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MANUALE - “Introduzione alle relazioni internazionali”

CAPITOLO 1 - Capire le Relazioni Internazionali


Con “Relazioni internazionali” si intendono quelle relazioni politiche, economiche, sociali e culturali tra due
o più paesi. In questa definizione possiamo anche includere le relazioni che i governi si stringono con attori
importanti quali multinazionali e organizzazioni internazionali.
1.1 Le Relazioni Internazionali come parte integrante della vita di tutti i giorni
Nonostante l’iPhone sia stato progettato da Apple in California, i vari componenti sono prodotti in tutto il
mondo. Le varie aziende europee, americane e dell’Asia orientale condividono i benefici di questi scambi,
dato che più telefonini sono venduti, più posti lavoro si vengono a creare in queste aree. I frutti di queste
Relazioni Internazionali non sono costituiti unicamente da scambi e vantaggi commerciali, talvolta può
succedere che dalle interazioni tra Stati nascano guerre e conflitti.
[Esempio torri gemelle e successiva invasione di Afghanistan e Iraq] La guerra al terrorismo costituisce una
parte importante della storia moderna, caratterizzata da una forte ingerenza statunitense nelle Relazioni
Internazionali. Consideriamo ora altri due paesi, Francia e Germania, la cui inimicizia è stata parte integrande
della storia europea per più di un secolo. Non deve sorprendere che per lungo tempo francesi e tedeschi si
siano guardati con sospetto e rancore. Dal 1951 però, i governi di Francia e Germania hanno collaborato sia
in ambito politico che economico all’interno di quella che oggi chiamiamo Unione Europea e in ambito
militare all’interno dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. In più, dal 2002 questi paesi
hanno rinunciato ufficialmente alle proprie valute nazionali adottando una valuta comune assieme ad altri
dieci paesi membri dell’Unione Europea, ovvero l’Euro.
Ancora una volta, è necessario sottolineare che le Relazioni Internazionali non si limitano a conflitti e al
movimento di beni e valute, ma riguardano anche la libertà degli individui di attraversare i confini nazionali.
Alcuni paesi hanno stabilito delle agevolazioni che facilitano la circolazione di persone rispetto ad altri. Esiste
un paese al quale i cittadini americani non possono accedere se non in possesso dal governo, ovvero Cuba.
Questo disagio ovviamente non è nulla in confronto a quello che il sistema di RI impose ai cittadini dell’Europa
dell’Est tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Ottanta. In quel periodo l’Europa era divisa in due
dalla cortina di ferro. I governi comunisti dei paesi dell’Est Europa si mobilitarono attivamente per evitare
che i propri cittadini si trasferissero nella parte occidentale. L’attuale capitale della Germania, Berlino, era
divisa anch’essa in parte Est e Ovest dal Muro di Berlino.
È quindi chiaro come le Relazioni Internazionali abbiano da sempre influenzato la nostra vita quotidiana. Gli
Stati intrattengono relazioni anche con una serie di organizzazioni governative internazionali ovvero
organizzazioni alle quali gli Stati vogliono prendere parte per favorire i propri interessi economici e politici. I
governi hanno interazioni continue con quegli attori privati il cui operato è di natura transnazionale.
1.2 Elementi fondamentali dello studio delle RI
1.2.1 Concetti chiave delle RI
Il primo passo è identificare gli attori fondamentali delle RI. Chiedersi chi sono gli attori più importanti
costituisce una domanda controversa. Per prima cosa siamo interessati ai leader nazionali in quanto
individui. Secondariamente siamo interessati agli Stati. Uno Stato è un’entità politica che possiede due
caratteristiche fondamentali: un territorio con dei confini ben definiti e un’autorità politica per esercitarne
la sovranità. Lo Stato deve essere distinto da un altro attore fondamentale nelle RI, ovvero la nazione. Gli
Stati sono unità politiche, mentre le nazioni sono costituite da gruppi di persone che condividono una cultura,
storia, o lingua comune. L’ultimo attore chiave per capire a fondo le RI è costituito dagli attori non statali.
Sono attori diversi dallo Stato i quali operano sia all’esterno che all’interno dei confini statali.
Quando si afferma che uno Stato ha un particolare interesse si intende che quello Stato desidera mantenere
oppure raggiungere una particolare condizione a livello globale così importante da volerne sostenere i costi,
talvolta ingenti.
In che modo gli Stati promuovono o difendono un particolare interesse? Ebbene, gli Stati perseguono questo
obiettivo tramite lo sviluppo e l’implementazione di una particolare strategia. Se l’obiettivo ultimo della Cina
è quello di riuscire a imporre la propria sovranità sul Mar Cinese Meridionale, parte della sua strategia
consisterà sicuramente nell’indurre paesi come il Vietnam e le Filippine a rinunciare alle proprie
rivendicazioni. Per raggiungere il proprio obiettivo, il governo cinese farà uso di particolari strumenti di
policy.
1.2.2 I livelli di analisi nelle RI
Le teorie ci aiutano a capire perché un determinato avvenimento è accaduto e quale sia la probabilità che
questo evento possa ripetersi. Per poter avere una classificazione dei vari concetti attorno a quali ruotano le
RI, ci serviamo di un particolare, quanto funzionale, strumento analitico ovvero la struttura dei livelli di
analisi.
Questa ricerca si concentra sugli attori e sui processi situati in una delle tre differenti categorie che
compongono i livelli di analisi. La prima categoria consiste nel livello di analisi individuale. Lavorare a questo
livello significa concentrarsi sull’impatto che decisori individuali. Il livello di analisi statale include tutte quelle
idee, ragionamenti e dibattiti che si concentrano su una particolare caratteristica, sia essa politica e
economia, di determinati paesi e Stati. Un ottimo esempio è costituito dalla teoria della pace democratica,
un insieme di idee sviluppato da diversi studiosi di RI la quale sostiene che il comportamento in politica estera
degli Stati sia fortemente influenzato dalle istituzioni politiche interne.
In ultima istanza, la terza categoria è costituita dal livelli di analisi internazionale. Gli Stati non sono unità
politiche isolate, ma sono collegati da una stretta rete di relazioni, e questa coesistenza e interazione
allargata a includere anche gli attori non statali, forma il cosiddetto sistema internazionale. Questo sistema
possiede caratteristiche proprie che influenzano fortemente il comportamento dei singoli Stati. Ad esempio,
molti scienziati politici enfatizzano il concetto di anarchia [mancanza di un’autorità centrale al di sopra degli
Stati che funzioni da arbitro durante situazioni conflittuali e che protegga gli Stati più deboli da quelli più
forti].
Domande fondamentali: quesiti che gettano luce sui temi più importanti del nostro campo.
1.3 Riconoscere le domande fondamentali
Associare lo studio delle RI agli avvenimenti quotidiani è una prassi normale. Concentrarsi sulle domande
fondamentali è importante per diversi motivi. Per prima cosa, ci permette di separare ciò che è veramente
importante nello studio della politica globale da avvenimenti effimeri. Il secondo motivo è che queste
domande aiutano a capire lo sviluppo attuale dello studio delle RI.
1.3.1 Esempi di domande fondamentali
Non esiste un numero preciso di domande fondamentali, né tantomeno un elenco di domande sul quale tutti
gli esperti del campo si trovino d’accordo.
1.4 Tracciare collegamenti
Una conoscenza completa delle RI comprende anche l’analisi dei vari contesti regionali e globali, la distinzione
tra interessi comuni e non tra gli attori e il riconoscimento di quelle relazioni causali che influenzano i risultati
delle interazioni tra gli attori. Tracciare collegamenti tra teoria e pratica, tra passato e presente, e tra
aspettative e realtà.
1.4.1 Collegare la teoria alla pratica
Le teorie ci aiutano nella descrizione de mondo e nella spiegazione del suo funzionamento. Esse costituiscono
importanti strumenti analitici per fare ipotesi, per proporre processi causali e per cercare di predire il futuro
svolgimento di eventi caratteristici dell’arena internazionale. La creazione e la verifica di nuove teorie è una
parte integrante e fondamentale di ogni impresa scientifica.
Un ottimo esempio di teoria delle RI è la teoria di Lenin sull’imperialismo e la guerra. Lenin era interessato a
capire l’imperialismo e sosteneva che nell’Europa e gli Stati Uniti di fine Novecento le grandi banche e le
corporazioni avrebbero avuto bisogno di espandersi in nuovi mercati per mantenere stabili i propri profitti
economici. Lenin spiega così la spartizione dell’Africa.
1.4.2 Collegare il presente e il passato
Popoli diversi traggono lezioni diverse dagli eventi storici più importanti. L’esperienza storica però non
influisce unicamente sul comportamento dello Stato, ma anche sulla natura e sull’evoluzione dell’interno
sistema internazionale. Capire il passato ci aiuta a capire quali elementi del sistema internazionale odierno
costituiscono una novità, e quindi un elemento evolutivo, e quali elementi possano essere considerati
continuativi nonostante i profondi cambiamenti che il sistema internazionale si sia trovato ad affrontare.
1.4.3 Collegare aspettative e realtà
Le RI devono studiare il mondo non come dovrebbe essere ma come effettivamente si presenta, tenendo
sempre a mente che nemmeno in questo caso ci può essere una visione del mondo unanime. L’obiettivo
principale è descrivere come e perché gli Stati si comportino in un determinato modo. Spiegazione e
prescrizione sono due processi completamente differenti, e tali devono rimanere, ma sono altresì connessi
tra loro.
1.5 Vedere il mondo da diverse prospettive
L’ordine internazionale in cui viviamo è quello desiderabile, oppure vorremmo vederlo diversamente? La
risposta a questa domanda dipende totalmente da chi siamo “noi”. È quindi fondamentale considerare la
politica mondiale da diverse prospettive. La posizione di un individuo nei confronti di un particolare problema
a livello internazionale è influenzata dalla sua posizione all’interno del sistema e varierebbe a seconda che
l’individuo fosse americano, russo, egiziano o indonesiano, in una situazione di povertà o ricchezza, di sesso
maschile o femminile o parte della maggioranza o di una minoranza etnica all’interno di un paese. La stessa
cosa è valida per gli Stati. La prospettiva nazionale di un paese è influenzata da diversi fattori. La posizione
geografica è un altro fattore importante. 1.5.1 Riconoscere la centralità delle grandi potenze
Essere sensibili alle diverse prospettive mondiali è di grande aiuto nel combattere la tendenza a vedere le RI
largamente e unicamente da una prospettiva caratterizzata da potere e prosperità. Le RI sono influenzate
dalle profonde variazioni che avvengono a livello di storia, geografia, identità, cultura e aspirazioni, le quali
caratterizzano lo scenario globale.
1.5.2 Riconoscere le differenze all’interno del sistema internazionale
Adottare prospettive diverse aiuta altresì a riconoscere la presenza costante di elementi di divisione e di
differenza all’interno di qualsiasi sistema internazionale. In quello corrente le divisioni intercorrono tra
situazioni di ricchezza e povertà, tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. C’è una differenza sostanziale tra la
sostanziale tra la prospettiva dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo per quanto riguarda le
problematiche economiche a livello internazionale. L’esistenza di differenze e divisioni tra gli Stati all’interno
di qualsiasi sistema internazionale ci porta anche ad analizzare un altro problema costante all’interno delle
RI, ovvero quello degli Stati insoddisfatti. Questi sono Stati scontenti della propria posizione nel sistema
internazionale, i quali lentamente tendono ad aumentare il proprio potere, oppure impiegano politiche
aggressive davanti alla possibilità di accrescere la propria posizione relativa.
CAPITOLO 2 - La nascita di un sistema globale di Stati dal 1500 a oggi
Domanda fondamentale: come si è passati da un mondo frammentato a un sistema di Stati globale e
integrato per il quale l’ordine è una problematica costante?
Livelli di analisi
• Il mondo nel 1500
Individuale Statale Internazionale
Nel 1500 maggior parte degli Nel 1500 regioni estese Il 1500 vide nascere in Europa
individui non ricopriva alcun nell’emisfero occidentale e un sistema di Stati
ruolo nella governance delle orientali erano costituite da indipendenti governato da
entità all’interno delle quali imperi. Stati dinastici, città- famiglie dinastiche
vivevano stato o piccoli ducati
governavano nell’Europa del
1500. La Cina era uno Stato già
ben consolidato nel 1500
• La formazione del sistema politico
Individuale Statale Internazionale
Dal 1500 fino all’inizio del 1800 Gli Stati europei conquistarono Il sistema europeo di Stati
i leader dei principali Stati la sovranità e proiettarono il sovrani fu formalizzato dalla
europei cercarono di ottenere proprio potere oltreoceano dal pace di Westfalia nel 1648.
il controllo sul continente, 1500 al 1800 Nessuno Stato riuscì a coprire
fallendo. una posizione egemone a
causa dell’equilibrio causato
dalla minaccia degli altri Stati.
Lo squilibrio di potenza tra gli
Stati europei e gli imperi nelle
Americhe e in Asia portò alla
conquista di questi ultimi da
parte dei primi
• Prima e Seconda guerra mondiale
Individuale Statale Internazionale
Il passaggio di leadership da Il nazismo tedesco, il fascismo La sicurezza collettiva stabilita
Bismark al Kaiser Guglielmo italiano e l’imperialismo dalla Società delle Nazioni fallì
portò a una politica estera giapponese emersero negli nel prevenire le aggressioni
tedesca radicalmente più anni Trenta e spinsero questi degli anni Trenta
ambiziosa. Prima del 1914, sia paesi ad adottare una linea
civili che élite militari in molti aggressiva
Stati europei abbracciavano
l’ideale fallace dell’utilità della
guerra e dal vantaggio
dell’offesa. La personalità di
Hitler fu un elemento centrale
alla base delle aggressioni
tedesche negli anni Trenta e
durante la Seconda guerra
mondiale
• La sfida globale della Guerra Fredda
Individuale Statale Internazionale
Il carattere aggressivo di Stalin Sia gli Stati Uniti che l’Unione Le due guerre mondiali
può aver contribuito ad Sovietica credevano che gli distrussero il sistema
alimentare le paure Stati nella propria sfera di dell’equilibrio di potenza
occidentali al termine della influenza dovessero avere le europeo che fu la base di un
Seconda guerra mondiale loro stesse caratteristiche ordine internazionale che durò
interne: democrazia capitaliste per 300 anni. Con l’avanzare
a occidentale, regimi autoritari della Guerra fredda, al
e socialisti a oriente struttura bipolare del conflitto
influenzò pesantemente la
natura degli affari
internazionali
• Decolonizzazione, i Non allineati e il Terzo Mondo
Individuale Statale Internazionale
I leader di alcuni importanti Il raggiungimento Il sistema internazionale è
paesi in via di sviluppo dell’indipendenza da parte di cambiato dopo il 1945, con la
giocarono un ruolo Stati precedentemente volontà del Terzo Mondo di
fondamentale controllati da potenze coloniali autodeterminarsi, il che portò
nell’organizzazione del è noto come decolonizzazione all’aumento significativo del
Movimento dei non allineati numero di Stati nel sistema
• La fine della Guerra Fredda
Individuale Statale Internazionale
Leader come Gorbaciov e Quando le autorità sovietiche Il collasso dell’Unione Sovietica
Regan giocarono un ruolo allentarono la presa sui popoli fece finire la struttura bipolare
chiave nella fine pacifica della alleati in Europa orientale, del sistema internazionale
Guerra fredda. Anche i singoli nacquero numerosi movimenti
individui e gruppi sociali di opposizione che spinsero
svolsero una parte per riforme radicali e per
determinante l’indipendenza dall’Unione
Sovietica
• L’ordine internazionale contemporaneo
Individuale Statale Internazionale
Alcuni individui traggono L’Unione Europea è più di un Un paradosso apparente: la
vantaggi dalla globalizzazione insieme di Stati sovrani, ma fine della Guerra fredda ha
attraverso scambi economici e meno di uno Stati unitario in portato ad una preminenza
culturali. La globalizzazione sè temporanea degli Stati Uniti in
può essere una minaccia per termini materiali
altri individui che la vedono (unipolarismo) ma non ad una
come una sfida ai valori crescita nell’influenza globale
culturali tradizionali, e come di questi ultimi. Come già
uno strumento che crea più successo in periodi storici
competizione economica precedenti, il sistema
interstatale sembra essere
immune al controllo di una
singola potenza
Capitolo 3 - Le teorie delle relazioni internazionali

1. La teoria realista
Idea generale
Relazioni internazionali = lotta per la potenza e la sicurezza fra Stati-Nazione in competizione reciproca, in un
mondo caratterizzato dalla presenza perenne di pericolo.
→ in un mondo anarchico la rivalità e il conflitto sono inevitabili.
La risoluzione dei conflitti dipende dalla distribuzione della potenza.

Assunti del realismo


1. I gruppi esistono in un mondo in cui nessuna autorità superiore può imporre regole o ordine.
Gli stati conducono la propria esistenza in un mondo caratterizzato dall’anarchia, che non significa caos, ma
significa che ogni stato deve provvedere alla propria difesa.
→ gli stati ottengono sicurezza o soddisfano i propri interessi in misura proporzionale alla potenza di cui
dispongono → il potente prevale e il debole soccombe →I realisti identificano la competizione e la lotta per
la potenza come la questione principale.
Il risultato della anarchia internazionale è l’identicità della politica internazionale attraverso le epoche
storiche. → senza un’autorità, gli stati tendono ad avere timore dei loro omologhi e cercano di aumentare la
loro potenza per proteggersi.

2. Gli stati sono i principali attori delle relazioni internazionali


→ poiché l’anarchia genera insicurezza, gli uomini si sono divisi in gruppi predisposti al conflitto → la forma
più comune di gruppo è lo stato.
Vi sono altri attori, decisamente secondari, come organizzazioni internazionali, imprese private…

3. Gli stati sono attori ragionevolmente razionali, in grado di riconoscere le condizioni circostanti, i rischi
e le opportunità della sfera internazionale.
→ stati sono capaci di cogliere i futuri vantaggi e le future perdite e di conseguenza adeguare il proprio
comportamento → una delle sfide dei realisti è quella di rendere conto di alcune condotte apparentemente
irrazionali degli stati.

4. La sicurezza è il problema centrale della politica internazionale


→ conseguenza dell’anarchia, cosa che fa sì che gli stati si muovano sempre in un sistema internazionale in
cui guerra e potenza sono sempre in agguato. → il contenuto minimo delle relazioni internazionali risulta
quindi essere una questione di potenza e di sopravvivenza.

5. La ricerca della sicurezza è un’impresa concorrenziale, motivo per cui rivalità e conflitto sono ritenuti
aspetti intrinseci alla politica mondiale.
Nelle relazioni internazionali vi sono vincitori e vinti → ne consegue che il potere ha una qualità relazionale:
se uno stato si rafforza, gli altri necessariamente si indeboliscono.
→ competizione aspetto naturale e duraturo nel sistema internazionale.
La pace e la cooperazione possono essere raggiunte, ma non sono condizioni permanenti.

Le asserzioni realiste
1. Equilibrio di potenza → è una dinamica basilare che gli stati hanno perseguito per secoli per
proteggersi in un contesto mondiale anarchico e pericoloso.
Dilemma di sicurezza: Stato ammassa potenza militare → stato minacciato risponde accumulando a sua volta
potenza militare.
Lo stato minacciato può anche creare un’alleanza per far fronte all’ascesa della potenza, attraverso un
processo di contro-bilanciamento.
→ i dilemmi di insicurezza possono essere il risultato dell’interazione delle differenze che possono esistere
tra i modi di intendere le motivazioni e le azioni di ciascuno stato.
2. Alleanze → coalizioni di stati con il fine di garantire protezione reciproca (NATO).
Le alleanze costituiscono la principale forma di interazione fra gli stati.

3. Guadagni relativi
→ i realisti credono che siano le capacità materiali di uno stato a permettergli di perseguire i propri interessi
→ maggiore è la forza di uno stato, maggiori sono le probabilità che riesca a realizzare i propri intenti.
Il punto cruciale sta nel fatto che la potenza così intesa è relativa → l’unica conseguenza di ciò è che gli stati
si trovino in un continuo gioco competitivo per aumentare la propria potenza.
→ gli stati sono più interessati ai guadagni relativi che a quelli assoluti (ovvero la somma di tutti quei vantaggi
prodotti da un particolare accordo o azione).
→ questo, ad esempio, porta a ritenere il libero commercio una minaccia per lo stato che lo adotta, in quanto,
così facendo, potrebbe causare guadagni anche per lo stato con cui ha questi rapporti.

4. Transizioni di potere
Come avviene il mutamento internazionale? Avviene attraverso innovazioni tecnologiche e una crescita
economica squilibrata che comporta un’alterazione delle posizioni in termini di potenza relativa agli stati.
Carr chiama questo processo “mutamento pacifico”→ è possibile che ci sia conflitto nel mutamento, ma non
è la norma (esempio della rivoluzione industriale)

5. Nazionalismo → forza dinamica che motiva gli stati sulla scena internazionale.
I realisti enfatizzano come il nazionalismo e la lealtà verso lo stato-nazione forniscano il fondamento per il
predominio dello stato-nazione e il sistema competitivo degli stati.
→ è anche una potente fonte di conflitto, perché incoraggia i gruppi umani ad accentuare le differenze fra
sé e gli altri.

Conclusione:
Vi sono diverse branchie della corrente realista, ma ciò su cui tutti i realisti concordano è che le relazioni
internazionali siano da intendersi come lotta per il potere e la sicurezza fra stati-nazione.
Ciò che emerge è un mondo di anarchia nel quale competizione e conflitto sono perennemente presenti.
Diritto, idealismo e moralità sono aspirazioni umane che compaiono nelle relazioni interstatali, ma per i
realisti il potere e il perseguimento della sicurezza sono realtà più fondamentali che non cederanno, ne
scompariranno.

La scuola inglese delle relazioni internazionali


Costituisce un ricco corpus di teorie delle relazioni internazionali legato alla tradizione realista. → conviene
con l’idea realista per cui gli stati operino all’interno di un contesto anarchico, ma tuttavia, enfatizzano anche
come gli stati si siano organizzati i quella che essi chiamano “società internazionale”.
A differenza dei realisti, gli stati sono più sociali, infatti hanno elaborato regole, norme e istituzioni per gestire
il sistema internazionale e la sua natura anarchica.

Bull → “la società anarchica: l’ordine nella politica mondiale”


Egli parte dalla concezione realista per cui gli stati sono attori indipendenti e in competizione reciproca
all’interno di un mondo dominato dalla politica di potenza. Tuttavia, egli sostiene che gli stati hanno interessi
condivisi nella gestione della loro condizione anarchica.

→ in particolare, gli stati hanno interesse a stabilire regole in tre ambiti:


- La limitazione dell’uso della forza
- L’inviolabilità degli accordi internazionali
- Sicurezza dei diritti di proprietà
Bull e Watson dicono che una società internazionale esiste quando “gli stati hanno stabilito norme e
istituzioni comuni fondate sul dialogo e il consenso e riconoscono il loro comune interesse nell’adeguarsi alle
norme istituite.”

→ enfasi dell’importanza della diplomazia e del dialogo delle relazioni internazionali → molteplici modi di
creare regole e accordi:
- Diritto internazionale
- Accumularsi di regole e norme che regolano il sistema di stati
- Attenzione all’espansione dello stato-nazione del sistema degli stati dall’Europa al resto del mondo
La scuola inglese di distingue per il tipo di socialità del sistema degli stati:
- Alcuni pongono l’accento sul carattere pluralistico della società internazionale
- Altri enfatizzano il suo carattere solidaristico, sostenendo che le regole e le norme condivise abbiano
progressivamente indebolito il ruolo della potenza e della coercizione nella politica mondiale.

2. La tradizione liberale
Idea generale
Tendenza degli stati a commerciare, risolvere dispute e avere interesse per i rapporti di cooperazione →
possono essere caratteristiche delle relazioni internazionali, come guerra e conflitto per i realisti.
La teoria liberale si dirama in tre direzioni:
- La prima si concentra sul commercio e sul suo impatto sulle relazioni internazionali→ diffusione del
capitalismo e le relazioni di mercato creino interdipendenza economica, guadagni congiunti, interessi
condivisi e incentivi alla cooperazione
- Secondo ramo si focalizza sugli stati democratici → l’idea è che i sistemi democratici tendano a
cercare affiliazioni con altre democrazie e a intessere rapporti pacifici.
- Terzo ramo si concentra sugli effetti di pacificazione del diritto e delle istituzioni

La teoria internazionale prevede la diffusione e lo sviluppo della democrazia e dei rapporti di mercato i quali
trasformano la lotta per il potere.

Assunti liberali:
1. Il mondo è in un continuo processo di modernizzazione, ovvero che il genere umano inventa, innova,
migliora e crea costantemente
→ processo di modernizzazione è trainato dalla forza della scienza e della tecnologia e ha vaste conseguenze
sul modo in cui vengono disposti potere, comunicazioni, relazioni…
Paragone con i realisti:
realisti → concepiscono la storia in termini di ciclicità, in cui gli uomini compiono ripetutamente i medesimi
errori.
Liberali → più inclini a rilevare il progresso che si manifesta in condizioni politiche, economiche e sociali che
migliorano nel tempo

2. I principali attori delle relazioni internazionali sono gli individui e i gruppi, non gli stati
Gli individui a seconda dei propri interessi e delle loro inclinazioni possono formare comunità e ordinamenti
politici al di sopra e al di sotto del livello dello stato-nazione.
È importante dire che comunque gli stati-nazione e il sistema degli stati sono ritenuti anch’essi importanti.
→ L’ascesa delle moderne democrazie liberali rappresenta una svolta cruciale per la teoria liberale → hanno
permesso a individui e gruppi di superare le vecchie forme di nazionalismo e imperialismo per rafforzare lo
stato di diritto e la cooperazione fra stati.

3. Gli individui hanno incentivi e impulsi al commercio, alla contrattazione, alla negoziazione e alla
ricerca della cooperazione in vista di un guadagno congiunto.
→ gli individui sono capaci di superare gli schemi mentali dei guadagni relativi e cogliere l’opportunità di
guadagni congiunti, basati su commercio e cooperazione.
4. Modernizzazione e progresso hanno la tendenza a condurre la società lungo un percorso comune
indirizzato verso la democrazia e la società di mercato.
Il processo di modernizzazione attraversa società e culture diverse ma tende a produrre tipi di sfide e risposte
simili ovunque → il movimento della storia è più o meno lineare, con un percorso che, attraverso lo scambio
e il commercio, indirizza le società in via di sviluppo e quelle avanzate verso la democratizzazione liberale e
il capitalismo.

5. Il progresso è qualcosa che esiste davvero → la condizione umana può migliorare e di sicuro lo farà.
Credono che gli individui e i gruppi reagiscano a incentivi che li inducono a rendere il loro un mondo migliore
e sono sensibili ai diritti umani e alla correttezza morale dello stato di diritto.
→ politica dell’individuo e gli individui possiedono diritti e sono degni di rispetto.
Ciò comporta che il progresso è possibile grazie al reciproco riconoscimento dei diritti e alla condotta basata
sul rispetto delle norme.

Le asserzioni liberali:
1. Liberalismo commerciale → Adam Smith
La società di mercato e l’interdipendenza economica tendano ad avere un effetto pacificante sulle relazioni
interstatali→ se i rapporti economici fra due stati si espandono aumenta il loro interesse ad avere fra di loro
relazioni stabili e costanti.
Ciò avviene perché ogni paese dipende dal commercio e dagli scambi continui per garantire il proprio
benessere economico.
Una società di mercato potrebbe eliminare alcune delle cause della guerra inducendo gli stati ad
abbandonare colonizzazione e barriere doganali come strumenti di politica estera e commerciale.
→ ricchezza economica alimentata da una sempre maggiore interdipendenza renderà guerra e competizione
meno probabili, in quanto i costi di conflitto saranno inaccettabilmente alti.

2. Le democrazie tendono a non combattersi tra loro.


Kant → “per la pace perpetua” le democrazie sono insolitamente pacifiche le une rispetto alle altre, perché
sono intese come stati dotati di governi eletti, stampa libera, proprietà privata e rispettose dello stato di
diritto.
→ egli prevede una sorta di federazione democratica formata da stati con interessi comuni, che si uniscono
e collaborano per creare una zona di pace.

Perché le democrazie non si fanno guerra?


- Una delle ragioni per cui le democrazie non si fanno guerra a vicenda è che hanno delle preferenze
in comune, aspirazioni simili riguardo a come dovrebbe essere il mondo delle relazioni internazionali
→ vogliono sistemi aperti costruiti intorno a regole → le democrazie, per questo, si identificano a
vicenda come stati legittimi e meritevoli di riconoscimento.
- Un'altra ragione è che in questi sistemi politici sono i cittadini a sostenere i costi della guerra e a
scegliere il proprio leader. → i cittadini sono quindi in grado di evitare la guerra votando
rappresentati che difendano la pace.
- Un’ultima ragione è che le democrazie tendono ad avere governi trasparenti tenuti a rendere conto
delle proprie azioni → è più facile per questi stati nutrire fiducia reciproca e collaborare.

3. Gli stati instaureranno relazioni internazionali imperniate sul diritto e istituzioni internazionali
L’idea che questo possa avvenire risale a filosofi come Locke → argomentazioni a favore dei diritti legali e
costituzionali degli individui all’interno delle comunità politiche occidentali
I diritti dei singoli sono ancorati al riconoscimento del fatto che tutti gli uomini sono ugualmente membri
della comunità umana→ piccolo passo verso l’ammissione del fatto che le leggi che caratterizzavano
l’esercizio del potere in stati liberali avevano una qualche rilevanza nelle relazioni tra le democrazie liberali.
Ragionamenti più pragmatici sulle motivazioni e sui modi in cui regole e istituzioni contano nelle relazioni
internazionali:
- In alcune circostanze gli stati hanno interessi diversi → le istituzioni non saranno di alcun aiuto nel
promuovere la cooperazione internazionale
- In altre situazioni gli stati non collaborano perché non hanno fiducia gli uni negli altri → qui le
istituzioni possono svolgere il compito di incrementare il flusso di informazioni, la trasparenza, la
fiducia reciproca → idea funzionalista di Keohane.
Gli stati accettano di vincolarsi ad accordi internazionali nei casi in cui una tale decisione crei incentivi e
obblighi che inducono altri stati a fare lo stesso→ ciò crea un ambiente prevedibile e funzionale in cui tutte
le parti possono perseguire i propri interessi.

4. Le relazioni internazionali forniscono importanti connessioni fra gli stati


→ concetto di transnazionalismo, ovvero la tendenza di gruppi interni a dati paesi di formare associazioni di
cooperare con soggetti collettivi presenti in altri stati → i liberali, al contrario dei realisti, sostengono che le
interazioni interstatali possano anch’esse determinare schemi di cooperazione e conflitto all’interno del
sistema globale.
Questi gruppi transnazionali hanno come obiettivo l’operare come gruppi di pressione per modificare
determinate politiche statali, oppure si presentano come associazioni di esperti dotate di conoscenze
scientifiche ed esercitano influenza confrontando il modo in cui gli stati pensano ai propri interessi.

5. Importanza del cosmopolitismo


→ si riferisce alla tendenza di individui provenienti da paesi diversi di accettare gli uni e gli altri come
concittadini globali (visione contrapposta al nazionalismo).
Il cosmopolitismo comporta la capacità di identificarsi con persone provenienti da terre e culture differenti.

3. La tradizione marxista
Idea generale
Rivoluzione industriale → ci si interroga sull’impatto dell’avvento del capitalismo sulla politica e l’economia
dei paesi → economie tradizionali diventano economie industriali, ma non tutti beneficiano del commercio
internazionale, anzi troppo spesso i paesi ricchi europeo divennero il nucleo fiorente di un’emergente
economia mondiale, mentre popoli e nazioni in aree meno avanzate divennero la periferia povera.
Marx → concentra la sua riflessione sulle classi e sul conflitto di classe, cercando di analizzare i meccanismi
della rivoluzione industriale.
Si impegnò a identificare i vincitori e i perdenti del capitalismo e come quest’ultimo plasmò la competizione
e la vita politica.
Si tratta di una teoria sul capitalismo, il cui presupposto fondamentale è il materialismo storico→ ovvero
l’idea che la storia e i suoi attori sono plasmati dalle loro basi economiche e materiali. Col mutare dei
fondamenti materiali della società, così cambia anche la storia.

Assunti marxisti:
1. Gli interessi e i rapporti politici sono determinati dalla posizione di ciascuno all’interno del sistema
economico in trasformazione. (l’economia modella la politica).
Detto con il vocabolario marxista, la base economica plasma la sovrastruttura politica, ovvero il modo di
produzione determina le relazioni di produzioni.
Relazioni di produzione → sono le relazioni sociali e politiche che emergono nella società, mentre il modo di
produzione → l’organizzazione di base economica.
Con l’avvento del capitalismo comparve una classe industriale e commerciale, sotto forma di proprietari delle
fabbriche e di società per azioni, mentre i lavoratori si presentavano come operai salariati.
Possiamo dire quindi che le relazioni di produzione hanno messo i proprietari del capitale e i lavoratori gli uni
contro gli altri, cosa che si è ripercossa anche nel mondo politico.
2. Gli attori rilevanti nelle società non sono gli individui, ma le classi economiche, ovvero
raggruppamenti umani definiti dalle loro relazioni con l’economia.
Con l’affermarsi del capitalismo queste classi sono i lavoratori e i capitalisti.
La teoria marxista vede le classi come attori che, direttamente o indirettamente danno forma alla
competizione politica e alle relazioni internazionali.

3. Lo stato moderno è organizzato essenzialmente per servire gli interessi della classe capitalista.
Un’affermazione fondamentale → “gli stati moderni hanno come obiettivo finale la difesa e la promozione
della classe capitalista” → la protezione e la promozione della classe capitalista si manifesta in modo più
profondo e strutturale quando lo stato moderno sostiene le regole, le istituzioni, le idee e i privilegi
dell’ordine politico che a sua volta sostiene il sistema capitalistico.

4. Conflitto di classe che definirà sempre di più le relazioni fra lavoratori e capitalisti
→ con lo sviluppo dell’industrializzazione capitalistica ci si aspetta che le società sperimentino una sempre
più netta divisione fra le due classi.
Inoltre, queste relazioni di classe sono transnazionali:
Lavoratori → “lavoratori di tutto il mondo unitevi” + nascita di sindacati.
Capitalisti → collaborano per tutelare la propria ricchezza, salvaguardare il commercio e la finanza
internazionale.

5. La rivoluzione è la grande sorgente di cambiamento politico


Si raggiunge un punto di rottura quando i lavoratori sottraggono il controllo ai proprietari capitalisti → i più
prendono il sopravvento sui meno numerosi.
La teoria marxista prevede che i lavoratori prendano possesso delle istituzioni di comando della società
capitalista e inaugurino un nuovo ordine politico → società diventerà un sistema privo di classi.

Marx vs Lenin riguardo la rivoluzione


Marx immaginò che sarebbe giunto un momento in cui i conflitti e le contraddizioni del capitalismo moderno
avrebbero portato alla rivoluzione e a un mutamento del modo di produzione.
Egli riteneva che il capitalismo fosse un funzionale modello d’economia in quanto portava
l’industrializzazione anche nei paesi più poveri → non è contro il colonialismo.
Ritiene però che questo grande processo chiamato capitalismo possa funzionare solo fino a quando le
democrazie non saranno abbastanza mature per attuare la rivoluzione.

→ Lenin sosteneva che la classe capitalista stava diventando sempre più centralizzata nei principali paesi
industrializzati → le élite degli stati capitalisti avanzati esportavano i loro capitali in paesi meno sviluppati
per finanziare produzioni caratterizzate dallo sfruttamento delle risorse naturali e della manodopera a basso
costo → le regioni povere venivano integrate nel sistema capitalistico, alterando le relazioni fra gli stati. →
questo permette e Lenin di spiegare perché la rivoluzione non sta avendo luogo.
Lenin arriva alla conclusione che l’imperialismo stava segnando la rovina del capitalismo avanzato.

Marxisti in anni più recenti → analizzano modi in cui il capitalismo globale opera come un sistema di potere:
Alcuni studiosi marxisti impiegano il concetto di egemonia per spiegare il modo in cui i principali stati
capitalisti esercitano la loro supremazia sulle risorse e le istituzioni della politica mondiale.
Egemonia → sistema di potere in cui i principali stati capitalisti esercitano forme di predominio e controllo
su società e popoli più deboli, influendo sulle loro ideologie e istituzioni.

Asserzioni marxiste:
1. Gli stati agiranno in modo da proteggere e promuovere gli interessi del capitalismo e della classe
capitalista
Ovvero che → gli stati moderni agiranno in modo da “mantenere il mondo un posto sicuro” per il capitalismo,
attraverso, per esempio, la difesa dei diritti di proprietà e la difesa delle istituzioni che sostengono il
capitalismo moderno.
Anche per i realisti gli stati agiscono in modo da favorire gli interessi economici dei loro paesi, ma il loro fine
è quello di perseguire i propri interessi nazionali, mentre per i marxisti gli stati agiscono per conto del
capitalismo.
La teoria marxista si distingue proprio per il modo in cui le imprese controllano lo stato:
Secondo i marxisti esistono:
- influenze capitaliste strutturali del capitalismo sulla politica estera→ ovvero come gli stati
implementano politiche che automaticamente favoriscono e proteggono gli interessi del capitalismo.
- Influenze capitalistiche strumentali del capitalismo sulla politica estera → attività di lobbying delle
imprese a influenzare le azioni degli stati → capitalisti ben organizzati per condizionare la politica
attraverso il denaro.

2. Le imprese transnazionali saranno un aspetto fondamentale della politica mondiale


Internazionalizzazione, che oggi è molto accelerato, e porta alla nascita di sempre più grandi multinazionali.
Con l’ascesa di quest’ultime i capitalisti tendono ad avere la meglio, al contrario dei lavoratori nel conflitto
di classe → perché i capitalisti sono in grado di collaborare per tutelare la propria ricchezza e mantenere le
loro posizioni di privilegio, costringendo i governi ad appoggiare le multinazionali se non vogliono essere
escluse dall’economia mondiale.
I lavoratori, dall’altra parte hanno molta più difficoltà ad organizzarsi internazionalmente.

Le relazioni internazionali porteranno i segni di questo conflitto di classe


- I lavoratori nazionali premeranno sui loro governi per ottenere tutele
- I capitalisti internazionalizzati faranno attività di lobbying per garantirsi un’economia mondiale
aperta.

→ l’economia non genera pace, ma conflitto, che, secondo i comunisti, un giorno verrà superato tramite la
rivoluzione comunista.
Alcuni pensavano che nel 1917 finalmente questa rivoluzione fosse arrivata → ma Urss finisce con istaurare
qualcosa di molto diverso dal comunismo, ovvero uno stato dispotico.

4. La tradizione costruttivista
Idea generale
È una prospettiva teorica che si concentra sul ruolo delle idee e sui modi in cui “ciò che la gente crede” plasma
le azioni di individui, gruppi e stati. → ciò che unifica le diverse visioni all’interno di questa categoria è la
concezione che idee e credenze possono essere rilevanti nel modo in cui gli attori definiscono e perseguono
i propri interessi.
→ le relazioni internazionali sono costruite socialmente.
Questo tipo di pensiero, secondo cui le idee contano, pone le sue radici in un’ampia tradizione filosofica nota
come idealismo.

Assunti del costruttivismo:


1. Gli interessi di individui, gruppi e stati non sono dati, né scolpiti nella pietra
→ gli interessi sono invece modellati dalle identità degli attori, ovvero il modo in cui gli uomini percepiscono
se stessi sa forma al modo in cui essi pensano ai propri interessi.
2. Le identità sono forgiate da una quantità di fattori ideazionali, come cultura, religione, scienza e
opinioni normative.
→ importante sottolineare che i costruttivisti non scontano del tutto il ruolo delle condizioni materiali degli
individui nella formazione della loro identità (agente di borsa e operaio).
Possiamo dire che l’identità sia un mix dell’interazione tra queste condizioni materiali e le idee così come si
evolvono nella testa di un individuo.

3. I componenti delle élite all’interno della società e dello stato sono gli attori più importanti.
Le idee e le identità possedute da tali élite tendono a modellare il modo in cui i gruppi e gli stati agiscono
all’interno del sistema internazionale. → è necessario osservare cosa i leader pensano e credono per piegare
le loro azioni.

4. La comunicazione gioca un ruolo significativo nella formazione e nel mutamento delle identità
Attraverso la comunicazione e il networking le elite tendono a produrre visioni del mondo collettive o
condivise che configurano il modo in cui i loro interessi sono definiti a perseguiti → sono tutti fattori che
danno forma al modo in cui gli attori pensano.

Asserzioni costruttiviste:
1. I costruttivisti sostengono che “il mondo è prima ciò che tu pensi esso sia”.
→ ovvero, se gli uomini possono essere convinti che il mondo sia guidato da criteri morali universali, essi
agiranno di conseguenza.
“l’anarchia è ciò che gli stati fanno di essa” → aperta sfida al realismo; il mondo è anarchico, ma ciò non
implica che le relazioni interstatali funzionino come previsto dalla teoria realista.
Diversi tipi di anarchia, alcuni decisamente utopici → MA attraverso l’apprendimento e la socializzazione,
secondo i costruttivisti, si può passare a forme di anarchia maggiormente orientate alla cooperazione.

2. Gli stati operano all’interno di una società civile globale


Società civile → ambito delle attività private che si svolgono al di fuori del sistema politico.
Società civile globale → somma di questi gruppi e attività transnazionali.
Queste reti sono strumenti importanti per la diffusione di norme e idee e per la creazione di fiducia tra i
paesi.

3. Il mutamento normativo è una modalità fondamentale attraverso la quale la politica mondiale si è


evoluta attraverso le epoche storiche.
Apprendimento e socializzazione → muovono il mondo in una direzione progressista

4. Le élite statali esistono all’interno e sono influenzate da culture strategiche


Cultura strategica → si riferisce agli assunti sulla natura del sistema globale e alle strategie condivise dalla
élite di governo.
Le differenze di cultura strategica fanno in modo che gli stati posseggano delle personalità peculiari in quanto
stati, anche quando si trovano in situazioni globali simili.
(esempio Gorbaciov e la fine dell’Urss).

5. La tradizione femminista
Idea generale
Il punto focale di questi studi è il ruolo di genere nella società e negli affari internazionali.

Assunti femministi:
Bananas, beaches, bases; making Feminist Sense of International Politics → opera di Cynthia Enloe
Il libro fornisce una vivida descrizione storica del mondo in cui le donne sono state subordinate agli uomini
in vari settori economici e istituzionali all’interno del sistema globale in espansione.
La Enloe parte dalla costatazione che il ruolo delle donne all’interno dell’economia mondiale è innanzitutto
quello di forza-lavoro subordinata e sottovalutata.
→ le potenze forze globalizzanti della politica mondiale sono rappresentate come fossero guidate da grandi
iniziative maschili → relegate sullo sfondo, ci sono le donne con ruoli di supporto, sottovalutanti e spesso
degradanti.

Il femminismo è simile al marxismo nell’importanza attribuita alle ineguaglianze strutturali che pervadono i
sistemi politici, economici e sociali.
Keohane esplicita la domanda posta dalla teoria femminista “in che modo valori specificamente maschili e
strutture sociali nelle quali si da priorità ai valori maschili, hanno influito sui concetti sviluppati nella società
internazionale?”
→ l’obiettivo della tradizione femminista è quello di rivelare il pregiudizio di genere che pervade la politica e
di offrire visioni alternative delle questioni globali partendo dal punto di vista dei deboli.

Due linee argomentative:


- Critica degli assunti sulla politica mondiale formatisi in una prospettiva esclusivamente maschile, che
sfida l’orientamento realista
- Affermazione che il preconcetto di genere ha sminuito i ruoli e le capacità delle donne nella condotta
reale delle relazioni internazionali.

Asserzioni femministe:
1. La lingua utilizzata ha un orientamento prettamente maschile e trasmette il velato messaggio che la
politica internazionale è “affare da uomini”.
Molti studiosi parlano di “uomini di stato” e di “uomini” nel senso di umanità → la lingua degli state e del
potere suggerisce che la politica internazionale è un ambiente da uomini → l’assunto nascosto è che la sfera
pubblica è un luogo maschile, mentre la sfera provata della famiglia e della vita domestica, un luogo
femminile.
Il discorso delle relazioni internazionali è diventato un sistema intellettuale chiuso con assunti radicati sulla
mascolinità del potere.

Se, come abbiamo detto, il mondo della politica è un mondo per lo più maschile, un approccio femminista
alle relazioni internazionali potrebbero invece porre l’accento su cooperazione, guadagni reciproci,
interdipendenza e comprensione degli aspetti sociali
Tickner esprime l’obiettivo femminista così “la maggior parte delle femministe è impegnata a raggiungere
l’obiettivo, significativo in termini di emancipazione di genere, di una società più giusta”.
Implicazione di questo obiettivo → Se alle donne sono offerte maggiori opportunità di detenere potere esse
lo faranno con specifiche priorità e sensibilità → studi antropologici dimostrano che i maschi e le femmine
hanno predisposizioni diverse alla violenza e all’ostilità, dovuta a differenze nei caratteri genetici.

Una seconda direttrice del ragionamento femminista → le donne sono state sistematicamente
sottorappresentate → osservazione che sebbene i rapporti tra i sessi siano diversi da paese a paese, essi
sono quasi sempre ineguali → Joan Scott sostiene che l’identità di genere sia stata un modo per le diverse
società di indicare relazioni di potere
→ la tesi è che le donne sono sottorappresentate nel mondo della ricerca accademica sulle relazioni
internazionali nei luoghi di potere politico.

Le femministe che si occupano del problema della diseguaglianza non sostengono che le donne sarebbero
delle migliori leader o che il mondo sarebbe un luogo più pacifico se fosse guidato da donne →
semplicemente sostengono che si tratti di una questione di giustizia e che si stia perdendo una opportunità
non attingendo appieno ai talenti e alle capacità di metà della specie umana.

Fukuyama → afferma che le donne siano più sensibili a una serie di valori sociali e che sarebbero più inclini
a cercare soluzioni pacifiche ai problemi del mondo.
Tickner, invece, sostiene la tesi che associa le donne a pace e superiorità morale ha l’effetto di escludere le
donne dalla posizione di potere.

Realisti liberali marxisti costruttivisti femministi


Attori Leader degli Persone e gruppi Classi Elite di governo e Identità di genere
stati all’interno della economiche sociali
società
Comportamento Favorire la Più inclini alla Diseguaglianza Modi in cui le Mettono in luce i
degli attori propria potenza cooperazione economica eelite all’interno e preconcetti e le
e i propri lotta di classe attraverso gli parzialità presenti
interessi stati comunicano nelle relazioni
fra di loro internazionali
Come agiscono? Politica Processi di Rivoluzione La diffusione Modi in cui l’identità
mondiale apprendimento come delle idee è il di genere può
modellata e sono una forza meccanismo meccanismo di influenzare la politica
modificata dalla per cambiare la maestro del cambiamento e gli attori
guerra politica mutamento internazionali
internazionale
Direzione della Concezione Immagine più Conflitto di Logica La storia è plasmata
storia ciclica della lineare classe porta la progressista del dall’identità di
storia storia a mutamento, genere e le
progredire meno certa dinamiche nella
rispetto ai liberali politica saranno
influenzate dal
rapporto tra i sessi.
Capitolo 4 - L’analisi della politica estera

Studioso di relazioni internazionali ≠ analista della politica estera


Il primo → è interessato alle interazioni tra due o più stati e in particolare al perché alcune interazioni sono
cooperative, altre competitive e altre ancora sfociano in conflitti.
Il secondo → mira a identificare i motivi per cui il governo di uno specifico stato decide di agire in un
determinato modo nei confronti di altri governi o attori non governativi.

Esempio → protocollo di Kyoto 1997


studioso di relazioni internazionali: interessato alle dinamiche internazionali che portano alla nascita di
questo protocollo; si domanda se l’accordo sia frutto di un’azione di forza da parte degli stati più potenti su
quelli più deboli, oppure un atto di persuasione, oppure ancora una richiesta da parte della comunità
scientifica.
Analista di politica estera: si concentra sulle decisioni dei singoli stati di aderirvi o no, ovvero si concentra su
un paese specifico.

Interessi della politica estera


Un governo sceglie una determinata politica estera perché questa persegue degli specifici interessi.
→ un interesse: è una situazione auspicata dai leader di un governo a tal punto da far sì che si sia disposti a
pagare un prezzo affinché si realizzi.
Gli interessi spesso esigono dei compromessi → la realizzazione di un interesse richiede la rinuncia di un
altro.
Esempio: → interesse USA alla diffusione della democrazia e dei diritti umani in tutto il mondo → spesso
però tali mire vengono messe in secondo piano rispetto a problematiche più urgenti come i cambiamenti
climatici, la crisi economica mondiale e i problemi di sicurezza (questo è successo per esempio con la Cina e
la Russia durante l’amministrazione Clinton nel 2009).

Strategia di politica estera:


con strategia di politica estera si intende la specificazione da parte dei leader di obiettivi e strumenti politici.
Possiamo distinguere due tipi di strumenti politici:
1. Strumenti di persuasione
Strumenti di questo tipo sono per esempio la diplomazia → processo per cui i rappresentanti di due o più
governi si incontrano per discutere problemi di interesse comune e cercano di persuadersi a vicenda con uno
sguardo rivolto a soluzioni condivisibili o a sviluppare meccanismi per ottenere vantaggi individuali attraverso
forme di azioni congiunte → di solito se ne occupano ambasciatori, uffici ministeriali o capi di stato.
Esempio → limitazioni delle attività nucleari da parte dell’Iran promosso da P5 e Germania.
Un altro tipo di strumento di persuasione è l’applicazione di incentivi economici → un paese A promette un
certo profitto economico al paese B a condizioni che questo faccia quello che A chiede.
Esempio → Germania ovest concesse aiuti economici a Urss per facilitare il suo riconoscimento di una
Germania unita.

