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RELAZIONI INTERNAZIONALI

Sistema Westfaliano
Il sistema moderno che ha come unità gli stati si fa risalire convenzionalmente alla Pace di Westfalia (1648), che
poneva fine alla Guerra dei Trent’anni e riconosceva:
una società di stati territorialmente sovrani e politicamente indipendenti
ammetteva la legittimità di tutte le forme di governo
introduceva la tolleranza religiosa.
Tale sistema si basava su tre punti fondamentali:
1. Rex imperator in regno suo est: i sovrani non conoscono nessun’altra autorità al di sopra di essi, e sono fra di loro
indipendenti.
2. Cuius regio eius religio: ogni regno è libero di praticare la religione che il sovrano stabilisce
3. Balance of power: si mirava ad impedire l’ascesa di una potenza egemone in Europa attraverso le alleanze.

1. REALISMO
Nelle relazioni internazionali il realismo si sviluppa dopo la Seconda guerra mondiale, in reazione critica alle teorie
idealiste secondo le quali i problemi della politica internazionale possono essere risolti con un approccio
internazionale (Società delle nazioni) → i realisti stessi danno il nome all’idealismo in quanto reputavano le loro
teorie utopistiche e difficilmente realizzabili.

Si tratta di un approccio molto concreto: partendo dalla concezione antropologica del realismo, essa si basa sullo
stato di natura e sulla grande rivalità tra gli attori, una questione di vita o di morte.
Secondo Hobbes la cosa più vicina allo stato di natura sono gli affari internazionali: mancanza di un leviatano.
L’approssimativa uguaglianza rende tutti vulnerabili allo stesso modo = la vulnerabilità reciproca è ciò che spinge a
creare un leviatano → nelle RI questa vulnerabilità non esiste: il leviatano non si crea in quanto i più forti non sono
disposti a cedere la propria sovranità.
Questa concezione antropologica è immutabile nel tempo e nello spazio, la natura essenziale dell’uomo non varia, è
un fatto empirico innegabile. Sant’Agostino distingueva tra il regno dei celi e il regno mondano, in cui gli altri sono
diavoli e se ci si rende vulnerabili si viene sopraffatti; dunque, tutti assumono il comportamento di diavoli.
Come si sopravvive in un contesto così competitivo? Bisogna avere potere, avere la capacità di difendersi da soli ( self-
help), attraverso la forza militare.
Anche secondo Gilpin la natura delle relazioni internazionali non è mutata nel tempo .
Quello che funziona a livello nazionale non può funzionare nel terzo livello, ossia quello internazionale.
Dove NON c’è lo stato:
ci si sottomette
si diventa talmente potenti da avere influenza anche sui gruppi criminali.

I realisti cercano di descrivere e spiegare la realtà: perché e come le cose avvengono → solo spiegando si può
prevedere = saper consigliare ai governi come agire. I realisti sono famosi in quanto sono stati cooptati dal potere
politico in molti stati (Kissinger), questa vicinanza al potere ha rafforzato la loro autorevolezza. Cercano di validare
generalizzazioni politiche provenienti dall’esperienza storica: non si tratta di un progetto di emancipazione ma è
necessaria una responsabilità anti-ideologica, conta garantire la sopravvivenza della collettività. Demologia della
politica.
NON BISOGNA CONDIVIDERE LA CONOSCENZA, ANZI BISOGNA POSSIBILMENTE SVIARE I RIVALI.

Assunti del realismo:


1. Gli attori più importanti nelle relazioni internazionali sono gli stati: il sistema internazionale è caratterizzato da
anarchia → cui conseguenza è la nozione di self-help = prevalenza di sopravvivenza ed interessi nazionali: ne
sono espressione l'autodifesa, la ritorsione e la rappresaglia.
• Sovranità territoriale:
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A. Interna: autogoverno senza interferenze esterne
B. Esterna: le uniche organizzazioni internazionali riconosciute necessitano il consenso degli stati
• Indipendenza politica
• Principio di non intervento
• Anarchia
• Self-help
2. Lo stato è un attore unitario: metafora del tavolo da biliardo: gli stati, come le palline da biliardo, sono unitari,
autonomi e riescono ad influenzarsi solo attraverso una pressione esterna. Non è rilevante, dunque, quanto accade
all’interno. Gli stati si scontrano, quello più forte indirizza quello più debole. Sono i fattori esterni ad essere
rilevanti.
3. Lo stato è un attore razionale: Esso in maniera razionale:
- Definisce gli interessi nazionali
- Identifica le priorità
- Analizza costi-benefici
Gli stati tendono a massimizzare i loro vantaggi.
Per i realisti non esiste pazzia nella politica internazionale, i leader sono dei freddi calcolatori. Per un realista anche i
regimi più strani sono razionali.
4. L’agenda internazionale dà la priorità alla sicurezza: vista la situazione anarchica, il problema più urgente
quello della sicurezza, concernente anche la strategia militare, e quanto rientra nella high politic. La politica, in
generale, è sempre lotta per il potere e basata su rapporti di forza.

La ricerca del potere però, può portare ad un’escalation negativa che genera la corsa agli armamenti e il dilemma della
sicurezza nucleare. I realisti affermano la supremazia dell’azione basata sulla considerazione di una tripla
frustrazione dell’azione, che prevede:
-Imprevedibilità del risultato
-Irreversibilità del processo
-Anonimità degli attori.

20/09
Potere
La nozione di potere è fondamentale per i realisti, anche se la definizione cambia a seconda dell’autore.
- Per Dahl, potere è la capacità di mettere un altro attore nelle condizioni di fare ciò che altrimenti non avrebbe
fatto.
- Secondo Waltz, invece, potere è la capacità di influenzare più di quanto si è influenzati.
NB: potere non è l’influenza, ma la capacità di influenzare.

La capacità di influenzare si basa sulle risorse, che possono essere


• Tangibili, come il territorio o la capacità produttiva
• Intangibili, come la cultura, la legittimità del governo e la credibilità.

Il potere è anche relazione, distinta in:


• Domain, ovvero il numero effettivo di Stati su cui uno Stato può esercitare la sua influenza
• Scope, ovvero l’insieme delle issue areas della politica internazionale su cui uno Stato può esercitare la sua
influenza

L’obiettivo ultimo del realismo rimane la preservazione e l’incremento del potere nazionale a danno di altri stati e
cittadini non associati (basti pensare al gioco a somma zero). Vi è dunque la totale assenza di cooperazione fra gli
stati, e il governo possiede una speciale soggettività politica: domestic dis-analogy, ossia una situazione in cui la

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cooperazione e la gerarchia all’interno di uno stato non possono essere riprodotte a livello internazionale perchè il
sistema è anarchico. Le responsabilità dei cittadini sono diverse da quelle dei governi, che non possono permettersi la
cooperazione e di seguire valori morali, che possono essere utilizzati solo come giustificazione retorica del potere
politico.
Interessi nazionali > giustizia imparziale.
Molti studiosi hanno posto l’accento sulla decadenza dell’importanza del potere militare (Hard power) a favore del
soft power: questo concetto elaborato da Joseph Nye, rappresenta l’insieme di fattori non tangibili di uno Stato che
vengono considerati modali dagli altri, e adottati di conseguenza. Ciò si traduce, per lo Stato dotato di soft power,
nella capacità di stabilire regole ed istituzioni a livello internazionale. (Hollywood negli USA o il K-pop in Corea)
Altra nozione da ricordare è quella del potere strutturale elaborata da Susan Strange: trattasi del potere di scegliere e
dare forma alle strutture dell’economia politica globale entro le quali gli altri stati, le loro istituzioni politiche, le loro
imprese economiche e i lavoratori devono operare. Si possono distinguere quattro strutture:
• Struttura della conoscenza: influenzare le idee degli altri, vietare/concedere l’accesso alla tecnologia;
• Struttura finanziaria: facilitare o restringere l’accesso al credito;
• Struttura della sicurezza: proteggere o mettere in pericolo gli altri;
• Struttura della produzione: cosa, dove e in quali condizioni produrre

Imperialismo transnazionale (S. Strange): imperialismo non territoriale e non coercitivo, ma basato su forme di
dominio indiretto con influenza più sulle società che sui governi, esercitato attraverso il controllo delle strutture
fondamentali dei bisogni umani.

Tipi di potere
• Hard Power: potere militare
• Soft Power: potere immateriale, territoriale, culturale e cooptativo. Capacità di stabilire regole ed istituzioni
internazionali, fissare degli standard.
• Potere strutturale (S. Strange): influenzare le strutture della conoscenza (idee), finanziaria (accesso al credito),
della sicurezza (protezione) e della produzione (determinare cosa produrre)
• Smart power: aggiornamento del soft power proposto da Nye, combinazione di risorse hard e soft
• Sharp Power: potere subdolo, censura e manipolazioni per indebolire l’integrità delle istituzioni indipendenti,
limita la libera espressione e distorce l’ambiente politico, interferisce negli ambienti politici e di informazione dei
paesi presi di mira, attribuito a Russia e Cina.

Distribuzione del potere e polarità


Secondo Waltz, il principio cardine della moderna struttura internazionale è la diseguale distribuzione del potere.
Un sistema si può classificare in base alla distribuzione di potere, mentre uno stato si colloca in diverse categorie a
seconda del potere detenuto:

• Egemonico: un sistema in cui il potere è concentrato tutto nelle mani di uno stato (post Guerra fredda)
• Bipolare: due poli detengono il potere (Guerra fredda)
• Multipolare: il potere è diffuso tra più centri di potere (Europa prima delle guerre mondiali).

Anarchia: disanalogia domestica: a livello domestico gli stati sono organizzati gerarchicamente.
Anche se anarchico, il sistema internazionale non è disordinato, esso può essere ordinato anche in termini di assenza
di conflitto.
Due sono i principi ordinatori del sistema internazionale secondo i realisti:
• Equilibrio di potenza: il potere è bilanciato tra le varie potenze
• Stabilità egemonica: l’esistenza di una potenza egemone riduce la possibilità del conflitto

Equilibrio di potenza: l’alleanza è il meccanismo principe con cui si raggiunge l’equilibrio di potenza.
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Le alleanze devono essere fluide, è un matrimonio basato sugli interessi, il nemico del mio nemico è mio amico,
rompere un’alleanza ha costi di credibilità, condivisione degli oneri: chi pagherà le spese?
Waltz sostiene che sarebbe benefico se l’Iran venisse dotato della bomba atomica in quanto bilancerebbe il potere
israeliano in Medioriente.
• Realismo moderno: gli scenari multipolari tendono a essere più stabili degli scenari bipolari
• Neorealismo (Waltz): gli scenari bipolari tendono ad essere più stabili degli scenari multipolari
-minori problemi di quantificazione e interpretazione delle minacce e della responsabilità di contenimento
-Rischio minore di essere spinti in un conflitto attraverso clausole di difesa reciproca e alleanze

Egemonia e ordine
I realisti sostengono che la stabilità dipenda dalla disuguaglianza di spartizione del potere.
Nel sistema egemonico, si riduce l’anarchia del sistema internazionale, grazie alla presenza dell’egemone. Esso
stabilizza il sistema internazionale sostenendo i costi di produzione dei beni pubblici. La sicurezza internazionale è un
bene non escludibile e non rivale. Il problema dei free riders a livello internazionale si verifica ad esempio nelle
organizzazioni come la NATO in cui la difesa è garantita anche a quegli stati che ne beneficiano in maniera indiretta
nonostante non partecipino al budget, in tal caso la potenza egemone si fa carico dei costi dei free riders.
Esistono dei cicli egemonici (Gilpin): un egemone emerge, tendenzialmente dopo una guerra, si ha una fase di
stabilizzazione del sistema internazionale in cui la potenza si fa carico dei costi del mantenimento dell’ordine e
nessuno stato ritiene vantaggioso cambiare quel sistema. Quando i costi diventano troppo alti l’egemonia entra in una
fase di declino, ed emerge una potenza sfidante.
Escludibili Non escludibili

Rivali Beni privati Beni comuni


Cibo, vestiti, automobili Mare, bosco, carbone
Non rivali Beni di club Beni pubblici
Cinema, parchi privati, tv satellitare Televisione pubblica, aria, difesa
nazionale, lampioni

La Trappola di Tucidide
Alla potenza egemonica di Atene subentra Sparta.

Tendenzialmente quando emerge una potenza sfidante si giunge ad un conflitto. Graham Allison individua, negli
ultimi 500 anni, 16 casi di conflitto tra potenza egemone e potenza emergente, in cui 12 volte si è arrivati ad un
conflitto.

Distribuzione del potere


• Superpotenza: gli USA e l’URSS durante la Guerra Fredda
• Grande potenza (grandi risorse di potere, capacità militari ed economiche, di lungo periodo)
• Media potenza: Stati che dispongono di medie risorse militari ed economiche. Oggi capitanate da India e Brasile,
giganti regionali, ma anche Italia, Canada e Messico
• Piccola potenza: attori che si collocano fra le precedenti e i micro-stati, ovvero i paesi con popolazione inferiore al
milione di abitanti
• Failed state: stati multietnici o senza nazione, dove la legge è collassata e vi sono conflitti interni, tribalismo,
militarismo ecc… (Yemen)
• Rogue state: categoria utilizzata dagli USA per definire uno stato che regolarmente viola i diritti umani e gli
standard internazionali di comportamento.

Obiettivi per cui aumentare la potenza

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Realismo offensivo (Mearsheimer) Realismo difensivo (Waltz, Grieco)

Gli stati sono essenzialmente massimizzatori del potere • Gli stati sono essenzialmente attori difensivi il cui
ed hanno come obiettivo principale quello di obiettivo principale è la sopravvivenza
raggiungere una posizione egemonica (globale o • Uno stato non cercherebbe di ottenere maggior potere
regionale) se questo mettesse in pericolo la sua sopravvivenza

1. Strategie per accrescere il proprio potere


• Guerra o minaccia di guerra
• Bait and bleed: mettere gli altri stati l’uno contro l’altro (Russia che spinge Austria/Prussia contro la Francia) e
Dissanguamento (Finanziare la guerra in Ucraina per far dissanguare la Russia delle sue risorse)
• Divide et impera

2. Strategie contro gli aggressori


• Bilanciamento, che può essere
-esterno (tramite alleanza)
-interno (mobilitazione di risorse)
E scaricabile, ovvero spingere un altro stato contro l’aggressore rimanendo in disparte

3. Strategie da evitare
• Appeasement (come nella Seconda guerra mondiale)
• Bandwagoining

21/09
POLITICA ESTERA ITALIANA
L’ONU aveva come nucleo fondamentale i paesi che avevano vinto la guerra.
Il 2023 ha segnato una cesura nel vecchio ordine mondiale con la guerra in Ucraina.
Connessione Ucraina-Africa: grano. I prezzi del grano a seguito della guerra sono aumentati notevolmente
riflettendosi sui beni di prima necessità come il pane, producendo la cosiddetta inflazione alimentare.
Le difficoltà dell’Africa risiedono principalmente nelle sue classi dirigenti.
Giunta militare del Mali in conflitto con la tribù dei Tuareg.

27/09
Neorealismo e Geopolitica
La geopolitica è lo studio del rapporto fra il territorio e la politica di uno Stato, nata all’avanzare della rivalità
imperialistica fra le nazioni europee e accanto al darwinismo sociale. Uno dei primi studiosi di geopolitica si può
considerare Ratzel, il quale vedeva nello sviluppo di alcuni stati da una loro propensione biologica. La definizione
vera e propria di geopolitica venne coniata da Kjellen: “la geopolitica è lo studio dello Stato considerato come un
organismo geografico, o ancora come un fenomeno spaziale, vale a dire come una terra, un territorio o, più
esattamente ancora, come un paese”. Le principali dottrine geopolitiche si possono ricollegare ai seguenti autori:
• Mackinder: teorizza una delle maggiori questioni geopolitiche, ovvero il conflitto fra potenze marittime, che
mirano al dominio della World Island, ovvero la massa eurasiatica con l’appendice africana, e potenze
continentali, che vogliono unificare l’isola e/o controllarne una parte significativa. Vi è poi il World Ocean, che
occupa i tre quarti della superficie del pianeta, e il restante quarto è occupato dalla World Island da una parte e
le Outlying Islands, in periferia. La posta in palio dei conflitti è l’Heartland, il centro della World Island: chi
controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo.

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• Haushofer: l’obiettivo è quello di giustificare razionalmente la politica espansiva della Germania (WWII).
Secondo Haushofer il mondo si può dividere in pan-idee con la propria nazione guida: l’eurasiatismo con la
Russia, il panamericanismo con gli USA e il panasiatismo del Giappone. Il progetto storico di Haushofer è
quello di riunificare i popoli tedeschi sotto la guida della Germania, formando un impero europeo —> Hitler
viene visto come l’uomo che può portare a termine questo progetto, ma è falso trovare in questa dottrina
l’ispirazione del nazismo (geografia ≠ razzismo).

• Mahan: è il fondatore della geopolitica americana e teorizzatore della potenza marittima, di cui sostiene la
superiorità in campo militare ma anche
commerciale. La sua teoria navalista vede in
queste potenze le uniche in grado di dominare il
mondo, cercando non il controllo di mari e
oceani, ma di istmi e i canali.

• Spykman: influenzato da Mackinder, sposta più


ad est la collocazione della Heartland,
individuando poi il centro della politica mondiale
nella Rimland, ovvero le terre costiere e
periferiche dell’isola, spazio di conflitti fra
potenze marittime e continentali —> carattere
anfibio.

Realismo moderno
Principale esponente del realismo moderno è Morgenthau: egli vede la politica sia interna che estera caratterizzata
dall’infinita lotta per il potere insita nella natura umana, che è immutabile (pessimismo antropologico). Il sistema
politico interno ha scarsa rilevanza nei rapporti interstatali. Anche qui nel sistema internazionale vige l’anarchia, e le
solidarietà politiche sono solo parziali. Gli stati sono mossi da interessi personali espressi in termini di potenza, ma un
certo ordine minimo si può raggiungere attraverso la politica estera, limitando il potere con la diplomazia e la politica
di equilibrio. Le organizzazioni e il diritto internazionali sono invece soggetti alle leggi della power politics —> le
leggi devono essere basate ed aggiornate sulla scia della natura umana immutabile. Una scienza delle RI è possibile
solo con il riconoscimento e la comprensione di queste leggi (c’è un intento normativo-prescrittivo).
Critiche:
• I concetti chiave di Morgenthau non sono ben definiti
• Morgenthau svaluta il ruolo delle ideologie, del diritto e delle organizzazioni internazionali
• Reifica (considerare ciò che è astratto come concreto) lo stato
• La separazione fra politica internazionale e politica interna impedisce di valutare la diversa influenza che i vari
regimi esercitano sulla conduzione della politica estera.
Realismo eterodosso
Aron si contrappone a Morgenthau, pur condividendone la visione dell’anarchia, non elaborando una teoria della
natura umana, in favore di un’analisi sociologica del campo diplomatico-strategico. Il senso della politica per Aron è
anche ricerca dell’ordine equo —> realismo attenuato, perché la power politics non esaurisce la politica
internazionale, e si riconosce l’importanza delle ideologie, e di conseguenza i conflitti ideologici. L’eterodossia sta
nella bidimensionalità della politica internazionale, che consente ad Aron di trovare due parametri fondamentali,
ovvero la distribuzione del potere e il grado di omogeneità politico-ideologica. Su questa base, Aron classifica i
regimi come bipolari o multipolari, omogenei o eterogenei, che danno vita a diverse combinazioni.

Realismo strategico
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Il Realismo strategico si concentra sul processo decisionale relativo alla politica estera: se si vuole avere successo,
bisogna pensare strategicamente. Principale esponente è Schelling, che ricorrendo alla teoria dei giochi, dà
particolare importanza al concetto di minaccia e alla razionalità strumentale.
Egli distingue tre periodi:
1. Dalla metà del ‘600 all’età napoleonica: la guerra riguarda principalmente gli eserciti e i mercenari

2. Dall’età napoleonica ai conflitti nazionali del XIX secolo: comincia ad esserci un diretto
coinvolgimento dei cittadini, attraverso la coscrizione e la scelta di bersagli civili da attaccare.

3. Dopo la WWII gli strumenti bellici sono rivolti principalmente contro civili, e la strategia che
predomina è quella della diplomazia della violenza —> ostaggi

L’arma nucleare politicizza i problemi militari e militarizza la politica, e il conflitto non è più finalizzato alla vittoria
ma alla coercizione. Schelling distingue fra forza bruta, prendi quello che vuoi, e coercizione, fai in modo che l’altro
ti dia quello che vuoi: perché quest’ultima sia efficace, è necessario un bargaining.
In conclusione, il realismo strategico si può così esplicare:
• Fa propri gli assunti del Realismo
• È una teoria empirica
• Fornisce gli strumenti analitici, rifacendosi alla teoria dei giochi, per il pensiero strategico.

Neorealismo
Anche Waltz adotta un metodo scientifico, privilegiando però un approccio struttural-sistemico. La sua è una teoria
del sistema internazionale, che accetta gli assunti base del Realismo. Secondo Waltz la struttura è l’elemento
essenziale per spiegare la politica mondiale e i vari comportamenti: è possibile coglierne le regolarità così come
prevederli. Una di queste regolarità è la correlazione esistente fra la stabilità del sistema e la distribuzione del potere;
meno diffuso è il potere, più stabile è il sistema.
La struttura viene definita, secondo Waltz da tre elementi:
1. Principio ordinatore del sistema: può essere gerarchico o anarchico. Se opera il primo prevale l’ordine imposto
dalla potenza superiore, se opera il secondo il sistema si basa sulla balance of power.
2. Specificazione delle funzioni delle singole unità (gli stati) che compongono il sistema. Questo elemento non
riguarda però i sistemi anarchici, nei quali ogni stato è sovrano e indipendente (Westfaliani), per cui il sistema
risulta composto di unità funzionalmente eguali a prescindere dalla loro specifica organizzazione politica e dalle
altre loro caratteristiche interne.
3. Distribuzione di potere fra le unità: se essa muta, muta anche il sistema.
La conclusione teorica del neorealismo di Waltz è dunque che in un contesto anarchico gli stati scelgono l’equilibrio
di potenza piuttosto che il bandwagoning, nel sistema gerarchico invece gli attori tendono a voler “salire sul carro
del vincitore”.

28/09
3. LIBERALISMO
Il Liberalismo rappresenta l’alternativa storica al Realismo. Contrariamente a quest’ultimo, si concentra
sull’individuo, sulle istituzioni, sulla collaborazione e sui guadagni assoluti, focalizzando la propria analisi sulla
libertà dell’individuo, la cui protezione è compito dello Stato. Anticipazioni del liberalismo si possono trovare già
nella Grecia classica e poi a Roma (Cicerone), in Cina con Mozi, nell’Europa moderna con Crucé, Penn, l’abate Saint-
Pierre, Montesquieu e soprattutto Kant (Per la pace perpetua) —> costituzione di una società delle nazioni basata su
un diritto internazionale, correlando regime repubblicano all’interno, con propensione alla pace all’esterno.
Si individuano tre tipi di liberalismo:
1. Liberalismo commerciale: si raggiunge la pace nel sistema internazionale favorendo gli scambi economici tra
stati. Ci sono meno incentivi ad entrare in guerra con uno stato con cui si è interdipendenti.

