguerle dall'arte greca. Tuttavia in questo modo si rischia di marginalizzare gran
parte delle opere figurative di età romana, poiché queste sono costituite proprio da repliche e libere rielaborazioni di
opere d'arte greca. L'archeologo tedesco Winckelmann, autore della Storia dlll'artl nlll'antichità, considerava l'arte
di età romana, insieme a quella ellenistica, come un'unitaria fase tarda dell'arte greca. Fino alla fine del XIX secolo e
oltre, le forme ideali dell'arte greca rimasero al centro dell'interesse, mentre le copie di età romana, vennero a lungo
trattate e considerate solo come testimonianza degli originali greci andati perduti. Si trattava quindi di
una sopravvalutazione dell'arte antica e dell'idea di un suo  sviluppo, quasi autonomo, dai primordi arcaici fino a una
sua decadenza nell'ellenismo e in età romana. Queste concezioni sono oggi state superate; al contempo ci interessano
soprattutto il contesto e i messaggi delle immagini: l'arte non è più una dimensione autarchica, quanto piuttosto
come mlzzo di comunicazionl sociall.

CAPITOLO 1: UN'ARTE NUOVA CHE SI SVILUPPA DA FORME GRECHE


 
Si fissa l'inizio dell'arte romana momento in cui essa cominciò a sviluppare le sue caratteristiche specifiche, cioè con
le epoche delle grandi vittorie di Roma su Siracusa (211), Taranto (209), Perseo, re di Macedonia (168), fino alla
conquista e distruzione di Cartagine e Corinto (146). In quel periodo la maggior parte dei Romani vide per la prima
volta le opere d'arte greca, portate in grandi quantità nei cortei trionfali. Questo primo incontro non era in nessun
modo legato al godimento artistico: le opere d'arte greca, infatti, venivano esibite insieme alle armi conquistate e ai
prigionieri di guerra. A quell'epoca a Roma c'era tutta una serie di esponenti delle grandi famiglie aristocratiche che
facevano ogni sforzo per appropriarsi della cultura delle corti e delle città ellenistiche, per goderne quasi come nuovi
greci. Come in altre città dell'Italia centrale, a Roma, già nell'epoca arcaica, si era sviluppata una cultura figurativa
influenzata fin dal principio dall'arte greca e trasmessa inizialmente dagli Etruschi, in seguito dai Greci dell'Italia
meridionale e della Sicilia. Inoltre sono stati rinvenuti anche oggetti direttamente importati dalla Grecia. Nel
complesso, si ha l'impressione che nel IV secolo l'esigenza di immagini della chiusa e stabile società romana arcaica,
come delle altre città centro-italiche, fosse ancora relativamente modesta e si limitasse soprattutto alla decorazione
dei templi, alle offerte votive e funerarie e, a partire dal tardo IV secolo, alle statue onorarie dedicate a famosi politici
romani. Di simili statue facevano sicuramene parte il ritratto dll Bruto Capitolino che segue, per lo stile e il
trattamento della barba e dei capelli, uno schema ritrattistico greco risalente al 300 a.C. circa, ma si distingue dalle
opere greche contemporanee per le forme più dure e rigide e per il modellato più spigoloso. Nel corso dell’espansione
di Roma nell’Oriente greco fu una singolare forma di acculturazione, provocata dall’esigenza sentita dai Romani di
appropriarsi della splendida cultura del mondo mediterraneo per potersi inserire a pari livello dei rapporti politici
internazionali. Questo processo trasformò radicalmente non soltanto il modo di vivere dei Romani ma, in
prospettiva, anche quello delle città greche. L’adozione di determinate pratiche lussuose e dispendiose proprie dello
stile di vita greco, ma anche l’assimilazione della filosofia, della poesia e dell’arte della Grecia produssero, almeno tra
le classi elevate, un nuovo sistema di valori e una nuova coscienza di sé. Nel giro di poche generazioni si ebbe una
vasta trasformazione di tutti gli ambiti della vita. Con ciò cambiarono radicalmente anche funzioni e usi delle
immagini e, in seguito, si svilupparono le strutture di un sistema figurativo nuovo e specificatamente romano.
 
La cultura ellenistica modifica lo stile di vita dell’aristocrazia romana
 
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Secondo Plutarco, Marcello, il conquistatore di Siracusa (211), fu il primo ad importare a Roma non soltanto
un’enorme quantità di opere d’arte, ma insieme a queste anche la gioia di vivlrl, l’amorl plr il lusso l plr l’otium.
Plinio il Vecchio e altri moralisti romani, invece, avrebbero in seguito collegato il declino morale di Roma
direttamente all’adozione della lussuria greca. Questa critica si rivolgeva non tanto contro l’arte, quanto piuttosto
contro la mentalità e lo stile di vita alla greca: soprattutto si temeva che la cultura greca potesse portare alla
dissoluzione dei capisaldi della cultura romana. I Greci si divertivano a ironizzare sulle lacune culturali dei Romani,
soprattutto per quanto riguarda l’aspetto antiquato di Roma, che, per le due strade strette e tortuose, per i suoi
templi arcaici dalle decorazioni in terracotta e, infine, per la scarsità di edifici pubblici, di piazze e porticati, non
poteva certo gareggiare con le splendide architetture marmoree delle città greche contemporanee o di quelle
grecizzate dell’Italia meridionale (come Capua) e della Sicilia. L’immagine urbana di Roma cambiò soltanto a partire
dalla metà del II secolo a.C.: Augusto trasformò una città di laterizi in una città di marmo. Il Campo Marzio fu la
prima zona ad assumere tratti di una metropoli ellenistica: qui,
infatti, i generali vittoriosi potevano far innalzare nuovi templi di
marmo in stile greco, dotati di spaziosi porticati, arricchiti da
opere d’arte che componevano il bottino di guerra, in ricordo
delle proprie vittorie. I templi diventarono veri e propri spazi
espositivi di arte greca e le opere d’arte trasportate a Roma
acquistavano nuove funzioni, di natura principalmente estetica,
indispensabili per ambienti e monumenti sia pubblici sia privati,
se a questi si voleva conferire dignità e prestigio. I rilievi della
cosiddetta ara di Domizio Enobarbo costituiscono un
monumento caratteristico di questa fase di assimilazione
culturale: una grande base era decorata su tre lati da rilievi greci
di età ellenistica, che rappresentano il corteo nuziale del dio del
mare, probabilmente provenienti da un monumento dell’Oriente
smontato e ricomposti a Roma. Il rilievo del quarto lato fu
scolpito a Roma da artisti assai meno raffinati ed è rappresentata
una scena del rituale del clnsus, una specie di censimento fiscale, con un’offerta da parte del censore al dio della
guerra Marte. I corpi sensuali delle giovani Nereidi e dei tritoni presenti sugli originali rilievi greci, contrastano con
l’austera rappresentazione dei personaggi di rango equestre. I generali, e più tardi anche gli amministratori romani,
portavano a Roma dall’Oriente non solo un bottino di opere d’arte e prigionieri, ma anche di insegnanti, architetti,
scultori e pittori greci, richiesti per creare, nelle grandi dimore di Roma e nelle ville di campagna, quegli spazi in cui i
senatori romani potessero vivere in modo magnifico, cioè alla greca. Nella vita di Emilio Paolo Plutarco descrive in
che modo l’educazione (padlia) greca in quel periodo cominciasse ad essere integrata con l’antica educazione
romana. Tuttavia, la padeia greca era diretta non a sostituire la tradizionale educazione romana, bensì ad ampliarla.
La fede romana negli dei e le virtù aristocratiche del valore, della religiosità e della giustizia dovevano sempre
costituire il nucleo della concezione che i Romani avevano di sé. Tutto ciò era destinato ad essere integrato in uno
stile di vita nuovo e lussuoso, congiunto alla gioia e ai piaceri del vivere. E’ significativo, connesso con questo
fenomeno culturale, il contemporaneo ampliamento dell’antica casa romana ad atrio grazie all’aggiunta di spazi
porticati detti peristili greci, su cui si aprivano ambienti spesso riccamente arredati.
 
Nuovi spazi figurativi: la villa come luogo dell’otium e le sculture della Villa dei Papiri
 

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Particolarmente evidente è lo stretto rapporto che intercorre fra il processo di appropriazione


della cultura greca e la formazione di un linguaggio figurativo specificatamente romano
nell’arredo delle ville e delle dimore della città. La nascita della villa romana è strettamente
connessa col potenziale innovativo introdotto dall’assimilazione della culturale greca.
Inizialmente si pensava che un dispendioso stile di vita greco apertamente ostentato
avrebbe portato alla destabilizzazione del sistema politico e sociale della rls publica.
Dopo non molto tempo, però tale nuova cultura abitativa, pur suscitando proteste,
venne adottata anche nelle grandi dimore di Roma. Nelle zone più panoramiche del
golfo di Napoli, a partire dal II secolo a.C., si svilupparono paesaggi fittamente
disseminati di ville. Al contempo si arrivò anche
all’abitudine di dividere il tempo in due spazi:
quello dell’otium o del tempo libero e quello
del nlgotium o dei doveri. Un ruolo essenziale era
svolto dall’arredo delle stanze, che prevedeva ogni
genere di opere d’arte, quadri originali greci (come
nella Villa della Farnesina, a destra),
statue, pitture parietali e mosaici, ma anche
ornamenti architettonici, mobilio e suppellettili decorati con gusto, tutti
naturalmente in stile greco. Purtroppo non ci è stata conservata nessuna
delle ville più antiche in condizioni chiaramente leggibili, tuttavia a Malibu,
presso Los Angeles, l’imprenditore Paul Getty ha fatto ricostruire a
grandezza naturale
la Villa dei Papiri di
Ercolano (a sinistra) come
museo, chiamata in
questo modo dai numerosi rotoli di papiro che sono stati rinvenuti.
Nel Settecento l’architetto svizzero Karl Weber, su incarico dei
Borboni, studiò la villa non scavandola con metodo propriamente
archeologico, ma piuttosto esplorandola con una singolare tecnica
mineraria che utilizzava gallerie sotterranee. In questo modo
vennero rinvenuti pressoché intatti più di cento statue e busti in bronzo e in marmo, tutti, con poche eccezioni, copie
e varianti di opere greche di età classica ed ellenistica. Le sculture venivano collocate nella villa romana non in
quanto statue con funzione celebrativa, onoraria o religiosa, ma serviva piuttosto da prezioso ornamento del nuovo
abitare in stile greco e ad evocare singoli settori e aspetti della civiltà greca, comunicando in tal modo, direttamene o
indirettamente, modelli e valori culturali. Le statue di atleti ricordavano la cultura del corpo propria dei Greci; i busti
dei filosofi e dei poeti richiamavano alla mente il ginnasio e il teatro, altre statue mostravano monarchi ellenistici,
altre rievocavano miti, eroi e divinità. Alla nuova funzione delle immagini corrispondeva un nuovo e astratto tipo di
ricezione da parte degli osservatori. Ad esempio, l’Hermes seduto, copia romana del I secolo di un modello greco
del IV secolo a.C., non ricordava solo il dio messaggero del mito geco, ma era simbolo del successo economico e della
prosperità, a causa della sua dinamicità; il satiro ebbro, originale ellenistico del II secolo, che ride e canta disteso
su una roccia, va interpretato come quintessenza della gioia di vivere dionisiaca e quindi come incarnazione di un
determinato ideale di vita. Sebbene si debba ritenere che una buona parte delle sculture della Villa dei Papiri sia stata
acquistata nella seconda metà del I secolo a.C., né nella loro esposizione nei peristili e nelle stanze da soggiorno, né
nella scelta dei pezzi è stato finora possibile identificare un preciso e coerente programma figurati. Sembra piuttosto
che il proprietario mirasse anzitutto alle più varie e molteplici suggestioni associative. Sono stati trovati
anche ritratti di re ellenistici, come quello di Tolomlo II d’Egitto, il quale pose il proprio regno sotto il segno dei
piaceri della vita facendosi esaltare come nuovo Dioniso, accanto a celebri poeti greci, filosofi, uomini di Stato,
anch’essi di origine greca e il vasto mondo del mito. Importante è anche la testa del Doriforo e di un’amazzone
come pendant, copia dell’originale realizzata da Policleto intorno al 440 a.C. La testimonianza più significativa per
l’interesse verso le storie mitologiche è la villa di Sperlonga con i gruppi marmorei ellenistici collocati in una grotta
marina che ricreano le terribili avventure di Odisseo con Polifemo e Scilla: è stata rinvenuta in particolare la  testa
di Ulisse, che testimonia la maestria degli scultori greci provenienti da Rodi.
 