2. Strumenti di coercizione
Questi strumenti possono essere: l’applicazione di sanzioni economiche → A minaccia B di una qualche
forma di perdita economica nel caso in cui B non adempia a qualcosa richiesto da A.
Queste sanzioni includono l’applicazione di dazi o quote sulle importazioni da parte di un dato paese.
Esempio → 2011/2012 Usa e Europa cominciano a boicottare l’acquisto di petrolio dall’Iran per incentivarlo
a limitare il suo armamento nucleare.
Un altro tipo di strumento è la propaganda, che consiste in un utilizzo selettivo dell’informazione o nella
disinformazione volta ad avanzare interessi politici.
Esempio → Germania nazista viene richiesto al ministro dell’istruzione di produrre documenti e manifesti che
glorificassero le conquiste tedesche e denigrassero gli avversari.
Un ultimo strumento di coercizione è l’utilizzo di operazioni segrete, ovvero attività che un governo dirige
contro gli interessi di un altro governo tenendo all’oscuro sia i paesi interessati che i paesi terzi.
Esempio → nel 2011 Usa assassina bin Laden e informarono il governo pachistano solo nel momento quando
l’operazione era stata conclusa → rottura diplomatica tra i due paesi

Gli stati possono ricorrere a strumenti di politica coercitiva che implicano l’uso in vario titolo di forze militari:
diplomazia coercitiva → azioni di breve durata che non coinvolgono immediatamente l’uso in larga scala di
forze militari
esempio → Cina, che ha pretese sul mare cinese meridionale attualmente in mano vietnamita. Il governo
vietnamita approva una legge che include una reiterazione delle sue rivendicazioni sui due arcipelaghi
principali della zona → Cina uso non violento della forza militare, ovvero mobilitazione dell’esercito nella
zona richiesta dal Vietnam.
L’uso diretto di forze militari → secondo lo stratega tedesco Clausewitz la guerra non è altro che l
continuazione della politica attraverso l’utilizzo di mezzi diversi.

Le fonti della politica estera


Da cosa scaturisce la politica estera o quali sono le fonti degli interessi e le strategie della politica estera?

Fonti di politica estera al livello di analisi individuale:


leader nazionali hanno un ruolo fondamentale nel definire la politica estera di un paese → capire le
convinzioni di questi leader è importante e utile, visto che probabilmente influenzano le loro decisioni.
Da cosa hanno origine queste convinzioni?
- è possibile considerare che i leader politici abbiano già delle personalità consolidate che derivano da
una varietà di fonti, come il corredo genetico o le esperienze della gioventù.
Esempio → l’identità raziale di Obama lo ha reso il primo presidente americano “globale”, sensibile a
dinamiche multietniche
- i leader possono sviluppare determinati principi anche in risposta a eventi vissuti o osservati
Esempio → Bush, nella gestione della guerra in Iraq, è stato influenzato dall’esperienza del Vietnam e ha
paragonato le aggressioni di Saddam Hussein contro i più deboli a quelle di Hitler.
- Secondo alcuni psicologi, i leader si comporterebbero come “avari cognitivi”, affidandosi a semplici
scorciatoie mentali invece di fare analisi dettagliate quando prendono delle decisioni.
Esempio → Bush: ha assunto che la crisi irachena fosse simile ad altre salienti crisi internazionali, motivo per
cui si è comportato in un determinato modo, piuttosto che in un altro.
Per rompere il ciclo di conflitti sono necessari nuovi leader con esperienze diverse o leader che evitino le
scorciatoie mentali e adoperino differenti supposizioni cognitive.

Fonti della politica estera al livello di analisi nazionale:


la politica estera di un paese può essere influenzata da istituzioni, dinamiche politiche e sociali…
→ per fare ordine distinguiamo due categorie diverse:
1. Istituzioni situate all’interno del governo nazionale
2. Istituzioni situate all’esterno del governo nazionale

Istituzioni e politica all’interno di governi nazionali


È importante distinguere tra governi democratici e governi non democratici → in generale i governi
democratici sono meno centralizzati e più accessibili alla società di quelli che hanno avuto luogo in governi
non democratici.
Esempio → Iraq entra in guerra contro una coalizione internazionale (1990-1), decisione dovuta in gran parte
alle preferenze di Saddam Hussein; GB e USA prima di entrare in guerra consultarono la popolazione e si
comportarono di conseguenza.

I leader nazionali non prendono decisioni da soli, ma devono consultarsi con organi che variano a seconda
della forma di governo → politica burocratica, che può influenzare gli interessi e le scelte strategiche di un
paese
Esempio → USA vs Cina
Negli USA la sezione dell’esecutivo includono diversi organi come ad esempio i dipartimenti di stato e della
difesa o la CIA, inoltre vi è un consigliere per la Sicurezza Nazionale che assiste i presidenti nel coordinamento
di questa grande macchina governativa → tutti questi organi si incontrano nel Consiglio di Sicurezza
Nazionale.
Durante tutto il processo i vari esponenti possono esprimere il loro disaccordo → queste differenze possono
essere causate da diverse esperienze di vita o di lavoro (di solito, però, vige la regola non scritta “quello che
pensi dipende dalla poltrona che occupi”).
Il presidente è un attore fondamentale nel processo politico, ma le burocrazie svolgono un ruolo altrettanto
fondamentale.
In Cina il potere decisionale sulle politiche estere è più concentrato → i decisori siedono nel Comitato
permanente dell’Ufficio Politico del Partito Comunista, che è il massimo organo esecutivo del paese. La Cina
ha un sistema mono partitico, ma le diverse correnti all’interno del Partito Comunista competono per il
potere in generale e in particolare per le decisioni di politica estera. Le due fazioni sono i “riformisti” e i
“conservatori” → 2012 importante transizione politica in Cina, nuovo leader XI Jinping appartenente a una
fazione più rivoluzionaria e questo lascia presagire un cambio di politica estera nei confronti del mondo
occidentale che potrebbe diventare più aperta, passando attraverso una liberalizzazione economica.

Dinamiche tra esecutivo e legislativo


Nelle democrazie i leader dell’esecutivo devono ottenere cooperazione, approvazione o almeno consenso
dall’apparato legislativo per poter agire
Esempio → il congresso americano ha molte possibilità di limitare il potere presidenziale nel caso in cui non
si trovi d’accordo con le sue decisioni (Trattato di Versailles e la nascita della Società delle Nazioni + ratifica
del SALT II).

Fonti di politica all’esterno del governo nazionale


1. Opinione pubblica ed elezioni
L’opinione pubblica e le elezioni possono giocare un ruolo importante nella formazione della politica estera.
Esempio → caso della guerra in Siria. Uno studio ha stimato che il 72% degli europei preferiva che L’Europa
non entrasse nel conflitto civile, opinione espressa anche dalla maggioranza statunitense (62%) → da ciò
deriva il fatto che entrambi i governi sono stati riluttanti a intervenire.
La differenza tra i due popoli però è evidente:
gli americani, al contrario degli europei, non votano solo sulla base delle questioni nazionali, ma anche di
quelle di politica estera, che è oggetto frequente nelle campagne elettorali americane → il 68% degli
americani, contro il 31% degli europei, è d’accordo con l’affermazione che la guerra sia necessaria per
ottenere giustizia.
Uno studio dimostra che gli americani decidono se è opportuno intervenire o meno in una guerra in base
all’andamento della guerra stessa, mentre invece gli europei sono più sensibili al tema della perdita di vite
umane.
C’è anche da considerare il fatto che la vittoria in una guerra spesso incrementa la popolarità di un presidente
americano → genera il cosiddetto “rally around the flag” (avvenuto per esempio con l’uccisione di Saddam
Hussein) → non è strano pensare che un presidente enfatizzi la presenza di un determinato conflitto,
soprattutto alla vigilia delle elezioni, per deviare l’attenzione da altri problemi e assicurandosi una buona
percentuale di voti.

2. I mezzi d’informazione della politica estera


I mezzi di informazione in politica estera sono quegli individui e organizzazioni che documentano o
commentano gli sviluppi esteri sui giornali, in televisione e attraverso internet.
→ le informazioni non sono neutrali, ma è possibile influenzare indirettamente i leader nazionali e la
popolazione → questo processo si chiama framing, tale processo può aiutare a plasmare l’opinione pubblica
(è stato fatto uno studio a riguardo)
I mezzi d’informazione giocano un ruolo più determinante nei paesi democratici che in quelli autocratici dove
questi mezzi subiscono grandi restrizioni. → gli sviluppi tecnologici tuttavia rendono questo controllo sempre
più difficile → l’opinione pubblica online sta diventando una forza che comincia a influenzare la politica estera
3. Gruppi di interesse
Un gruppo di interesse consiste in individui ed organizzazioni che condividono preoccupazioni di tipo politico,
tendono ad essere più prominenti nei paesi democratici, dove la libertà di espressione e di associazioni sono
garantite per legge.
In molti casi è la posizione geografica a determinare le preferenze dei gruppi d’interesse.
Esempio → Cina in cui le corporazioni che lavorano nelle aree costiere, dove sono collocate le fabbriche che
lavorano nell’export sostengono l’integrazione della Cina nell’economia mondiale, mentre le imprese a
capitale pubblico, con sede nell’entroterra sono nettamente più scettiche rispetto al processo di integrazione
globale.

I gruppi di interesse usano una varietà di mezzi per cercare di influenzare o leader nazionali e il pubblico,
come per esempio il finanziamento ai partiti, organizzazioni di campagne e petizioni…
È però difficile comprendere se l’azione di questi gruppi abbia effettivamente potere o meno, non possiamo
sapere come si sarebbe comportato un certo leader politico in una determinata situazione se non ci fossero
state pressioni da parte dei gruppi.

Fonti della politica estera al livello di analisi internazionale


Tre fattori contribuiscono a determinare come i leader decidono gli interessi e le strategie di un paese:
1. La geografia del paese
2. Lo sviluppo economico relativo
3. Le potenzialità in termini di potere relativo

La geografia
È molto probabile che le caratteristiche geografiche di un paese influenzino il modo di pensare dei propri
leader rispetto a interessi e strategia.
Esempio → GB sviluppò la propria forza navale mentre cercava di mantenere in equilibrio la potenza relativa
degli altri stati del continente. Dall’altra parte gli USA non si sono interessati degli affari europei per molto
tempo in quanto li sentivano lontani, proprio dal punto di vista geografico.
I paesi confinanti contribuiscono inevitabilmente alla formazione della politica estera.
Esempio → la politica estera è fortemente influenzata dal fatto che il paese si trovi in prossimità di quegli
stati che gli israeliani percepiscono come nemici.

Il livello relativo di sviluppo economico


La ricchezza relativa di ciascun paese può influenzare come esso definisce interessi e strategie → i paesi con
le economie più grandi e dinamiche hanno avuto la possibilità di tradurre le loro ricchezze in potere militare
ed esercitare un’influenza considerevole negli affari globali
Esempio → GB e Germania all’inizio del XIX secolo e Cina all’inizio del XXI secolo → importante sottolineare
come in Cina il progresso economico e industriale sia arrivato più tardi e di conseguenza non credono di
essere ancora nella posizione di potersi mettere alti standard di protezione ambientale.

La potenza nazionale relativa


La potenza relativa di un paese condizione gli interessi, gli obiettivi e le politiche per perseguirli. → determina
la capacità di influenza internazionale.
Questa potenza relativa è funzione di molti fattori come la demografia, l’espansione territoriale e le risorse
naturali, il livello di educazione…
I leader dei paesi più potenti spesso credono, in assenza di un effettivo governo internazionale, di avere una
speciale responsabilità di gestire e contribuire all’ordine internazionale esistente.
Come e perché gli stati cambiano la loro politica estera

Condizioni del cambiamento della politica estera al livello di analisi individuale


Vi sono almeno due meccanismi che operano al livello di analisi individuale per determinare sostanziali
cambiamenti della politica estera:
- Acquisizione di conoscenze da parte dei leader nazionali che genera cambiamenti
- L’impatto che il cambiamento dei leader stessi può avere sulle politiche

Cambiamento in politica estera e il learning dei leader


Costruttivismo → leader possono cambiare la loro percezione della politica mondiale e delle circostanze del
proprio paese nel sistema internazionale come risultato delle proprie esperienze in politica estera o di quelle
dei loro predecessori
Esempio → prima della Grande Depressione, sistema economico laissez-faire → all’inizio della crisi i governi
avevano pochissimo meccanismi di cooperazione internazionale per affrontare il collasso della domanda
interna, questa situazione veniva affrontata implementando politiche tese a impoverire gli stati.
La grande depressione marcò un grande cambiamento → i governi continuarono a permettere libere
operazioni di mercato, MA impararono che esisteva anche la necessità si intervenire attraverso politiche
fiscali e monetarie a livello nazionale per mitigare lo shock all’economia.

Il processo di apprendimento che segue a politiche fallimentari → serve a capire perché USA alla fine della
Seconda guerra mondiale abbiano modificato la loro posizione da neutralità a internazionalismo.
Roosevelt → capisce che ciò che ha permesso la nascita di regimi dittatoriali nell’Europa degli anni 20-30 è
stato il fallimento di Wilson nella creazione e adesione alla società delle nazioni e la conseguente politica
isolazionistica dell’America. (→ ha messo in pericolo USA con II ww)
Di conseguenza, per perseguire i propri obiettivi di sicurezza nazionale → cambio di politica da neutralità a
internazionalismo. → questo ragionamento fece si che la proposta internazionalista di Roosevelt risultasse
più credibile agli occhi del sistema politico degli USA.

I leader politici possono poi cambiare idea riguardo agli interessi e le strategie dei propri paesi.
Esempio → Gorbaciov mutò la sua prospettiva sulla politica estera attraverso quello che venne chiamato il
nuovo pensiero (1988), anche se prima (1985) sembrava accettare le idee marxiste.
Questo avvenne dopo l’incontro con i decisori di paesi esteri, come ad esempio il segretario di stato
americano Schultz → questo perché spesso l’esperienza e le interazioni che i leader hanno con i leader o
funzionari degli altri paesi possono cambiare le loro idee circa l situazione del proprio paese e delle opzioni
strategiche.

Questi due esempi possono farci pensare che i responsabili delle politiche imparino le giuste lezioni dalla
storia e poi operino i giusti cambiamenti dal punto di vista dei propri interessi.
Tuttavia, spesso le lezioni che i leader imparano non conducono successivamente a progressi
Esempio → i leader belga capirono che durante la I ww la loro neutralità li aveva esposti all’invasione tedesca
→ la politica che seguì a questa presa di coscienza, ovvero un’alleanza militare con la Francia, non impedì
alla Germania di sconfiggere e occupare nuovamente il Belgio nel 1940.

Il turnover dei leader


I cambiamenti di leadership possono essere alla base di cambiamenti in politica estera
Esempio → Stalin e Brezhnev usarono il pugno di ferro per controllare l’Europa dell’est (Ungheria 1956 e
Cecoslovacchia 1968) → Gorbaciov ribaltò interamente questo corso politico, accettando la perdita della
Polonia, dell’Ungheria e di altri paesi.

Fonti di cambiamento in politica estera al livello di analisi dello stato nazionale


Due meccanismi che hanno origini e operano in larga parte al livello di analisi statale hanno la capacità di
indurre cambiamenti sostanziali nella politica estera di un paese
- Sensibili cambiamenti della politica estera del regime politico
- Sforzi politici di organizzazioni non governative

Cambiamenti interni di un regime e mutamenti nella politica estera


Per cambiamenti interni intendiamo ad esempio il mutamento del regime politico
Esempio → Germania inizio XX secolo aveva un regime politico diretto dal Kaiser e questo portò a dar inizio
alla I ww con la conseguente perdita e la punizione del trattato di Versailles.
1919 Germania si da una costituzione democratica → Repubblica di Weimar che voleva che la Germania
fosse libera dalle forze straniere e auspicavano a una riduzione dei risarcimenti di guerra, tutto ciò era portato
avanti pacificamente.
1933 → regime Nazista, inversione delle politiche della RW, rovescio degli accordi di Versailles e
scatenamento della II ww.
1945 → Germania occidentale opta per una politica di moderazione e integrazione (alleanza con USA e
entrata nella NATO).
Il caso tedesco è esplicativo del fatto che quello che uno stato fa all’estero è con molta probabilità influenzato
dalla sua organizzazione in patria.

Organizzazioni non governative e cambiamento nella politica estera


Costruttivisti → sostengono che le ONG abbiano avuto successo nell’influenzare non solo la politica interna,
ma anche quella internazionale.
È dimostrato che delle ONG attive a livello internazionale siano state in grado di far cambiare idea ai
responsabili delle politiche estere.
Esempio → uno studio dimostra che delle reti di network che collegano gruppi attivisti internazionali e
domestici legati ad Amnesty International e a School of Americas Watch hanno contribuito a che il governo
statunitense prendesse più seriamente gli abusi sui diritti umani in America Latina (Messico e Argentina)
durante gli anni 70, 80 e primi anni 90.

Fonti di cambiamento in politica estera al livello di analisi internazionale


I fattori collegabili al livello di analisi internazionale possono generare cambiamenti alla politica estera

Traumi esterni
Le comunità nazionali possono essere scosse nelle loro idee riguardo la politica estera da gravi traumi esterni.
Esempio → attacco giapponese del 1941 a Pearl Harbour, discreditò completamente la posizione isolazionista
americana e aprì la strada a una importante presa di posizione a livello internazionale da parte degli USA.

Cambiamenti nel potere relativo


Esempio → Il cambiamento del potere relativo degli USA (occupazione di una posizione molto più importante
nel sistema internazionale) durante e dopo la II ww cambiò anche le relative concezioni di interesse e
strategia (si concentrarono molto sull’Europa)
Francia e GB, ad esempio, fecero l’opposto, ovvero mantennero responsabilità internazionali normalmente
associate a paesi più potenti nel sistema anche dopo che le loro posizioni di potere relativo erano
sensibilmente diminuite.
Capitolo 5 - La guerra tra Stati

I tipi di conflitto militare tra stati


1. La guerra inter-statale → ha luogo quando due o più governi nazionali utilizzano la forza l’uno contro
l’altro in scontri organizzati, ripetuti e altamente letali.
Secondo il COW (Correlates of War – un programma pioneristico di raccolta dati su diversi tipi di violenza
armata all’interno degli e tra gli stati), le guerre inter-statali sono quegli scontri organizzati tra le forze militari
di paesi diversi che comportino almeno 1000 caduti in combattimento nell’arco di 12 mesi.

All’interno di questa categoria troviamo dei sottoinsiemi:


- Le guerre generalizzate → guerre che coinvolsero molte, se non tutte le grandi potenze delle
rispettive epoche storiche
Esempio → la guerra dei 30 anni, le guerre contro la Francia di Napoleone
- Le guerre egemoniche → guerre che determinarono con il loro esito quali stati avrebbero avuto
un’influenza predominante nel sistema internazionale per anni e perfino i decenni a venire.
Esempio → le guerre napoleoniche
- Guerra totale → i governi che e presero parte cercarono di mobilitare quante più risorse umane ed
economiche possibili e avevano l’obiettivo di indebolire o uccidere sistematicamente la popolazione
civile dei loro nemici.
Esempio → prima e Seconda guerra mondiale
A partire dal 1945 non c’è più stata alcuna guerra totale tra gli stati più potenti (a eccezione della Guerra di
Corea 1950-53, Urss vs Cina 1969).
Ragioni per l’assenza di guerre totali:
- Esistenza di armi nucleari
- Giappone e Germania, sotto la guida di governi dittatoriali furono molto aggressivi, mentre dopo la
II ww divennero democrazie consolidate (è improbabile che democrazie si facciano la guerra a
vicenda)
- Durante la Guerra Fredda era improbabile che questi stati si dichiarassero guera, poiché per tutti
erano necessario cooperare al fine di opporsi all’Urss.

Inoltre, in questa categoria rientrano anche le guerre limitate → guerra minore in cui le grandi potenze
evitano di combattersi direttamente, al contrario di quanto accade in una grande guerra o guerra
generalizzata.

2. Dispute inter-statali militarizzate (DIM) → conflitto internazionale in cui gli stati cercano di avere la
meglio in una controversia attraverso la coercizione con mezzi militari.
Il concetto di DIM comprende un’ampia gamma di azioni statali:
- Minaccia di utilizzo della forza militare da parte di uno stato contro un altro stato
- Dimostrazione della potenza militare
- Utilizzo reale della forza contro un avversario → ciò comprende a sua volta l’uso della forza per
conquistare territori, dichiarazione di guerra, impiego di scontri violenti con il nemico al di sotto del
1000 morti
Esempio di DIM → 2012 annuncio della Cina del dispiegamento di guardacoste equipaggiate per il
combattimento e lo stanziamento di truppe nella struttura amministrativa delle isole Paracel, in risposta alle
rivendicazioni del parlamento vietnamita sul Mar Cinese Meridionale.
3. Guerre extra-statale → si tratta di uno scontro violento tra il governo nazionale di uno Stato
riconosciuto dalla comunità Internazionale e un ente all’interno di un territorio straniero che non
costituisce uno Stato riconosciuto internazionalmente, oppure è un attore non statale con sede in
un altro Stato.
Esempio → imperialismo europeo in Africa, così come guerre le guerre di indipendenza intraprese da colonie
come l’Algeria e il Vietnam.

I conflitti internazionali hanno spesso sia una dimensione inter-statale sia una extra-statale.
Esempio →tra il 2001 e il 2002 ebbero luogo due guerre contemporanee: una USA contro al-Qaeda, che fu
una guerra extra-territoriale e l’altra tra USA e l’Afghanistan dei Talebani, che fu una guerra inter-statale.
Inoltre, i Talebani cominciarono una rivolta contro il nuovo governo di Kabul istaurato dagli USA → risultato:
GB, USA e diversi altri paesi si sono impegnati in una guerra extra-statale contro una minaccia talebana in
Afghanistan e in Pakistan.
Analogamente, la guerra in Iraq (marzo 2003) cominciò come un conflitto inter-statale, ma ben presto si
sviluppò una guerra extra-statale.

Frequenza dei conflitti militari internazionale


Le guerre inter-statali

Colonna= numero medio per anno di guerre di intensità superiore a quella definita dalla soglia del COW che
hanno avuto inizio nel periodo indicato-
Valore tra parentesi= numero complessivo di guerre iniziate nel relativo periodo.

→ ne consegue che tra il 1816 e il 2007 sono state combattute 95 guerre inter-statali → nella storia
contemporanea crescita nella frequenza delle guerre inter-statali (da una media di 0,2 guerre all’anno tra il
1816 e il 1849, si passa a 0,7 tra il 1950 e il 1999).
Tuttavia, questo dato è calato negli anni recenti, arrivando a una media di 0,25 guerre all’anno.

Ultime due colonne → calo tra i due periodi (da >0,6 a <0,6)
Se questa tendenza fosse confermata (per farlo bisognerebbe analizzare un periodo superiore ai due secoli)
metterebbe in dubbio l’affermazione per cui la guerra è necessariamente una caratteristica costante delle
relazioni internazionali.

Secondo tipo di conflitto: i DIM

Il dataset compilato dal COW contiene 2.586 casi di DIM tra il 1816 e il 2010. Il pattern dei DIM è più
complicato: sebbene non si registri una diminuzione della frequenza dopo la fine della guerra fredda, il livello
medio di violenza dei DIM si è forse attenuato un poco nell’ultimo periodo.
Analisi del grafico:
si è verificata una crescita di lungo periodo nel numero medio di DIM iniziati per anno tra il 1816 e il 1999 (4
nella prima metà del XIX secolo, 10 nella prima metà del XX secolo, fino a 28 tra il 1950 e il 1999) → negli
ultimi anni è rimasto grosso modo allo stesso livello dei precedenti 50 anni.
Almeno fino ad or, si può dedurre che nell’epoca post guerra fredda i DIM si sono confermati come una
caratteristica costante delle relazioni internazionale.

→ È importante sottolineare come però la gravità degli scontri sia andata diminuendo nell’epoca post guerra
fredda.
Questa affermazione è esplorata nei seguenti grafici:

Il primo grafico a torta rappresenta la percentuale dei 477 DIM registrati tra il 1990 e il 1945 che hanno
assunto la forma di: semplici minacce, azioni più gravi delle minacce e massimo livello di ostilità (utilizzo reale
della forza tra gli stati, compresi scontri violenti al di sotto della soglia di guerra).

Il secondo grafico a torta dimostra che durante gli ani della guerra fredda su un numero di 1150 DIM, la
percentuale dei casi più gravi è maggiore rispetto al primo grafico.

Infine, il terzo grafico dimostra che durante i primi venti anni del periodo post guerra fredda su 598 DIM, solo
il 59% ha implicato l’uso della forza → percentuale molto inferiore rispetto agli altri due grafici.

Le guerre extra-statali

Questo grafico mostra che la frequenza con cui gli stati hanno lanciato guerre extra-statali tra il 1816 e il
2007. In totale sono state combattute 162 guerre di questo tipo.
Si nota come la traiettoria storica delle guerre extra-statali è abbastanza diversa da quella delle altre due
categorie esaminate → riflette l’esplosione dell’imperialismo ottocentesco (picco metà XIX secolo – calo nel
secolo successivo).

La letalità delle guerre internazionali


Il progetto COW non riporta il dato sui caduti in battaglia per ciascun DI, ma esistono delle stime ragionevoli
per le vittime delle guerre inter- ed extra-statali.
Le 95 guerre inter-statali combattute tra il 1816 e il 2007 causarono almeno 32 milioni di vittime (8 milioni I
ww, 16 milioni II ww, 2,1 milioni), nello stesso periodo le guerre extra-statali portarono circa 2,1 milioni di
vittime tra i combattenti.

La letalità delle guerre inter-statali è cresciuta


drasticamente nel corso del tempo.
Fattori:
- Armi sempre più potenti
- Industrializzazione (produzione su larga scala delle
armi
- Maggiore capacità dei governi di mobilitare la
popolazione e mantenere eserciti sempre più
grandi.

Le guerre extra-statali hanno fatto più vittime nel XX


secolo rispetto a quello precedente.
Le guerre di decolonizzazione sono state
particolarmente sanguinose, mentre invece con al
fine della guerra fredda sembra che la letalità delle
guerre extra-statali sia andata calando.
Questo tipo di guerra causa un gran numero di vittime
anche tra i civili→ nel XX secolo 50 milioni di morti tra
civili

Le cause immediate della guerra


- Conflitti di interesse che implicano una scarsità di risorse economiche hanno giocato un ruolo molto
importate nel fomentare la violenza militarizzata tra gli stati.
Esempio → contesa tra Israele e i suoi vicini arabi per le risorse idriche ha contribuito a porre le basi per una
delle principali guerre arabo-israeliane (1967).
- Dispute economiche basate sull’energia hanno portato a conflitti militarizzati.
Esempio → Cina in controversia per il controllo delle risorse petrolifere nel mar Cinese Meridionale. + Saddam
Hussein giustificò l’invasione del Kuwait (1990) convincendo che le compagnie petrolifere stessero
utilizzando perforazioni orizzontali per rubare il petrolio iracheno.
- Contrasti in termini di policy possono produrre conflitti di interesse tra stati in grado di combattersi
militarmente.
Esempio → settembre 2007 gli aerei dell’aviazione israeliana distrussero quello che credevano essere un
reattore nucleare siriano, partendo dal presupposto che i leader politici israeliani lo intendessero utilizzare
per costruire armi nucleari → ciò produsse una disputa inter-statale militarizzata. Non diventò una guerra
inter-statale perché la Siria decise di non innescare un’escalation attaccando a sua volta Israele.
- Conflitto di interessi dovuto al contrasto in merito ai rispettivi regimi politici
- Questioni di identità etnica possono essere causa di profondi conflitti di interesse.
Esempio → 1999 NATO attacca Serbia → questo perché l’etnia albanese, predominante sul territorio,
premeva per ottenere una maggiore autonomia di governo + i civili kosovari di etnia albanese vennero
attaccati dal governo di Milosevic.
NATO interviene per evitare una “pulizia etnica” → questo intervento portò il Kosovo a dichiarare la sua
indipendenza dalla Serbia ed oggi è amministrata dalle Nazioni Unite.
- I conflitti di interesse nascono anche per questioni territoriali e questi sono potenzialmente molto
pericolosi perché possono essere cause di guerre.
Questo avviene per diverse ragioni come, ad esempio, il fatto che i territori oggetto di contesa potrebbero
essere ricchi di risorse economiche, oppure una regione di confine potrebbe avere un’elevata importanza
militare.
Esempio → Israele conquista le alture di Golan strappandole alla Siria (1967) ed è contraria a restituirle
perché le utilizza per monitorare le attività militari siriane.
- Inoltre, nel caso in cui i paesi siano confinanti e contengano popolazione con caratteristiche etniche
simili, una delle due parti potrebbe essere tentata di andare in guerra per “unire le nazioni” in un
unico stato sovrano.
Esempio → decolonizzazione nelle prime fasi della guerra fredda (i casi delle due Coree, dei due Vietnam e
di Taiwan con la repubblica popolare cinese.)

Cause profonde della guerra: il livello di analisi individuale


Gli individui devono essere al centro dello studio delle cause della guerra → i leader politici sono gli attori
che in ultima istanza prendono la decisione di andare in guerra oppure no.

La teoria realista si fonda sull’assunto che sia possibile comprendere molto del comportamento e
dell’interazione tra gli Stati se li consideriamo come attori unitari → si può assumere che i capi di governo
reagiscano più alle circostanze internazionali che alle loro caratteristiche personali. Inoltre, gli stati vengono
percepiti come razionali, ovvero in grado di percepire correttamente le circostanze internazionali e che siano
in grado di ricercare e valutare con attenzione tutte le opzioni possibili.
Prendiamo in esame filoni della letteratura, che tra loro sono diversi, ma hanno come punto in comune il
netto rifiuto della prospettiva realista.

Tesi di Holsti: Holsti è un politologo che nel 1972 scrive un’opera nella quale analizza il possibile legame tra
stress, alterazione del processo decisionale e la decisione di andare in guerra.
La sua argomentazione: durante la crisi diplomatica del luglio-agosto del 1914 vi fu un drastico aumento nelle
comunicazioni tra GB, Fr, G e Russia. Questo incremento ha contribuito a innalzare il livello di stress tra i capi
di stato di quei paesi. Questo stress li ha portati a ritenere che il tempo giocasse a loro sfavore e che con il
passare dei giorni la gamma di azioni disponibili andasse restringendosi, mentre quella dei propri avversari
aumentasse → risultato: la responsabilità di porre rimedio a questa crisi non fosse loro, ma degli altri, poiché
nessuno agì in tal senso, scoppiò la guerra.

Lo stress non è l’unica fonte di errate percezioni → gli psicologi cognitivi hanno anche individuato la tendenza
di alcune persone ad avere bias motivati, ovvero convinzioni che nascono dal fatto che gli individui
promuovono o proteggono alcuni interessi, desideri o preferenze. Questi possono limitare la capacità del
decisore politico di modificare le proprie convinzioni.
Esempio → crisi anglo-tedesca del 1906. I diplomatici tedeschi, che avevano inizialmente cercato lo scontro,
furono riluttanti a cambiare la loro posizione anche quando la guerra svolgeva a loro sfavore. Diversa
concezione avevano quei funzionari che non erano stati impegnati nella politica che aveva portato alla crisi.

Tesi del pensiero di gruppo: questa tesi è stata elaborata da Janis nel 1982 e suggerisce che una necessità
psicologica degli individui di essere accettati e apprezzati dai colleghi internazionali possa indurre i leader a
gravi errori di analisi.
Esempio → aprile 1961 Kennedy decide di portare a compimento il piano della CIA di attaccare Cuba a partire
dalla Baia dei Porci, che poi si rivelò essere un disastro. Diversi alti consigli del presidente nutrivano riserve
sull’operazione, ma non hanno detto niente → dalla prospettiva del pensiero di gruppo questo silenzio è
spiegabile alla luce del fatto che la maggioranza accettava l’operazione e quindi gli scettici, per non perdere
il proprio posto nell’elite, rimasero zitti.

Studio di Kramer: questo studio suggerisce che il fallimento della baia dei Porci non sia dovuto tanto al
pensiero di gruppo, ma più al calcolo politico effettuato da Kennedy, che se avesse annullato un’operazione
già approvata dalla vecchia presidenza, avrebbe subito un duro colpo alla propria reputazione.
Eccesso di ottimismo:
Gli studiosi hanno identificato tre motivi per cui i decisori politici potrebbero essere eccessivamente ottimisti
nello stimare il potenziale della propria forza militare.
1. Illusioni positive → quello che riteniamo di poter conseguire è spesso superiore rispetto a quello che
potremmo aspettarci di ottenere se avessimo un quadro accurato delle nostre reali capacità.
Gli individui potrebbero essere propensi alle illusioni positive perché queste creano fiducia in se
stessi, cosa che porta a combattere con maggiore forza. Inoltre, le caratteristiche che rendono una
persona un leader carismatico, potrebbero essere le stesse che la rendono incline ad avere illusioni
positive
2. È possibile che un incremento repentino nella potenza militare di un paese possa rendere i leader di
quello stato più propensi alla guerra.
Esempio → il successo dei test nucleari compiuti dal Pakistan nel maggio del 1998, potrebbero averli
convinti ad utilizzare la forza contro l’India nella seconda metà dell’anno.
3. Teoria internazionale femminista e lo studio di Johnson dicono che i maschi hanno una maggiore
propensione all’eccesso di autostima e questo può averli condotti a ricorrere alla guerra per vincere
il gioco (esperimento di Johnson)

In conclusione, contrariamente alla prospettiva realista, la ricerca ha mostrato come un’ampia gamma di
fattori di primo livello (errate percezioni, pensiero di gruppo…) possa contribuire a incrementare il rischio di
guerra.

Cause profonde della guerra: il livello di analisi statale


Sempre contrariamente alla posizione realista, che percepisce gli stati come una sola unità, analizziamo quali
sono i fattori interni allo stato che possono contribuire allo scoppio della guerra.

Il sistema economico interno e la guerra.


La tradizione marxista dice che la struttura economica di un paese può determinare la propensione di questo
all’uso o meno della forza per risolvere i conflitti.
Differenza tra sistema capitalista e sistema socialista:
- Sistema capitalista → i consumatori, le imprese e i lavoratori interagiscono all’interno di mercati
regolati → determinazione di quali beni e quali servizi un paese produce, salari dei lavoratori, i
consumi della popolazione, allocazione delle risorse.
- Sistema socialista → il governo gioca un ruolo centrale nell’organizzazione sia dell’offerta dei fattori
di produzione, sia della quantità dei beni e dei prodotti di tale industria.
Lenin riteneva che la prima guerra mondiale fosse stata causata dalle economie capitalistiche degli stati
europei, i quali sottopagavano i propri lavoratori e per far fronte al conseguente calo della domanda interna,
cercavano nelle colonie nuovi mercati → risultato: farsi la guerra uno con l’altro.
Lavori più recenti dicono, invece, che paesi con economie capitaliste tendono a rimanere in pace tra di loro,
perché preferiscono mantenere un sistema commerciale relativamente aperto, non interessandosi delle
questioni territoriali, proprio perché la prosperità economica non dipende da quanti territori si ha.

Le istituzioni politiche interne e i processi governativi.


Sfida alla visione realista → “teoria della pace democratica” portata avanti dalla tradizione liberale.
Esistono due ordini di cause per la pace democratica, il primo concerne i vincoli istituzionali e il secondo quelli
normativi.
Vincoli istituzionali: freni posti dalle costituzioni o dal diritto consuetudinario all’interno di un paese che
impediscono, rallentano o limitano la capacità di un leader di prendere unilateralmente un dato corso di
azione.
→ differenza tra regimi autocratici e stati democratici. I primi possono usare la coercizione per far cadere il
prezzo della guerra sui cittadini, senza che questi possano fare niente, mentre i cittadini delle democrazie
fanno di tutto per impedire ai leader internazionali di andare in guerra, per evitare che il prezzo di
quest’ultima ricada sulle generazioni future.
I vincoli normativi: sono credenze, valori e atteggiamenti che danno forma e plasmano il comportamento dei
governanti. Questi vincoli ai leader democratici possono dare alle democrazie spazio e tempo politico per
risolvere le proprie dispute.
→ questo porta leader democratici e leader autoritari ad avere caratteristiche completamente diverse e sarà
più facile per un leader democratico risolvere le proprie controversie con un altro leader democratico
piuttosto che con uno autoritario.

Eisenhower nel 1961 mise in guardia gli stati dal complesso militare-industriale → combinazione di
un’ingente burocrazia militare e un’influente rete di industrie della difesa, unite per conseguire un’influenza
spropositata sulla politica di sicurezza nazionale.
Il sociologo Lasswell aveva espresso un ammonimento analogo quando osservò l’emergere di quello che
chiamò “stato caserma” → stato altamente militarizzato in cui il governo controlla la vita economica, sociale
e politica al fine di massimizzare il potere militare.
(entrambe le osservazioni erano riferite agli Stati Uniti).

La tesi della pace democratica è convincente, tuttavia dovremmo tenere a mente 3 motivi di cautela:
1. Se è vero che le democrazie non si fanno guerra tra loro, è altrettanto vero che si lasciano coinvolgere
in conflitti militarizzati con stati non democratici.
2. Non c’è ancora consenso sul motivo per cui la pace democratica, realmente, si realizzi.
3. Anche nelle democrazie i funzionari politici alle dipendenze dei leader nazionali potranno
fraintendere le direttive che vengono dall’alto e di fatto cominciare a perseguire qualcosa di simile a
una propria politica estera.

In conclusione, possiamo dire che i sistemi economici e politici dei singoli paesi giocano un ruolo importante
nel farli propendere verso la guerra o la pace nel caso di gravi conflitti di interesse.

Cause profonde della guerra: il livello di analisi internazionale


L’anarchia internazionale può fungere da causa permissiva della guerra → ovvero può permettere a fattori
situati a livelli di analisi differenti di indurre gli stati a farsi la guerra.
Può anche fungere da causa attiva della guerra.

L’anarchia come condizione permissiva della guerra


L’anarchia internazionale non può essere considerata come causa unica della guerra internazionale, anche
perché se così fosse avremmo assistito ad un numero molto più maggiore di conflitti.
L’anarchia internazionale però può liberare fattori che spingono gli stati verso la guerra a livello individuale
e statale. Esistono organi, come le Nazioni Unite, che possono fungere da importanti strumenti per la
risoluzione diplomatica dei conflitti, ma ovviamente non bastano → il rischio di una guerra grava tutto sui
leader internazionali.

L’anarchia come detonatore del conflitto internazionale


Motivi per cui l’anarchia internazionale può indurre gli stati a entrare in guerra:
Problema delle informazioni private → tendenza degli stati a ingigantire la propria determinazione e le
proprie capacità durante una crisi diplomatica o militare, poiché manca un’autorità internazionale che possa
costringerli a rivelare le loro vere preferenze, intenzioni e capacità. Questa tendenza può rendere più difficile
giungere a una soluzione diplomatica e quindi rende la guerra più probabile.
Esempio → Saddam Hussein, dopo la sconfitta nella Guerra del Golfo del 1991, cercò di mantenere il potere
facendo credere di avere un programma per l’acquisizione di armi nucleari. In realtà egli aveva abbandonato
qualsiasi velleità di sviluppare una capacità nucleare già negli anni 90. Alla fine della crisi del 2002-2003 il
governo di Baghdad cercò di segnalare che non aveva alcun programma nucleare, ma a quel punto era troppo
tardi perché il resto della comunità internazionale era convinta che stesse mentendo.
Problema dell’impegno → paura di uno stato che qualsiasi accordo diplomatico venga raggiunto con un
avversario per scongiurare una guerra possa essere violato in futuro, quando l’avversario sarà nella
condizione di essere più letale ed esigente. Il problema dell’impegno è dovuto all’anarchia internazionale.
Esempio → è abbastanza probabile che i leader americani e i loro alleati tra il 2002 e il 2003 avessero
semplicemente smesso di credere ad Hussein. → senza questa fiducia, o capacità di garantire il rispetto degli
accordi, agli USA e ai leader alleati sembrò preferibile invadere l’Iraq e rimuovere Hussein una volta per tutte.

Il dilemma del prigioniero → applicazione al caso di Usa e Iraq:


mutua cooperazione: Iraq rinuncia a qualsiasi programma nucleare e ad ambizioni nei confronti del Kuwait,
mentre gli USA avrebbero acconsentito a non invadere il paese e rimuovere le sanzioni economiche.
Questo non avvenne perché gli USA avevano paura che se avessero tolto le sanzioni, l’Iraq avrebbe portato
avanti un piano di armamento nucleare, diventando così una minaccia per l’ordine internazionale → parliamo
di cooperazione-defezione.
Per l’altro verso, l’Iraq aveva paura che se avesse rispettato l’accordo, gli Usa avrebbero comunque trovato
un modo per venirne meno.
→ per entrambe le parti la guerra dava la speranza di poter evitare il risultato peggiore, ovvero fare un
accordo che l’altra parte non avrebbe rispettato.
L’anarchia internazionale può stabilire un contesto in cui gli Stati esagerano le proprie richieste e la propria
determinazione e temono che un accordo fatto nell’immediato per non arrivare alla guerra, possa poi in
futuro rivoltarsi a proprio sfavore.

LA GUERRA INTERNA: cos’è e quali sono le cause


Definizione: intendiamo per guerra interna tutti quei casi i cui gruppi politici organizzati all’interno di un
paese, tra cui il governo nazionale, sono coinvolti in operazioni militari prolungate l’uno contro l’altro.
Le guerre interne possono avere ripercussioni importanti per la pace e per la sicurezza internazionale →
perché può diffondersi in altri paesi oppure può rendere lo stato più aggressivo.

→ Ci sono 3 modi con cui la guerra interna può istigare violenza a livello internazionale:
1. Per “contagio” → diffusione della guerra nei paesi vicini
→ esempio: i Talebani si spostarono dall’Afghanistan al Pakistan dopo l’invasione americana del 2000, dove
hanno cominciato sia una guerra contro gli Usa, che una guerra interna contro il governo pakistano.
In altri casi i flussi di migranti provenienti da un paese in guerra spostandosi in un paese limitrofo ne mandano
in crisi l’equilibrio interno e le infrastrutture
2. Uno stato, dopo una guerra interna, può diventare più aggressivo nei confronti di altri stati. Questo
può essere dovuto o alla paura che gli altri stati siano ostili o alla volontà di distrarre l’attenzione
interna dai problemi di legittimazione
3. Lo stato dilaniato dalla violenza interna può attrarre invasioni dall’estero o altri tipi di conflitti militari
→ può avvenire in due modi:
da una parte uno stato straniero potrebbe ritenere che il paese afflitto dalla guerra sia vulnerabile e
facile da sconfiggere (esempio → Hussein quando decise di invadere l’Iran nel settembre del 1980).
In secondo luogo, la guerra può emergere dall’indignazione di altri stati in merito al modo in cui si
sta verificando la violenza all’interno del paese (esempio → guerre nei Balcani in Bosnia e in Kosovo,
in Africa sub-sahariana e in Asia). Interventi umanitari di questo tipo danno luogo alla possibilità che
emerga la dottrina della “responsabilità di proteggere”.

I tipi e le tendenze delle guerre interne.


La forma prevalente di guerra interna è la guerra civile → uno scontro prolungato tra forze controllate dal
governo nazionale e forze controllate da un’opposizione organizzata all’interno del paese.
Questi gruppi di solito hanno obiettivi come:
- cercare di rovesciare il regime al potere (esempio→ primavere arabe)
- a volte non si desidera il potere, ma piuttosto la secessione di una parte dello stato per formare un
nuovo stato (esempio → guerra civile di secessione del Sudan, in cui alcune forze indipendenti della
parte meridionale del paese riuscirono a costituire la Repubblica del Sud Sudan, staccandosi dal
governo di Khartoum, mentre i gruppi appartenenti alla parte settentrionale non riuscirono in questo
intento).

Esistono, oltre alle guerre civili, altri due tipi di guerre interne:
1. guerra intra-comunitaria → guerra in cui gli appartenenti a comunità religiose diverse all’interno di
un paese si danno alla violenza organizzata su larga scala. (esempio → milizie che si sono scontrate
nella guerra in Libano erano definite delle sette).
2. I pochi casi i conflitti interni hanno forma di violenza tra le forze militari di un ente governativo al di
sotto del livello nazionale ed entità non governative (esempio → sommosse in Cina tra le Guardie
Rosse, più radicali, e le forze militari regionali. Questo avvenne durante la rivoluzione culturale, dove
l’imperatore Mao cercò di eliminare i componenti del partito comunista che riteneva più
conservatori).
Il grafico raffigura la frequenza delle guerre
interstatali tra il 1816 e il 2007 in base ai dati
COW. Quello che possiamo dedurre è che
l’incidenza rimane inizialmente dell’1,3 conflitti
all’anno, per poi aumentare durante il periodo
della decolonizzazione (1950-1999), arrivando
fino a 2,8. Infine, la frequenza è diminuita tra il
2000 e il 2007.
Se però analizziamo il periodo della guerra fredda
e quello post-guerra fredda, osserviamo un
incremento nella frequenza annuale →
fenomeno che impone future ricerche

Quest’altro grafico propone una stima provvisoria dei trend sulla letalità delle guerre interne

Quello che si nota subito è che in tempi più


recenti la mortalità delle guerre interne
sembra essere diminuita, sia in termini
assoluti che in termini relativi al conflitto
singolo.

Le guerre interne possono fare tante vittime


→ la causa principale della morte dei civili
nelle guerre interne è spesso l’uccisione
intenzionale durante le ostilità.

L’internazionalizzazione delle guerre civili → processo per cui, durante una guerra civile, uno o più stati terzi
intervengono e forniscono appoggio a una o più fazioni interessate al conflitto, incluso a volte l’invio di forze
di combattimento, ma senza rendersi responsabili del grosso degli scontri.
Analizziamo il grafico:
Tre osservazioni:
1. L’intervento internazionale non
avviene in relazione a tutte le
guerre civili.
2. Questi interventi non sono un
fenomeno nuovo.
3. La frequenza con cui gli stati
stranieri sono intervenuti in guerre
interne è stata circa il doppio
durante la seconda metà del 1900
→ le due superpotenze si
scontravano con le “guerre di
procura” che si combattevano in
paesi del terzo mondo.

Le cause delle guerre interne: l’individuo


Oltre ai meccanismi di cui abbiamo già parlato prima, gli studiosi hanno individuato altre due caratteristiche
che influiscono a livello individuale nella guerra interna:
- L’avidità → brama di una persona di avere beni o denaro → queste risorse, a volte definite beni
saccheggiabili, comprendono risorse naturali facilmente acquistabili, trasportabili e monetizzabili. I
paesi in cui i beni saccheggiabili hanno contribuito a prolungare le guerre civili sono per lo più
nell’Africa sub-sahariana.
- Il risentimento → convinzione di un individuo di essere vittima o di essere escluso da istituzioni
importanti in un dato paese. Negli ultimi tempi, gli studiosi hanno rilevato che il risentimento su base
etnica ha giocato un ruolo centrale nel motivare gli individui a imbracciare le armi e cominciare una
guerra civile.
La competizione per le risorse naturali può intrecciarsi con le differenze etniche e contribuire al risentimento
individuale fino a portare a una guerra interna.
Esempio → torniamo sulla guerra in Sudan. In questa guerra (2003-2017) abbiamo visto scontrarsi una parte
del governo centrale insieme a milizie locali arabe chiamate Janjawid e dall’altra due gruppi ribelli locali. Le
cause della guerra sono molte tra cui la sovrapposizione di questioni etniche e competizione per risorse
scarse. In particolare, al cuore della questione c’è un conflitto tra contadini africani che intendono stabilirsi
per coltivare la terra e gli allevatori di bestiame di origine araba che richiedono periodicamente l’accesso a
queste terre (sostenuto dal governo) → la continua siccità della terra ha reso più acceso il conflitto a causa
delle scarse risorse idriche e agricole → divenne pretesto per una guerra interetnica nella regione.

Lo stato e le guerre interne


Sono 2 le caratteristiche si uno stato che possono rivelarsi fattori importanti nella genesi delle guerre interne:
1. Il grado di inclusione dei diversi elementi della società all’interno delle istituzioni del paese. → la
presenza di istituzioni politiche democratiche non sembra ridurre il rischio di una guerra civile, da ciò
deduciamo che vi sono diversi assetti politici in grado di ottenere un alto grado di inclusività.
2. La capacità statale, intesa come capacità del governo di resistere a un’insorgenza armata influisce
sulla probabilità che un paese faccia esperienza di qualche forma di guerra interna.
Per i paesi ricchi è meno probabile sperimentare una guerra interna, perché sono paesi caratterizzati
da risentimenti meno acuti da parte dei cittadini → la ricchezza all’interno del paese pone le basi per
la forza del governo, e un governo forte è in grado di diminuire la probabilità di un conflitto interno.
Un governo forte ha anche una maggiore capacità di arruolare i combattenti per sconfiggere
insorgenti prima che questi raggiungano un livello alto di efficacia.
Il sistema internazionale e le guerre interne
Sono almeno tre le condizioni che influenzano le guerre interne:
1. Le guerre interstatali → la politologa Skocpol ha mostrato come le tante guerre combattute dai re di
Francia nel XVIII secolo avessero alienato gruppi interni importanti, indebolito i regimi e li avessero
spinti verso la rivoluzione e la guerra civile.
2. Il colonialismo e le sue conseguenze → è un fattore di rischio per tre motivi:
- Le grandi potenze europee tracciano i confini non sulla base dei gruppi etnici nelle colonie, ma
secondo il proprio potere relativo e il grado di competizione tra loro (esempio → nell’Africa sub-
sahariana la discrepanza tra confini ed etnia ha reso più difficile realizzare e mantenere la stabilità
interna.)
- Le potenze in questi territori si sono dedicate soltanto allo sfruttamento delle risorse naturali e hanno
prestato poca attenzione a erigere istituzioni → stati economicamente deboli e quindi incapaci di
sconfiggere i gruppi di opposizione.
- Le potenze coloniali mantennero l’ordine attraverso il dispiegamento delle proprie forze militari → i
paesi di nuova indipendenza disponevano di eserciti deboli.
3. La guerra fredda → vi sono due fattori che spiegano il motivo per cui dopo la guerra fredda vi è un
innalzamento delle guerre interne: la dissoluzione dell’unione sovietica e dell’ex Iugoslavia. Se
eliminiamo queste due guerre il valore risulta essere simile al valore dei tempi bipolari. Si può
ricordare che però la letalità dei conflitti diminuisce, questo probabilmente perché i paesi soggetti a
queste guerre in precedenza erano armate dai rispettivi USA e URSS, una volta diventati indipendenti
avevano accesso a un numero inferiore di armi.
Capitolo 6 - Come raggiungere la pace fra gli Stati

La distribuzione internazionale del potere come condizione per la pace.