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2. Liberalismo istituzionalista: si può favorire la pace attraverso l’istituzione di organismi internazionali. È un
luogo in cui si possono ripetere le nostre interazioni fino a raggiungere un punto di equilibrio ottimale per tutti.
3. Liberalismo repubblicano: è l’espansione della democrazia a favorire la pace internazionale.

3.1 Gli assunti del liberalismo


Il Liberalismo si può esprimere con i seguenti quattro assunti:
1. Anche gli attori diversi dallo stato sono importanti: Approccio multicentrico. Pertanto, lo stato è
fortemente ridimensionato in quanto attore internazionale. Oltre allo Stato, ai gruppi di pressione politici
ecc…, sono importanti anche le organizzazioni internazionali, transnazionali e multinazionali, per via della
crescente interdipendenza. Ad oggi si sottolinea il ruolo decrescente dello Stato in favore delle sopracitate.
2. Lo Stato non è un attore unitario: è frammentato, disaggregato, e ciò è dimostrato dal fatto che nel
processo decisionale risulta essere influenzato da élite, gruppi o lobby. I liberali osservano anche come attori
non-stato riescono a operare attraverso i confini degli stati senza intermediazione dei governi —> visione
pluralista. Lo stato non è una palla da biliardo.
3. Lo Stato non è un attore razionale: i liberali accusano i realisti di reificazione dello Stato, trasformandolo in
entità concreta. Inoltre, le decisioni in politica estera non sono sempre il frutto di una scelta razionale, ma
piuttosto di compromessi, contrattazioni e alleanze. In ultimo, i decision-makers possono avere varie
percezioni dei rapporti causa-effetto, informazioni parziali o errate. I liberali non escludono del tutto il
concetto di razionalità, ma intendono come tale, l’obiettivo del benessere di lungo periodo, enfatizzando la
collaborazione piuttosto che il conflitto.
4. L’agenda della politica internazionale è vasta e diversificata: non si concentra più solo sulla sicurezza
nazionale, poiché di eguale importanza sono le questioni economiche, sociali ed ecologiche —> niente più
distinzione fra high politics e low politics. Per quanto riguarda la sicurezza ultimamente si parla sempre più di
spesso di soft-security (in contrapposizione all’hard security, cioè la sicurezza militare e la guerra) per
indicare le nuove minacce derivanti dal terrorismo, dalla criminalità internazionale organizzata, dalla
criminalità tecnologica, dal traffico di esseri umani ecc…

Sicurezza collettiva
Idea che ogni stato che fa parte di un accordo accetta che la sicurezza di uno sia il problema di tutti ed è disposto ad
unirsi, in una risposta collettiva, contro un aggressore. La giustificazione logica di questo approccio sta nella
convinzione che il dilemma della sicurezza non si risolve con il self-help o il balance of power, bensì con l’istituzione
di impegni collettivi ad agire congiuntamente contro chi minaccia l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di
uno dei membri. (art. 5 NATO).
Per i liberali è compito delle organizzazioni internazionali fornire la sicurezza.
Affinché la sicurezza collettiva abbia successo occorre che:
1. Tutti i membri devono rispettare l’impegno e opporsi congiuntamente contro l’eventuale aggressore
2. Un numero rilevante di membri deve essere concorde nell’individuazione dell’aggressore.
Il problema dell’ONU è il fatto che le 5 potenze vincitrici della WWII detengono il diritto di veto, per cui di fatto il
sistema di sicurezza collettiva non funziona in caso di aggressione da parte di una grande potenza.

1. Liberalismo Repubblicano/Teoria della pace democratica


Nasce dalla più profonda differenza tra realisti e liberali: come viene concepita la natura umana. Per i liberali gli
individui non sono conflittuali, essi desiderano la pace, e la guerra non è una continuazione della politica con altri
mezzi, ma una manifestazione irrazionale, dovuta al fatto che i popoli sono guidati da capi autocratici. Teorico della
pace democratica è Kant. Egli suggerisce tre articoli che potrebbero essere la base per un sistema pacifico:
1. “La costituzione civile di ogni stato dovrebbe essere repubblicana”
2. “La legge delle nazioni dovrebbe essere basata su una federazione di stati liberi”: Dovrebbe essere stabilito un
sistema intergovernativo, basato su una confederazione. Si dovrebbero quindi sviluppare organizzazioni
intergovernative.

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3. “La legge cosmopolita dovrebbe essere limitata alle condizioni di ospitalità universale”: un sistema legale
dominante dovrebbe esser stabilito per garantire la libera mobilità individuale e il commercio tra le nazioni.

A detta di Doyle, qualora tutti gli stati del mondo diventassero democratici, ne seguirebbe che la pace sarebbe
universale e perpetua, e quindi la guerra, il peggior male del sistema internazionale, sarebbe eliminata per sempre.

La teoria della pace democratica è dovuta a:


• Spiegazioni monadiche: le democrazie in generale fanno meno la guerra rispetto alle autocrazie
1. Idea ontologica: Le decisioni vengono prese dal popolo: quando il popolo ha diritto di parola, esso non
sceglierà di andare in guerra, non solo per la sua natura positiva ma soprattutto perchè pagano le tasse.
2. Idea strutturale: il modo in cui vengono prese le decisioni è molto più lento, a causa della divisione di potere.
3. Idea normativa: esternalizzano i loro metodi interni
3. Risorse: possiedono una ricchezza pubblica maggiore rispetto ad altri stati e sono desiderosi di preservare
infrastrutture e risorse

• Spiegazioni diadiche: le democrazie si fanno meno la guerra tra loro.


1. Legittimità: tendono ad essere amichevoli con regimi simili
2. Reciprocità: tendono ad essere più rispettosi dell’accordo, più fiduciosi
3. Economico: le democrazie tendono a commerciare di più con altre democrazie.

Secondo Doyle, un paese per essere definito democratico deve avere:


• Economie di mercato e di proprietà privata
• Politiche sovrane esternamente
• Cittadini titolari di diritti giuridici
• Governo rappresentativo repubblicano

Critiche alla definizione di democrazia di Doyle


• Merscheimer: i regimi democratici occidentali sono troppo recenti nel tempo e limitati nello spazio per poter
verificare la veridicità della teoria.
• Lee Ray: seguendo una definizione molto restrittiva di democrazia, si arriverebbe a dimostrare che nella storia non
sono mai esistite le democrazie, e che di conseguenza non possono esserci state guerre tra di esse
• Schwartz e Skinner: Stilato un elenco di conflitti tra Paesi democratici evidenziando come le democrazie sono
siano inclini a provocare guerre nei primi anni di vita

Esportare la democrazia?
Esistono secondo Doyle due modi di allargare la zona democratica di pace:
1. Soluzione difensiva: evitare che paesi democratici diventino autocratici
2. Soluzione espansionistica: idea che la comunità internazionale possa cercare di espandere la platea di stati
democratici con strumenti diplomatici ed economici
3. La guerra preventiva voluta dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein ha drammaticamente
indicato una terza soluzione: imporre la democrazia con la guerra.

2. Liberalismo commerciale
La pace si raggiunge attraverso l’intensificazione degli scambi commerciali che rendono irrazionale la guerra.
L’interdipendenza è la condizione in cui un attore è influenzato dalla decisione dell’altro. Può essere:
-Interdipendenza politica, economica o sociale
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-Interdipendenza simmetrica (bilanciata) o asimmetrica

Secondo il liberalismo essa crea più cooperazione e pace in quanto determina una maggiore vulnerabilità reciproca.

L’interdipendenza economica ha generato:


1. Erosione della sovranità statale, sempre più sviluppati in reti istituzionalizzate che ne limitano l’autonomia in
politica estera
2. Eterodeterminazione delle preferenze statali
3. Sovrapposizione tra politica estera e politica interna a causa della crescente compenetrazione fra le economie
nazionali
4. Emarginazione della potenza militare negli affari internazionali

Critica realista
Teoria dell’interdipendenza complessa
Kehoane e Nye
• Esistenza di più canali, relazioni stati-stati/stati-società: quindi accanto alle relazioni intestatali, abbiamo relazioni
transgovernative e transnazionali
• Assenza di gerarchia tra le questioni: La sicurezza militare non è sempre al primo posto nell’agenda, con la
conseguenza che scompare divisione tra high e low politics, mentre si attenua la separazione tra politica interna e
politica estera
• Ridotta l’importanza del potere militare e crescente rilevanza dell’interdipendenza economica e delle istituzioni
internazionali.

Sensibilità e vulnerabilità
• L’interdipendenza implica sia sensibilità che vulnerabilità: Il concetto di interdipendenza può implicare sia
sensibilità che vulnerabilità. Durante la crisi petrolifera del 1973, il Giappone dipendeva dall’importazione di fonti
energetiche per il 95% del totale, gli USA per una percentuale molto minore. Pertanto gli USA erano sì sensibili alla
crisi scatenata dall’OPEC, ma non erano vulnerabili come lo era il Giappone.
• Interdipendenza è significativa solo se comporta reciproche vulnerabilità: Per i realisti quindi, affinché
l’interdipendenza sia significativa, deve essere intesa come reciproca vulnerabilità.
• Per come è strutturato il sistema internazionale, alcuni stati sono più vulnerabili di altri. Quindi l’interdipendenza
è una forma di disuguaglianza. Se è vero che tutti gli stati sono sensibili, è altrettanto vero che alcuni sono più
vulnerabili di altri, e ciò rende l’interdipendenza una forma di disuguaglianza tra stati, che in definitiva determina
una gerarchia. In altre parole, per i realisti l’interdipendenza, intesa come vulnerabilità, implica un rapporto di
dominio/dipendenza.

3.5 Organizzazioni internazionali, regimi internazionali e governance globale


Nel corso degli anni ’70, nonostante il declino del potere egemonico americano, innegabile è una certa cooperazione
tra stati, specie su temi di natura economica. In questo contesto i neoliberali, pur accettando alcuni assunti realisti,
rivalutano il ruolo delle organizzazioni internazionali che, da sole non garantiscono la trasformazione qualitativa delle
RI. Esse possono promuovere efficacemente la cooperazione interstatale e quindi attenuare il carattere anarchico del
sistema.
A differenza dei realisti, i liberali considerano il diritto internazionale primario nella scena internazionale e
destinato ad assumere importanza crescente. Tuttavia il problema del diritto internazionale sta nell’applicazione delle
sue norme, poichè non esiste un’autorità superiore agli stati con poteri coercitivi, e quindi il rispetto delle norme
internazionali, non avendo una base imperativa, è principalmente fondato sul consenso.

Istituzioni: Insieme di regole che definiscono le aspettative, prescrivono ruoli e limitano le attività.
-Organizzazioni intergovernative: membership riservata ai governi (ONU)

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-Regimi: ancora governativi ma non necessariamente formalizzati all’interno del quadro istituzionale (regime di
non proliferazione, regime dei diritti umani ecc…)
-Global Governance: serie di meccanismi regolatori non emanati da una singola autorità, ma prodotti dalla
proliferazione delle reti in un mondo interdipendente. Processo continuo che non è mai stabile e non ha un unico
formato
-Integrazione sovranazionale: federalismo (USA) e funzionalismo (UE)

Regimi internazionali: I liberali vedono una stretta connessione tra diritto internazionale e organizzazioni
internazionali o intergovernative. È da rilevare che per i neoliberali le forme di cooperazione internazionale
comprendono anche i cosiddetti regimi internazionali, ossia un insieme di regole che governano l’azione degli Stati
in determinate aree. Nel sistema internazionale le organizzazioni internazionali governative, oltre a spingere gli stati
alla collaborazione, a svolgere importanti attività operative (forum per negoziati, raccolta di informazioni,
monitoraggio ecc…) e a contribuire alla risoluzione di controversie, portano alla creazione di regimi internazionali.
Krasner definisce i regimi internazionali come: “princìpi, norme, regole e procedure decisionali, che possono essere
sia impliciti che espliciti, su cui convergono le aspettative degli attori in un determinato settore.” Il concetto di
regimi internazionali fa riferimento ad una vasta gamma di casi di cooperazione tra stati. Data l’assenza di un’autorità
centrale sovranazionale, queste regole sono stabilite volontariamente dagli stati per fornire un certo ordine alle
relazioni internazionali. I regimi possono assumere la forma di princìpi tacitamente condivisi, convenzioni, accordi,
trattati, o istituzioni internazionali e possono coprire in sostanza tutti i settori in cui l’interdipendenza tra gli stati si
manifesta (sicurezza, sviluppo, ambiente ecc…). Essi stimolano i flussi tra gli stati, favoriscono la fiducia e quindi i
negoziati e creano aspettative convergenti. In definitiva spingono alla cooperazione anche attori egoisti che accettano
obblighi e limitazioni della loro libertà di movimento se credono che ciò sia necessario per soddisfare i loro interessi.
Con il passare del tempo i regimi assumono un’esistenza autonoma, in grado di persistere rispetto agli stati che li
hanno creati. Esempi di regimi internazionali sono il Concerto d’Europa (1815), il Nuovo Ordine Internazionale di
Bush, il regime di controllo dei missili balistici ecc…

Global Governance: si tratta di istituzioni che plasmano le aspettative, però emanano da autorità non necessariamente
pubbliche, intergovernative o private ma sorgono un po’ come funghi.
Sono un po’ tutte organizzazioni che definiscono degli standard, quindi non norme prescrittive, ma un qualcosa a cui
si aderisce volontariamente (IBAN, SWIFT, società di rating di aziende ecc…) che regolano una certa issue area. La
logica è quella del club, partecipano solo i membri, gli altri ne sono esclusi a meno che non vengano invitati. Questo
sistema è più inclusivo perchè non partecipano solo i governi, ma allo stesso tempo meno inclusivo perchè partecipano
solo enti considerati rilevanti portatori di interessi, ma questo chi lo decide?.

Negli ultimi decenni è avvenuta un’intensificazione dei meccanismi global governance. Nell’era della
globalizzazione si è avvertito un crescente bisogno di una più ampia e profonda cooperazione internazionale che ha
guidato lo stabilirsi di una rete di istituzioni mono-funzionali miste. Tra le caratteristiche della global governance
troviamo:
1. Ogni governance copre un ampio spettro, dato che riguarda direttamente un sistema di regole multilaterali.
2. A dispetto della sua più ampia portata, è più limitato in termini di inclusività e partecipazione poichè riguarda
soltanto determinate aree tematiche e gli agenti ivi coinvolti.
3. Nell’essere multilaterale comporta princìpi generalizzati di condotta e diffusa reciprocità.

Rosneau e Czempiel definiscono la global governance come “un insieme di meccanismi di regolamentazione che
funzionano anche se non emanano da un’autorità ufficiale, ma sono prodotti dalla proliferazione di reti in un mondo
sempre più interdipendente.” La global governance è inoltre vista come un processo continuo mai fisso e che non
assume un singolo modello o forma. Inoltre, puntando non esclusivamente sulle relazioni intergovernative essa
prevede la partecipazione di attori di varia natura, sia pubblici che privati. La regolamentazione non è inquadrata
secondo regole prestabilite, ma si fa in maniera congiunta con un gioco di scambi, conflitti, compromessi,
negoziazioni, aggiustamenti reciproci. I liberali cercano di favorire lo sviluppo della global governance attraverso la

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creazione di istituzioni e regimi internazionali in grado di promuovere la cooperazione tra stati. Tre sono le cause
principali del grande interesse per la global governance nel corso degli anni 90:
1. La fine della guerra fredda, e quindi l’aspettativa che le organizzazioni internazionali svolgano un ruolo più
significativo nella gestione del nuovo ordine mondiale
2. Lo svilupparsi della globalizzazione intesa come incremento rilevante dei flussi di beni, capitali, servizi e persone
3. La crescente consapevolezza che il pianeta è tormentato da una serie di problemi (ambientali) che possono essere
affrontati solo con un approccio globale coordinato.
Il concetto può essere visto come espressione di un movimento graduale di superamento del sistema vestfaliano
classico, verso un sistema meno conflittuale, più cooperativo e consensuale, basato sul rispetto di principi
democratici e il libero mercato. Uno degli aspetti più dibattuti riguarda il rapporto tra global governance e world
government, ossia il punto di arrivo degli idealisti e di larga parte dei liberali; anche se è innegabile che sia in atto
un’erosione della sovranità degli stati, questi non sembrano ancora disposti ad accettare di essere direttamente
governati da un attore sovranazionale.

Perchè si creano le istituzioni?


• Istituzionalismo razionalista: i governi partecipano alle organizzazioni internazionali perchè hanno un’aspettativa
che questa porti dei benefici.
-Ridurre i costi di transazione.
-Le organizzazioni negoziano diversi ambiti, tavolo di negoziazione multi-issue.
-Riducono l’incertezza sui comportamenti.
-Produce incentivi.
• Istituzionalismo sociologico: le istituzioni sono create sulla base di valori e principi condivisi.
• Istituzionalismo storico: si rimane all’interno delle organizzazioni internazionali a causa di logiche burocratiche
interne

Interdipendenza, cooperazione e coordinamento


Per integrazione internazionale si intende il processo di unione sempre più stretta tra stati con la creazione di
istituzioni o di attori internazionali, intergovernativi, o più raramente, sovranazionali che quantomeno parzialmente si
sostituiscono a quelli nazionali. In questo modo si ha un graduale spostamento della sovranità verso l’alto (caso
UE). L’ultima espressione dell’integrazione sarebbe la fusione di alcuni stati in uno singolo (federalismo) e la
prospettiva finale (forse utopica) sarebbe la creazione di un singolo governo mondiale.
Integrazione sovranazionale: processo di unione sempre maggiore tra stati. Si ottiene attraverso il federalismo
(USA) o funzionalismo. Secondo il funzionalismo ci si integra dimenticando un po’ la politica e dando in mano la
questione ai tecnici, concentrandosi su singole issues (UE).
Funzionalismo: Mitrany, teorico del funzionalismo vedeva le basi di un nuovo sistema internazionale più integrato
nelle esigenze della cooperazione funzionale (tecnica) tra gli stati. Mitrany era interessato a vedere come i legami
transnazionali potessero portare all’integrazione e quindi a ridurre il nazionalismo e in questo modo favorire una
pace internazionale stabile. Secondo Mitrany, la società moderna ha creato una miriade di problemi funzionali
(cioè tecnici: economici, sociali, scientifici), problemi che possono essere risolti meglio dai tecnici che dai politici.
Si formano così connessioni funzionali tra gli stati, strutture di tipo sovranazionale, comunitarie, che implicano per
certi aspetti il superamento dei poteri sovrani, come testimoniato appunto dal processo d’integrazione europea.
Mitrany sostiene che la collaborazione da parte degli stati in un settore tecnico, da cui tutti traggono beneficio,
spinge alla collaborazione anche in altri settori, attraverso un processo di ramificazione. Tuttavia, nell’affermare
che la cooperazione tecnica porta necessariamente all’integrazione politica, il funzionalismo pecca di
determinismo; infatti, nonostante la distensione e i progressi della comunità europea, gli stati si sono rivelati gelosi
della propria sovranità, dimostrando quindi la persistenza del primato della politica.

Neofunzionalismo: Questa verità è stata ben compresa dai neofunzionalisti che hanno reintrodotto la dimensione
politica nella riflessione sull’integrazione. Hanno finito con l’ammettere che il passaggio dalla cooperazione
economica all’integrazione politica richiede una mediazione politica. Secondo Haas, l’integrazione tecno-economica

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genera una dinamica politica che a sua volta spinge verso un’ulteriore integrazione, attraverso un processo per mezzo
del quale le èlites ridefiniscono in modo graduale i propri interessi in termini sovranazionali. Ciò porta ad una
maggiore collaborazione sulla base dell’interesse nazionale e a una più estesa integrazione da parte degli stati. Questo
processo detto spill over può essere espresso come segue: più stretti legami economici implicano maggiore
coordinamento politico al fine di renderli effettivamente operanti, e portano in definitiva anche all’integrazione
politica. Lo spillover quindi, non solo espande la portata della collaborazione tecnica in altri settori, ma eleva anche
il livello di impegno reciproco.

Interdipendenza: per interdipendenza si intende un rapporto o più rapporti tra due o più unità in cui una è sensibile
alle decisioni e alle azioni delle altre. L’interdipendenza può essere di natura politica, economica, sociale, e inoltre
può essere simmetrica (bilanciata) o asimmetrica.

La sintesi neo-neo
Rimane tra neoliberali e neorealisti un modo diverso di percepire la cooperazione internazionale: per i neorealisti la
cooperazione internazionale non è solo difficile da raggiungere e mantenere, ma soprattutto non può prescindere dal
potere degli stati (le cui strategie devono essere coordinate), come non possono prescinderne il mantenimento della
stabilità del sistema. Tuttavia si rileva una tendenza verso una concezione comune dei regimi internazionali, che
combina elementi liberali ed elementi realisti. La funzione principale dei regimi è la stessa per le due scuole:
“facilitare la stipulazione di accordi intergovernativi reciprocamente vantaggiosi, in modo da evitare che la condizione
strutturale di anarchia si risolva in una guerra tutti contro tutti”. In conclusione, l’approccio neorealista e quello
neoliberale non sono antinomici bensì complementari. Tuttavia non sono mancate le critiche:
-Prima critica: riguarda l’agenda; il dibattito nell’ambito del neorealismo e del neoliberalismo riflette essenzialmente
problemi specifici dell’Occidente e gli interessi degli Stati Uniti.
-Seconda critica: riguarda la metodologia scientifica (positivista). Per molti critici lo spazio del dibattito (le issues)
appare ristretto anche perchè, evitando la questione morale e centrando l’analisi sugli stati e sulla problematica
dell’anarchia, si finisce con l’ignorare aspetti importanti della politica mondiale contemporanea.

Come si fa la pace secondo i liberalisti?


-Risoluzione dei conflitti multilaterali
-Rafforzamento del diritto internazionale
-Rafforzamento delle istituzioni internazionali
-Integrazione regionale o globale
-Integrazione economica
-Democratizzazione

Deudney e Ikenberry parlano del liberalismo come prerogativa sostanzialmente esclusiva dell’occidente.
Security co-binding (NATO)
Egemonia reciproca penetrata (USA)
Semi sovrane e parzialmente grandi potenze, potenze civili (economiche e non militari)
Apertura economica
Identificazione in valori condivisi

4. MARXISMO
Il marxismo radicale può essere definito come una teoria sistemica che analizza in una prospettiva global-centrica, la
struttura del sistema internazionale definita “capitalista”.

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Il Marxismo radicale è oggi generalmente screditato eccetto per la sua versione neo-gramsciana che viene applicata
all’interpretazione degli affari internazionali, caratterizzati come dominati da forze egemoniche a livello globale e da
forme di neoimperialismo. Tuttavia, l’influenza del pensiero marxista non è da sottovalutare.