La pittura parietale: uno sguardo in spazi immaginari
 
Le pitture parietali di questo periodo ci attestano il bisogno di trasferirsi in un remoto mondo greco di cultura e di
lusso e che indica un’ulteriore e nuova funzione delle immagini. A partire dal
100 a.C. circa troviamo a Roma, ma soprattutto nelle ville e nelle case sepolte
dall’eruzione del Vesuvio, un tipo di decorazione fino ad allora sconosciuto, che
andava a coprire per intero le pareti degli ambienti interni. Dopo una prima
fase, in cui la pittura parietale imitò gli spazi interni delle dimore greche,
rivestiti d marmo, all’epoca del cosiddetto secondo stile (100-30 a.C.)
diventarono di moda prospettive architettoniche di vaste dimensioni, che
intendono non tanto ampliare illusionisticamente gli spazi, quanto aprirli alla
fantasia dello spettatore, che si sente quasi oppresso dalle immagini, poste una
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accanto all’altra. Ad esempio il cubicolo della villa di Boscoreale, è dominato da vedute di santuari, paesaggi
urbani e giardini con edifici e oggetti. Contrariamente alle più tarde decorazioni parietali (del cosiddetto terzo e
quarto stile), questa più antica pittura parietale figurata del I secolo a.C. mirava soprattutto alla rievocazione
immediata e invitavano lo spettatore a entrare nelle stanze dipinte come in spazi di fantasia. A questa passione per la
cultura e alle nuove funzioni delle statue e delle immagini corrispondono i rituali sociali tramandati dalle fonti
letterarie riguardo alla vita in villa delle classi elevate. Questi rituali creano un ponte tra le immagini e le situazioni
della vita reale. Anche se atteggiarsi alla greca divenne ben presto un modo per attribuirsi una certa distinzione
sociali, nelle antiche famiglie, sanno stati non pochi coloro che si facevano beffe di quell’infatuazione per la cultura
greca. Due famose coppe d’argento provenienti dalla villa di Boscoreale ironizzano contro la sapienza di poeti e
filosofi, in particolare contro la propensione alla polemica. Raffigurandoli ormai ridotti a scheletri mentre
enunciavano le loro massime. In quest’epoca, nell’intero repertorio figurativo privato, vi è la mancanza di una
qualsiasi tematica tipicamente romana: tutto sembra tendere a trasfigurare l’esistenza domestica reale mediante
continue associazioni colte relative alla Grecia. Negli spazi dell’otium si voleva vivere la Grecia come un “mondo
superiore”.
 
La scelta del meglio: l’imitazione come destino culturale
 
Il fenomeno dell’assunzione e rifunzionalizzazione su così vasta scala del repertorio di immagini e di una cultura
diversa doveva la sua origine ad una situazione storica in cui si incontrano due fattori reciprocamente indipendenti:
da una parte, l’inferiorità culturale dei Romani vincitori; dall’altro, le tendenze classicistiche e retrospettive già
presenti nella cultura ellenistica in corso di appropriazione. Durante l’età ellenistica, a partire soprattutto dal II
secolo a.C., nel mondo greco si era cominciato a guardare al passato vedendo nella civiltà della polis dei secoli V e IV
l’epoca determinante della propria cultura. Perciò, nelle arti figurative dei centri della cultura greca, si era giunti allo
sviluppo di tendenze stilistiche classicistiche, con richiami e repliche di celebri opere d’arte classica. Questo
fenomeno, inizialmente interno al mondo ellenico, subì un decisivo incremento con la crescente richiesta di opere
d’arte greca da parte dei Romani. L’impiego dell’artl dli copisti per le decorazioni educò i conoscitori romani ad
apprezzare le qualità estetiche e la giustapposizione di forme di stile arcaico, classico ed ellenistico, addestrando la
sensibilità alle differenze e alle peculiarità formali. Gli studi di retorica fecero
inoltre conoscere ai Romani le teorie sull’arte enunciate dagli intellettuali
ellenistici, i quali operarono una selezione fra le numerose opere d’arte
tramandate nell’età classica più famose, che serviva poi da guida ai Romani per
la scelta delle copie più apprezzate. Sebbene certe epoche dessero più peso di
altre alla precisione dei dettagli, tuttavia anche la copia più fedele rimane
un’opera a sé e la trasposizione in marmo di un originale in bronzo determina
anch’essa una resa particolare, che porta ad altre forme ed effetti. Nell’età
augustea si attribuiva particolare importanza alla precisione e alle strutture
lineari, come risulta evidente da una testa di amazzone splendidamente
riprodotta da un famoso originale del V secolo. Ma un’altra copia dello stesso modello, realizzata
solo poco tempo dopo, mostra già un’altra espressione, con ad esempio la capigliatura meno
dettagliata e più compatta. E’ vero che sulla scelta influivano spesso anche ragioni pratiche, come
l’accessibilità agli originali, il permesso di riprodurli e la richiesta specifica da parte dei
proprietari delle ville. La nostra idea delle opere dei grandi artisti greci si fonda, in gran parte su
ciò che i Romani hanno scelto. Fin dal principio l’appropriazione dell’arte greca non comportò
solo alla creazione di copie il più possibile fedeli agli originali, piuttosto, gli scultori usavano in
modo molto libero il repertorio di forme a loro disposizione. Per i committenti più esigenti
venivano prodotte varianti e innovazioni figurative in base alle quali, a volte, si combinavano
addirittura intenzionalmente elementi formali di fasi stilistiche
diverse. Ad esempio, la copia di una statua di Ares del V secolo
venne unita a quella di un’Afrodite posteriore di un secolo per rappresentare un
monumento funebre di due coniugi da Ostia; per decorare con statue le sale termali o
le facciate di teatri o fontane bastava che si riconoscessero da lontano gli schemi
iconografici che erano diventati ben presto noti ovunque; per le statue-ritratto di
famosi personaggi greci del passato era invece sufficiente la riproduzione del busto,
che offriva il vantaggio di poter osservare da vicino i tratti del personaggio
rappresentato. Erano illimitati gli ambiti in cui si potevano applicare forme e prototipi
greci: come ad esempio il pildl di un tavolo poteva prendere la forma di un
famoso gruppo con Ganimede realizzato da Leochares nel IV secolo, in cui
un’aquila lo porta verso l’Olimpo dove vivrà come coppiere degli dei; oppure il manico di un coltello poteva
rappresentare in miniatura il satiro Marsia appeso. Nacque così un repertorio di immagini chiave che si diffuse
gradualmente in tutto l’impero romano e che aveva il pregio della facile e universale leggibilità e comprensibilità,
fondata su schemi iconografici divenuti canonici.
 
Arte popolare?
 
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Il linguaggio figurativo classicistico permeava in tutti gli aspetti fondamentali della vita: la religione, le
rappresentazioni pubbliche e gli spazi figurativi privati delle abitazioni e delle tombe. Ne conseguì che gli artisti non
avevano più bisogno di ricercare nuove forme. Posti di fronte a un nuovo compito, gli artisti cercavano anzitutto
precedenti classici da adattare in una qualche forma ai loro scopi. Le difficoltà sorgevano nella cosiddetta arte
popolare, quando i committenti di ceto medio, soprattutto nella tarda Repubblica, avevano idee chiare su ciò che
volevano far rappresentare dagli artisti, senza però aver assimilato il canone formale figurativo dell’arte colta. Assai
caratteristico è il rilievo funebre di un uomo che probabilmente era impiegato nell’amministrazione o
nell’organizzazione dei giochi circensi, risalente al 100 d.C., in cui l’artista realizzò lo sfondo del circo con notevole
accuratezza nei dettagli, disponendo accanto ad esso la coppia di amanti con le mani congiunte (simbolo di
concordia coniugale), con la moglie di proporzioni inferiori rispetto al marito e così anche le figure del circo,
realizzate senza alcun rispetto delle regole dell’arte classica. Un altro esempio è costituito da un rilievo funerario
di un macellaio risalente al II secolo d.C., in cui il macellaio intendeva sottolineare l’elevato stato sociale che era
riuscito a conquistare nonostante la sua professione fosse ben poco prestigiosa; perciò lo scultore si impegnava a
rappresentare con precisione i differenti tipi di carni e di conseguenza il livello elevato della macelleria. Ma non tutti
gli scultori erano così abili come questi due. Spesso venivano realizzate raffigurazioni grossolane, dovute all’assenza
di modelli, ma che tuttavia affascinano per l’immediatezza della loro espressione. Secondo gli archeologi l’arte plebea
è una corrente artistica di tradizione secolare costruita attingendo alle antiche fonti italiche che poi, a causa delle
trasformazioni sociali, si affermò su vasta scala nella tarda antichità come l’autentica arte romana. In seguito si
intese quest’arte popolare nel senso di un’arte di classe o plebea. Entrambe queste ipotesi sono smentite dal fatto che
non è possibile dimostrare né una coerenza formale, né l’appartenenza dei committenti a uno stesso strato sociale.
Più persuasiva appare l’ipotesi di forme e moduli compositivi continuamente reinventati in semplici botteghe, e con
cui si mirava soprattutto alla comunicazione diretta e alla facile leggibilità, più che ad artistiche stilizzazioni in forme
classiche.
CAPITOLO 2: IMMAGINI CONTRASTANTI DELLA TARDA REPUBBLICA

Accanto al processo di appropriazione della cultura ellenistica esisteva una seconda forza elementare che, soprattutto
negli ultimi decenni della Repubblica, diede un decisivo impulso al nascente linguaggio figurativo romano: la
competizione sociale e politica dominante in tutti gli strati della società. Anche la classe media, soprattutto gli attivi
liberti, poteva raggiungere in breve tempo agiatezza e considerazione grazie al commercio d’oltremare. Che fossero
aristocratici o cavalieri o semplici cittadini, tutti aspiravano a mettere in mostra il loro avanzamento di status, ad
attirare l’attenzione su di sé. In nessun’altra epoca sorsero tanti nuovi edifici e monumenti originali quanto sotto la
tarda Repubblica. Fu questo, insieme all’età augustea, il periodo più creativo dell’arte romana (150 a.C. – 14 d.C.).
 
Rappresentarsi anche al di là di Roma
 
L’aspetto urbanistico di Roma, e ancora più quello delle città alleate dell’Italia centrale, si trasformò a partire dalla
metà del II secolo a.C. Nel giro di poche generazioni sorsero nel Foro Romano nuovi templi e basiliche, nel Campo
Marzio furono innalzati i santuari dei trionfatori, strutture portuali, magazzini, strade, nuovi mercati e dimore
lussuose e il centro di Roma venne circondato da una fascia verde con parchi e ville dei più facoltosi (horti). Le
antiche città dell’Italia centrale, tra cui Tivoli, Terracina e Palestrina, gareggiavano tra loro e con Roma, arrivando
addirittura in una prima fase a superarla con le loro architetture, soprattutto nei santuari, terrazzi e poderose
sostruzioni. Ciò che più interessava era non tanto l’effettiva funzione delle costruzioni, quanto la loro scenografica
visibilità da lontano. Tutto era stato progettato allo scopo di impressionare il visitatore. A partire dal IV secolo a.C. i
Romani presero a costruire strade durevoli che collegavano le colonie con Roma e consentivano
rapidi spostamenti delle legioni, ma soprattutto facilitavano il traffico e gli scambi commerciali.
La smania di farsi notare dominava la società delle grandi e piccole città. Il fatto di farsi
raffigurare su monumenti lungo le strade esprime visivamente il nuovo bisogno di
autorappresentazione dei cittadini. Molti monumenti funerari si presentano, con le loro ricche
architetture e i loro ornamenti figurati, come pubblici monumenti onorari. Un esempio è il
monumento dei Giulii a St. Rémy, nell’antica Gallia Narbonense, risalente alla metà del I
secolo a.C., che unisce in sé tre tipi architettonici che potrebbero esistere autonomamente e per
creare un effetto monumentale: il basamento ornato da rilievi, una specie di doppio arco
disposto a incrocio e infine un tempietto circolare nel quale erano disposte le statue della
famiglia di notabili dei Giulii. Monumenti simili, che come in questo caso cercano di superare sé
stessi con l’accumulazione delle forme, si rinvengono in Italia soprattutto in Campania e ad
Aquileia. Non di rado tra gli elementi architettonici e decorativi di questi monumenti si trovano suggestioni
provenienti da culture diverse: l’Oriente ellenistico, la tradizione etrusco-italica, perfino l’Egitto, come mostra la
famosa piramide di Cestio a Roma.
 