La distribuzione del potere può essere un fattore che influenza le prospettive di pace → abbiamo due
possibilità:
1. La pace è più probabile in periodi in cui una più o meno equa distribuzione delle capacità tra un certo
numero di stati.
2. La pace è più probabile quando nel sistema internazionale c’è solo uno stato eccezionalmente al
potere.

L’equilibrio di potenza
Definizione: qualsiasi situazione per cui, in un dato momento vi sia una sostanziale uguaglianza di potere tra
i principali stati del sistema internazionale. È ritenuti da molti studiosi una condizione per la pace.

Se diverse grandi potenze mostrano all’incirca una condizione di parità in termini di capacità materiali,
l’equilibrio di potenza assume la forma di un sistema multipolare → la pace è quindi raggiunta tramite
alleanze tra gli stati per assicurare che nessuno ottenga un dominio in termini di potenza.
Quando invece due potenze eclissano tutte le altre (guerra fredda), l’equilibrio di potenza si afferma tramite
un bilanciamento bipolare → ciascuna super potenza attira a sé una serie di alleati in modo da ottenere
capacità collettive sufficienti a controbilanciare la parte.

L’egemonia
Definizione: dominio di uno stato sugli altri. Molti studiosi ritengono che un sistema internazionale
egemonico sia più propenso alla pace.

In questa situazione a creare la pace è la capacità di uno stato potente di organizzare e imporre l’ordine.
Esempi → Pax Romana, inteso come l’Impero Romano del I e del II secolo d.C. → durante questo periodo
l’impero vive in pace, non disturbato da guerre interne o esterne.
Pax Britannica (secolo XIX) e Americana (secolo XX) → pace istaurata dalla presenza egemonica della grande
potenza, che deriva non dal controllo imperiale diretto, ma dalla leadership.

Strategie degli stati per mantenere la pace.


A livello statuale, per promuovere la pace i policy makers fanno affidamento sulla diplomazia come
strumento cruciale di politica estera e sul bilanciamento di potenza come strategia.

Diplomazia
Definizione: consiste nelle azioni intraprese dai governi quando i loro rappresentanti negoziano con i
rappresentanti di altri governi per risolvere le dispute e sancire accordi di collaborazione bilaterali o
multilaterali, attraverso i quali i paesi possono mutualmente raggiungere guadagni individuali.
→ può essere utilizzata per molti scopi, ma il suo più importante utilizzo è la ricerca della pace.

Storia della diplomazia:


La tradizione della diplomazia risale alla nascita del sistema degli stati nell’Europa moderna e inizia nel XVI
secolo con lo sviluppo di rappresentanti permanenti tra le città-stato dell’Italia del Nord → questa pratica
poi si diffuse in tutta Europa, man mano che gli stati diventavano entità politiche sovrane. Con il XIX secolo
questa pratica si era diffusa in tutto il mondo.
→ iniziarono così a formarsi ambasciate e personale diplomatico, di pari passo con regole, protocolli e
tradizioni diplomatiche.
Al cuore di questo moderno sistema diplomatico vi erano le norme relative alla sovranità statale → gli stati
riconoscevano e rispettavano reciprocamente come entità politiche indipendenti e autonomamente
governate. In questo sistema di sovranità sovrana la svolta venne con il trattato di Westfalia del 1648 → “ha
rappresentato un nuovo accordo diplomatico, un ordine creato dagli stati per gli stati, e ha rimpiazzato il
papa e il Sacro Romano Impero” (Holsti 1991).
La via per la pace consisteva quindi in un sistema di stati gestito attraverso la diplomazia e l’arte di governo.
→ le regole e le norme di quest’arte cambiarono nel tempo, fino a come è oggi.

Concetto di immunità diplomatica → privilegi e immunità concesse da un paese ospitante agli ambasciatori
e al personale delle ambasciate straniere, esentandoli dalla piena forza delle leggi locali.

Tradizionalmente l’attività diplomatica viene svolta dal ministro degli Affari Esteri, ma recentemente i
presidenti e i capi di stato hanno spesso fatto ricorso a “inviati speciali” per condurre iniziative diplomatiche.
Esempio → 1971 Nixon intraprende con Kissinger un viaggio segreto in Cina → rivoluzionaria apertura
diplomatica in cui venne scavalcato il dipartimento di stato.

Nei secoli precedenti la diplomazia seguiva un determinato copione, invece nell’attuale contesto di
interdipendenza economica la diplomazia è diventata più sfaccettata. I momenti più rischiosi per la
diplomazia sono quando gli stati sono sul punto di farsi la guerra → diventa quindi uno strumento per
smorzare il conflitto.
Esempio → “dialogo a sei”, ovvero il dialogo diplomatico tra Corea del Nord, gli USA, la Cina, il Giappone, la
Russia e la Corea del sud volto a convincere la Corea del Nord a mettere fine al proprio programma nucleare
in cambio della normalizzazione delle relazioni con il resto del mondo. Sebbene tale dialogo sia stato
frustrante, gli stati d’Asia nordorientale hanno poche opzioni al di la di una paziente attività diplomatica.
Non sempre la diplomazia funziona. Esempio → fallì durante la fase che portò alla prima guerra del Golfo nel
1990. Quando i soldati iracheni invasero il Kuwait, gli USA, prima di intervenire militarmente, fecero un ultimo
tentativo per convincere gli iracheni a ritirarsi senza combattere. L’Iraq però non era intenzionato a utilizzare
questa apertura per ritirarsi dal Kuwait ed evitare la guerra. → Desert Storm.

Riflettendo sulla relazione tra diplomazia e guerra, potremmo affermare che le due attività sono alternative
→ la diplomazia è lo strumento che gli stati utilizzano per alterare le azioni di altri stati, senza ricorrere alla
guerra.
Clausewitz affermò che la guerra è la ricerca della diplomazia con altri mezzi.
La guerra e la diplomazia sono anche complementari: la diplomazia può essere uno strumento importante
per i leader degli stati che si trovano sulla via della guerra.
Esempio → durante la prima guerra del Golfo, l’amministrazione Bush ritenne che offrire un contatto
diplomatico all’Iraq fosse un modo per costruire il sostegno per l’azione militare. → il messaggio che gli USA
volevano la pace rese gli altri stati maggiormente disposti ad acconsentire.

Il bilanciamento
Oltre alla diplomazia, gli stati perseguono una strategia più generale per promuovere la pace → il
bilanciamento del potere.
Definizione: sforzi da parte degli stati di proteggere se stessi in un mondo pericoloso schierando il potere
contro il potere, attraverso il bilanciamento interno ed esterno.

Bilanciamento interno: processo tramite il quale gli stati accrescono il proprio potere mobilizzando la propria
economia e incrementando le proprie capacità di difesa.
Bilanciamento esterno: processo attraverso il quale gli stati entrano in alleanze di sicurezza con altri stati,
allo scopo di bilanciare il potere di uno stato o di una coalizione di stati particolarmente forte.

In un sistema internazionale in cui il potere è bilanciato, gli stati hanno incentivi ad agire con cautela e
moderazione → secondo questa logica, un mondo bilanciato è un mondo che tende alla pace. Gran parte
della politica internazionale dell’era moderna ha avuto per oggetto stati che hanno utilizzato strategie di
bilanciamento per perseguire i propri interessi.
Esempio → GB bilanciamento per evitare che il continente europeo venisse dominato da uno stato
egemonico → implicava una posizione di “off shore”, supervisionando gli sviluppi sul continente. Quando la
Franci napoleonica tentò di conquistare il dominio europeo, la GB assunse la leadership della coalizione tra
gli stati che alla fine sconfissero Napoleone. Lo stesso avvenne con la Germania di Bismark.
Esempio → USA utilizzò strategia di bilanciamento durante la GF per gestire i propri rapporti con l’Unione
Sovietica (bilanciamento esterno: formazione di alleanze e della NATO). Questo bilanciamento bipolare durò
per decenni e sembra aver giocato un grande ruolo nel perseguimento della pace.
Ancora oggi gli stati perseguono strategie di bilanciamento.
Esempio → l’ascesa della Cina ha portato i paesi dell’Asia a esplorare modi per contrastare o difendersi nei
confronti di un dominio cinese della regione. Stessa cosa con l’ascesa dell’India.

Il bilanciamento può essere contrapposto al bandwagoning: quando gli stati più deboli e piccoli si aggregano
a uno stato più grande per riceverne la protezione → mentre USA bilanciavano l’Unione Sovietica, gli stati
più piccoli facevano bandwagoning con gli Stati Uniti.
Il diritto internazionale e le istituzioni come strumenti di pace
Il diritto internazionale
Definizione → corpo di regole, norme e standard che gli stati hanno forgiato nel tempo e che conferisce a
questi stati e ad altri attori diritti e obblighi in merito alle loro interazioni reciproche.

Le origini del diritto internazionale risalgono al XVII secolo → il trattato di Westfalia è stato un tentativo di
stabilire regole e norme condivise per la condotta delle relazioni tra stati.
Ugo Grozio, considerato uno dei fondatori del diritto internazionale, scrive “the law of war and peace”,
un’opera in cui cerca di dimostrare l’esistenza di una legge universale tra le nazioni.

Nel mondo attuale il diritto internazionale è fondato su una molteplicità di regole e principi che coprono ogni
sorta azione statale, incluse regole riguardo la guerra, ai diritti umani, al commercio… → i sostenitori del DI
sono convinti del fatto che questo offra una visione della politica mondiale in cui ci si attende che tali norme
rafforzino le relazioni pacifiche della politica mondiale.

Diritto internazionale ≠ Diritto interno agli stati


→ quest’ultimo si applica a tutte le persone dentro i confini di uno stato, è formale e applicabile e in una
democrazia costituzionale ha sempre l’ultima parola.
Nelle relazioni internazionali, il diritto come meccanismo di governo è più limitato, si applica primariamente
agli stati come soggetti sovrani e non agli individui → ci sono delle eccezioni: La Corte Penale Internazionale,
fondata nel 2002, è un tribunale permanente che giudica gli individui per crimini di guerra e genocidio.

→ DI rimane uno strumento per gli stati, ma non esiste un’autorità che lo faccia rispettare. → nonostante
questo, il DI non manca del tutto di strumenti applicativi → gli stati che aderiscono alle Corte Penale
Internazionale riconoscono che questi organismi giuridici hanno una certa autorità per prendere decisioni.
Esempio → le decisioni della corte possono rendere più facile per altri governi organizzare sanzioni contro il
governo o il leader che ha commesso la violazione, ma l’applicazione non è vincolante → sono gli stati a
imporre costi diversi ad altri stati e in questo senso sono gli stati, e non il diritto, ad avere l’ultima parola.

Da dove origina il diritto internazionale?


È emerso in modo più frammentato nel corso dei secoli, rispetto ai sistemi giuridici nazionali. Vi sono diverse
fonti del diritto internazionale → molte delle norme e dei principi fondamentali del DI sono emersi attraverso
pratiche abitudinarie.

Il diritto internazionale consuetudinario → insieme dei principi e delle norme che gli stati hanno promosso
nei secoli e che è ampiamente ritenuto legittimo e dotato di autorità. Racchiude idee fondamentali riguardo
all’organizzazione e al ruolo degli stati nel sistema internazionale, riflettendo principi quali sovranità,
riconoscimento, libertà dei mari, responsabilità internazionali e autodifesa.
Da questo punto di vista è emerso il DI che distingue tra uso legale e illegale della forza. → nel momento in
cui scoppia una guerra il DIC fornisce norme e principi riguardo a come condurre la guerra o la neutralità.

I trattati → accordi formali tra due o più stati volti a comporre una disputa o fissare linee guida per azioni
future.
I governi riconoscono ai trattati un alto status giuridico → hanno un’autorità simile alle leggi.
Rispetto al DIC, i trattati forniscono norme e regole più specifiche su questioni come l’immunità territoriale,
la protezione dei cittadini all’estero e la libertà di navigazione dei mari.
Esempio → Trattato Antartico del 1953 vieta ogni ulteriore appropriazione esclusiva di territorio di quella
regione; Trattato sui Principi del 1967 tratta dei principi che governano le attività degli stati nell’esplorazione
ed uso dello spazio esterno.

In anni recenti, uno dei maggiori sforzi di rafforzamento del diritto internazionale si è verificano in rapporto
agli oceani → Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) definisce una struttura di diritti
e responsabilità per gli stati rispetto alle loro rivendicazioni riguardo ai territori costieri e riguardo alla
gestione e all’utilizzo dell’ambiente oceanico. Questo accordo ha rimpiazzato il vecchio principio della
“libertà dei mari” (no rivendicazioni sui mari per più di 3 leghe dalla propria costa), che non funzionava in
quanto molti stati rivendicavano una zona di controllo di 12 miglia. → il nuovo trattato discusso negli anni 80
del secolo scorso, divenne attivo nel 1994 ed è stato in grado di indirizzare la risoluzione di diverse dispute
come quella cinese sul Mar Cinese Meridionale.

Perché gli stati dovrebbero rispettare il diritto internazionale?


Una ragione è che la gran parte del DI rafforza la sovranità e l’autorità degli stati, proprio perché il DIC si
fonda sull’indipendenza dello stato. Inoltre, gli stati sono liberi di decidere sa soli se partecipare o meno a
congressi internazionali e molti accordi e convenzioni non hanno forza finchè una maggioranza di stati non li
ratifica → di conseguenza in DI può essere attraente per stato che vogliano salvaguardare la propria
sovranità.
Inoltre, il DI permette lo sviluppo di un ambiente più o meno controllato in cui gli stati sono liberi di perseguire
i propri interessi nazionali → il DI funziona proprio perché gli stati che vi aderiscono vogliono che gli altri stati
si attengano a certi comportamenti e per fa sì che questo accada devono rispettarli pure loro. → ciascuno
stato rinuncia a una piccola parte di libertà in cambio dei benefici di un ordine internazionale più regolato e
prevedibile.

Le grandi potenze possono aderire al diritto internazionale perché conferisce al potere legittimità, ovvero un
senso di giustizia e accettazione del potere di uno stato da parte di altri stati.
Inoltre, alcuni aspetti del DI conferiscono alle grandi potenze speciali diritti e vantaggi.
Esempio → il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite conferisce alle maggiori potenze la membership e il
potere di veto. Nella misura in cui questi diritti e vantaggi sono codificati dal DI, i privilegi dati dal potere delle
grandi potenze sono resi più legittimi.

Tre casi relativi al diritto internazionale e alle istituzioni: la Società delle Nazioni, le Nazioni Unite, l’Unione
Europea.

La sicurezza collettiva e Società delle Nazioni.


Sicurezza collettiva → sicurezza fornita dai membri si una istituzione internazionale cooperativa nella quale,
se uno stato minacciasse o usasse concretamente la forza militare in modo illegale contro uno stato membro,
gli altri membri si impegnano a formare una coalizione soverchiante per sconfiggere l’aggressore.
→ un classico esempio di sicurezza collettiva è la Società delle Nazioni.

In questo caso l’idea di SC si basava su diversi punti:


- La Società sarebbe stata un’organizzazione globale in cui la membership sarebbe stata quasi
universale.
- Gli stati più forti non sarebbero stati in grado di porre dei veti o bloccare le azioni dell’organizzazione
- Gli stati avrebbero dovuto essere sufficientemente interdipendenti così da rendere persuasiva la
minaccia di sanzioni
- Era necessario che tutti gli stati nel sistema internazionale fossero persuasi che i membri
dell’organizzazione sarebbero effettivamente intervenuti in aiuto di qualsiasi altro membro
La SdN avrebbe dovuto incarnare questa idea di sicurezza collettiva e fornire una forma istituzionale per
gestire le dispute in tutto il mondo.
La sua principale missione era quella di evitare la guerra principalmente attraverso l’arbitrato e la riduzione
degli armamenti e infine, solo se necessario, la minaccia di sanzioni collettive.

Claude, uno studioso di RI, descrisse la logica della sicurezza collettiva così: “la SC può essere descritta come
fondata sull’ipotesi che la guerra possa essere prevenuta attraverso l’effetto deterrente che un potere
soverchiante avrebbe su stati troppo razionali per andare incontro a una sconfitta certa.”

La SdN nasce già indebolita → la proposta di partecipazione viene respinta dal Congresso americano, a causa
di alcuni senatori conservatori e isolazionisti che non volevano che gli Stati Uniti fossero coinvolti negli affari
esteri.
Il problema era che anche Wilson concordava con il Congresso sul fatto che la membership della SdN non
implicasse rinunciare all’autorità sovrana degli USA sulle decisioni relative alla guerra e alla pace, ma fece
resistenza di fronte agli sforzi del senato di formalizzare queste condizioni nel trattato.

Problematiche affrontate dalla SdN alla sua nascita:


- Giappone vs Manciuria → nel 1931 il Giappone invase la Manciuria, davanti a questo fatto i membri
della società dibatterono sulla possibilità di imporre sanzioni, ma molti paesi europei dipendevano
economicamente dal Giappone → decisero di fare ricorso alla persuasione diplomatica. Nel 1933 la
società approvò una risoluzione che condannava l’invasione e chiedeva ai giapponesi di ritirare le
proprie truppe → la risoluzione però non impegnava i membri in nessuna azione specifica, cosa che
spinse il Giappone a non lasciare la Manciuria e a ritirarsi dalla SdN.
- Italia vs Etiopia → nel 1935 l’Italia, guidata da Mussolini, invase l’Etiopia. L’imperatore dell’Abissinia
fece appello alla società, facendone anche lui parte. → questa però non fu in grado di coalizzare gli
stati membri per fermare l’aggressione. Francia e GB decisero di non intervenire per non spingere
l’Italia ancora di più nelle braccia della Germania.
La SdN fallì completamente con lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Le Nazioni Unite: un sistema di sicurezza collettiva modificato?


Dopo la IIWW gli stati hanno avuto nuovamente la possibilità di costruire un ordine internazionale e lo hanno
fatto cercando si rafforzare il ruolo delle regole e delle istituzioni come base per una pace durevole.
Le Nazioni Unite, nel progetto internazionale, sarebbe stato l’elemento centrale di questo nuovo ordine
internazionale → fu creata come un sistema di sicurezza collettiva “modificato” con molte differenze rispetto
alla SdN.
L’ONU conferisce alle grandi potenze il ruolo di primo piano nella gestione della pace e della sicurezza
internazionale. Questa organizzazione è composta da sei organi, di cui i più importanti sono l’Assemblea
generale, in cui tutti gli stati partecipano su base egualitaria e il Consiglio di Sicurezza con cinque membri
permanenti e un gruppo addizionale di membri temporanei a rotazione → ai membri permanenti viene data
la possibilità di porre il veto sulle risoluzioni. Questa clausola rese le grandi potenze più inclini a entrare
nell’organizzazione.
Questo potere significa che l’ONU non agisce in tutti i casi, ma solamente in quelli in cui le grandi potenze
pensano sia necessario.

Sebbene l’ONU abbia evitato il destino della SdN anch’essa ha dovuto piegarsi alla realtà della politica di
potenza → la GF condannò al fallimento la visione di Roosevelt delle grandi potenze che collettivamente
mantengono la pace e la stabilità.
Al contrario, gli USA iniziarono a costruire legami di alleanze come percorso alternativo alla sicurezza
internazionale → la NATO divenne il principale meccanismo per mantenere la sicurezza in Europa.
→ la visione di un sistema globale di sicurezza collettiva gestito dalle grandi potenze si restrinse fino a
diventare una comunità di sicurezza centrata sull’occidente e organizzata attorno alla sicurezza cooperativa.
L’ONU divenne “la voce del Sud” in quanto rappresentava i paesi in via di sviluppo → nell’era post-IIWW la
lotta per la sicurezza e la prosperità nei paesi in via di sviluppo emerse come nuovo problema per il sistema
globale.
In secondo luogo, l’ONU divenne sempre più focalizzato non sul peacemaking, ma sul peacekeeping. →
peacemaking: azione ONU che si situa prima dello scoppio della guerra, progettata per impedire che due stati
entrino in guerra tra loro, tramite la sponsorizzazione si accordi pacifici, si può contrapporre al peacekeeping
che avviene all’indomani della guerra.

Partendo dal presupposto che le Nazioni Unite non possono evitare la guerra, hanno comunque svolto un
ruolo effettivo dispiegando operazioni di peacekeeping per impedire il ritorno della guerra → dal 1948 ad
oggi l’ONU ha promosso 63 operazioni di peacekeeping, di cui 16 sono ancora attive.

Fortna, nella sua analisi delle operazioni di peacekeeping, mostra che questi interventi sono uno strumento
molto efficace, capace di ridurre in modo decisivo il rischio che la guerra esploda nuovamente → quando gli
accordi di cessate il fuoco sono rafforzati attraverso i peacekeeping, la pace tende a durare di più → perché?
Possono aiutare ad alzare i costi di un’eventuale altra guerra, possono accrescere la fiducia che ciascuna
parte ha nei termini dell’accordo e possono aiutare a prevenire incidenti che rischiano di scatenare di nuovo
il conflitto.

Lo stato di diritto e le istituzioni: il caso dell’Unione Europea.


L’Europa ha sviluppato la più elaborata forma di pace duratura ottenuta attraverso il diritto internazionale e
le istituzioni.
Anziché tornare all’equilibrio di potenza, i leader scelsero un percorso di integrazione istituzionale a
cominciare dalla CECA, seguito dalla CEE → questo progetto fu iniziato da paesi come la Francia e la Germania
dell’ovest per poi espandersi a una gran parte dei paesi europei occidentali.
Negli anni 90 gli stati europei diedero vita all’Unione Europea, dotata di istituzioni formali come il
Parlamento, la Corte di Giustizia, la Commissione e in più crearono una moneta comune.

L’EU è un nuovo tipo di comunità politica → un gruppo di democrazie liberali legate tra loro da istituzioni
condivise e da un comune orientamento alla governance fondata su regole.
Ha avuto i suoi successi ma anche i suoi fallimenti:
- È stata in grado di costruire una struttura per la cooperazione economica e politica e quantomeno
una governance.
- Ha incontrato difficoltà riguardo alla moneta comune e al proprio ordine monetario ed i problemi
economici legati alle economie di alcuni stati membri come Grecia e Spagna.

Meccanismi transnazionali per raggiungere la pace


Vi sono almeno tre strade attraverso cui i singoli individui e gli attori non governativi possono giocare un
ruolo centrale nel promuovere la pace e nell’evitare o mettere fine alla guerra: l’interdipendenza economica,
una comunità internazionale di stati democratici e i movimenti per la pace e la società civile globale.

L’interdipendenza economica
La relazione tra economia e pace è complessa.
→ molti pensatori liberali sono convinti che un’estesa interdipendenza economica tra paesi crei interessi
domestici in grado di favorire relazioni stabili e pacifiche → quando gli stati sono legati tra loro in commerci
e scambi mutuamente vantaggiosi, interrompere queste relazioni è costoso.
→ altri studiosi sono più scettici.

Hull diceva “se i beni attraversano le frontiere, non lo fanno le truppe” → il commercio promuove la crescita
economica, paesi prosperi avranno meno ragioni per farsi guerra, inoltre i guadagni comuni derivanti dal
commercio e i legami economici mutuamente vantaggiosi che sarebbero cresciuti tra paesi avrebbero anche
creato al loro interno interessi che avrebbero prediletto relazioni stabili e pacifiche.
Gli economisti inglesi fecero i primi sforzi per sostenere il libero scambio → il movimento inglese per il libero
scambio emerse a seguito delle idee promosse da Adam Smith (testo: La ricchezza delle nazioni, 1776).
Nei decenni successivi all’abrogazione delle Corn Laws, l’Inghilterra e altri paesi abbassarono le tariffe e
diedero vita alla prima grande era caratterizzata da un’economia mondiale aperta. → tutto cambiò con lo
scoppio della IWW → Angell riteneva, prima dello scoppio della guerra che l’integrazione economica era
cresciuta talmente tanto in Europa che la guerra tra questi paesi sarebbe stata completamente inutile,
ovviamente non nega una sua probabilità, ma sottolinea il fatto che fosse economicamente irrazionale.

Dopo la fine della IIWW gli USA speravano di costruire un mondo pacifico basato sul commercio e su
un’economia mondiale aperta → i mercati aperti avrebbero fornito le fondamenta essenziali per un sistema
multilaterale più ampio organizzato sullo stato di diritto. Sia l’amministrazione Roosevelt che quella di
Truman sostennero lo sforzo politico postbellico per rendere nuovamente aperta l’economia → all’interno
del dipartimento di stato i sostenitori del libero scambio erano guidati da Hunt, il quale poneva l’accento non
tanto sul libero scambio in sé ma piuttosto sulla non discriminazione e sulle pari opportunità commerciali. →
i mercati aperti, secondo questa visione, avrebbero: assicurato agli USA l’accesso ai mercati e alle materie
prime in tutto il mondo, e allo stesso tempo avrebbero contribuito alla crescita economica e
all’interdipendenza, creando così interessi condivisi in un ordine internazionale pacifico.

La promozione della pace attraverso l’espansione dei mercati fu una strategia cruciale per affrontare la
situazione dell’Europa postbellica, in cui vi era il costante timore che l’Europa si trasformasse in un fallimento
economico e politico → la sfida era quella di ricostruire un’Europa che avrebbe consentito l’integrazione
della Germania senza riaccendere vecchie ostilità.
Schuman fu uno dei principali architetti di questa visione dell’integrazione economica europea e lo fece
attraverso nuove forme di cooperazione economica, come la CECA, con cui, ad esempio, le industrie di guerra
non sarebbero più state nazionali, ma europee.
La strategia europea prevedeva anche un’apertura ai mercati internazionali → 1944 Conferenza di Bretton
Woods, fornisce ai governi europei e americani i meccanismi per gestire l’apertura economica.

La globalizzazione dell’economia , raggiunta soprattutto con la fine della GF, non assicura di per sé una pace
stabile, ma crea gli incentivi perché gli stati cerchino di risolvere le proprie controversi con la diplomazia →
l’interdipendenza, però, crea una serie di problemi che gli stati devono affrontare, come criminalità traffico
di droga, terrorismo e rende i paesi più vulnerabili alle crisi economiche, ma crea anche incentivi affinchè si
sviluppino regole e istituzioni per gestire le loro comuni vulnerabilità.

Una comunità internazionale di stati democratici.


Presupposto → tesi della pace democratica
→ man mano che la democrazia si diffonde nel mondo, si diffondono zone di pace nella politica mondiale,
ovvero il numero di paesi e lo spazio geografico che occupano all’interno del quale gli stati non vogliono fare
ricorso alla forza militare, né pensano che questa verrà usata contro di loro.
“in definitiva, la strategia migliore per assicurare la nostra sicurezza e per costruire una pace durevole è
sostenere l’avanzamento della democrazia altrove. Le democrazie non si attaccano tra di loro” (Clinton 1994).

Questa visione è stata sviluppata in origine da Kant nel 1795 nell’opera “per la pace perpetua” → la tesi di
Kant era che non solo gli stati repubblicani mancassero di ragioni per attaccarsi tra loro in una guerra, ma
che in realtà fossero motivati a rafforzare i propri legami. Kant aggiunse che la costruzione di un’unione
democratica avrebbe fornito sicurezza in un mondo i cui le democrazie subivano ancora minacce da parte di
stati non democratici → la forza stava nel numero.
Kant fu meno specifico riguardo alla forma che avrebbe assunto questa unione, sarebbe stata più una serie
di trattati formali di pace tra stati.

La visione di Wilson di un sistema universale basato sul diritto e sulla sicurezza collettiva si fondava su una
sua convinzione che una rivoluzione democratica fosse in corso in tutto il mondo → egli riteneva che l’ordine
internazionale post-1919 avrebbe dovuto necessariamente incorporare non-democrazie, ma era anche
convinto che nel tempo questi stati autocratici si sarebbero uniti alla comunità mondiale delle democrazie.

Dopo la IIWW i leader americani erano ancora più determinati ad ancorare l’ordine internazionale in
un’alleanza di democrazie, Roosevelt voleva farlo attraverso l’ONU, mentre per gli altri leader americani era
più sensato riporre fiducia nella cooperazione economica, politica e di sicurezza con l’Europa.
→ ne è di esempio il piano Marshall, lo stesso segretario disse che la sofferenza economica avrebbe reso più
semplice la nascita di stati autoritari, come la Germania. Nel suo discorso egli parla di civiltà occidentale, in
riferimento ai paesi bisognosi di aiuti economici. Anche Bevin, ministro degli esteri britannico del tempo,
utilizzò le stesse parole per sostenere la nascita di quella che poi sarebbe diventata la NATO.

L’amministrazione Bush e successivamente quella Clinton consideravano questa comunità democratica come
la grande realtà politica post-GF → strategia di allargamento + creazione dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio.
Inoltre, Clinton promosse la nascita della Comunità delle Democrazie → un forum per i leader delle
democrazie per ritrovarsi periodicamente a discutere dei modi per sostenere e rafforzare le istituzioni
democratiche nei paesi in via di sviluppo.

Dopo gli attacchi dell’11 settembre, Bush alzò la soglia in merito all’importanza della democrazia per la pace
globale → gli stati dispotici sono un pericolo per il mondo perché possono costituire terreno fertile per la
nascita di gruppi terroristi.

Oggi l’emergere della Cina mette alla prova queste idee liberali → i pensatori liberali sostengono che
un’ascesa pacifica della Cina è possibile solo se il suo sistema domestico si sposta verso la democrazia liberale
→ in questo modo si comporterebbe come il Giappone post IIWW.
I pensatori realisti sono più scettici sul fatto che la democrazia sia un freno sufficiente per i conflitti → conterà
di più, per loro, il mutamento delle posizioni di potere di Cina e Usa (conflitto inevitabile).

I movimenti per la pace e la società civile globale.


I movimenti per la pace formati quindi da attori non governativi hanno svolto importanti funzioni nella
prevenzione o nella fine di conflitti, portando l’attenzione sui costi delle guerre sulla popolazione e facendo
pressione sui governi affinché affrontino le questioni della sofferenza umana e dell’ingiustizia sociale.
Nel corso del 1900 sia in Europa che negli USA si formarono gruppi pacifisti per cercare alternative alla guerra
e compiere piccole azioni di resistenza.
Esempio →UK National Peace Council, creato nel 1908. Dopo la IWW vi furono attivisti che portarono avanti
le loro idee riguardo alla pace mondiale, con grande consenso per la SdN di Wilson.
Con lo scoppio delle due bombe atomiche si crearono ulteriori gruppi di attivismo pacifista → i pericoli della
guerra nucleare furono il punto focale di queste campagne pacifiste. A queste manifestazioni partecipavano
sia politici che filosofi, ma anche gli stessi scienziati che avevano ideato l’arma atomica.

I movimenti per la pace hanno avuto molti obiettivi differenti:


- In Usa contro la guerra del Vietnam → ricordare la protesta di Chicago del 1968
- Negli anni 80 protestavano contro l’escalation del conflitto bipolare
- Anche la guerra americana in Iraq del 2003 scatenò la nascita di movimenti per la pace
È difficile misurare l’influenza del movimento pacifista sulle azioni dei governi, anche se non si può negare
che in alcuni casi le pressioni da parte della popolazione erano talmente elevate da indurre i leader politici
ad effettuare cambiamenti nelle proprie azioni.
Capitolo 7 - Armi di distruzione di massa

Le armi nucleari
Bombe Blockbuster → nome delle bombe aeree convenzionali più utilizzate da USA e GB durante la 2WW.
Contenevano due tonnellate di materiale altamente esplosivo e il loro compito era divellere i tetti in modo
che poi le bombe più piccole potessero entrare a distruggere più facilmente l’edificio.

16 luglio 1945 → test Trinity → fu fatta esplodere nel deserto del New Mexico una bomba atomica pura che
sprigionò un quantitativo di energia pari a 19.000 tonnellate di tritolo.
→ questo esperimento segnò l’inizio di una nuova epoca per la tecnologia militare e per la politica
internazionale.
Rappresentò il culmine di un progetto segreto che iniziò con l’entrata degli USA nella 2WW, chiamato
progetto Manhattan → gli scienziati di questo progetto lavorarono allo sviluppo di un’arma che avrebbe
potuto immagazzinare, per poi rilasciare, l’energia scaturita dalla fissione, ovvero il processo attraverso il
quale si provoca il decadimento a catena di un atomo, così da sprigionare un’enorme quantità di energia.
Questo tipo di bomba fu utilizzato dagli USA contro due città del Giappone, Hiroshima e Nagasaki → dopo
aver vissuto gli effetti disastrosi di queste due bombe, non fu più utilizzata.
Il monopolio della bomba atomica da parte degli USA durò poco → nel 1949 l’Unione Sovietica testò
anch’essa, con successo, la propria bomba atomica a fissione.

Nel 1952 gli USA produssero un altro tipo di bomba, ovvero la bomba termonucleare, basata sulla fusione e
chiamata bomba a idrogeno o bomba H → questo tipo di bomba nucleare utilizza una fissione contenuta per
causare la fusione delle particelle di idrogeno. Questo processo produce un quantitativo di energia diverse
volte superiore rispetto a una bomba a fissione.
Il primo ordigno termonucleare era però troppo ingombrante → le potenze abbandonarono subito l’idea di
“più grande è, meglio è”, anzi cercarono di rimpicciolire le dimensioni delle testate nucleari in modo che esse
fossero più efficienti.

Oggi l’arsenale più avanzato è in mano agli USA e include una serie di armi nucleari compatte e miniaturizzate
che possono essere lanciate da vettori terrestri, marini o aerei:
- Missili balistici intercontinentali → possono essere sganciati dai bombardieri stealth e sfruttano un
particolare tecnologia che li rende invisibili ai radar nonostante le dimensioni. Possono percorrere
migliaia di chilometri e rilasciare diverse testate che possono poi essere comandate da remoto in
modo individuale.
- Missili balistici lanciati da sottomarini → svolgono la stessa missione, con la stessa precisione, ma
vengono lanciati da un vettore sottomarino.
- I missili da crociera → possono viaggiare ad altitudini così basse che i radar non riescono ad
individuarli e sono equipaggiati con un sistema di navigazione particolare che permette loro di volare
anche in mezzo a valli e attorno a montagne.

La caratteristica principale delle armi nucleari è la loro distruttività senza precedenti. La loro esplosione
genera un’onda d’urto, calore e radiazioni:
- L’onda d’urto provocata dall’esplosione di un solo megatone sarebbe sufficiente, secondo alcuni
studi, a demolire tutti gli edifici non particolarmente rinforzati nel raggio di 6,5 chilometri.
- Il calore generato dall’irraggiamento termico di un’esplosione da un megatone causerebbe ustioni di
terzo grado sulla pelle esposta di persone fino a 8 chilometri di distanza.
- La ricaduta radioattiva si espanderebbe ancora di più, causando rischio di cancro anche a persone
lontane centinaia di chilometri dall’ipocentro.

Ci sono stati diversi studi sulle conseguenze di un’eventuale guerra nucleare tra USA e URSS durante la GF e
tra Pakista e India → con conseguenze tipi l’inverno nucleare ovvero l’oscurazione del sole a causa della
fuliggine per un tempo indeterminato.
I paesi facenti parte del “club nucleare” sono nove → di alcuni paesi è difficile fare una stima effettiva del
numero di testate

Oltre a queste anche il Sudafrica faceva parte del club, ma nel 1991 smantellò le 6 testate che aveva costruito
e rinunciò al programma nucleare.

La rivoluzione nucleare
Lo scopo dell’innovazione militare, tradizionalmente, è stato quello di creare armi nuove e più efficaci per
poter sconfiggere il nemico in tempo di guerra → le armi nucleari sono però qualitativamente diverse e non
si può pensare a esse unicamente come alla prossima generazione di strumenti da guerra.
Brodie diceva “fino ad oggi lo scopo principale di tutto l’apparato militare è stato quello di vincere le guerre.
Da oggi in poi lo scopo principale è quello di evitarle.” → comprende a pieno il paradosso che sta alla base
della rivoluzione nucleare: la potenza di queste armi è così devastante che non possono essere utilizzate per
motivo alcuno.
Secondo Clausewitz la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi → guerra e politica
rappresentano quindi due facce della stessa medaglia: dove la diplomazia fallisce, può riuscire la guerra. →
è però difficile immaginare un obiettivo politico tale da poter giustificare una guerra nucleare.
Nina Tannenwald sottolineala diffusione, dopo il 1945, si una sorta di “tabù nucleare” che ha portato molti
stati a spingere per il disarmo nucleare come imperativo morale e politico
→ se le armi nucleari non sono utilizzabili durante le guerre, qual è il loro vero scopo? La deterrenza →
ovvero utilizzare la minaccia di rappresaglia per proteggersi da un attacco nucleare. Gli stati nucleari usano il
terrore della rappresaglia nucleare per scoraggiare un attacco da parte di altri paesi.

Distruzione assicurata e la particolare logica della MAD


Cosa avrebbero dovuto fare gli USA effettivamente per scoraggiare un attacco nemico da parte dell’URSS?
- Avrebbero avuto bisogno di una capacità di rappresaglia, ovvero riuscire a lanciare le proprie testate
nucleari contro il territorio e la popolazione sovietica, anche dopo aver subito un primo attacco
nucleare da parte dell’URSS.
- La minaccia statunitense avrebbe dovuto essere credibile → URSS avrebbe dovuto realmente
credere che USA avrebbe risposto a un eventuale attacco sovietico. Se per ragioni etiche avessero
dubitato, allora il fattore deterrenza sarebbe saltato.
- Il costo della rappresaglia americana avrebbe dovuto essere così alto da essere inaccettabile agli
occhi della leadership sovietica.
→ quindi, nonostante un primo attacco da parte dell’URSS, gli USA avrebbero dovuto avere le armi nucleari
e la capacità e la volontà di usarle in modo da infliggere un danno inaccettabile al territorio e alla popolazione
sovietica.
Concetto di danno inaccettabile → livello di danno che uno stato non è assolutamente disposto a subire.
Secondo la logica degli USA un danno inaccettabile per l’URSS sarebbe stato del 25% della popolazione e del
50% del complesso industriale del paese, in modo tale da scongiurare un primo attacco sovietico.
Una volta che USA ottenne la capacità fisica e morale di produrre un attacco del genere all’Unione Sovietica,
anche in caso di primo attacco da parte di quest’ultima, raggiunsero la second-strike capability → ovvero la
capacità di contrattaccare dopo un attacco nucleare, chiamato anche distruzione assicurata.
Quando anche l’Unione Sovietica raggiunse la medesima capacità nei confronti dell’USA → situazione di
Distruzione Mutua Assicurata (MAD).
In contrapposizione alla second-strike capability c’è la first-strike capability → ovvero la capacità di colpire
per primi l’altro paese con la sicurezza di distruggere totalmente gli arsenali nuclari e lasciandola priva di
contrattaccare. → è difficile individuare quando e se una potenza possegga la first-strike capability.

I critici della difesa missilistica sostengono che sia impossibile fermare un attacco nucleare poiché basterebbe
una sola testata per causare un danno inaccettabile per l’altro paese → inoltre, in caso in cui uno stato
riuscisse a ottenere un sistema di difesa funzionante, questo sarebbe più tentato a usare l’arma nucleare in
un conflitto.
Molti teorici della deterrenza sostengono che sia più desiderabile ottenere la capacità di rappresaglia
piuttosto che la first-strike → secondo questi la MAD è la migliore delle soluzioni possibili, perché se due
avversari ottengono entrambi la capacità di rappresaglia, nessuno dei due avrà incentivi a iniziare una guerra
nucleare → la MAD rappresenta la stabilità, mentre la first-strike da agli stati troppi incentivi per cominciare
un conflitto.

Seguendo la logica della MAD le implicazioni politiche diventano contro intuitive → l’implicazione politica più
assurda all’interno della logica della MAD è che i governi non dovrebbero difendere la propria popolazione
durante un attacco nucleare → utilizzare i cittadini americani e sovietici come mutui ostaggi durante la GF
costituiva il modo migliore per far sì che nessun governo fosse tentato di utilizzare il proprio arsenale
nucleare.

I governi dovrebbero prepararsi alla guerra nucleare?


Non tutti sono convinti della logica della MAD → sostenevano che non fosse una soluzione pratica
e, anzi spingevano per aumentare le capacità nucleari degli USA → questi vennero definiti come Nuclear
Utilization Theorists (NUTs) → erano convinti che la MAD lasciasse gli USA con la sola opzione di rispondere
a un attacco sovietico e ciò era visto come immorale e non pratico: immorale perché il governo federale
aveva la responsabilità di proteggere i propri cittadini e non pratico perché davanti all’attacco sovietico con
una sola testata nucleare, l’USA sarebbe stata davanti alla scelta se usare tutto il proprio arsenale o meno.
I capisaldi di questa logica erano:
- Ottenere armi capaci di distruggere le capacità nucleari sovietiche e sviluppare strategie per
eliminare la leadership sovietica e per distruggere i sistemi di comunicazione in caso di guerra in
modo tale da impedire qualsiasi tentativo di rappresaglia
- Protezione della popolazione dalle testate nucleari tramite lo sviluppo di una difesa civile, ovvero
metodi di difesa come rifugi antiatomici progettati per proteggere i civili in caso di attacco nucleare
da parte di un avversario.

Il dibattito tra sostenitori della MAD e i NUTs era un’importante dicotomia presente in entrambe le fazioni al
tempo della GF. → entrambi i leader continuavano a dire che non ci sarebbero stati vincitori in una guerra
nucleare, l’unico risultato sarebbe stato la mutua distruzione → entrambi, però continuavano ad aumentare
i propri arsenali preparandosi a combattere un’eventuale guerra atomica.

Jervis osservò che “la MAD è un fatto, non politica” → per ricordare che le armi nucleari sono così distruttive
che per ogni stato che si trovi ad affrontare un avversario con un consistente arsenale nucleare, eludere la
logica della MAD è pura illusione → bisognerebbe solo immaginare le difficoltà che avrebbe un ipotetico
governo di rispondere a un attacco nucleare con un preavviso minimo o nullo che distrugge decine di città e
civili.
Vivere con la MAD: i tentativi di controllo delle armi
Essere consapevoli che non ci sarebbero stati vincitori a fronte di una guerra nucleare ha fatto sì che nel corso
degli anni ci fossero svariati tentativi per stabilire un efficace controllo degli armamenti → l’elemento
catalizzante fu la crisi di Cuba del 1962.
L’anno dopo infatti, le maggiori potenze (USA; URSS, GB) firmarono un trattato con il quale ponevano un
grosso freno ai test nucleari → si metteva fine ai test nell’atmosfera, nello spazio e sott’acqua, ma
rimanevano possibili quelli sottoterra.
Successivamente fu firmato un trattato che riconosceva la pericolosità delle armi nucleari e la loro capacità
di contaminare l’ambiente naturale.

Il primo degli accordi sulla limitazione degli armamenti strategici (SALT I) venne firmato nel 1972 e congelava
il numero dei missili balistici intercontinentali, sia sottomarini che terrestri. Nello stesso anno venne firmato
anche il Trattato antimissili balistici → proibiva lo sviluppo, il test e il dispiegamento di sistemi di difesa
missilistica capaci di coprire l’intero territorio nazionale.
Il SALT I venne seguito dal SALT II → un trattato più articolato che aveva come obiettivo quello di limitare la
corsa agli armamenti riguardante determinati tipi di testate nucleari e vettori di lancio.

Negli USA nacque un corposo movimento di protesta che chiedevano il congelamento delle armi nucleari,
ovvero lo stop della corsa agli armamenti → non fu mai implementato, ma influenzò diversi esponenti politici.

Reagan propose un nuovo tipo di trattato con l’URSS, ovvero l’accordo START → costituiva un avanzamento
nei confronti dei SALT perché implicavano una riduzione effettiva degli arsenali, invece che porre limiti che
comunque generavano corsa agli armamenti (questa fu una delle critiche maggiori nei confronti dei SALT da
parte di critici americani). → nel 1991 venne firmato lo START I che portò effettivamente a una drastica
riduzione delle armi nucleari nel mondo.

Nel 1993 venne firmato da Bush e da Yeltsin lo START II→ prevedeva che entrambe le parti riducessero le
proprie testate nucleari a 3.500 e bandiva l’utilizzo delle testate multiple indipendenti. → questo trattato
però non venne mai implementato per via della protesta sovietica contro la pianificazione di un sistema di
difesa missilistico da parte degli USA. I diplomatici americani annunciarono che questo sistema sarebbe stato
utilizzato contro gli “stati canaglia” ovvero Iran, Corea del Nord… → ma successivamente gli USA
annunciarono che si sarebbero ritirati dal Trattato antibalistico, cosa che convinse l’Unione Sovietica a non
ratificare lo START II.

Nel 2010 venne firmato dalle due superpotenze il Nuovo START → questo trattato stipulava che entrambe
le parti debbano rispettare i limiti entro il 2017 e questi limiti sarebbero rimasti fino al 2020. Inoltre, ogni
parte può effettuare ispezioni in loco per assicurarsi che la controparte stia rispettando i termini dell’accordo.
Obama ha descritto questo trattato come un netto miglioramento rispetto agli accordi SALT, ma in realtà
questo accordo permette di avere molte più testate nucleari di prima → ogni bombardiere, infatti conta
come una testata nucleare, quando in realtà al suo interno potrebbe averne molte di più.

La MAD esiste ancora oggi?


I tentativi di controllo delle armi hanno fatto degli enormi passi avanti dalla GF → i sostenitori del disarmo
sono soddisfatti di queste drastiche riduzioni, però bisogna considerare che queste sono avvenute all’interno
di un contesto storico completamente diverso dalla GF → oggi i due paesi non più equivalenti e il divario
nelle capacità dei due paesi ha contribuito a sollevare il dubbio che gli effetti stabilizzanti della MAD tra le
grandi potenze nucleari, Cina inclusa, stiano venendo sempre meno.
Lo status relativo delle capacità nucleari di USA, Russia e Cina ha fatto sì che alcuni analisti si chiedessero se
gli USA stessero raggiungendo la first-strike capability → studi dicono che un attacco a sorpresa da parte
degli USA avrebbe ampie probabilità di distruggere tutte le basi di lancio russe + il sistema di difesa che gli
USA stanno mettendo a punto sarebbe in grado di fermare un’eventuale risposta dopo un primo attacco. →
questo non vuol dire che gli USA siano pronti a cominciare una guerra nucleare.
La proliferazione nucleare e i tentativi di limitarla
Ottenere una capacità nucleare: difficile, ma non impossibile
Ottenere informazioni su come costruire una bomba atomica non è difficile, dato che la maggior parte delle
informazioni sono reperibili online. La difficoltà sta nell’ottenere il materiale fissile. → gli unici elementi che
si possono utilizzare nel nucleo di una testata sono il plutonio e l’uranio:
- Il plutonio è un elemento rarissimo da trovare in natura, ma viene creato come sottoprodotto del
processo di generazione energetica di una centrale nucleare. Deve essere estratto e poi
riprocessato/raffinato attraverso una procedura molto complicata.
- L’uranio è meno raro del plutonio, ma l’isotopo più comune in natura non è adatto all’utilizzo come
arma → deve essere arricchito sempre tramite meccanismi molto complessi.
Le centrali per l’arricchimento/raffinazione delle due sostanze sono edifici molto grandi, questo rende più
semplice il lavoro degli ispettori che possono capire più facilmente quali stati stanno avviando un programma
nucleare.
Inoltre, un’altra difficoltà è che non basta solo aver ottenuto ona delle due sostanze per creare la bomba, è
necessario anche sottoporre i materiali a una pressione altissima, raggiungibile tramite dell’esplosivo
tradizionale fatto esplodere all’unisono. → i materiali quindi sono molteplici.

Il punto di partenza più logico per avviare un programma nucleare è quello di partire dalla costruzione di una
centrale nucleare capace di generare energia → diventa quindi semplice poi convertire tecnologie e
personale da un programma civile a uno militare.
Esempio → l’india avviò negli anni Sessanta un programma nucleare civile, per poi, nel 1974 sconvolgere il
mondo con un test nucleare. Israele e Pakistan fecero la stessa cosa. Anche la Corea del Nord, appoggiata
dalla Cina, partì dalla costruzione di impianti per il riprocessamento del plutonio per poi arrivare ad eseguire
un test nucleare nel 2006.
Stesso discorso può essere fatto per l’Iran nel 2004/2005 e per l’Iraq durante il regime di Saddam Hussein.
Gioca un ruolo importante nell’ottenimento di altri stati dell’arma nucleare la globalizzazione, la quale rese
più semplice l’ottenimento dei materiali e dei procedimenti.

Perché gli stati vogliono l’arma nucleare?