4.1 Assunti del Marxismo


1. La struttura del sistema internazionale è fondamentale: cioè il contesto globale entro cui gli stati
interagiscono. Per capire il comportamento degli stati si deve prima comprendere la struttura del sistema, la
quale in quanto indipendente, condiziona il comportamento degli stati. Pertanto per i teorici marxisti, la politica
internazionale deve essere vista come un effetto della struttura economica dominante: il capitalismo.
2. Le Relazioni internazionali devono essere interpretate secondo una prospettiva storica: un elemento chiave
del pensiero marxista è il materialismo storico, secondo il quale i cambiamenti storici sono riflessione dello
sviluppo economico della società, che pertanto è il motore della storia. In ogni società c’è una struttura
determinata dalla tensione tra mezzi di produzione e rapporti di produzione, e una sovrastruttura (sistema
politico, ideologia, istituzioni giuridiche ecc…): sviluppandosi i mezzi di produzione, mutano i rapporti di
produzione e quindi la struttura che a sua volta porta cambiamenti nella sovrastruttura. (Sviluppo dei mezzi di
produzione—>mutamento dei rapporti di produzione—>mutamento della struttura—>mutamento della
sovrastruttura). Pertanto le contraddizioni che muovono la storia vanno cercate nella struttura. Secondo Marx,
nella storia dell’occidente si sono succeduti tre principali modi di produzione: Schiavistico, Feudale, Capitalistico,
caratterizzati da un antagonismo tra classi che si contendono il surplus del prodotto e il potere. La storia di ogni
società è storia di lotte di classe: tra schiavi e proprietari di schiavi, tra servi della gleba e signori feudali e tra
borghesia e proletariato.
3. I rapporti di dipendenza tra gli stati sono importanti: sebbene si riconosca l’importanza degli stati in quanto
attori, e così anche delle organizzazioni internazionali, i marxisti pongono l’attenzione alla dipendenza, cioè ai
meccanismi di dominio con cui alcuni stati beneficiano del sistema capitalistico a spese di altri. Più nello specifico
si occupano dello sviluppo e del mantenimento delle relazioni di dipendenza tra paesi industrializzati e paesi in via
di sviluppo. La tesi di base è che i paesi meno sviluppati non siano tali perchè abbiano fallito, ma a causa dei
meccanismi della dipendenza che producono uno sviluppo necessariamente ineguale. I paesi meno sviluppati
giocano un ruolo chiave nel benessere economico di quelli capitalisticamente avanzati, in quanto forniscono
manodopera a buon mercato, le materie prime necessarie e mercati per i loro prodotti. D’altra parte i paesi
meno sviluppati non hanno scelta.
4. L’agenda internazionale vede al primo posto i fattori economici: a differenza dei realisti e dei
liberali/pluralisti, i marxisti nello spiegare la dinamica del sistema internazionale, enfatizzano i fattori economici:
l’economia è la chiave per capire la creazione, l’evoluzione e il funzionamento del sistema mondiale
contemporaneo.
Pur essendoci una convergenza tra liberali e marxisti per quanto concerne l’importanza dei fattori economici e sociali
esiste tra loro una differenza di fondo: l’immagine pluralista frammentata in attori multipli che competono, si
coalizzano e si combattono, contrasta con l’immagine global/strutturale dei neomarxisti per i quali il risultato
dell’interazione tra gli attori è molto spesso predeterminato dall’esterno. Inoltre gli studiosi di questo paradigma, a
differenza dei realisti, enfatizzano la connessione tra sistema internazionale e politica interna: il singolo stato e la
singola società non sono visti come incapsulati in un guscio duro, ma inseriti nella struttura capitalistica globale.

4.2 Sviluppo e imperialismo


Il termine imperialismo è definito come “una politica di estensione del potere e dell’influenza di un paese attraverso
la diplomazia o la forza militare”. Furono tuttavia Lenin e Kautsky ad attribuire alla parola un nuovo significato,
sottolineando il collegamento con la sfera economica e connettendola a una particolare fase dello sviluppo del
capitalismo. Per Lenin infatti l’imperialismo è l’effetto diretto di un nuovo e ultimo stadio del capitalismo, quello dei
monopoli e in particolare del capitale finanziario, che è all’origine di una lotta mondiale sempre più aspra per lo
smaltimento dei surplus, per il controllo delle materie prime e di nuove sfere di investimento. In questa visione, la
struttura socioeconomica di un paese determina il suo comportamento internazionale, la politica estera sarebbe
funzione degli interessi di classe e i conflitti tra gli stati sarebbero l’espressione e la conseguenza delle
contraddizioni del modo di produzione capitalistico, pertanto, solo la vittoria del socialismo potrebbe assicurare in
modo durevole la pace nel mondo.
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In generale, le teorie delle RI derivate dalla critica marxista dell’imperialismo persero d’influenza in occidente dopo la
fine della seconda guerra mondiale. Fin dagli anni ’60 sono apparse profonde divergenze nella pratica degli stessi stati
socialisti; se per l’URSS il mondo era diviso in due campi antagonisti, l’internazionalismo proletario guidato da
Mosca e l’imperialismo capitalista dominato dagli USA, per la RPC il mondo era tripartito; secondo la Teoria dei
Tre Mondi, attribuita a Mao, il pianeta era diviso in tre gruppi di stati:
1. Le due superpotenze (URSS e USA), in competizione per l’egemonia mondiale e per lo sfruttamento dei paesi
più poveri
2. Il secondo mondo era costituto dalle forze intermedie alleate (Giappone, Europa, Canada, Australia e Nuova
Zelanda)
3. Il terzo mondo che comprendeva i paesi meno sviluppati e non allineati, compresa la Cina.

Contemporaneamente in occidente numerose correnti neomarxiste tentavano di mostrare come l’imperialismo fosse
sempre il fattore dominante delle RI e permettesse di spiegare il sottosviluppo dei paesi del Terzo Mondo. In questa
prospettiva il capitalismo per poter sopravvivere deve basarsi sullo sfruttamento di una periferia per esportarvi a
tassi elevati i propri capitali, per smaltire la sua produzione e assicurarsi l’approvvigionamento delle materie prime.
Questa situazione di dipendenza della periferia conduce ad un saccheggio di quest’ultimo da parte dei paesi
industrializzati.
Nell’approfondimento di questa visione, diversi studiosi hanno elaborato la teoria della dependencia che cercava di
spiegare la situazione della dipendenza dei paesi dell’America Latina nei confronti degli USA, sottolineando la
correlazione tra lo sviluppo dei paesi capitalistici e il sottosviluppo del continente latino-americano.

Secondo i Marxisti i diritti umani servono per atomizzare la società; il capitalismo individualizza.

Secondo gli economisti cinesi Cheng e Lu, il neoimperialismo indica la specifica fase contemporanea dello sviluppo
che caratterizza la globalizzazione economica. Le caratteristiche del neoimperialismo sono:
1. Nuovo monopolio della produzione e della circolazione. L’internazionalizzazione della produzione, insieme
all’intensificarsi della concentrazione di capitale dà origine a gigantesche multinazionali monopolistiche
dall’enorme ricchezza
2. Il nuovo monopolio del capitale finanziario che gioca un ruolo decisivo nella vita economica globale e genera uno
sviluppo malformato, ovvero la finanziarizzazione economica
3. Il monopolio del dollaro statunitense e della proprietà intellettuale che genera l’ineguale divisione
internazionale del lavoro e la polarizzazione dell’economia globale e della distribuzione della ricchezza.
4. Il nuovo monopolio dell’alleanza oligarchica internazionale, un’alleanza monopolistica internazionale del
capitalismo oligarchico, con un sovrano egemonico e molte altre grandi potenze.

Ci sono tre varianti del Marxismo nelle relazioni internazionali:


1. Teoria della dipendenza
2. Teoria del sistema-mondo
3. Teoria neo-gramsciana

4.3 La teoria della dipendenza


Come i realisti, anche i teorici della dipendenza considerano la scena internazionale un luogo di conflitti, ma a
differenza dei realisti, essi ritengono che la conflittualità sia determinata da ragioni economiche: è il sistema
capitalistico mondiale che trasforma le relazioni internazionali in conflitto di classi tra paesi del centro e paesi della
periferia, creando rapporti di dipendenza. Questa teoria presenta diversi elementi di originalità rispetto al marxismo
tradizionale; i dipendentisti sono più interessati al sistema di distribuzione che a quello di produzione, inoltre,
rileggono la lotta di classe alla luce della decolonizzazione.
Forme di dipendenza
-Commerciale: tra paesi poveri che esportano materie prime e paesi ricchi che esportano manufatti
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-Finanziaria: in quanto l’industrializzazione della periferia dipende dai capitali del centro (tuttavia questo rimpatria i
profitti invece di reinvestirli nei paesi sfruttati)
-Tecnologica: in quanto la mancanza di trasferimento di tecnologia non permette lo sviluppo
-Culturale e sociale: in quanto la periferia si trova a sua volta tra un “centro periferia” e una “periferia della
periferia”: esclusi tra gli esclusi, che è sfruttata e spezzata in più categorie di poteri: il proletariato della città e i
contadini sfruttati della campagna.

Diverse sono le soluzioni proposte dai teorici della dipendenza per liberarsi di questo ingranaggio: i focolai
rivoluzionari di Che Guevara, il socialismo effettivo proposto da Cardoso e Falletto (il dominio della borghesia non
deve essere sostituito dal dominio del partito comunista), e infine, lo sviluppo autocentrante che implica la
sconnessione dal sistema capitalista attraverso la rottura autarchica.

Critiche
Non sono naturalmente mancate le critiche: innanzitutto è stata sottolineata l’incapacità di spiegare molte situazioni
internazionali che mettevano in discussione i suoi postulati: ad esempio, i legami di dipendenza tra paesi socialisti
(Urss e Cuba), atteggiamenti egemonici di paesi non capitalistici (Cina). Infine, la democratizzazione di alcuni
paesi indipendenti (in America Latina) contraddiceva uno degli assunti: la correlazione tra dipendenza economica
dall’esterno e autoritarismo politico. In generale, la teoria della dipendenza è stata criticata per la sua fragilità
scientifica e per il suo dogmatismo.

4.4 La teoria del sistema-mondo


La teoria del sistema mondo è stata sviluppata da Immanuel Wallerstein negli anni ’70, in parte come superamento
dell’approccio dipendentista. Wallerstein considera il sottosviluppo dei paesi del terzo mondo come effetto della loro
squilibrata integrazione nel sistema capitalistico, e vede nel rapporto di scambio imposto dal centro le origini
dell’auto-riproduzione della dipendenza. Notevoli sono quindi le differenze con i dipendentisti: innanzitutto la sua
analisi non prende in considerazione solo le situazioni post-coloniali, ha un approccio global-sistemico (invece che
un’analisi legata allo stato-nazione), e infine rompe con la visione binaria centro-periferia, introducendo la
semiperiferia.
Per Wallestein storicamente ci sono stati due tipi di sistema-mondo:
-imperi mondiali: un sistema politico centralizzato che redistribuisce le risorse dalla periferia al centro
-economie mondiali: la redistribuzione avviene attraverso il meccanismo di un mercato.
Wallerstein distingue inoltre tra economia mondiale, world economy (termine meramente descrittivo per indicare
un’economia di estensione planetaria) ed economia mondo, world-economy: quest’ultima espressione indica un
sistema economico chiuso (quindi non un’espressione descrittiva ma un’ipotesi interpretativa della realtà). Secondo
Wallerstein, il moderno sistema mondo è un esempio di economia mondo, avente come sua caratteristica il
capitalismo, esso si è gradualmente diffuso in tutto il mondo. Il moderno sistema mondo dal punto di vista spaziale si
contraddistingue per la divisione in tre zone: centro, semiperiferia e periferia. Ciascuna di queste aree svolge un
ruolo economico differente, ma tutte e tre sono legate in una relazione di sfruttamento in cui quelle più ricche
beneficiano a spese di quelle più povere. Il massimo limite dello sviluppo capitalistico risiede nella struttura di classe
di una società e nei vincoli che essa pone alla capacità delle imprese di realizzare il surplus. Per superare questi
ostacoli il capitalismo è costretto a trasformarsi continuamente, e da queste trasformazioni derivano l’ascesa e il
declino degli stati.
Le zone si differenziano sulla base di quattro elementi principali:
1. Controllo della forza-lavoro: lavoro coatto in periferia, mezzadria nella semiperiferia, lavoro salariato e
indipendente al centro.
2. Tipo di esportazioni: manufatti al centro, materie prime dalla periferia
3. Forze politiche ed economie al potere: borghesia al centro, aristocrazia agraria nella periferia
4. Natura dello stato: forte al centro e debole in periferia

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La semiperiferia che unisce caratteristiche del centro e caratteristiche della periferia, ha un ruolo di stabilità sia
politica che economica, agendo da cinghia di trasmissione all’interno del sistema-mondo.
Centro Semiperiferia Periferia

Controllo della forza- Lavoro salariato ed Mezzadria Lavoro coatto


lavoro indipendente
Tipo di esportazioni Manufatti - Materie prime
Forze politiche ed Borghesia - Aristocrazia agraria
economiche al potere
Natura dello stato Forte - Debole

Le caratteristiche temporali invece sono espresse in cicli, tendenze secolari, contraddizioni e crisi; quest’ultime si
verificano quando cicli, tendenze e contraddizioni si combinano in modo tale che il sistema non sia più in grado di
riprodursi, segnandone la fine.

Alla sorprendente stabilità del sistema mondo hanno contribuito:


-l’emergere del moderno sistema intestatale in cui gli stati collocati nelle diverse aree giocano ruoli diversi
-una specifica geocultura fondata sul liberalismo e sul moderno sistema di conoscenza, denominato “scientismo”.

Di solito nel centro esiste una grande potenza che esercita l’egemonia grazie alla propria superiorità produttiva a
negli altri campi. I principali avvicendamenti nei vertici mondiali che in genere sono segnati da violenti scontri, e che
danno origine a cicli egemonici sono: la Guerra dei trent’anni, le Guerre Napoleoniche e le due Guerre mondiali.

Meccanismi di mobilità verso il centro


-Seizing the chance: in una fase recessiva, i legami tra i poli si allentano per cui uno degli stati periferici, sfruttando
questa occasione, può, una volta superata la crisi, essere reintegrato nell’economia-mondo con una posizione più
vicina al centro
-Promotion by invitation: in una fase espansiva uno stato del centro trascina alcuni stati periferici verso il centro
(Giappone dopo la seconda guerra mondiale)
-Self reliance: sviluppo autocentrato, si raggiunge attraverso la combinazione favorevole di fattori come un efficace
sviluppo delle risorse umane, la creazione di un solido apparato industriale e un’apertura verso l’esterno.

4.5 Teoria neogramsciana


Il neo-gramscianesimo è oggi una delle correnti del pensiero marxista più influenti a livello internazionale. Per
Gramsci, i lavoratori (tutti) devono sviluppare progetti contro-egemonici contro le classi capitaliste nemiche. La
classe proletaria può condurre un movimento contro-egemonico per il consolidamento di un nuovo blocco storico, a
patto che ci sia un’avanguardia che accetti le sue responsabilità sociali di condurre un’immatura classe proletaria e la
possibilità di creare un’alleanza con classi subordinate. Gli intellettuali concorrono alla creazione di una nuova
ideologia egemonica che nelle intenzioni dovrebbe risultare universale, non quindi apparire come riflessione di una
particolare classe, sebbene la leadership rimanga salda nelle mani della classe egemone. Il principe moderno per
Gramsci è il partito rivoluzionario che può produrre la creazione politica e cambiare le circostanze politiche. Nelle
condizioni della moderna società capitalistica occidentale, una guerra di movimento è destinata perlopiù a fallire. Si
deve allora pensare ad una guerra di posizione in cui il primo campo di battaglia è la società civile: è lì che le forze
del cambiamento, guidate da una leadership della classe proletaria, si devono impegnare per destabilizzare
l’egemonia borghese. Il problema è come mettere in pratica tale progetto di lungo termine con la tentazione di
vantaggi incrementali immediati dati dalla socialdemocrazia (orientamento socialista che sostiene la compatibilità
della propria ideologia con il sistema delle democrazie occidentali) che però, rimangono all’interno del sistema
borghese capitalistico.

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Sebbene Gramsci intenda la lotta contro-egemonica prevalentemente come lotta su base nazionale, i moderni neo-
gramsciani sono inclini a considerare la società civile globale e i movimenti sociali transnazionali come soggetti
chiave nello sviluppo di un modello contro-egemonico che sfidi quello della globalizzazione neo-liberista.
L’egemonia sul piano internazionale non è solo di livello inter-statale, ma è soprattutto un modello economico
globale che pervade i modi di produzione e le strutture sociali degli altri stati subordinati.
Le organizzazioni internazionali esprimono l’egemonia in quanto:
1. Personificano le regole che facilitano l’espansione dell’ordine mondiale egemonico
2. Sono esse stesse il prodotto di tale ordine
3. Legittimano ideologicamente le norme di tale ordine
4. Cooptano le èlite dei paesi periferici
5. Assorbono le idee contro-egemoniche
Hardt e Negri intendono l’ordine mondiale attuale come un “impero”, come nuovo potere sovrano che governa il
mondo. Questo, in opposizione agli imperi passati, non ha un centro ben definito e non ha una dimensione territoriale
con confini delimitati. Il nuovo impero, nonostante abbia avuto origine nei sistemi capitalistici occidentali, è
decentrato, deterritorializzato e governa identità ibride, gerarchie flessibili e scambi plurali, è onnipresente nel
senso che il suo ambito di azione non si circoscrive a confini materiali o culturali, rappresenta un paradigma di bio-
politica.

Come si combatte in modo contro-egemonico l’impero? Costruendo nuovi blocchi storici nazionali e organizzando
lotte transnazionali con coalizioni di organizzazioni di società che oltrepassino i confini nazionali.
All’interno del contesto della globalizzazione, questa emergente società civile globale ha giocato un ruolo sempre
maggiore nella formulazione di una serie di rivendicazioni politiche:
1. Richieste per una democrazia globale, per diritti umani e per la pace nei confronti del sistema statale
2. Richieste di giustizia economica mondiale
3. Richieste di giustizia sociale globale e di sostenibilità ambientale nei confronti del sistema politico ed
economico
I network transnazionali in particolare hanno avuto un peso rilevante come attori politici in grado di affrontare
efficacemente le ingiustizie del sistema politico-economico mondiale. Tali network hanno così favorito
l’aggregazione di forze sociali dal basso, sviluppato identità comuni transculturali, formulato strategie di campagne
multilivello e condotto lotte politiche a livello locale ed internazionale.

4.6 Teoria critica e politica economica radicale


Nel campo delle RI, i principali esponenti della Teoria critica sono Robert Cox e Andrew Linklater. Cox focalizza la
sua analisi su come i dati della teoria tradizionale siano prodotti da determinate forze sociali e storiche. Da ciò
discende la messa in discussione di assunti fondamentali del metodo neorealista e neoliberalista: l’esistenza di una
realtà oggettiva esterna. Nelle RI la teoria critica ha uno scopo politico preciso: cambiare il sistema internazionale
esistente in modo da liberare l’umanità dalle strutture di potere di tipo egemonico controllate dagli Stati Uniti,
strutture che consentono lo sfruttamento dei paesi poveri del sud. Cox è particolarmente interessato alla definizione di
potere e a come le relative strutture sociali esistenti possano essere superate. Per Gramsci lo stato è caratterizzato non
solo dal potere di coercizione, ma anche da un potere che si presenta corazzato di legittimità nei confronti di coloro
che lo subiscono. Cox sottolinea la dimensione ideologica dell’egemonia americana, fondata su un sistema di
valori che gli altri paesi considerano modelli di riferimento. In prospettiva, Cox vede l’economia capitalistica
mondiale gradualmente sopraffatta dalla globalizzazione economica, un processo che nello stesso tempo è sia
interdipendenza economica intensificata (incremento quantitativo dei rapporti tra economie nazionali) sia
creazione di un’economia globale (che implica un mutamento qualitativo verso un unico sistema economico
mondiale in grado di dominare le economie nazionali). La globalizzazione ha l’effetto di produrre ulteriore
disuguaglianza sociale e di conseguenza accentuare la gerarchizzazione politica a livello mondiale. L’economia
globale sostiene Cox, da una parte consente l’ulteriore arricchimento dei paesi industrializzati a danno dei paesi del
Terzo Mondo, dall’altra è basata su un controllo economico-politico aterritoriale, ossia da parte di attori non
territoriali (come le società transnazionali), in questo modo gli stati sono sempre meno in grado di svolgere il proprio
ruolo di protettori dell’economia nazionale, limitandosi a fungere da rete tra economia mondiale ed economia interna.
18
In questo ruolo gli stati sono parzialmente sostituiti da nuove intelaiature politico-economiche dell’accumulazione
del capitale: tre macroregioni, con ai vertici rispettivamente USA (America), Giappone (Estremo Oriente) e TUE
(Europa). Questo processo, sotto la spinta delle crescenti forze autonome del mercato potrebbe segnare la fine
dell’attuale sistema di stati. Pertanto la globalizzazione economica di per sé non porta beneficio alle masse povere del
Terzo Mondo, affinché ciò avvenga è necessario che la lotta delle forze sociali in basso nella gerarchia abbia
successo nel controllo politico delle forze della globalizzazione. In conclusione R. Cox mira a rendere possibile un
ordine internazionale più equo e più democratico. La via individuata è la creazione di un nuovo multilateralismo
che poggia su una molteplicità di attori provenienti dal basso (bottom-up) e che rappresenti i più deboli; il metodo
prospettato è il superamento della frattura tra pensiero politico, scienza politica e relazioni internazionali.
Uno dei pochi tentativi dal punto di vista teorico di introdurre la visione marxista (o meglio, neo-marxista) è dovuto a
Linklater, attraverso la Teoria Critica. Egli prospetta la concezione emancipatrice della politica mondiale come
alternativa al realismo, è basata sull’idea che nella costruzione di un sistema giuridico-politico globale che vada al di
là degli stati e fornisca protezione a tutti, debba prevalere il solidarismo internazionale e la sicurezza mondiale
sull’anarchia internazionale.

5. COSTRUTTIVISMO
A partire dagli anni ’80 la teoria costruttuvista si impone come uno tra gli approcci più importanti per lo studio delle
RI. I fattori che hanno contribuito all’affermarsi di tale paradigma sono:
1. Il dibattito teorico sul potenziale di una teoria critica riflettivista, intesa come punto di rottura sulla scia della
lunga diatriba sviluppatasi nella discussione tra il neorealismo e il neoliberalismo. Il costruttivismo sociale
proposto da A. Wendt cerca di gettare un ponte tra le due sponde al fine di creare un punto d’incontro tra
razionalisti e riflettivisti (antipositivisti).
2. La fine della guerra fredda, il fatto che non ci fosse più una superpotenza opposta agli egemoni Stati Uniti, e il
conseguente fallimento delle teorie razionaliste nello spiegare tale cambiamento. Sarà proprio Francis
Fukuyama nel 1989 a proclamare la fine della storia e sottolineare l’importanza di idee (liberali) e identità
politica (democrazia) a livello globale e nei rapporti interstatali.
3. Il divario generazionale tra studiosi. La discussione teorica sviluppatasi in seguito al terzo dibattito originerà un
nuovo gruppo di esperti, intenzionati a utilizzare la teoria critica come punto di partenza per lo studio delle RI,
desiderosi di andare oltre il neorealismo e il liberalismo.

Alexander Wendt, maggior teorico del costruttivismo: “gli affari internazionali sono il prodotto di costruzioni
sociali, quindi non immutabili perchè riflettono le idee della società internazionale. A seconda delle idee sulle
relazioni internazionali, cambia il sistema”. Lo studio delle RI non può quindi prescindere dallo studio delle idee, a
differenza del materialismo.