Concorrenza fra i potenti
 
A Roma la concorrenza tra i grandi generali e le loro continue trasgressioni all’ordinamento tradizionale
disgregarono la coesione dell’aristocrazia senatoria e l’intera struttura oligarchico-repubblicana dello Stato. A partire
dall’azione di Mario e Silla, la lotta prese a mirare al dominio di uno solo. Questa situazione si ripercuote sulle forme
dell’autorappresentazione politica. Le iniziative dei triumviri superarono ogni limite, tra cui il teatro di Pompeo, il
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Forum Iulium di Cesare e il mausoleo del giovane Ottaviano Augusto. Purtroppo l’apparato decorativo di questi
edifici è andato gran parte perduto. La compresenza di forme ellenistiche e classicistiche doveva offrire un quadro
assai variegato, in particolare nelle statue-ritratto. Abbiamo difatti notizie di statue onorarie erette per magistrati e
condottieri romani fin dal tardo IV secolo a.C.: si trattava in prevalenza di statue togate e di statue equestri con le
corrispondenti insegne delle magistrature, come il cosiddetto Arringatore di Perugia. Di particolare interesse è
l’adozione della rappresentazione statuaria in forme eroiche, secondo schemi che prima erano stati usati soprattutto
per le statue dei monarchi ellenistici. Infatti, anche nelle statue onorarie romane di nuovo tipo, non più riferite a
concrete cariche pubbliche, si riflette la dissoluzione dell’antico ordinamento fondato sul cursus honorum e
sull’appartenenza familiare. In ogni caso, si fecero erigere in ogni luogo, nelle pazze come pure in prossimità delle
tombe, statue equestri ricche di pathos e statue onorarie in nudità eroica, che venivano così a trovarsi vicino alle
statue togate più antiche o contemporanee. Particolarmente interessante è una statua del nuovo tipo rinvenuta a
Cassino e risalente all’epoca della dittatura di Silla: rappresenta forse un patronus della città con il piede appoggiato
su un supporto, in cui l’energica torsione della testa e il corpo nudo sono elementi derivati dall’arte ellenistica e il
contrasto con le semplici statue togate è molto forte. Oltre agli edifici e alle statue onorarie, il ceto politico dirigente
disponeva di un ampio repertorio di possibili forme di autorappresentazione anche tramite l’arredo delle proprie
dimore e ville e la moneta.
 
L’orgoglio per il proprio volto
 
La formazione del ritratto realistico è un genere caratteristico dell’arte romana. Ci troviamo inizialmente di fronte
alla coesistenza di diverse concezioni ritrattistiche, tutte risalenti all’arte ellenistica, anche perché gli artisti impiegati
dai Romani erano greci. Le differenze più marcate sono quelle tra i ritratti espressivi e ricchi di pathos e quelli senza
formule patetiche e descritti con realismo, fino al particolare più spiacevole. Un buon esempio è il ritratto di un
aristocratico romano del tardo II secolo a.C., che rappresenta molto
realisticamente un uomo anziano che si presenta, malgrado la sua età,
caratterizzato da una indomita energia. Le forme di pathos qui impiegate,
come la torsione del capo, la tensione dei tratti del volto e la bocca
semiaperta, derivano tutte dal repertorio dell’arte ellenistica. Di Pompeo
conosciamo due diversi ritratti: il più antico è ancora concepito in base
al modello ellenistico del ritratto cosiddetto patetico, e il più tardo, invece,
stilisticamente concepito in forme più distese, tenta di congiungere la
tradizionale forma ellenistica ricca di pathos col realismo civico romano.
Una peculiarità dei migliori ritratti di quest’epoca è la capacità di
caratterizzare le qualità psichiche, oltre che fisiche, del personaggio rap presentato. Il ritratto
realistico, che rinuncia a qualsiasi forma di pathos, si sviluppò non prima degli ultimi decenni
della Repubblica, ma poi divenne la forma preferita. Un esempio è il ritratto di Cesare,
dove ci troviamo davanti all’espressione superiore e distaccata di un aristocratico. Nello
stesso periodo continua però a predominare nelle città greche la tendenza tradizionale a
ringiovanire e idealizzare i tratti del volto. Al contrario, agli uomini politici in concorrenza fra
loro a Roma premeva presentarsi come individui facilmente riconoscibili. E’ presumibile che
questo duro realismo riuscisse ad esibire in modo convincente anche tipici valori come la
severità e l’austerità. Tuttavia non è mai stata dimostrata la teoria della derivazione del
ritratto realistico dalle maschere di cera prese dal volto dei defunti e appese negli atri delle
grandi dimore patrizie. Lo stile realistico del ritratto si diffuse assai al di là delle classi
dominanti. Chi aveva abbastanza denaro si faceva scolpire una statua; più convenienti erano
invece i bassorilievi, preferiti dai liberti, che si facevano ritrarre con moglie e figli. Grazie poi ai ritratti realistici essi
potevano farsi ricordare dai conoscenti e, in questo modo, allidere al successo dei loro sforzi per raggiungere la
libertà e l’agiatezza. Si può perciò affermare che nello stile realistico e descrittivo del ritratto individuale di età tardo-
repubblicana si può ravvisare anche un’espressione della situazione generale di trasformazione e di mobilità sociale.
 
CAPITOLO 3: DOMINIO E ORDINE
 
Soltanto con la fondazione del principato ad opera di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) si sviluppò un sistema figurativo
coerente, e ciò vale in particolare per i monumenti pubblici.
 
L’imperatore: principato e immagine del sovrano
 
Terminata la guerra civile con la battaglia di Azio (31 a.C.), Ottaviano ricevette onori da ogni
parte: per lui vennero eretti archi di trionfo, altari, quadrighe e statue in tutto l’impero, che lo
rappresentavano con corazza, a cavallo o in nudità eroica, ma le più diffuse in questa fase
nell’Occidente romano, divennero le statue togate, preferendo farsi rappresentare nella veste
più comune del cittadino romano. Tale rappresentazione corrispondeva all’idea che di sé aveva
Augusto come princeps, ossia come primo cittadino. La bella statua della via Labicana lo mostra
mentre celebra un sacrificio col capo velato, come prescriveva il rito. Le statua e degli imperatori
venivano prodotte in serie e le botteghe impiegavano specialisti diversi per le differenti parti
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della statua e disponevano inoltre di modelli ben noti: si trattava di corpi standard che esprimevano in forma astratta
i meriti, le qualità e le virtù dei personaggi celebrati, come cittadini tramite la toga, come militari attraverso la
corazza, la loro instancabile presenza nell’impero con l’abito da viaggio, cioè una corta tunica e mantello, e la loro
autorità e il rapporto da dominatori nei confronti dei nemici e dei popoli sottomessi utilizzando la tipologia della
statua equestre. I monumenti di grandi dimensioni, ad esempio la quadriga trionfale, celebravano il generale
vittorioso. Si continuavano a usare tipici di corpi nudi o seminudi di dei ed eroi, tratti dal repertorio dell’arte greca;
essi, però, nel nuovo contesto storico, alludevano anche alla vicinanza dell’imperatore agli dei, con funzione di
mediazione. Perciò, mentre i corpi erano
intercambiabili, soltanto le teste mostravano tratti
individuali e si prestavano ad esprimere messaggi di
tipo più personale. Questi schemi e tipi statuari non
erano affatto riservati ai soli imperatori, soprattutto
per le statue togate, in quanto la toga era il comune
abito ufficiale dei cittadini; altri magistrati potevano
essere onorati con statue equestri o loricate e le
statue in nudità eroica vennero impiegate perfino
per statue funerarie di semplici cittadini.
Nell’Oriente greco era da gran tempo consuetudine onorare in forma di gruppi statuari intere famiglie, comprese le
donne. Questa forma di onorificenza venne adottata per la dinastia giulio-claudia, nonostante essa fosse in contrasto
con la generale tipologia del principato. Il fatto che forme particolarmente tipiche di ritratti di sovrani si siano
sviluppate soltanto a partire dal dominio di Costantino ha le sue motivazioni nell’ideologia del principato. Questo
‘stile del principato’ suggeriva all’imperatore di evitare ogni forma di comportamento che potesse far pensare alla
monarchia e al potere assoluto, ma nonostante questo travestimento repubblicano anche le statue non lasciavano
alcun dubbio sul reale potere dei sovrani: grazie al numero e alle dimensioni, i monumenti onorari imperiali
dominavano totalmente lo spazio pubblico, fori e strade. Nel contempo le statue degli altri magistrati, anche nelle
cittadine di provincia, venivano sempre più relegate ai margini delle piazze o in altri luoghi di esposizione secondari.
Invece per quanto riguarda i busti la vicinanza dell’immagine imperiale ai cittadini veniva chiaramente espressa nei
ritratti destinati agli spazi privati. Si può dunque concludere che all’origine di ciascuna serie di questi tipi ci fosse un
prototipo alla cui creazione potrebbe aver collaborato lo stesso imperatore. Con questo mezzo, egli poteva infatti far
capire in che modo voleva che i sudditi percepissero la sua persona. Un tale prototipo, creato da un ritrattista di
corte, sarebbe stato poi diffuso nelle botteghe di tutto l’impero attraverso vie a noi sconosciute; possiamo però
presumere che ciò avvenisse mediante calchi in gesso. Nella riproduzione di modelli, infatti, i singoli scultori, specie
nelle province, spesso adottavano soluzioni individuali, sia perché cercavano di adattare l’immagine del sovrano
all’idea che se ne erano fatti, sia perché le loro possibilità tecniche e le loro tradizioni formali rendevano difficili copie
più precise, I dettagli più affidabili sono di regola i particolari della pettinatura sopra la fronte, che valgono quasi
come segni di riconoscimento. Ma la differenza tra il volto ideale di Augusto, distaccato e senza età con la sua
capigliatura che prende a modello le opere greche classiche, e l’impietosa resa della vecchiaia di Vespasiano,
esprime bene la diversa idea di sé dei due sovrani: sublimità e distacco nel primo caso, vicinanza ai cittadini e
risolutezza nell’altro. Qui non si tratta soltanto di enunciati politico-programmatici, quanto di stile personale, i quali
però non possono, anzi non devono, mostrare un’impronta troppo personale. Perciò un ritratto come quello
dell’elegante Lucio Vero, può essere inteso anche come espressione particolarmente tipica delle preferenze del
gusto contemporaneo. Mentre per i successori di Augusto della famiglia giulio-claudia, e nuovamente per gli
Antonini, era importante principalmente trasmettere sicurezza riguardo alla continuità e all’appartenenza familiare,
Nerone (54-68) e Caracalla (211-217) vollero consciamente distinguersi dai loro predecessori. Nerone si voleva
presentare evidentemente in maniera elegante; anche il suo corpo grasso poteva essere concepito come bello, dando
l’idea di quella lussuosa abbondanza. Del tutto diversa è la selvaggia espressione di energia e autoritarismo, forse
anche di temibile violenza, che si trova nei tardi ritratti dell’imperatore Caracalla.
 