Data l’insicurezza che permea il nostro sistema internazionale anarchico, ci si dovrebbe aspettare che tutti
gli stati vogliano ottenere l’arma atomica, in realtà non è così: molti sono soddisfatti con il proprio status
quo.
Nonostante questo, possiamo individuare tre motivazioni principali per le quali gli stati sono intenzionati ad
attivare costosissimi programmi nucleari:
1. Situazioni di conflitto con stati confinanti o geopoliticamente rivali → l’esempio principale di questa
situazione lo troviamo tra India e Pakistan → quando l’India fece il suo primo test nucleare riuscito,
il Pakistan, nonostante la scarsità di risorse, era determinato a eguagliare il suo rivale. Stessa cosa è
avvenuta quando Israele ha annunciato di aver ottenuto l’arma atomica.
2. Lo status/prestigio dato dal possesso di un’arma nucleare → a livello internazionale sono sempre
stati simbolo di grande potere. GB e Francia svilupparono e mantennero la propria forza militare per
comunicare al resto del mondo che il loro status rimaneva quello di grande potenza, nonostante la
loro posizione poco rilevante all’interno della NATO. Anche Saddam Hussein aveva intenzione di
rendere l’Iraq la maggiore potenza regionale tramite lo sviluppo dell’arma atomica.
3. Le armi nucleari sono grandi equalizzatrici e sono attraenti per quegli stati che sentono la propria
esistenza minacciata da terzi → Israele si percepiva come uno stato debole in mezzo a una serie di
stati che non riconoscevano la sua legittimità.

Ci si dovrebbe, inoltre, chiedere perché stati con evidente potenziale per creare armi nucleari si trattengano
dal farlo → la ragione principale è la cosiddetta deterrenza estesa, ovvero la minaccia da parte di uno stato
di utilizzare le proprie armi nucleari per proteggere altri paesi.
Esempio → Corea del Sud e Giappone hanno optato per la protezione datagli dagli USA, che infatti si sono
impegnati a difendere questi stati e altri anche con armi nucleari.
Altri stati, invece, hanno abbandonato i propri programmi nucleari per ottenere dei benefici economici o
diplomatici da parte di altri stati.
Esempio → il Sudafrica, alla fine dell’apartheid, smantellò le proprio testate nucleari, rinuncia che faceva
parte di una strategia più ampia volta a integrare il paese all’interno di un sistema internazionale che per
molto tempo lo aveva escluso.
Ucraina, Kazakistan e Bielorussia, con la fine dell’Unione Sovietica, diedero le proprie testate nucleari alla
Russia in cambio di aiuti economici e diplomatici.

Rinunciare alle armi nucleari è motivo di approvazione internazionale, ma può rendere stati più vulnerabili a
un attacco?
Questa domanda venne posta nel 2011 dopo che la NATO decise di intervenire nella guerra civile in Libia,
stato che aveva rinunciato al proprio programma nucleare nel 2003 per ottenere concessioni da parte degli
stati occidentali. Gli stessi videro la guerra in Libia come un’opportunità per rimuovere Gheddafi → il ministro
degli esteri nordcoreano definì l’accordo sul nucleare tra la Libia e l’occidente come “un’invasione tattica per
disarmare il paese”.

Approcci teorici differenti – perché il numero degli stati nucleari è così basso?
- Costruttivismo → enfatizzano l’influenza dello sviluppo e della diffusione delle norme internazionali sul
comportamento degli stati. Il tabù delle armi nucleari e chimiche è il risultato di norme sviluppate del
corso degli anni che sono state progressivamente adottate da tutti i paesi.
- Liberalismo → per i liberali, che si trovano d’accordo con i costruttivisti, è di rilevante importanza
anche il ruolo giocato dalle istituzioni, infatti il regime di non proliferazione offre la possibilità agli stati
di rinunciare alle armi nucleari in cambio dell’accesso a tecnologie nucleari di tipo civile.
- Realismo → i realisti si concentrano di più sui calcoli di potere e sugli interessi degli stati. Paesi
altamente tecnologici possono rinunciare alle proprie forze nucleari se l’ombrello nucleare di un
alleato più potente può scoraggiare un attacco da parte di potenziali aggressori.

Quanto è pericolosa la proliferazione nucleare?


Analisi dell’opera di Waltz e Sagan nella quale hanno discusso se la diffusione delle armi nucleari avesse un
effetto stabilizzante, oppure destabilizzante, sulla politica internazionale.
Waltz → le armi nucleari sono stabilizzanti, è meglio averne in maggiore quantità. Questo ragionamento
contro intuitivo si basa sul forte potere deterrente delle armi nucleari: dato che sono così distruttive, rendono
più cauti e responsabili i governi. Waltz pensa che gli USA ci avrebbero pensato due volte prima di attaccare
l’Iraq, se questo avesse avuto l’arma nucleare.

Sagan → accetta la logica della deterrenza, ma crede che Waltz sottovaluti le caratteristiche e le particolari
situazioni degli stati che recentemente si sono dotati dell’arma atomica. Un problema, ad esempio, è che non
tutti gli stati hanno governi stabili e civili → i leader civili sono tendenzialmente più propensi alla deterrenza,
mentre quelli militari più propensi alla guerra, e la mancanza di un forte controllo civile sull’esercito può
significare una maggiore probabilità di utilizzare l’ordigno durante periodi di crisi.
Il pericolo è aumentato anche perché la proliferazione non avviene mai contemporaneamente, soprattutto
tra stati rivali.
Inoltre, egli si preoccupa del fatto che non tutti gli stati, che si accingono a sperimentare e ottenere l’arma
atomica, sono poi in grado di conservarla senza provocare incidenti. → le armi nucleari sono controllate da
“esseri umani imperfetti in organizzazioni imperfette”. Un’ultima problematica che egli prende in
considerazione è data dal fatto che alcuni stati più aggressivi potrebbero essere soggetti alla convinzione che
gli altri stati, temendo una escalation nucleare, adotteranno posizioni più prudenti per evitare di scatenare
una guerra per qualcosa di poco conto → gioco del pollo.
Sforzi per fermare la proliferazione: il contratto nucleare
I potenziali pericoli della proliferazione vennero individuati subito all’inizio dell’era nucleare → nel 1968 il
Trattato di non proliferazione venne firmato da 98 paesi, mentre nel 2012 divennero 189.
L’NTP è talvolta chiamato “contratto nucleare” perché offre vantaggi in cambio del rispetto di obblighi da
parte di stati sia nucleari che non nucleari.
Gli stati che firmano questo trattato si impegnano a rinunciare alle armi nucleari e permettono il controllo
delle proprie strutture → l’agenzia che si occupa di questi controlli si chiama AIEA da International Atomic
Energy Agency.
Il vantaggio maggiore per gli stati nucleari è la stabilità che deriva dal mantenere il club nucleare ordinato da
un principio discriminatorio: stati nucleari e stati non nucleari. → i primi devono impegnarsi al trasferimento
di tecnologia nucleare civile ai secondi + si impegnano a ridurre il proprio arsenale, avendo come obiettivo
ultimo il disarmo completo.

Nel 2010 l’amministrazione Obama ha completato il Nuclear Posture Review → documento che cercava di
rendere il contratto nucleare più appetibile per i firmatari, lo fece affermando che gli USA non avrebbero mai
usato armi nucleari contro stati non nucleari.

L’efficienza dell’NPT ha degli alti e dei bassi.


Da una parte:
- Ha creato e istituzionalizzato una norma internazionale che dichiara espressamente che la
proliferazione nucleare è inaccettabile.
- Ha legittimato gli stati nucleari a violare la sovranità di altri stati per compiere azioni di ispezione
nucleare
- Da agli stati, attraverso l’aspettativa di tecnologie civili, un motivo economico per sottoscrivere il
trattato.
- Rassicura alcuni stati che rinunciando all’arma nucleare non si troveranno in una situazione di
svantaggio relativo nei confronti di stati civili (prendendo come esempio Brasile e Argentina, stati
nemici, che però hanno entrambi firmato il trattato, rinunciando ai loro programmi atomici).
Dall’altra parte:
- Il problema principale dell’NPT è che i paesi più determinati ad aumentare il proprio numero di
testate non firmeranno il trattato (Israele, India e Pakistan), oppure a firmalo per poi rinunciarvi (Iran
e Corea del Nord)
- L’NTP non è strutturato per contrastare i casi più difficili di proliferazione → esso manca di misure
adeguate, per essere effettivamente applicato, come attraverso l’applicazione di sanzioni collettive.
- Inoltre, anche quegli stati che permettono le ispezioni nel proprio territorio, hanno ampie capacità
di portare a termine dei progetti segreti (Iraq).

Se l’NTP non riesce a fermare questo piccolo numero di stati proliferanti cosa può farlo?
1. Sanzioni economiche collettive + isolamento diplomatico → ma solo se applicate per lungo periodo.
2. Pressione diplomatica internazionale (caso della Libia che firma il trattato nel 2004, o caso della Corea
del Nord che è sotto pressione diplomatica da parte delle altre potenze nucleari affinché abbandoni
i suoi piani nucleari→ per ora no successo). Però il metodo del “bastone e carota” a volte funziona
→ Soviet Nuclear Threat Reduction Act, ovvero un trattato che autorizzò gli USA a spendere miliardi
di dollari per aiutare gli stati dell’ex Unione Sovietica a smantellare le proprie testate nucleari + ri-
formazione di migliaia di scienziati, in modo che potessero trovare lavoro nel settore civile.
3. Controllo sulle esportazioni → Gruppo dei fornitori nucleari (NSG) creato ne 1985 per stabilire delle
linee guida che limitassero le esportazioni di attrezzature e tecnologie nucleari. Un accordo simile è
il Missile Technology Control Regime (MTCR) creato nel 1987 per impedire la proliferazione di missili
che avrebbero potuto essere vettori di armi di distruzione di massa.
4. Azione militare preventiva → questa strategia è in mano solo a quei paesi che dispongono di mezzi
per metterla in pratica (Israele utilizzò questa strategia contro la Siria bombardando ciò che riteneva
essere un reattore nucleare in fase di costruzione).
5. Difesa missilistica → gli Usa stanno portando avanti una serie di esperimenti per costruire una difesa
missilistica in modo da prevenire attacchi limitati. Nonostante questi piani siano palesemente fatti in
funzione anti-iraniana, hanno creato tensioni all’interno della Russia (potrebbe vanificare la loro
deterrenza).
Uno dei limiti più importanti degli sforzi di non proliferazione è il fatto che la non proliferazione può entrate
in conflitto con altre priorità di politica estera.
Esempio→ gli sforzi di non proliferazione americani sono stati inconsistenti nei confronti del Pakistan. Infatti,
i policy makers americani hanno spesso imposto sanzioni al paese per poi alleggerirle in cambio di
collaborazione su temi cari agli USA.

È effettivamente possibile vietare totalmente le armi nucleari?


Molti esperti direbbero che “il genio nucleare non può essere rimesso nella lampada” → gli stati non
sarebbero mai disposti e rinunciare completamente all’arma, non sarebbero mai contrari a rinunciare il
prestigio internazionale che da avere l’arma atomica. Inoltre, anche se tutte le testate al mondo venissero
distrutte, rimarrebbe comunque la conoscenza su come costruirne una.
Nonostante queste difficoltà pratiche l’idea di arrivare ad avere zero armi nucleari rimane viva nel dibattito
sul tema → questa proposta affascina gruppi pacifisti e gruppi attivisti che si oppongono alla guerra:
Kissinger, l’ex senatore Nunn, l’ex segretario di stato Schultz e l’ex segretario della difesa Perry costituirono
un’organizzazione non governativa chiamata Nuclear Security Project → per mobilitare un’azione collettiva
a livello globale per ridurre la minaccia del nucleare.

Armi chimiche e batteriologiche


Armi chimiche: categoria di armi di distruzione di massa che usa componenti chimici artificiali per uccidere.
Esempi principali sono il cloro e l’iprite in forma gassosa, usate durante la IWW, il sarin, che invece è un gas
nervino che causa soffocamento, utilizzato durante un attacco terroristico nella metropolitana di Tokyio e
infine il gas VX, ovvero una forma più letale del sarin, che però non è mai stato realmente prodotto o
utilizzato.
Armi batteriologiche: categoria di armi di distruzione di massa che uccide tramite la diffusione di batteri o
virus.
Esempi principali sono il botulino, un batterio o il vaiolo, un virus, oppure il bacillus anthracis.

Esistono diversi metodi per disseminare agenti chimici e batteriologici, per esempio tramite aerei agricoli
adibiti all’irrorazione dei campi che possono volare a bassa quota oppure possono essere inseriti dentro un
ordigno, la cui esplosione disseminerebbe il virus/agente chimico.

Le armi chimiche sono usate da molto tempo → le Convenzioni dell’AIA del 1899 e del 1907 vietarono
l’utilizzo di armi velenose durante i conflitti, divieto che venne ignorato durante le IWW.
Accordi successivi furono il Trattato navale di Washington nel 1922 e il Protocollo di Ginevra del 1928 che
proibirono entrambi l’utilizzo di armi chimiche, ma anch’essi non vennero granché rispettati, infatti durante
la IIWW vi furono più episodi di utilizzo di armi batteriologiche o chimiche.
Il più vasto utilizzo di questo tipo di armi fu fatto durante la guerra tra Iraq e Iran, un altro esempio tragico
fu la guerra civile in Siria.
Le esperienze di Siria e Iraq hanno aiutato il consenso internazionale sulla necessità di vietare la guerra
chimica ed eliminare le armi chimiche → il trattato internazionale più importante (CWC, CHemical Weapons
Convention) si è svolto nel 1993, è entrato in vigore nel 1997 ed è stato firmato da 192 paesi. Questo accordo
vieta la produzione e il possesso di armi chimiche, coloro che firmano devono inoltre permettere all’OPAC
(Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche) di effettuare dei controlli in loco.
La CWC rappresenta uno dei maggiori traguardi nel contesto di controllo delle armi → vieta completamente
qualsiasi arma letale.
Le sfide finali della CWC sono: eliminare gli arsenali chimici di USA e Russia e convincere alcuni paesi del
Medio Oriente a firmare il contratto.

Durante la GF si diffuse la convinzione che le armi biologiche (batteriologiche) dovessero essere vietate → la
Convenzione per le Armi Batteriologiche (BWC) del 1972 fu lo specchio di questo sentimento e vietò lo
sviluppo, la produzione e lo stoccaggio di agenti batteriologici. Al 2016 sono ben 175 Stati che hanno firmato
e ratificato il trattato, nonostante ciò, la BWC è più debole della CWC perché non prevede il monitoraggio
delle attività.
Differenze tra armi batteriologiche, chimiche e quelle nucleari:
nucleari batteriologiche chimiche
Differenza qualitativa Nessun’altra arma La loro letalità è molto Sono letali ma solo in determinate
provoca effetti così influenzata dalla diffusione del condizioni (grande quantità di
devastanti. batterio la quale deve essere agente chimico + cambiamenti
molto precisa. metereologici, come vento)
Possibilità di difesa impossibile Vaccinazioni preventive Equipaggiamenti con maschere
(americani durante la guerra antigas e indumenti protettivi
del Golfo) (governo israeliano vs Saddam
Hussein)
sviluppo Molto difficile materiali più semplici da materiali più semplici da trovare
trovare
Per il diritto internazionale le armi chimiche e batteriologiche sono vietate ad ogni stato, mentre per quanto
riguarda le armi nucleari, il diritto internazionale divide tra stati nucleari e stati non nucleari.

Armi di distruzione di massa e terrorismo:


→ le conseguenze derivanti dal possesso di un’arma nucleare da parte di un gruppo terroristico sono gravi e
preoccupanti. Il sistema internazionale è riuscito a gestire la presenza delle armi nucleari grazie al fatto che
il loro utilizzo fosse effettivamente scongiurato dalla paura della rappresaglia nucleare. → la deterrenza
funziona contro gli stati perché si basa sulla minaccia di subire un danno inaccettabile al proprio territorio e
alla propria popolazione.
I terroristi non hanno un proprio territorio, né una propria popolazione → la mancanza di un territorio al
quale indirizzare la minaccia è un problema. Si potrebbe minacciare una rappresaglia contro lo stato che
ospita i terroristi, in modo da scoraggiare lo stato stessa a proteggere i terroristi. Questa minaccia però non
avrebbe effetto se i gruppi terroristi si trovassero sul confine tra più stati.
Un’alternativa sarebbe dirigere la rappresaglia contro la popolazione alleata ai gruppi terroristici, così
facendo però la minaccia sarebbe diretta a civili innocenti e questo potrebbe rendere la popolazione stessa
più incline ad avvicinarsi ai terroristi.
Quindi nei confronti di un’organizzazione terroristica in possesso di armi atomiche la deterrenza non
funziona, ma quanto è probabile che essa riesca effettivamente ad ottenerla?
L’ostacolo principale è costituito dall’infrastruttura tecnica e dai vari sistemi di supporto → i terroristi non
tendono a disporre di risorse così sofisticate. La difficoltà connessa alla creazione di una testata non significa
però che automaticamente sarebbe impossibile per un gruppo terroristico costruirla, rubarla o ottenerla
direttamente da uno stato.

La via più probabile che potrebbe condurre all’ottenimento di una capacità nucleare da parte di un gruppo
di terroristi prevede le cosiddette “bombe sporche”, ovvero ordigni privi della potenza di un’esplosione
nucleare ma capace di disperdere materiale radioattivo. → il danno che ne consegue è minore e gli effetti si
avrebbero sul lungo periodo.

La nascita della guerra informatica


Guerra informatica: utilizzo di internet e delle tecnologie ad esso relative, da parte di governi per disabilitare
le attività o i sistemi di un avversario, o di un attore privato ad esso collegato.
Se la guerra informatica costituisca un contributo alla non proliferazione o una nuova, potenziale, arma di
distruzione di massa, è ancora presto per dirlo, ma molti scienziati vedono parallelismi con l’inizio dell’era
nucleare.
Il potenziale distruttivo è sicuramente differente, ma i governi che stanno investendo nella ricerca di armi
informatiche potrebbero creare armi molto potenti → ovviamente rimane ancora da vedere l’effettiva entità
della “corsa agli armamenti informatici”.
Capitolo 8 - Attori non statali e sfide alla sovranità

Stati, sovranità e il sistema westfaliano


Punto di partenza: le RI non comprendono solo gli stati, esiste una moltitudine di altri agenti negli affari
internazionali, ovvero gli attori non statali, che non devono nulla ai governi nazionali, ma che perseguono i
propri obiettivi privatamente, anche attraverso i confini internazionali.
La maggior parte di questi attori opera pacificamente, ma esistono anche attori non statali che si comportano
come bande criminali (pirati, signori della guerra e terroristi). → tendenzialmente usano come basi operative
gli stati deboli, chiamati anche stati falliti, ossia stati che mancano delle istituzioni e delle competenze di
governo fondamentali.

Per cogliere la rilevanza di questi attori non statali bisogna richiamare alla memoria l’ascesa e la diffusione
del sistema degli Stati-nazione → molti identificano la nascita del sistema moderno di stati con la pace di
Westfalia del 1648. In quest’occasione, infatti si comincia a identificare gli stati come sovrani e indipendenti
e come attori dominanti del sistema internazionale. Nei secoli successivi, poi, lo stato-nazione acquisì una
serie di competenze in quanto ente politico e si diffuse in tutto il mondo.
Vi sono due aspetti principali che caratterizzano il sistema degli stati westfaliano:
1. Nella sfera interna, gli stati sono entità territoriali sovrane → Max Weber “gli stati nel sistema
westafaliano possiedono, all’interno di un determinato territorio, l’uso legittimo della forza fisica”. I
gruppi presenti nella società non hanno alcun potere di agire come eserciti o polizia privata.
2. A livello internazionale, i governi nazionali riconoscono e rispettano la suprema autorità degli stati in
quanto enti politici sovrani. → ovvero, gli stati non hanno alcun potere legittimo di intervenire negli
affari di altri stati.

È importante distinguere le norme ideali del sistema westfaliano dall’effettiva capacità dello stato di
rispettare tali norme → molti stati hanno dichiarato il proprio status di enti sovrani, ma non sono mai stati
in grado di far rispettare pienamente il loro monopolio dell’uso della violenza all’interno delle proprie società.
Signori della guerra, ovvero autorità private a capo di eserciti o milizie personali, hanno tormentato gli stati
per secoli.
Esempi → mafia americana e italiana, trafficanti di droga in Messico, associazione Yakuza, un’associazione
militare giapponese.

Gli stati sovrani, da un punto di vista legale sono tutti uguali tra loro, ma in termini di capacità, essi
differiscono molto gli uni dagli altri → in questo senso le norme di uguaglianza all’interno del sistema
westfaliano coesistono con un sistema di disuguaglianza di potenza e di gerarchia politica. → gli stati,
soprattutto i più deboli, sono costantemente esposti alla minaccia posta da questi gruppi non statali.

Le sfide allo stato sovrano


Vi sono tre fattori che mettono in discussione la tradizionale idea westfaliana di sistema internazionale:
1. Avanzamenti tecnologici → hanno reso più facile per gruppi terroristici accedere a una serie di
informazioni per creare armi batteriologiche o chimiche, inoltre la tecnologia ha facilitato la
comunicazione, anche internazionale, di questi gruppi terroristici.
Dall’altra parte, però, l’avanzamento tecnologico può anche aiutare gli stati sovrani a monitorare e
controllare le azioni di questi gruppi. Rimane da stabilire chi riceva il vantaggio più grande e utile.
2. La capacità degli stati di mantenere il controllo sovrano dei loro territori varia considerevolmente →
vi sono molti stati che sono stati più di nome che di fatto, ovvero sono talmente deboli che non
riescono ad esercitare un effettivo controllo sui propri territori. Stati più consolidati riescono meglio
in questo, anche se non sono del tutto immuni dalla presenza di gruppi terroristici.
3. I paesi di varie parti del mondo sono stati sempre più interessati dalle attività di attori non statali.
Di fronte a questa serie di minacce all’ordine westfaliano, molti stati cercano delle soluzioni:
- Indirizzare contro gruppi criminali servizi di informazione, operazioni speciali, azioni sotto copertura
e campagne anti-insurrezione (USA utilizzano droni privi di pilota per sorvegliare luoghi come
Pakistan e Afghanistan).
- Cercare di rendere più stabili gli stati deboli e in via di fallimento che offrono protezione ai gruppi
fuorilegge. (come fece l’amministrazione Bush dopo l’11 settembre).

Allo stesso tempo, le norme sulla sovranità dello stato stanno subendo una propria evoluzione, che si riflette
in particolare nell’emergere della norma che statuisce la responsabilità di proteggere → ovvero una norma
internazionale secondo la quale se un particolare stato sta infliggendo danno o violenza, la comunità
internazionale ha il diritto e dovere di intervenire. →La comparsa di questa norma corrisponde a
un’evoluzione del modo d’intendere la sovranità statuale all’interno della comunità internazionale.

Analisi più in dettaglio dei vari tipi di attori non statali.


Pirateria → bande non stabili dedite a rapine e atti di violenza criminale in alto mare.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 definisce la pirateria come “un atto di
violenza o di sequestro commesso a fini provati contro l’equipaggio o i passeggeri di una nave in acque
internazionali. → l’esistenza di questi gruppi equivale a una sfida diretta agli stati e al loro monopolio del
controllo dell’uso della forza all’interno e fra stati.

La pirateria nel passato


La pirateria risale al Medioevo, quando prime organizzazioni di pirati fecero la propria comparsa nei mari
dell’Europa occidentale, nei mari del Nord e lungo le coste atlantiche. Erano tendenzialmente gruppi di
commercianti attratti dalle ricchezze che avrebbero potuto acquistare compiendo tali atti.
L’assenza di stati centralizzati in Europa inaugurò un’era di pirateria dilagante.
I maggiori esempi sono i saccheggi da parte di pirati musulmani nelle città costiere di Francia e Italia e nelle
coste del Nord Africa. Anche i Caraibi furono soggetti a razzie dei pirati nei secoli successivi all’arrivo di
Cristoforo Colombo.
Il problema della pirateria fu una delle principali sfide diplomatiche che gli Stati Uniti, appena formati,
dovettero affrontare. Con il venir meno della protezione inglese, infatti, i bastimenti americani cominciarono
a essere catturati dalle navi corsare. Il problema culminò nel 1785 quando dei corsari algerini catturarono
due navi statunitensi e il Congresso vietò il pagamento del riscatto richiesto, lasciando così gli ostaggi per
decenni nelle mani dei pirati.

La pirateria moderna
Con l’avvento del potere navale moderno la pirateria diminuì un po' ovunque, anche se non scomparse del
tutto. Oggi infatti, grazie alla formazione di stati-nazione forti, solide potenze navali garantiscono la sicurezza
delle rotte marittime e prevengono l’azione delle bande di pirati → in altre regioni (Mar Rosso e Oceano
Idiano), però la pirateria è un dato di fatto della vita in mare.
La pirateria moderna mostra i limiti della capacità statale di garantire l’ordine e fornire sicurezza in acque
aperte ed è agevolata dalla debolezza degli stati falliti/deboli. → il problema sarà risolto quando questi stati
disporranno di risorse sufficienti per opporsi alle attività dei pirati nei loro porti e lungo le loro coste.

Stati deboli/falliti
Stati deboli: stati dotati di governi centrali funzionanti ma con uno scarso controllo dei loro territori e delle
loro frontiere.
Stati falliti: stati in cui nemmeno il governo centrale è in funzione. Il carattere distintivo degli stati falliti si
manifesta innanzitutto nell’incapacità di questi ultimi di imporre ordine.

I primi stati comparsi in Europa non emersero istantaneamente pienamente formati e sovrani → furono il
risultato di un processo creativo, dovettero costruire istituzioni e stabilire la loro autorità suprema all’interno
di confini territoriali internazionalmente riconosciuto.
In alcuni casi i governi centrali non riescono a istaurare un sistema di governo e un ordine nel quadro di uno
stato sovrano perché province e regioni periferiche aspirano a essere indipendenti (Spagna e GB).
In altri casi bande criminali e signori della guerra agiscono come mini-stati nelle zone periferiche
(Afghanistan).

Al fine di comprendere meglio i processi attraverso i quali le minacce al sistema internazionale descritte
hanno luogo possiamo osservare in maggior dettaglio tre paesi in tre differenti zone del mondo: Afghanistan,
Sudan e Colombia (pag 316-321)
→ ciò che accomuna questi tre stati è l’incapacità dello stato centrale di affermare la propria autorità e il
proprio controllo sovrano sul territorio nazionale. Essi mancano di un connotato essenziale di qualsiasi stato
sovrano, ovvero il monopolio dell’uso legittimo della violenza all’interno dei confini territoriali.
Questi governi sono deboli e in procinto di fallire → questo fa in modo che gruppi privati possano prendere
il controllo di regioni e zone periferiche → circolo vizioso: i gruppi prendono piede perché lo stato è debole,
dando così luogo a una situazione che rende lo stato ancora più debole, ciò permette a sua volta a questi
gruppi di rafforzarsi.
Hassner, studioso di RI, definisce questo collasso dell’autorità statale come un “ritorno al Medioevo”, una
situazione in cui lo stato è compromesso dalla proliferazione di blocchi di potere antagonisti sub-statali.

Terrorismo
I terroristi utilizzano la violenza contro i civili per raggiungere obiettivi politici. Può essere impiegato da un
gruppo che intende intimidire, forzare o manipolare le opinioni di un altro popolo infliggendo violenza su
civili innocenti. Questa violenza nella maggior parte dei casi è una mossa calcolata e finalizzata a modificare
il comportamento di un nemico → l’obiettivo finale è la politica estera di uno stato.
Si tratta di un fenomeno antico → nel XIX/XX secolo assumeva la forma di atti violenti compiuti da movimenti
nazionalistici che resistevano all’occupazione straniera e cercavano di ottenere l’indipendenza da
dominazioni imperiali o coloniali. (Russia fine 1800 → opposizione allo stato zarista da parte di gruppi
anarchici; nazionalisti armeni che combattevano per l’indipendenza dall’impero Ottomano; inizio 1900
gruppo di sionisti che combatteva per costituire uno stato ebraico).
Anche nel periodo successivo alla IIWW ci fu una ondata di movimenti nazionalisti e anticoloniali (Viet Minh;
guerriglia basca contro Francisco Franco).

Il gruppo terrorista internazionale più noto è Al Qaeda → fondato nel 1988 da Osama Bin Laden. Si tratta di
un movimento di estremisti islamici sunniti che ha compiuto atti di violenza allo scopo di porre termine alle
influenze straniere sui paesi musulmani e instaurare un nuovo califfato islamico. (questo gruppo è
responsabile del più grande attacco terroristico, quello alle Torri Gemelle).
Questa violenza è indirizzata contro il nemico, ma non è finalizzata alla sconfitta di un nemico in guerra: si
tratta piuttosto di un atto di guerra attraverso il quale si cerca di presentare una posizione politica e di
modificare il modo in cui gli altri percepiscono un conflitto politico. (valenza simbolica degli attacchi in
America).

Perché i terroristi si comportano in questo modo?


Ci sono molte ragioni per cui dei militanti mossi dall’ira abbracciano il terrorismo:
- Ricerca di una patria indipendente
- Altre formazioni hanno perseguito obiettivi politici più complessi:
Rivoluzionari europei nell’Ottocento cercarono di sovvertire il capitalismo e instaurare un nuovo
ordine politico.
Alcuni gruppi islamisti hanno tentato di trasformare gli stati del MO in un califfato transnazionale.

→ tecnologia e privatizzazione della guerra


Il miglioramento delle tecnologie di comunicazione e l’accesso sempre più facilitato a strumenti di violenza
più mortali, sta portando la guerra ad essere privatizzata → lo stato non detiene più il monopolio effettivo
della violenza.
Il giornalista Wright ha chiamato questa tendenza “la crescente letalità dell’odio”.
Le reazioni internazionali alla sfida degli attori non statali
Tre tipi di risposte sono state attuate dalla comunità internazionale o da singoli stati:
1. Attaccare obiettivi terroristici → implica un’azione militare diretta. USA in Afghanistan nel 2001.
L’amministrazione Bush sviluppò la dottrina del pre-emptive action, che forniva una giustificazione
ai futuri tentativi di colpire i terroristi prima che questi potessero attaccare. Sulla base di questa
dottrina → invasione Iraq per abbattere il regime di Saddam Hussein.
2. Dotarsi di risorse per esercitare deterrenza rispetto al terrorismo → consiste in una serie di
convenzioni e accordi internazionali finalizzati a dotare gli stati dell’autorità necessaria a rintracciare
i gruppi impegnati del trasporto di armi di distruzione di massa nel mondo. Sia prima del 2001, che
nel decennio successivo, furono firmate dentro l’ONU tutta una serie di convenzioni volte a ridurre
il potere e le risorse di queste organizzazioni terroristiche. Inoltre, fuori dall’ONU gli stati hanno
collaborato per espandere il controllo e rafforzare la sicurezza dei siti nucleari e dei confini.
3. Compiere sforzi di lungo periodo per rafforzare gli stati deboli o in via di fallimento → le attività di
governo e le prescrizioni di politica estera per ottenere questo risultato derivano da una particolare
prospettiva a proposito delle radici del terrorismo → i movimenti e lo sviluppo del terrorismo
determinano il modo in cui gli stati dovrebbero agire per scongiurarlo. Implicita in questa prospettiva
vi è una duplice asserzione: che il terrorismo globale è un nuovo sviluppo quasi rivoluzionario che
minaccia l’esistenza stessa della società; e che questa minaccia rivoluzionaria può essere indebolita
da sforzi straordinariamente ambiziosi e di lungo termine finalizzati al rafforzamento degli stati.

Altre visioni:
- Alcuni vedono il terrorismo come un pericolo, che può essere gestito senza intervenire nella
ricostituzione degli stati deboli → se è vero che Al Qaeda agisce per limitare l’influenza di altri stati
sui territori del MO, una soluzione possibile sarebbe effettivamente ritirare le truppe americane dal
territorio
- Secondo altri l’attività terroristica di AQ sarebbe innescata dalla mancata risoluzione dei problemi
politici in MO.
- Altri ancora sostengono che la minaccia del terrorismo non abbia le sue origini in zone del mondo
deboli e travagliate, bensì all’interno dell’Europa e degli USA, trattandosi di un problema sociale
interno di integrazione della popolazione immigrata musulmana e di consolidamento della pace e
della cooperazione all’interno della società civile.

La risposta globale agli stati falliti


Il modo in cui la comunità internazionale dovrebbe reagire al problema degli stati deboli è diventata una
questione decisiva per la politica mondiale del XXI secolo.

Ufficialmente tutti gli stati internazionalmente riconosciuti sono entità sovrane → la Carta delle Nazioni Unite
osserva nell’articolo 2 che “le Nazioni Unite non interverranno in questioni che appartengono essenzialmente
alla competenza interna di uno stato”. Vi sono delle eccezioni a questa norma, indicate nel capitolo VII della
Carta, ovvero quando uno stato pone una minaccia alla pace a alla sicurezza internazionale è possibile per gli
stati intervenire.
Quando questa Carta è stata scritta, però, il problema del terrorismo non era evidente come oggi, in tempi
recenti, infatti il Consiglio di Sicurezza si è mostrato disposto a definire in maniera più ampia questi pericoli
per la pace e la sicurezza internazionale.
In occasione del grave disastro umanitario in Somalia nel 1992-3, ad Haiti nel 1994 e in Albania nel 1997 si
diffuse l’idea che la comunità internazionale dovesse prepararsi a intervenire negli stati falliti per impedire o
alleviare crisi umanitarie.
Nell’era attuale i governi nazionali credono che la comunità internazionale abbia il diritto e il dovere morale
di intervenire in paesi instabili per impedire genocidi e uccisioni di massa.

Durante la crisi in Kosovo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ottenne l’approvazione di tutti i membri per
effettuare un’azione militare (la Russia si oppose), per questo intervenne la NATO, con una spedizione
guidata dall’America. Kofi Annan, segretario generale dell’ONU elaborò una visione della natura contingente
delle norme sulla sovranità e il non intervento. → Strobe Talbot, analista di politica estera americana,
descrive così le concezioni sviluppate da Annan:
“le frontiere di uno stato non dovrebbero essere viste come una protezione impenetrabile per criminali di
guerra e assassini di massa. Il fatto che il conflitto sia interno non da alle parti alcun diritto di ignorare di
ignorare le più basilari norme di condotta umana. L’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite non è mai stato
inteso come una licenza che permette ai governi di calpestare i diritti e la dignità umani. La sovranità implica
responsabilità, non solo potere.”

Questa nuova concezione per cui la sovranità implica responsabilità riflette una ridefinizione graduale e in
evoluzione del significato di sovranità nazionale. → questa idea venne sviluppata nella norma chiamata
“Responsability to Protect” ed è enunciata nel Documento finale del World Summit del 2005, poi ratificato
dall’Assemblea generale dell’ONU → secondo questa norma gli stati hanno una responsabilità di proteggere
i propri cittadini dalla violenza che si manifesta in forma di genocidio, crimini di guerra, crimini contro
l’umanità e pulizia etnica. Gli stati sono quindi obbligati ad agire per porre fine o prevenire queste atrocità di
massa.

L’amministrazione Bush forzò i termini di questa norma nel 2003 quando decise di invadere l’Iraq fornendo
come giustificazione la minaccia potenziale posta dallo stato. → questo nuovo tipo di ragionamento fu colto
al tempo da Haass, funzionario presso il Dipartimento di stato degli USA:
“la sovranità non è un assegno in bianco, ma piuttosto uno status subordinato all’adempimento da parte di
ciascuno stato di certi doveri fondamentali, sia verso i propri cittadini che verso la comunità internazionale.
Quando un regime non riesce a corrispondere a queste responsabilità o abusa delle proprie prerogative, esso
rischia di perdere i propri privilegi sovrani, compresa la sua immunità rispetto a un possibile intervento
armato.”

Haass sosteneva che ci fossero tre circostanze in cui le eccezioni al principio di non intervento sono valide:
1. Quando uno stato commette o non impedisce un genocidio o un crimine contro l’umanità
2. Quando uno stato favorisce, finanzia o offre rifugio a terroristi internazionali o non è in rado di
controllare terroristi operanti all’interno dei propri confini.
3. Quando uno stato compie azioni che costituiscono una chiara minaccia per la sicurezza globale.

Se, però, la comunità internazionale ha iniziato ad accettare queste infrazioni della sovranità statale,
compresi interventi militari su vasta scala, la capacità di queste iniziative di invertire effettivamente la
disintegrazione e il fallimento degli stati rimane problematica. Due studiosi di politiche dello sviluppo hanno
sollevato delle questioni con cui la comunità internazionale dovrà confrontarsi: “cos’altro si può fare che non
sia già stato tentato, senza successo, per salvare e ricostruire stati come Haiti, Bosnia, Somalia, Iraq…? Gli
studi empirici producono risultati deprimenti: quasi il 50% dei paesi che sorgono da un conflitto ritornano in
uno stato di guerra entro 10 anni, eppure il sistema internazionale non è riuscito ad elaborare dei meccanismi
che arrestassero queste regressioni in maniera efficace. Come ridefinire lo stato sovrano in modo da misurare
oggettivamente la sua funzionalità ed efficacia? Quale metodo praticabile ed empiricamente efficace
possiamo applicare per aiutare gli stati in difficoltà a rimettersi in piedi su basi sostenibili?”

La comunità internazionale non ha ancora trovato il consenso necessario a stabilire quando e come le norme
e le istituzioni relative alla sovranità statale possono essere violate in risposta alla violenza interna e
transnazionale.
Capitolo 9 - Ambiente e relazioni internazionali

Fonti dei problemi dell’ambiente globale e delle risorse naturali.


Quali sono i fattori causali che contribuiscono ai problemi ambientali relativi alle risorse naturali nei paesi e
fra gli stati? Gli studiosi ne hanno identificati due:
1. Esternalità negative
2. Tragedia dei beni comuni

Esternalità negative
Un concetto che ci aiuta a identificare le fonti dei problemi ambientali nei paesi e fra gli stati deriva dalla
disciplina economica → il concetto di esternalità, che gli economisti definiscono come “i benefici e i costi di
un bene non rispecchiati nel prezzo dello stesso”.
Le esternalità possono essere positive o negative e i loro effetti possono essere percepiti da consumatore,
dal produttore o da terzi.

Per capire meglio prendiamo come esempio il computer portatile. Il prezzo che si paga per il computer riflette
principalmente due dinamiche distinte:
- Il costo che il fabbricante deve assorbire per produrre il computer
- Il valore che noi attribuiamo al prodotto, misurato secondo i beni e i servici che siamo disposti a
sacrificare per acquistarlo.
Nel processo di produzione del portatile, il fabbricante può beneficiare della possibilità di imparare come
costruirne uno in futuro → questo utile processo di apprendimento non è rappresentato nel prezzo del
computer. → il portatile ha quindi una esternalità positiva per il fabbricante, ossia questo processo di
apprendimento.
Invece, per esempio, se nel processo di produzione del computer il produttore immettesse materiali
inquinanti in ruscelli e fiumi e se questi materiali nuocciono alle persone che vivono nelle vicinanze, ancora
una volta il fabbricante non è tenuto a nessun risarcimento e questo fattore non influisce il prezzo del
prodotto. → in questo caso il computer produce delle esternalità negative.

Ci sono due importanti questioni che derivano dalle esternalità negative:


1. È ingiusto che persone che non guadagnano nulla dal computer debbano incorre in un danno,
l’inquinamento delle acque, senza avere nessun tipo di risarcimento.
2. Se non esiste un modo per far includere al fabbricante di computer i costi di risarcimento nel prezzo
finale del computer, questi non riceverà nessun incentivo a fermare l’emissione delle sostanze.

Le esternalità sono presenti in qualsiasi economia → possono potenzialmente diventare questioni


internazionali quando in forma negativa provocano danni a individui e popolazioni che vivono in zone di
confine. Nei paesi coinvolti si rende necessario cercare di mitigare gli effetti di tali esternalità attraverso
azioni internazionali.
Esempio → piogge acide dell’America Settentrionale e nel Canada. → le industrie e le centrali elettriche
canadesi rappresentano una delle cause delle piogge acide che stanno provocando danni nelle province
settentrionali del paese, a questi problemi però si aggiunge anche l’inquinamento transfrontaliero che arriva
dagli USA. Infatti, le emissioni di gas in USA vengono trasportate dai venti fino al Canada, provocando ulteriori
piogge acide.
Tuttavia, poiché per anni i costi di riduzione dei danni non si riflettevano nei costi di produzione statunitensi,
questi non hanno avuto l’incentivo a fermare le piogge acide → questo è un esempio di esternalità negativa
internazionale.
La tragedia dei beni comuni
La tragedia dei beni comuni viene definita come una situazione in cui l’azione razionale secondo i propri
interessi personali da parte di attori individuali si combina in modo da creare una situazione catastrofica per
tutti.
Questo termine fu introdotto dall’ecologista Garrett Hardin nel 1968.
→ per osservare come gli esseri umani possano creare tali problemi, Hardin fa un esempio: alcuni pastori che
utilizzano un appezzamento di terreno da pascolo in comune tra loro.
Se la popolazione che usufruisce dei prodotti dei pastori, rimane bassa e stabile, la richiesta di carne rimane
limitata e il terreno da pascolo continua a essere sufficiente a soddisfare il bestiame. Se invece la popolazione
cresce, lo stesso avviene per la richiesta di carne e ciascun pastore sarebbe tentato dall’idea di aumentare di
un capo di bestiame la propria mandria → in questo modo il pastore potrebbe beneficiare dell’ulteriore
profitto dovuto alla vendita del capo in più, senza imbattersi nei reali costi aggiuntivi in termini di
sfruttamento del terreno in comune. I costi infatti sarebbero divisi fra i pastori.
→ date le circostanze, tutti i pastori potrebbero volere un capo di bestiame in più, di conseguenza il terreno
da pascolo verrebbe in breve tempo depauperato e distrutto, mentre i pastori e la comunità si troverebbero
a dover fronteggiare gravi conseguenze.

Hardin descrive questo processo come una “tragedia”, nel senso che il risultato negativo, la distruzione dei
beni comuni e le problematiche che ne derivano per la comunità, non avviene perché la gente sia stupida o
cattiva, ma a causa dei risultati dell’interazione di individui razionali che perseguono i propri interessi nelle
circostanze in cui si trovano. (queste circostanze, nell’esempio fatto sono: la crescita della popolazione, le
risorse limitate utilizzate in comune, e l’assenza di un’autorità governativa per regolarne l’utilizzo).

La dinamica della tragedia dei beni comuni, identificata da Hardin, è alla base di una serie di problemi
internazionali relativi all’ambiente e alle risorse globali e rappresenta un altro dei meccanismi principali che
collega l’ambiente naturale alle RI.

Sfide per l’ambiente mondiale e le risorse naturali


Problemi dell’atmosfera
I cambiamenti climatici globali e la riduzione dello strato di ozono possono essere entrambi avere delle
conseguenze seriamente dannose per la vita umana → potrebbero inoltre, aumentare il rischio di conflitti
futuri sia a livello nazionale che a livello internazionale.

Cambiamenti climatici → troviamo distinti segnali del fatto che la terra si stia surriscaldando (drastica
riduzione della calotta artica). A contribuire al riscaldamento sono le emissioni di anidride carbonica, ossido
di azoto, metano e altri gas fluorurati → questi composti sono chiamati gas serra e bloccano sulla terra parte
dei raggi infrarossi prodotti dal sole, che dovrebbero invece tornare nello spazio.
Gli esseri umani producono gas serra soprattutto attraverso l’utilizzo dei prodotti derivati da petrolio e gas
naturali per automobili e da carbone, per impianti elettrici e strutture industriali → ne consegue che il
riscaldamento globale è un’esternalità negativa internazionale dovuta alle attività economiche degli esseri
umani.
Gli effetti più devastanti dei cambiamenti climatici colpiranno con tutta probabilità i paesi in via di sviluppo
(continente africano); i maggiori responsabili delle emissioni, invece, sono i paesi dei paesi più avanzati (USA,
Europa, Cina).
Il riscaldamento globale rappresenta un chiaro esempio di come un problema ambientale che costituisce
un’esternalità negativa, sia anche un problema internazionale → questo perché non c’è nulla che i paesi in
via di sviluppo possono fare per sistemare la situazione, lo devono fare invece i paesi industrializzati, ma non
hanno incentivi a farlo.

I cambiamenti climatici pongono importanti problematiche etiche e politiche → i leader di governo sono in
disaccordo su quali paesi siano i maggiori responsabili delle emissioni e debbano pertanto fare di più per
ridurle.
I paesi industrializzati intendono partire dal
livello di emissioni di anidride carbonica
attuali e prevenire aumenti futuri che
potrebbero peggiorare già in seri problemi →
inquadrando la questione in questa maniera, i
paesi sviluppati possono concentrarsi sugli
andamenti presentati nei pannelli A e B, che
suggeriscono che le emissioni annuali dei
paesi sviluppati dovrebbero stabilizzarsi o
addirittura diminuire, mentre si prevede che
le emissioni di paesi in via di sviluppo
aumentino in maniera sensibile.
Basandosi su questa proiezione, i governi dei
paesi più sviluppati sono convinti che siano i
paesi in via di sviluppo i primi a dover ridurre
l’aumento delle loro emissioni.

I governi dei paesi in via di sviluppo


preferiscono concentrarsi su chi siano i
maggiori produttori attuali e futuri di anidride
carbonica pro-capite. Secondo questo criterio
i paesi in via di sviluppo non sono stati, non
sono e non saranno produttori significativi in
termini di livelli di CO2 mondiali. I reali
colpevoli sarebbero i paesi OCSE (USA e
Giappone). I paesi in via di sviluppo pensano
che la responsabilità di diminuire le emissioni
sia principalmente dei paesi sviluppati, inoltre
sono convinti che l’accumularsi di anidride
carbonica fino ad oggi è stato causato
sostanzialmente dai paesi evoluti e quindi sia
responsabilità loro fornire ai paesi in via di
sviluppo la tecnologia e le risorse finanziarie
necessarie per passare ad un futuro a basse
emissioni.

In base alle previsioni di alcuni esperti i cambiamenti climatici internazionali potrebbero diventare un nuovo
e potente fattore scatenante per guerre civili in paesi in via di sviluppo. → sebbene siano riconoscibili possibili
percorsi causali che porterebbero i cambiamenti climatici ad aumentare i rischi di guerre civili o
internazionali, gli studiosi mettono in guardia dal determinismo ambientale → il punto di vista secondo il
quale i cambiamenti dell’ambiente naturale come quelli climatici portino necessariamente e
autonomamente gli esseri umani e le loro comunità a reagire in una particolare maniera. → secondo questa
linea di pensiero, il riscaldamento globale potrebbe causare tensioni ambientali a un numero enorme di
persone negli anni a venire → tuttavia, se queste tensioni si tradurranno in conflitti dipenderà largamente
dalle risposte a tutta una serie di altre questioni.
Assottigliamento dello strato d’ozono
L’assottigliamento dello strato d’ozono è stato osservato per la prima volta nella seconda metà degli anni 70
→ il livello era talmente basso nell’area antartica, da determinare lo svilupparsi del “buco nell’ozono”. Gli
scienziati, inoltre, stabilirono che la causa della riduzione dello strato di ozono era da ricercarsi
nell’inquinamento atmosferico prodotto dagli esseri umani, in particolare di clorofluorocarburi → composti
utilizzati come propellenti in bombole aerosol e estintori, nonché come ingrediente fondamentale dei
refrigeranti usati nei condizionatori d’aria. → sono stati resi illegali.

Con l’assottigliamento e la riduzione dello stato protettivo dell’ozono, le radiazioni che arrivano sulla
superficie terrestre aumentano notevolmente, contribuendo a tutta una serie di effetti nocivi → lo strato
d’ozono è un tipo di bene comune globale la cui presenza protegge gli esseri umani.
Il degrado di tale bene rappresenta un esempio di tragedia dei beni comuni → nessuna azienda o ente
intendeva danneggiare l’ozono, ma le decisioni razionali di tutti questi attori stavano inesorabilmente
portando alla sua riduzione.

Danni alle risorse idriche mondiali


Lo sviluppo economico e la crescita di popolazione mondiale stanno ponendo una pressione sempre
maggiore sulle risorse idriche.

Contaminazione delle risorse di acqua dolce


Dal progresso economico di sempre più paesi, deriva un aumento dell’utilizzo di acqua dolce per processi
industriali, fini commerciali e residenziali.
Attualmente, circa un terso delle riserve rinnovabili di acqua dolce vengono utilizzate dagli esseri umani →
l’uso intensivo di questa risorsa sta provocando una riduzione dell’acqua potabile disponibile, specialmente
nei paesi in via di sviluppo.
Esempi: alcuni materiali tossici vengono spesso esportati in altri paesi e se non vengono smaltiti
correttamente, possono contaminare risorse idriche; operazioni per l’estrazione dell’oro che richiedono
l’utilizzo del mercurio e producono come materiali di scarto il cianuro → le popolazioni che abitano questi
paesi sono potenzialmente esposte a gravissimi rischi per la salute.

Inquinamento da idrocarburi negli oceani


Incidenti che coinvolgono le petroliere rappresentano una fonte di inquinamento degli oceani (dal 1970 al
2008 ci sono stati circa 1700 incidenti). → gli studiosi non sono ancora in grado di calcolare i danni che questi
incidenti hanno causato all’ambiente, alla flora e alla fauna. Sappiamo però che il costo della pulizia della
fuoriuscita di petrolio è molto alto.