Sebbene la maggior parte degli studiosi costruttivisti intenda andare oltre il positivismo, è possibile identificare tre
varianti che lo contraddistinguono in considerazione anche della comunanza ontologica e di metodo rispetto al
positivismo.
1. Il costruttivismo convenzionale (USA) si focalizza sull’importanza delle norme e di questioni legate
all’identità nella politica internazionale. I suoi studiosi sono sostanzialmente positivisti nell’epistemologia,
ritenendo che sia necessario un dialogo tra i vari approcci. Il punto di partenza da una prospettiva metodologica è
quello del process-tracing (metodo all’interno del caso).
2. Il costruttivismo interpretativo (Europa) si concentra sull’importanza del linguaggio nella costruzione della
realtà sociale. La strategia di ricerca si basa sul metodo induttivo, con grande attenzione alla dimensione
dell’agente-struttura.
3. Il costruttivismo radicale condivide con la variante precedente l’importanza del linguaggio, aggiungendo però la
dimensione normativa ed eventuali implicazioni proprie del ricercatore nella riproduzione delle identità e del
mondo che sta studiando.
Sia la variante del costruttivismo interpretativo sia quella del costruttivismo radicale hanno come principale fonte di
ispirazione, dal punto di vista teorico, discipline quali la filosofia del linguaggio e la fenomenologia, dunque studiosi
quali Habermas.
19
5.1. Gli assunti del Costruttivismo
1. Il mondo è socialmente costruito. Per i costruttivisti le RI sono una costruzione sociale, la loro natura, così
come il loro sviluppo sono intrisi di elementi sociali, norme, presupposti storici e culturali, piuttosto che il
risultato di un pensiero individuale. Espliciti fenomeni sociali del sistema internazionale, gli stati o le istituzioni
internazionali, presentano elementi storici e culturali specifici, in quanto prodotto dell’interazione umana in un
mondo sociale. In questo contesto, lo stesso sistema internazionale è visto come un insieme di strutture sociali
prodotte da pratiche intersoggettive. Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto dai neorealisti,
l’anarchia anche se è una proprietà intrinseca del sistema internazionale che sfugge alla volontà e all’azione degli
attori non produce necessariamente il dilemma della sicurezza e l’inevitabile lotta per la sopravvivenza e la
sicurezza degli stati, ma può produrre forme e logiche di interazioni inter-statali diverse, proprio perchè create
da pratiche intersoggettive.
2. Agente e struttura si co-determinano. I costruttivisti ritengono che, lungi dall’essere una realtà oggettiva, la
politica internazionale è un mondo di nostra creazione. Rispondendo all’eccessiva importanza data dai realisti
alla struttura, i costruttivisti sono dell’idea che agente e struttura si co-determinano. Sulla base di tale assunto, nel
sistema internazionale gli stati si costruiscono l’un l’altro attraverso il tipo di relazioni che intrattengono: se
queste sono basate sul sospetto si crea self-help, al contrario, se le relazioni sono basate su una conoscenza
condivisa che porti alla fiducia reciproca e alla cooperazione, per cui si tende a risolvere i contrasti senza cadere
nella trappola del dilemma della sicurezza, l’esito sarà opposto: una comunità di sicurezza. È evidente dunque la
distanza da Waltz: il comportamento degli stati non è determinato dalla struttura materiale, cioè dall’anarchia,
concepita come qualcosa di esterno che impone agli attori la sua logica: per i costruttivisti il self-help è
un’istituzione sociale e non una caratteristica intrinseca all’anarchia.
3. Le idee plasmano l’identità e gli interessi degli attori nel sistema internazionale. Primato delle idee: Le
strutture sociali sono determinate principalmente da idee condivise piuttosto che da forze materiali. I costruttivisti
hanno dimostrato l’importanza delle idee, delle norme e del linguaggio nelle mutua costruzione dei rapporti tra
attori a livello internazionale. Il dilemma della sicurezza secondo A. Wendt, è una struttura sociale, e in quanto
tale costituita da comprensioni intersoggettive in cui gli stati sono talmente sospettosi l’uno dell’altro, da cadere
spesso in situazioni di self-help. In altre parole, il dilemma non deriva meramente da una struttura di tipo
materiale, ad esempio dal fatto che due stati dispongono di armi nucleari, ma soprattutto dai loro rapporti. È
evidente come due bombe atomiche della Nord Corea preoccupino molto di più il Giappone rispetto a mille
ordigni nucleari degli USA, proprio perchè è diversa la comprensione che il Giappone ha degli altri due attori.
4. Il cambiamento assume un’importanza fondamentale nell’agenda costruttivista. Tale cambiamento è reso
possibile attraverso la relazione reciprocamente costruita tra struttura ed agente, così come dal credere che la
rigidità della struttura possa essere mitigata attraverso le pratiche dell’agente. In tal senso, quello che viene
definito come un “costruttivismo dell’agente”, mette in discussione le ipotesi più statiche, e dunque care ai
neorealisti, in merito al ruolo della struttura per la formazione di interessi ed entità statali, aprendo così nuove
opportunità di cambiamento per attori e stati apparentemente anche meno potenti nel contesto internazionale. Il
costruttivismo dell’agente riconosce dunque, che gli attori, in quanto esseri razionali, sono in grado di modellare
gli ambienti politici, istituzionali e sociali nei quali operano. Al centro della dinamica risiede la percezione della
possibilità di cambiamento. Si tratta di diffondere nella società internazionale una nuova comprensione di una
norma centrale: sovranità (dopo il 1648 - Vestfalia), autodeterminazione (dopo il 1919 - Versailles), diritti umani
(1948, Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo), responsability to protect (dopo il 2005, conferenza delle
Nazioni Unite)(la comunità internazionale può farsi carico della protezione di una popolazione se lo stato non lo
fa).

Le idee devono essere largamente condivise per contare, anche se possono diffondersi in gruppi differenti. Nina
Tannewald identifica quattro tipi di idee:
1. Ideologie: insieme sistemico di convinzioni che riflettono le esigenze e le aspirazioni sociali
2. Convinzioni normative: idee su cosa è giusto e cosa è sbagliato
3. Convinzioni causa-effetto: concezioni sulle relazioni mezzi-fini

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4. Prescrizioni di indirizzo politico

5.2. Interessi
Nelle teorie più ortodosse delle RI è diffusa l’idea che potere e interessi siano entrambi materiali, con un’attenzione
minoritaria al ruolo delle idee nel determinarli. Interessi e idee vengono trattati come due variabili distinte, suggerendo
che gli interessi non dipendano dalle idee. In realtà, secondo i costruttivisti, gli interessi non sono altro che il prodotto
delle pratiche sociali mutualmente costruite tra agente e struttura. In tal senso l’interesse nazionale di un paese è
il prodotto della sua identità. In un’ottica costruttivista quindi, potere e interessi conservano importanza, ma sono
costituiti più dalle idee che da forze materiali. Ne consegue che per comprendere la dimensione della politica
internazionale, è necessario riflettere sulla sua dimensione ideazionale. Se l’interdipendenza economica viene intesa
come causa di pace, è perchè gli stati hanno sviluppato un’identità sensibile al libero commercio. A detta di Wendt,
forme culturali come l’interdipendenza, ma anche il capitalismo e inimicizia tra stati, presuppongono una spiegazione
per mezzo delle idee intese non in termini causali, ma piuttosto come elementi costitutivi della base materiale della
realtà sociale. La maggior parte dei costruttivisti rifiuta l’approccio razionalista fondato quasi esclusivamente sulle
forze militari. Gli stati sono gli attori principali del sistema internazionale e le loro identità e interessi non sono dati
oggettivi: il self-help non deriva in modo logico o causale dalla struttura anarchica, essendo semplicemente uno dei
modi di combinare le identità e gli interessi degli stati. Le specifiche formazioni di interessi ed identità tendono ad
autoperpetuarsi ,ma ciò non significa che non possano cambiare. Ne consegue che le RI dovrebbero guardare alla
relazione tra cosa gli attori fanno e cosa essi sono: guardare a come gli stati definiscono le strutture sociali, e come la
conoscenza intersoggettiva costruisce il sistema internazionale (come le idee che gli stati hanno degli altri definiscano
il sistema internazionale).

5.3. Identità
Il concetto di identità per i costruttivisti è centrale per lo studio delle RI. L’identità dell’attore Stato ad essere
considerato tale come ente politico-giuridico-amministrativo, non è data, bensì sviluppata attraverso elementi
soggettivi, stabiliti nel mezzo del funzionamento delle relazioni di potere. Gli stati dunque si definiscono tali e
diventano centri di potere man mano che le identità vengono definite nelle reti di relazioni. Uno stato non è
ontologicamente precedente a un insieme di relazioni intestatali. Uno stato è definito e riconosciuto tale all’interno di
una serie di relazioni che stabiliscono regole per ciò che è e ciò che non è uno stato. Alla luce di ciò, per alcuni
studiosi costruttivisti se l’identità di uno stato è costruita grazie all’interazione con altri stati, è anche per il ruolo
assunto dalla società nella pratica di formazione dello stato. Ted Hopft distingue tra un costruttivismo della società e
un costruttivismo sistemico. Mentre l’ultimo si è concentrato essenzialmente sul ruolo dello stato inteso come l’attore
dominante del terzo livello (quello internazionale), il costruttivismo della società include altri attori che fanno
riferimento principalmente al livello domestico. Inoltre non dobbiamo sottovalutare come idee, ideologie, teorie, storie
ed ideali siano in grado a loro volta di plasmare l’identità statale. Il costruttivismo della società supera l’idea
strumentale dell’identità sociale come strumento politico in mano alle élite. In questo senso, la variante del
costruttivismo della società riempie il vuoto tra il costruttivismo sistemico di Wendt e quello normocentrico. È più
preciso e determinante del costruttivismo sistemico, in grado di fornire una comprensione della politica estera non
banale, ma risulta anche più generalizzabile e normalizzante del costruttismo normocentrico. Stabilendo quale sia
l’identità di uno stato all’interno di un particolare contesto, implica il tipo di relazioni di identità che possiamo
aspettarci che quello stato abbia.

5.4. Politica del cambiamento


A partire dagli anni ’90, avviene quella definita come una vera e propria svolta delle idee, riportando al centro del
dibattito l’importanza delle norme. Il costruttivismo riconosce l’importanza dei fattori materiali, ma questi sono
legati a doppio filo alle norme nel contesto internazionale. In tal senso, le forze materiali non si esauriscono con le
risorse militari, includendo quindi, anche considerazioni economiche in congiunzione con la politica identitaria e le
dinamiche sociali esistenti tra diversi attori a livello internazionale. Il commercio dei diamanti può essere
considerato come un esempio calzante; il Kimberkly Process, un accordo di certificazione istituito nel 2002 con
l’obiettivo di garantire che i ricavi del commercio dei diamanti insanguinati tra stati non fossero utilizzati per
finanziare guerre civili. È indubbio l’interesse degli stati a prendere parte a tale accordo: fattori materiali, sotto forma
21
di considerazioni economiche relative al commercio dei diamanti per le economie nazionali, sono stati una
considerazione importante nell’istituzione della norma. Si può affermare in maniera più generale che al centro della
politica del cambiamento risiede la percezione che il cambiamento della politica globale sia possibile.

Filone dell’anarchia
Wendt: “l'anarchia è ciò che gli stati fanno di essa”

È l’interazione tra stati che crea e sostanzia una struttura di certe identità e certi interessi: al di fuori di questo
processo la struttura non ha esistenza né poteri causali.

Tre tipi di percezioni dell’anarchia:


1. Cultura hobbesiana: inimicizia: sopravvivenza e violenza. Quasi nessuna cooperazione
2. Cultura lockiana: rivalità: violenza ma non minaccia esistenziale. Un certo grado di riconoscimento reciproco
3. Cultura kantiana: società: rapporto giuridico. Elevata cooperazione

Non è detto che le tre differenti culture dell’anarchia siano interiorizzate nella medesima misura.

Il concetto di deterrenza nucleare si basa sul fatto che si è stabilita una norma condivisa di taboo rispetto all’utilizzo
del nucleare, più che un principio di deterrenza e interesse nazionale, a causa della visione degli effetti della bomba

nucleare. Sul taboo nucleare c’è un grado di internalizzazione abbastanza forte.


Appunti costruttivismo
I fondamenti filosofici sono
Vico: il mondo storico è opera dell’uomo
Weber: gli uomini comprendono l’azione di un altro perchè vi assumono un determinato significato.

L’esigenza di una teoria costruttivista nasce verso la fine della Guerra Fredda, non nasce un blocco anti egemonico
rispetto agli USA, il motivo viene spiegato dai costruttivisti: ci sono degli elementi che i neorealisti non prendono in
considerazione, come le idee.

Assunti del costruttivismo


1. Il mondo è socialmente costituito: le interazioni sociali sono una costruzione sociale. È il modo in cui gli stati
pensano le loro interazioni. L’anarchia non è un qualcosa di dato, ma dipende dalle percezioni degli stati l’un
l’altro.
2. Agente e struttura si co-determinano: gli stati si costruiscono l’un l’altro attraverso il tipo di relazioni che
intrattengono (se sono basate sul sospetto avremo il self-help, se sulla fiducia avremo cooperazione). Le idee
plasmano l’identità e gli interessi degli attori del sistema internazionale. Primato delle idee: le strutture sociali
sono determinate principalmente da idee condivise piuttosto che da forze materiali. È l’idea che forgia l’interesse
nazionale. Per Fukuyama la diffusione delle idee liberali avrebbero posto fine ai conflitti.
4. Al centro della dinamica risiede la percezione della possibilità di cambiamento. Si tratta di diffondere nella società
internazionale una nuova comprensione di una norma centrale: sovranità, autodeterminazione, diritti umani,
responsability to protect (la comunità internazionale può farsi carico della protezione di una popolazione se lo stato
non lo fa).

I costruttivisti pongono l’accento sulla costruzione sociale della realtà, la realtà nasce dall’interazione:
Il mondo sociale è un elemento non dato
Il mondo sociale è un mondo di conoscenza umana (pensieri, credenze, idee, concetti)
Il mondo sociale è un dominio intersoggettivo

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Per i costruttivisti si pone meno l’accento sulle risorse materiali, per Wendt il sistema internazionale è costruito da un
insieme di strutture sociali che derivano da:
Conoscenza condivisa
Risorse materiali
Pratiche intersoggettive routinizzate

Norme della società internazionale


Martha Finnemore: comportamento dello stato determinato da identità e interessi. Gli interessi sono determinati da
forze internazionali, precisamente da norme di comportamento incorporate nella società internazionale. Le norme
internazionali promosse dalle organizzazioni internazionali possono influenzare in maniera decisiva le scelte degli
stati. (World Bank, ICRC)
La Cina, nonostante una tradizione di realpolitik, dopo l’apertura del mercato decide di aprirsi anch’essa.

Il ciclo del cambio norme: norm emergence-norm cascade-internalizzazione (una volta percepita come giusta).

Tendenzialmente gli studiosi costruttivisti, dato che si basano sulle idee e sulle percezioni, guardano i discorsi che
fanno ad esempio i capi di stato.

PARTE SECONDA
7. Analisi della politica estera e diplomazia - FPA (Foreign Policy Analysis)

7.1 Analisi della politica estera e RI


La politica estera è l’insieme dei comportamenti che gli attori, principalmente governativi, adottano nelle interazioni
con altri agenti al di fuori dei propri confini. Più in concreto, la politica estera è lo strumento con il quale uno stato
cerca di plasmare il proprio ambiente politico internazionale allo scopo di raggiungere gli obiettivi nazionali, di cui
essa è espressione ufficiale. Oggi numerosi interlocutori sono attori non statuali che sviluppano essi stessi vere e
proprie politiche estere private. Tra gli elementi di analisi di primo livello per la FPA troviamo: i processi cognitivi
come l’apprendimento, gli errori euristici e le emozioni; l’orientamento e la personalità dei leader, le motivazioni e le
psicobiografie, le dinamiche dei gruppi quali il pensiero di gruppo o le coalizioni; i processi organizzativi come
l’apprendimento incrementale, le procedure operative standard o le questioni di implementazione; la politica
burocratica; la cultura di politica estera che ha a che fare con l’identità nazionale e la storia; la contestazione politica
nazionale che dipende dal tipo di regime politico, i gruppi di interesse e i partiti, così come i media; le caratteristiche
nazionali come le risorse naturali, la geografia e i fattori economici; gli effetti sistemici come l’anarchia
internazionale, la distribuzione del potere e l’equilibrio di potenza regionale.

Esiste un innegabile collegamento tra politica estera e politica interna, accentuato dai liberali si manifesta sopratutto
sotto forma di reciproca influenza (la mancata rielezione di Carter viene attribuita agli smacchi subiti dalla diplomazia
americana nell’affare degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran). Spesso la politica estera viene strumentalizzata per
motivi interni: il bonapartismo indica una politica estera espansionistica perseguita allo scopo di di rafforzare
all’interno il gruppo dominante con il prestigio ottenuto dai successi in campo internazionale. A questo proposito non
pochi governi durante la guerra fredda utilizzarono il non-allineamento come strumento di legittimazione del proprio
potere (Nasser in Egitto, Selassiè in Etiopia e Tito in Jugoslavia). Tuttavia anche la politica interna è influenzata da
quella estera, si pensi ai condizionamenti che riescono a imporre i gruppi di pressione, partiti politici ecc…, un
esempio è il peso che la lobby ebraica ha sulla politica mediorientale degli USA.

7.2 Le teorie della FPA


L’analisi della politica estera costituisce una delle tre principali dimensioni di policy delle RI:
1. Dimensione della politica estera e diplomazia (FPA) (Diplomatico)
2. Dimensione economica (International political economy - IPE) (Mercante)
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3. Dimensione della sicurezza (International Security Studies - ISS) (Soldato)

FPA (Processo IPE (Commercio) ISS (Strategia e


decisionale) peacebuilding)

Realismo Razionale Mercantilismo Gestione


Liberalismo Organizzativo Liberalismo Risoluzione
Burocratico
Pluralista
Costruttivismo Ideazionale Ideazionale Ripensamento

In un contesto internazionale caratterizzato dalla mancanza di un’autorità mondiale, agli stati non resta altro che
seguire il principio dell’autotutela centrato sulla preservazione e l’accrescimento del potere come strumento per
perseguire gli interessi nazionali. Lo stato è visto come un attore unitario e razionale il che spinghi all’esame di fattori
esogeni al contesto nazionale. La ricerca della sicurezza e del benessere materiale pone gli stati in competizione tra
loro. Il potere, inteso in primis in senso militare, rimane centrale come strumento per il perseguimento degli obiettivi
di politica estera, mentre la posizione geografica, le risorse materiali e la demografia costituiscono importanti risorse
tangibili alle quali lo stato può attingere. Per capire la politica estera di un paese bisogna guardare al potere, agli
interessi di gruppo e alle dinamiche che operano tra questi.

L’approccio liberale sostiene che per capire la politica estera è necessario esaminare fattori endogeni allo stato e
quindi il quadro istituzionale, ai processi decisionali, ai regimi politici, ai gruppi di pressione, all’opinione pubblica e
alle attitudini individuali con i suoi fattori psicologici e cognitivi come fonti esplicative delle scelte di politica estera.
Fattori che minimizzano le tensioni e l’occorrenza dei conflitti sono identificati dai liberali nella relazione reciproca
tra i regimi democratici (pace democratica), nella crescita dell’interdipendenza economica e nel rafforzamento delle
istituzioni e del diritto internazionale. E tuttavia, il processo di promozione della democrazia che è oggi al suo picco,
può essere allo stesso tempo un fattore di instabilità e pericolo secondo la teoria dell’imprudenza liberale che spiega
l’atteggiamento aggressivo dei paesi liberali nei confronti degli attori non liberali sia in termini di guerra sia in termini
di sovversione e destabilizzazione interna.

L’approccio costruttivista invece si focalizza sul ruolo che le idee hanno come elemento che determina l’identità , gli
interessi e quindi le azioni di politica estera dei vari paesi. L’attenzione è posta sulle dinamiche burocratiche e sui
processi decisionali nazionali e internazionali attraverso un focus sulla diffusione delle idee che sono capaci di
proporre nuove prospettive che danno poi eventualmente luogo al cambiamento. Il focus costruttivista sulla politica
estera analizza l’origine degli interessi nazionali e la loro dinamica evolutiva derivante dall’interazione sociale.

7.3 Le determinanti della politica estera


I fattori che influenzano la politica estera sono: Determinanti esterne ed interne.
Quelle esterne sono costituite da fattori che riguardano l’ambiente esterno allo stato: mutamenti nella struttura
internazionale, e quindi nella gerarchia tra gli stati, le azioni degli altri attori; caratteristiche della politica mondiale di
quel determinato periodo; l’accentuarsi dell’interdipendenza economica e gli effetti della globalizzazione in termini di
ridotta capacità dei governi nazionali di controllare le dinamiche socioeconomiche , specialmente quelle finanziarie.

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Tra le determinanti interne troviamo quelle geopolitiche, ossia la posizione geografica di uno stato, la dimensione e la
configurazione del territorio, il clima, la demografia, la disponibilità di risorse naturali ecc… Altri importanti fattori
interni della politica estera sono il potere militare, lo sviluppo economico, il sistema politico, lo sviluppo tecnologico e
la dotazione nazionale di potere di attrazione in termini di soft power. La globalizzazione ha aperto spazi sempre
maggiori al potere immateriale e agli attori non statali (ONG).
Secondo Carlsnaes per ricostruire a ritroso il processo che genera le scelte di politica estera è necessario:
1. Analizzare la dimensione intenzionale (quali obiettivi i decisori si sono prefissati)
2. Ricostruire la dimensione disposizione (postura psicologica che tali decisioni hanno generato)
3. Identificare la dimensione strutturale che ha a che vedere con i fattori macroeconomici, sociali, culturali, a
livello nazionale ed internazionale, che predeterminano le scelte di politica estera.
I molteplici fattori che modellano la politica estera degli stati possono essere collocati su tre livelli fondamentali:
1. Internazionale/esterno: Influenze esterne, quelle derivanti dal sistema internazionale.
2. Statale/interno: influenze che uno stato subisce dalle determinanti interne (il tipo di sistema politico, opinione
pubblica, gruppi di interesse, complesso militare-industriale.
3. Individuale: caratteristiche degli individui che sono al vertice del processo decisionale (credenze, valori e
personalità degli uomini di stato).
I fattori di tutti e tre i livelli condizionano le scelte di politica estera ma la loro influenza relativa muta a seconda delle
singole questioni. La rilevanza dei singoli livelli è diversa a seconda delle prospettive teoriche da cui partono gli
studiosi: i realisti si focalizzano principalmente su fattori esterni, mentre i liberali perlopiù sulle determinanti interne
ed individuali, pertanto non esiste un modello esplicativo generale della politica estera che fissi una gerarchia tra le
determinanti.