Il barbaro come antagonista dell’imperatore e le immagini di violenza nell’arena
 
Nella vittoria sui barbari si fonda la vera e propria legittimazione del potere imperiale, perché la pace e il benessere
dipendono dalla sicurezza dei confini, garantita dall’imperatore e dai suoi eserciti. Perciò la statua loricata divenne
sempre più la principale forma di rappresentazione degli imperatori, caratterizzate da
corazze in metallo e decorate in rilievo. Sulla corazza della famosa statua di Augusto
proveniente dalla villa di Livia a Prima Porta si vede, la restituzione, a un generale
romano, da parte del re dei Parti, delle insegne sottratte a Crasso nella sanguinosa battaglia
di Carre. I barbari rappresentano i veri avversari dell’imperatore, la cui natura vincente
deve ogni volta dar prova di sé su di loro. Il barbaro incarna l’elemento non civilizzato,
estraneo e minaccioso, che dev’essere non solo sconfitto, ma radicalmente estirpato, o
almeno questa è l’immagine che ne dà l’ideologia imperiale di Roma. Nelle figure
stereotipate dei barbari sono compendiate in pochi elementi iconografici tutte le qualità
negative, tra cui posizione di assoggettamento, smorfie del volto e abbigliamento non
romano. Contrariamente all’arte greca di età classica, nell’arte imperiale non vengono
rappresentate vere e proprie scene di battaglie: ogni volta i barbari sono già sconfitti, si danno alla fuga o implorano
pietà, come nella Colonna Traiana. Alla loro sottomissione segue la riduzione in schiavitù e non c’è quasi nessun arco
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trionfale che non mostri barbari incatenati e asserviti. Naturalmente, a questi stereotipi figurativi e ideologici non
corrisponde affatto il reale rapporto dei Romano con i popoli al di là dei confini dell’impero, in quanto nell’esercito
romano i popoli stranieri militavano come ausiliari. Il barbaro delle raffigurazioni corrispondeva al barbaro nella
mente, cioè al concetto che se ne aveva comunemente, e questo portò addirittura alla costruzione di fortificazioni di
confine che, come si è visto di recente, non avevano tanto scopi difensivi, quanto piuttosto funzioni simboliche,
perché contrassegnavano la demarcazione tra impero romano e mondo barbarico, tra dentro e fuori, tra civiltà e
luoghi selvaggi. Gli anfiteatri pubblici, che si trovano in tutte le maggiori città romane, erano luoghi di lotta e
distruzione, in cui avvenivano combattimenti tra gladiatori e fiere e da cui il pubblico trovava forme di violenza
istituzionalizzata, che servivano a scaricare le tendenze aggressive e le tensioni sociali. L’esibizione della violenza
celebrava anche il coraggio e il valore dei gladiatori, che lottavano per la vita o la morte, ma era possibile intendere
questi spettacoli anche come raffigurazioni della riaffermazione dell’ordine. Anche la lotta contro animali feroci,
però, poteva essere paragonata a quella con i barbari, nel senso di una guerra contro la condizione selvaggia.
 
Il sistema dell’arte imperiale
 
Il carattere sistematico dell’iconografia imperiale è splendidamente illustrato dal Gran Cammeo di Francia,
capolavoro dell’arte dell’intaglio risalente alla fase tarda del principato di Tiberio, che rappresenta i membri della
casa imperiale e i ruoli e la gerarchia sono espressi con molta chiarezza: al centro l’imperatore che, simile a Giove, è
rappresentato come sovrano universale; accanto a lui siede al trono sua madre Livia; nella fascia superiore è
rappresentato in volo chi è già defunto; in basso invece si vedono i barbari sottomessi, segno visibile del merito e
della sicurezza dell’impero. L’apoteosi rappresenta la suprema forma di onorificenza resa ai sovrani e, nel contempo,
simboleggia figurativamente il rapporto fra mortali e immortali. All’apoteosi si collegava l’istituzione di un culto
particolare, con sacerdoti, festività e giochi annuali, un altare e spesso anche un tempio. Sull’ Ara Pacis, l’altare
dedicato alla pace augustea, votato dal Senato per celebrare il felice ritorno di Augusto dalle province ed eretto fra il
13 e il 9 a.C., vengono celebrate le conquiste del suo impero: tutto in quest’opera allude ai concetti di fecondità e
abbondanza, anche le parti più decorative, come le ghirlande lungo le pareti interne. Sulla parete esterna del recinto
dell’altare era rappresentata, di fronte alla scena di pace, la dea Roma seduta su un cumulo di armi: la pace e il
benessere di tutti sono fondati sulla sicurezza dell’impero che, a sua volta, poggia sul successo dell’imperatore. Sia i
rilievi dell’Ara Pacis, sia i rilievi della corazza istituiscono un forte collegamento tra la vittoria imperiale sui nemici
barbari e lo stato di benessere di cui gode non solo il territorio dominato dai Romani, ma addirittura tutta la terra
abitata. Per trasmettere lo stesso messaggio, ma con altri supporti figurativi, vennero create immagini di più
semplice lettura e non meno efficaci, come Vittorie armate e la personificazione della Pace: questi messaggi si
ritrovano sia nei grandi rilievi storici, sia nella monetazione imperiale.
 
Arte imperiale e rituale: i cosiddetti rilievi storici
 
Alcuni rilievi collocati originariamente sull’Arco di Marco Aurelio vennero reimpiegati più tardi nell’Arco di
Costantino. Le immagini narrano una delle spedizioni militari contro la popolazione germanica dei Marcomanni, in
cui si vede l’imperatore percorrere le tappe tipiche delle spedizioni militari: partire da Roma per la guerra
(proflctio), prima della battaglia celebrare il sacrificio (piltas) e infondere coraggio alle truppe con un discorso
(adlocutio), trattare i barbari a seconda del loro comportamento (submissio/cllmlntia), dopo la vittoria, ritornare a
Roma in corteo solenne (advlntus), celebrare il trionfo, durante il quale viene offerto un sacrificio di ringraziamento
presso il tempio di Giove Capitolino, e infine rendere il popolo partecipe della sua vittoria con distribuzioni di denaro
e pubblici giochi (liblralitas). In questo monumento per Marco Aurelio vi sono immagini composte in maniera
semplice e figure facilmente leggibili. I rilievi possono considerarsi modelli esemplari di un genere figurativo
tipicamente romano. La successione degli eventi e il modo in cui sono presentati hanno un carattere fortemente
codificato; dunque si narra di una sequenza di rituali prestabiliti. Ogni guerra dell’imperatore contro i barbari deve
svolgersi, nell’arte imperiale come nella percezione dei cittadini, in questa successione. Così il singolo evento viene
inserito in un ordine fisso e immutabile, sancito dagli dei e in grado di garantire sicurezza e durata. Una storia delle
immagini, infatti, non può limitarsi alle opere d’arte, ma deve piuttosto
includere anche le effimere immagini viventi che si saranno impresse nella
memoria dei partecipanti assai più profondamente di quelle dei rilievi che le
rappresentavano. Le grandi feste imperiali, come un trionfo o un’apoteosi,
erano collegate a spettacoli straordinari. Il rilievo sulla base della
colonna di Antonino Pio (138-161), raffigurante l’apoteosi della
coppia imperiale, si limita a rappresentare la vera e propria ascesa al cielo.
La funzione specifica dei rilievi storici risulta particolarmente chiara da questo
esempio: essi devono sempre mantenere il ricordo degli avvenimenti
memorabili del rituale imperiale e del loro significato e farne rivivere
l’esperienza mettendoli davanti agli occhi dell’osservatore, senza però riferirsi
troppo fedelmente ai dettagli della realtà storica. Non molto diversamente avviene nel caso dei rilievi a spirale,
apparentemente senza fine, che con le loro centinaia di figure avvolgono le colonne onorarie degli imperatori Traiano
e Marco Aurelio. Si è potuto recentemente dimostrare che esse scandiscono le campagne militari secondo precisi
rituali, che si ripetono sempre uguali a sé stessi. La spedizione viene rappresentata all’osservatore come un fatto
perfettamente programmato e controllato in ogni movimento. I rilievi, però, sono da intendersi non come singoli e
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precisi messaggi, bensì come un dettagliato registro in cui il Senato fissa, per così dire, per l’eternità le intramontabili
imprese dell’imperatore e del suo esercito, come se fosse una specie di trasposizione celebrativa e una conferma dei
resoconti di guerra ufficiali presentati al Senato e depositati nell’archivio di Stato. La colonna onoraria eretta per
Marco Aurelio dopo il 180 era concepita secondo il modello della Colonna Traiana, ma allo stesso tempo si cercava di
migliorarne la visibilità conferendo maggiore altezza alle fasce a rilievo. Anche il linguaggio formale si differenziava
considerevolmente da quello del modello. Colui che progettò i rilievi si servì di uno stile nuovo, espressivo, con cui
voleva far risaltare il suo interesse per le situazioni drammatiche e per gli aspetti psicologici. Visti nel loro
complesso, i rilievi storici celebrano quasi esclusivamente le gesta e le virtù degli imperatori: si può quindi
legittimamente parlare di un’arte imperiale. Oltre le guerre contro i barbari, un ruolo importante svolgevano anche i
temi di politica interna. Gli archi onorari venivano usati come enormi bacheche per la pubblicità e come veicoli di
immagini, ma la loro funzione vera e propria consisteva nel servire da basamento alle quadrighe trionfali e alle statue
dei personaggi celebrati. Grazie alla loro ridondanza, le immagini dei monumenti più diversi si integravano
reciprocamente e rimandavano continuamente ai luoghi mitico-storici dei rituali, a templi, altari e altri monumenti
significativi.

Arte ufficiale come propaganda? Come funzionavano le immagini


 
Il princeps offre tutte le sue imprese al popolo e questo ricambia, tramite o insieme al Senato, con testimonianze
della sua gratitudine in forma di onorificenze, che potevano essere espresse nella maniera più varia, mediante templi
ed altari per il culto imperiale, statue, archi e decreti onorari o con immagini diffuse tramite serie di monete.
Naturalmente l’importanza e la scelta di questi onori da rendere al sovrano dipendevano dalle diverse possibilità dei
committenti. Le immagini e i simboli dell’arte imperiale impiegati in questi monumenti si erano sviluppati già sotto
Augusto in un tempo relativamente breve. Il repertorio sistematico di immagini celebrative sorto in quel contesto
venne, è vero, arricchito o ricevette una diversa accentuazione da parte degli imperatori successivi, ma rimase in
sostanza straordinariamente stabili. La celebrazione dell’imperatore si trasformò così nel più importante strumento
di autorappresentazione politica e sociale nella comunità. Quindi il complesso meccanismo delle celebrazioni, così
ampio e diffuso, si può intendere anche come una forma di partecipazione e integrazione sociale e politica. A Roma
l’imperatore e il Senato prendevano decisioni sull’erezione di monumenti negli spazi pubblici. Qui i monumenti
imperiali giunsero, con l’andare del tempo, a dominare quasi totalmente lo spazio pubblico. Nelle altre città talvolta
l’aristocrazia locale aveva maggiori possibilità di autorappresentazione. La concorrenza tra città contribuì
notevolmente alla diffusione e all’intensificazione del culto imperiale, dapprima nelle città dell’Italia, poi anche nei
grandi centri dell’Oriente greco e dell’Africa settentrionale. La magniloquente immagine dell’imperatore come
rappresentante di Giove in terra venne forse introdotto da un poeta della tradizione ellenistica in un carme in onore
di Augusto. Artisti e committenti adottarono poi questa formula per la Gemma Augustea e, più tardi, per il Gran
Cammeo di Francia, portati poi in dono alla casa imperiale. Il passo successivo fu la sua inclusione nel repertorio di
schemi iconografici delle statue di imperatori ancora viventi. Questo tipo di rappresentazione, dell’imperatore come
Giove, divenne usuale al più tardi sotto Claudio e, in seguito, fu utilizzato non soltanto per i sovrani defunti e
divinizzati, ma anche per quelli ancora in vita. A partire da questa situazione si resero possibili nuove combinazioni
di immagini. Ma il repertorio dell’arte imperiale può essere ampliato e incrementato dai dedicanti, perfino contro
l’intenzione originaria dei personaggi da onorare.  
 