Minacce alla vita marina


Nel 2011 sono stati pescati circa 154 milioni di tonnellate di pesce, di cui l’85% utilizzato direttamente per il
consumo umano e il restante per mangimi per allevamenti → mentre l’acquacoltura di per sé produce una
grande quantità di pesce, la pesca tradizionale rappresenta ancora il maggior strumento di
approvvigionamento. Il problema è che c’è la possibilità che si stia realizzando una drammatica tragedia dei
beni comuni relativi alla pesca commerciale in mare aperto → gli esseri umani, non per cattiveria o
irrazionalità, stanno pescando eccessivamente.
Recentemente l’iper-sfruttamento delle risorse ittiche (sovrapesca) è talmente radicato e diffuso che stiamo
mettendo a rischio molte specie importanti per il consumo umano.

Purtroppo, le tendenze globali rispetto all’utilizzo di pesce non lasciano ben sperare → oltre il 10% delle più
importanti varietà mondiali di pesce erano già sfruttate oltre i livelli sostenibili nel 1979. Questo significa che
il problema era già evidente quando i livelli di pesca non erano così elevati come lo sono oggi.
Alcune dinamiche stanno forse riducendo solo le riserve di pesce destinate ad uso commerciale, tra cui
l’inquinamento accidentale da idrocarburi, tuttavia il problema principale rimane la tragedia dei beni comuni.
Ci sono altre due questioni riguardanti la fauna maina, che risultano essere importanti in questo frangente:
- Problema della caccia commerciale alle balene a fini di consumo della carne dei cetacei → stiamo
portando all’estinzione alcune specie di balene.
- Il secondo problema riguarda i delfini → l’uccisione di questi animali non avviene, di norma,
intenzionalmente, ma come danno collaterale della pesca dei tonni (tonni e delfini si radunano
insieme).

Deforestazione → ovvero il disboscamento o sfruttamento eccessivo delle foreste. Questo problema è


particolarmente diffuso nei tropici, dove si trovano le risorse boschive più ampie al mondo.
La deforestazione è un esempio di tragedia dei beni comuni → non c’è persona singola che voglia sfruttare
troppo le foreste del globo, tuttavia, la forte richiesta commerciale di prodotti del legno, di terre da pascolo
o agricole in combinazione con scarse opere di conservazione da parte dei governi e della comunità
internazionale hanno prodotto il disboscamento smisurato di importanti riserve boschive.

Conseguenze della deforestazione:


- Come contribuisce ai cambiamenti climatici → spesso per ripulire le foreste si utilizza il fuoco e
questa tecnica contribuisce al riscaldamento globale.
- Il problema della biodiversità → con questo termine si intende sia la varietà di forme di vita presenti
sulla terra, che la variabilità all’interno della specie, come ad esempio i diversi tipi di mais, bovini o
api. → il mantenimento di un mondo biologicamente variegato assicura all’uomo una varietà di fonti
da cui attingere per la produzione di qualsiasi cosa necessiti.
I governi conoscono l’importanza della biodiversità → nel 1992 hanno firmato un accordo
internazionale la “Convenzione sulla Diversità Biologica”.
La deforestazione potrebbe essere un problema particolarmente serio per la biodiversità perché
“tutto quello che fa parte della biodiversità terrestre, vive nelle foreste”.

Gestione delle questioni internazionali sull’ambiente


Nell’affrontare i problemi internazionali sull’ambiente, i governi hanno fatto uso di tre strategie
fondamentali: le politiche unilaterali, gli accordi bilaterali e i trattati multilaterali attraverso organizzazioni
internazionali.

Risposte unilaterali
La questione dell’uccisione dei delfini nella pesca del tonno è un importante esempio di sforzo puramente
nazionale per la risoluzione di un problema internazionale legato alle risorse → nel 1972 il Congresso degli
USA approvò il Marine Mamma Preservation (MMPA), una legge che limita il numero di delfini che le flotte
possono uccidere annualmente.
Questa legge però fa sorgere dei problemi: i pescherecci stranieri, non soggetti al MMPA, continuavano a
utilizzare tecniche di pesca che non preservavano i delfini → una serie di ONG si mobilitarono socialmente
per sensibilizzare i governi sulla questione. → alla fine, ebbero la meglio gli attivisti: nel 1990 i maggiori
produttori di tonno in scatola si impegnarono a mettere sul mercato solo tonno pescato con reti che
salvaguardassero i delfini e il governo USA pose l’embargo sulle importazioni del tonno dal Messico, visto che
non rispettava gli standard sopracitati.

Impegni bilaterali
Un esempio di accordo bilaterale è quello che ha riguardato USA e Canada all’inizio del 1900 riguardo alle
piogge acide (già citato a inizio capitolo).
Nel 1990, il Congresso USA emendò il Clean Air Act del 1963 imponendo alle centrali elettriche dei limiti
rispetto alla produzione di emissioni di diossido di zolfo e ossido di azoto; l’anno successivo le due potenze
firmarono il US-Canada Air Quality Agreement → questo accordo bilaterale ha il merito di aver posto sotto
più ristretto controllo il problema delle piogge acide. Nel rispetto dei termini dell’accordo, i due paesi si
impegnavano a ridurre le cause scatenanti delle piogge acide, partecipando a progetti condivisi che di
occupassero del problema.
Approcci multilaterali
Un importante esempio di cooperazione efficace relativa all’ambiente naturale riguarda la questione della
riduzione dello strato di ozono → il successo dell’operazione fu direttamente collegato alle negoziazioni e
all’applicazione del Protocollo di Montreal del 1987. Questo protocollo conta oggi più di 180 membri e di
fatto vieta l’utilizzo dei CFC → la riduzione fu possibile anche perché la maggior parte degli scienziati al tempo
era convinta che quella era l’unica causa.

Le istituzioni internazionali hanno avuto un ruolo importante anche nel dare assistenza ai paesi in via di
sviluppo affinché soddisfacessero gli impegni internazionali sull’ambiente → i paesi sviluppati forniscono
questo genere di accettazioni attraverso la Global Environment Facility (GEF), che ha avuto origine nel 1994,
ha sede a Washington ed è gestita congiuntamente dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite.
Dal 1994 a oggi il GEF ha fornito otto miliardi di dollari in finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per progetti
ambientali, finanziamenti che hanno avuto successo in molti campi, mentre sono stati più fallimentari
nell’affrontare il problema dei cambiamenti climatici.

Il Protocollo di Kyoto costituisce un esempio fallimentare di approccio multilaterale → si tratta di un accordo


multilaterale firmato nel 1997 per la riduzione totale delle emissioni dei paesi firmatari. Divenne effettivo nel
2005 e nel 2013 contava più di 191 firmatari → si basava sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui
Cambiamenti Climatici del 1992, una convenzione non vincolante che si basava sull’impegno dei paesi a
ridurre le emissioni dei gas serra.
Stabiliva degli obiettivi specifici, il più importante: entro il 2012 le emissioni sarebbero dovute diminuire del
5%.
Vi sono diverse motivazioni per cui non ha avuto successo:
- I paesi in via di sviluppo dovrebbero ridurre le emissioni di gas in specifiche quantità secondo tempi
specifici, ma India, Brasile e Cina, come già osservato prima, rappresentano comunque fonti di
emissioni considerevoli.
- I paesi in via di sviluppo firmatari del protocollo hanno commesso numerose irregolarità nel
rispettare il loro impegno riguardante la riduzione delle emissioni
- Gli USA, che fino a poco tempo fa erano i maggiori produttori di gas serra, non hanno ratificato il
Protocollo di Kyoto.

Per anni i governi hanno tentato di negoziare un altro accordo internazionale sul riscaldamento globale che
sostituisse Kyoto, ma questi tentativi, per ora, non sono stati efficaci. È possibile guardare al futuro e
prevedere cosa un accordo sui cambiamenti climatici dovrebbe includere per essere più efficace del
protocollo di Kyoto: molto probabilmente questo eventuale trattato avrebbe bisogno di obiettivi per le
riduzioni specifici per tutti i paesi sviluppati, inclusi USA + per i paesi in via di sviluppo come India e Cina altre
diminuzioni, ma non vincolanti.
Capitolo 10 - La sfida del futuro: sei prospettive sull’ordine internazionale

Modello 1: Un mondo caratterizzato dalla competizione geo-economica


Partiamo dall’analisi della fine della GF → questa competizione, non solo è finita di colpo nel 1990, ma si è
conclusa pacificamente. Questo non è mai avvenuto, anzi, di solito, le contese tra una potenza in ascesa e
una in declino, si sono sempre risolte con grandi guerre (guerra del Peloponneso).
Ci sono svariate spiegazioni possibili, il modello su cui ci concentriamo noi, quello della geo-economia, ritiene
che la causa principale sia stato il declino dell’utilità della forza militare nelle relazioni tra grandi potenze.
Questo declino è stato causato, a sua volta, dalla deterrenza nucleare → l’URSS, diversamente dalle grandi
potenze che l’hanno preceduta, semplicemente non disponevano di un’opzione militare globale praticabile
per puntellare le traballanti fondamenta del suo impero e arrestare il declino.

Caratteristiche della competizione geo-economica


Il modello geo-economico presuppone che la guerra tra grandi potenze non sia più da considerare possibile
→ questo non significa che le potenze non si faranno più guerra in nessun modo, la competizione sta
semplicemente cambiando forma, diventando una lotta economica. E quindi, stati che erano soliti avere
come maggiore preoccupazione di sicurezza l’espansione internazionale, ora sono concentrati su una lotta
per accaparrarsi mercati ed esportazioni. → concetto di sicurezza economica, ovvero la capacità di garantire
la ricchezza in un mondo di risorse scarse, ha scalzato la sicurezza militare come obiettivo principale degli
stati-nazione.
→ possiamo parlare anche di realismo economico.

Caratteristiche principali:
Sviluppo di blocchi economici in competizione, ovvero gruppi di stati attorno alle economie e alle valute
delle principali potenze economiche. Questi blocchi economici sarebbero:
- Uno nord-americano, con al centro l’economia USA e il dollaro come valuta di scambio;
- Un blocco europeo, che potrebbe organizzarsi attorno ai membri chiave dell’UE e euro come valuta
principale;
- In Asia orientale potrebbero crearsi uno o due blocchi a seconda di come si comporterà il Giappone
nei confronti della crescente Cina.
Secondo il modello geo-economico, ciascun blocco cercherà di diffondere la sua influenza nelle regioni
limitrofe:
- Gli USA vorranno assicurarsi l’America Latina;
- L’Unione Europea avrà un approccio simile verso gli stati dell’Europa centro-orientale e forse con le
ex colonie africane;
- Per il blocco guidato da Cina o Giappone cercheranno di influenzare gli stati del sud-est asiatico.
Le altre regioni, in particolare quelle ricche di risorse energetiche, sarebbero oggetto di contesa di tutti i
blocchi.

La Russia costituisce un caso interessante: le sue potenzialità come grande potenza sono condizionate dalla
sua debolezza economica; una Russia in ripresa potrebbe aspirare a diventare un avversario economico a sé,
ma in caso di declino, diventerebbe anche lei terra di conquista.

Tendenze internazionali
Non è difficile trovare prove a favore del fatto che si stiano creando blocchi geo-economici.
Per esempio:
USA, Canada e Messico hanno dato il via al North American Free Trade Agreement per gestire e regolare il
processo di integrazione delle loro economie;
oppure, gli stati dell’Unione Europea, non solo hanno consolidato un mercato unico integrato per i beni e i
servizi, ma hanno anche scelto di utilizzare una valuta comune.
L’integrazione in Asia è stata rafforzata nel 1989 con la creazione della Asia-Pacific Economic Cooperation.
Inoltre, è importante sottolineare come le relazioni tra attori economici e governi sono state caratterizzate
da una stretta cooperazione volta al conseguimento di obiettivi di sviluppo nazionale → la crisi del 2007 non
ha fatto altro che intensificare questi rapporti.

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Sono state individuate tre prove empiriche contrarie che i sostenitori di questa teoria hanno trascurato:
1. Questo modello deve tenere in considerazione il modo in cui operano le attuali corporation
transnazionali → nell’era della globalizzazione le compagnie più grandi e più importanti hanno
identità e interessi trans-regionali, ovvero operano e sono attive in tutte le principali aree del mondo.
Il conflitto economico regionale è contrario agli interessi delle imprese che hanno un network di
produzione e vendita globale.
2. Le relazioni economiche internazionali sono più propriamente un gioco a “somma positiva”, poiché
la cooperazione economica può creare maggiore ricchezza per tutti. → se tutti possono trarre utilità
dall’aumento complessivo dal benessere economico, allora gli incentivi alla mobilitazione e
competizione geopolitica calano, tanto per i governi che per le imprese.
3. Occorre chiedersi se i blocchi economici regionali non siano piuttosto aperti che chiusi → più gli
accordi economici regionali saranno aperti, più sarà difficile considerarli come unità indipendenti e
in competizione. Ad oggi il regionalismo contemporaneo risulta aperto piuttosto che chiuso.

Modello 2: Il ritorno al multipolarismo


Alcuni studiosi ritengono che le RI torneranno a un ordine più tradizionale, che comporterà una distribuzione
multipolare della potenza → molti realisti sostengono che stiamo già vivendo in un sistema multipolare e che
l’unipolarismo statunitense sia solo un’illusione; altri invece ritengono che dall’unipolarismo statunitense
odierno, il mondo andrà verso il multilateralismo.

Chi avanza questa tesi, differentemente dai sostenitori del modello geo-economico, ritiene che la
competizione militare tra stati continuerà a essere un tratto distintivo importante della politica
internazionale → probabilmente non si saranno più guerre su larga scala, ma bisogna comunque essere
pronti ad affrontare conflitti più limitati. L’unico modo, quindi, che uno stato ha per diventare una grande
potenza è sviluppare e mobilitare capacità formidabili, tanto sotto il profilo militare quanto sotto quello
economico.

I realisti che propongono questo modello ritengono inoltre che la dinamica centrale nelle relazioni tra stati
sia l’equilibrio di potenza, ovvero che lo stato naturale della politica internazionale sia contraddistinto da
una molteplicità di grandi potenze impegnate in un continuo gioco d’equilibrio.
→ il mondo dal 1945 al 1990, quando solo due potenze si equilibravano è un’eccezione come lo è quella dal
1990 ai giorni d’oggi, apparentemente con una sola super potenza. → secondo coloro che sostengono questa
teoria, il mondo tornerà al suo equilibrio naturale.

Caratteristiche del multipolarismo


La politica mondiale sarà dominata da tre o più potenze impegnate in complicati equilibri tra pace e ostilità,
o cooperazione e conflitto. Tra questi paesi figureranno: Cina, Usa, Russia, Germania e Giappone → questi
paesi possiedono a livello mondiale la quota più grossa di capacità materiali e sono in grado di proiettare il
potere militare oltre i rispettivi territori.

Un elemento caratteristico della politica internazionale nel modello multipolare sono le alleanze flessibili →
ovvero alleanze temporanee in cui i paesi stringono patti ma passano da un partner all’altro a secondo delle
circostanze. Questo in contrapposizione alle alleanze rigide come la NATO e il Patto di Varsavia.
Esempio → la Germania potrebbe lavorare a stretto contatto con gli USA, ma potrebbe anche opporsi alle
richieste americani di andare contro la Russia, che invece per Berlino rappresenta una grande fonte di
energia.
Tendenze internazionali
Dopo la fine della GF, molti stati hanno espresso il proprio disappunto per l’ordine unipolare, perché, anche
se gli USA volessero agire in modo benevolo, potrebbero essere tentati di plasmare il mondo secondo le loro
preferenze e minacciare gli interessi o la sicurezza degli altri. → paure confermate dopo gli attacchi alle torri
gemelli, con cui gli americani chiesero al resto del mondo di “stare con l’America contro il terrorismo, o essere
contro l’America”.
→ per risolvere questa questione, i governi si sono affidati al soft balancing, ovvero a iniziative per ostacolare
o limitare una grande potenza (Usa) meno gravi della mobilitazione di capacità militari contro tale potenza o
la stipula di alleanze di sicurezza contro di essa.
Esempi di soft balancing → rifiutarsi di allinearsi alle sanzioni americane contro quelli che Washington
definisce stati canaglia; montare un’opposizione diplomatica agli interventi americani all’estero; stipulare
accordi internazionali che non siano esplicitamente antiamericani, ma che possano essere utili a contrastarne
le iniziative.

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Il ritorno o mano a un mondo multipolare pre-IWW dipende dalla capacità e dalla determinazione che
mostreranno diversi stati nel conseguire lo status di grande potenza. → in termini di capacità economiche e
militari complessive, il mondo rimane piuttosto sbilanciato.
- Giappone → formidabile potenza economica e grande capacità militari, MA no arma nucleare e
troppo dipendente da USA
- Russia → può far valere il suo peso sugli stati a lei limitrofi, MA la sua economia si avvicina più a
quella di uno stato in via di sviluppo, che a quella di uno stato sviluppato.
- Cina e India → grande potenziali, MA la strada per diventare grandi potenze è ancora lunga a causa
della popolazione numerosa e dell’economia in via di sviluppo.
- Germania → è uno stato potente in Europa, MA rispetto alla sua capacità complessiva è un attore
debole nella politica internazionale, non riesce ad essere influente globalmente.

Inoltre, anche se nei prossimi dieci anni dovessero ascendere nuove super potenze, rimane l’interrogativo:
“il multipolarismo funzionerebbe allo stesso modo in cui operò nel 1800?”
- In primo luogo, le alleanze, per ora, non sono molto flessibili → basti pensare alla interdipendenza
che c’è tra USA, Europa e Giappone
- In secondo luogo, bisogna chiedersi se il funzionamento del modello multipolare possa essere
influenzato negativamente dall’arma atomica. Nel 1800 le grandi potenze combattevano
frequentemente per evitare che una diventasse più forte e influente delle altre, ma nel mondo d’oggi
la guerra tra grandi potenze non è più possibile grazie alla deterrenza.

Modello 3: Un nuovo bipolarismo


È possibile che a sfidare la posizione dominante dagli USA non siano più grandi potenze, ma un solo stato
(come è successo durante la GF) → sono pochissimi gli stati che possono da grande potenza, fare il salto
verso superpotenza. Negli anni a venire lo stato con più possibilità di raggiungere questo “livello” è la Cina.
→ presenta grandi dimensioni, crescita economica, capacità militari in via di modernizzazione, inoltre è stata
una potenza dominante in Asia per molto tempo ed è storicamente contro gli occidentali che ne hanno
frustrato le ambizioni di potenza globale.

Non è difficile da immagina una nuova Guerra Fredda → l’America, infatti, ha dato cenno di non essere in
grado di mantenere una politica estera forte, se non per contrastare un’altra super potenza (Germania IIWW,
URSS GR).
Primo scontro con la Cina → aprile 2001, quando un aereo caccia americano fu intercettato e fatto atterrare
su suolo cinese, innescando una crisi diplomatica.
L’attenzione, però venne subito spostata verso il Medio Oriente, a causa degli attacchi dell’11 settembre →
La minaccia del terrorismo fu la più grande che l’America dovette affrontare dopo la GF.
Da quando USA e Cina hanno avviato contatti diplomatici, nel 1971, le relazioni tra USA e Cina sono state per
lo più positive → MA maggiore sarà la crescita cinese, maggiori saranno le preoccupazioni che questa causerà
agli USA → uno degli elementi più critici è Taiwan, che potrebbe innescare una spirale competitiva, anche se
per ora la delicata strategia diplomatica degli USA sta funzionando.

Caratteristiche del nuovo bipolarismo


La competizione tra le due potenze sarà simile a quella durante la GF: ciascuna rappresenterà il punto focale
della politica estera dell’altra. Sia a livello governativo, che a livello di opinione pubblica USA e Cina si
vedranno a vicenda come il principale sfidante geopolitico e un potenziale avversario.
In questo contesto bipolare, le due potenze cercheranno di guadagnarsi l’appoggio di altri stati, attraverso
alleanze formali o informali. → quali siano queste alleanze dipende da come si svilupperanno nel tempo i
rapporti politici ed economici. → tendenzialmente la competizione “territoriale” comincerà in Asia orientale,
dove la Cina cercherà di imporre la propria egemonia regionale e gli USA tenteranno di mantenere il proprio
status di ago di bilancia sul continente. La competizione poi si allargherà su scala globale.

Tendenze internazionali
Che questa tendenza bipolare sarà certa non vi sono prove sufficienti, anche perché le relazioni tra Cina e
USA fino ad ora sono state per lo più di cooperazione. Da una parte gli USA hanno tentato di portare la Cina
dalla loro parte, registrandone l‘appoggio durante la guerra al terrorismo o alla non proliferazione nucleare.
La Cina però si è sempre posta come sfidante paziente, ponendo la sua politica estera in termini di ascesa
pacifica.

Sotto la cooperazione apparente, però, c’erano segali che entrambe le potenze si stessero silenziosamente
preparando alla possibilità di una futura competizione geopolitica:
→ Washington sta ponendo le basi per una futura strategia del contenimento, pubblicando anche un
rapporto annuale sugli sviluppi della Cina → Chinese Military Power (eco della GF, infatti esisteva un organo
simile per i controlli in Russia).
Per quanto riguarda la politica interna, le imprese americane hanno grandi interessi nel mercato cinese come
sbocco per la vendita dei propri prodotti e come fonte di rifornimento, ma molti altri gruppi sociali si sono
espressi contro la Cina (difensori dei diritti umani, gli ambientalisti, sostenitori della libertà di religione).

Da parte sua, la Cina ha affiancato al suo approccio da sfidante paziente alcuni segnali dell’aspettativa di
poter esercitare maggiore influenza a livello globale e regionale → i leader cinesi vorrebbero che Taiwan
tornasse a essere parte della Cina, utilizzando qualsiasi strategia. La Cina è sembrata anche disposta a trovare
soluzioni diplomatiche per risolvere le controversie con altri paesi su un piccolo arcipelago, che però
potrebbe nascondere cospicue riserve petrolifere. Tuttavia, nell’ultimo periodo è tornata a un approccio più
duro soprattutto con il Giappone + ha sfidato il governo USA intessendo rapporti con il governo del Sudan
nello stesso momento in cui l’America cercava di isolarla diplomaticamente. Inoltre, la crisi finanziaria del
2007 ha fornito alla Cina un’opportunità per mostrare i vantaggi del proprio modello economico capitalista
(unisce il controllo politico centralizzato e un sistema economico decentralizzato).

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Vi sono diverse sfide che la Cina dovrà affrontare per diventare una super potenza, come la necessità di
mantenere eccezionali livelli di crescita, non solo per ragioni economiche, ma anche per garantire la stabilità
sociale e la legittimità politica. → un rallentamento della crescita provocherebbe un duro colpo sia alla
stabilità sociale, sia alla legittimità dello stato monopartitico, infatti il governo comunista non attira tanto
ideologicamente, ma più per la sua capacità di soddisfare le aspettative di una popolazione in crescita.
Un’altra sfida è quella demografica: la Cina è il paese più vecchio al mondo e tra poco tempo di troverà a
dover gestire una larghissima parte di popolazione anziana.
In secondo luogo, anche se la Cina continuasse a crescere come sta facendo, non è detto, che le relazioni con
gli USA dovranno essere per forza di conflitto come USA-URSS, soprattutto perché ora le due superpotenze
sono economicamente collegate → l’interdipendenza economica complica anche la formazione di blocchi in
competizione.
Modello 4: La pace democratica
Il modello della pace democratica riflette gli approcci alle RI di stampo liberale e costruttivista, in quanto
focalizza l’attenzione sulle caratteristiche interne degli stati e dei loro sistemi politici, ritenuto fattori
determinanti del comportamento e dei risultati internazionali. → i sostenitori della pace democratica sono
più ottimisti rispetto alla loro controparte realista, perché enfatizzano il potenziale progresso della politica
internazionale.

Caratteristiche della pace democratica


Due assunti:
- La forma di governo democratico continuerà a diffondersi → questa diffusione è inevitabile perché
i suoi sostenitori vedono la democrazia come la forza del futuro.
- Le democrazie non si fanno guerra tra loro.

Da Kant, questa idea è stata sviluppata da proponenti contemporanei come Russet e Doyle, che suggeriscono
che la guerra possa rientrare negli interessi materiali o in termini di prestigio dei dittatori o delle élite non
elette, ma che nei sistemi politici democratici i naturali interessi pacifici del popolo funzionano come un freno
alla realizzazione di queste aspirazioni. Inoltre, tra le democrazie è più semplice raggiugere accordi alternativi
alla guerra, in quanto sono sistemi politici aperti e quindi le loro intenzioni difficilmente nascondibili.
Un mondo di stati democratici in espansione consentirebbe al sistema internazionale di approssimarsi a una
comunità di sicurezza, un gruppo di attori politici tra i quali il ricorso alla guerra come strumento di politica
estera è diventato altamente improbabile.

Tendenze internazionali
Numerose analisi hanno dimostrato che esistono delle correlazioni particolarmente forti tra sistemi
democratici e relazioni pacifiche → questa è 2la cosa più vicina a una legge empirica nelle RI”, infatti non ci
sono grandi eccezioni.
Per quanto riguarda l’assunto riguardo all’inevitabile diffusione delle democrazie, si è osservato che negli
ultimi decenni la democrazia si è diffusa tra gli stati in diverse regioni del mondo. (esempi pag.401)

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Tre sfide cruciali:
- Possibilità che la democrazia non continui a diffondersi → Cina e Russia rappresentano due
significativi esempi di grandi potenze che si oppongono a questo trend. Inoltre, alle sollevazioni
rivoluzionarie contro i regimi autoritari non necessariamente fa seguito la democrazia → esempio
della primavera araba.
Da ultimo bisogna sottolineare che il processo democratico non è irreversibile. (esempi pag 402).
- Anche se fosse vero che le democrazie mature non si fanno guerra tra loro, la transizione verso la
democrazia può essere pericolosa e irta di ostacoli → i paesi nella fase di transizione tra democrazia
e non democrazia hanno maggiore propensione al conflitto e si scontrano con stati democratici.
- Alcuni critici sostengono che il vero test per la pace democratica debba ancora venire → la
prevalenza della democrazia è un fenomeno relativamente recente → un test dell’ipotesi della pace
democratica molto più duro rispetto a quello durante la GF si verificherà se e quando più stati
democratici prenderanno il posto di quelli non democratici.

Modello 5: Lo scontro di civiltà


Questo modello è simile alla pace democratica perché focalizza la nostra attenzione su caratteristiche della
politica mondiale che trascendono il tradizionale stato-nazione, ma dipinge uno scenario più pessimistico.
L’idea di uno scontro di civiltà venne resa celebre da un articolo del 1993 del politologo Samuel Huntington
→ questa idea prevede che i conflitti internazionali nel futuro saranno caratterizzati non dallo scontro fra
stati ma da quello di civiltà, un termine ampio che incorpora comunanze religiose, culturali, etniche e in una
certa misura linguistiche.
Anziché la fine della storia, ovvero la fine dello scontro ideologico e la vittoria dei valori liberali, Huntington
profetizzava la continuazione della storia, sebbene non necessariamente nella stessa forma politica.

Caratteristiche dello scontro di civiltà


Questo modello muove dalla premessa che la moderna politica mondiale è sempre stata caratterizzata da
qualche forma di conflitto tra gruppi → tale conflitto si è sempre concentrato in Europa prima tra i re e i
principi e poi tra gli stati-nazione; dopo il 1990 gli stati sono ancora rilevanti ma lo scontro si è spostato verso
le civiltà.
Tra quali civiltà? Egli identificò la civiltà Occidentale, quella Sinica, Cristiana orientale, Islamica, Indù e quella
dell’Africa Subsahariana

Le ragioni per cui Huntington e i suoi sostenitori si aspettano che le civiltà si scontrino non sono difficili da
immaginare → civiltà diverse hanno valori diversi e i conflitti sono probabili non solo perché le civiltà credono
nei propri valori, ma credono anche alla loro universalità. (Cristianesimo e Islamismo sono religioni “tutto o
niente”).
Il conflitto è previsto anche nell’idea marxista di legge dello sviluppo ineguale → il mondo sinico sta godendo
di una rapida crescita e di un incremento in termini di influenza politica internazionale. La crescita di potere
della Cina potrebbe innescare all’interno del paese la tentazione di riaffermare il proprio tradizionale ruolo
culturale come leader di un ordine gerarchico asiatico. (così anche le altre civiltà pag.406)

Huntington immagina una possibile alleanza tra la civiltà islamica e quella sinica in quanto entrambe
presentano rimostranze contro i popoli della civiltà occidentale dominante.

Tendenze internazionali
I conflitti che hanno seguito alla fine della GF hanno fornito una certa credibilità alla visione pessimistica di
Huntington → dissoluzione della Jugoslavia; guerra tra Russia e la regione separatista musulmana della
Cecenia; India e Pakistan.
La prova più drammatica è quella rappresentata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre → l’obiettivo,
infatti, non erano solo gli USA, ma tutta la cultura e la civiltà occidentale. Nonostante l’amministrazione Bush
abbia sempre dichiarato di non essere formalmente in guerra con l’Islam, i sostenitori di Huntington hanno
fatto notare come i principali obiettivi degli sforzi antiterroristici degli USA siano stati attori non statuali del
fondamentalismo islamico. Vi furono poi altri episodi di questo genere che fecero capire che la guerra era
“contro la civiltà islamica” (vignette danesi nel 2015).

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Vi sono alcune domande cruciali a cui i sostenitori di questa tesi devono rispondere:
- In che misura le culture o le civiltà costituiscono unità politiche coerenti o funzionali? In alcune civiltà,
infatti, le relazioni politiche sono ambigue → il mondo sinico include la Cina e il Vietnam, paesi che
storicamente sono stati avversari per molto tempo; il Giappone e la Cina possono mostrare affinità
culturali, ma il primo è da molto tempo alleato con l’occidente: Iran e Iraq, nonostante fossero parte
della stessa civiltà, hanno combattuto una guerra sanguinosa tra il 1980 e il 1988.
- Anche se accettiamo l’utilità delle civiltà come concetto, le relazioni tra civiltà devono
necessariamente essere caratterizzate dal conflitto? Nella politica internazionale vi sono numerosi
esempi di cooperazione che travalicano le civiltà → sempre l’esempio di Giappone e USA.

Quella dello scontro di civiltà è una visione provocatoria che ha generato ampie critiche nella comunità
accademica:
alcuni sostengono che le opportunità economiche e le sfide ambientali creeranno maggiore coesione,
anziché conflitti tra diverse civiltà.
Altri osservano che la maggioranza dei conflitti nel mondo avviene oggi tra membri della stessa civiltà sia
all’interno sia attraverso gli stati.
Infine, alcuni analisti temevano che la tesi di Huntington potesse dar luogo a una profezia auto-avverante →
definire lo scontro di civiltà come la caratteristica fondamentale delle RI rinforza le visioni degli estremisti
antioccidentali in MO e dei nazionalisti xenofobici in Europa e in USA. Mettendo l’accento sulle differenze tra
culture, anziché sulle interazioni e le influenze reciproche, la tesi di Huntington rischia una ripetizione della
GF.

Modello 6: La frammentazione globale: zone premoderne, moderne e post-moderne


Questo modello si chiede se abbia ancora un senso, da un punto di vista analitico, discutere di un unico,
coerente sistema internazionale fatto da stati-nazione sovrani. I proponenti della “frammentazione globale”
ritengono che lo stato nazione sia sotto attacco, dall’alto e dal basso → le istituzioni sovranazionali stanno
guadagnando sempre più autorità politica, man mano che gli stati condividono le loro sovranità o le cedono
ad autorità transnazionali.
Allo stesso tempo, attori locali, come cartelli di droga, hanno sfidato l’autorità dei governi centrali e hanno
persino stabilito la loro autorità su territori, popolazioni e fornitura di servizi.
In alcune parti del mondo, come l’Europa occidentale, gli stati sovrani hanno avuto successo nel fornire
sicurezza e prosperità ai propri popoli; ma in altre parti del mondo, come in aree dell’Africa centrale, gli stati
sovrani hanno fallito → la loro incapacità di fornire alle popolazioni sicurezza e un’economia funzionante
hanno portato altri attori a prendere in mano la situazione. → significative variazioni nel ruolo e nella capacità
dello stato-nazione mostrano che viviamo in un mondo frammentato.

Caratteristiche della frammentazione globale


Differenti visioni della tesi della frammentazione globale sono state avanzate d vari autori sin dalla fine della
GF
Ad esempio, nel 1993, Max Singer e Aaron Wildavsky sostennero che il modo tradizionale di intendere la
politica internazionale dovesse essere sostituito da un nuovo modo di pensare → “la chiave per comprendere
il nuovo ordine mondiale è quella di separare il mondo in due parti. Una è composta da zone di pace, ricchezza
e democrazia. L’altra da zone di disordini, guerra e sviluppo. Se si cerca di parlare del mondo come di un
tutt’uno, quello che si può ottenere è falso o banale”

In modo analogo, Robert Cooper pubblicò nel 1993 The Breaking of Nations → anche lui ritiene che il nuovo
ordine mondiale trascenda il tradizionale sistema westfaliano di stati sovrani in interazioni tra loro → Cooper
suggerisce, al contrario di quanto pensano i realisti, che alcuni stati possono cambiare radicalmente la propria
identità e i propri interessi, mentre altri sono semplicemente incapaci di un’azione consapevole perché
mancano di capacità organizzativa o legittimità.
Coopera sostiene che quello che in passato era un sistema internazionale integrato ora coesistano tre diverse
forme politiche:
- Il mondo premoderno → paradiso dell’illegalità, in cui gli stati hanno fallito completamente o non
sono in grado di far valere la propria autorità su attori sub-statali che controllano il territorio, godono
della lealtà di parte della popolazione e possono persino comandare eserciti locali o privati.
Esempio: Somalia, che ha lottato per due decenni per stabilire una qualche misura di centralizzazione
politica e di stabilità. Per un certo periodo furono aiutati dagli USA, ma nel 2000 la situazione divenne
insostenibile, tanto che le truppe americane furono costrette alla ritirata.
- Il mondo moderno → questo mondo, secondo la descrizione di Cooper, riflette il sistema westfaliano
di stati nazione. I governi sovrani controllano interamente i loro paesi e mobilitano risorse per
perseguire gli interessi nazionali. Si impegnano nella diplomazia utilizzano politiche di bilanciamento
di potenza, formano alleanze e minacciano o rassicurano i propri nemici nell’ambito degli sforzi volti
ad accrescere la propria influenza.
Esempio: La Siria, prima delle sollevazioni della Primavera Araba, era un esempio di mondo moderno
di Cooper (pag.412)
- Mondo post-moderno → stati che hanno rinunciato alla propria sovranità in favore di unioni
cooperative più ampie di tipo “civile” (come l’UE).
Esempio: l’attuale Germania non somiglia molto al paese che si è unificato nel 1870 → la Germania
di oggi ha fuso molta della propria politica estera e della politica economica con quelle del suo
tradizionale avversario, la Francia e con altri paesi nemici. Inoltre, ha ceduto molta della sia autorità
sovrana all’UE.
Tendenze internazionali
Possiamo trovare numerose prove dell’esistenza di una politica premoderna che attraversa trasversalmente
i tradizionali confini degli stati-nazione. Una parte del Sudamerica è premoderna, in quanto in governi
combattono per imbrigliare i cartelli della droga. Inoltre, l’arco di instabilità che si estende tra MO, Nord
Africa e l’Asia sud-occidentale vede al suo interno stati falliti come lo Yemen, stati debolmente centralizzati
come il Libano e l’Afghanistan e stati incapaci di controllare ampie e remote aree del proprio territorio come
il Pakistan.
Esempi di stati moderni abbondano: Iran, Israele e Arabia Saudita, oppure Cina, India e Brasile.
Mentre l’UE è l’esempio più evidente di stato post-moderno.

Evidenza empirica che contraddice il modello e domande critiche


Una sfida cruciale per i suoi sostenitori è quella di definire la natura dell’interazione tra le differenti forme
politiche. Il modello di un sistema internazionale frammentato sarebbe particolarmente potente se i mondi
premoderno, moderno e post-moderno formassero sottoinsiemi autonomi con scarse interazioni tra loro →
in quel caso il modello della frammentazione globale somiglierebbe a un ordine pre-westfaliano in cui le unità
fondamentali erano separate le une dalle altre piuttosto che integrate nello stesso sistema. Tuttavia, i tre
mondi di Cooper sembrano essere connessi in vari modi → il caos e l’instabilità del mondo premoderno
tracima nei mondi moderno e postmoderno (come il problema della migrazione o del terrorismo).

Altri collegamenti tra i mondi possono essere meno evidenti, ma non meno importanti → i che misura la
sicurezza del mondo postmoderno è in funzione della protezione da parte di stati moderni che utilizzano
mezzi molto moderni? Il Giappone, per esempio, si è sviluppato e permane sotto l’ombrello nucleare, ma in
assenza di questo privilegio, è possibile che debba tornare allo status di potenza moderna.
Effettivamente, questo pone un altro problema: come si pongono gli USA nello schema di Cooper? La società
americana è decisamente postmoderna, tuttavia il governo americano è decisamente moderno (mobilita e
proietta il potere militare in tutto il mondo; applica politiche di bilanciamento in ciascuna regione chiave;
inizia guerre contro gli stati premoderni).
→ il fatto che non possa essere categorizzata con semplicità ci induce a dubitare dell’utilità della distinzione
stessa.
“UN MONDO SICURO PER LA DEMOCRAZIA” – G. John Ikenberry
CAPITOLO 1 - LE CREPE NELL’ORDINE LIBERALE INTERNAZIONALE

Negli ultimi anni del XX secolo il mondo era dominato da un ordine mondiale aperto, in cui gli stati sceglievano
di integrarsi in un sistema multilaterale di regole e istituzioni, orientato verso idee progressiste. Il mondo
sembrava aver raggiunto un pensiero comune sulle virtù e sull'importanza del capitalismo e della democrazia
liberale, nonostante si trattasse di un secolo che era stato attraversato da svolte drammatiche quali la caduta
del Muro di Berlino, il collasso del Comunismo sovietico, le dittature fasciste, naziste, l'internazionalismo
comunista, l'internazionalismo liberale e La fine pacifica della guerra fredda che aveva portato all'egemonia
statunitense.

Nell'ultimo decennio del secolo pareva che la competizione tra gli stati fosse finita. Infatti erano stati proprio
gli Stati Uniti e i loro alleati che, alla fine della seconda guerra mondiale, avevano costruito un nuovo tipo di
ordine internazionale basato sul libero commercio, la sicurezza cooperativa, il multilateralismo, la solidarietà
democratica e la leadership americana. furono fondate nuove istituzioni regionali e globali per facilitare la
cooperazione tra stati.

In tutto il mondo industrializzato il periodo del dopoguerra fu un'epoca d'oro di crescita economica e
avanzamento sociale. Con la fine della guerra fredda e il collasso dell'Unione Sovietica. Infatti il nuovo ordine
liberale si espanse in tutto il mondo e i paesi che si trovavano ai suoi confini intrapresero radicali cambiamenti
politici ed economici per esservi integrati (Russia e Cina si unirono alla World Trade Organization). Ma oggi
questo grande progetto è in crisi e sorprendentemente la ritirata dall’internazionalismo liberale riguarda
proprio gli stati che furono i suoi padroni e principali autori nel dopoguerra cioè le due grandi potenze e
hanno fatto di più per dare un carattere liberale al Moderno ordine internazionale: Gran Bretagna e Stati
Uniti, che ora sembrano rifiutare questo ruolo. Infatti il referendum britannico del giugno 2016 per
abbandonare l'Unione Europea ha sollevato molte polemiche e preoccupazioni riguardanti il futuro del
progetto europeo.

Allo stesso modo negli Stati Uniti le elezioni di Donald Trump ha scatenato ancora di più i dubbi circa il futuro
dell'ordine internazionale liberale in quanto il paese si è trovato sotto la guida di un presidente fortemente
ostile alle idee dell’internazionalismo liberale (multilateralismo, alleanze, immigrazione, la rule of law e la
solidarietà democratica), il tutto sotto il grido di “America first!”. La pericolosità di questo momento politico
è ancora più profonda in quanto è contemporanea ha un movimento di rivolta nazionalista e populista che
interessa tutto il mondo Democratico (vedi i sovranisti in Europa). Alcuni ritengono che la causa di tutto
questo sia la crisi scoppiata nel 2008 che ha esasperato le disuguaglianze economiche è alimentato il dissenso
verso le democrazie più avanzate in quanto queste democrazie erano le prime a sostenere l'ordine liberale e
a beneficiare da esso. Allo stesso modo ci sono la Cina e la Russia che hanno cominciato a contrastare
l'egemonia americana cercando di espandere le proprie sfere di influenza.

L’internazionalismo liberale sta andando incontro a una profonda crisi dovuta al fatto che il mondo
occidentale sembra aver perso la fiducia che si possa creare un futuro migliore e che al contrario si vada
incontro a decadenza e regressione. Ma come si è arrivati a questa situazione?
1. Alcuni studiosi credono che questa crisi sia dovuta al declino dell'egemonia americana; gli Stati Uniti
hanno avuto un ruolo importantissimo nell'organizzazione dell'ordine liberale Ma la loro capacità di
continuare a gestirlo sono diminuite a causa della scesa di altri Stati e dalla conseguente inevitabile
ridistribuzione di ricchezza e potere. Altri sostengono che l'internazionalismo liberale non può essere
separato dall'egemonia americana;
2. Quando il mondo sarà meno americano sarà anche meno liberale. Se il dominio anglo-americano
diminuisce, i caratteri liberali del vecchio ordine svaniranno e verranno sostituiti da un nuovo ordine
post-liberale organizzato da altre potenze e da altre istituzioni (per esempio la Cina).
Ma Per capire il futuro dell’internazionalismo liberale dobbiamo prima esaminare il suo passato.
l'internazionalismo liberale è una tradizione di pensiero nata nell'epoca dell’illuminismo e che ha attraversato
secoli di ostacoli fino ad arrivare a oggi.

Che cos'è l'internazionalismo liberale?


• L'internazionalismo liberale è da intendere come un insieme di idee e progetti per organizzare il
mondo delle democrazie Liberali. È una tradizione di pensiero e azione che punta a organizzare e
riformare l'Ordine internazionale in direzioni che possano garantire la sicurezza, la prosperità e il
progresso della democrazia liberale. Lo scopo è quello di creare un ambiente ordinato in cui le
democrazie possono operare per il reciproco vantaggio, gestire le debolezze comuni e proteggere il
proprio in vita. Nella pratica questo sistema si realizza attraverso regole, istituzioni e alleanze entro
un sistema internazionale liberamente basato su regole.
• Questa tradizione di pensiero nacque nel XVIII secolo e nella prima parte del XIX, insieme alla
democrazia liberale (quando in Europa e in Nord America gli stati assolutisti e monarchici stavano
lasciando il posto alle prime forme di democrazia costituzionale e governo repubblicano). La
Rivoluzione francese, l’evoluzione del sistema parlamentare britannico e la nascita degli USA furono
i punti di partenza dell’era liberal-democratica.
• L'internazionalismo liberale si è evoluto man mano che le democrazie si scontravano con i problemi
e le opportunità che derivano dalla modernità: per modernità intende la trasformazione ancora in
atto delle società e delle relazioni internazionali prodotta dalla scienza, dalla tecnologia e dalla
rivoluzione industriale. Non si tratta di una teoria fissa ma di una famiglia di idee e dottrine e
movimenti in evoluzione, e spesso in conflitto tra loro.

Ci sono stati quattro grandi processi che hanno fornito il contesto in cui è stato definito il progetto
internazionale liberale:
1. La nascita e l'evoluzione della democrazia liberale
2. La transizione da un mondo di imperi a un mondo di stati- Nazione
3. L'intensificazione dell'interdipendenza economica e securitaria
4. L’ascesa e il declino dell'egemonia britannica e americana.

Inoltre, tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni 40, a causa delle devastazioni verificatasi in questi
secoli, l'internazionalismo liberale acquisì un'agenda più espansiva e progressista che incorporava nozioni
riguardanti i diritti universali, la protezione dei cittadini, istanze di sicurezza economica (new deal) e sicurezza
nazionale. Dal sistema bipolare della guerra fredda emerse un tipo particolare di ordine internazionale:
l'egemonia liberale.
L'internazionalismo liberale ha le sue origini quindi nella democrazia liberale occidentale e dai loro ripetuti
sforzi per costruire l’ordine mondiale. Negli ultimi 200 anni. Le democrazie liberali si sono Unite per
collaborare guidate da valori condivisi e ovviamente interessi comuni. Ma c'è una ragione più profonda che
ha portato ad unirle: la vulnerabilità collettiva che deriva dalla modernità stessa.

Il grande rivale teoretico dell’internazionalismo liberale è il REALISMO.

Questi due tradizioni offrono interpretazioni diverse rispetto ai problemi centrali delle relazioni
internazionali. Per i realisti, il problema fondamentale delle relazioni internazionali è la questione
dell’anarchia. Il tratto distintivo della politica internazionale è la situazione strutturale in cui si trovano gli
Stati, cioè un mondo privo di un governo centrale che stabilizza l'ordine. Gli stati cooperano lottano per la
sopravvivenza in una condizione di anarchia, causata anche dall'impossibilità per qualsiasi stato di fidarsi
completamente delle intenzioni di un altro stato. Invece la principale preoccupazione dell’internazionalismo
liberale è il problema della modernità. La modernità ha fatto sì che le società occidentali siano state trainate
da sviluppi progressivi e interconnessi, dall'avanzamento tecnologico, dall’ascesa della società capitalistica.
La democrazia liberale, nata con la modernità, ha contribuito all'affermazione di essa. La modernità non
interessa tutte le parti del mondo allo stesso modo; ci sono aree all'avanguardia e aree più arretrate e questo
genera nuove forme di gerarchizzazione e disomogeneità. Questa disomogeneità ha portato al dominio del
mondo occidentale nel XIX e XX secolo. La modernità potenzia gli stati e al tempo stesso li rende vulnerabili.
Inoltre, realisti e internazionalisti liberali hanno opinioni diverse riguardo alla natura dell'ordine
internazionale: i realisti tendono a vedere l'ordine come una conseguenza naturale dell’anarchia, come una
sua manifestazione. Al contrario gli internazionalisti liberali tendono a vedere l'ordine come un risultato
costruito attraverso iscrizioni e accordi, come un prodotto della volontà umana che riflette gli sforzi degli
Stati per costruire le regole di base attraverso cui si relazioneranno tra di loro. Infatti, accordi, negoziazioni e
istituzioni sono gli strumenti liberali che consentono agli stati di dare forma all'ambiente in cui operano, di
modo da renderlo un posto migliore, più umano e più sicuro per la democrazia liberale.

Il compito delle democrazie liberali è dunque quello di impegnarsi nella “costruzione” di quest’ordine,
lavorare insieme per creare regole e istituzioni che permettano di realizzare i profitti della modernità e di
proteggersi dai suoi pericoli. Il mondo è in costante modernizzazione, perciò, il progetto liberale non può mai
dirsi “concluso” in quanto i rischi si presenteranno sempre (si parla di un’attività permanente di problema
solving internazionale).

Nel corso del XIX e XX secolo è emerso un sistema di idee su cui si doveva basare quest’ordine:
1. Apertura internazionale; il commercio e lo scambio sono fonte di vantaggi reciproci e contribuiscono
al mantenimento della pace. Gli stati aprono economie e società agli altri;
2. Multilateralismo e relazioni basate su regole; regole e istituzioni internazionali disciplinano il modo
in cui gli stati conducono i loro affari e il modo in cui agiscono in arena internazionale. Il
multilateralismo facilita la cooperazione e conferisce legittimazione all’ordine;
3. Solidarietà democratica e sicurezza cooperativa; gli stati liberaldemocratici si affiliano tra loro per
incrementare le proprie difese. I loro valori condivisi rafforzano fiducia e solidarietà reciproca.
4. Scopi sociali e progressisti: l’ordine internazionale deve indirizzare i suoi abitanti e le società in una
direzione progressista, si promuove il miglioramento del benessere dei cittadini tramite riforme di
sicurezza e giustizia sociale.

L'idea di un ordine internazionale liberale esprime due significati: da un lato un ordine internazionale è
liberale perché possiede caratteristiche Liberali (apertura, principi di reciprocità, principi di non
discriminazione, rule of law). Ma un ordine potrebbe anche essere liberale nel senso che si fonda sulla
Cooperazione tra democrazie liberali e gli aspetti specifici di questa Cooperazione potrebbero essere o non
essere Liberali. Ad esempio, l'ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti dal secondo dopoguerra in avanti
è stato edificato su un sistema di alleanze multilaterali E questa sicurezza cooperativa non ha, di per sé,
proprietà Liberali. Le democrazie liberali potrebbero anche agire in modi decisamente illiberali fuori dai
confini dell'ordine liberale, intervenendo nelle proprietà limitrofe e dominandole. Al di fuori della tradizione
liberale due scuole di pensiero hanno prodotto critiche all'Inter nazionalismo liberale: il realismo politico e la
sinistra revisionista. per quanto riguarda la tradizione realista, la critica più famosa è quella mossa da E.H.
Carr, che definisce l'internazionalismo Liberale di Woodrow Wilson come “un progetto utopico fondato su
illusioni” sostenendo che, presto o tardi, l'internazionalismo liberale avrebbe vacillato davanti alle brutali
realtà della politica di potenza e che il dialogo non avrebbe mai sostituito l'impiego di eserciti e flotte. Invece
le critiche revisioniste dell’internazionalismo liberale mettono a fuoco una mancanza di giustizia sociale. Le
disuguaglianze profonde, la corruzione e le iniquità presenti nelle società liberali e nel capitalismo globale,
rendono il progetto liberale politicamente e moralmente sospetto.