7.4 I modelli decisionali della politica estera


Modello razionale: seguito dai realisti, è un processo lineare che ha come assunto di partenza il paradigma dell’attore
razionale, secondo il quale lo stato è attore razionale unitario.
Il modello è articolato in cinque fasi:
1. Identificare il problema, una crisi cui bisogna far fronte
2. Chiarire gli obiettivi che si intendono perseguire e gerarchizzarli in ordine di importanza
3. Elencare le alternative politiche effettivamente percorribili per il raggiungimento degli obiettivi prefissati
4. Analizzare costi e benefici delle singole alternative
5. Scegliere l’azione che al minimo costo assicuri il miglior risultato.
Questo paradigma è stato criticato su diversi punti: la razionalità degli uomini è limitata da una serie di fattori come
l’incompletezza delle informazioni, la difficoltà di previsione, la variabilità del comportamento umano. Il secondo
luogo il policy making non è un processo statico ma graduale, caotico, disordinato che ha poco del calcolo razionale.
Inoltre il processo decisionale politico è sempre un processo collettivo che coinvolge un grande numero di attori.
Nonostante le critiche, il modello razionale è considerato una scelta appropriata anche da molti non realisti laddove i
decisori devono far fronte ad una minaccia improvvisa.

Liberali
1. Modello organizzativo: Una delle tre alternative elaborate dai liberali al modello razionale è il modello
organizzativo, in cui i decision makers puntano per la maggior parte su procedure operative standard. Secondo
questo modello, le decisioni consistono perlopiù in risposte standardizzate ricalcate su precedenti, in base al
presupposto che in politica i grandi cambiamenti sono rari, improbabili, anche a causa dell’inerzia amministrativa.
D’altronde la maggior parte delle decisioni in politica estera, che sono prese a livelli medio bassi dell’apparato
amministrativo, deriva dalla gestione del meno peggio (muddling through), trasformando il processo decisionale
in un processo di problem solving reattivo, mortificando la facoltà decisionale dei decision makers.
2. Modello burocratico: la decisione è frutto di un processo di bargaining tra membri o strutture della burocrazia
che rappresentano interessi divergenti. Secondo questo modello le decisioni derivano da una sorta di tiro alla fune
in cui vince chi è relativamente più forte. Il modello burocratico appare particolarmente adatto alle grandi

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democrazie (e all’UE) proprio perchè queste dispongono di complesse strutture burocratiche tra loro altamente
differenziate.
3. Modello pluralista: la base del processo è costituita non da strutture burocratiche ma da gruppi di interesse,
multinazionali, opinione pubblica, movimenti di massa, che per favorire una determinata scelta possono
mobilitare i mass media, le lobbies, le strutture burocratiche ecc… Le decisioni prese secondo questo modello
riflettono i diversi interessi e le strategie contrastanti che provengono direttamente dalla società, il che risponde
appieno al pensiero liberale.
Per i liberali, il processo decisionale non avviene in un vuoto istituzionale, ma all’interno di un contesto organizzativo
che condiziona l’azione degli individui ed è il risultato di un complesso processo che coinvolge individui, piccoli
gruppi e ampie organizzazioni burocratiche.

Nella determinazione del comportamento degli stati, la maggior parte dei marxisti/radicali attribuisce più importanza
alla struttura rispetto all’agente, pertanto questi studiosi in genere sostengono che i decision makers dello stato non
operino delle scelte reali, in quanto gli interessi degli stati capitalisti sarebbero determinati dalla struttura del sistema
internazionale e le decisioni dettate dagli imperativi economici della classe dominante. In un certo senso anche questo
modello è pluralista, in quanto le decisioni prese riflettono gli interessi delle classi sociali dominanti: il problema è
che, non avendo queste classi dominanti una reale opposizione credibile, non ci sono contenziosi.
Infine, il costruttivismo interpreta il processo decisionale della politica estera come una dinamica centrata sullo
sviluppo di idee diffuse alla quale partecipano una pluralità di attori. Attraverso un processo di policy complesso e
plurale, alcune idee divengono dominanti tanto da orientare poi le decisioni del governo.
I liberali attribuiscono molta importanza al ruolo dell’individuo e delle élite nella formulazione della politica estera, a
differenza di neorealisti e marxisti la cui preferenza va alla struttura del sistema internazionale, infine, anche il
pensiero costruttivista considera molto importanti le élite individuali.

L’impatto dell’individuo dipende, oltre che dalle caratteristiche personali del leader, da condizioni esterne. Per
quanto riguarda quest’ultime, l’impatto del leader è maggiore:
• Se le istituzioni politiche sono di recente formazione (George Washington, Lenin e Gandhi) o instabili o in crisi
(Hitler, Gorbachëv)
• Se scarsi e deboli sono i vincoli istituzionali (nei regimi dittatoriali)
• Se il problema da affrontare è secondario o inusuale, ovvero riguarda una situazione di crisi.

7.4 L’analisi della politica estera - attori


Stato vs individuo
Secondo Valerie Hudson l’analisi della politica estera deve utilizzare un approccio orientato principalmente al ruolo
dell’agente. Gli stati sarebbero attori secondati in quanto agenti sprovvisti della cosiddetta agency (soggettività
politica). Solo gli individui, in quanto esseri umani, possono essere considerati agenti, in virtù della loro identità in
grado di influenzare e plasmare il contesto politico internazionale. Il punto che la Hudson intendeva rilevare riguarda
in realtà la necessità di riflettere su come l’analisi della politica estera, in quanto branca secondaria della disciplina,
tenda a privilegiare l’approccio statocentrico e realista e dunque il ruolo dello stato-nazione, quando in realtà sono gli
individui e le loro scelte a giocare un ruolo di prim’ordine nelle relazioni esterne. Si prenda come esempio, l’epiteto
utilizzato da Mario Draghi per definire Erdogan (dittatore).
La stessa definizione di stato, in quanto istituzione sociale, presuppone due diverse dimensioni:
• una dimensione interna, comprendente tutte le istituzioni interne al territorio
• e una dimensione esterna, composta da tutti gli stati facenti parte del sistema internazionale.

Attori non-statali e politica estera: think tanks


Molti studiosi concordano sul fatto che il ruolo degli attori non statali nel generare idee e influenzare il processo
politico appare oggi evidente. Un esempio di attore non statale , considèratòaltamente influente nel processo
decisionale di politica estera è quello dei think tank, di cui si fa riferimento alla prima classificazione proposta da
Kent Weaver. Sebbene non esista una definizione di ciò che un think tank fa, è possibile distinguere tre tipi di istituti:
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1. Università senza studenti
2. Organizzazioni di ricerca
3. Istituti di advocacy
Nell’ultimo Global Go To Think Tank, rapporto annuale dell’Università della Pennsylvania che si occupa di
monitorare lo status degli istituti di ricerca in politica estera, riconosce la necessità di ampliare le categorie dei think
tank al di là del divario tra indipendenza e non dipendenza dal governo. Il rapporto elenca sette gruppi:
1. Organizzazioni autonome e indipendenti
2. Istituti quasi indipendenti
3. Organizzazioni ufficialmente affiliate al governo
4. Organizzazioni semi-governative
5. Istituzioni affiliate all’università
6. Organizzazioni affiliate a partiti politici
7. Organizzazioni di ricerca in ambito privato e aziendale
Nelle RI, i think tank sono riconosciuti come attori essenziali nel processo politico, fornendo idee ai responsabili
politici e al governo. Ciò che distingue gli istituti di ricerca che si occupano di politica estera rispetto ad altri contesti è
il loro ruolo “ufficiale” nella partecipazione al processo decisionale. Pur trattandosi di organizzazioni sovente affiliate
ai ministeri degli affari esteri, anche i think tank non occidentali possono giocare un ruolo di primaria importanza,
come nel caso del China Institute of Contemporary International Relations.

7.5 Diplomazia tradizionale


Il termine diplomazia deriva dal sostantivo greco “diploma” (foglio piegato o arrotolato, che riproduceva un atto
ufficiale?). Importanti sviluppi della diplomazia si ebbero nella Grecia classica, soprattutto con l’affermarsi del
sistema delle città-stato, e nella Cina pre imperiale in cui veniva affiancata da una sofisticata strategia (Sun-tzu). Più
abituati a vincere che a negoziare, i romani trascurarono l’arte della diplomazia che tornò in auge solo nella tarda fase
dell’impero. La diplomazia iniziò a trasformarsi in una funzione permanente a partire dal XV secolo nell’Italia
settentrionale con lo sviluppo delle città stato. Con primi studi specifici sulla diplomazia, a partire dal XV secolo, alla
diplomazia arcaica subentrava un nuovo tipo di diplomazia, la diplomazia tradizionale.
La pace di Vestfalia non solo portò alla nascita del moderno sistema internazionale, ma sancì anche la necessità di una
diplomazia permanente. A Vestfalia si stabilirono alcuni usi diplomatici relativi alle precedenze, ai gradi, ai saluti e
alle immunità. Le definitiva consacrazione del servizio diplomatico come professione autonoma si ebbe in un annesso
al trattato di Vienna in cui i diplomatici vennero classificati in:
1. Ambasciatore
2. Legato
3. Nunzio
4. Inviato straordinario e ministro plenipotenziario
5. Ministro residente
6. Incaricato d’affari
L’attuale sistema diplomatico ebbe origine quindi, nel XV secolo in Italia, con l’affermarsi della diplomazia
tradizionale che differisce da quella arcaica per:
1. Struttura: innovazioni decisive furono l’istituzionalizzazione e la professionalizzazione, con la creazione di
missioni a carattere permanente
2. Processo: bilateralismo delle relazioni, la segretezza dei negoziati e la regolamentazione del processo con la
formazione di speciali regole e procedure (compresi privilegi e immunità)
3. Agenda: rifletteva ancora le preoccupazioni e le ambizioni del sovrano.
La diplomazia tradizionale raggiunse il massimo dello sviluppo e dell’efficienza nel promuovere la stabilità e l’ordine
nel XIX secolo, attraverso il concerto europeo voluto dalle sei grandi potenze del tempo interessate a far funzionare il
sistema internazionale. Con qualche esagerazione si può dire che la diplomazia tradizionale ha contribuito a creare
quello che è stato definito il secolo della pace in Europa (1815-1914).

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Il grande mutamento in senso liberale della diplomazia tradizionale in questa fase è, secondo alcuni studiosi, dovuto
alla concatenazione di una serie di fattori: obbligo per le grandi potenze di rispettare di rispettare norme e protocolli, e
sopratutto di tener conto del crescente peso dell’opinione pubblica in conseguenza del consolidarsi del potere della
borghesia come classe dominante.
Ci sono pochi dubbi che la diplomazia sia, almeno in parte responsabile dello scoppio della Prima Guerra Mondiale,
donde la necessità nell’immediato dopoguerra di una nuova diplomazia, non più segreta ma sottoposta al controllo
pubblico. Altro elemento da tener presente è la nascita della Società delle Nazioni, che aveva il compito di agire sia
come un forum internazionale per dirimere pacificamente le controversie tra gli stati sia come deterrente contro
un’altra guerra mondiale. Storicamente essa rappresentava la speranza per un nuovo inizio dei rapporti internazionali
dopo la grande guerra.

Nuova diplomazia
1. Struttura: gli stati non sono più i soli attori coinvolti nel sistema internazionale, ad esso infatti si aggiungono
organizzazioni internazionali, intergovernative e non governative ed altri attori potenziali. In secondo luogo i
governi, ampliano la loro sfera di attività, trasformandosi da stati-carabiniere per difendere la sicurezza dei
cittadini, in welfare states. Di conseguenza anche la diplomazia subisce una profonda trasformazione.
2. Processo: mutando gli interessi degli stati e aumentando il numero degli attori non statali, cambia anche il
processo di negoziazione : le diplomazia diventa un’attività più complessa, mentre si sviluppano i negoziati
multilaterali sotto gli auspici delle organizzazioni internazionali che cercano di influenzare il comportamento
interstatale per raggiungere i propri specifici obiettivi. In generale si può dire che la nuova diplomazia è un
processo molto aperto e più controllabile
3. Agenda: si amplia per comprendere temi concernenti la low politics. Altra sua caratteristica è l’essere sempre più
specializzata su singoli temi, che richiedono nuove professionalità da parte dei diplomatici (competenze
economiche, scientifiche ecc…)
Una conseguenza di tutto ciò sta nel fatto che negli ultimi decenni si è ridotta l’autonomia dei diplomatici. Ciò è
dovuto non solo alla sfida determinata dalla necessità di disporre di nuove capacità, ma anche al fatto che essi non
sono più i soli giocatori coinvolti nello scacchiere diplomatico, a causa dell’intervento diretto sempre più frequente dei
leader politici.

7.6 Strumenti della diplomazia


La macchina diplomatica del governo, costituita da una rete che lega il ministero degli affari esteri e le ambasciate ha
un triplice compito:
• Informare
• Rappresentare
• Negoziare
Essa svolge le seguenti cinque funzioni che contribuiscono sia alla formulazione (making) che all’attuazione
(implementation) della politica estera:
• raccolta di informazioni e dati,
• consigli politici (policy advice),
• rappresentatività,
• servizi consolari negoziazione.
Le prime due funzioni sono essenziali alla formulazione della politica estera, il cui materiale grezzo è costituito
appunto da informazioni e dati. È parte del lavoro dei diplomatici all’estero raccogliere informazioni da fonti ufficiali
(rapporti governativi, stampa locale), informali (contatti con élite politica e il resto del corpo diplomatico) e
trasmetterle al proprio governo.
Riguardo l’attuazione della politica estera, le altre tre funzioni della diplomazia: la rappresentazione, i servizi
consolari e la negoziazione. Gli organi abilitati a rappresentare lo stato sulla scena internazionale sono: determinati
organi centrali (il capo dello stato/del governo e il ministro degli affari esteri); i servizi esterni, cioè le missioni
diplomatiche e i consolati.
Secondo la Convenzione di Vienna del 1961, i capi delle missioni diplomatiche sono:
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1. Ambasciatore
2. Ministro plenipotenziario
3. Incaricato d’affari.
La differenza tra i primi due è solo protocollare: entrambi presentano le lettere credenziali presso il capo dello stato
del paese ospitante. La differenza con il terzo invece è di rango: l’incaricato d’affari rimette le credenziali al ministro
degli affari esteri, il che implica che tra i due paesi le relazioni non hanno raggiunto un livello soddisfacente. La
nomina del capo missione deve ottenere il gradimento dello stato d’accoglienza. Per svolgere liberamente i loro
compiti, le missioni diplomatiche (i diplomatici, la sede dell’ambasciata e la residenza del capomissione) godono di
privilegi e immunità a carattere politico e giuridico (come l’inviolabilità dei diplomatici e dei locali dell’ambasciata),
giudiziari e fiscali. Le ambasciate hanno il diritto di comunicare in cifra, usare la valigetta diplomatica. In caso di
abusi, un agente diplomatico può essere dichiarato “persona non grata” e quindi soggetto al rimpatrio.

Consolati
Le norme dei Consolati sono state codificate principalmente con la convenzione di Vienna del 1963, svolgono due
funzioni principali, di cui la seconda è più direttamente legata alla diplomazia come strumento di azione politica:
azione di supporto e protezione per i cittadini all’estero, supporto alle relazioni commerciali con il paese ospitante. Il
capo dei servizi consolari può essere:
1. Console generale
2. Console
3. Vice-console
4. Agente consolare
Inoltre, un console può essere di carriera o onorario.
La quinta funzione della diplomazia, la negoziazione, e più in generale la contrattazione, è cruciale per la soluzione di
controversie internazionali e per la gestione dei conflitti, conflict management.
La diplomazia pura, che si basa essenzialmente sulla persuasione realizzata di norma attraverso la contrattazione può
essere sufficiente per raggiungere determinati obiettivi dello stato. In realtà gli stati hanno imparato da tempo che la
persuasione è più efficace se affiancata dal “bastone”. La diplomazia abbinata a strumenti politici non ortodossi è detta
diplomazia mista ed è un canale di comunicazione attraverso cui si trasmette alla controparte la minaccia di altri
mezzi.
• Misure economiche (sanzioni commerciali e finanziarie)
• Forza militare
• Sovversione

A differenza dei primi due strumenti, la sovversione non mira ad influenzare il comportamento dei governi ma punta
su gruppi all’interno di uno stato con l’obiettivo di indebolire o rovesciarne il governo. La sovversione prevede una
varietà di tecniche: propaganda e controinformazione , attività di intelligence, assistenza a gruppi dissidenti o terroristi
ecc…
Ovviamente tutte attività che per essere efficaci devono essere segrete, questo strumento non è strettamente legato al
processo diplomatico. Un esempio di sovversione è il colpo di stato del 1977 in Cile durante il quale fu assassinato il
presidente Allende. L’efficacia della diplomazia mista dipende da vari fattori, tra cui la natura del mix tra le varie
tecniche impiegate, la disponibilità di particolari strumenti, i costi del loro utilizzo ecc… rispetto ad altri metodi la
diplomazia ha indubbi vantaggi: le risorse diplomatiche sono facilmente disponibili e i costi sono relativamente bassi.
Inoltre, a differenza di altri strumenti, la diplomazia è largamente considerata legittima a causa della sua associazione
con negoziati e conciliazione, valutati come norme del comportamento internazionale.

7.7 La diplomazia nel XXI secolo


Con la nascita della Società delle Nazioni e ancor di più delle Nazioni Unite, appare un nuovo tipo di diplomazia
esercitata da funzionari snazionalizzati al servizio della pace e degli interessi della comunità internazionale. La
diplomazia tende sempre più ad essere multilaterale e a coinvolgere un numero crescente di attori non-stato. Questa
diplomazia multilaterale ha come effetto quello di limitare la capacità del singolo attore di controllare i risultati. Ciò è
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dovuto essenzialmente alla complessità del processo, con attori multipli che negoziano su issues varie e complicate dal
punto di vista tecnico; ed è dovuto anche al nuovo contesto entro cui questi negoziati operano, che è radicalmente
trasformato dal crescente livello di interdipendenza e dalla rivoluzione nella tecnologia delle comunicazioni. Oggi i
negoziati funzionano come un’estensione dei processi di policy-making nazionali, mentre il grande numero di persone
coinvolte nel negoziato spersonalizzano il processo. Il risultato è che la diplomazia multilaterale è sempre meno una
forma d’arte come un tempo (basata sull’astuzia e l’occultamento) e sempre più un processo manageriale. Ne
consegue che la triplice funzione di rappresentazione, informazione e negoziazione al servizio dello stato non è più un
privilegio dei diplomatici di carriera: sono sempre più coinvolti esperti provenienti da altre amministrazioni, dal
mondo universitario e dal privato. In conclusione, se durante la guerra fredda il problema più scottante della
diplomazia era la relazione est-ovest, oggi nell’agenda al primo posto figura la gestione della differenza culturale.
Attualmente la dimensione più comune della diplomazia include diversi attori e molteplici livelli di autorità, potere e
influenza: stati, organizzazioni religiose, ONG, multinazionali e individui. A tal proposito si ricorsi l’interesse
ambientalista mostrato da papa Francesco in Amazzonia e il suo sostegno al dialogo tra musulmani e cristiani in
Medio Oriente. Il cambiamento che ha interessato le pratiche diplomatiche e gli attori coinvolti è andato di pari passo
con i cambiamenti nelle RI a partire dalla WWII.

7.8 La diplomazia pubblica


Il termine diplomazia pubblica fu coniato alla fine degli anni ’60 dall’ex diplomatico Edmund Gullion che la definì
come: “l’influenza degli atteggiamenti pubblici sulla formazione e l’esecuzione delle politiche estere”. Questa
definizione comprende diverse dimensioni delle RI, inclusa l’attenzione dei governi all’opinione pubblica in altri
paesi; l’interazione di gruppi e interessi privati tra paesi; il flusso transnazionale di informazioni e idee. In generale, si
può affermare che non esiste una definizione concordata del termine. La diplomazia pubblica inizia a svilupparsi come
conseguenza della necessità di allontanare le attività di informazione dei governi dalla propaganda, la quale aveva
acquisito connotazioni peggiorative. Nel corso degli anni la diplomazia pubblica ha poi sviluppato un significato
diverso dagli affari pubblici, riferendosi a tutte quelle attività governative finalizzate alla comunicazione politica per il
pubblico internazionale. Di recente la diplomazia pubblica è divenuta un mezzo con cui uno stato comunica con il
pubblico di altri paesi allo scopo di informarlo ma sopratutto influenzarlo, promuovendo l’interesse nazionale.
Solitamente le attività di diplomazia pubblica hanno il duplice intento di migliorare l’immagine del paese committente
e “plasmare” l’ambiente politico del paese destinatario. Negli ultimi anni la diplomazia pubblica si concentra
maggiormente sullo scambio e la collaborazione nel campo della comunicazione enfatizzando “il dialogo, la
costruzione di relazioni, e il ruolo degli attori non statali. Infine, è da evidenziare come la partecipazione di attori non
statali nella diplomazia ibrida è sempre più importante e presente.
La diplomazia pubblica dell’Unione Europea
Con il trattato di Lisbona e l’istituzione del Servizio Esterno per l’Azione Europea (Eeas), l’UE ha formalmente
istituzionalizzato la rilevanza delle relazioni esterne dell’UE. La Commissione Europea ha presentato la propria
definizione di DP, intesa come influenza sull’opinione pubblica finalizzata alla promozione degli interessi dell’Unione
attraverso la comprensione, l’informazione e l’influenza. Nello specifico si tratta di: 1) spiegare gli obiettivi, le
politiche e le attività dell’Unione e, 2) promuovere la conoscenza di questi obiettivi con cittadini, istituzioni e media.
Gli obiettivi della DP europea sono: promuovere l’immagine dell’Unione a livello globale. Le comunicazioni esterne
dell’Unione sono notevolmente migliorate dopo il lancio del Servizio europeo per l’azione esterna. Inoltre, con il
supporto del dipartimento di politica estera della Commissione, che punta sulle partnership estere con i paesi
strategici, sta investendo fondi significativi al fine di sviluppare unità complete che forniscano alle delegazioni
dell’Unione manager in grado di gestire progetti di diplomazia pubblica. La strategia globale del 2017 ha avuto un
enorme successo nella ridefinizione dell’identità estera dell’UE. Per l’Unione la diplomazia pubblica ha acquisto un
ruolo molto più importante , mezzo essenziale per agevolare la cooperazione con i paesi partner. Più chiaramente la
strategia nasce dall’esigenza di proiettare una visione chiara di ciò che essa rappresenta nel mondo. Inoltre, al fine di
raggiungere un nuovo pubblico, l’UE ha collaborato con successo con Think tank locali, università e media. Ad Hong
Kong ad esempio un’università cinese e un’organizzazione per i diritti umani hanno diffuso raccomandazioni di
follow up provenienti da una conferenza LGBT finanziata dall’Unione. Tale cooperazione è di solito vantaggiosa sia
per l’UE che per i partner locali.