L’interiorizzazione degli stereotipi dell’arte imperiale
 
Elementi dell’arte imperiale vennero accolti in diversi settori del mondo figurativo privato e anche questo fenomeno
può essere inteso come espressione dello scambio tra princeps e cittadini, ma l’uso nell’ambito
dell’autorappresentazione privata va distinto dall’impiego di tipo più genericamente decorativo. Più complesso di
presenta l’impiego di singoli elementi dell’iconografia imperiale su altari funerari e sarcofagi o nelle pitture parietali,
poiché in questi casi tali formule sono inserite in più ampi contesti, che non hanno più legami diretti con
l’imperatore. Si potrebbe forse parlare di forme di interiorizzazione psicologica, le quali presuppongono una vera e
propria ricezione positiva dell’iconografia imperiale, che tali formule figurative, a loro volta, naturalmente
contribuivano poi a stabilizzare. Un ambito particolarmente interessante è costituito dalla penetrazione del ritratto
imperiale nella rappresentazione figurativa privata. Se un imperatore adottava una nuova moda, ciò comportava,
grazie all’onnipresenza dei ritratti imperiali, uno straordinario effetto moltiplicatore. Non pochi cittadini sceglievano
i più popolari ritratti imperiali come modelli per il proprio ritratto, cosicché questo o quel privato si faceva
rappresentare con lineamenti simili a quelli dell’imperatore. Ad esempio, vi è il ritratto di Traiano e di un
sacerdote di un culto orientale che imita il ritratto stesso. Abbiamo dunque a che fare con un processo guidato
allo stesso modo da interessi politici e privati e che si sviluppava in larga misura anche in maniera autonoma,
traendo spunto dai corrispondenti modelli ufficiali. Senza dubbio, l’accettazione generale dipendeva dal fatto che i
personaggi più in vista delle classi alte e medie potevano così identificarsi con l’imperatore. L’arte imperiale svolgeva
funzioni essenziali nel governo generale della cultura dell’impero romano: essa tentava di comunicare il senso di
sicurezza e la fiducia nell’indistruttibilità della stabilità e dell’ordine garantiti dall’imperatore all’interno dell’impero,
e così serviva anche ad allontanare le paure. L’efficacia delle immagini si fondava sulla continua ripetizione delle
stesse formule sui più vari media figurativi, sulla loro autorità garantita dagli dei e dai miti e, non da ultimo, anche
sulla bellezza normativa della forma greca. Era essenziale per il singolo cittadino poter prendere parte a questo
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cerimoniale in forma di immagini e poter così rafforzare la propria identità attraverso la sua corrispondente
adesione.

CAPITOLO 4: LA CASA COME LUOGO DELLA GIOIA DI VIVERE

La casa è un mondo figurativo molto particolare, nettamente in contrasto con le nostre idee sulla severità e austerità
degli antichi Romani. Ciò che per la classe dirigente della tarda Repubblica ebbe inizio come adozione dell'arte greca
e dello stile di vita ellenistico, a partire dal I secolo a.C. e poi nel I secolo d.C. si consolidò in uno stile abitativo
accolto anche dagli strati sociali più modesti, diffondendosi così in tutta la società. La casa venne ad essere concepita
come il luogo in cui era possibile godersi la vita a seconda delle proprie possibilità
economiche. E' sorprendente il modo in cui il mondo figurativo privato rispecchiasse
ampiamente queste concezioni idealizzate della gioia di vivere e della felicità. I cittadini
cercavano di dimostrare il proprio status ricorrendo a un'ambiziosa
autorappresentazione nelle loro abitazioni e anche sulle loro tombe. Se si osserva la
pianta delle case pompeiane, si può notare come già nell'edilizia domestica venissero
imitati anche nelle abitazioni più piccole e modeste.  Si costruivano luoghi da riposo
all'aperto, ma i proprietari si preoccupavano soprattutto di avere a disposizione un
triclinio di una certa ampiezza. Nell'ambito di questa generale tendenza alla
nobilitazione degli spazi, che si può osservare anche nelle abitazioni in affitto, un ruolo
decisivo era infatti svolto dal banchetto, che rappresentava il vero e proprio centro della
comunicazione sociale. L'abitante e il visitatore delle dimore di età imperiale erano
avvolti da una grande quantità di immagini. La maggiore densità di raffigurazioni si
trovava ovviamente negli ambienti in cui si ricevevano gli ospiti e in cui si soggiornava
più a lungo, mentre di solito le stanze della servitù e le cucine non erano decorate. La parte dell'abitazione destinata
all'otium veniva quindi chiaramente caratterizzata come tale dalla decorazione figurativa. Nella Casa dei Vettii vi
sono differenti prospettive architettoniche. Il piccolo ambiente da soggiorno e riposo è decorato, dal basso in alto, da
immagini di diverso tipo che si dispongono su tre livelli. Lo spazio principale delle pareti allude a una pinacoteca
attraverso tre grandi pitture a tema mitologico, che dominano ogni parete; ai lati di queste grandi pitture vi sono
fantastici scenari architetture. Una simile struttura della composizione si intendeva non tanto far riferimento a
categorie concettuali che si potessero perfettamente ripercorrere,
quanto piuttosto suscitare il maggior numero possibile di impressioni
e di associazioni. Importanti, oltre le prospettive architettoniche,
sono anche le imitazioni di preziosi rivestimenti marmorei e di
costose suppellettili di altre case pompeiane, che evocano l'immagine
di un lusso che andava al di là di qualunque concreta esperienza dei
contemporanei.  A ciò si aggiungevano le numerose figure fluttuanti
sulle grandi superfici monocrome delle pareti: principalmente felici
coppie dionisiache che si tengono abbracciate, musicanti librati in
aria e genii con cornucopie. Nelle finte architetture, accanto alle divinità sovente compaiono anche figure del mondo
culturale greco, trasfigurato e ridotto a pochi aspetti, come atleti, opliti, sacerdotesse, filosofi. Di solito i motivi
figurativi non hanno alcun diretto rapporto fra loro. Soprattutto nella pittura pompeiana più tarda, quella del
cosiddetto quarto stile, si mira non tanto alla coerenza dei contenuti, quanto a suscitare un'impressione di ricchezza,
offrendo contemporaneamente numerosi stimoli alla fantasia. La sfera dell'imperatore e della vita ufficiale era
totalmente assente già dagli affreschi del cosiddetto secondo stile. Lo stesso vale, con poche eccezioni, per l'intero
repertorio figurativo delle abitazioni nel corso dell'età imperiale. Evidentemente in casa non si doveva pensare alla
politica e ai problemi della vita quotidiana, e in ogni caso ciò non si doveva fare direttamente, ma al massimo allo
specchio di metafore mitiche. Questa separazione tra le immagine destinare agli spazi pubblici e quelle per gli spazi
privati rappresenta una sorprendente caratteristica dell'arte romana. Ma rimanevano esclusi dal mondo figurativo
privato delle abitazioni anche altri ambiti noti dall'esperienza diretta, come la banale vita quotidiana e le attività
degli schiavi e dei bambini. Un'eccezione è costituita dalle donne e dai giovinetti che leggono o compongono versi
con lo stilo in mano. Tali immagini ben si adattavano agli ambienti dell'otium proprio perchè esaltavano la cultura di
chi vi abitava. I Greci e i Romani amavano la natura solo nella forma addomesticata dei giardini e dei parchi, e
pertanto le finestre delle stanze si aprivano di regola sull'interno delle case, verso l'atrio, il peristilio o il giardino. Lo
stesso vale per gli affreschi: anch'essi mostrano, quasi sempre, prospettive di giardini. L'immagine più famosa di
questo tipo proviene dalla villa di Livia a Prima Porta, a nord di Roma: essa si trovava in un ambiente
progettato per la stagione calda, privo di finestre e decorato sui quattro lati con pitture di giardini. L'effettiva
freschezza dell'ambiente e le allusioni fantastiche si integrano reciprocamente per accrescere
la sensazione di benessere. Le immagini presenti all'interno delle case creavano di continuo
un mondo immaginario, che era presentato e percepito come di gran lunga più bello e
piacevole della realtà quotidiana di cui si aveva esperienza, fuori e dentro la casa.

Vivere con i miti

Le scene mitologiche costituiscono la maggioranza delle immagini presenti nelle abitazioni,


soprattutto per quanto riguarda i miti relativi ad Afrodite e Dioniso e le avventure amorose
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degli dei e degli eroi. Per la rappresentazioni di formato più ampio erano particolarmente apprezzate le coppie di
amanti, come Venere e Marte nella Casa di Venere, Apollo e Dafne nella Casa dell’Efebo e Polifemo e
Galatea nella Villa di Boscotrecase: spesso in questi casi scompariva l'intero contesto narrativo delle singole
drammatiche storie. Evidentemente ciò che interessava non era tanto le trame di queste storie d'amore, quanto
piuttosto l'illustrazione del tranquillo appagamento amoroso. Gli amanti, infatti, sono sempre rappresentati con
corpi ben fatti, per lo più nudi. Anche tra le numerosi immagini dionisiache la scelta si orienta quasi esclusivamente
su scene ispirate alla gioia di vivere. Naturalmente, nelle abitazioni di età imperiale si trovavano anche immagini
mitologiche delle imprese eroiche della saga troiana, delle fatiche di Ercole o dei miti particolarmente amati del
teatro, come quello di Ifigenia e Oreste. La letteratura e la cultura della Grecia giocavano un ruolo decisivo nella
scelta. Talvolta ci si imbatte in storie ed immagini dichiaratamente tragiche, ma sono rare. La figura più popolare
dell'Odissea è Polifemo, ma non in veste di selvaggio gigante che divora i compagni di Odisseo, bensì come amante
infelice che corteggia Galatea. Perfino Achille compare più nella veste di innamorato che in quella di guerriero.
Grazie alla loro antichissima tradizione e alle loro connotazioni religiose, i miti e le storie degli eroi omerici
mantennero un'autorità indiscussa durante tutta l'antichità. Per questa presenza quotidiana già in Grecia,
nell'antichità arcaica, le persone vivevano insieme ai miti: in altre parole, trovavano le situazioni della propria vita,
l'amore e la morte, la lotta e l'esercizio fisico, il congedo, la festa e il lutto, riflesse nei miti corrispondenti che, a
seconda delle circostanze individuali, offrivano sostegno e conforto oppure invitavano alla gioia di vivere e al piacere
dei sensi. La metafora mitica era un mezzo grazie al quale la società si riconosceva nei valori comuni, nei desideri e
nelle speranze: Un altro vantaggio offerto dalle immagini mitiche era rappresentato dal fatto che esse consentivano
di trattare temi ai quali, per convenzione sociale, non ci si poteva abbandonare liberamente nella vita reale, come
avveniva, per esempio, nelle scene erotiche. Tutto ciò vale soprattutto per l'ultima fase delle pitture parietali
pompeiane che, grazie all'eruzione del Vesuvio che le ha ricoperte, si sono in buona misura conservate. Nel II e III
secolo d.C. non sono intervenute trasformazioni radicali nella struttura delle pitture parietali. Negli ambienti
decorativi riccamente decorati si preferivano i paramenti marmorei in cui si inserivano rilievi figurati. Fino alla tarda
antichità le immagini mitiche rimasero un elemento essenziale della decorazione delle abitazioni. Anche i mosaici
più tardi hanno continuato a rispondere agli interessi più vitali dei contemporanei: ad esempio in un mosaico da
Vienne raffigurante il mito di Ila, il bel fanciullo rapido dalle ninfe, permetteva di rappresentare la bellezza di corpi
giovanili di entrambi i sessi, ma offriva anche l'occasione di rendere visibili, nello stesso momento, la forza virile e il
desiderio femminile. 

Vita quotidiana e mondo immaginario

Le immagini presenti nelle abitazioni si possono dunque intendere come una specie di
dimensione superiore, poiché conducono l'immaginazione, i pensieri e i sentimenti nel regno
della fantasia e aprono gli spazi concreti della casa e quelli delle raffigurazioni. Il fatto che ci
si abbandonasse a queste rappresentazioni fantastiche va interpretato come una particolare
dimensione della vita e nel contesto dell'insieme dei valori e dei rituali quotidiani dell'epoca.
E' facile comprendere le immagini dionisiache in rapporto al banchetto serale. In un
celebre mosaico dai vivaci colori posto all'ingresso del triclinio di una lussuosa dimora di
Antiochia, Dioniso ld Eracll salutano i visitatori con gesti gioiosi sollevando coppe e
invitando lo spettatore ad entrare per partecipare all'allegro banchetto. Analoghe forme di
trasformazioni della vita quotidiana si trovano anche in modeste case pompeiane. Nel
triclinio nella casa di un fornaio, ad esempio, sono dipinte scene di un banchetto greco con
fanciulle seminude e corteggiatori già ebbri. Un altro esempio sono le figure di graziosi
adolescenti. Le grandi famiglie aristocratiche si circondavano nelle loro dimore non solo di filosofi greci, ma anche di
graziosi giovani schiavi da tenere come servitori. Si tratta, in generale, di opere ambiziose dal punto di vista artistico.