Nonostante le loro teorie siano spesso in disaccordo, i critici realisti e revisionisti concordano nel dire che
l'internazionalismo liberale ha alla base una profondissima ricerca di dominio globale da parte degli Stati
Uniti, che vogliono realizzare un mondo americano centrico e organizzato intorno all’ egemonia liberale e
all'interventismo militare. Entrambe le scuole ritengono che la riforma di questo ordine debba iniziare con
un arretramento degli Stati Uniti rispetto ai loro impegni di sicurezza e alle loro operazioni militari. I realisti
sostengono che questo arretramento americano preparerà il ritorno a un ordine multipolare regolato
dall'equilibrio di potenza. I revisionisti invece vedono una ritirata americana come il primo passo verso una
politica interna incentrata sul miglioramento della società americana, o verso una nuova politica estera volta
a costruire un ordine globale più inclusivo e socialmente giusto. Per entrambi i gruppi, dunque,
l’internazionalismo liberale fallisce perché poggia su basi troppo precarie. Questa tesi verrà però confutata
dall’autore: egli pensa che il progetto liberale dia una visione straordinariamente ampia di ordine,
cambiamento e sviluppo internazionale ma da solo questo non basta. Il mondo non marcerà mai soltanto al
ritmo dell’internazionalismo liberale, esso ha bisogno di alleati (grandi potenze, sistemi capitalisti). L’ordine
internazionale liberale è fondamentale per proteggere le democrazie liberali e i diritti /interessi fondamentali
dell’umanità (riconoscendo comunque che anch’esso si è macchiato di imperialismo, schiavitù, razzismo e
sessismo).
CAPITOLO 2 - LA DEMOCRAZIA LIBERALE E LE RELAZIONI INTERNAZIONALI

L’internazionalismo liberale nasce grazie all’ ascesa del liberalismo, che rappresenta una delle trasformazioni
più significative del nostro tempo. Prima del liberalismo la maggior parte del mondo era governata da stati
monarchici, stati autocratici, e stati Imperiali; ma nei successivi due secoli le democrazie liberali passarono
da una posizione di debolezza a una di preminenza globale attraverso ere di guerre e sconvolgimenti. La
diffusione della democrazia liberale avvenne grazie al crollo degli imperi e ai movimenti per
l'autodeterminazione. Gran Bretagna e Stati Uniti furono le principali democrazie liberali rispettivamente del
XIX e XX secolo.
Ma perché le democrazie liberali occidentali emersero e acquisirono potere in due secoli di guerre tra grandi
potenze? Quali idee i sono susseguite nel lungo arco della scesa liberale?

Radici intellettuali:
Per rispondere bisogna partire identificando le radici intellettuali dell’internazionalismo liberale, riscoprendo
la modernità e il pensiero liberale illuministico. L’internazionalismo liberale ha le sue radici in questa
concezione illuministica della modernità. La rivoluzione industriale aveva portato enormi trasformazioni
sociali, economiche e politiche sovvertendo le strutture sociali feudali e quelle più antiche (nasce la società
moderna). La modernità è animata dall’industria, dal commercio, dalle tecnologie, da istituzioni sociali e
politiche in evoluzione ed è da questo contesto perennemente in evoluzione e di sviluppo mondiale che
nascono i primi autori internazionalisti: Kant, Adam Smith, J.Bentham.
• Kant nel 1784 scriveva che l’umanità aveva acquisito le capacità per ricreare un ordine mondiale
pacifico in un’era globale di cosmopolitismo. Gli stati avrebbero rinunciato ad alcune delle loro libertà
e si sarebbero legati gli uni agli altri tramite il diritto pubblico (rule of law).
• A.Smith nel 1776 propose importanti riflessioni politico-economiche riguardo a un ordine mondiale
capitalista basato sul libero scambio, sul commercio, sulla specializzazione e l’interdipendenza.
L’elemento di unione delle varie teorie è l’idea che il mondo sia un sistema unitario e in evoluzione in cui gli
esseri umani sono in grado di perseguire i loro interessi in maniera razionale e illuminata e che le società
moderne potessero creare delle istituzioni comuni che regolassero le attività umane.

Idee fondamentali dell’ordine internazionale liberale:


L'internazionalismo liberale, nella sua essenza, offre la visione di un sistema aperto e basato su regole in cui
gli stati commerciano e cooperano in vista di un guadagno comune. Si crede che gli stati possano superare i
propri limiti e collaborare per risolvere i problemi legati alla sicurezza, coordinare azioni collettive e creare
stabilità economica e politica. L'interdipendenza è la condizione fondamentale della società moderna e
spinge le nazioni a creare istituzioni internazionali come mezzi per gestire e riconciliare interdipendenza e
sovranità.
Su queste basi si possono identificare cinque gruppi di idee che hanno dato forma alla visione Liberale per
l'ordine internazionale:
1. Apertura e commercio: Il liberalismo deve il commercio e lo scambio come parti essenziali della
società moderna e come fonti di crescita stabile e di pace. In un ordine internazionale liberale gli stati
hanno accesso alle reciproche società ed economie. Come infatti affermavano Smith e i suoi seguaci,
la logica dei sistemi di mercato capitalisti permette di trasformare le istituzioni politiche e le relazioni
sociali, cioè il commercio e l'industria consentono l'instaurazione graduale di ordine, buon governo,
libertà e sicurezza dei cittadini.
2. Regole e istituzioni: l’ordine internazionale è basato su regole che determinano il modo in cui gli stati
conducono i loro affari, promuovendo così la cooperazione. Regole e istituzioni devono incarnare un
sistema coerente di accordi organizzativi intorno ai quali gli stati sovrano possono operare. Con la
definizione “multilateralismo”, Ruggie intendeva quella “forma architettonica che coordina le
relazioni all’interno di un gruppo di stati”.
Questa visione ha 3 aspetti:
a) Regole e istituzioni sono onnipresenti perché: facilitano la cooperazione tra stati,
permettono loro di godere dei vantaggi del commercio e scambio reciproco > come sostiene
R.Keohane, le istituzioni riducono i costi di transazione, rimediano all’incertezza e
stabiliscono canali per la cooperazione continuativa.
b) Un sistema di regole e istituzioni multilaterali ha un’attrattiva e una legittimità più ampia e
generalizzata per gli stati, poiché in questo modo gli stati sono effettivamente uguali davanti
alla legge.
c) Le grandi potenze che cercano di stabilire l’egemonia su una regione o sul sistema si trovano
di fronte a una serie di regole e istituzioni che non gli consente di impiegare il proprio potere
a pieno per soggiogare gli altri stati. Deve rinunciare a una parte delle proprie capacità ma,
in cambio, si mette al centro di un ordine più stabile e legittimo che gli garantisce una
leadership a lungo termine.

3. Solidarietà liberaldemocratica: è il valore che ha tenuto unite le democrazie liberali negli ultimi due
secoli, facendo in modo che si sentissero parte di un gruppo di stati i cui interessi erano uniti dalla
storia, dalla geografia e da valori condivisi. Questa solidarietà è manifestata in vari modi: la si può
vedere nei raggruppamenti diplomatici, nei diversi schieramenti internazionali in caso di conflitto e
cooperazione. L'alleanza NATO è il patto di sicurezza più comprensivo e longevo di tutta la storia
moderna. Anche l'Unione Europea rappresenta un'altra forma di solidarietà liberaldemocratica. La
tesi implicita è che, in virtù dei loro interessi comuni e valori condivisi, le democrazie liberali trovano
più facile lavorare tra loro che con gli stati non democratici. Esse, infatti, hanno un livello di
trasparenza e di esperienza condivisa che rende la cooperazione più facile.
4. Solidarietà cooperativa: Le democrazie liberali hanno operato anche in vista della Protezione comune
con lo scopo di prevenire la guerra, scongiurare i pericoli e costruire regole e istituzioni che
promuovano pace e stabilità. Le democrazie Liberali possono impegnarsi nella cooperazione
securitaria in risposta a minacce provenienti dall'esterno del mondo democratico, ma possono anche
farlo per limitare le minacce interne. Infatti gli stessi stati liberali occidentali hanno più volte messo
in pratica la strategia del co-binding, che consiste nel legarsi a vicenda in istituzioni restrittive di modo
da potersi tenere d'occhio reciprocamente, controllare le loro relazioni e influenzarsi a vicenda. 5
5. Scopi sociali progressisti: l’ordine internazionale liberale non è statico. Le società che ne fanno parte
sono in costante sviluppo: progrediscono, si adattano, rispondono alle crisi. L’internazionalismo
liberale aspira a traghettare gli abitanti delle società in una direzione progressista. Per progresso si
intendono avanzamenti che si concretizzano in un miglioramento del tenore di vita, maggiori diritti
e giustizia sociale.

Negli ultimi due secoli ci sono state quattro grandi trasformazioni che hanno determinato l'evoluzione
dell’internazionalismo liberale. Nel periodo moderno:
1. La nascita e la diffusione della democrazia liberale
2. Il passaggio da un mondo di imperi a un mondo di stati-nazione
3. L'aumento dell’interdipendenza economica e securitaria
4. L'ascesa e il declino dell'egemonia britannica e americana

Nascita e diffusione della democrazia liberale:


Se all’inizio del XIX secolo la democrazia liberale era un ideale ancora molto fragile in un’epoca premoderna
ancora dominata da monarchie, autocrazie e imperi, 2 secoli dopo essa possedeva la maggior parte del potere
e della ricchezza mondiale. In questi due secoli si era svolta la rivoluzione industriale, il capitalismo aveva
allargato le sue frontiere, gli europei avevano costruito va interi, gli era affermato il moderno stato-nazione
e le grandi potenze facevano Guerra e pace a loro piacimento. le idee bolli internazionalismo liberale hanno
preso forma in questo contesto. le due caratteristiche principali che dovevano le emergenti democrazie
Liberali erano: per prima cosa, il fatto che ero governate dal popolo e questo governo può essere diretto,
come nell'antica Atene, o indiretto, attraverso le elezioni elettorali rappresentative. in entrambi i casi la
nozione implicita fondamentale è che il Governo è basato sul consenso dei governati. la seconda
caratteristica è che sono democrazie che preservano i diritti individuali e le libertà civili attraverso la rule of
law e possiedono una struttura costituzionale progettata per limitare il potere statale, attraverso mezzi come
la separazione dei poteri. possiamo quindi identificare 5 caratteri ideali che danno alla democrazia liberale la
sua forma precisa:
1. I cittadini in una democrazia liberale possiedono diritti civili e uguaglianza di fronte alla legge
2. Il Governo è una democrazia rappresentativa che trae la sua autorità dal consenso dei governati
3. Una democrazia liberale a istituzioni - o leggi costituzionali - che limitano il potere dello Stato,
attraverso la separazione dei poteri e un sistema giudiziario indipendente
4. L'economia è basata sulla proprietà privata
5. All'interno della società è presente la cosiddetta “società civile”, una sfera situata “al di fuori dello
Stato” e, in una certa misura, al di fuori della politica.

La fondazione degli Stati Uniti d'America e la Rivoluzione francese segnano l'inizio di una nuova era nel
dibattito sui caratteri dello Stato occidentale moderno e sul modo in cui questi stati dovessero essere
costituiti e legittimati. La dichiarazione d'indipendenza americana divenne un modello per queste
rivendicazioni, basate su ideali di sovranità popolare e diritti individuali. Entro la fine del XIX secolo, la
sovranità popolare e la democrazia rappresentativa erano diventate gli ideali normativi determinanti della
politica occidentale. Questi nuovi ideali ovviamente mettevano in discussione i principi del governo
monarchico insiti nell’ancien regime europeo, in cui il re governava per grazia di Dio ed era in centro intorno
a cui tutto ruotava. La Prima Guerra Mondiale fu un grande punto di svolta per l'affermazione della
democrazia liberale: alla fine di essa, tra le macerie degli imperi crollati, il presidente americano Wilson e la
democrazia liberale ha ideale normativo fondamentale. La crescita e diffusione della democrazia si è
sviluppata lungo diversi periodi storici e ha seguito una sequenza di ondate:
1. PRIMA TRANSIZIONE DEMOCRATICA: Avvenne lentamente e fu ispirata dai movimenti politici
americani ed Europei del XIX secolo (29 stati). Questa fase si concluse con la salita al potere di
Mussolini in Italia nel 1922 e i seguenti anni di guerra, chi ridussero il numero delle democrazie a 12.
2. SECONDA TRANSIZIONE DEMOCRATICA: La seconda Ondata iniziò dopo la Seconda Guerra Mondiale
e culminò negli anni 60 con 36 democrazie riconosciute. Questa impennata era un prodotto del
movimento di decolonizzazione del dopoguerra.
3. TERZA ONDATA DEMOCRATICA: La terza ondata cominciò Alla fine degli anni Settanta con le
transizioni democratiche in America Latina, Asia orientale e Europa meridionale. Con la fine della
guerra fredda e il crollo dell'Unione Sovietica, alcuni paesi dell'Europa orientale e dell’ex URSS
seguirono un percorso analogo. Entro la fine del XX secolo le democrazie nel mondo ammontavano
a circa 85.

Dagli imperi agli Stati-nazione:


Nel XX secolo si assiste a uno scenario politico dominato da quasi 200 stati-nazione, ognuno di essi
rivendicante sovranità, un seggio alle nazioni unite e il diritto di governare il proprio popolo (nel discorso dei
14 punti di Wilson si afferma il principio di autodeterminazione dei popoli). L’ordine internazionale si basava
su un sistema statale vestfaliano, sulla sovranità e sulla cooperazione intergovernativa. L'Europa non era mai
stata un impero unitario bensì un “mosaico di imperi” dominato da un ordine politico pluralistico e multi
statale. Dopo che la pace di Westfalia pose fine alla Guerra dei trent’anni, il sistema pluralistico fu tenuto in
piedi da un equilibrio di potere tra gli stati che lo componevano e dalla debolezza del papato e del Sacro
Romano Impero.
Il sistema Vestfaliano era basato su una distribuzione di potere equa tra i suoi stati principali, che si
riconoscevano reciprocamente e che impedirono la costituzione di un unico grande impero. Il sistema
vestfaliano si era evoluto fino a comprendere porzioni più ampie del globo; infatti, gli stati appartenenti al
nucleo europeo- occidentale del sistema vestfaliano diedero vita a un sistema politico scala mondiale
composto da vasti imperi multi-continentali di popolazioni sottomesse soprattutto in Nord America, Sud
America, Oceania e nella punta meridionale dell'Africa. I principi fondativi di questo sistema (sovranità,
integrità territoriale e non interventismo) riflettevano sempre di più l'opinione che gli stati fossero le giuste
unità politiche del governo legittimo. Dunque, le radici dell’internazionalismo liberale affondano nel sistema
statale vestfaliano. La democrazia liberale dipendeva dall’esistenza di stati-nazione sovrani funzionanti, cioè
entità politiche capaci di dare voce alla volontà del Popolo.
La crescita dell’interdipendenza economica e securitaria:
Il sistema globale è stato trasformato dalla rivoluzione industriale, dalla diffusione globale del capitalismo e
dalle rivoluzioni tecnologiche in campo energetico, nei trasporti e nella comunicazione avvenuta alla fine del
XIX secolo. Tutti queste trasformazioni hanno fornito la base per la rapida diffusione del potere
dell'occidente, il che ha intensificato a sua volta l'integrazione globale e la crescente interdipendenza
economica.
Con la rivoluzione industriale e il progresso tecnologico anche le società rurali si trasformavano in paesi
industrializzati. Il capitalismo industriale e la classe operaia divennero caratteri essenziali delle società
occidentali. Questo sistema aperto crollò con l’arrivo della Prima Guerra Mondiale e la depressione
economica degli anni Trenta. Gli Stati Uniti guidarono la riapertura dell'economia mondiale dopo la Seconda
guerra mondiale attraverso il sistema di Bretton Woods - regole e istituzioni per la ricostruzione del
capitalismo globale. Inoltre, altri accordi internazionali facilitarono la ricostruzione del commercio e
dell'investimento internazionale.
L'ascesa delle moderne società industriali è stata accompagnata da massicci aumenti della potenza militare
e anche l'abilità degli Stati di infliggere danno è cresciuta drammaticamente nel corso dell'era moderna:
parallelamente alla crescita dell'interdipendenza si è verificata una crescita delle capacità degli Stati di
danneggiarsi a vicenda. La tesi generale è che l'industrializzazione e l'espansione globale del capitalismo
abbiano generato forme di interdipendenza sempre più strette, portando gli stati e le società in sempre più
stretto contatto. L’internazionalismo liberale cerca di governare questa interdipendenza economica e
securitaria in evoluzione partendo dalla costruzione di una infrastruttura internazionale di regole e istituzioni
per organizzare i flussi e le transazioni oltre confine. Ma un’economia mondiale aperta è possibile solo con
l’attiva cooperazione tra gli stati al fine di ridurre le barriere e le vulnerabilità reciproche interne al sistema
(ad esempio una pandemia, guerre, una cattiva politica economica possono generare instabilità e danni che
si ripercuotono a livello internazionale).

Ascesa e declino di UK e USA:


Nell'epoca di ascesa della supremazia occidentale, la Gran Bretagna e Stati Uniti sono emerse come potenze
primarie, disponendo di potere e ricchezza sufficienti per plasmare le condizioni dell'ordine internazionale.
La posizione dominante della Gran Bretagna si fondava su una combinazione di supremazia navale, credito
finanziario, successo commerciale, alleanze diplomatiche, un impero coloniale in via di espansione e inoltre
la sua economia era la più avanzata d'Europa. Gli Stati Uniti emersero come prima potenza mondiale nel XX
secolo. La loro ascesa come quella della Gran Bretagna era basata sul successo economico; sorpassarono la
Gran Bretagna in Economia e produttività verso la fine del XIX secolo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli
Stati Uniti acquisirono una posizione ancora più autorevole, avendo un governo più centralizzato e una
gigantesca capacità industriale e militare. Gran Bretagna e Stati Uniti emersero come stati di punta in un
sistema globale competitivo, non erano soltanto democrazie liberali e non cercavano semplicemente di
costruire un ordine internazionale liberale. Le idee internazionaliste liberali erano inevitabilmente legate alle
politiche degli Stati più potenti. Il fatto che Gran Bretagna e Stati Uniti, come stati-guida della loro era, fossero
presenze dominanti nel dopoguerra accrebbe la rilevanza delle idee internazionali Liberali. Infatti, come stati
capitalisti principali, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano molto da guadagnare da un ordine aperto.
CAPITOLO 3 - LE ORIGINI DELL’INTERNAZIONALISMO NEL XIX SECOLO

L’internazionalismo liberale nasce nel XIX secolo anche se le sue radici intellettuali risalgono all’illuminismo
e quelle politiche alla nascita dell’internazionalismo- ha il mondo occidentale come epicentro e nasce in un
periodo in cui stati e società di stavano modernizzando à internazionalismo moderno. Nello stesso periodo
vi è anche il nazionalismo, ma questi due fenomeni sono opposti: il nazionalismo celebrava la divisione dei
popoli in raggruppamenti etnici, culturali e geografici mentre l’internazionalismo celebrava il superamento
di queste differenze attraverso la cooperazione. Nonostante questo, si possono considerare complementari
in quanto l’internazionalismo nasce proprio in risposta al nazionalismo con l’obbiettivo di forgiare legami e
patti cooperativi in un mondo di popoli nazioni e stati. È l’ascesa della democrazia liberale a intensificare le
connessioni tra queste due correnti in quanto le sue istituzioni e i suoi ideali andavano verso una dimensione
internazionale. In questo secolo l’internazionalismo divenne un campo della politica mondiale costituito da
attività organizzate volte a creare ponti tra le diverse unità politiche. L’internazionalismo liberale debuttò
con le trattative di pace di Woodrow Wilson e altri a Versailles dopo la Prima guerra mondiale.

L’internazionalismo si presenta in molte varietà ma è utile distinguere tra:


• Internazionalismo imperiale: lo sforzo, da parte di uno stato imperialista, di costruire regole
internazionali, relazioni e istituzioni per sostenere i suoi progetti imperiali;
• Internazionalismo vestfaliano: cooperazione tra stati-nazione sovrani.

L’impero, gli Stati-nazione e l’internazionalismo liberale:


L’internazionalismo liberale nasce in un periodo in cui la maggior parte delle grandi potenze europee agiva
seguendo due direzioni contemporaneamente: quella di consolidamento di un sistema di stati-Nazione
(sistema vestfaliano) in Occidente e quella di edificazione di imperi al di fuori di esso. Impero e stati-nazione
organizzano lo spazio geopolitiche seguendo due logiche differenti: nel caso dell’impero una metropoli
esercita il controllo su popoli e società più deboli con relazioni internazionali organizzate in spazi più o meno
chiusi; un sistema di stati invece organizza le RI attorno all’interazione aperta e multilaterale tra unità sovrane
uguali. Ciò che differenzia un ordine che ruota attorno a un impero da un ordine basato su un sistema di Stati
vestfaliano è la preclusione ad abilità dello Stato imperiale di negare a Stati o imperi esterni l’accesso ai popoli
e alle società che fanno parte dell’impero.
Internazionalismo attività esercitata da agenti appartenenti a imperi, Stati-nazione e democrazie liberali per
costruire istituzioni e relazioni cooperative finalizzate a rafforzare la posizione o lo status di queste entità.
Ognuno di questi internazionalismi è un’attività di ‘auto rafforzamento’ condotta attraverso la costruzione
di regole e istituzioni a livello internazionale à essi costituiscono idee e progetti per la creazione di regole
internazionali, istituzioni e accordi a sostegno delle rispettive forme di organizzazione. Il progetto
internazionale liberale ha mosso i suoi primi passi in questo mondo mutevole di imperi e stati-nazione
adattandosi a entrambe le logiche.

Internazionalismo imperiale:
Nel XIX secolo l’impero transoceanico europeo diede avvio alla prima era della globalizzazione, tutti gli angoli
del mondo furono collegati mentre attori commerciali e imperiali costruivano una struttura globale di
trasformazione e comunicazione. Gli stati europei svilupparono una lunga tradizione di norme e istituzioni
vestfaliane di sovranità statale all’interno del mondo occidentale e impiegarono il diritto internazionale.
L’internazionalismo imperiale può essere visto:
• Come un progetto per ricostruire e legittimare l’impero britannico e l’ordine imperiale europeo
• Come un progetto per trovare forme transizionali di architettura internazionale per un mondo che
stava superando gli imperi.
Società delle nazioni vista dai principali leader britannici come uno strumento per rielaborare e preservare
l’impero britannico: operazione che Mazower chiama “rafforzamento internazionalista dell’impero”. Altri
studiosi vedono nell’internazionalismo imperiale una fase di TRANSIZIONE per portare le gerarchie imperiali
a essere integrate all’interno di istituzioni internazionali vestfaliane e liberali.
Internazionalismo westfaliano:
Nascita del moderno sistema degli stati à 1968 accordi di pace firmati a Westfalia che conclusero la Guerra
dei trent’anni. L’internazionalismo vestfaliano può dunque essere visto come lo sforzo di questi Stati-nazione
di costruire e rafforzare l’architettura normativa e istituzionale del sistema statale vestfaliano. Il Concerto
europeo rappresentava un nuovo modo di organizzare le relazioni internazionali tra le grandi potenze,
rifletteva una rete di idee che le èlite europee cominciarono a condividere, sulle fonti della stabilità
dell’ordine politico. Si trattava di un club di grandi potenze autonominatasi guardiane della comunità
europea. ESEMPIO: congresso di Berlino 1878 in seguito alle insurrezioni politiche nei Balcani le 6 maggiori
potenze si riunirono per porre fine al conflitto; pace di Santo Stefano.
Società delle Nazioni e Nazioni Unite furono eredi di questo internazionalismo vestfaliano. Infatti, la forma
più comune di internazionalismo vestfaliano è la cooperazione intergovernativa ovvero la risoluzione dei
problemi degli stati sovrani senza badare se siano stati liberaldemocratici, autocratici o comunisti. Un'altra
forma è la cooperazione internazionale per proteggere i beni comuni globali e contrastare il cambiamento
climatico. L’internazionalismo liberale è una forma di intergovernamentalismo esercitata da stati sovrani che
sono democrazie liberali, per la quale un sistema vestfaliano ordinato e ben funzionante è un presupposto
imprescindibile ed è anche un progetto per proteggere e migliorare le prospettive della democrazia liberale.

I movimenti internazionali occupavano tutto l’ambito ideologico e politico e si differenziavano anche in base
alle loro ambizioni riformiste e rivoluzionarie, si trattava di un insieme di idee riformiste e liberali (commercio
e scambio, pace, diritto, cause sociali) che confluirono tutte nel progetto internazionalista liberale come sue
componenti. internazionalismo commerciale: legato all’ascesa del capitalismo industriale e all’espansione
dei mercati mondiali, aveva le sue radici nel free Trade movement britannico in un periodo in cui
l’abrogazione delle Corn Laws aveva inaugurato un’era di libero scambio che aveva poi contagiato Europa e
Stati Uniti. Il libero scambio cominciò a essere visto come un grande passo verso la costruzione di un ordine
internazionale più pacifico che avrebbe diminuito le possibilità di guerra in quanto i trattati commerciali
avrebbero unito gli Stati-nazione e rafforzato i rapporti con l’obbiettivo di unificare l’Europa in un ordine
pacifico basato su una sempre maggiore prosperità. Le nazioni occidentali in via di industrializzazione
firmarono più di 60 trattati commerciali. Intorno al 1880 il nazionalismo e il libero scambio non furono più
visti come inevitabilmente connessi a causa della crisi economica globale e alla reintroduzione di tariffe
doganali per pagare le spese di guerra.

Movimento pacifista internazionale:


In questo stesso periodo in Europa cominciarono a prendere piede società contro la guerra. In Gran Bretagna
e Stati Uniti le società pacifiste quacchere sostenevano il progetto di dialogo e diritto internazionali di Jeremy
Bentham e proprio qui, dopo le guerre napoleoniche, furono fondate le prime società pacifiste (American
Peace Society by William Ladd 1827; London Peace society by William Allen 1816 à evoluzione del movimento
pacifista anglo-americano influenzò anche America latina. Africa, Giappone ed Europa. L’obbiettivo di questi
gruppi era apportare un cambiamento nell’opinione pubblica in merito alla guerra, e persuadere gli uomini
a esaminarla attraverso un punto di vista cristiano. Chiamavano le nazioni a rinunciare alle guerre di
aggressione e ad abbracciare istituzioni internazionali e norme legali come forme di risoluzione dei conflitti.
Pian piano sorsero anche gruppi operai e progressisti che tentavano di unire le cause della giustizia sociale,
dei diritti umani e della pace (es. New England Non-Resistance Society).
Richard Cobden -> leader del movimento pacifista e del movimento del libero scambio considerava questi
due aspetti ‘una e una sola causa’ = pace raggiungibile attraverso progresso e prosperità.
Gruppi pacifisti cominciarono a riunirsi in congressi di pace internazionale, tra i quali ricordiamo la prima
Conferenza di pace internazionale tenutasi a Londra nel 1843, la Conferenza di Bruxelles del 1848 e quella di
Parigi del 1849 che appoggiarono l’arbitrato e la creazione di una corte internazionale. Approvarono
risoluzioni per il miglioramento delle comunicazioni tra nazioni, imposte per le guerre di ambizione e
conquista e misure per la riduzione delle spese per gli armamenti e per la creazione di un sistema di disarmo
internazionale. Il movimento pacifista cominciò a indebolirsi dopo la guerra di Crimea del 1853, Cobden e
Bright (capi dei movimenti di libero scambio e per la pace in Gran Bretagna) persero i loro seggi in parlamento
tre anni dopo. Negli Stati Uniti la Guerra di secessione ebbe lo stesso effetto, portando all’interruzione delle
attività pacifiste.
L’internazionalismo legale:
A metà del XIX secolo teorici del diritto e governi intrapresero vari sforzi per identificare e accordarsi sui
fondamenti legali della sovranità -> nascita del diritto internazionale. I concetti, le narrazioni e i principi legali
prodotte dai giuristi diedero crescente coerenza ad una visione di Stati-nazione coesistenti all’interno di una
comunità legale internazionale. L’Europa esportò il diritto internazionale nel mondo non-occidentale in base
a termini che includevano la negazione della sovranità e l’imposizione dell’extraterritorialità: Giappone china
e impero ottomano guadagnarono l’ammissione alla comunità internazionale ma aderendo agli standard di
civilizzazione posti dagli europei, più tardi il Giappone divenne il primo Stato non europeo e non cristiano a
ottenere il riconoscimento legale della sua pari dignità tra le potenze imperiali. Fu messo al servizio, dunque,
degli imperi e del colonialismo. Il diritto internazionale offrì un nuovo terreno sul quale gli Stati potevano
discutere e cercare compromessi. La seconda Conferenza dell’Aia definì il diritto internazionale come mezzo
per stabilizzare la pace tra le nazioni. La presenza crescente di avvocati internazionali alle conferenze
diplomatiche alterò il modo di elaborare i problemi e creò nuove voci a favore delle regole e istituzioni
multilaterali. Prima società di diritto internazionale -> Istituto di diritto internazionale, Gent 1873.

Internazionalismo sociale:
Allo scopo di promuovere la riforma della società liberale gruppi di interesse societari religiosi e pubblici
stabilirono una miriade di reti e contatti internazionali. Il loro obbiettivo era promuovere i diritti politici, il
benessere economico e la giustizia sociale. Il movimento fondativo fu la Prima Internazionale, l’incontro di
una federazione di gruppi operai tenutasi a Londra nel 1864 che assunse gradualmente la forma di un partito.
Nacquero pian piano vari gruppi con l’obbiettivo di promuovere cause sociali e umanitarie, tra questi
ricordiamo la Convenzione della Croce Rossa nata a Ginevra per curare i feriti in guerra. Queste organizzazioni
e associazioni non governative erano portatrici di idee liberali come: diritti individuali, rule of law, limitazione
del potere statale, società civile.

Internazionalismo funzionale:
Anche definito ‘la meccanica dell’internazionalismo’ -> proliferazione di accordi, convenzioni e organizzazioni
internazionali istituiti per facilitare e regolare i viaggi, le comunicazioni e le normative commerciali. Si trattava
di risposte alle pressioni determinate dall’espansione dei mercati del sistema capitalista, dalla riduzione dei
costi di transazione e dal tentativo di istituire standard comuni per il movimento di persone, beni e capitali =
infrastruttura per la cooperazione globale. Si sviluppò anche l’internazionalismo ammnistrativo: ogni ramo
del governo cominciò a essere affiancato in alcune delle sue funzioni da un’organizzazione internazionale di
questo tipo (International Postal Union, sanità e unificazione degli orari ferroviari a livello europeo sono un
esempio). Si trattava di un tipo di internazionalismo che creava strumenti e funzioni per gli Stati Liberali in
via di modernizzazione.
Cosa avevano in comune tutti questi progetti internazionali? Il loro fine comune era indirizzare il mondo
verso forme di ordine più aperte, basate su regole orientate al progresso. Tutti i gruppi concordavano sulla
necessità di un Congresso di Nazioni il più comprensivo possibile e di una Corte Internazionale, entrambi
operanti per mezzo del diritto internazionale. Gli ideali comuni erano: apertura delle relazioni commerciali,
creazione di meccanismi istituzionali per la risoluzione delle controversie e di norme rudimentali sui diritti
umani e l’umanitarismo. Non tutti questi internazionalismi erano liberali, ma fu da questa molteplicità che
l’internazionalismo liberale prese forma come progetto politico coerente caratterizzato da una famiglia di
idee anche in tensione tra loro. Fu una collezione di idee e progetti costruita nella visione che il mondo si
stesse organizzando in Stati-nazione sovrani guidati da società occidentali industriali e liberali di cui molte
componenti continuavano a fare causa comune con l’impero europeo e con l’imperialismo.
CAPITOLO 4 - L’INTERNAZIONALISMO WILSONIANO

Le guerre mondiali, la Grande Depressione e l’ascesa delle potenze fasciste e totalitarie scatenarono varie
crisi nel progetto internazionale liberale, ma nonostante questo gli internazionalisti liberali non
abbandonarono il loro progetto ma si impegnarono per ripensarlo e re immaginarlo sostenendo anzi che
queste crisi fossero il motivo per il quale il mondo necessitasse questo progetto.
Woodrow Wilson -> cristallizzò l’internazionalismo liberale come progetto politico durante i suoi 8 anni di
mandato. Le sue idee chiave furono articolate nel discorso dei 14 punti pronunciato a una sessione congiunta
del Congresso nel 1918:
• Gli stati uniti avrebbero cercato di realizzare un mondo di accordi di pace pubblici in cui vigesse
l’assoluta libertà dei mari dove le barriere economiche sarebbero state eliminate. Per garantire la
pace sarebbe stata istituita un’organizzazione internazionale per risolvere le dispute in base a mutue
garanzie di indipendenza politica e integrità territoriale per gli stati grandi come i piccoli.

La Guerra Mondiale, la modernità e l’ordine internazionale:


La Prima guerra mondiale fu distruttiva in ogni ambito e venne denominata ‘Grande Guerra’ per via delle sue
proporzioni epiche, ma anche per il suo profondo impatto sul modo di pensare la guerra, la pace e la
condizione umana. I grandi beneficiari della guerra furono gli USA e il loro potere ricevette una grande spinta
al punto che soppiantarono la Gran Bretagna come prima potenza finanziaria del mondo. Questa guerra
distruttiva rase al suolo il vecchio ordine, dando l’opportunità ai capi dei vari stati di immaginarne uno nuovo.
Tra questi, Wilson e Lenin vedevano la guerra come una conflagrazione dalla quale sarebbe emerso un ‘nuovo
ordine delle cose’ -> vedevano l’Europa come l’incarnazione di un passato retrogrado e il proprio Paese come
colui che avrebbe portato il progresso nel mondo. Wilson poneva la Germania al centro della sua critica:
erano le caratteristiche della sua società e politica (stato autocratico, cultura militarista, classe dei Junker)
ciò che aveva causato la guerra, quindi la guerra stessa fu trasformata in uno strumento di progresso.

Le linee evolutive dell’internazionalismo liberale:


È bene ricordare Woodrow Wilson -> grande profeta dell’internazionalismo liberale che fu indispensabile per
sintetizzare le varie idee, dar loro una voce e connetterle all’ascesa americana al potere globale.
• Commercio arbitrato e organizzazione internazionale: il primo filo fu quello del libero scambio visto
come strumento di pace. Il dibattito sul commercio iniziò poi a deviare dalla riduzione dei dazi ai
principi multilaterali del commercio, come la non discriminazione e lo status di nazione più favorita
a seguito della Open Door policy (1899) nei confronti della Cina. Gli Stati Uniti si misero in opposizione
alla corsa delle potenze europee per aggiudicarsi privilegi commerciali in Cina e affermarono il
principio di vario accesso per tutti supportando l’integrità territoriale e amministrativa della Cina ->
questa politica era volta a contrastare le zone esclusive e a proteggere gli interessi economici in
espansione degli stati uniti, ma anche un tentativo di associare gli USA ad un ordine internazionale
ampiamente aperto e non discriminatorio. L’arbitrato, inoltre, divenne un’agenzia di riforma portata
avanti da avvocati e diplomatici internazionali, GB e USA furono i più attivi utilizzatori di esso per
risolvere ogni genere di problema. L’obbiettivo del movimento per l’arbitro era quello di portare
questo meccanismo di risoluzione delle controversie nell’alta politica delle relazioni interstatali. Più
importante utilizzo dell’arbitrato = 1872 Stati Uniti e GB acconsentirono a ricorrere all’arbitrato per
risolvere una serie di dispute legali sui diritti degli Stati neutrali. Nello stesso periodo alcuni
internazionalisti iniziarono a promuovere una più generale associazione politica di Stati, essi
vedevano le loro assemblee periodiche come eventi precursori di un congresso o società di nazioni.
Questi movimenti culminarono nelle due Conferenze per la pace dell’Aia del 1899 e del 1907 che
furono decisive: in quest’ultima fu discussa l’idea di una corte mondiale che fu poi istituita nel 1920,
stabilendo la norma della partecipazione universale e di riunirsi regolarmente.
• Multilateralismo e uguaglianza sovrana: il multilateralismo della diplomazia moderna ha le sue radici
nel sistema statale vestfaliano e nel Congresso di Vienna del 1815 ma raggiunse la sua forma
moderna solo grazie alle due conferenze dell’Aia. Il primo accordo multilaterale aperto alla firma di
tutti gli stati fu la Dichiarazione di Parigi sulla legge marittima del 1856, formulata da GB e Francia
alla fine della guerra di Crimea ratificata poi da 55 stati. Nacquero dunque in questo periodo organi
rappresentativi e giudiziari internazionali permanenti che avrebbero fornito il meccanismo per la
cooperazione e la risoluzione di conflitti secondo norme di multilateralismo e uguaglianza sovrana.

I piano anglo-americani per l’ordine del dopoguerra:


Il dibattito sugli obbiettivi per l’ordine del dopoguerra fu una questione pubblica a cui parteciparono in molti.
Si distinsero due correnti dell’internazionalismo: conservatrice e progressista, entrambe convinte che la
colonna portante della riforma dovesse essere un’organizzazione internazionale che avrebbe custodito i
principi dell’ordine e sostenuto la cooperazione. I conservatori, però, erano a favore di un ordine postbellico
che facesse riferimento alle grandi potenze per mantenere la pace attraverso una sorta di Congresso di
Vienna aggiornato ed esteso mentre i progressisti volevano nuove regole e istituzioni internazionali a
supporto di riforme economiche e sociali progressiste. Tra questi gruppi spicca quello di Bryce che proponeva
un raggruppamento post-bellico di stati alleati che avrebbero operato all’interno di una società organizzata
di nazioni per mantenere la pace. Il loro lavoro – Proposals for the Avoidance of the War – avanzava varie
idee affinché questo Progetto fosse messo in atto. Il piano non era eliminare la guerra ma puntare al suo
rinvio cercando di far risolvere le controversie ad un organo imparziale. Altri gruppi che sorsero furono la
UDC che ebbe scarsa influenza durante la guerra e la LNS che si unì con la League of Free Nations Association
costituendo un’unica League Of Nations Union che abbatté le differenze tra conservatori e progressisti. Sul
fronte americano il gruppo più influente fu la League To Enforce Peace (LEP) capitanata da Taft e Lowell che
aveva molti aspetti in comune con il gruppo Bryce, al punto che coordinarono le loro attività. Questo gruppo
era a supporto di una società postbellica che avrebbe riunito tutte le nazioni che sarebbe state tenute a
rimettere le controversie giustiziabili a un tribunale giudiziario e quelle non giustiziabili a un comitato di
conciliazione. Jane Addams fondò il Woman’s Peace Party (WPP) che chiedeva l’armistizio immediato, accordi
per limitare gli armamenti, apertura degli scambi, libertà dei mari e controllo democratico della politica
estera, autodeterminazione, meccanismi di arbitrato e un Concerto delle Nazioni. Nel 1918 nacque anche il
League of Free Nations Association (LENA) che si unì poi con il LFNA concordando su un programma comune
allo scopo di costituire una società di nazioni per la libertà, il progresso ed eque opportunità economiche per
tutte le nazioni.

La visione wilsoniana:
Wilson propose un ordine mondiale riorganizzato fondato sul libero scambio, la sicurezza collettiva, il diritto
internazionale e la Società delle Nazioni.
• Modernità e trasformazione globale: dopo la devastazione della Grande Guerra, Wilson era convinto
che il libero commercio e gli scambi socioeconomici avrebbero avuto un effetto modernizzante e
civilizzante sugli stati, il mondo in via di modernizzazione creava nuove esigenze di cooperazione. La
guerra, però, aveva rivelato l’incompletezza della modernità in Europa.
• Il passaggio alle istituzioni: Wilson si rese conto che l’ordine globale liberale non si sarebbe creato da
solo, bisognava agire e maturò la convinzione che una società di nazioni fosse essenziale per
sostenere il mondo democratico, provvedere alla difesa della comunità delle democrazie liberali e
alimentare la sua espansione. Non erano le condizioni vincolanti o i meccanismi esecutivi degli organi
internazionali il fattore decisivo per mantenere ilo mondo su una strada di modernizzazione MA le
norme e le aspettative custodite a questi meccanismi.
• Progressismo e internazionalismo: l’internazionalismo wilsoniano era connesso a idee e politiche
progressiste -> il progressismo era un orientamento nei confronti della società industriale e della
democrazia moderna a favore della costruzione di strutture internazionali che incoraggiassero la
riforma economica e il progresso sociale. Si trattava di creare le condizioni per far sopravvivere la
democrazia.
• Diritto e società internazionali: per realizzare un mondo pacifico e ordinato sarebbe stato
indispensabile il diritto internazionale che veniva visto da Wilson come una dinamica socializzante,
che creava norme e aspettative che gli stati sarebbero lentamente arrivati ad accogliere ed era utile
per rafforzare i legami sociali e morali tra i popoli di una civiltà mondiale in via di modernizzazione.
Per lui c’erano principi nel diritto internazionale che Wilson riconduceva a Dio e alla ragione umana.
Il fondamento di questa comunità di Stati regolata dal diritto era la democrazia liberale. L’unica cosa
che legava le persone, secondo lui, era la devozione comune alla giustizia e il diritto internazionale e
il sistema di sicurezza collettiva ancorato alla Società delle Nazioni avrebbero riunito gradualmente
gli stati in una comunità di potere.
• Sicurezza collettiva: a nessuna nazione sarebbe stato permesso acquisire territori per via di
conquista, le nazioni avrebbero goduto di pari diritti e sarebbero state unite dal diritto internazionale
in una comunità governata dal principio della sicurezza collettiva -> per Wilson conseguiva e
dipendeva dalla realizzazione della sua più generale agenda di riforma e affermò anche che la Società
delle Nazioni non avrebbe ridotto l’indipendenza sovrana dei governi per far valere le misure di
sicurezza del trattato = per lui non sarebbero stati necessari vincoli legali formali, infatti il sistema di
sicurezza collettiva fu un progetto politico e morale per alterare il modo in cui Stati e popoli
pensavano i diritti e i doveri e la necessità di tutelarli.
• Eccezionalismo americano: per Wilson gli USA avevano una responsabilità speciale di guidare, istruire
e ispirare il mondo in ragione delle loro idee fondative, della loro posizione geopolitica e della loro
leadership. America = emblema del progresso.

Impero, razza, democrazia e progresso liberale:


La visione wilsoniana, però, era sia ambiziosa che limitata: egli proclamava principi universali sui diritti e le
protezioni di nazioni e popoli ma non mise mai in dubbio le gerarchie imperiali e razziali dominanti -> Wilson
era razzista:
• A Versailles, solo ai popoli appartenenti alle regioni europee dei decaduti imperi euroasiatici fu
garantito il riconoscimento nazionale, gli altri furono ridotti a protettorati
• Sosteneva l’ordine razziale americano, si era mostrato contrario al garantire pari diritti civili e politici
ai cittadini neri
• Adam Tooze scrive “Wilson non aveva alcun interesse a destabilizzare la gerarchia razziale imperiale,
voleva solo eliminare l’imperialismo inteso però come la rivalità violenta tra Francia, GB, Germania,
Italia, Russia e Giappone che minacciava di dividere il mondo in sfere di influenza separate”.
Alcuni personaggi del movimento per i diritti civili avevano inizialmente appoggiato Wilson per poi rimanere
delusi e ritirare il proprio sostegno (W.E.B Du Bois ne è un esempio). Egli dava più importanza
all’autodeterminazione nazionale che all’uguaglianza razziale. Paesi colonizzati e marginalizzati (come Cina,
India, Corea e popoli arabi, curdi, armeni e molti altri) furono inizialmente molto ispirati dai principi articolati
da Wilson a Parigi, essi speravano finalmente nell’autodeterminazione, ma rimasero presto molto delusi. Egli
riteneva che l’accordo di Parigi avesse conseguito il suo obbiettivo fondamentale – la Società delle Nazioni –
le eventuali ingiustizie non erano una priorità, egli vedeva infatti la democrazia come una lenta evoluzione.
Raccolse tantissimi consensi in Europa e il suo progetto rimane grande, ma era essenzialmente un sistema di
sicurezza collettiva e libero scambio tenuto insieme da regole e norme di multilateralismo e diritto
internazionale, senza tener conto dei diritti umani, delle protezioni sociali e dello sviluppo economico.

Il retaggio del fallimento:


L’internazionalismo liberale di Wilson fu un fallimento à gli Stati Uniti rifiutarono di unirsi alla Società delle
Nazioni: il Senato americano era disposto a ratificare il trattato con delle clausole, e la maggioranza politica
americana non era isolazionista, ma Wilson si rifiutò di scendere a compromessi. L’internazionalismo legale
tornò con il Patto Kellogg-Briand che dava ai governi un’opportunità di rinunciare alla guerra contro gli altri
membri del trattato se non per autodifesa o in certe altre circostanze, ma era ancora meno un patto formale
di quanto lo fosse la Società delle Nazioni. Nonostante il ritiro degli USA dalla Società, essa vide la luce e,
anche se fallì nel garantire la pace, divenne un veicolo per la cooperazione multilaterale e fu d’aiuto per lo
smantellamento dell’impero.
CAPITOLO 5

L’ordine internazionale che emerse dopo il 1919 (Trattato di Versailles aveva fallito) non ebbe grandi
sostenitori, anche se una sembianza di stabilità si era instaurata nel mondo occidentale: le istituzioni
democratiche liberali sopravvissero alla guerra, la crescita economica e politica era presente in tutto il mondo
industriale. Certo, un terzo della popolazione mondiale continuava a vivere sotto il regime coloniale.
L’ottimismo occidentale, però, svanì a causa delle crisi e dei rivolgimenti (l’ascesa del fascismo, totalitarismo,
crollo economico, competizione per la sicurezza e la guerra) che si susseguirono negli anni Trenta e quaranta
e che colpirono fortemente la democrazia liberale, sollevando dubbi sulla sua capacità di stabilire un ordine
internazionale funzionante. Nella lotta dei governi per sopravvivere al duro colpo inflitto dalla Grande
Depressione, la cooperazione internazionale fu la prima vittima. Il protezionismo si diffuse e allo stesso modo
aumentarono la disoccupazione e la povertà; la Germania, il Giappone e l’Unione Sovietica intrapresero
programmi di riarmo. La crisi politica provocò un indebolimento della democrazia liberale con la conseguente
ascesa dei rivali fascisti e totalitari, infatti se nel 1920 la maggior parte dell’Europa era democratica, alla fine
degli anni 30 solo la GB, gli USA, la Francia, i piccoli stati Nordeuropei e i Dominions erano le ultime
democrazie rimaste. Il punto più cruciale fu sicuramente in Germania, con l’ascesa di Hitler, dove il fascismo
divenne un movimento internazionale. Si intensificarono anche le crisi geopolitiche e fu firmato il patto
Kellogg-Briand, il quale invece di aprire una nuova era di internazionalismo, ne segnò la sua divisione.

Il futuro del capitalismo, della democrazia, del liberalismo e della modernità divenne oggetto di dibattiti,
molti dei quali sono tutt’ora aperti, come il dibattito Hayek-Keynes sul libero mercato che rifletteva anche
interpretazioni divergenti sulle moderne trasformazioni del capitalismo e del futuro della società industriale.
Hayek fornì i fondamenti intellettuali per quello che sarebbe poi diventato neoliberalismo e le sue idee
avrebbero ispirato le successive generazioni di economisti e politici conservatori che argomentarono per un
coinvolgimento ristretto del governo nell’economia. Egli sosteneva che le condizioni sottese ai mercati liberi
dovevano essere stabilite e gestite, inquadrate in istituzioni sociali e legali. Secondo altri, come Polany, erano
state proprio le politiche del laissez-faire responsabili della crisi e che in realtà, il mercato autoregolato non
si sviluppò naturalmente ma fu costruito e inquadrato in un sistema internazionale di potere geopolitico e
ordine sociale. Alla vigilia della guerra, Carr sosteneva che Wilson e i pianificatori liberali della pace di
Versailles avevano gettato i semi della crisi cercando di realizzare un ordine post-bellico sulla base di visioni
tipiche piuttosto che sulle realtà del potere, in quanto avevano tra loro una fede condivisa, ma sbagliata,
dell’armonia degli interessi. Il loro errore fu quello di pensare che la cooperazione internazionale potesse
essere perpetuata attraverso lacerazione di istituzioni per risolvere i conflitti all’interno di una società
mondiale di Stati liberali che possedevano interessi e idee comuni. L’ordine politico del XIX secolo che fu
distrutto dalla Grande Guerra non si basava su dei principi razionali universali e standard, ma sulle logiche di
potere. Carr sosteneva che un ordine internazionale stabile doveva poggiare su una preponderanza di potere
e sulla leadership di uno stato egemone. Gli stati egemoni creano ordine internazionale e hanno il potere che
attribuisce loro l’autorità di farlo, ma affinché si realizzi un ordine internazionale stabile è necessario che ci
sia un certo livello di consenso. Per Carr, la crisi dei vent’anni fu causata dal declino della Gran Bretagna che
aveva eroso il potere sul quale si era basato l’ordine del XIX secolo, seguito dal fatto che un’altra potenza
egemone non era ancora emersa, gli Stati Uniti. Vera Dean sosteneva che il vero compito delle democrazie
era reinventarsi a livello nazionale e internazionale e convincere il mondo che una vittoria delle potenze
occidentali avrebbe segnato l’inizio di un periodo di espansione e rinvigorimento della democrazia. Il mondo
democratico avrebbe dovuto creare un nuovo ordine internazionale basato sul benessere dell’uomo comune,
sulla protezione nei diritti e delle libertà fondamentali. Le vecchie istituzioni della democrazia e del
capitalismo laissez-faire avrebbero dovuto lasciare il posto ad un ordine economico e politico in grado di
riconciliare comunità e individualismo. Questo progetto comportava sua la riforma delle istituzioni politiche
sia la creazione di una nuova ideologia di modernità liberale. Il compito più importante delle potenze
occidentali era lo sviluppo di un nuovo orizzonte di democrazia per vincere la guerra contro il nazismo.