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8. Economia politica Internazionale - IPE (International Political Economy)
8.1 IPE e RI
Il contesto storico dello studio dell’IPE è relativo a: la crescita dell’ interdipendenza economica in seguito al
miglioramento delle condizioni economiche e sociali, la formazione del mercato comune europeo e la conseguente
trasformazione della struttura del commercio di materie prime. Nell’approccio all’IPE distinguiamo:
• Prospettiva statalista (mercantilismo)
• Prospettiva liberalista (liberalismo economico)
• Prospettiva radicale (marxismo)
• Prospettiva costruttivista
Ciascuno di questi approcci offre una spiegazione diversa.
Si tratta sostanzialmente delle teorie IPE classiche alle quali vanno affiancati i dibattiti contemporanei che le
riguardano: la disuguaglianza globale (marxismo), la globalizzazione economica (liberalismo) e il mutamento del
ruolo degli stati (mercantilismo)

8.2 Ineguaglianza e povertà


Dagli anni ‘80 la diseguaglianza globale è notevolmente aumentata. È lecito chiedersi per quale ragione il tema della
disuguaglianza economica globale abbia raccolto così poca attenzione. Una delle spiegazioni è l’agenda di ricerca, la
quale è stata monopolizzata da temi più connessi alla povertà globale piuttosto che alla diseguaglianza. Non esiste un
vero sviluppo sostenibile senza riduzione della diseguaglianza a livello globale. Secondo Jan Nederveen Pieterse, non
solo la diseguaglianza globale è un fenomeno senza precedenti e senza una giustificazione concepibile. Tanto la
globalizzazione genera una crescente domanda di assistenza sociale, quanto allo stesso tempo limita anche le
possibilità finanziarie per fornire tali servizi. Ancor più complesso risulta essere il rapporto tra globalizzazione
economica e sovranità statale. Le forze economiche globali stanno erodendo alcuni aspetti della sovranità statale. Non
tutti i paesi però sono ugualmente colpiti: i paesi poveri ad esempio sono meno in grado di resistere agli imperativi del
mercato finanziario e commerciale globale.

8.3 Il mercantilismo: nazionalismo e gerarchia


Mercantilismo è l’espressione delle aspirazioni degli stati-nazione a sviluppare la propria potenza. Il
mercantilismo ha come assunto principale l’idea che l’economia di un paese debba essere subordinata agli interessi
politici e in primo luogo alla sicurezza. La ricchezza è un mezzo per incrementare il potere dello stato e il potere a sua
volta deve garantire sicurezza: la ricchezza è uno strumento essenziale della potenza; la potenza è necessaria per
acquisire e mantenere la ricchezza. Ricchezza e potere sono tra loro congiunti e finalizzati alla potenza dello stato. Ne
consegue il primato della politica sull’economia. Le relazioni economiche sono conflittuali (gioco a somma zero) il
mercantilismo è fatto da vincitori e vinti, di fatti questo approccio accentua i guadagni relativi, la distribuzione dei
profitti. Per aumentare la potenza nazionale, l’economia è quindi diretta dalla politica in modo da perseguire una
bilancia commerciale positiva (si prioritizza esportazione sulle importazioni) e la promozione della produzione e
occupazione su scala nazionale. Secondo la classificazione di Gilpin, il mercantilismo può essere:
• Benigno: se gli interessi nazionali sono difesi senza effetti negativi sugli altri stati.
• Maligno: come ad esempio le politiche imperialistiche delle potenze coloniali in Asia e Africa.

Liberalismo
Il liberalismo, affermatosi come espressione della borghesia dominante e in opposizione al mercantilismo, mira
sostanzialmente alla gestione ottimale di un'economia di mercato che conduca all'efficienza produttiva, alla
crescita economica e a massimizzare la ricchezza individuale.
Assunti fondamentali di quest'approccio sono i seguenti:
1. gli attori al centro dell'analisi non sono gli Stati, ma le famiglie e le imprese, cioè i consumatori e gli
imprenditori;
2. le relazioni sono regolate da leggi economiche, cioè il mercato che trasforma l'egoismo dei singoli in benessere
collettivo senza interferenze politiche (cioè senza l'intervento della mano visibile, dello Stato).

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Quel che sottolineano i sostenitori di questo approccio è che il libero commercio internazionale consente di
massimizzare non solo il benessere mondiale, ma anche quello delle singole nazioni. Attraverso la specializzazione
nei settori dove si raggiunge maggiore produttività relativa e il libero commercio, si possono ottenere risultati assoluti
in termini di produttività e benessere generale. Pertanto, le relazioni economiche tra gli Stati sono cooperative (gioco
a somma positiva): la politica divide i popoli, mentre l'attività economica (il commercio) li unisce. L'accentuazione è
posta quindi, sui guadagni assoluti in cui tutti i giocatori ottengono un guadagno. Sin dagli scritti dei padri fondatori
del liberalismo economico (Smith, Ricardo, Bastiat) si sostiene che l'umanità sia naturalmente incline alla
cooperazione economica, in quanto il progresso è soltanto raggiungibile attraverso scambi reciprocamente
vantaggiosi. Il mercato agisce da meccanismo che ottimizza la produzione indirizzando le risorse verso gli usi più
produttivi e ciò porta al miglioramento degli standard di vita generali.

Marxismo
Le prime riflessioni di stampo marxista sui rapporti tra economia e politica internazionale sono legate al problema
dell'imperialismo. È soprattutto Lenin che traccia il nesso strutturale tra capitalismo e imperialismo, introducendo
una causa politica nelle contraddizioni del capitalismo, che la guerra tra Stati determinata dalla rivalità inter-
imperialistica. La teoria dell'imperialismo di Lenin, seppure in forme modificate, continua ad avere grande importanza
in questo settore delle Relazioni Internazionali. Gli assunti di base sono quelli del paradigma marxista delle RI.
Aspetti specifici di quest'approccio dell'IPE sono:
1. il primato dell’economia;
2. importanti unità d'analisi sono le classi sociali;
3. le relazioni economiche sono conflittuali (gioco a somma zero).
Ne consegue che gli obiettivi economici sono gli interessi di classe. Per quanto riguarda il sottosviluppo, esso non è
una fase della società tradizionale che tutti i paesi hanno sperimentato; esso è invece il risultato dello sviluppo del
capitalismo mondiale: non si può avere lo sviluppo di alcuni paesi senza il sottosviluppo di molti altri. Inoltre, il
sottosviluppo è causato da forze economiche esterne, che mettono in crisi e distorcono le strutture sociali dei paesi del
Terzo Mondo che, in tal modo, vengono sfruttati.

Costruttivismo
Il costruttivismo pone l'accento sul fatto che è esistano interpretazioni diverse della realtà internazionale, in quanto
il mondo materiale è subordinato a interpretazione. Le idee alla base degli interessi sono fondamentali per
comprendere come gli attori interpretano le loro relazioni sociali. Diversi studiosi hanno sottolineato come l'influenza
degli Stati Uniti nelle multilaterali istituzioni economiche, in particolare il Fondo monetario internazionale e la Banca
Mondiale, ha spinto tali istituzioni a sostenere un modello specifico di sviluppo economico. Questo modello, noto
come Washington Consensus, pone l'accento su aspetti di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione. I
costruttivisti partono da una concezione del divenire della realtà fondata sul divenire delle idee, la realtà non è
materiale ma è ideologica (concezione hegeliana della realtà). È il succedersi dei diversi paradigmi ideologici a
produrre le politiche economiche.

8.7 Il cammino politico da Bretton Woods all’economia globale (leggere sul libro p. 144)
Due tesi contrapposte si fronteggiano a riguardo del rapporto tra il capitale, lo Stato e la società nell'era della
globalizzazione. Secondo la tesi scettica, l'economia si è sì ingrandita, ma soltanto perché lo stato glielo ha permesso.
In questo senso, gli Stati rimarrebbero il cardine del sistema internazionale. L'equilibrio tra il capitale, il mercato e la
società sarebbe, dunque, ancora stabile. La tesi globalista sostiene, invece, un'interpretazione opposta. Con le
trasformazioni dell’economia, il tradizionale equilibrio tra capitale, Stato e società si starebbe rompendo. Il capitale
diventerebbe sempre più libero, aterritoriale e svincolato dall'economia reale. Lo Stato si vedrebbe ridotti i propri
margini di operatività. I globalisti tendono a sostenere la tesi secondo la quale l'economia avrebbe ampliato il suo
raggio d'azione a scapito dello Stato e della società. Alcuni globalisti valutano positivamente tale cambiamento. Altri
invece pensano che tale squilibrio vada corretto. La tesi globalista sostiene che sia formalmente praticamente ci si
trovi in un periodo di grande trasformazione caratterizzato dalla mancanza della distinzione tra le dinamiche interne e
quelle esterne allo Stato. Una tesi globalista molto nota è quella presentata da Susan Strange. Strange sostiene che i
governanti siano gli ultimi a riconoscere di aver perso il controllo del destino nazionale. Gli attori economici ne sono

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ampiamente consapevoli. La politica si rivelerebbe come un'attività sociale molto limitata e la natura e l'origine del
potere nella società andrebbero ripensate. Le forze impersonali del mercato mondiale sarebbero più forti dei governi
nazionali. Secondo la Strange sono due i fattori che hanno sostanzialmente contribuito al declino dell'autorità statale:
il grande sviluppo tecnologico, che ha reso la territorialità meno rilevante, e il grande sviluppo della finanza su scala
mondiale, che va ben oltre le effettive capacità dello Stato di tener testa a questo ammontare di denaro. Questi due
fattori generano tre tipi di assunzioni:
1. la politica non è più limitata ai politici;
2. il potere è esercitato impersonalmente dal mercato e inconsapevolmente da coloro i
quali vendono, comprano e scambiano nel mercato mondiale;
3. l'autorità sulla società e sulle transazioni economiche non è più esercitata dallo
Stato e ciò è riconosciuto dai cittadini.

Una seconda tesi globalista molto nota, è quella di Dani Rodrik. Secondo Rodrik, la globalizzazione starebbe
diminuendo lo spazio di azione governativo. Rodrik descrive il problema che la globalizzazione genera a riguardo
della democrazia e della sovranità nazionale, con una formula che è diventata molto nota in letteratura, quella del
"trilemma politico". Secondo tale trilemma, nell'attuale contesto sociopolitico si potrebbero mantenere soltanto due
dei seguenti tre
elementi centrali del sistema: democrazia, sovranità nazionale, globalizzazione. Una tesi scettica molto nota è quella
di Geoffrey Garrett. Secondo l'autore, nell'epoca attuale lo Stato ha poteri più ampi di quanti non ne avesse prima.
L'accesso alla finanza globale permetterebbe agli Stati di prendere in prestito maggiori quantità di denaro e quindi di
finanziare più liberamente politiche economiche espansive e il sistema welfaristico. Secondo Garrett, sono tre i
meccanismi che si pensa influiscano sull'autonomia nazionale:
1. la competizione commerciale, secondo la quale il governo ingombrante aumenterebbe le tasse e deprimerebbe le
attività imprenditoriali;
2. la multinazionalizzazione della produzione, secondo la quale lo Stato sarebbe continuamente sotto ricatto per
mantenere il sistema libero e aperto, pena la delocalizzazione;
3. la mobilità del capitale finanziario, che porrebbe lo stesso tipo di ricatto allo stato in termini di fuga di capitali.

ln conclusione, possiamo affermare che l'integrazione sovranazionale dei mercati sia in termini commerciali sia in
termini finanziari, ha avuto un impatto sulla gestione della cosa pubblica a livello nazionale. Quello che è certo è che
la dinamica tradizionale di negoziazione tra Stato, mercato e società è oggi trasformata. Gli imprenditori e i grandi
attori finanziari sono oggi in una posizione molto più forte perché hanno a disposizione l'arma della delocalizzazione
e ciò tende a indebolire il potere regolatorio e fiscale del governo e quello sindacale dei sindacati. Questo nuovo
contesto sta anche cambiando le posizioni di potere e le gerarchie all'interno delle società. Non tutti i segmenti della
società sono infatti egualmente toccati dalle dinamiche della globalizzazione.

9. Studi strategici e di sicurezza internazionale (ISS)


9.1. Definizioni di strategia
Gli studi strategici si occupano dell’impatto degli armamenti sulle relazioni tra gli stati. Uno dei problemi più
controversi è il rapporto tra studi strategici e studi sulla sicurezza. La tesi che a questo riguardo appare oggi dominante
è che la strategia è parte degli studi sulla sicurezza. Esistono varie definizioni di strategia. Clausewitz ne dà una
restrittiva. Identificando la strategia con la scienza della guerra: l’impiego delle forze armate in operazioni militari.
Una volta determinate le finalità politiche, la strategia definisce gli obiettivi di guerra applicando la forza militare. La
strategia agisce da raccordo tra politica e tattica. Nella concezione di Clausewitz la strategia viene appiattita troppo
sulla tattica. Il generale Baufre ne dà una definizione ampia: la strategia è l’uso di tutti i fattori di potenza di uno stato
per raggiungere gli obiettivi della politica. Egli considera strategia e tattica strettamente legate. Definizione intermedia
è quella usata da Basil Liddell Hart, secondo cui la strategia riguarda sia la preparazione, sia l’impiego, effettivo e
potenziale, della forza militare. Intermedia può essere considerata anche la concezione di strategia di Mao, secondo il
quale essa «studia le leggi d’insieme della guerra», mentre «il compito della tattica è quello di studiare le leggi della
condotta di guerra che regolano una situazione bellica particolare». Pertanto «un successo strategico è determinato
dalla giusta valutazione della situazione di insieme». Per quanto riguarda l’uso degli strumenti militari si è passati da

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un uso strettamente bellico, a uno più politico: gli armamenti diventano una leva di bargaining. Clausewitz parlava
di guerra assoluta: obiettivo è sconfiggere, ma si tratta di un tipo ideale. In questo senso la guerra è la
continuazione della politica. La politica e la guerra perseguono gli stessi interessi ma rappresentano due modi diversi
di perseguirli: la logica è la stessa ma diverse sono le grammatiche, rispettivamente la diplomazia e la strategia. Per
quanto riguarda il rapporto tra politica e militari vi sono due concezioni contrapposte:
• La prima è quella clausewitziana, secondo cui esiste un continuum tra pace e guerra, tra diplomazia e strategia,
per cui quest’ultima è subordinata alla prima.
• La seconda è quella della scuola militarista secondo cui in caso di guerra bisognerebbe sospendere la politica dando
autonomia ai militari. L’evoluzione nei paesi democratici è esattamente in senso contrario.

9.2 Dalla Grand Strategy alla tattica


Si identificano tre livelli nell’edificio strategico nella sua componente militare: strategico, operativo e tattico. Al
vertice del suo livello strategico c’è
(1) la grande strategia o strategia globale, in cui si definiscono gli obiettivi politici che si intendono conseguire. Il
livello propriamente strategico comprende
(2) la strategia generale militare in cui, stabiliti gli obiettivi militari (cioè lo Ziel), si determinano le priorità e la
ripartizione delle risorse, e
(3) la strategia di teatro in cui si precisano le manovre per conseguire lo Zeil.
(4) Segue il livello operativo, in cui si combinano manovre e combattimenti: esso costituisce un ponte tra la strategia
e
(5) il livello tattico, indirizzato al combattimento.
Inizialmente i tre livelli erano separati. Ma con lo sviluppo delle tecnologie delle informazioni e delle armi il livello
operativo si è dilatato, comportando integrazione e sovrapposizione dei tre livelli. I cambiamenti riguardano anche la
funzione stessa degli armamenti che da mezzo per vincere le guerre diventano strumento di pressione politica. Per
comprendere questa trasformazione è necessario tener conto dei processi di retargeting avvenuti nell’ambito dei
programmi strategici nazionali. Schelling ha sottolineato questo passaggio della forza militare da strumento per
vincere le battaglie a strumento di influenza politica. Egli fa una distinzione tra forza bruta, basata sull’applicazione
della forza, e coercizione, che invece si basa sulla minaccia. Per quanto riguarda l’evoluzione della guerra, utile è il
contributo di Mary Kaldor. Nel dopo-guerra fredda, il fenomeno bellico continua con connotazioni diverse, per cui gli
studiosi hanno elaborato
nuove categorie analitiche. Le principali griglie per spiegare le nuove guerre sono le tre seguenti:

• La minaccia proveniente dal Sud del mondo, che sostituirebbe la minaccia dell’Est venuta meno con l’implosione
dell’Unione Sovietica;
• Lo sconto di civiltà teorizzato da Huntington;
• I conflitti identitari.
I conflitti identitari sono determinati dalla percezione collettiva della minaccia d’esser spossessati della propria
identità di tipo religioso o etnico o ancora nazionale. Questo tipo di conflitti è basato sull’osservazione di conflitti
reali. Come annota Thual nel suo saggio «di fronte agli acidi destrutturati della modernità [occidentale], di fronte alla
miseria economica, alla disgregazione politica, l’identità collettiva di un gruppo umano ridiventa il solo punto
stabile». In questa fase post-bipolare si parla di conflitto culturale, di scontro di civiltà, di communal conflict, di
conflitto etnico-nazionale: si tratta di forme conflittuali che sono varianti di una nuova specie di razzismo/etnicismo
associata a pulizia etnica o a genocidio. La guerra tra stati è rimpiazzata dal conflitto tra milizie rivali, tra fazioni e tra
gruppi etnici. Alcuni studiosi parlano di guerra postmoderna. Kaplan considera questo tipo di conflitti specifico dei
failed states, fenomeno apparso con la fine della guerra fredda.

9.3 Cause e tipologie della guerra


Il dilemma della sicurezza non spiega perché scoppiano le guerre. A tal fine sono state avanzate numerose teorie che
possono essere organizzate nei tre livelli di analisi elaborati da Waltz: individuale, interno, interstatale/sistemico.

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1. A livello dell’individuo, l’origine dei conflitti va ricercata sia nella natura umana, sia in processi psicologici.
Nell’approccio psicologico ci si può ispirare a teorie molto diverse, come la teoria dell’istinto di Freud, la teoria
della frustrazione-aggressione di Dollard, la teoria dell’aggressività di Lorenz.
2. Al secondo livello, le cause del conflitto sono legate agli stati e alle società.
3. Al terzo livello si privilegiano motivazioni sistemiche, derivanti dai rapporti di potere tra i maggiori attori.
Appartengono a questo livello teorie strutturaliste, sia quelle neorealiste sia quelle che si aspirano al
marxsmo/radicalismo. Esempio del primo tipo è la teoria di Organski sulla transizione del potere che si verifica
nella distribuzione di potere tra gli attori: la guerra scoppia perché c’è una potenza in ascesa che è revisionistica,
cioè insoddisfatta dello status quo e vuole modificarlo a proprio vantaggio. Corollario importante di questa teoria
è che la pace è meglio preservata da un’ineguale distribuzione delle forze. Alcune varianti della teoria di Organski
vedono le cause della guerra nell’ineguale tasso di sviluppo economico. Non è possibile avere una teoria generale
dei conflitti internazionali per più ragioni. Innanzitutto i conflitti internazionali non hanno una causa unica e
coinvolgono tutti e tre i livelli di analisi. Inoltre, i fattori determinanti possono variare da una fase all’altra. Può
essere utile una tipologia dei conflitti basata su tre parametri fondamentali:
• In base alla natura: possono essere classificati interstatali classici, guerre di liberazione nazionale ecc...;
• In funzione delle motivazioni: possiamo distinguere i conflitti territoriali dai conflitti non-territoriali, identitari
ecc…
• Secondo l’ampiezza: possiamo dividerli in conflitti generalizzati e conflitti regionali.

9.4 La strategia della prima fase del bipolarismo (1945-1962)


Esaminiamo le strategie adottate dopo la seconda guerra mondiale con riferimento alle armi nucleari. Possiamo
individuare i seguenti tre periodi:

• Il primo periodo comincia alla fine della seconda guerra mondiale e si conclude con la crisi dei missili di cuba
(1962). Il carattere dominante è la superiorità nucleare degli Stati Uniti;
• Il secondo periodo inizia con la crisi di Cuba e finisce con il crollo del muro di Berlino nel 1989 ed è caratterizzato
dalla crescente capacità militare dell’Unione Sovietica;
• Il terzo periodo è il decennio successivo alla fine del bipolarismo, che vede dominante l’iperpotenza americana.

Nel periodo 1945-1962, la dottrina strategica degli stati Uniti è indicata con il termine compellence o diplomazia
coercitiva: si minaccia l’uso delle armi nucleari come strumento di persuasione coercitiva. Questa nozione è stata
teorizzata nel 1966 da Schelling, il quale sostiene che la gestione della crisi da parte dell’amministrazione Kennedy
mise in grado la leadership americana di manipolare il rischio di una guerra nucleare allo scopo di costringere i leader
sovietici a far smantellare i missili balistici cubani. La compellence rende le armi nucleari strumenti di influenza
politica, usate per costringere altri a fare ciò che altrimenti non farebbero. La compellence si serve di strategie ad
alto rischio come quella dell’orlo del burrone o del rischio calcolato,(brinkmanship). È questa una strategia che si
adotta per costringere l’avversario ad assumere un atteggiamento conciliatorio. Questa strategia consiste nel
manipolare i rischi comuni per costringere l’altro a ritirarsi. Gli americani costrinsero i russi a smantellare le rampe
dei missili da Cuba manipolando di rischi di escalation verticale, che consiste nell’elevare un conflitto a un livello di
violenza più distruttiva. Secondo Kahn, l’escalation può essere di tre tipi:
1. orizzontale, basata sull’allargamento dell’area di conflitto;
2. verticale, basata sull’introduzione di sistemi d’arma più distruttivi
3. composta, basata sull’apertura di nuove aree di crisi o di conflitto lontane dal teatro locale delle operazioni.
La strategia di compellence seguita dall’amministrazione Eisenhower, fu elaborata dal segretario di Stato Dulles nel
1953 come risposta massiccia, con cui paventava l’uso di armi nucleari allo scopo di contenere il comunismo. La
risposta massiccia poteva essere di due tipi: strategia contro-forze se gli obiettivi erano militari, strategie contro-
risorse se gli obiettivi erano città, centri vitali, economici ecc... del paese avversario. È stato rilevato isomorfismo con
il gioco del pollo. Secondo Schelling per rendersi credibile è necessario mettersi in condizioni di non poter agire
diversamente. Con Khruschev i sovietici prospettano la coesistenza pacifica. Essa non appare antinomica alla guerra
fredda, ma come la sua faccia positiva. Una strategia alternativa per continuare la lotta comunista contro il
capitalismo. Tuttavia continua la corsa agli armamenti. La competizione strategica tra le due potenze ha una svolta: gli
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Stati Uniti cominciano a considerare credibile la minaccia militare sovietica. Come conseguenza, l’obiettivo delle armi
nucleari muta radicalmente. Con l’erosione della superiorità nucleare degli Stati Uniti, i policy-makers americani
cominciano a mettere in discussione l’utilità di queste armi di distruzione di massa e da allora la loro strategia si
trasforma da compellence a deterrenza.

9.5. La deterrenza nucleare


Il periodo 1963-1983 è la fase della deterrenza nucleare. Con riferimento alle politiche di deterrenza nucleare degli
Stati Uniti durante la guerra fredda, gli analisti di strategia hanno usato l’acronimo MAD (mutual assurde
destruction) per indicare questo equilibrio del terrore. Si tratta di una situazione dove ciascuna possiede capacità
offensive tali da essere viste razionalmente inaccettabili. La deterrenza può essere diretta se mira a prevenire un
attacco nucleare contro il proprio territorio, o estesa se ha come obiettivo prevenire un attacco contro il territorio di un
terzo attore. Perché la deterrenza funzioni sono necessarie le seguenti tre condizioni:
• Capacità tecnica di dare un’immediata risposta devastante ad un eventuale attacco nucleare;
• Capacità amministrativa;
• Credibilità della minaccia, cioè la condizione che da entrambe le parti c’è la volontà di
rispondere a un attacco nucleare che diventa problematico nel caso della deterrenza estesa.
Un caso di questo tipo si verificò agli inizi degli anni ‘80 in Europa. Quando si ritenne che la credibilità degli Stati
Uniti a difendere l’Europa occidentale era messa in dubbio dai generali sovietici, alcuni strateghi occidentali
proposero il deculping, cioè la separazione dalla difesa strategica dell’Europa dall’ombrello nucleare degli Stati Uniti,
incoraggiando i paesi europei della NATO a sviluppare una propria capacità nucleare. Le due superpotenze hanno
lasciato il rispettivo territorio sotto la minaccia dei missili dell’altra. Nel 1972 fu firmata la convenzione ABM (Anti
ballistic missiles) che limita il numero delle zone protette da tali dispositivi.