Preziose suppellettili

La casa romana non aveva bisogno di molti mobili. La maggior parte delle suppellettili decorate era impiegata nel
banchetto serale. Le più preziose erano le decorazioni e le spalliere dei letti da banchetto, il cui repertorio figurativo
si compone, fin dall'età ellenistica, quasi esclusivamente di figure dionisiache. Anche il vasellame d'argento, che
occupa un posto assai rilevante nell'artigianato artistico romano, deve la sua esistenza
all'importanza del banchetto ed è sorprendente la diffusione di argenti pregiati perfino in città
provinciali come Pompei. Nella villa rustica di Boscoreale sono stati rinvenuti ricchi servizi di
posate d'argento accuratamente riposti in
casse. Soprattutto le coppe si distinguevano
spesso per la ricchezza delle loro
decorazioni, che invitavano ad osservarle
fin nei minimi dettagli. Importante, a
questo proposito, è un cratere d'argento proveniente dal
cosiddetto tesoro d'argento di Hildesheim, in cui l'intreccio
di girali, fiori e foglie ricorda i fregi con i girali vegetali dell'Ara
Pacis, alludendo infatti ai concetti di abbondanza e gioia di vivere.
Come nella pittura parietale, anche qui il repertorio figurativo dei
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rilievi è dominato, accanto a occasionali scene erotiche, delle immagini mitologiche. Preziosissimi e probabilmente
anche molto costosi erano i recipienti di vetro lavorati con la tecnica del cammeo. L'esempio più notevole è il Vaso
Portland, ora al British Museum. Direttamente riferita al banchetto è l'anfora di vetro rivenuta in una tomba
di Pompei, che era stata probabilmente reimpiegata in una tomba di Pompei: è tutta ricoperta di lussureggianti
tralci di vite, tra i quali volano alcuni uccellini; ai lati due eroti occupati nella vendemmia. Quanto importante fosse
questo periodo il possesso di coppe e vasi, vassoi e piatti decorati è dimostrato dalla produzione di terra sigillata, cui
potevano ricorrere anche i meno abbienti. La sigillata imitava in argilla rossastra il vasellame d'argento e venne
inizialmente prodotta da diverse officine italiche, soprattutto intorno ad Arezzo. La concezione romana dell'abitare
circondati da immagini si differenzia radicalmente da quella della casa greca, ma anche dalle consuetudini
dell'abitare di altre culture. Ciò che determinava il carattere dell'abitazione romana, dunque, non era soltanto le gran
quantità di figure presenti, ma anche la loro stessa funzione di invito a godere la vita e ad essere felici. La dimensione
superiore evocata dalle figure non era finalizzata a far dimenticare la realtà della vita concreta, ma contribuiva a
creare nell'immaginazione associazioni positive, che arricchivano la quotidianità e i momenti di festa. La netta
separazione dei due grandi spazi, pubblico e domestico, non significa però che tra i due mondi non esistessero
'ponti'. Nell'ambito privato irrompono elementi dell'arte imperiale, come Vittorie in volo, armi, la lupa romana,
perfino barbari incatenati, e molto altro. Ma è significativo che ciò accada quasi sempre in ambienti di minore
importanza e non in quelli in cui si trova il soggetto principale delle raffigurazioni. Nelle abitazioni e anche nelle
tombe, l'arte imperiale serve da ornamento, come citazione che nobilita.

CAPITOLO 5: MONUMENTI FUNEBRI E IDEA DI SE' DEL CITTADINO

Monumenti funerari di livello assai differente cominciarono a disporsi in prossimità delle strade solo alla fine dell'età
repubblicana; essi testimoniano il desiderio di conseguire un riconoscimento sociali e di essere ricordati dopo la
morte. Questa aspirazione si diffuse in breve tempo in tutte le città romane, andando assai al di là delle sole classi
elevate. Oltre alla continua concorrenza tra i membri più in vista della società, un'altra forza determinante era
costituita dagli arrampicatori sociali, specialmente i liberti, che esprimevano l'orgoglio per la propria carriera e per la
cittadinanza recentemente acquistata.

Memoria e meriti

Il rango sociale dei defunti si poteva in primo luogo desumere abbastanza


chiaramente dal monumento funerario, in particolare dalla buona posizione,
possibilmente sulla strada, e della dimensioni, la forma e le decorazioni figurative.
I ricchi si assicuravano i posti migliori sulla strada, come ad esempio
il famoso mausoleo di Cecilia Metella (destra), che apparteneva a una delle
famiglie più aristocratiche della città e si trova su una lieve altura sulla via
Appia; mentre i più poveri dovevano accontentarsi degli
spazi che rimanevano, affollandosi come casette a schiera
lungo le strade secondarie. Al contrario, Eurisace,
facoltoso proprietario di forni, ebbe la possibilità di far innalzare il suo monumento
funerario (sinistra) addirittura su un incrocio. Nelle città romane d'Italia e delle province
occidentali il tipo del monumento funerario a edicola fu particolarmente apprezzato nella
tarda età repubblicana e nella prima età imperiale: sopra un alto basamento di solito è posto
un tempesto, fra le sue colonne o dietro di essere sono collocate le statue del defunto. Un
esempio è la tomba, alta 14 metri, di Lucio Publicio a Colonia
(destra). Per la maggior parte degli uomini del tempo il proprio
ritratto rappresentava un elemento particolarmente importante della
rappresentazione funeraria; la grandi diffusione del ritratto, d'altra
parte, è dimostrata anche dal fatto che se ne conoscono esemplari per tutte le misure e le
fasce di prezzo. Decisivo fu il modello offerto dalle numerose statue-ritratto dei ceti superiori
e la loro pervasiva presenza nello spazio pubblico. In quest'epoca per i cittadini benestanti,
ma privi di cariche pubbliche, i monumenti funerari rappresentavano anche una sostituzione
degli onori pubblici, ma l'uniformità degli schemi iconografici contrasta con la varietà dei
volti modellati individualmente. I membri attivi dell'esercito occupavano una posizione
importante anche sul rilievi delle tombe romane di tarda età repubblicana e della prima età
imperiale: a loro spettava il posto d'onore al centro e venivano rappresentati all'eroica,
secondo la tradizione ellenistica: a torso nudo e con la spada nella posizione d'ordinanza.

Ritiro dalla vita pubblica

A Roma e nelle altre città d'Italia di cui conosciamo necropoli di età imperiale di una certa grandezza, come Pompei,
Ostia e Pozzuoli, si può osservare fin dai primi decenni del principato un singolare fenomeno di lenta separazione e
allontanamento delle aree per le sepolture delle strade. Questo fenomeno è connesso con nuove e diverse forme di
sepoltura. Fino a quell'epoca l'architettura e la decorazione figurativa avevano mirato quasi esclusivamente ad essere
visibili dall'esterno e da coloro che passavano sulla strada; a partire da questo momento, invece, esse si sviluppano in
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prevalenza entro le mura dei recinti funerari. Il tempo necessario per il compimento di questo processo varia da città
in città. A Roma due fattori furono probabilmente decisivi per questo mutamento: da una parte il desiderio di un
numero crescente di cittadini di assicurarsi una sepoltura e un ricordo anche in mancanza di spazio; dall'altra, il
disgregarsi della comunità urbana in piccoli segmenti, un processo di riarticolazione della società in gruppi stretti
che si verifico soprattutto nelle grandi città. Con questi nuovi monumenti funerari ci si rivolgeva quindi non tanto
alla cittadinanza, quanto piuttosto a coloro con cui si era vissuti e da cui si sperava di essere ricordati. Tale fenomeno
sembra riguardare più strati sociali ed è connesso con un generale mutamento di mentalità. Da un lato, vi hanno
sicuramente parte lo sviluppo di una società di massa e il consolidamento del senso di appartenenza ad una classe
sociale, che si verifica di pari passo con la diminuzione della concorrenza generale; ma dall'altra si può osservare un
culto del sentimento prima sconosciuto, che si esprime soprattutto nelle allegorie mitologiche. Il linguaggio delle
immagini si fa più intimo ed esige uno spazio più riservato. L'inizio di questo ritiro dallo spazio pubblico si avverte
già in età augustea, tra i liberti delle grandi famiglie e soprattutto della casa imperiale, con le loro sepolture comuni.
Nelle pareti di queste camere sepolcrali, per lo più sotterranee, erano a volte scavate dal pavimenti al soffitto nicchie
simili a nidi di colombe, dette colombari, in cui si potevano essere collocate le urne di marmo e decorate con gusto.
Ben presto questi colombari si diffusero ovunque, di regola come sepolcri di una famiglia o di un collegio funerario.
Si diffuse così la pratica di predisporre sepolture a recinto, che avessero spazio sufficiente per  l'intera famiglia e, in
ogni caso, secondo un rigoroso ordine gerarchico: la camera funeraria vera e propria era riservata al padrone e ai
suoi parenti più stretti, mentre i liberti e gli chiavi dovevano accontentarsi di una semplice sepoltura nel giardino o
negli ambienti d'ingresso alla camera funebre vera e propria. Nelle sepolture del II secolo d.C. rinvenute sotto San
Pietro e ad Ostia, identiche nella forma e allineate una a fianco all'altro, i corpi dei servitori erano spesso interrati
l'uno sopra l'altro, senza un'iscrizione che li ricordasse. Naturalmente anche in piena età imperiale le dimensione e
la qualità delle sepolture rispecchiavano le possibilità economiche dei defunti. Le tombe dei poveri potevano essere
segnalate da una semplice stele senza indicazioni.

Cordoglio, conforto e gioia di vivere: il mondo figurativo dei sarcofagi

Con il ritiro dalla vita pubblica l'interesse prese a rivolgersi soprattutto verso la sistemazione dell'interno del recinto
funerario, specialmente delle camere sepolcrali: qui le pareti venivano dipinte, i soffitti stuccati, i pavimenti coperti
di mosaici. Il repertorio delle immagini utilizzate per la decorazione delle camere sepolcrali non si differenzia molto
da quello delle abitazioni, poiché in entrambi i casi si trattava di esprimere i medesimi valori. La varietà di temi si
può studiare sui rilievi dei sarcofagi in marmo, che vennero molto utilizzati a partire dagli inizi del II secolo d.C.
Anche nelle tombe, come nelle case, dominano le immagini del mito, che miravano soprattutto ad esprimere i
sentimenti e gli stati d'animo individuali. Tra i miti che trattano della morte, del cordoglio e della consolidazione, era
particolarmente apprezzato quello dell'amore della dea della Luna, Selene, per Endimione: Selene chiede per il suo
amato la giovinezza eterna; Zeus la concede, ma al contempo fa sprofondare il bel pastore in un sonno perpetuo
all'interno di una grotta; qui la dea va a visitarlo ogni notte. Questa immagine, come tutte le raffigurazioni
mitologiche, poteva evocare le più varie associazioni: era possibile rassicurarsi circa l'eternità del proprio amore. Le
storie d'amore mitologica preferite, come quella di Venere e Adore, si prestavano in questa accezione allegorica come
elogio funebre. La maggior parte dei rilievi sui sarcofagi e delle decorazioni delle camere sepolcrali era però di
tutt'altra natura: particolarmente apprezzare erano le figure del tirso dionisiaco, come le Nereidi nude, in cui sono
evidenti le connotazioni erotiche, mentre i satiri e le menadi rappresentavano invece la quintessenza della gioia di
vivere e della festosa spensieratezza. Con il vino, Dioniso libera l'umanità da preoccupazioni e affanni della vita
quotidiana e dunque gli ubriachi del suo corteo: sono da intendersi come figure positive, immagini della gioia di
vivere e del piacere, non soltanto nell'ambito domestico, ma anche in quello funerario. E' come se ci si volesse
reciprocamente rassicurare, proprio al cospetto della morte, che la vita è bella e che merita di essere vissuta,
anche perché si può vivere una volta sola. Anche in questa cultura funeraria rivolta all'interno la sopravvivenza dopo
la morte viene essenzialmente intesa come una sopravvivenza nella memoria dei vivi. Il linguaggio allegorico
comprende anche l'elogio dei morti e delle loro virtù, si riferivano certo innanzi tutto ai defunti sepolti in quegli
stessi luoghi. Spesso questo riferimento era evidenziato collegando i protagonisti del mito, mediante un ritratto,
direttamente al defunto. Perciò queste identificazioni non funzionavano come allusione ad una sorta di
divinizzazione, come si è supposto, bensì come una specie di poesia sepolcrale per immagini. Immortalare i defunti
in forma di ritratto era uno strumento essenziale per l'elaborazione del lutto, ma mentre in passato la posa in toga
civica era senz'altro la più utilizzata, in quest'epoca le statue-ritratto si arricchirono dei corpi di eroi e di dei.
Soprattutto le donne defunte venivano spesso onorate in questa forma, come quando il corpo nudo di una Venere
veniva sfociato al ritratto di una matrona piuttosto anziana. Simili statue con corpi di divinità prendevano a modello
probabilmente le statue onorarie che erano già state erette all'inizio del principato per i membri della casa imperiale.
E' sorprendente che solo in casi rari, in questo stesso periodo, nelle camere sepolcrali siano evocate la vita e le
benemerenze dei defunti nei riguardi della società e della famiglia. A partire dal tardo II secolo d.C., una serie di
sarcofagi, di solito di miglior fattura, costituisce un'eccezione a questa tendenza generale. All'epoca delle spedizioni
di Marco Aurelio contro i Marcomanni (161-180) vengono prodotti sarcofagi con scene di battaglia contro i barbari in
cui si rappresentavano, in tipi iconografici fissi e in successione rituale, i ruoli e le vite di un generale romano,
ritratto con i lineamenti del defunto: iconografia e contenuto di queste scene derivano da monumenti dell'arte
imperiale. Soltanto una scena non rientra in questo repertorio iconografico: la rappresentazione del generale con la
sua sposa, mentre si danno la mano in segno di armonia coniugale (concordia). In seguito questo stesso schema
iconografico della concordia, ma senza le scene militari, sarà ripetuto su numerosi sarcofagi e potrà essere utilizzato
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da tutti i cittadini. I rilievi con rappresentazione di una vittoria romana sui barbari, visto il rinnovarsi della minaccia
barbarica nella seconda metà del II secolo d.C., potrebbero anche essere stati messi in circolazione da militari di alto
rango. Nel corso della prima metà del III secolo d.C. le immagini sulle tombe si trasformano e l'unità del linguaggio
figurativo domestico e di quello sepolcrale, così significativa e caratteristica della prima e media età imperiale, viene
infranta.