La visione degli internazionalisti liberali, tra cui quella di Roosevelt e la sua cerchia di consiglieri, nonostante
abbracciasse l’idea che le democrazie liberali avrebbero dovuto unirsi per originare un sistema funzionante
di commercio e sicurezza collettiva che avrebbe dato vita ad un ordine internazionale stabile e orientato al
progresso, aveva un orizzonte di esperienza diverso dai liberali del 1919. Al cuore del ripensamento
dell’internazionalismo liberale stava una diversa prospettiva sulla modernità, in quanto l’industrialismo e il
cambiamento tecnologico non andavano semplicemente a vantaggio della democrazia liberale. Anzi, erano
proprio le profonde trasformazioni nella società industriale che stavano mettendo in pericolo il progetto
internazionale liberale: l’ascesa degli stati fascisti e totalitari mostrava i modi spaventosi in cui la modernità
poteva essere sfruttata per scopri illiberali. Allo stesso tempo, le forze della modernità stavano generando
un mondo molto complesso e interconnesso da rendere impraticabili le vecchie modalità di gestione dello
spazio globale. La democrazia liberale aveva bisogno di essere riformata, ma questo poteva essere fatto solo
all’interno di un ordine democratico internazionale riorganizzato. Gli internazionalisti britannici e americani
che avevano difeso il progetto di Wilson e la Società delle Nazioni dovettero riconsiderare il loro progetto e
divennero più globalisti e realisti. Sul lato britannico, Angell sosteneva che in condizioni i di crescente
interdipendenza economica le società industriali moderne avrebbero riconosciuto l’inutilità della guerra e
della conquista, ma lo scoppio della guerra del 1914 costrinse Angell a riconsiderare la sua visione. Il
nazionalismo economico e la ricerca di potere potevano offuscare quelle che egli concepiva come le basi
razionali per la pace. La sicurezza doveva essere garantita attraverso la difesa collettiva, gli stati più forti
avrebbero dovuto mettere in comune il loro potere e collaborare per mantenere le regole e le istituzioni
internazionali. La forza sarebbe stata impiegata per sostenere l’ordine globale, al cui centro ci sarebbero
state le democrazie liberali occidentali.

Zimmern sosteneva la SDN come veicolo di prevenzione per guerre future ma negli anni 30 cominciò a nutrire
dubbi sul fatto che essa potesse funzionare adeguatamente. Egli cominciò a vedere il mondo come diviso tra
“stati welfare” e “stati del potere”. Questi ultimi dovevano essere affrontati e l’ordine internazionale doveva
essere basato sulla cooperazione tra stati del welfare.

Cecil rimase un difensore della SDN negli anni tra le due guerre. Sosteneva che i governi liberi erano capaci
di promuovere lo sviluppo individuale e il benessere della società; riponeva le sue speranze in un’unione degli
stati democratici occidentali, i quali avrebbero dovuto cooperare per tenere in vita gli ideali della SDN.

Sul fronte americano, il rifiuto degli USA di unirsi alla SDN fu l’evento determinante del periodo tra le due
guerre. Lippmann sostenne che il grande errore di Wilson era stato la sua sopravvalutazione dell’abilità dei
popoli e dei loro governanti di perseguire degli interessi illuminati. Quello che Lippmann cercava era un
internazionalismo più pragmatico dove la chiave per un ordine internazionale stabile sarebbe stata la
riduzione degli armamenti e l’arbitrato internazionale delle controversie. Egli perse la fede nella visione
wilsoniana della sicurezza collettiva.

Ci furono comunque alcuni internazionalisti che non si staccarono completamente dalla visione wilsoniana
ma cercarono di formulare delle argomentazioni più pragmatiche sulla costruzione dell’ordine del
dopoguerra in base alla leadership americana, alle istituzioni globali e obiettivi progressisti. Shotwell rimase
convinto che gli USA dovessero trovare un modo per legarsi alla SDN e con lo scoppio della guerra mondiale,
le sue idee continuarono ad evolversi. Un sistema di sicurezza collettiva era necessario ma solo se dipeso
dalla cooperazione tra grandi potenze che avrebbe generato condizioni di stabilità economica e progresso
sociale.

Per Welles, un altro importante internazionalista liberale, anche se il wilsonianismo aveva fallito come ordine
globale, l’occidente offriva uno spazio politico promettente per le idee internazionaliste liberali. Egli
proponeva un modello di ordine internazionale basato su una versione aggiornata della SDN e sulla Good
Neighbor Policy. L’organizzazione globale avrebbe creato una struttura di leggi internazionali, principi
economici e diritti umani regolata dalle grandi potenze con a capo gli Stati Uniti. Nel periodo tra le due guerre,
gli internazionalisti non persero le speranze nella riorganizzazione dell’ordine globale, anzi le loro idee furono
ancora più rilevanti per capire come superare le crisi e le problematiche che lo stavano minacciando.

In generale, questa ricerca di un nuovo ordine internazionale liberale aveva due caratteristiche fondamentali:
era globale e realista. Globale in quanto considerava il mondo come più complesso e di conseguenza l’ordine
avrebbe dovuto facilitarne la sua gestione; realista perché era incentrato sulle grandi potenze come
fondamenti dell'ordine. Il progetto liberale avrebbe dovuto poggiare anche su una base geopolitica stabile:
per alcuni questa era rappresentata dalle reazioni stabili con l’Unione Sovietica, per altri era rappresentata
dalla coalizione di democrazie liberali occidentali.

La rivoluzione rooseveltiana va considerata il momento culminante della trasformazione del modo in cui gli
internazionalisti liberali pensavano l’ordine internazionale.

Negli anni Trenta, il moderno stato democratico era visto allo stesso tempo fragile ma più essenziale alla
sicurezza, al benessere, all’assistenza, alla garanzia di lavoro e opportunità della società. I dodici anni della
presidenza di Roosevelt furono definiti da queste trasformazioni: lo stato americano fu chiamato a espandere
le sue facoltà per risolvere problemi economici sociali nuovi, il che richiedeva una trasformazione dell’ordine
politico nazionale stesso e che il presidente supervisionasse la costruzione di una nuova coalizione composta
da partito democratico, lavoratori, movimenti sociali e gruppi di interesse politico. Con il New Deal, Roosevelt
aveva impegnato il governo a fornire sicurezza socioeconomica al popolo americano. Eventi simili si
svilupparono in altri paesi europei come la GB, la Francia, la Svezia.

La riconcettualizzatine liberale si basava su diversi aspetti:


1. Negli anni Trenta, i liberali sostennero che l’ordine internazionale avrebbe dovuto essere messo al
servizio dell’aumento della sicurezza economica e benessere sociale, lo scopo era quello di migliorare
l’umanità nella società industriale moderna. Una volta sconfitto l’ordine tirannico, Roosevelt affermò
che il mondo avrebbe dovuto affermare quattro libertà umane essenziali (parola, religione, dal
bisogno e dalla paura). Le sue idee furono portate più avanti con la stesura della Carta Atlantica
insieme a Churchill
2. Gli internazionalisti liberali vedevano nella crescente interdipendenza economica e securitaria, ormai
radicata nelle forze della modernità, degli elementi di vantaggio e di svantaggio. Svantaggio in quanto
era diventato difficile per gli americani nascondersi dal resto del mondo. Vantaggio in quanto
commercio e scambio generavano profitti, provocando a lungo termine grandi avanzamenti umani.
Roosevelt parlava spesso degli effetti di “contagio” che caratterizzavano le relazioni internazionali e
per questo gli Stati Uniti avevano ormai bisogno di interessarsi anche ad eventi che accadevano a
migliaia di miglia di distanza. Questo sentimento modernista globale occupò sempre di più il centro
della visone internazionalista liberale
3. C’era una nuova enfasi sulla costruzione di istituzioni governative multilaterali permanenti che
sarebbero state il fulcro di un ordine internazionale creato per rafforzare le capacità degli stati liberali
di gestire i problemi dell’era moderna. È vero che la SDN aveva fallito ma è anche vero che fornì un
corpo di esperienze alle ambizioni di espansione della cooperazione internazionale dell’era
rooseveltiana. Essa nella transizione da imperi a stati nazione, contribuì a stabilizzare i nuovi stati e
gesti le minoranze e il sistema dei mandati; facilitò inoltre la regolazione di molti flussi transnazionali.
Per questi motivi, la SDN fu un precursore del multilateralismo che si affermò dopo la Seconda GM
4. L’ordine internazionale non poggiava più sulla “pubblica opinione” celebrata da Wilson, in quanto ci
si rese presto conto di come gli stati totalitari stavano sopprimendo le fonti di informazione esterne
e sottofondo i loro popoli ad una forte propaganda. L’ordine, quindi, avrebbe dovuto poggiare su un
solido fondamento di alleanze geopolitiche, cooperazione tra grandi potenze e scopi sociali condivisi.
Gli internazionalisti liberali dovevano essere ambiziosi in merito all’ordine che stavano cercando di
realizzare in quanto gli incentivi per la cooperazione dovevano provenire dai vantaggi economici e
securitari per gli stati che ne facevano parte
5. In queste idee era insito un nascente universalismo, stimolato dalla competizione ideologica che
Roosevelt e altri leader liberal-democratici avvertivano con i nuovi rivali fascisti e totalitaristi
6. Ci fu un cambiamento nel concetto di “sicurezza”. Negli Stati Uniti, la depressione e il New Deal
istituirono la nozione di “sicurezza sociale”, con la quale espressione si intendeva la responsabilità
crescente del governo nella stabilizzazione dell’economia e nel mantenimento di un alto livello di
occupazione (es. Social Security Act 1935, Full Employement Act 1946). La violenza e la distruzione
della guerra mondiale istituirono, invece, la nozione di “sicurezza nazionale” che esprimeva la visione
di uno stato attivista e permanentemente mobilitato per proteggere i propri interessi economici,
politici e militari. Gli Stati Uniti avrebbero dato forma al loro ambiente esterno, coordinando agenzie,
generando risorse, facendo piani e costruendo alleanze (es. National Security Act 1947).

Gli sconvolgimenti al centro del mondo moderno avevano generato insicurezza, quindi il compito dello Stato
Liberale era quello di generare sicurezza e in un mondo caratterizzato da una crescente interdipendenza la
sicurezza di un paese dipendeva sempre più dallo sviluppo al di fuori dei suoi confini. Questa dottrina di
sicurezza nazionale gettò le basi per la costruzione di un nuovo ordine mondiale post-bellico da parte degli
USA. Un’altra parte di questa visione era l’idea che un’economia internazionale aperte e funzionante fosse
componente vitale di una pace duratura. Con l’avvento della GF si costruì un ordine egemonico liberale che
incorporava l’internazionalismo liberale dell’era di Roosevelt in un progetto più ampio di leadership
egemonica americana.
CAPITOLO 6

La Seconda Guerra Mondiale fu la più violenta nella storia umana e quando finì, gli Stati Uniti erano la nazione
più forte del mondo, per questo era ovvio che avrebbero avuto l’opportunità di modificare e dominare il
sistema post-bellico. Tra il 1945 e il 1951, gli Stati Uniti e i loro partner intrapresero la più estesa opera di
costruzione di ordine internazionale mai tentata (Nazioni Unite, accordi di Bretton Woods, GATT,
Organizzazione mondiale della sanità, Piano Marshall, Trattato Nord Atlantico, CECA). Il tratto distintivo di
questo ordine era che incarnava lo sforzo delle democrazie liberali occidentali di cooperare per la
riorganizzazione di uno spazio internazionale all’interno del quale avrebbero potuto sopravvivere e
prosperare.

Quattro argomentazioni relative a questo nuovo tipo di ordine:


• Rafforzamento e alleanze. Non era semplicemente un ordine liberale, prese forma gradualmente
(non è possibile identificare un momento preciso in cui i problemi dell’ordine postbellico furono
risolti), aveva molte parti mobili, era composto da diversi progetti e si sviluppò adattandosi ad errori
e risolvendo problemi. Il carattere di questo sistema postbellico si basò su due progetti ordinatori
distinti. Il primo era quello di riorganizzare e rafforzare le basi della democrazia liberale nel mondo
industriale avanzato, il secondo era la costruzione di partnership e alleanze politiche nella lotta
contro l’Unione Sovietica durante la GF
• Multi sfaccettato. Questi progetti finirono con il generare un ordine egemonico liberale, con a capo
gli Stati Uniti che lo avrebbero gestito basandolo sulla loro economia e sul loro sistema di alleanze.
L’ordine aveva caratteristiche sia liberali sia imperialiste, era gerarchico, ma anche strutturato su
relazioni reciproche tra le democrazie liberali; era costruito su patti politici e securitari tra USA,
Europa occidentale e Giappone. Era dotato di istituzioni funzionari e stabilita politica
• Diritti e doveri. Quest’ordine egemonico liberale fornì un fondamento relativamente stabile per la
cooperazione e per scopi sociali condivisi. Chi ne faceva parte godeva sia di vantaggi in termini di
commercio, politica, sicurezza, ma al tempo stesso era soggetto a dei vincoli di responsabilità
• Quest’ordine postbellico a direzione americana, però, fu edificato su delle contraddizioni che
rimasero sommerse durante la GF. C’era una tensione tra l’universalismo dei suoi ideali e il
particolarismo del suo fondamento politico, si parlava di diritti universali, ma era costruito come un
patto tra USA, Giappone ed Europa; c’era una tensione tra il suo aspetto gerarchico e l’apertura al
multilateralismo, gli USA volevano vincolare gli altri stati rimanendo però distaccati da questi vincoli.
Queste tensioni vennero alla luce dopo la GF

L’ordine del dopoguerra fu plasmato da due progetti interconnessi. Il primo progetto mirava a riorganizzare
le relazioni tra le democrazie liberali ed è quello che guidò Roosevelt e gli internazionalisti liberali a partire
dalla fin e degli anni Trenta, i quali volevano unire le democrazie capitaliste in un sistema aperto e
cooperativo per dare all’ordine occidentale la base stabile che gli era mancata dopo Versailles. Il presidente
Truman parlò in sostegno di questo progetto nel marzo 1947in un discorso dove sosteneva che il mondo
doveva imparare dai disastri della decade precedente. L’altro progetto fu una reazione al deterioramento
delle relazioni con l’Unione Sovietica, che condusse all’ordine di contenimento basato su un equilibrio tra
potere, deterrenza nucleare, competizione politica e ideologica, per combattere la GF. Truman diede voce a
questo progetto in un discorso sempre a marzo del 1947 in cui annunciava l’intervento in aiuto della Grecia
e della Turchia, giustificando la cosa come l’impegno americano a sostenere la causa della libertà nel mondo.
L’ esplicitazione della “dottrina Truman” fu un momento donativo dell’ordine di contenimento che portò gli
americani verso una nuova impresa contro il comunismo sovietico e la sua missione di dominio mondiale.
Sebbene l’equilibrio di potere possa aver contribuito ad evitare uno scontro diretto tra le due grandi potenze,
ci furono in realtà una serie di conflitti denominati “guerre periferiche” (Vietnam, Afghanistan ecc.) ma
nonostante questo, ci fu un vasto consenso in termini di politica estera americana in favore della deterrenza
e del contenimento dell’Unione Sovietica per la difesa del mondo non comunista. La centralità del potere
degli USA rendeva facile sostenere che qualsiasi misura adottata per mantenere o espandere quel potere,
fosse giustificata, anche se spesso in vista di quell’obiettivo si siano impiegati mezzi e forze antiliberali. Si
trattava di uno spiacevole mezzo per raggiungere un fine essenziale. All’inizio degli anni 50 i due progetti si
avvicinarono, la costruzione di un “mondo unico” tra le democrazie liberali si adattava bene a quella di un
“mondo libero” come contrappeso al mondo sovietico. L’ordine conteneva sia principi liberali basati sul
multilateralismo e libero scambio, sia principi realisti di equilibrio di potere ed egemonia. La reale minaccia
sovietica rafforzò sia la coesione tra le democrazie capitaliste dal punto di vista economico, che passò dalla
visione multilaterale di Bretton Woods a un sistema a conduzione americana basato sul dollaro e sul mercato,
sia dal punto di vista securitario dove il controllo passò dal Consiglio di sicurezza dell’ONU alla NATO e alle
altre alleanze dirette degli Stati Uniti.

Quando uno stato in ascesa cresce in ricchezza e potere, i suoi interessi tendono ad espandersi verso l’esterno
e l’ordine egemonico postbellico che si impose aveva una varietà di logiche:
• Apertura economica -> Hull, componente dei free traders sosteneva che l’interdipendenza
economica veniva vista come la condizione essenziale di pace e prosperità e l’enfasi della sua visione
era non tanto sul libero scambio quanto sulla non discriminazione e sulle pari opportunità
commerciali. Il commercio aperto assicurava agli USA sia l’accesso ai mercati e alle materie prime di
tutto il mondo, sia contribuiva alla crescita e all’interdipendenza economica. La loro posizione di
potenza mondiale sarebbe dipesa dal mantenimento di un sistema aperto e bilanciato di relazioni
con le potenze dell’Europa e dell’Asia, le quali altrimenti sarebbero state intente a costruire sistemi
chiusi fatti di blocchi e sfere
• Cooperazione istituzionale -> gli USA stanno cercando di costruire nuove istituzioni internazionali che
avrebbero aiutato le nazioni indipendenti a risolvere i propri problemi economici, sociali e politici, in
risposta anche alla crescente interdipendenza economica e securitaria. Gli Stati uniti, in quest’ottica,
garantivano i principi di uguaglianza a risoluzione pacifica delle controversie. Le istituzioni create a
guida americana fornivano dei meccanismi per stabilire impegni e rassicurazioni credibili, mettevano
a disposizione canali istituzionali per le trattative e le decisioni comuni, il che a sua volta alimentava
il sostegno nei confronti di un ordine securitario americanocentrico. Nel costruire queste istituzioni,
gli USA non rinunciarono a grosse quote di autonomia, acconsentirono a lavorare in queste istituzioni
multilaterali, ma conservarono una sostanziale influenza sulle loro operazioni (carattere
“vincolante”)
• Baratto sociale -> lo sforzo di riconciliare l’apertura con la sicurezza sociale ed economica che non
erano del tutto complementari e si arrivò quindi al compromesso dell’embedded liberalismo ovvero
un sistema di apertura controllata. Le istituzioni dell’economia mondiale del dopoguerra furono
pensate per incoraggiare le democrazie industriali a offrire nuovi livelli di supporto sociale ai propri
cittadini
• Sicurezza cooperativa -> Security Binding è la strategia per la quale gli stati si vincolavano insieme in
istituzioni economiche e securitarie per favorire la cooperazione e la moderazione. Questo apparve
in tutto l’ordine internazionale postbellico e più esplicitamente, nella NATO. Questa strategia era
volta a controbilanciare il potere sovietico durante la GF. Per gli USA questo significava rimanere
alleati con altri stati democratici per non farli ritornare ai vecchi schemi di rivalità strategica. Ad ogni
passo, i leader europei acconsentirono ad una maggiore integrazione solo in cambio di assicurazioni
e promesse da parte degli USA
• Solidarietà democratica -> le democrazie condividevano un’autentica convinzione ovvero che il
“mondo libero” non era solo un’alleanza temporanea contro l’Unione Sovietica, ma una comunità
basata su un destino condiviso, affinità di valori e di identità. I vincoli dell’Alleanza Atlantica erano
considerati fondamentali. La sensazione che gli USA e l’Europa fronteggiassero una minaccia comune
rafforzò la solidarietà occidentale e il senso di appartenenza ad una comunità era importante perché
portava con se l’aspettativa che gli scambi tra questi paesi si sarebbero badati su un “dare e avere”
politico, sulla ricerca del consenso e su una diffusa reciprocità, non sull’esercizio imperialistico del
potere americano (ci sono stati comunque dei casi in cui gli USA hanno fatto ricorso a delle politiche
di potere su gli altri, ma si è trattato dell’eccezione e non della regola es. durante la crisi di Suez verso
la GB)
• Egemonia -> gli Stati Uniti si misero al centro assumendo i doveri della leadership. Il potere americano
fu ingombrante nel dopoguerra ma gli stati più deboli preferirono allearsi con loro piuttosto che
controbilanciare il loro peso grazie alle opportunità che questa unione offriva. Gli USA erano
talmente potenti da poter fare previsioni sulla forma dell’ordine internazionale nel lungo periodo.

Nei decenni della Guerra Fredda, questa unione di ideologie diede vita ad un ordine egemonico liberale che
aveva molte delle caratteristiche di un sistema politico funzionante. Al cuore dell’ordine stavano accordi
politici tra gli Stati Uniti e i loro partner europei ed est-asiatici. L’ordine egemonico liberale aveva due tipi di
contratto strategico:
• Securitario -> gli Stati Uniti fornivano protezione militare e accesso ai mercati, alla tecnologia e alle
risorse americane in un’economia mondiale aperta, in cambio, gli alleati degli USA si impegnavano a
essere affidabili e offrire supero diplomatico, economico e logistico agli Stati Uniti. Questi nel corso
della GF presto impegni di sicurezza, stazionarono truppe e mantennero partnership strategiche
continuative
• Politico -> si concentrava sugli elementi di incertezza associati alla posizione preminente degli Stati
Uniti in quanto nessuno stato era mai stato così potente in relazione al resto del mondo. Il contratto
politico era un tentativo di rendere il potere americano più digeribile agli stati in Europa e Asia
orientale in modo da renderli più collaborativi con gli USA e sostenere la loro leadership egemonica.

Il carattere egemonico di questo ordine variava in base alle regioni, alle relazioni e agli ambiti funzionali,
infatti in alcune parti, la gerarchia aveva delle caratteristiche liberali, soprattutto nelle relazioni tra gli Stati
Uniti e le altre maggiori democrazie liberali. In questo caso gli stati avevano “opportunità di parola”
(Giappone, Germania); in altre parti dell’ordine come l’America Latina o il Medio Oriente, gli Stati Uniti si
comportarono in modo più imperiale come grande potenza.
Il Giappone fu il pioniere di una identità e di un ruolo distinti lavorando all’interno del sistema delle Nazioni
Unite e dell’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti, in quanto appoggiava la leadership americana e in cambio
acquisiva influenza e autorità come alleato e stato di primo piano.
Nei primi decenni del dopoguerra, questo ordine egemonico a guida americana fornì una struttura per
progetti di avanzamento economico e politico in tutto il mondo liberal-democratico, fu proprio in questo
spazio che il movimento per l’unità europea acquisì slancio e il dominio coloniale europeo in Africa e Asia fu
abolito in buona parte. Sotto il controllo delle Nazioni Unite si affermarono una serie di dichiarazioni e
convenzioni sui diritti umani, mettendo fuori legge atrocità come il genocidio e la tortura. Negli annui 60-70,
gli USA e l’Unione Sovietica negoziarono una serie di accorsi per il controllo delle armi nucleari e
convenzionali (Trattato di non proliferazione) e negli anni 80 le due potenze acconsentirono a dei trattati
radicali di riduzione delle armi con e parte dell’accordo diplomatico che più tardi pose fine alla GF.
L’ordine postbellico diede origine a nuove forme di cooperazione in ambito economico, politico, sociale,
ambientale, securitario ed era bastato su delle asimmetrie di potere e non su un sistema imperialistico. Era
una formazione politica complessa e stratificata con caratteristiche liberali che generavano incentivi e
opportunità per gli stati che entravano a farne parte e operavano al suo interno. La Germania e il Giappone
trovarono ruolo e posizioni di autorità nell’ordine postbellico e molti paesi dell’Europa dell’Est, Asia orientale
e altrove, dalla GF in poi, entrarono nelle sue relazioni economiche e securitarie. La logica del
multilateralismo rendeva facile unirsi all’ordine e crescervi all’interno e il suo carattere pluralistico ha
permesso agli stati di entrarci e muoversi in modo da favorire i propri interessi. Tutto questo, in cambio, ha
creato un ordine con sempre più basi di sostegno e con un interesse diretto nella sua continuazione. Era sia
una società definita da regole, istituzioni e vincolo governativi (Gesellschaft) sia una comunità definita da
credenze, aspettative e valori condivisi legati al potere americano (Gemeinschaft) ed essere all’interno
dell’ordine garantiva quindi sicurezza e benessere. Ma, diversamente dalla visione di Wilson, il sistema non
faceva dipendere la disciplina e il controllo dall’opinione pubblica e dalla rettitudine morale, ma dalle regole
e dalle istituzioni dell’ordine.
Tuttavia, le tensioni e le contraddizioni implicite nell’ordine egemonico americano non scomparvero, in
quanto l’obiettivo di incentivare la cooperazione tra le democrazie occidentali non eliminò la politica di
potere vecchio stile. Gli USA e le altre democrazie liberali costruirono un ordine postbellico composto però
da diversi livelli e dimensioni con caratteristiche sia libraio sia illiberali.
CAPITOLO 7

La democrazia liberale riuscì ad affermarsi in Europa mentre le potenze europee costruivano ed espandevano
i loro imperi. L' internazionalismo liberale è stato usato sia per difendere l'imperialismo sia per contrastarlo.
Nel diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo secolo la Gran Bretagna e gli altri Stati Europei
propugnavano principi d'ordine imperiali e liberali. Nell'era vittoriana la Gran Bretagna continua a costruire
il suo impero, ma abbraccio anche il libero scambio, l'arbitrato e la cooperazione multilaterale tra le società
industriali occidentali. Gli Stati Uniti hanno sempre ritenuto possibile essere contemporaneamente liberali e
imperiali. Il dibattito sull’internazionalismo liberale segue due linee di critica, ed entrambe hanno profonde
radici intellettuali politiche: la prima, che proviene dalla sinistra politica e dalla scuola revisionista, sostiene
che le idee i programmi internazionali liberali hanno fatto poco per alterare il carattere profondamente
imperiale delle grandi potenze occidentali e che le continuità tra gli imperi del diciannovesimo e del
ventesimo secolo sono più appariscenti rispetto alle discontinuità. Wilson, a tal proposito, articolò i principi
generali per una nuova diplomazia, tra cui l’autodeterminazione, il libero scambio, la “rules of law” e la
sicurezza collettiva. Dietro però l'internazionalismo liberale di Wilson si si celavano profonde convinzioni di
gerarchia razziale e culturale. L'altra linea di critica deriva dalla tradizione realista: alcuni realisti sostengono
che nel cuore del liberalismo sia impresso un impulso attivista. Nel corso della loro ascesa al potere nel
ventesimo secolo gli interessi e gli obiettivi degli Stati Uniti sono stati determinati dalla loro ideologia e dalle
loro istituzioni liberali che condussero leader, a partire da Wilson, a cercare di ricreare il mondo a propria
immagine e somiglianza intraprendendo interventi militari e crociate idealiste. Le repubbliche, che oggi
definiamo come democrazie liberali, sono entità fragili e vulnerabili.
1. L' internazionalismo liberale è entrato nel ventesimo secolo cavalcando gli imperi europei. La
democrazia liberale si è adattata all' impero occidentale in diversi modi. Le sue radici illuministiche e
le sue prime visioni di modernità liberali consentiranno di riconciliare le concezioni di gerarchia e
civilizzazione con le loro idee di progresso storico a lungo termine. L' internazionalismo liberale
celebrava la logica progressista del capitalismo globale in tutti questi sensi, l'internazionalismo
liberale ha coniugato le sue idee e i suoi progetti con altri grandi forze: nazionalismo, capitalismo,
egemonia, impero.
2. Tali forze, agendo a diversi livelli e per lunghi periodi di tempo, sono intervenute per separare
l'internazionalismo liberale dall'impero e dall'imperialismo. Una di queste forze di natura geopolitica
si manifesta negli sforzi degli Stati Uniti di ottenere l'accesso alle varie regioni del mondo all'indomani
delle due guerre mondiali, quando l'antimperialismo era uno strumento della politica di grande
potenza. Le quattro libertà di Roosevelt erano la punta delle trasformazioni avvenute all'interno delle
democrazie liberali che crearono nuove basi di consenso per i principi universali in una società
internazionale emergente. anche le istituzioni internazionali a partire dalla società delle Nazioni
crearono piattaforme per adoperarsi al servizio di progetti multilaterali liberali.
3. Le fondamenta dell'internazionalismo liberale cambiarono mentre il mondo passava da un ordine
basato sugli imperi al sistema degli stati vestfaliano. Il declino degli imperi fu un processo storico in
cui ebbero un ruolo i cambiamenti nella tecnologia, nell'economia, nella geopolitica. era determinato
in parte dalla forza attrattiva dei popoli e delle società alla ricerca di indipendenza, dall'altra dalla
spinta degli stati dominanti che cercavano di acquisire i mercati e di influenzare la politica nel vecchio
ordine imperiale.
4. L'internazionalismo liberale comincia con l'idea della modernità nella quale il mondo si sta
inesorabilmente trasformando grazie alla scienza, la tecnologia e all'innovazione industriale;
Commercio e investimenti sono forze intrinseche per il processo economico e sociale. se
l'internazionalismo liberale ha un'idea centrale è quella di favorire un ordine internazionale che
renda le democrazie liberali prospere e sicure. non è semplicemente un ordine basato su un
equilibrio di potere, ma un sistema con caratteristiche integrative ed espansive.

Che relazione c'è tra liberalismo e impero? L'impero implica la sopraffazione e il liberalismo implica la
resistenza alla sopraffazione. Come tipologia di ordine incarnano principi organizzativi opposti: l'impero può
essere concettualizzato come una forma gerarchica di ordine in cui uno stato dominante esercita controllo
politico formale o informale su una realtà politica più debole, le relazioni sono organizzate in senso verticale
e secondo uno schema a raggiera dove i popoli e le società più deboli, che si trovano alla periferia, sono
dipendenti dal centro dell'impero e coercitivamente legati adesso. Il liberalismo, al contrario, è fondato sulla
ricerca di limiti costituzionali al potere statale, radicato nelle idee di Montesquieu e altri pensatori, offre una
visione di ordine politico basato sulla limitazione del potere, i suoi principi comprendono: la rules of law, la
separazione dei poteri, la protezione dei diritti di proprietà, la garanzia di diritti e libertà politiche. sulla stessa
linea l’internazionalismo liberale propone principi e progetti per l'organizzazione post-imperiale del mondo.
l'ordine è istituito da stati indipendenti e autonomi governati da democrazie liberali che cooperano per
mantenere uno spazio internazionale aperto e basato su regole. Nonostante queste differenze liberalismo
impero sono intellettualmente e politicamente intrecciati. nel diciannovesimo secolo i liberali erano
generalmente internazionalisti e definiti dal loro sostegno nei confronti del libero commercio, del diritto
internazionale, ma il loro internazionalismo liberale era inteso come applicabile soltanto agli Stati civilizzati.
Difatti, anche se una parte di liberali appoggiava l'impero, la parte restante ne era contraria. Metha parla di
una pulsione verso l'impero interna al liberalismo che deriva da una concezione evolutiva della civilizzazione
del progresso per la quale chi si trova al di fuori della civiltà moderna si trova più in basso nella gerarchia
dell'evoluzione globale. Il progresso però non è automatico e l'impero ne apriva una strada, essendo in grado
di far progredire le società meno sviluppate. Vi erano importanti correnti di pensiero antimperialista
all'interno del liberalismo che riguardavano: i diritti dell'umanità, le ingiustizie del dispotismo straniero, la
saggezza economica del libero scambio, la vanità della conquista. vi erano diversi fattori che determinavano
la pulsione liberale verso l'impero:
1. Le democrazie liberali emersero tra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo secolo
all'interno di un sistema globale di Imperi, fin dal primo momento quindi gli Stati liberali dovettero
decidere se e in che modo costruire, opporsi, adattarsi e aggirare gli imperi occidentali e non. gli
internazionalisti liberali britannici vedevano la società come un passo verso la costruzione di un
ordine internazionale aperto e basato su regole e come un veicolo per porre l'impero britannico su
un terreno stabile. questa visione apparteneva ai membri di un movimento chiamato “round table”,
essi vedevano un bisogno urgente di dare all'impero britannico una nuova architettura adatta a
un'era di nazionalismo, democrazia, e internazionalismo riformista. L'impero sarebbe rimasto, ma
come comunità politica di tradizioni condivise, leggi e impegni che incarnavano le idee occidentali di
autogoverno e liberalismo. il filone di liberalismo pro imperiale di Zimmern era fondato su
argomentazioni moraliste sul ruolo progressista delle civiltà occidentali. Zimmern proponeva la
visione di una società internazionale ispirata agli ideali della civiltà occidentale nella quale i principi
rappresentati dal British commonwealth avrebbero guidato l'organizzazione dell'ordine post-bellico
nella sua visione. la società non era un sostituto del sistema imperiale europeo, ma una struttura che
avrebbe stabilizzato l'Europa. Sul fronte americano la strategia era tesa a sopprimere l'imperialismo
inteso non come un'espansione coloniale produttiva, ma come la rivalità egoista e violenta tra
Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Russia, Giappone che minacciava di dividere il mondo in
frammentarie sfere di influenza. gli internazionalisti liberali in questo periodo presentarono alcuni
radicali accuse dell'impero e dell'imperialismo, difesero la Società come struttura per porre fine
all'ordine mondiale imperiale. anche se per l'altra parte degli internazionalisti l'impero britannico
avrebbe dovuto essere una componente fondamentale dell'ordine del dopoguerra.
2. Nel diciannovesimo secolo e buona parte del ventesimo, le democrazie liberali furono un piccolo e
distinto gruppo di stati. Nel tentativo di costruire l'ordine mondiale questi distinguevano l'ordine
interno dal mondo esterno. Le relazioni tra le democrazie liberali erano costruite sul fondamento del
sistema degli stati europei. L’ordine esterno, che legava questi stati al mondo extra europeo, era
basato sui sistemi coloniali imperiali amministrati dall'Europa. L'ordine europeo occidentale era
dedito a costruire relazioni basate sul riconoscimento reciproco, sull'uguaglianza sovrana e
sull'indipendenza territoriale. L'ordine extra europeo era dedito a promuovere l'idea di civilizzazione
e a trasmettere i suoi presunti benefici al resto del mondo, in questo ambito le relazioni erano basate
sull'imposizione imperiale dei diritti individuali e di proprietà. Lo sviluppo del diritto internazionale
riflette gli sforzi di codificare questa divisione tra i due mondi, esso viene fatto risalire alla nascita
degli stati europei nel 17esimo e 18esimo secolo. I primi principi legali furono istituiti per regolare le
relazioni tra gli Stati europei e, in un secondo momento, vennero esportati nel resto del mondo. Nel
diciannovesimo secolo il diritto internazionale divenne un progetto d'ordine finalizzato a definire
ambiti di comunità tra gli Stati civilizzati e le basi legali dell'imperialismo europeo. Alcuni riformatori
liberali vedevano il diritto internazionale come uno strumento per favorire la cooperazione tra le
potenze imperiali in modo che l'espansione imperiale europea potesse proseguire senza mettere a
repentaglio la pace. Il nascente diritto internazionale imperiale aveva una doppia implicazione per
l'internazionalismo liberale: da un lato il fatto che l'imperialismo veniva sempre più inquadrato in
una struttura legale internazionale rendeva più facile agli internazionalisti liberali riconciliare
l'impero con la visione di un mondo governato dal diritto e dalla cooperazione. Dall’altro questo
ordine legale imperiale fornì anche principi istituzioni che giuristi attivisti politici poterono usare per
contrastare l'impero.
3. L'internazionalismo liberale dell'era vittoriana e della prima parte del ventesimo secolo era intriso di
nozioni di gerarchia razziale civilizzazione, e queste assunzioni normative si celavano sullo sfondo dei
dibattiti occidentali sul liberalismo e sull’impero. Il termine “civilizzazione” o “un mondo civilizzato”
comincia a essere usato nel diciannovesimo secolo dai pensatori europei per descrivere il carattere
della società occidentale in relazione agli altri popoli. Trasmetteva l'idea che la società europea si
distinguesse dalle altre società in virtù delle sue istituzioni e della sua cultura avanzata. Esseri
civilizzati come popolo nazione o stato significava essere riconosciuti come membri della comunità
politica dominante e più progredita. Alla fine del diciannovesimo secolo la civilizzazione diviene
sempre di più un principio legale, con caratteristiche specifiche che includevano il diritto di libertà,
proprietà, commercio, una burocrazia politica organizzata ed efficiente ecc.. la divisione del mondo
in popoli civilizzati arretrati era un artefatto culturale e razziale. la missione civilizzatrice degli stati
occidentali divenne un progetto dei popoli bianchi per istruire i popoli non bianchi su come
organizzare le loro società in vista del progresso sociale.
4. Gli internazionalisti del diciannovesimo secolo e del ventesimo secolo hanno visto le relazioni
internazionali come plasmate da forze dinamiche e progressiste che rimodellano continuamente il
mondo, le forze della scienza, della tecnologia, della scoperta e dell'apprendimento alterano
costantemente alla società umana. L'idea di progresso implica che il cambiamento insito nella vita
moderna crei opportunità per le società di migliorare le loro circostanze. queste concezioni
appartengono alla dottrina dell'internazionalismo liberale. Questa visione della modernità del
progresso ha diversi livelli: una visione dei movimenti dinamici del capitalismo e della società di
mercato che vede il capitalismo occidentale e il sistema industriale come espansivi. il commercio, gli
investimenti e gli scambi spingono la società verso l'esterno. il capitalismo appare come
transnazionale, le società con il capitale, la tecnologia e i mezzi per proiettare potere dominano
questo processo di espansione. Quando gli Stati commerciano gli uni con gli altri le industrie e i settori
inevitabilmente si espandono. A un altro livello alcuni internazionalisti liberali sostennero che le forze
capitaliste di mercato non fossero alleate con l'impero. Essi vedevano il commercio e
l'interdipendenza economica come elementi costitutivi di un ordine pacifico costruito intorno alle
società industriali moderne. Sebbene il capitalismo non fosse antimperiale poteva essere plasmato
e indirizzato in modi che avrebbero posto fine all'impero formale. Ancora un altro livello fu la fede
nella logica modernizzatrice e nell'ascesa mondiale della democrazia liberale che aprì la porta alla
pulsione liberale verso l'impero.

Se l'internazionalismo liberale aveva una pulsione verso l'impero, aveva anche una pulsione a combatterlo.
Alla fine del diciannovesimo secolo i pensatori liberali degli Stati Uniti e in Europa si aggiunsero ai movimenti
di opposizione all'impero e al colonialismo. dopo le guerre mondiali molti internazionalisti liberali, in
particolare negli Stati Uniti, promossero la società delle Nazioni e le Nazioni Unite come istituzioni che
costruivano principi di autodeterminazione e di uguaglianza sovrana e che perciò rappresentavano una
strada per allontanarsi dall'impero. La visione dell'ordine liberale proposta da Wilson e dai suoi
contemporanei era più civile civilizzazione che universale: la società delle Nazioni sarebbe stata aperta al
mondo esterno, ma era organizzata attorno alle democrazie liberali occidentali. Ciò che era cambiato tra il
1919 al 1945 era il concetto di come popoli e società provenienti da regioni e civiltà differenti si relazionavano
tra loro come entità morali e legali, uno spostamento dettato in parte dal maggiore riconoscimento
dell'universalità della nozione di uguaglianza sovrana e in parte dalla rilevanza crescente dei diritti dei popoli.
la nuova divisione non era quella tra l'occidente e il mondo non occidentale, ma tra il mondo
liberaldemocratico e il mondo illiberale. In questi anni vi erano quattro forze distinte che stavano
allontanando gli Stati Uniti e il progetto internazionale liberale dall'impero:
1. Gli Stati Uniti, come potenza globale in ascesa, vedevano i propri interessi associati alla dissoluzione
degli imperi. Roosevelt e i politici americani consideravano il colonialismo europeo una forma
d'ordine instabile che avrebbe incontrato movimenti di resistenza, e gli Stati Uniti si schierarono al
fianco di questi ultimi per indebolire le grandi potenze. Negli anni 30 gli strateghi americani
cominciarono a dibattere la questione se gli Stati Uniti potevano essere una grande potenza
rimanendo isolati nel proprio emisfero. I politici americani propugnarono regole e istituzioni globali
che promuovevano l'apertura e l'autodeterminazione per aprire l'Europa, l'Asia e le altre regioni al
commercio, agli investimenti e alla diplomazia. Gli Stati Uniti avevano bisogno di aprirsi e connettersi
alle principali regioni del mondo, la loro posizione geografica influenzò anche il loro modo di
proiettare il potere. Di fatti, separati dall'Europa e dall' Asia da vasti oceani, erano potenzialmente
utili agli altri stati come punto di equilibrio esterno; tali circostanze diedero agli Stati Uniti relazioni
di poter egemoniche piuttosto che imperiali e la distanza da queste regioni la rendeva meno
minacciosa. Se grande potenza non può dominare uno stato più debole in modo diretto la migliore
alternativa è sostenere la sovranità e l'indipendenza di quello stato in modo che esso non sia
dominato da una grande potenza rivale. Gli Stati Uniti acquisirono potere nel relativo isolamento
dagli altri stati principali e divennero una potenza mondiale nel periodo di massimo splendore
dell'impero, non attraverso conquiste al di fuori della propria regione, ma riempiendo i vuoti e
approfittando dei periodi post-bellici per influenzare gli assetti geopolitici. Gli Stati Uniti tentarono
di influire sugli eventi come potenza offshore senza cercare di diventare una potenza continentale,
attraverso un sistema di alleanze e di stato-Vassallo
2. Che separava l’internazionalismo liberale e l'impero erano le stesse idee, filtrate da movimenti
politici sia interni alla democrazia liberale sia esterni al mondo occidentale. Per Roosevelt la Carta
Atlantica era un modo per legittimare l'imminente entrata in guerra agli occhi del popolo americano,
uno sforzo di contrastare la Germania nazista. Dagli anni 50 all'inizio degli anni 60 l'era di espansione
imperiale del secolo precedente subì una radicale inversione: i territori colonizzati cercarono di
stabilire la propria indipendenza dal controllo europeo e per la metà degli anni 80 non c'erano aree
sotto dominio imperiale. L'opinione predominante in Europa alla fine del diciannovesimo secolo era
che il sistema imperiale sarebbe rimasti per sempre, eppure questi imperi erano scomparsi nel giro
di 200 anni. i movimenti politici negli Stati Uniti e nelle altre democrazie liberali ebbero anche un
impatto nascosto: ricordiamo il movimento britannico contro la tratta degli schiavi, il movimento per
il suffragio femminile, le lotte politiche domestiche sui diritti civili.
3. Le organizzazioni internazionali istituite dopo le 2 Guerre Mondiali crearono piattaforme e funzioni
che esperti attivisti poterono utilizzare nelle loro battaglie contro l'impero. Sia la Società delle Nazioni
che le Nazioni Unite crearono canali istituzionali che consentirono a gruppi di fungere da contrappeso
al vecchio ordine imperiale, tali gruppi includevano: organizzazioni femminili, gli attivisti
internazionali e governi e popoli non occidentali. Il complesso delle istituzioni della società trascinò
commissioni, organizzazioni, lobbisti di esperti internazionali in un vivo e continuo dibattito sul futuro
dell'impero europeo. L'India sfrutta la società delle Nazioni per ottenere diritti e riconoscimenti
prima dell'indipendenza. le Nazioni Unite sancirono l'idea della membership universale in un mondo
di Stati sovrani e fornirono la struttura legale e politica per il riconoscimento di integrazione dei nuovi
stati nell'ordine vestfaliano post-imperiale. Mentre la decolonizzazione accelerava nel Nazioni Unite
si espansero fino ad arrivare a 159 membri alla fine del 1985.
4. La più profonda importante tra le forze che separarono il liberalismo dall'impero è stata la lotta per
l'espansione globale del sistema vestfaliano degli stati. un mondo di stati Sovrani era un requisito
indispensabile per la diffusione dell'internazionalismo liberale. perché gli imperi come forma di
ordine globale fallirono? John Darwin sostiene che gli imperi storicamente tendono a fallire per
quattro ragioni: attacchi esterni o fragilità geopolitica, contaminazione ideologica o perdita di
legittimità, indebolimento interno al centro dell'impero, rivolta coloniale. tutti questi fattori
scatenanti di crisi sembravano essere presenti nel ventesimo secolo. considerate come guerre
imperiali le guerre mondiali indebolirono in modo decisivo e posero fine al sistema imperiale
europeo. In questa vicenda gli Stati Uniti giocarono un ruolo importante: sia sabotando l'impero, sia
promuovendo il sistema degli stati vestfaliano. Fecero ciò per la prima volta durante le 2 Guerre
Mondiali, dapprima affiancando e poi guidando quelle azioni di alleati che finirono per sconfiggere
gli Stati con progetti imperiali espansivi. nella Prima Guerra Mondiale portarono al crollo di quattro
imperi europei consolidati da tempo: Russia dei Romanov, Austria-Ungheria degli Asburgo, Germania
e la Turchia degli Ottomani; con la Seconda Guerra Mondiale abbatterono l'Impero Giapponese e
indebolirono gli Imperi Britannico e Francese. Durante la guerra fredda gli Stati Uniti intrapresero
anche pratiche di bilanciamento contro l'Unione Sovietica cercando di contenere l'espansione del
potere e dell'influenza sovietica e di sventare rivoluzioni e colpi di Stato comunisti in molti Stati
indipendenti più deboli. nella seconda metà del ventesimo secolo l'ordine internazionale diretto dagli
Stati Uniti istituzionali con il libero commercio e la cooperazione multilaterale rafforzarono anche
l'abilità degli stati più piccoli di sostenere la propria sovranità. Gli Stati Uniti hanno presentato diverse
facce al monto: combattere il comunismo, proteggere gli alleati, difendere la libertà, promuovere i
diritti umani, costruire nazioni, sconfiggere il terrorismo. Ma l'intervento militare è rimasto una
costante e controversa caratteristica della politica estera americana.

Gli Stati Uniti si sono trovati a sostenere l'espansione della Nato e dell'Unione Europea a impegnarsi in
interventi umanitari, proiettarsi dentro conflitti regionali e guerre civili, a incalzare violenti cambiamenti di
regime come con l'invasione dell’Iraq del 2003. Ci si chiede se la tradizione liberale americana sia
intrinsecamente interventista; ed una lunga tradizione di pensiero realista ha sostenuto di sì. Gli Stati Uniti
sono spesso descritti come uno Stato che ha cercato di ricreare il mondo secondo la propria immagine. da
un lato i principi liberali accordano tutti gli Stati, inclusi gli Stati illiberali, il diritto alla non interferenza, perfino
quando questi stati danneggiano le proprie popolazioni o violano i loro diritti. Dall'altra parte il liberalismo
enfatizza anche il fatto che i diritti degli individui appartenenti a queste società devono pure essere rispettati
e questo apre la porta all' intervento, almeno in circostanze estreme. Il liberalismo, quindi, offre argomenti
sia a favore, sia contro all'intervento. Esiste una distinzione tra liberalismo di imposizione e di moderazione:
il primo è manifesto nell'utilizzo del potere da parte dello Stato per espandere i principi liberali perché le
società non civilizzate non osservano le regole le tradizioni della moralità internazionale per cui la loro
indipendenza non merita pieno rispetto; il liberalismo di moderazione, invece, pone in evidenza un diverso
insieme di valori liberali: il pluralismo, il non intervento, il rispetto degli altri, la moderazione, la cooperazione
pacifica in condizioni di uguaglianza; questo tipo di liberalismo, anche definito “da statuto” ha dei valori
rappresentati dallo statuto delle Nazioni unite. Agli stati è garantito uguale trattamento, la loro indipendenza
sovrana e rispettata, e a ogni stato è consentito stabilire come definire i propri diritti e protezione. i liberali
moderati riconoscono che alcuni stati violeranno diritti umani fondamentali, ma finché non viene
oltrepassato un limite estremo di violenze e genocidio la diversità è tollerata. L'amministrazione Bush elaborò
una nuova radicale dottrina di sicurezza nazionale basata sulla supremazia globale americana sull'uso
preventivo della forza. l'amministrazione Bush mise deliberatamente gli Stati Uniti al di sopra delle regole e
delle istituzioni dell'ordine liberale. La promozione della democrazia era una delle giustificazioni ricorrenti
per la guerra fornite dall'amministrazione Bush, ma è difficile credere che questo obiettivo fosse l'impulso
scatenante della guerra. Essa è visto come la giustificazione pubblica dell'amministrazione per la guerra.
Alcuni internazionalisti liberali appoggiano la guerra e altri vi si opposero, molti erano soprattutto spaventati
dalle armi di distruzione di massa e dalla ricerca di risposte a questa minaccia. Alcuni studiosi hanno chiamato
questo fenomeno americanismo liberale: se l'interventismo militare non è implicito né nel liberalismo né nel
realismo la questione si riduce alla qualità delle istituzioni politiche dei processi decisionali.