9.6. La fine del bipolarismo


Il decennio successivo al 1983 si apre con il programma Strategic defense iniziative, meglio noto come Guerre
Stellari. Il 23 marzo di quell’anno Reagan lancia il progetto: si tratta di proteggere gli Stati Uniti con uno scudo
spaziale. L’America sembra sul punto di realizzare uno dei sogni dell’umanità: diventare invincibile. Ma questo scudo
è veramente realizzabile? Gli alleati degli americani si mostrano inquieti e scettici. Per l’Unione sovietica, l’SDI è una
pessima sorpresa. Quindi, l’Unione Sovietica invoca l’accordo ABM e mobilita invano tutti gli argomenti a sua
disposizione. Il 15 gennaio 1986 Gorbachov propone un piano per l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro il
2000. L’11 e il 12 ottobre 1986 a Reykjavik, Reagan e Gorbachov tengono un pre- summit. Alla fine il presidente
americano si rifiuta d’insabbiare il suo progetto. Qual è il vero obiettivo del progetto Guerre Stellari? Lo scopo
autentico non sarà quello di lanciare l’Unione Sovietica in una nuova corsa agli armamenti al fine di portarla alla
disfatta costringendola a ritirarsi dal gioco bipolare? Gorbachov non accetta la nuova corsa agli armamenti. Nel 1989
cade il muro di Berlino, nel 1991 l’Unione Sovietica si ritira dal gioco bipolare. Appare necessario rifondare l’ordine
europeo. Trionfa l’ottimismo, ma l’inizio dei conflitti nell’ex Jugoslavia il 25 luglio 1991 rivela i limiti sia militari sia
politici dell’Europa. La CSCE fa fronte alla sua prima crisi dimostrando la sua impotenza. Nel febbraio 1989, i
negoziati MFBR (Mutual Balanced Forces Reduction) tra NATO e Patto di Varsavia, sono rimpiazzati dai negoziati
FACE. Nel 1989-90 le discussioni si svolgono mentre il campo sovietico è in piena decomposizione. L’oggetto
centrale del trattato risulta privo di significato a causa dello scioglimento del Patto di Varsavia. Pertanto, i problemi
degli armamenti e del disarmi in Europa riguardano il controllo dei depositi di armi e la proliferazione di focolai di
guerra alimentati dal traffico di armi della Russia e di ex repubbliche sovietiche. Nel 1994 la CSCE è sostituita
all’OSCE. Importanti sono anche i cambiamenti verificatisi nell’ambito della NATO, la quale si rafforza. Viene vista
anche come elemento di stabilità in un’Europa diventata più instabile. Il mutamento principale riguarda la sua
trasformazione in una struttura collaborativa a due blocchi sovrapposti: il primo costituito dagli Stati Uniti capaci di
interventi globali, il secondo dagli europei capaci di interventi umanitari. La rivoluzione dell’informatica e della
conoscenza hanno modificato l’organizzazione delle forze militari dando luogo a una corrente di pensiero militare
secondo la quale stiamo vivendo una “Revolution in Military Affairs”.

9.7 La nuova strategia americana

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Dopo l’89 si dava per scontato il passaggio all’unipolarità. Secondo alcuni studiosi il sistema sarebbe diventato
unipolare ma senza egemone. Gli Stati Uniti avrebbero il primato, ma non sarebbero stati egemoni. Questa
unipolarità sarebbe di transizione verso un sistema multipolare. Ma non manca chi, come Wohlforth vedeva questo
momento unipolare particolarmente stabile e duraturo. Al contrario, fra i neorealisti diffusa era la tesi della
transizione verso un sistema internazionale multipolare, e per questo meno stabile. La Cina dopo la fine del
bipolarismo era vista come una potenza revisionistica. Contrariamente a questa tesi della minaccia cinese nel nuovo
sistema internazionale la Cina non è una potenza revisionistica. Nonostante alcune manifestazioni che rivelano
irritazione, la Cina entra nel nuovo millennio come una potenza soddisfatta. Alcuni studiosi vedono come challenger
l’Europa occidentale. Questa tesi è sostenuta da Kupchan, il quale ritiene che la spaccatura tra le due sponde
dell’Atlantico è destinata ad accentuarsi. Questo momento parrebbe destinato a non prolungarsi a causa di due
tendenze.
• La prima è la diffusione del potere a favore di potenziali sfidanti.
• La seconda tendenza è il declinante internazionalismo americano.
Quest'ultima tendenza rischia di sfociare nell’isolazionismo, che unito all’unilateralismo potrebbe diventare una
miscela pericolosa per la stabilità globale. L’inclinazione all’unilateralità americana è andata crescendo in misura
preoccupante. Il mutamento del comportamento dell’iperpotenza è avvenuto con l’11 settembre. Il nuovo
orientamento di Washington è illustrato nel documento dell’Amministrazione Bush: The National Security Strategy of
the United States of America. Il nuovo testo parte dall’assunto che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una minaccia
senza precedenti rappresentata dal terrorismo internazionale e dalla diffusione di armi di distruzione di massa. Nel
documento si sostiene che per fronteggiare queste nuove minacce gli Stati Uniti non hanno altra scelta che
intraprendere quelle azioni che la sicurezza nazionale richiede, compresi attacchi preventivi contro i suoi nemici. Da
più parti è stata sottolineata la distinzione tra attacchi di prevention e attacchi di pre-emption. La nuova dottrina della
guerra preventiva se intesa in senso stretto non è una novità. Lo stesso governo del pacifista Giappone non ha escluso
il ricorso ad azioni di questo tipo come risorsa alla strategia nord- coreana di brinkmanship (politica del rischio
calcolato). La dottrina della guerra preventiva da parte di Washington diventa preoccupante se abbinata al crescente
unilateralismo. Lo spostamento del focus dalla strategia americana dal contenimento dei paesi challenger al
terrorismo è ampiamente condivisa da studiosi e analisti di orientamento liberale. Fra questi va ricordato Nye, che ha
sottolineato il paradossi del potere americano, consistente nel fatto che la politica mondiale sta cambiando in modo
da rendere impossibile per la più forte potenza del mondo raggiungere da sola alcuni dei suoi obiettivi. Quel che egli
critica è l’unilateralismo. Questo approccio è imposto dai neoconservatori duri dell’Amministrazione Bush, i
wilsoniani di destra e gli unilateralità jacksoniani. Se per quanto riguarda il potere miliare gli Stati Uniti appaiono
destinati a rimanere la sola superpotenza, nella zona intermedia della scacchiera la distribuzione del potere è
multipolare, mentre in basso il potere è distribuito tra stati e attori non-stato. Gli unilateralità sbagliano nel puntare
solo sul vertice della scacchiera. A ciò si aggiunga il possibile formarsi di fratture geopolitiche. Effetto non secondario
del dissidio atlantico e del rientro in Asia del Giappone potrebbe essere un ulteriore rafforzamento dell’unilateralismo
dell’iperpotenza con la militarizzazione della sua politica estera.

10. Globalizzazione
Concettualmente, il termine global si oppone a international. In pratica, la globalizzazione, per alcuni studiosi di
ispirazione liberale, segnerebbe il superamento di tale sistema internazionale.
Molti osservatori hanno rilevato nella comunità internazionale di oggi, un passaggio epocale da un mondo dominato
dagli Stati a un mondo dominato dal mercato. Questo passaggio, che rappresenta l'aspetto essenziale del fenomeno
noto come "globalizzazione economica" e che si riflette in un notevole incremento del flusso di beni, capitali, servizi
(e persone), è stato favorito da una serie di fattori, tra cui una straordinaria innovazione tecnologica che ha prodotto
una forte riduzione dei costi e la facilitazione dei trasporti e delle comunicazioni, il crollo delle economie pianificate e
il conseguente aumento dell'influenza del neoliberismo.
Va aggiunto che per alcuni studiosi questo fenomeno non è affatto nuovo. Una delle prime forme di globalizzazione fu
quella della via della seta che, già nei secoli a cavallo dell'era cristiana, collegava Roma con la Cina e che, al tempo
dell'impero mongolo, permise ai mercanti Veneziani di viaggiare e commerciare in tutto il mondo allora conosciuto. Il
fenomeno della globalizzazione si presta a essere interpretato da una serie molto diversa di prospettive disciplinari ed
ha ricadute politiche immediate e molto divisive. Tutto ciò fa sì che i recenti studi sulla globalizzazione rimangano
ancora attraversati da divisioni molto nette che lasciano alcuni punti centrali ancora controversi, a iniziare dalla

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definizione stessa che la globalizzazione si dà. Per quel che ci riguarda, preferiamo la definizione di Scholte in termini
di "diffusione di connessioni trans- planetarie tra persone" e quella di Held in termini di maggiore estensione,
intensità, velocità e profondità dei modelli di interazione sociale. Secondo tale ultima definizione, i processi di
trasformazione globale, attualmente in corso, si riferiscono a un cambiamento nella scala dell'organizzazione sociale
che lega comunità distanti ed espande la portata delle relazioni di potere tra le maggiori regioni e i Continenti del
mondo. La globalizzazione non è un processo uniforme. La prima distinzione che va fatta quando si affronta il tema
della globalizzazione, è quella di distinguere le valutazioni sull'esistenza o meno di essa in quanto fenomeno empirico
dalla valutazione di valore sulla bontà o meno in termini politici. Secondo la prima dicotomia , si identifica una
posizione scettica, che nega il fenomeno della globalizzazione come fenomeno distinto dalle precedenti relazioni
internazionali, da una posizione globalista che, invece, crede nella sua originalità. Per quanto riguarda la seconda
dicotomia, una posizione critica si confronta a una posizione favorevole di stampo cosmopolitico.
Il dibattito sulla globalizzazione è animato da posizioni molto diverse fra loro. Tale diversità si riverbera su
innumerevoli temi al centro della discussione pubblica. È possibile identificare un insieme di sette questioni che sono
centrali nel dibattito sulla globalizzazione. Sebbene correlate fra loro, esse sono analiticamente distinguibili e
riguardano la natura, la storicità, le cause, le conseguenze, la distribuzione dei costi e benefici, la giustizia, e
infine le politiche da intraprendere di fronte ai processi di trasformazione globale.
1. La prima questione riguarda naturalmente la domanda sulla natura della globalizzazione. Esistono varie
interpretazioni che tendono a minimizzarla in termini quantitativi o a esaltarne le differenze in senso qualitativo
rispetto ad altri fenomeni di internazionalizzazione e interdipendenza. Una questione, che sottende questo
dibattito, riguarda se essa sia un fenomeno che influenzi la vita di ognuno in modo relativamente uniforme o se
presenti invece diversi gradi di integrazione. In ultima analisi, questa prima questione rimanda alla controversia
sulla misurazione della globalizzazione.
2. La seconda controversia riguarda, invece, l'origine della globalizzazione. Ci si domanda quando sia nata la
globalizzazione e se sia possibile identificarne un'origine e stabilirne una cronologia. E ancora di più, se essa
debba essere intesa come un processo di continuità con fenomeni precedenti o piuttosto come un fenomeno di
rottura con il passato.
3. La terza questione riguarda i motivi che hanno fatto sì che la globalizzazione si sviluppasse. Ci si domanda perché
si sia sviluppata in un determinato periodo storico.
4. La quarta controversia, particolarmente importante in termini politici, riguarda quei
cambiamenti prodotti dalla globalizzazione che ineriscono all'autogoverno e alla democrazia. In particolare, la
controversia si concentra sullo stato nazionale e sulla governance mondiale. Per quanto riguarda il primo, il
dibattito si interroga su quale sia il ruolo dello Stato in un contesto di globalizzazione, e a fortiori se ve ne sia
ancora uno. D'altro canto, la controversia riguarda anche le nuove forme di governance transnazionale che stanno
sostituendo la classica diplomazia intergovernativa. Infine, ci si pone il problema se la globalizzazione diffonda e
rafforzi l'ideale democratico o se sia invece un suo nemico.
5. La quinta domanda concerne classicamente la questione del cui prodest. Essa s'interroga sui soggetti che traggono
vantaggio dall'esistenza della globalizzazione. Secondo la visione economicista liberale, il mancato sviluppo è
dovuto, in ultima analisi, alla poca integrazione. Da questo punto di vista, quindi, rimanere chiusi all'interno dei
confini nazionali significa privarsi di un beneficio assoluto. Da una prospettiva critica, invece, il mancato sviluppo
va ricondotto a una serie diversa di fattori come la discriminatoria esclusione dal godimento dei benefici della
globalizzazione.
6. La sesta questione del dibattito politico sulla globalizzazione è quella sulla sua giustizia. In termini complessivi,
ci si domanda se la globalizzazione sia un fenomeno che dovremmo valutare positivamente o piuttosto
negativamente e, quindi, se essa vada sostenuta o invero combattuta. Il dibattito è segnato da un lato da chi
sostiene che la globalizzazione segni processo di emancipazione genuina e dall'altro da chi piuttosto la interpreta
come un incombente apartheid globale, una sorta di trappola che camuffa un saccheggio globale e che mette a
repentaglio la sicurezza militare, ecologica, economica, culturale e cognitiva dei più deboli
7.Infine, la settima controversia del dibattito politico sulla globalizzazione riguarda le politiche da intraprendere. Se
lo sfondo di policy degli ultimi trenta anni è stato di stampo neoliberale, si è però anche sempre assistito a forme di
reazioni e a tentativi di formulare politiche alternative su base nazionale in termini di de-globalizzazione. Ci
s'interroga, quindi, su come contribuire al cambiamento delle norme che regolano la politica globale. In particolare, il
dibattito su quale diverso progetto di globalizzazione sia destinato a imporsi vede rivaleggiare quattro alternative:
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quella neoliberale, quella cosmopolita, quella localista e quella civilizzazionista.

Secondo l'interpretazione liberale, la globalizzazione implica un cambiamento qualitativo e positivo, un salto di


qualità verso un nuovo sistema socioeconomico caratterizzato dall'essere divenuto globale, quindi oltre le tradizionali
divisioni lungo i confini nazionali. Secondo questa interpretazione, la globalizzazione economica non solo è un
processo nuovo, ma è anche positivo, poiché porterà una crescente prosperità agli individui, alle famiglie, alle
imprese. Gli studiosi di questa tendenza sottolineano due fenomeni che si sviluppano in questo nuovo contesto. In
primo luogo, lo Stato-nazione perde potere e influenza, perché è eroso dall'alto e dal basso; in secondo luogo, le
società multinazionali si trasformano in transnazionali, nella maggior parte dei casi tagliano il cordone ombelicale
con lo Stato d'origine.

Dagli studiosi della scuola mercantilista, la globalizzazione è vista riduttivamente come un cambiamento
meramente quantitativo che non presenta niente di realmente nuovo. In pratica, si tratterebbe semplicemente di una
forma di interdipendenza economica particolarmente intensificata. I realisti/mercantilisti ritengono che lo Stato-
nazione non sia affatto minacciato dal fenomeno della globalizzazione: al contrario, nel nuovo contesto internazionale
la capacità dello Stato aumenta e non diminuisce per quanto riguarda regolamentazione e sorveglianza.

Gli studiosi costruttivisti ritengono che la globalizzazione sia plasmata anche e soprattutto da forze non materiali, e
concentrano il dibattito sui processi di costruzione e interpretazione del significato come elementi costitutivi del
processo stesso della globalizzazione. Allo stesso modo, la prospettiva costruttivista sottolinea la rilevanza della
dimensione politica nel discorso sulla globalizzazione rilevandone il potenziale, al fine di attuare cambiamento a
livello globale, piuttosto che evidenziare l'inevitabilità dei processi globali in quanto esclusivamente soggetti alle forze
materiali e alla dimensione strutturale. La prospettiva costruttivista condivide l'approccio dei teorici critici che si
interrogano sui vincitori e sui vinti della globalizzazione. Condividono, inoltre, anche lo scetticismo di coloro che
indicano la natura frammentata e diseguale di molti processi identificati con la globalizzazione. Tuttavia ritengono che
la globalizzazione tenda a reificare le strutture di potere esistenti, sottolineando la possibilità di modifica del
processo da parte degli attori politici.

Infine, per gli studiosi neomarxisti/radicali la globalizzazione è, nello stesso tempo, sia interdipendenza
intensificata sia creazione di un'economia globale in quanto ultimo stadio del capitalismo. Anch'essi sostengono
che la globalizzazione presenta elementi di novità, ma il giudizio che ne danno è negativo. Gli Stati-nazione restano
importanti regolatori della globalizzazione, ma stanno perdendo potere sull'economia. In risposta, si formano tre
macroregioni: è il cosiddetto triangolo economico mondiale costituito da America del Nord, Europa e Asia
orientale. Questi studiosi sottolineano, in particolare, gli aspetti negativi della globalizzazione, vista come un
processo ineguale, gerarchico, in cui il potere economico è sempre più concentrato nei maggiori paesi industrializzati.
Insomma, una nuova forma di sfruttamento a carico degli stati più deboli e dei popoli più poveri. Gli scettici
sostengono che la globalizzazione non sia un fenomeno nuovo. Già durante il periodo della belle époque si erano
raggiungi livelli di interazione per molti versi simili a quelli attuali. La globalizzazione rimane quindi per gli scettici
un mito conveniente per la classe dirigente mondiale che, attraverso la costruzione di un falso universalismo, riesce a
imporre un modello che torna a suo favore.

I globalisti liberali, al contrario, sostengono che la globalizzazione abbia inaugurato un’ epoca nuova. Prima di tutto,
affermano che il fenomeno non sia riconducibile soltanto alla sfera economica, ma debba essere intesa come
multidimensionale con dinamiche e ricadute certamente economiche, ma anche legali, sociali, culturali, e ambientali.
Il singolo elemento che segna l'originalità dalla globalizzazione è rintracciato dai liberali nella presenza di
infrastrutture transnazionali quasi permanenti che permettono la maggiore interconnessione planetaria. Tali
infrastrutture sono di natura fisica, normativa e simbolica. Queste infrastrutture permettono la creazione di reti di
natura diversa che permettono di condurre azioni con ricadute globali. Per i liberali, dunque, per poter cogliere la
novità della globalizzazione, bisogna sviluppare una valutazione di lungo periodo focalizzata sul cambiamento
nell'organizzazione sociale che sconvolge il principio territoriale del sistema socioeconomico a favore di una
fluidificazione del potere su base globale.