CAPITOLO 6: ROMA E L'IMPERO: VARIETA' DI CULTURE

Le tradizioni culturali dei popoli annessi all'impero romano erano di natura assai varia: alle culture tribali barbariche
a Occidente e a Nord, si contrapponevano quelle antichissime dell'Egitto, del Vicino Oriente e delle città greche. Il
grande successo del sistema romano di governo era dovuto essenzialmente alla conservazione delle rispettive
strutture politiche e sociali e al rispetto delle singoli tradizioni culturali dei popoli governati e integrati nell'impero.
Non ci fu da parte di Roma alcun tentativo di imporre qualcosa di simile a un'omologazione culturale. La comune
appartenenza all'impero, il benessere e i commerci crearono situazioni di concorrenza tra le città e le province e
stimolarono, soprattutto nei secoli II e III d.C., una grande fioritura culturale, in particolare tra le città dell'Oriente
greco e dell'Africa settentrionale. Una differenza fondamentale tra le città dell'Occidente latino e quelle dell'Oriente
greco è che le province settentrionali, occidentali e nordafricane, malgrado particolarità regionali, recavano tutte
chiaramente l'impronta di Roma; al contrario, nell'Oriente greco sopravviveva, senza interruzione, la cultura
ellenistica e anche le poche colonie fondate da Roma in Oriente si distinguevano con difficoltà dalle altre città
greche, anzi subirono a loro volta una forte ellenizzazione. Le città greche differivano notevolmente dalle città
romane d'Occidente per i loro edifici pubblici. In esse i templi più antichi sorgevano in appositi recinti sacri, non nel
foro come nelle città romane. Inoltre nelle città greche non esisteva l'anfiteatro, istituzione che era invece centrale
per i Romani; al suo posto c'erano un grande teatro e lo stadio. Il ginnasio non divenne mai tipico nell'Occidente
romano, mentre le terme si diffusero in Oriente solo come parte dei ginnasi. Molto resistenti alle innovazioni si
dimostrarono le tradizioni religiose e le immagini ad esse collegate, come anche il culto delle tombe e il repertorio
delle rappresentazioni funerarie. Ciò vale soprattutto per i popoli ai margini dell'impero. I templi egizi con il loro
mondo figurativo vennero importati, grazie al culto di Iside, incolte città dell'impero e per un certo periodo nella
stessa Roma si diffuse l'egittomania. In età imperiale le differenze tra Oriente e Occidente saranno state ancor meno
evidenti nell'apparato decorativo degli edifici pubblici, nonché nelle dimore e nelle ville delle aristocrazie locali: per
le terme, i teatri o le fontane ci si serviva, in Oriente come in Occidente, degli stessi tipi classici di ritratti, delle stesse
statue greche idealizzate dell'arte dei copisti. Anche lo stile dell'abitare e il mondo figurativo privato delle classi
elevate sembrano relativamente simili in Oriente e in Occidente. L'uniformità del linguaggio figurativo è quello
dell'iconografia imperiale e dell'autorappresentazione delle aristocrazie locali della statuaria.

Culto del sovrano e immagine dell'imperatore

La venerazione e il culto del sovrano si diffondono in tutto l'impero già sotto Augusto, anche se in forme a volte
molto diverse da regione a regione. In Oriente e in Occidente il culto dell'imperatore venne sovente associato a quello
delle principali divinità locali. Il culto del sovrano era da lungo tempo familiare all'Oriente greco ed era inteso come
un'ovvia forma di ringraziamento; la sua importanza variava a seconda dei privilegi concessi, o rifiutati, da Roma. I
santuari e gli altari più imponenti sorsero là dove le città o i popoli avevano istituito culti centralizzati e
sovraregionali. In Oriente si distinsero soprattutto le città che concorrevano tra loro per i particolari privilegi
concessi da Roma in quanto sedi del culto imperiale; nelle città così premiate, infatti,
sorsero i templi più imponenti, come il Traianlum a Pergamo. Ogni tempio del culto
imperiale era stato arricchito da un ingente apparato figurativo, grazia al quale
venivano diffusi i messaggi e le parole d'ordine dell'arte imperiale. Spesso le statue dei
sovrani venivano erette nei templi come immagini culturali insieme a quelle delle
divinità civiche. Nel santuario del culto imperiale di Afrodisia, in Caria, è stato
rinvenuto un apparato figurativo particolarmente ricco, in cui le pareti esterne erano
decorate da due serie di rilievi sovrapposti. La serie superiore ritraeva l'imperatore, le
sue imprese e i suoi familiari; quella inferiore raffigurava divinità greche e miti eroici.
L'imperatore, lei sue imprese e al sua famiglia venivano presentati come la
continuazione degli antichi miti degli dei dei, ma nello stesso tempo con questo onore
venivano anche inseriti nelle tradizioni religiose locali. In tutti questi casi a mettersi in
mostra non erano solo gli imperatori, ma anche i notabili delle città, che con tali poderosi edifici si riconoscevano
nell'imperatore e nell'imperium, e al contempo anche nelle proprie tradizioni. Dal punto di
vista religioso, l'inserimento del culto imperiale nelle rispettive forme e consuetudini avviene
con soluzioni assai diverse tra loro; per le statue degli imperatori e per la loro iconografia,
invece, ci si attiene in larga misura a modelli messi in circolazione da Roma, sia per gli schemi
iconografici, sia per i tipi di ritratto. Un'eccezione si trova soltanto in Egitto, dove l'antica
immagine del sovrano era così radicata tra le popolazioni locali e talmente influenzata dalla
millenaria figurati del faraone che gli imperatori romani, vennero semplicemente rivestiti di
quella forma, come mostra una statua innalzata in onore di Caracalla. I ritratti approvati
dalla casa imperiale venivano diffusi mediante copie o calchi in gesso grazie alla
comunicazione tra botteghe. A volte si possono notevoli divergenze tra i tipi ritrattistica
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ufficiali diffusi in questo modo nelle diverse province e ciò può dipendere dalla qualità degli scultori, da tradizioni
stilistiche locali diverse o anche da idee e richieste specifiche dei committenti. Quanto all'autorappresentazione delle
aristocrazie locali, è ovvio che le famiglie più in vista di una città attribuissero particolare importanza al presentarsi
nella sfera pubblica, e quindi anche nelle loro statue onorarie, come persone abituate alla vita di società e di
rango superiore. Si trattava infatti di dimostrare di disporre di vaste relazioni e di influenza ad alti livelli. Ma la moda
e l'habitus erano d'impronta romana, o almeno diffusi a Roma. Tali immagini acquisirono anche un altro importante
ruolo, indipendente dalla politica: quello di esempio per la moda e l'aspetto esteriore. 

L'autorappresentazione in ambito funerario nelle province

In nessun settore come in quello dei monumenti funerari si esprime più chiaramente la
molteplicità culturale dell'impero romano. A partire dal I secolo d.C. nei centri urbani
influenzati da Roma la classe media perde gradualmente interesse per i monumenti funerari
costosi e rivolti all'esterno: si tratta di un fenomeno che può essere messo in relazione con la
diminuzione del dinamismo sociale. Vi sono d'altra parte regioni che nel II secolo d. C. vivono
una fioritura economica che si traduce anche in una vivace varietà di monumenti funerari. A
questo proposito sono particolarmente interessanti le tombe monumentali, come la
Colonna di Igel. Nelle province non si è arrivati a quel profondo allontanamento dalla vita
pubblica come a Roma: al contrario, queste tombe monumentali superano in magniloquenza
i modelli di età repubblicana della capitale. Nonostante ciò, si può comunque riconoscere
l'influsso di Roma nel repertorio figurativo. Infatti, accanto ai ritratti dei defunti e dei loro
parenti troviamo una grande quantità di immagini mitologiche, che sono da interpretare in
maniera allegorica. Pur nella varietà e nei legami che tali rappresentazioni mostrano con le singole tradizioni locali,
si può individuare un fattore comune nella volontà dei defunti di presentarsi col loro vero volto: infatti tutti volevano
apparire come individui inconfondibili. Sembra che con l'appartenenza all'impero romano gli abitanti delle province
abbiano sviluppato una nuova consapevolezza, che mirava ad attirare l'attenzione su di sé, sui propri successi e sulla
propria vita, per quanto poco spettacolare essa potesse essere stata. Forse in questa volontà di autorappresentazione
è lecito vedere anche l'espressione di una nuova idea di sé, connessa con l'appartenenza alla superiore cultura greco-
romana dell'impero. Ciò sarebbe indicato anche dal fatto che diverse culture e società, che non avevano mai fatto uso
prima di rappresentazioni funerarie, abbiano cominciato ad utilizzarle proprio dopo la loro annessione all'impero. 

L'Oriente greco conserva le proprie tradizioni

La parte greco-orientale dell'impero, nonostante l'integrazione politica, conservò più tenacemente di altre regioni le
proprie tradizioni culturali. I Greci erano privilegiati per molte ragioni: la loro lingua si usava in tutta la parte
orientale dell'impero, mentre il latino era impiegato soltanto in ambito amministrativo e giudiziario. Le persone colte
leggevano gli autori greci in lingua originale. Anche nell'arte religiosa e in architettura l'integrazione nell'impero
romano significò per le città e i popoli orientali soprattutto una prosecuzione dell'ellenizzazione, che in parte era già
in atto da lungo tempo. In Oriente gli uomini indossavano quasi senza eccezione il mantello greco, mentre la toga
romana era rara, poiché per gli stessi Greci la fedeltà all'antico mantello era espressione di un'autocoscienza
culturale. Per questo indossavano anche il drappeggio classico, come era stato codificato nel IV secolo a.C. Il
mantello greco era considerato l'abito ufficiale dei cittadini non soltanto nelle città greche ma anche in tutte le
province orientali. Nel II secolo d.C. e all'inizio del III si sviluppò un movimento culturale straordinariamente
influente, la cosiddetta seconda sofistica, il cui centro era Atene, ma i cui massimi esponenti provenivano da tutto il
mondo greco. Nelle loro orazioni essi non soltanto rievocavano il glorioso passato, ma trasmettevano al pubblico
anche l'idea che tale passato continuasse nel presente. Il movimento non rimase limitato agli
intellettuali, ma si manifestò anche in molti altri settori della vita culturale e fu, in ultima analisi,
l'espressione di una nuova rafforzata autocoscienza dei Greci. Ad Atene gli uomini delle classi
elevate si facevano ritrarre sul modello dei celebri personaggi della letteratura, della politica o
addirittura del mito. Gli uomini che volessero presentarsi come persone interessate alla cultura si
riconoscevano, con la barba e il taglio di capelli in una corrispondente immagine di filosofi.
Quindi i modelli derivati dal patrimonio di memorie della cultura greca servivano ad una
minoranza per esprimere la propria idea di sé. Il fenomeno è importante, perché dimostra che
Roma, anche per quanto riguarda la ritrattistica, non era l'unica a dare gli orientamenti. Anche
nella stessa Roma si trovano esempi di tali utilizzazioni alla greca. Il caso più spettacolare è
rappresentato dalla venerazione promossa dall'imperatore Adriano per il suo amato Antinoo
annegato nel Nilo, il quale venne identificato con i più svariati dei ed eroi.