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Nell'esaminare il dibattito politico in corso sulla globalizzazione si distinguono tre diverse posizioni fondamentali, che
solo in parte ricalcano le tre interpretazioni realista, liberale e marxista. La prima posizione, che è favorevole alla
globalizzazione, è la prospettiva di libero mercato;
le altre due, che sono invece critiche della globalizzazione, sono: la prospettiva populista (o nazionalista) e la
prospettiva comunitarista.
Secondo i globalisti, cioè i sostenitori della prospettiva di libero mercato, che è sostanzialmente d'ispirazione liberale,
la globalizzazione è la graduale universalizzazione dei valori occidentali (americani), liberano forze economiche a
lungo represse che portano a massimizzare la ricchezza mondiale, recando benefici economici a tutti.
Conseguentemente, tutte le nazioni convergeranno verso un nuovo ordine mondiale basato su:
• valori liberali (liberalismo, individualismo e libertà)
• una diffusa prosperità globale
• la pace mondiale.
I populisti, che temono gli effetti della competizione delle importazioni, sottolineano i seguenti effetti negativi della
globalizzazione:
• crescente diseguaglianza economica con elevata disoccupazione nei paesi industrializzati;
• abbandono del welfare state in nome della competitività internazionale;
• distruzione delle culture nazionali e dell'autonomia politica nazionale;
• immigrazione illegale e graduale trasformazione della Terra in un pianeta di naufraghi;
• crescita della criminalità ecc…
Negli Usa, i sostenitori di questa prospettiva sono favorevoli al protezionismo e ai blocchi economici regionali, e
invocano l'introduzione di limitazioni al libero scambio, all'immigrazione, all'attività degli investitori e delle
multinazionali.
Infine, il comunitarismo, nell'accezione usata da Gilpin, è un insieme di pacifismo, di teorie radicali, di tesi
ambientaliste, di difesa dei diritti umani ecc. I comunitaristi vedono nella globalizzazione un po' la causa di tutti i
mali economici, sociali e politici del mondo di oggi. In particolare, essi sostengono che la globalizzazione imponga
all'umanità una molteplicità di mali, fra cui: una brutale tirannia capitalista; lo sfruttamento imperialista; un
degrado ambientale.
I comunitaristi mirano a un ordine più umano, socialmente meno diseguale ed ecologicamente sostenibile. Più in
generale, possiamo dire che tutti i detrattori o scettici della globalizzazione siano contrari a un mondo dominato dalla
mano invisibile, di cui temono le conseguenze. Inoltre, alcuni di essi, soprattutto i realisti, negano che vi sia in atto
una convergenza delle economie nazionali verso un'economia globale, come pure una convergenza verso un unico
sistema di valori. Più concretamente si rifiuta l'idea che tutte le economie starebbero adottando il modello USA di
libero mercato, vaIori nazionali, istituzioni radicate e secoli di tradizione non possono essere spazzati via così
facilmente, come ritengono i globalisti. Comunque sia, è innegabile che la globalizzazione è molto disomogenea,
limitata a particolari settori economici e ben lontana dall'essere realmente globale. A ciò, va aggiunto che non poche
sono le minacce alla stabilità, considerata una conditio sine qua non affinché la globalizzazione si sviluppi. Tra queste
minacce, forse la maggiore è rappresentata dal regionalismo economico che costituisce uno dei tratti specifici
dell'economia globale.
La globalizzazione è interpretata da molti come strettamente legata alla modernità. I processi di globalizzazione
sarebbero così caratterizzati da elementi tipicamente moderni come la riflessività e il distacco dal proprio contesto.
Quando ci si distanzia dal proprio modo di vita collettivo per entrare in un mondo nuovo, tanto più si diventa moderni
e globali. Ciò implica il superamento del nazionalismo metodologico, secondo il quale tutta la nostra vita pratica e
tutto il nostro universo mentale sono vincolati all'interno della nostra comunità di origine. Con la modernità e con la
sua massima espressione, ovvero la globalizzazione, all'individuo è data la possibilità di scelta sul corso della propria
esistenza. Gli individui sono liberati dalle catene della tradizione conservatrice. Allo stesso tempo, però, questo
maggiore grado di libertà acquisito implica anche una profonda destabilizzazione a livello sia sociale sia individuale:
si entra nella società del rischio e della precarietà. L'aumento dell'interazione significa anche la diminuzione del
potere di controllo sugli eventi. Anche da un punto di vista sociale, dunque, la globalizzazione si presta a letture
diametralmente opposte che non sembra facile conciliare. Da un lato la modernità liberale, con la sua apertura quasi
infinita di credito all'individuo, dall'altro l'incertezza post-moderna che getta una luce di incertezza sull'esistenza
atomizzata.
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11. Regionalismo
Come la regione, anche il regionalismo è bivalente dal punto di vista semantico: esso esiste sia all'interno di uno Stato
sia tra gli Stati. Nella prima accezione, può essere visto come una manifestazione di nazionalismo etnico e come
obiettivo politico di un movimento separatista o indipendentista. Perché si sviluppi il regionalismo tra gli Stati non
bastano la prossimità geografica e un certo grado di interdipendenza economica, ma sono necessari anche altri fattori,
quali l'identità regionale o preferenze politiche o ideologiche. Il diverso peso specifico di questi fattori produce tipi di
regionalismo diverso.
L'inizio del neo-regionalismo può esser fissato nel 1986, quando l'Atto Unico Europeo stimolò la nascita di altre
iniziative regionali nel mondo. La nascita del nuovo regionalismo può essere vista come la risposta al dilemma della
sicurezza: ciascuna regione cerca di garantirsi i massimi vantaggi competitivi nei confronti delle altre regioni. Non
esiste, quindi, un unico fattore né un'unica spiegazione del regionalismo economico. Come per la globalizzazione,
anche per il regionalismo le principali scuole di RI hanno dato interpretazioni diverse. Secondo alcuni studiosi, le fonti
dell'integrazione regionale sono riconducibili a fattori economici naturali come la prossimità e la complementarità
nella dotazione dei fattori. Le tendenze regionalistiche, però, sono anche il prodotto di una convergenza di politiche
e di orientamenti ideologici. La spiegazione che in genere gli economisti liberali danno per la crescita del
regionalismo è basata essenzialmente sulla premessa funzionalista che, per far fronte ai problemi derivanti dalla
crescita del commercio e dei flussi di investimento, sia necessaria un'accresciuta cooperazione. I governi
percepiscono sempre più che è nei loro interessi costruire strutture di governance per gestire la crescente
interdipendenza economica. Gli studiosi liberali che si ispirano al neoistituzionalismo (o neoliberalismo) danno
particolare importanza al ruolo che i regimi internazionali possono svolgere nel ridurre i costi di transazione. Per i
neorealisti, una crescita nella cooperazione tra governi a livello regionale va vista nel contesto più ampio dei
cambiamenti verificatisi nel sistema internazionale e, più in generale, nei condizionamenti e nelle sfide esterne che
devono affrontare i paesi entro una determinata regione. Secondo i radicali, i quali danno della globalizzazione
economica un giudizio negativo, i gruppi regionali altro non sono che macroregioni in competizione tra loro per
l'accumulazione capitalistica, macroregioni create intorno agli Stati economicamente più forti, con il risultato di
rendere la globalizzazione un processo ancor più ineguale e gerarchico. Infine, secondo i costruttivisti, il
regionalismo è il risultato di una convergenza su principi e formati istituzionali che deriva da un progressivo
allineamento su valori e princìpi di fondo che gli Stati sviluppano nella loro continua interazione fino a creare una
comunità omogenea. Il regionalismo economico rappresenta una risposta degli Stati-nazione a problemi politici
condivisi di un'economia globale altamente interdipendente. Una minoranza di studiosi, al contrario, crede che la
crescente concorrenza globale accentuerà le spinte protezionistiche, portando l'economia internazionale alla
frammentazione in blocchi economici regionali costruiti intorno alle economie più forti. Esiste, però, una posizione
per così dire intermedia, la quale sostiene che nell'economia mondiale è in corso un processo dialettico in cui
globalismo e regionalismo non sono contraddittori ma complementari, e in cui "i paesi usano strutture regionali nel
tentativo di controllare ciò che non riescono a controllare a livello nazionale o multilaterale". Ne consegue la necessità
impellente di allentare la tensione tra globalizzazione e regionalismo.
Negli ultimi decenni, il numero di organizzazioni internazionali e gruppi regionali è aumentato enormemente e gli
Stati sono ora membri contemporaneamente di diverse organizzazioni di natura sia regionale sia mondiale. Il termine
regionalismo sottolinea l'interdipendenza regionale che si traduce in accordi intergovernativi di tipo politico, secondo
un approccio che potremmo definire top-down; il termine regionalizzazione, indica l'integrazione regionale
economico-commerciale seguendo un approccio bottom-up e sicuramente non stato-centrica; il termine regionalità
(regiones) sottolinea l'esistenza di fenomeni storici e identitari di lungo periodo, evidenziando la tendenza dei popoli
di una certa regione geografica a interagire sulla base di un sentimento/cultura comune. Un'attenzione particolare,
all'interno degli studi sul regionalismo, è stata dedicata al caso europeo attraverso l'uso di diverse teorie quali il
federalismo, l'inter- governamentalismo, il funzionalismo e il neofunzionalismo.

12. Politica mondiale


12.1 Le tensioni nella governance globale
Il concetto di global governance, riflettendo gli interessi degli stati ricchi e potenti, non tiene conto dei fenomeni di
dominio ed esclusione. Se da un lato il bisogno di cooperazione internazionale non è mai stato così forte, dall’altro, la
cooperazione multilaterale istituzionalizzata resta ancora un processo incompiuto e sempre più inefficace in alcuni
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settori. Sarebbero quattro le motivazioni di quello che può essere definito un vero e proprio stallo nel processo
decisionale della governance globale:
• L’aumentata multipolarità del sistema internazionale: problemi sempre più globali e quindi di sempre più difficile
risoluzione
• Inerzia e frammentazione istituzionale
• Aumentata interdipendenza a livello internazionale: una questione in una determinata issue area non può non tenere
conto della ripercussioni ambientali o sociali, sulle quali tendenzialmente i paesi non sono mai d’accordo.
• Dal punto di vista istituzionale, la gerarchia tra gli attori coinvolti non avrebbe mai permesso alle istituzioni di
adeguarsi ai cambiamenti in atto della governance globale, limitando ad esempio la possibilità per i paesi in via di
sviluppo di contribuire. Di conseguenza la crescita esponenziale delle organizzazioni transnazionali ha creato un
sistema della global governance che appare essere multilivello e pluralista, sebbene estremamente frammentato.
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione da parte di studiosi ed esperti per il contesto normativo della governance
globale . Ad esempio, che le preferenze dei BRICS fossero orientate alla riformulazione delle regole che governano le
principali istituzioni della governance globale. In primo luogo ciò era dovuto al fatto che il G7, dal punto di vista della
struttura non considerava l’importanza del contributo del mondo in via di sviluppo, il global south. Nel marzo 2012, al
quarto incontro BRICS tenutosi a New Delhi, il gruppo ha dichiarato l’intenzione di voler cooperare con altri paesi
sulla base di norme universalmente riconosciute dal diritto internazionale e dai processi decisionali multilaterali.
Non sorprende quindi come la creazione di istituzioni internazionali alternative sia una componente spesso rimarcata
nell’approccio dei BRICS alla governance globale, che sarebbe in linea con gli studiosi che hanno dichiarato la
necessità di un approccio più completo per rafforzare le pratiche e gli attori della governance globale al di fuori del
mondo occidentale. Durante un incontro a Durban (Sud Africa) i BRICS hanno confermato l’intenzione di voler
ampliare la rappresentatività dei paesi in via di sviluppo alla governance globale, in particolare con riferimento alla
riforma delle istituzioni finanziarie internazionali “per renderle più rappresentative e per riflettere il peso crescente dei
BRICS e dei paesi in via di sviluppo” (Dichiarazione di Durban). La dichiarazione ha inoltre sottolineato la crescente
frustrazione del gruppo nei confronti delle organizzazioni multilaterali come il FMI. Per la prima volta, la necessità di
rafforzare il ruolo BRICS nella governance economica globale è collegata allo sviluppo delle infrastrutture nelle
economia emergenti. In questo senso, la Dichiarazione di Fortaleza (2014) ha segnato una svolta per
l’istituzionalizzazione del gruppo, si fa chiaro riferimento all’insoddisfazione nei confronti delle IFI (istituzioni
finanziarie internazionali) a guida occidentale.

12.2 La politica degli attori transnazionali


Ormai la società civile globale o transnazionale svolge un ruolo significativo nella governance globale, sopratutto
dopo la fine della Guerra Fredda la presenza di organizzazioni della società civile (CSOs) negli affari internazionali è
diventata sempre più rilevante. Esse sono attori internazionali significativi come sostenitori di soluzioni politiche,
fornitori di servizi o semplicemente controllori delle azioni statali e inter-governative. Si tratta di una vera e propria
società transnazionale: un sistema d’interazione in una specifica area tematica tra attori sociali che operano e sono
basati in diversi sistemi nazionali. La società transnazionale non ha limiti geografici, ciò significa che:
• esiste anche tra società geograficamente distanti
• Deve essere intesa funzionalmente, ossia circoscritta dalle aree problematiche oggetto dell’interazione
transnazionale.
Ne consegue che la politica transnazionale può essere intesa come il processo politico in atto tra governi nazionali,
organizzazioni intergovernative, multinazionali ecc… messo in moto proprio dall’interazione tra i diversi attori della
società transnazionale.
La politica transnazionale sarà profondamente influenzata dal dibattito sulle norme, in particolare:
1. Se e come il consenso normativo transnazionale si traduce in accordi internazionali in grado di limitare il
comportamento dello stato
2. Se e come il consenso normativo internazionale è in grado di creare opportunità politiche per gli attori domestici,
indipendentemente dalla volontà degli stati
3. In assenza di consenso normativo internazionale, in che modo gli stati sono in grado di conferire alle istituzioni
internazionali l’autorità di imporre comportamenti coerenti con queste norme (interventi della NATO in
Jugoslavia)
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4. In che modo le norme contribuiscono alla costruzione di nuove identità statali che potrebbero creare un ponte tra
le identità nazionali, fornendo una base normativa per le coalizioni transnazionali.

In conclusione è possibile affermare che saranno essenzialmente due le questioni che contribuiranno alla nascita e
all’evoluzione dello studio della politica transnazionale:
1. Il ridimensionamento del ruolo dello stato nella politica globale
2. Il ripensamento del processo di formazione dell’identità statale e dunque degli interessi e relativi comportamenti a
livello internazionale.

Di fatto si tratta di una vera e propria società civile globale definita “la sfera delle relazioni e delle attività
transfrontaliere svolte da attori collettivi, movimenti sociali, reti ed organizzazioni della società civile, indipendenti
dai governi e dalle imprese, e che operano al di fuori della portata internazionale di stati e mercati e nella quale
possono emergere, esprimersi e affermarsi molte identità, interessi, visioni e richieste di cambiamento da parte di
attori collettivi diversi e spesso contrastanti”. Esempi di reti transnazionali attive includono: Our World Is Not For
Sale, Via Campesina, Attac, Nubile, People’s global action ecc…

12.3 I modelli alternativi di politica globale


Uno dei temi più dibattuti dell’agenda politica concerne le ripercussioni sociali e il controllo politico della
globalizzazione. L’instabilità dei mercati finanziari, la crisi ambientale e i flussi migratori non regolati, sono soltanto
alcuni esempi dei fenomeni che ci ricordano la massiccia interdipendenza dell’odierno sistema internazionale e i suoi
limiti politici ed istituzionali.
Sulla base del riconoscimento di questa tensione politico/istituzionale , una serie di progetti alternativi di politica
globale è stata discussa negli ultimi decenni. Il loro comun denominatore risiede nel tentativo di andare al di là della
centralità dello stato sovrano, verso forme di partecipazione politica che consentano a nuovi soggetti di entrare nella
politica transnazionale da cui finora sono rimasti esclusi. Questi nuovi attori politici fanno parte della più estesa
categoria degli attori non statuali che comprende:
• Organizzazioni non governative internazionali
• Società multinazionali
• Network e campagne promosse da associazioni della società civile
• Gruppi religiosi
• Movimenti sociali
• Partiti politici transnazionali (quelli europei)
• Enti privati internazionali
• Soggetti individuali
Tali attori sono accomunati da un’effettiva esclusione dai meccanismi decisionali internazionali, pur essendo attivi
sulla scena globale.
Le dinamiche della globalizzazione hanno accentuato il logorarsi dell’esclusività degli stati quali unici attori degli
affari internazionali, aprendo gli orizzonti a nuovi attori sociali non statali. Proprio in quanto esclusi essi rivendicano
l’inclusione nel sistema politico dalle semplici azioni di lobbying alle più dure proteste. In tale contesto di una nuova
soggettività politica che si va consolidando una nuova sfera pubblica globale, in cui le vecchie visioni stato-
centriche si intrecciano alle nuove visioni, dando origine ad un complesso quadro di posizioni ideologiche.

Esistono quattro interpretazioni-chiave della nozione di sistema politico mondiale:


1. La visione del capitalismo mondiale associata ad un libero mercato globale e ad attori economici privati
2. Il progetto di democratizzazione delle istituzioni internazionali
3. La visione radicale sostenuta dalla maggior parte dei movimenti sociali in termini di alter-globalismo, associata a
gruppi della società civile
4. Il discorso sul dialogo tra civiltà che fa riferimento ad attori macro-regionali, spesso definiti in termini religiosi

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Modelli alternativi di politica globale
Formazione del potere politico
Dal basso Dall’alto
Atteggiamento verso la Positivo Cosmopolitismo Neo-liberalismo
globalizzazione
Negativo Alter-globalismo Dialogo tra civiltà

1. Neoliberalismo: questo modello è incentrato sul primato del legame economico. Fa principalmente riferimento ad
attori economici privati (imprenditori, aziende, network commerciali e consumatori) quali agenti chiave nel
sistema politico. In quest’ottica il potere politico è gestito in modalità decentrata dai consumatori e sopratutto da
imprenditori riuniti in reti transnazionali di élite. Le istituzioni pubbliche sono considerate come strumenti
universali che possono garantire una vita politica corretta. Nel contesto politico-economico della realtà globale, il
neoliberalismo offre il più chiaro progetto a sostegno di una globalizzazione libertaria. Un connubio di libero
commercio internazionale e sistemi nazionali di welfare, il neoliberalismo si è posto come alternativa,
conquistando una posizione egemonica negli anni ’80 e ’90, sotto il vessillo del Washington consensus. Nella
marea crescente della globalizzazione, due tendenze fondamentali hanno caratterizzato il nuovo paradigma: una
forte enfasi sulla privatizzazione e sulla flessibilità. Fondamentalismo di mercato, liberalizzazione, deregulation e
austerità di bilancio occupavano anch’essi un ruolo di spicco. Questo nuovo modello di affari internazionali è
stato presto adottato dalle maggiori istituzioni internazionali, tra cui la Banca mondiale e il FMI. L’applicazione
concreta del neoliberalismo è inoltre strettamente legata alla diffusione di meccanismi di governance globale.
2. Cosmopolitismo: è incentrato sul primato del legame politico. Questo modello fa principalmente riferimento ai
soggetti individuali quali attori chiave nel sistema politico. In quest’ottica il potere politico trae origine dai
cittadini ed è gestito secondo meccanismi istituzionali globali e multilivello. Il cosmopolitismo offre un progetto
riformatore basato su valori socialdemocratici e liberali, teso a democratizzare il sistema della globalizzazione
senza alterarne i presupposti fondamentali. Una tipica applicazione di questa teoria può essere ravvisata nella
Convenzione ONU concernente lo status di rifugiato (1951), o ancora, il Protocollo di Kyoto, la Corte penale
internazionale, la Responsability to protect ecc…
Il Parlamento Europeo è a volte definito come il prototipo più avanzato di una forma transnazionale di
rappresentanza politica parallela a quella statale ed intergovernativa.
3. Alter-globalismo: è incentrato sul primato del legame sociale. Tale modello fa riferimento a organizzazioni di
base (della società civile, movimenti sociali, reti sociali transnazionali, quali attori chiave nel sistema politico. In
quest’ottica il potere politico è gestito attraverso una fitta rete di gruppi locali che salvaguardia il pluralismo. La
politica si concentra sul livello micro, poichè mira a cambiare la società e l’economia attraverso processi che
nascono dalla base. Nel contesto politico-economico della globalizzazione, l’alter-globalismo offre la più chiara e
radicale alternativa alle attuali trasformazioni globali. Questo movimento si è affermato pienamente al volgere del
nuovo millennio, grazie ad una più intensa mobilitazione della società civile globale in genere. Negli anni ’90 i
movimenti sociali globali hanno organizzato con successo campagne indipendenti: campagna internazionale per la
messa al bando delle mine anti uomo (1992) e la campagna per l’istituzione della Corte penale internazionale. Con
il nuovo millennio si è assistito ad una svolta strutturale: la creazione del Forum sociale mondiale come spazio di
incontro per tutte le organizzazioni, i movimenti sociali, e gli individui decisi a sfidare la globalizzazione.
4. Dialogo tra civiltà: affermatosi soltanto negli ultimi decenni, questo modello è incentrato sul primato del legame
culturale e religioso. Esso fa principalmente riferimento alle civiltà e alle élite culturali quali attori chiave del
sistema politico. In quest’ottica il potere politico è gestito in maniera decentrata dai leader religiosi, intellettuali e
politici. Le religioni e gli organismi macro-regionali sono considerati protagonisti-chiave in un sistema politico
che salvaguardia il pluralismo. Nell’era della globalizzazione, la prospettiva delle civiltà crea i presupposti per un
rifiuto delle attuali trasformazioni globali in vista di un mondo multipolare. Per quel che riguarda la sfera politica
pubblica le manifestazioni a sostegno all’idea di un dialogo tra civiltà da parte del Parlamento mondiale delle
religioni hanno offerto un concreto spazio di interazione. Molti dei protagonisti chiave della scena globale hanno
manifestato il proprio sostegno a questa idea. Oggi la civiltà è fermamente riconosciuta come concetto-chiave per
un’interpretazione della politica globale che vada oltre l’angusta prospettiva statuale.
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12.4 La politica globale del post ’89
Principali interpretazioni:
1. Nuovo ordine internazionale (Fukuyama, La fine della storia)
f. Vittoria del mercato
g. Vittoria della democrazia
(Universalizzazione dei valori occidentali)

2. Fine dell’età liberale (1789-1989) (Wallerstein, Afterliberalism)


a. Fine del marxismo
b. Ma anche del liberalismo
c. Crisi del “sistema-mondo”?

3. Il mondo delle civilizations (Huntington, Lo scontro delle civiltà)


a. Frammentazione politica e culturale
b. Cultura come variabile interveniente
c. West unique, not universal: alla globalizzazione economica non corrisponde l’universalizzazione dei valori
occidentali

12.7 Scenari mondiali


Tre opzioni per l’Ordine mondiale
Le tendenze per il potere degli Stati Uniti sono controverse, alcuni sostengono che il declino è significativo e chiaro,
altri che gli Stati Uniti sono invece destinati a rimanere leader del sistema internazionale. Ciò che innegabilmente sta
cambiando è il vantaggio di cui gli Stati Uniti hanno goduto sulle altre potenze; mentre l’economia americana
costituirà poco più del 20% dell’economia globale, altre economie si espanderanno e supereranno gli USA. La crescita
della Cina è innegabile, economicamente diventerà la più grande economia del mondo. Militarmente sta riducendo il
gap con l’esercito americano. Socialmente e politicamente sta diventando una calamita per un numero crescente di
paesi. Molti vedono il relativo declino americano e la crescita cinese come una rotta di collisione tra i due. È difficile
prevedere se si verificherà un conflitto armato, sopratutto a causa della loro interdipendenza economica. Quello che si
può affermare è che tra i due ci sarà una tensione continua, se non crescente. Come risultato di questa tensione si
possono tracciare tre scenari principali dell’ordine mondiale:

Opzione 1: Occidente vs Resto del mondo


In questo scenario la tensione resta un elemento centrale che polarizza il mondo in un nuovo sistema bipolare. L’UE è
attratta ancor più fortemente nella comunità transatlantica, mentre la Russia segue una traiettoria analoga verso la
comunità asiatica sino-centrica.
Aumentano le tensioni tra Cina e USA ma non scoppia il conflitto armato. La Cina non è ancora pronta per uno
scontro militare, gli usa potrebbero essere tentati di far crollare l’aspirante sfidante prima che non sia più possibile. La
pressione economica si sviluppa attraverso una rinascita di blocchi infraregionali, protezionismo, geopolitica
economica, guerra informatica economica e concorrenza tecnologica. La pressione politica viene esercitata
indirettamente su alleati minori. L’esclalation militare è visibile in una corsa agli armamenti e in un corrispondente
aumento dei budget per la difesa.

Opzione 2: Integrazione euroasiatica e isolazionismo USA


In questo scenario, un processo di integrazione interregionale è promosso dalla Cina e accettato sia da Russia che
dall’Unione Europea. La massa eurasiatica è progressivamente integrata all’interno della più grande area economica
del mondo. Gli stati uniti e il continente americano in generale vanno alla deriva nella solitudine geopolitica,
generando posizioni isolazioniste. L’economia statunitense entra in netto declino, il paese perde la leadership politica
e l’apparato militare viene messo a tacere. La politica interna si frammenta, le questioni etniche diventano dominanti e

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l’integrità territoriale viene messa in discussione con stati che chiedono l’indipendenza. La rete di alleanze globali si
indebolisce e uno dopo l’altro gli ex alleati aprono canali di comunicazione e cooperazione con l’egemone emergente.
Il potere della Cina continua a espandersi, la narrativa globale cambia e diventa sinocentrica. Viene istituita una nuova
pax Sinica. Si muovono tutti verso una più profonda integrazione con la Cina. Infine, UE, Giappone, India e paesi del
Golfo entrano tutti nell’orbita cinese. Gli stati uniti sono isolati e riescono a malapena a mantenere le poche e leggere
alleanze anticinesi.

Opzione 3: Occidente allargato vs Cina


L’occidente resta predominante, la Cina diventa sempre più isolata e la Russia viene tirata verso l’Europa. L’occidente
allargato, ora rafforzato, ristabilita la sua leadership globale. La Cina è relegata al ruolo di potenza regionale, senza
ambizioni globali. I vincoli economici, le pressioni politiche e una serie di scontri militari minori sono sufficienti a
dissuadere Pechino dall’ulteriore sviluppo delle sue ambizioni globali. In queste circostanze, la Russia è convinta di
rinunciare alla sua alleanza strategica con la Cina e a tornare in Europa e nel più ampio mondo occidentale con lo
status di partner minore.

16/11
Politica estera italiana
Alcune costanti nella politica estera italiana
L’italia è debole nel contesto internazionale perchè arriva tardi
Invece di sviluppare strategie diplomatiche in base al proprio potere ha sviluppato il proprio potere sulla diplomazia
Facciamo parte dei grandi ma la nostra rilevanza è relativa
Oscillazione
Politica della “sede” o della “sedia”: diventare sede di importanti meeting internazionali senza concentrarsi sul cosa
dire.
Mancanza della dimensione energetica
Pluralità di culture di politiche estere con tre tradizioni: nazionalista, universalista o democratica, liberale
Interpenetrazione tra politica interna e politica estera
Il ruolo del vaticano viene spesso tralasciato ma ha avuto un ruolo sia nell’attivismo sia a livello di interposizione
delle posizioni internazionali
Interesse nazionale

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