Scuole di scultori

Contrariamente all'arte greca, che annoverava artisti divenuti famosi già in vita, l'arte dell'età imperiale, salvo poche
eccezioni, è anonima. A parte qualche rara firma, quasi non si ha notizia degli artisti, e quanto parliamo di scuole ci
riferiamo a convenzioni di studiosi. Già in età augustea, nelle più importanti botteghe della città di Roma si era
sviluppato un linguaggio stilistico unitario degli scultori, che erano immigrati in massa dall'Oriente greco a partire
dal I secolo a.C. Veniva usato in prevalenza il marmo delle cave di Luni (a Carrara) e le officine romane non solo
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soddisfacevano le richieste della capitale, ma esportavano le loro produzioni in tutte le città più importanti delle
province occidentali, dove sorsero officine locali, che rimanevano legate a Roma per l'iconografia e lo stile.
Soprattutto nella ritrattistica e nei rilievi sui sarcofagi, questo stile urbano di Roma va distinto da quello delle
botteghe provinciali in Oriente. Tra i centri artistici provinciali si distinguono per il loro stile autonomo
particolarmente la Grecia, con centro ad Atene, e l'Asia Minore, con le officine più importanti ad Afrodisia e
Dokimeion. L'autonomia delle varie tradizioni formali si avverte maggiormente nella produzione di sarcofagi. Ad
Atene gli artisti si orientano su pochi miti, che vengono rappresentati in fregi a grandi figure, seguendo modelli
figurativi classici. Si celebravano la bellezza e il valore dei mitici antenati come modelli in cui identificarsi anche per
il presente. Particolarmente caratteristici dell'Asia minore sono i cosiddetti sarcofagi a colonne: la cassa del
sarcofago si articola in un prospetto architettonico a colonne tra le quali sono inserite figure mitologiche
rappresentate come statue accanto alle immagini dei defunti in abito civile, come il sarcofago a Melfi. Ad Atene,
come in Asia Minore, troviamo quindi un'iconografia che si distacca fortemente dai sarcofagi romani e che si orienta
sulle tradizioni locali e sui valori cittadini delle poleis, più che di Roma. Sicuramente i  sarcofagi attici, così come
quelli dell'Asia Minore, erano apprezzati dai benestanti in tutto l'impero soprattutto per la loro  monumentali e
furono esportati anche a Roma. Le botteghe di scultori di Afrodisia produssero fino al IV secolo, oltre ai ritratti,
anche quasi tutti i tipi del repertorio della statuaria ideale seguendo modelli classici ed ellenistici. Il successo di
queste scuole era dovuto alla qualità talora eccellente delle loro produzioni. A volte è possibile interpretare
determinate preferente e tendenze estetiche anche come espressione del consapevole desiderio di seguire una
tradizione stilistica ben precisa. E' notevole, ad esempio, che nella ritrattistica le botteghe attiche tendano
soprattutto a forme idealizzate e a tecniche tradizionali. Così, ad esempio, l'impiego del trapano, che a Roma era
stato sviluppato fin dal virtuosismo per ottenere effetti pittorici sulle superfici, ad Atenere era chiaramente rifiutato.
Si riflette un consapevole attaccamento alle proprie consuetudini culturali e alle proprie pratiche. Detto ciò, bisogna
però al contempo riconoscere che il livello artigianale medio delle botteghe greche e microasiatiche è di regola
inferiore a quello degli scultori operanti a Roma.

CAPITOLO 7: VERSO LA TARDA ANTICHITA'

Nel corso del III secolo d.C. si possono osservare sostanziali mutamenti nell'arte romana, relativi sia all'iconografia
sia allo stile, anche se essi non riguardano uniformemente né tutte le zone dell'impero, né tutti i generi artistici, né
tutti gli spazi figurativi. La causa profonda di questo fenomeno risiede nelle trasformazioni del sistema politico e
sociale. Questo cambiamento si può seguire nel modo migliore a Roma. Nei settori del ritratto imperiale e
la rappresentazione funeraria i mutamenti rispecchiano, infatti, una profonda trasformazione della mentalità dei ceti
più elevati e, in generale, anche del resto della popolazione. 

Verso una nuova immagine del sovrano

Dopo la morte di Settimio Severo (193-211), nell'arte imperiale ebbe inizio la sperimentazione di un nuovo tipo di
immagine del sovrano, che sarò per più di un secolo. Alla rapida successione degli imperatori corrispose una serrata
serie di tentativi, di altrettanto breve durata, a volte accettati e a volte rifiutati, per esprimere concezioni di volta in
volta diverse dell'immagine del sovrano, mentre rimanevano immutati gli schemi iconografici dei corpi, ormai
consolidati da molto tempo. In questi tentativi si possono vedere
espresse da una parte l'insoddisfazione per le immagini finora utilizzate,
dall'altra l'aspirazione a un nuovo ordine di fronte alla situazione critica
dell'impero. Al distaccato ritratto aristocratico che dal II secolo d.C.
aveva rappresentato tre generazioni di Antonini, accentuandone
l'aspetto nobile e dignitoso, si tentò di sostituire un altro tipo di ritratto,
che mostrasse efficienza e capacità. Al posto della ben curata
raffigurazione di Antonino Pio subentrano ritratti che esprimono
energia, capacità di affermarsi e durezza: erano queste le nuove qualità
che si richiedevano a un imperatore. Ma ogni tanto si fece anche ritorno
all'immagine curata dei buoni imperatori di epoca antonina. Sotto
Gallieno (235-268) hanno inizio tentativi in direzione del tutto diversa: mediante prestiti dai ritratti di Alessandro
e di Augusto oppure mediante la scelta di un'espressine enfatica, si mirò a rappresentare il
sovrano come un individuo in possesso di qualità sovrumane. Con Costantino vi è una
nuova immagine del sovrano: l'imperatore si fece celebrare attraverso una figura bella e
giovanile, nettamente superiore alla dimensione quotidiana, come un'istanza sovrumana. La
testa colossale nel cortile del Palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio mostra come
l'iconografia imperiale della tarda antichità avesse finalmente trovato una forma valida ed
efficace. Nel giro di appena un secolo la costruzione augustea del princeps come primo
cittadino è stata definitivamente archiviata e sostituita dall'idea di un imperatore
inavvicinabile, che è tale per grazia di Dio. Le trasformazioni della struttura politica sono
accompagnate da analoghi processi nella società. Durante la tarda Repubblica e i primi due
secoli dell'impero era caratteristico, almeno per i cittadini più abbienti, il desiderio di farsi
rappresentare tramite statue onorarie o in monumenti funerari. Durante il III secolo d.C.
l'esigenza dei cittadini di farsi raffigurare diminuisce in quasi tutto l'impero, ma dopo, nel IV secolo d.C., le piazze e
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gli edifici pubblici cominciano ad essere dominati dalle statue di alti dignitari, presentati come funzionari il cui
sguardo staccato (come quello dell'imperatore) non si accorge più dell'osservatore. Non sono più cittadini, ma
delegati del potere supremo. 

Nuove immagini per una mutata mentalità

Se le statue onorarie si collegano ad interessi politici e sociali, le immagini funerarie, invece, hanno a che fare con
tutt'altro tipo di aspirazioni: si tratta della concezione di se stessi, più che della rappresentazione di sé. A partire dal
230 d.C. circa, a Roma si perde largamente interesse per il monumento sepolcrale in quanto tale e nel contempo
continua la produzione di sarcofagi a rilievo, dai più economici ai più costosi. Il mondo esterno e la comunicazione
sociale oltre la cerchia dei familiari sono evidentemente aspetti che non interessano più. Si modificano
contemporaneamente il numero delle immagini mitiche che erano ancora fondamentali all'inizio del II secolo. Dopo
la metà del secolo scompaiono quasi del tutto dal mondo figurativo dei sarcofagi romani le scene che alludono alla
gioia di vivere e pure scompaiono i defunti raffigurati come coppie classiche di amanti. Al loro posto vengono sempre
più favorite immagini nuove, fino ad allora relegate in secondo piano, soprattutto pastori con i loro greggi, idea
diventata una condivisa metafora della felicità. Molti semplici cittadini si fanno rappresentare sulle loro tombe in
veste di lettori, mentre le donne vengono spesso raffigurate come Muse oppure, un po' più tardi, nella posa
dell'orante. La lettura sembra quindi connessa non solo con
la cultura, ma anche con la religione. Al posto delle figure
dionisiache subentrano le Stagioni, che alludono alla
ricchezza della natura e alla sua perpetua trasformazione, al
suo fiorire e sfiorire, dando così origine ad una
rappresentazione che poteva anche assumere il significato
di una metafora. E' significativo che continuino ad
essere utilizzati, e addirittura aumentino, i motivi e le figure
più neutri, come ad esempio gli eroi impiegati in varie attività. Peraltro, accanto a questi fattori di cambiamento
generale, è possibile osservare naturalmente anche alcuni elementi che rimangono costanti. La caccia rimane una
delle raffigurazioni più amate, che allude in maniera allegorica ad una prova di virilità, al coraggio e alla forza: però
anche in quest'ambito si rinuncia ai travestimenti mitologici. Al loro posto intervengono nelle scene di caccia
elementi realistici, soprattutto con riferimenti alle cacce dei grandi proprietari terrieri, che diventano un simbolo di
status. Quando poi, con l'editto di Milano del 313, il cristianesimo viene non solo tollerato, ma anche privilegiato da
Costantino, compaiono in brevissimo tempo numerosi sarcofagi di tipo nuovo, ricchi di scene dell'Antico e del Nuovo
Testamento, scegliendo di rappresentare soprattutto i miracoli e scene di salvezza, come Giona che si salva dal ventre
della balena raffigurato in un sarcofago paleocristiano. Con tali immagini si voleva dichiarare la propria fede e
chiedere, come in un'invocazione, la propria salvezza di fronte alla morte. Ci è dunque un mutamento di mentalità
che riguardava vasti strati della popolazione e che fece poi sentire i suoi effetti anche negli atteggiamenti verso la vita
e la morte. Se in due settori artistici così importanti come l'iconografia imperiale e l'arte funeraria le immagini si
modificano nel giro di pochi decenni, ciò significa che abbiamo a che fare con un'epoca in cui il cambiamento è
profondo e strutturale. Tra la fine del regno di Settimio Severo e la Tetrarchia si sviluppa l'arte della tarda antichità,
ma la trasformazione non riguarda tutti gli ambiti figurativi. Meno coinvolte di tutte sono le immagini delle
abitazioni, poiché negli ambiti provati si preferisce continuare a circondarsi di scene mitologiche come in passato,
come mostrano i numerosi mosaici, rinvenuti per lo più nelle grandi ville. L'idea della casa come luogo di otium e
della cultura persiste, e con essa il favore per le raffigurazioni di piacere. Ma è pur vero che queste scene, che si
potevano trovare su ogni casa, diventano ora, sempre di più, elementi costitutivi di una cultura conservatrice e di
élite. Pur mantenendo una certa continuità in molti ambiti, l'età costantiniana segna una profonda cesura: accanto
alla forma di governo e ai rapporti economici e sociali si modificano anche le immagini, le loro forme e funzioni.
Come ai tempi di Augusto, anche in questo periodo si verifica una radicale trasformazione delle strutture, a causa
della quale si dissolve la connessione tra i diversi ambiti figurativi, che era stata così caratteristica per l'ordinamento
delle immagini nell'età imperiale. 

Scaricato da Maria Claudia Messina (messinamariaclaudia@gmail.com)

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