L' internazionalismo liberale si è trovato a combattere su entrambi i fronti: sia per l'impero sia contro di esso.
L’internazionalismo imperiale e l'internazionalismo liberale sono quindi profondamente intrecciati. L'
internazionalismo liberale si è sviluppato nel ventesimo secolo cavalcando l'impero e in quello stesso secolo
lo spinse giù dal palcoscenico mondiale, la complicità con l’impero si tramuta in una complicità con
movimenti politici che promuovevano l'autodeterminazione, la statualità e i diritti universali del
riconoscimento di sovranità. Nel ventesimo secolo l'internazionalismo liberale pose i suoi progetti sul
fondamento del sistema statale vestfaliano. Gli Stati Uniti giocarono un ruolo decisivo come Stato più potente
del sistema e come incarnazione ideologica della modernità liberale. Attraverso le 2 Guerre Mondiali
indebolirono e batterono i grandi progetti imperiali. Gli Stati Uniti avevano bisogno di una grande area di
proporzioni globali, e gli imperi in Asia in altre parti del mondo intralciavano la strada; per questo gli Stati
Uniti cercarono di influenzare il proprio ambiente internazionale per motivi di interesse personale anche se
le proporzioni e la portata globale del potere americana lo portarono a scontrarsi con l'organizzazione
imperiale del mondo. Organizzare e dirigere un sistema globale richiede un diverso insieme di regole e
istituzioni rispetto a quelle richieste da un ordine imperiale: necessita di regole, istituzioni universali.
Scegliendo quella strada gli Stati Uniti si legarono ai due grandi progetti che si stavano sviluppando in
quest'era: il progetto vestfaliano e il progetto internazionalista liberale. L'impero formale scomparve nella
seconda metà del ventesimo secolo mentre l'internazionalismo liberale è implicato negli interventi militari
dell'era della supremazia globale americana. La tradizione liberal americana è una lama a doppio taglio: ha
legittimato l’interventismo, ma ha anche ispirato idee e istituzioni che censurano l'interventismo stesso. la
critica più significativa dell'internazionalismo liberale non è la sua posizione verso l'impero o la sua tendenza
a condurre cambiamenti di regime coercitivi, ma il fatto che l'internazionalismo liberale è troppo spesso
debole e facilmente cooptabile da altre agende.
CAPITOLO 8 - LA CRISI DELL’ORDINE LIBERALE DOPO LA GUERRA FREDDA

Con la guerra fredda finì la grande battaglia geopolitica tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. La Guerra
Fredda non finì con una vittoria militare, ma con un trionfo politico e ideologico: il collasso dell'Unione
Sovietica e con esso il collasso politico e ideologico del comunismo. Inoltre, a differenza di ciò che era
avvenuto nei precedenti dopoguerra, il sistema globale non fu stravolto, al contrario, il mondo che gli Stati
Uniti e i loro alleati avevano creato rimase intatto e la fine della Guerra Fredda non fece altro che
consolidarlo. Ciò che seguì negli anni 90 fu un momento liberale per il mondo. La questione si incentrava su
come organizzare le relazioni in un mondo di democrazia liberale indisturbate da grande rivalità ideologiche
o centri di potere concorrenti. Nella prima decade dopo la Guerra Fredda le democrazie e i mercati fiorirono
in tutto il mondo attraverso l'accordo nordamericano per il libero scambio, la cooperazione economica Asia-
Pacifico e l'organizzazione mondiale del commercio. L'Unione Europea aprì le porte a nuovi membri, la Nato
si espanse verso Oriente. Ma solo due decenni dopo l'ideale liberale aveva stravolto il mondo, la democrazia
liberale e l'internazionalismo liberale battevano in ritirata. Le forze oscure che erano state bandite
dall'occidente: il liberalismo, l’autocrazia, il nazionalismo, il protezionismo, le sfere di influenza, il
revisionismo territoriale si riaffermarono. La Cina e la Russia rafforzarono i propri sistemi autoritari in patria
e ignorarono le norme liberali all'estero. Per la prima volta dopo gli anni 30, gli Stati Uniti con le elezioni di
Donald Trump nel 2016 hanno avuto un presidente attivamente ostile nei confronti dell'internazionalismo
liberale. Inoltre, la decisione della Gran Bretagna di lasciare l'Unione Europea e una miriade di altri problemi
che affliggono l'Europa sembravano indicare la fine del lungo progetto postbellico di realizzare un’unione più
Grande. nel frattempo, la democrazia liberale era sotto attacco dai vari tipi di autoritarismo che avevano
acquisito rilevanza in Ungheria, Polonia, Filippine, Turchia, Brasile e altrove. Le cause che spiegano il rovescio
dell'ordine internazionale liberale sono diverse. È importante ricordare che tale ordine non esordì come
ordine globale ma fu costruito dentro la metà di un ordine bipolare come parte del più ampio progetto
geopolitico di combattere una guerra fredda globale. I suoi patti, istituzioni e obiettivi sociali originari erano
legati all'Occidente, alla leadership americana e alla lotta globale contro il comunismo sovietico. Ma quando
la guerra fredda finì questo ordine interno divenne l'ordine esterno. Con il crollo dell'Unione Sovietica il
grande rivale dell’internazionalismo liberale fu spazzato via e tale ordine si globalizza. ciò mise in moto due
cambiamenti che più tardi divennero fonti di crisi: esso stravolse le fondamenta politiche dell'ordine liberale
con l'ingresso di nuovi stati nel sistema, per cui i vecchi patti e le istituzioni che fornivano stabilità e
governance furono sopraffatti. una gamma più ampia di stati con ideologie agende più diversificati era
divenuta parte dell'ordine e ciò scatenò una crisi di autorità per cui erano necessari nuovi accordi, ruoli e
responsabilità. In secondo luogo, la globalizzazione dell'ordine liberale ne diminuì la capacità di funzionare
come comunità di sicurezza, e se inizialmente l’ordine si prefigurava come comunità di sicurezza full service
questo obiettivo sociale comune si sgretolò. i problemi dell'ordine liberale non sono dovuti tanto ai problemi
dell'anarchia, quanto ai problemi della modernità e alla difficoltà di ridare un fondamento stabile alla
democrazia capitalista liberale:
1. Globalizzazione del liberalismo = la fine della guerra fredda fu la storia di due ordini costituiti negli
anni 40, uno di essi era stato costruito in risposta alle minacce e agli imperativi emersi durante la
lotta contro l'Unione Sovietica; questo era l'ordine bipolare che cessò di esistere con la caduta
dell'unione sovietica. L'altro era l'ordine internazionale diretto dagli Stati Uniti sorto all'interno del
sistema bipolare rafforzato dalla guerra fredda e definito come ordine liberale occidentale. Il primo
impulso degli Stati Uniti dopo la guerra fredda fu sviluppare la logica di questo ordine liberale
occidentale. Il presidente Bush descrisse il futuro ordine in termini internazionali liberali, i cui pilastri
sarebbero stati: la democrazia, il libero commercio e il diritto internazionale. in questo nuovo ordine
mondiale le Nazioni Unite e le istituzioni multilaterali avrebbero giocato un ruolo fondamentale, gli
Stati Uniti sarebbero stati al centro di questo mondo di espansione di democrazia liberale e
cooperazione multilaterale. Bush cercò di espandere le istituzioni regionali e globali nel campo della
cooperazione securitaria ed economica attraverso: l'evoluzione della Nato per includere i legami di
associazioni con i paesi dell'Est, relazioni istituzionali formali con la Comunità Europea, la creazione
del NAFTA e legami più stretti con il Sud America, l’APEC per stabilire più collegamenti istituzionali
nella regione e assicurarsi che il regionalismo asiatico si muovesse in una direzione transpacifica.
Questo orientamento proseguì sotto il presidente Clinton la cui strategia era rafforzare la comunità
delle democrazie di mercato e promuovere e consolidare nuove democrazia ed economie di mercato
dove possibile. Gli Stati Uniti avrebbero aiutato la democrazia e l'economia di mercato a mettere
radici. Tale strategia prendeva di mira innanzitutto quelle parti del mondo che stavano cominciando
la transizione alla democrazia di mercato: paesi dell'Europa centrale e orientale e della regione Asia
pacifico. Alla fine degli anni 90 il consolidamento e l'espansione dell'ordine internazionale liberale
sembravano in pieno svolgimento; la nato fu ampliata e tale espansione fu oggetto di controversie
per i quali alcuni personaggi della politica estera americana dichiararono che avrebbero potuto
compromettere le fragili relazioni con la Russia, ma l'amministrazione Clinton voleva dimostrare
solidarietà ai paesi che stavano effettuando la transizione democratica e integrarli al loro ordine.
anche il NAFTA e l’APEC furono concepiti come meccanismi per stabilizzare il movimento mondiale.
L’era postbellica fu un'opportunità per gli Stati Uniti di plasmare il mondo in modo più persistente
rispetto alla momentanea superiorità di potere. il coinvolgimento cinese nel sistema commerciale
avrebbe liberalizzato la sua società. la Cina stava crescendo rapidamente e il suo impatto
sull'economia mondiale era inevitabile per cui l'appartenenza al WTO avrebbe influenzato la sua
ascesa in senso favorevole alle norme e alle pratiche occidentali. Questa strategia di coinvolgimento
della Cina da parte degli Stati Uniti continua sotto l'amministrazione di Bush. la Cina sarebbe
cresciuta sia economicamente che militarmente e sarebbe diventata più democratica a livello
domestico e più cooperativo a livello internazionale. Nel frattempo, il liberalismo economico e
politico si diffondeva in tutto il mondo, gli Stati aprirono progressivamente le loro economie a flussi
transnazionali di capitali e commercio, iniziarono a integrarsi nell'economia mondiale e operare
all'interno del suo sistema in espansione di regole e istituzioni. La diffusione del liberalismo politico
ed economico rifletteva la nuova distribuzione di potere. Il crollo dell'Unione Sovietica lasciò gli Stati
Uniti il ruolo di potenza unipolare. Quest'unica nazione possedeva una quota così sproporzionata di
risorse materiali da costituire una categoria a sé stante, essi utilizzarono la loro posizione dominante
per spingere il liberalismo verso l'esterno e nel mondo (anche perché non erano presenti centri di
potere alternativi). L'unipolarismo fu creato proprio dall'assenza di altri stati che ambivano a
diventare poli, gli altri stati volevano unirsi alla potenza piuttosto che resistervi o contro bilanciarlo.
L'ordine era fondato su regole, istituzioni multilaterali e questo rendeva facile per gli Stati effettuare
transazioni politiche ed economiche; inoltre, esso attraeva gli Stati in transizione perché offriva
benefici e protezioni garantendo beni e servizi: protezione securitaria, l'accesso ai mercati, gli aiuti
internazionali e l'assistenza tecnica. Infine, gli Stati più piccoli avevano una certa rassicurazione del
fatto che questi stati dominanti non le avrebbero semplicemente messe alle strette sopraffatti.

2. La crisi dell’ordine liberale = L'ordine liberale divenne la piattaforma per un sistema globale sempre
più ampio di democrazia liberale, mercati e interdipendenza complessa. Eppure, proprio in questo
momento, furono piantati i semi della crisi. La globalizzazione dell'ordine liberale fu carica di
tensione, la crisi può essere vista come una reazione a rallentatore dell'espansione globale di questo
ordine occidentale post-bellico. L'espansione dell'internazionalismo liberale indebolì i 2 aspetti
dell'ordine liberale postbellico: la logica di governance dell'ordine con i suoi accordi politici, impegni
istituzionali e relazioni di autorità; e obiettivi sociali e le protezioni liberali embedded. L' ordine così
perse il suo primato divenendo più debole, esile e meno connesso al benessere politico ed economico
della società e dei cittadini che stanno al suo fondamento. Per quanto riguarda il primo aspetto
durante la guerra fredda l'ordine fu guidato dagli Stati Uniti, dall'Europa e dal Giappone, organizzato
intorno ad un sistema di accordi, rapporti, collaborazione e istituzioni. la Germania ovest e il
Giappone erano soci minoritari. anche se le nazioni non si trovavano d'accordo su tutto, i loro
interessi erano allineati e si fidavano le une delle altre perché il sistema di alleanze dirette dagli Stati
Uniti incoraggiava la cooperazione. Al centro di questo ordine c'era un insieme di accordi strategici
tra gli Stati Uniti e i loro partner economici e securitari (specialmente Germania ovest e il Giappone).
Come stato più importante del sistema gli Stati Uniti garantivano protezione securitaria e
mantenevano un mercato interno aperto per assorbire le loro esportazioni. in cambio i suoi partner
detenevano dollari americani e ciò consentiva agli Stati Uniti di andare in deficit di bilancio senza
affrontare i requisiti di adeguamento degli altri stati. i loro partner ottenevano accesso al mercato e
alle materie prime degli Stati Uniti ed erano protetti dalla loro potenza militare e in cambio essi
sostenevano gli Stati Uniti nella Guerra Fredda. ma dalla fine della Guerra Fredda il complesso di
accordi che teneva insieme questo raggruppamento centrale si è lentamente indebolito. Il Giappone,
l'Europa occidentale e la Germania continuarono a onorare le relazioni con gli Stati Uniti, ma i
rapporti andarono a consumarsi. Eliminata la minaccia comune dopo la fine della guerra fredda che
aveva reso necessaria la Nato e l'alleanza Stati Uniti-Giappone, dopo gli attacchi terroristi dell'11
settembre e l'invasione americana in Iraq, le sfide securitarie che avevano unito le principali
democrazie liberali non erano più così allineate. L'espansione dell'economia mondiale trainata
dall'ascesa della Cina significava che il mercato americano non era più l’indispensabile motore della
crescita economica globale. Proprio l'ascesa della Cina aveva alterato il centro di gravità
dell'economia mondiale, puntando anche ad una maggiore capacità militare ed esteso le sue
ambizioni geopolitiche. Queste nuove circostanze complicarono la governance americana dell'ordine
internazionale liberale. ora è la Cina (e non la Germania o il Giappone) l'attore che gli Stati Uniti
dovevano coinvolgere nella gestione dell'economia mondiale. Essi avevano già offerto un patto
egemonico alla Cina attraverso il WTO dove essa si impegnava ad aprirsi ai mercati. nella decade
successiva articolò una “Grand strategy” di ascesa pacifica, integrandosi nel sistema commerciale
finanziario mondiale godette di una rapida crescita economica. Nell'ultima decade questo patto
egemonico liberale ha cominciato a sfaldarsi perché la Cina aveva ottenuto ciò che desiderava:
l'accesso al sistema di scambio mondiale e la realizzazione di una rapida crescita economica, ma non
ha intrapreso le riforme liberali che i governi occidentali si aspettavano in cambio. al contrario, era
diventata sempre più illiberale, nazionalista e assertiva. le sue rivendicazioni marittime espansioniste
e la sua diplomazia economica aggressiva sono stati visti sempre più da Washington come sfide
dirette all' egemonia americana e a partire da Obama, gli Stati Uniti hanno cercato modi di
contrastare questa emergente crescita cinese. Essendo un attore pari agli Stati Uniti essa si colloca
sia dentro sia fuori dall'ordine internazionale liberale post-guerra fredda: è sufficientemente estesa
e integrata nell'economia mondiale da essere indispensabile per il funzionamento stabile dell'ordine,
ma è anche sufficientemente esterna a esso e al mondo liberal democratico da rendere molto difficile
il raggiungimento di accordi sul suo governo. Le altre potenze non avvertivano la necessità di un
bilanciamento perché l'ordine guidato dagli Stati Uniti era costruito su un fondamento di regole,
istituzioni e accordi strategici che limitavano il modo in cui il potere veniva esercitato. Ciò
nonostante, il potere americano divenne sempre più un problema nella politica mondiale. Emersero
nuovi dibattiti sul potere egemonico americano e chi lo avrebbe tenuto a freno. Anche la crisi
economica del 2008, che partì dagli Stati Uniti, generò dubbi sul modello economico americano e il
suo impegno a dirigere il sistema mondiale aperto. Infine, l’entrata in scena dell'amministrazione
Trump ha provocato un'escalation nella crisi politica dei l'ordine liberale. L'era successiva la guerra
fredda aveva messo in gioco nuovi complessi problemi globali: il cambiamento climatico, il
terrorismo, la proliferazione delle armi e le sfide sempre più grandi dell'interdipendenza. ed è stato
particolarmente difficile per gli Stati appartenenti a regioni diverse, con orientamenti politici e livelli
di sviluppo differenti raggiungere il consenso su questi problemi.

3. Embedded liberalism = La crisi dell'ordine liberale è anche una crisi di finalità sociale e dell’embedded
liberalism. Gli Stati che formavano il nucleo dell'ordine liberale occidentale avevano la percezione di
essere parte di una comunità di democrazia liberale, un ordine politico che generava sicurezza e
benessere economico perché si trovava al suo interno. E per la maggior parte delle persone, far parte
di questo ordine significava passarsela meglio di chi ne era escluso. I liberali erano in grado di
riconciliare l'apertura economica e le protezioni sociali all'interno di un sistema organizzato di
cooperazione multilaterale. Durante la guerra fredda le fondamenta economiche di questa comunità
di sicurezza erano organizzate attorno all’ embedded liberalism: l'idea che le principali democrazie
liberali avrebbero cercato di organizzare l'economia mondiale in modo da conciliare l'apertura dei
mercati con le protezioni sociali. il compromesso del liberalismo embedded era finalizzato a
contenere gli effetti dirompenti dell'apertura dei mercati senza eliminare l’efficienza e le ricadute
sociali positive derivanti dal libero commercio. le democrazie liberali lavoravano insieme per creare
regole istituzioni che permettessero agli stati di stabilizzare e gestire i rischi del mercato. la crisi
dell'ordine liberale ha avuto origine in parte dal fallimento di questo compromesso.
l'amministrazione Clinton cercò di convincere i paesi in via di sviluppo a liberalizzare i mercati
finanziari in ciò che divenne noto come il “Washington consensus”, l'espansione della società di
mercato vista dalle élite occidentali come la chiave di volta per la liberazione d'espansione politica e
per il consolidamento dell'economia liberale mondiale. Ma l'espansione dei mercati creò nuove e
nette divisioni tra vincitori e perdenti nelle società occidentali e indebolì sostegni e le protezioni del
liberalismo embedded. Gli obiettivi sociali all'interno dell'ordine liberale sono stati compromessi
dall'aumento delle incertezze e dalla diseguaglianza economica in tutto il mondo industriale
avanzato. Vi era una divergenza di vedute all'interno dell'ordine in merito al posto dei suoi membri
nel mondo e alle loro eredità e rivendicazioni storiche. L'espansione aveva indebolito l'identità
condivisa, storica, geografica e culturale delle società al suo interno.

4. Limiti e resistenza dell'ordine liberale = l'espansione dell'ordine liberare ha rivelato sia i suoi limiti sia
la sua resilienza. i limiti riguardano le relazioni sempre più tese dell'ordine con la Cina e con la Russia.
la perdita dell'impero da parte della Russia e gli sconfinamenti occidentali nelle sue sfere d'influenza
tradizionali hanno alimentato rancori e rivalità. La Cina divenne profondamente integrata nel sistema
globale, ma sotto la guida del presidente Xi ha dimostrato che la sua apertura aveva dei limiti. Oggi
la Cina sta attivamente perseguendo i propri interessi all'interno della maggior parte delle principali
istituzioni globali tentando al tempo stesso di portare il mondo verso un ordine post-occidentale
meno legato a valori economici e politici liberali. la Cina ora sta usando la ricchezza e il potere che ha
rapidamente acquisito per mettere in discussione questo ordine e riorientarlo. Il fallimento del patto
egemonico offertole da una serie di presidenti americani dimostra che la Cina è diventata troppo
grande per essere integrata in un ordine liberale di conduzione statunitense, inoltre, gli
internazionalisti liberali diedero per scontato che man mano che la Cina liberalizzava la sua economia
e si integrava nell'economia mondiale, le crescenti pressioni interne l'avrebbero costretta a
liberalizzare le sue istituzioni politiche, ma questo non avvenne; la Cina era abbastanza grande da
resistere alle pressioni internazionali. la globalizzazione ha così frammentato l'ordine liberale.
L'espansione dell'ordine liberale ha anche illuminato le fonti della sua resistenza: innanzitutto ha
delle tendenze integrative per cui stati di varie dimensioni e tipo hanno trovato posto al suo interno
unendosi all'ordine come Stato-Vassallo o alleati di prima linea durante la guerra fredda. dopo la
guerra fredda molti ex stati-Vassallo sovietici e alcune delle ex repubbliche sovietiche si unirono
all'Unione Europea e alla Nato. una seconda fonte di resistenza sono le relazioni di autorità
gerarchiche dell'ordine liberale. gli ordini gerarchici possono differire nel grado in cui sono dominati
da un singolo stato. uno stato principale può organizzare e dominare ergendosi al di sopra degli altri
stati oppure l'ordine può consistere in una coalizione di stati potenti che esercitano la leadership
cooperativamente. in quest'ultimo caso l'ordine si organizza attorno a una schiera di grandi potenze,
e soci minoritari, stati clientelari e altri portatori di interessi. in ambito economico, l’autorità e il
processo decisionale sono condivisi. si tratta di istituzioni gerarchiche gestiti da coalizioni di Stato di
primo piano. Una terza fonte di resistenza è il modo in cui i profitti economici sono distribuiti in tutto
l'ordine internazionale: negli ordini imperiali tradizionali profitti e benefici fluivano in massima parte
verso il centro dell'impero; negli imperi coloniali e informali fluivano in maniera sproporzionata verso
gli Stati, le classi e i gruppi sociali più ricche e potenti; l'ordine liberale a conduzione americana
distribuiva profitti economici in modo più diffuso. il commercio, gli investimenti all'interno del
sistema hanno consentito stati vicini e lontani di accrescere e progredire spesso più velocemente
degli Stati Uniti e dei loro partner occidentali. un quarto aspetto dell'ordine internazionale è il grado
in cui esso accoglie modelli diversi di capitalismo e sviluppo economico. ci sono state tre tipologie e
generali di modelli capitalisti: il modello neoliberale anglo americano (o fondamentalismo di
mercato) che ha dominato i dibattiti economici nelle capitali occidentali dalla fine della guerra alla
crisi finanziaria globale del 2008; Un modello postbellico antecedente di embedded liberalism che ha
influenzato il welfare state e l'apertura “controllata”; e il modello statista che è stato perseguito in
Asia orientale e nel mondo in via di sviluppo. Questi modelli hanno convissuto con fortune alterne
nel corso dei decenni. Ciò che rende resiliente l'ordine internazionale liberale sono le basi di sostegno
e interesse a esso legati. i suoi caratteri relativamente aperti hanno condotto all'espansione regolare
degli azionisti, ma anche alla frammentazione. molte delle istituzioni e dei regimi che costituiscono
l'ordine internazionale liberale non sono unicamente liberali, essi sono westfaliani in quanto sono
progettate per risolvere i problemi di Stato sovrani, siano essi democratici o autoritari. Molti dei loro
partecipanti essenziali non sono né liberali né democratici. la maggior parte delle istituzioni
nell'ordine liberale non esige che i suoi sostenitori siano democrazie liberali, ma che siano
semplicemente in grado di mantenere i propri impegni in quanto stati. Infine, la resistenza di un
sistema di ordine aperto basato su regole e organizzato poggia sui profondi imperativi politici che
derivano dalla crescita dell’interdipendenza economica e securitaria. Le idee e i progetti
internazionalisti liberali sono rimasti in vita e si sono evoluti negli ultimi due secoli perché le
democrazie liberali e altri stati hanno lottato per far fronte alle complesse sfide dell'interdipendenza.
Finché l'interdipendenza (economica, securitaria e ambientale) continua a crescere i popoli e governi
di tutto il mondo saranno obbligati a lavorare insieme per risolvere i problemi. Le alternative ad un
ordine internazionale liberale funzionante non sono molto attraenti; perfino la Cina, il più potente e
stato illiberale del mondo, non ha una grande visione di ordine alternativo da offrire. L'alternativa
dell'ordine internazionale liberale è semplicemente un mondo interdipendente più caotico e
pericoloso. Questa è la più importante sorgente di resilienza dell'ordine internazionale liberale: più
persone hanno qualcosa da perdere nella sua dissoluzione di quanti abbiano qualcosa da
guadagnarvi. Anche se l'ordine liberale nel dopoguerra ha consumato le proprie fondamenta, abolito
i propri confini e compromesso i propri scopi sociali, la sua logica profonda di cooperazione aperta e
fondata su regole rimane intatta. Nei momenti di crisi le democrazie liberali cercheranno modi per
riaffermare e rafforzare le fondamenta politiche della democrazia capitalista liberale.
CAPITOLO 9

L’internazionalismo liberale ha attraversato due secoli di crisi ed epoche auree per arrivare al travagliato
momento presente e le sue idee e progetti hanno assunto diverse forme. Non è mai stato un affare concluso,
ma sempre un lavoro in corso che ha dovuto fronteggiare le sfide causate dalla modernità, creando istituzioni
e relazioni per affrontare la serie di problemi e opportunità che gli si sono parate davanti. Si tratta di
un’imponente tradizione nello studio delle relazioni internazionali, costruita attorno ad un insieme di idee,
teorie e progetti che sono stati dibattuti per generazioni. È importante affrontare la logica e il carattere
dell’internazionalismo liberale come un progetto politico in atto che presenta cinque caratteristiche
fondamentali:
1. È inteso come l’insieme di idee e progetti attraverso le quali le democrazie liberali hanno fatto fronte
alle opportunità e ai pericoli della modernità, la quale ha due volti. Il primo è quello dell’avanzamento
umano rappresentato da cambiamento tecnologico, crescita economica, aumento del tenore di vita,
interessi e destini comuni. Il secondo è quello costituito dalla depressione economica, dalla guerra,
dal totalitarismo, dai contraccolpi reazionari e Dallas scoperta improvvisa di punti deboli
2. Il passaggio da un mondo di imperi a uno di stati-nazione all’interno del quale emerse
l’internazionalismo liberale. Nel XX secolo l’impero costituiva la logica organizzatrice dell’ordine
globale e rimase molto presente anche per buona parte del XI secolo. Durante l’era di Wilson era
spesso difficile distinguere l’internazionalismo imperiale dall’internazionalismo liberale ma alla fine
l’internazionalismo liberale arrivò a legarsi all’autodeterminazione e alla sovranità westfaliana
3. L’internazionalismo liberale nel XIX secolo era un insieme di internazionalismi diversi come il libero
scambio, il movimento pacifista, il diritto internazionale, il movimento di arbitrato. Il contributo di
Wilson fu quello di riunire questi vari filoni, che anche dopo hanno continuato a combinarsi,
sfrangiarsi e ricombinarsi, in un progetto relativamente coerente. La crisi odierna del movimento
consiste in parte nella disgregazione della vecchia coalizione postbellica
4. L’internazionalismo liberale si è sempre affiliato e affidato ad altre forze per conseguire risultati
politica e si è profondammo ere intrecciato con ideologie come il nazionalismo, il capitalismo,
l’imperialismo, la politica di grande potenza e l’egemonia americana e britannica. Si è trovato in vari
modi sia in allineamento sia in tensione con esse. Alcuni internazionalisti rigettarono l’idea del
nazionalismo come una fonte di illiberalismo e di guerra, ma lo stato-nazione è rimasto il centro
dell’internazionalismo liberale. Questa affiliazioni hanno ternato una serie di dilemmi,
contraddizioni, compromessi e ipocrisie
5. L’internazionalismo liberale è stato profondamente legato alle agende sociali ed economiche della
democrazia liberale. Le idee e i principi di esso divennero meno intrecciati alla razza e all’impero ma
più invischiati nell’egemonia America e nella GF. Gli stati interni all’ordine beneficiavano degli intensi
legami della cooperazione economica e securitaria, ma nelle decadi successive alla GF, quell’ordine
si è globalizzato e frammentato con la sua odierna ridotta capacità di garantire sicurezza e comunità

Dove piantare la bandiera dell’ordine liberale?


Per difendere l’internazionalismo liberale ci basta guardare ai dibattiti che gli internazionalisti hanno portato
avanti. Una componente fondamentale di questo movimento è stato il libero commercio che genera
efficienza e miglioramenti nel tenore di vita per gli stati coinvolti facilitandone crescita e progresso, ma
nonostante questo il commercio è una minaccia per lavoratori e comunità. Il modello di commercio
internazionale al centro del liberalismo economico trascura tutti gli aspetti extraeconomici come effetti
collaterali sociali e culturali del commercio o l’incuria dei beni pubblici e la disuguaglianza -> barriere del
privilegio. L’apertura economica, dunque, può durare all’interno di una democrazia liberale solo se sono
presenti norme liberali di multilateralismo, reciprocità e non discriminazione allo scopo di bilanciare
l’apertura e la stabilità sociale.
Ci sono casi in cui gli stati liberali si sono imposti su quelli più deboli violando anche i loro diritti. È bene fare
una distinzione tra due tipi di internazionalismo:
• Difensivo: ancorato alle norme di autodeterminazione e al diritto degli Stati di mantenere le proprie
istituzioni e dottrine (Cina, India, Brasile)
• Offensivo: comporta il riordinamento di altre società
Responsability to protect -> licenza accordata alle grandi potenze per intervenire negli stati più deboli quando
necessario. Scopo = stimolare il consenso internazionale sulle circostanze in cui gli agenti della comunità
internazionale sono moralmente obbligati a prevenire o fermare la commissione di atrocità.

L’ordine internazionale liberale del dopoguerra fu costruito intorno a raggruppamenti esclusivi di stati (NATO
e Unione Europea) e organizzazioni multilaterali più ampie (Nazioni Unite). Con la guerra fredda USA e i suoi
partner diedero vita ad un raggruppamento politico simile ad un club, un tipo di organizzazione del sistema
che si scontra con l’idea dei sistemi di ordine aperti.
Club di democrazie liberali -> comuni obbiettivi sociali
Sistemi di ordine aperti -> universalismo implicato dai principi westfaliani di sovranità, la forza sta
nell’inclusività
Per avere un Concerto pacifico e stabile è necessaria una partnership di governi democratici: le democrazie
liberali hanno interessi e valori specifici che gli stati illiberali non hanno.

Le relazioni con il mondo illiberale:


Il rapporto con le grandi potenze illiberali è uno dei problemi più grandi dell'ordine internazionale liberale.
Infatti, l'ordine internazionale liberale, aperto, basato su regole e sostenuto da democrazie Liberali,
rappresenta una minaccia per gli Stati illiberali.
Qual è la migliore strategia da utilizzare? Un'opzione potrebbe essere quella di cercare un compromesso con
questi stati illiberali, rendendo l'ordine internazionale meno revisionista. Bisognerebbe quindi attuare una
riduzione degli sforzi per spingere questi stati verso il modello liberal-democratico. Questa strategia richiede
che si renda l'ordine internazionale più accogliente verso Cina e Russia, facendo un passo indietro rispetto
alla visione liberale e ponendo enfasi sulla coesistenza, sulla tolleranza e sul pluralismo ideologico.
Un'altra opzione è affrontare gli stati illiberali in modo più aggressivo, in quanto Cina e Russia rappresentano
una minaccia all'ordine internazionale liberale e, se non si è in grado di contenere le ambizioni di questi stati,
l'ordine liberale stesso è in pericolo. Questa visione si basa su una tesi essenziale che riguarda la Cina: essa
spera di perfezionare un modello autoritario di società industriale che possa arrivare a sorpassare la capacità
di crescita della democrazia liberale.
Infine, gli internazionalisti liberali potrebbero scegliere una strategia mista e cercare opportunità di
cooperazione con Cina e Russia, concentrandosi su problemi funzionali comuni come il controllo delle armi,
l’ambiente, i beni comuni globali e cercando di consolidare la cooperazione all'interno del mondo liberale
democratico.

Egemonia e limitazioni del potere:


Nel secolo scorso il progetto internazionale liberale si è profondamente intrecciato con l'esercizio del potere
americano. Infatti fu il presidente Wilson che, alla conferenza di Parigi, imbracciò idee internazionaliste
liberali. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti costruirono un ordine egemonico liberale
organizzato attorno a relazioni aperte e basato su regole, che amplificarono e legittimarono il potere
americano e al tempo stesso gli diedero forme e limiti. Queste limitazioni non erano certamente una gabbia
di ferro e gli Stati Uniti si riservavano il diritto di agire unilateralmente in qualsiasi momento. Tuttavia, in
particolare dopo il 1945, è difficile vedere in che modo l'internazionalismo liberale avrebbe potuto cavarsela
se gli Stati Uniti non si fossero legati intimamente ad altre democrazie liberali occidentali per organizzare
l'ordine internazionale post-bellico. La presenza di queste nuove istituzioni liberali permise a questi stati di
smorzare le due forze che tipicamente dominano l'ordine globale: anarchia e impero. Questa strategia
multilaterale rese il potere americano più legittimo e duraturo. Ma gli Stati Uniti hanno anche dimostrato
ripetutamente di poter essere una minaccia per internazionalismo liberale, come è accaduto sotto
l'amministrazione Trump, quando si è cercato attivamente di sabotare i caratteri liberali dell'ordine globale
esistente. La sfida per gli internazionalisti liberale è quindi quella di cercare di recuperare i punti di contatto
tra l'egemonia è l'ordine liberale.

La strada davanti a noi:


Le democrazie liberali richiedono un ambiente internazionale protettivo, un ordine internazionale stabile e
operativo per prosperare. Ma se l’internazionalismo liberale vuole rimanere rilevante nel XXI secolo, dovrà
fare ritorno alle sue radici. Infatti, alla sua nascita l'internazionalismo liberale era una coalizione che fondava
sul libero scambio, sulla democrazia sociale, sul multilateralismo e sulla leadership egemonica. ma, degli anni
90, proprio mentre il liberalismo economico e politico si espandevano nel mondo, questa coalizione di valori
si infranse. L'internazionalismo liberale divenne in larga parte un progetto neoliberale finalizzato a espandere
e a integrare il capitalismo mercato. La sfida per il XXI secolo è quella di ricostruire quella coalizione di valori
cercando di promuovere la sicurezza e il benessere della maggior parte della società liberaldemocratica. Nel
corso del libro è stato tracciato un contrasto tra Wilson e Roosevelt, come approcci alternativi all’
internazionalismo liberale. Il merito di Wilson fu quello di aver riunito e sintetizzato filoni divergenti di
pensiero internazionalista in un’unica grande struttura. Il contributo di Roosevelt fu aver adattato
pragmaticamente e funzionalmente la sintesi di Wilson. Guardando al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno è
sia un approccio di tipo wilsoniano, sia un approccio di sperimentazione pragmatica e innovazione di tipo
rooseveltiano. Tutto sempre con l’obiettivo di mettere al sicuro le democrazie liberali.
“TITANIC” – Vittorio Emanuele Parsi

Capitolo 1: Titanic, ovvero l’ordine inaffondabile

1) Le origini e i fondamenti dell’ordine internazionale liberale:

L’ordine internazionale liberale (Liberal World Order) è l’insieme di principi e istituzioni attraverso i quali il
sistema internazionale è stato governato a partire dal secondo dopoguerra. Esso ha garantito lo sviluppo
economico e la sicurezza politica di gran parte del mondo durante la Guerra Fredda. La sua ideazione risale
alla 2ww, quando Roosevelt e Churchill iniziarono a delineare i tratti dell’ordine internazionale.
Le preoccupazioni cui il progetto del nuovo ordine mondiale voleva rispondere erano due:
1) Da un lato si intendeva ricostruire una struttura internazionale a vocazione universale e generalista
che prendesse il posto della Società delle Nazioni→ l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Essa
avrebbe dovuto accogliere tutti gli stati che ne avessero condiviso i principi: limitazione dell’uso della
forza per esclusive ragioni di autodifesa, concorso di tutti verso l’obiettivo della sicurezza collettiva,
l’uguaglianza tra tutti gli stati e il rispetto della sovranità contemplato dal diritto di
autodeterminazione dei popoli. Essa prevedeva allo stesso tempo che al governo dell’organizzazione
fossero collocate le potenze vincitrici della guerra: USA, URSS, Cina, UK con l’integrazione della
Francia in virtù degli estesi possedimenti coloniali. Al momento della sua costituzione si sperava
ancora che le relazioni con URSS si sarebbero potute stabilizzare sul livello della cooperazione
sperimentata durante il conflitto e si riteneva che nella Cina postbellica avrebbero prevalso le forze
nazionalistiche di Chiang Kai-Shek. Il tessuto giuridico delle Nazioni Unite era di fabbricazione
americana e la convivenza tra il principio di uguaglianza e quello di realtà consentì all’ONU di non
fare la fine delle Nazioni Unite, nonostante il divampo della guerra fredda. Bisogna anche notare che
durante il bipolarismo della guerra fredda, il ruolo delle Nazioni Unite fu cruciale per offrire un luogo
e un codice di comunicazione istituzionalizzati e permanenti che facilitò la convivenza pacifica tra i
nemici della nuova era nucleare. Fu solo con la fine della guerra fredda e il collasso dell’URSS che i
fini statuari dell’Organizzazione delle Nazioni Unite apparvero essere per la prima volta realizzabili→
nella breve stagione del momento “unipolare” del sistema internazionale, quando USA si ritrova
priva di potenze intenzionate a sfidare la loro leadership globale, l’obiettivo di un nuovo ordine
mondiale, coerente con la carta delle Nazioni Unite, apparve perseguibile. Non essere riusciti a
perseguirlo rappresentò il più cospicuo spreco di opportunità che sia mai stato contemplato dalla
storia contemporanea.
2) La seconda preoccupazione di quegli anni era che, finita la guerra, venisse evitato il riproporsi del
medesimo schema che negli anni 30 aveva portato alla formazione di blocchi economici chiusi e al
protezionismo commerciale. Ci furono diverse misure destinate a scongiurare questo pericolo, che a
causa della divisione est-ovest, vennero però limitate ai paesi del “mondo libero”, quindi a tutto il
mondo non comunista. Alcune di queste misure sono: gli accordi di Bretton Woods del 44 per un
sistema di cambi fissi tra le principali valute del mondo, l’istituzione del fondo monetario
internazionale, la banca mondiale (per stabilità negli scambi) e la stipulazione dell’Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio.

Co-interessati all’ordine internazionale liberale finirono con l’essere una serie crescente di regimi politici che
tutto potevano dirsi fuorché liberali→ erano però tutti accumunati dal consentire l’accesso internazionale al
proprio mercato e alle proprie risorse.
L’ideale liberale cosmopolita di rendere sempre meno rilevante la valenza partitoria dei confini statali era in
realtà fin dall’inizio piegato da un compromesso di natura realista→ in questo compromesso veniva
sacrificato il sostegno alla democratizzazione, mentre l’apertura alla penetrazione economica di tutti i
possibili spazi politici (anche di regimi autoritari purché non comunisti) rappresentava il vero punto
irrinunciabile della proposta liberale.
Preso atto di un’impossibile convivenza pacifica tra occidente e URSS, gli obiettivi della Carta Atlantica
(Churchill e Roosevelt) vennero recepiti nel Trattato dell’Atlantico del Nord, che istituiva l’Alleanza
Atlantica→ principale garanzia di sicurezza per i paesi EU.
Proprio per la preoccupazione americana che un’EU economicamente e politicamente frammentata e divisa
non avesse alcuna possibilità di resistere alla pressione esterna sovietica, nacque la spinta di Washinton a
favore di qualunque tentativo di unificazione europea, alla quale gli stessi europei seppero dare autonoma e
crescente risposta: CECA, MEC, Cee, Eu-RATOM e infine la stessa UE.
Durante la guerra fredda l’ordine internazionale liberale è convissuto con il bipolarismo sovietico-USA e ha
strutturato: rapporto euro-americano e rapporto con tutta la parte del mondo che condivideva l’interesse di
non veder salire il comunismo.
Durante la seconda metà del XX secolo era necessario non mettere nuovamente a repentaglio la libertà degli
individui, come era invece accaduto con il successo delle ideologie autoritarie; e allo stesso tempo non si
intendeva consentire che il perseguimento dell’obiettivo della crescita economica, mettesse in discussione
le libertà fondamentali e i diritti degli esseri umani.
Per superare la crisi americana, Roosevelt tornò allo spirito egalitario inscritto nelle origini della Repubblica
e lo attualizzò rispetto alle nuove sfide→ decise di riformare pesantemente il sistema economico degli USA
per consentirne la ripresa→ l’economia ricominciò a crescere proprio come prima della Grande Depressione.
Gli artefici dell’ordine internazionale liberale prospettavano un sistema economico finanziario aperto,
fondato sulla libera circolazione di beni e servizi→ erano ben consci che a un mercato mondiale dovesse
corrispondere una struttura di governance solida. È stato l’ordine internazionale a consentire la protezione
sociale che avrebbe garantito una crescita ordinata e lo sviluppo del “liberalismo vincolato”, che creava delle
free-market societies e non semplicemente liberi mercati: ovvero assetti sociali e istituzionali che
perseguivano il welfare state, attraverso politiche del lavoro in grado di valorizzare le persone→ esso faceva
sì che venisse preservato un equilibrio di lungo periodo tra le esigenze della competizione economica e quelle
dell’ordine sociale.
Il risultato era la realizzazione di un capitalismo che inverasse la profezia di una “distruzione creatrice”.
Non c’era alcuna pretesa che l’ordine che si stava creando fosse inaffondabile, si era consci che esso
necessitasse di una continua manutenzione.

2) Il crollo del Muro: l’espansione e il tradimento dell’ordine internazionale liberale:

Il rafforzamento del mercato e il suo ampliamento sono fatti positivi, perché consentono maggior benessere
al maggior numero di individui. La tutela del mercato non costituisce un bene finale, perché le procedure con
cui si organizza la produzione e la distribuzione delle merci e dei servizi non rappresenta un valore in sé. La
democrazia, invece, non si giudica dagli esiti, perché incarna un valore: l’uguaglianza tutelatala dalla legge.
Quando nel 1989, dopo il crollo del Muro, la possibilità di realizzare un mercato davvero globale si fece realtà,
le cose erano cambiate rispetto agli anni 40→ i fautori del mercato globale erano ora quelli che nel decennio
precedente avevano spinto a favore della deregulation e della ritirata dello Stato dal sistema economico.
Proprio mentre un poderoso mercato globale veniva a esistere, si consentì che i legittimi vantaggi ottenuti
da alcuni nel campo dell’azione economica si trasformassero in privilegi nell’area politica→ si trattò di un
tradimento: il mercato venne trattato come una istituzione naturale, analoga alla famiglia. Esso non si trattò
di un complotto orchestrato, ma di un esito delle diverse esperienze che avevano plasmato le concezioni e
strategie dei fautori del New Deal e della Global economy:
- I primi, con la loro visione economica keynesiana, li abbiamo già affrontati (Roosevelt);
- I secondi, che vengono definiti “friedmaniani”, si erano confrontati sulla progressiva ossificazione
delle economie sviluppate, e su una burocrazia asfissiante che doveva essere “liberata” dagli eccessi
di una cattiva e ipertrofica regolamentazione.

La dimensione del nazionalismo e la messa in discussione dei valori liberal, che avevano caratterizzato il
decennio precedente, era parte integrante di quella “rivoluzione conservatrice” che avrebbe portato alla
fusione del neoliberalismo economico con il neo-conservatorismo politico e culturale→ patto cruciale per il
consenso dei ceti medi e medio bassi a politiche economiche che avrebbero favorito le classi superiori.
Le conseguenze sono state quelle di ridefinire i rapporti di forza e di potere tra i detentori e gli intermediari
di grandi mezzi finanziari. L’esito finale è stato quello di impossessarsi dello Stato→ trasformarlo in un agente
dell’affermazione dell’egemonia culturale neoliberale, oltre che l’autore di leggi che consolidano i nuovi
rapporti di potere. La presenza dello Stato nell’economia negli ultimi decenni non si è ridotta, ma “ha
spostato l’asse del proprio intervento a favore delle imprese del capitale”.

Thatcher e Reagan erano ferventi nazionalisti→ Thatcher non esitò a muovere guerra all’Argentina pur di
riaffermare la sovranità della Corona sulle sperdute isole Falkland/Malvinas, e Reagan rimise il careggiata il
patriottismo e l’orgoglio americano dopo la disastrosa guerra in Vietnam. Le loro politiche economiche non
favorirono né i membri della “maggioranza morale”, né quelli del nuovo “capitalismo popolare”→ la loro
conseguenza fu una concentrazione della ricchezza, dei redditi e dei diritti (in forma di privilegi) come mai
non si vede più dagli anni 30 negli USA e dagli anni 40 in UK. La sostanziale differenza fra i fautori del mercato
degli anni 40 e degli anni 80, è che i primi erano dei progressisti, volevano la diffusione del mercato e della
libera concorrenza come uno strumento per consentire anche a “coloro che avevano avuto sempre troppo
poco” di avere abbastanza; i secondi invece erano conservatori, interessati innanzitutto a ripristinare le
condizioni favorevoli all’accumulazione del capitale. Tutto ciò implicava due progetti politici opposti: il primo
di ampliamento sostanziale e sistematico della democrazia liberale, il secondo di una sostanziale chiusura
oligarchica.
La ricetta della deregulation applicata alla sfera domestica di UK e USA (con modalità diverse ma con la stessa
perentorietà) era apparsa essere un successo e aveva forgiato la convinzione che la formula “meno Stato”
fosse la via giusta per il rilancio di economie mai del tutto ripresesi dalle conseguenze della crisi iniziata negli
anni 70 e approfonditasi con lo “shock petrolifero” del 73.
La sutura tra la dimensione nazionale e quella internazionale di queste politiche avvenne sotto la pressione
degli eventi che portò il crollo dell’URSS, mentre l’occidente ere alle prese con la propria crisi interna, che lo
stava spingendo all’abbandono di quel sentiero socialdemocratico. Gli USA, nel frattempo, iniziavano a
smarrire la consapevolezza della necessità di autoeliminare la propria ambizione, investendo i “dividendi”
nella vittoria in un’egemonia che fosse anche “condivisa” da parte dei propri partner e alleati che attuavano,
invece, un comportamento sempre più apertamente egemonico.

Con la fine della guerra fredda le istituzioni economiche, le regole e i principi dell’ordine liberale occidentale
vennero di fatto estesi all’intero sistema internazionale, costruendo quel mercato globale che va sotto il
nome di “globalizzazione”. Sul versante politico e strategico, nel frattempo, la NATO e la UE contribuivano a
mettere in sicurezza dal punto di vista istituzionale, militare ed economico l’enorme estensione territoriale
dell’ex impero esterno sovietico, accompagnandolo nella transizione verso forme di democrazia politica ed
economica di mercato. È proprio l’insieme di queste istituzioni e prassi che ha garantito la leadership
americana sul sistema internazionale in questi decenni.

Ciò che accadde fu che la possibilità di dar vita compiuta a un sistema economico aperto, di dimensione
globale, venne realizzata mentre l’orientamento politico ed economico era condizionato dalla polemica
contro il big government→ la costruzione di un mercato globale avvenne mentre si procedeva al progressivo
smantellamento del sistema di regole che avrebbero potuto efficacemente organizzarlo.
Questa sostituzione fece sì che proprio negli anni del trionfo del modello socioeconomico occidentale si
accelerasse quella trasformazione che avrebbe reso le nostre società sempre più ineguali, che le avrebbe
sfiancate, impoverendo quel ceto medio allagato, che ne costituisce l’insostituibile spina dorsale.
La promessa di una società più ricca di opportunità per tutti sarebbe stata tradita a vantaggio di pochi, che
molto rapidamente avrebbero tradotto il loro surplus di ricchezza in un’egemonia culturale e politica.

Trilemma di Rodrik: o anche chiamato il trilemma impossibile, indica che è impossibile raggiungere
contemporaneamente l'iperglobalizzazione economica, la democrazia politica e la sovranità nazionale. Le tre
opzioni simultanee sono incompatibili quindi saremo costretti a sceglierne solo due.
Capitolo 2: Le promesse mancate che hanno dirottato l’ordine internazionale liberale

Questo assetto che si era creato è stato scosso una prima volta dagli attentati del 9/11 e messo duramente
a prova dai conflitti in Afghanistan (2001-) e in Iraq (2003-).
Inoltre, anche la crisi finanziaria del 2007-2008 ha causato una grave incrinatura, specialmente in Europa che
ha stentato a riprendersi→ questa crisi ha messo in evidenza la non equità del processo di globalizzazione.

→Era stato promesso un mondo più sicuro per tutti, governato da principi di equità e di giustizia ai quali
l’ordine liberale si era sempre rifatto, e nel quale i “dividendi” della pace sarebbero stati goduti innanzitutto
dai più bisognosi→ 3 promesse mancate:

1) “Un mondo più sicuro”: né vulnerabili né invincibili. L’11 settembre, la guerra afgana e l’insufficienza
dello strumento militare:

Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein invase l’emirato del Kuwait→ per riuscire a scacciarlo da lì e per gettare
le fondamenta di un “nuovo ordine mondiale”, gli USA di Bush, con l’assenso dell’URSS e Cina, creavano la
più grande coalizione militare che la storia avesse mai visto: essa restaurò la sovranità kuwaitiana nel gennaio
del 1991. Il successo straordinario di quel conflitto e l’universale consenso che lo sostenne segnarono
probabilmente il momento più alto dell’egemonia politica e militare degli USA→ sembrò veramente che un
nuovo mondo fosse possibile e che l’occidente fosse rimasto senza più nemici. L’America e l’Occidente si
credettero davvero invincibili.
Dall’invasione del Kuwait è trascorsa un’era geologica, geopoliticamente parlando: allora URSS esisteva
ancora, Deng Xiaoping era l’eminenza grigia del potere cinese…
Da questo momento in poi (dal 1990), il coinvolgimento dei paesi occidentali in qualche guerra o “missione
di pace” ha rappresentato la regola e non l’eccezione.
Quella che era apparsa come una tragica eccezione con gli interventi in Iraq, Somalia, Bosnia, Kosovo e Timor
Est si confermò ancor più essere una drammatica costante con l’11 settembre e le sue conseguenze.
La guerra era tornata nelle prospettive ordinarie della vita dei cittadini occidentali.
L’odio mobilitato e indirizzato, anche se ovviamente non giustificato, contro l’occidente aveva e ha ragioni
politiche.
Le religioni, una per l’altra, hanno alimentato odio, fanatismo e violenza per secoli e per millenni.
È un dato di fatto che alcune religioni siano oggi più problematiche di altre→ l’islam costituisce un problema
oggettivo, legato anche al minor grado di sviluppo sociale e politico di molti dei paesi in cui l’Islam è la
religione dominante.
Ma cosa ha fatto l’Occidente per provare ad agire su quei fattori di sottosviluppo politico, innanzitutto, che
alimentano l’islamismo radicale? Niente, lo si è visto durante le primavere arabe→ quando la reazione dei
governi e delle opinioni pubbliche occidentali è stata di sgomento di fronte alla possibilità, che i dittatori
contro quali esse si scagliavano, potessero cadere.
L’intervento in Afghanistan, pienamente legittimo e legale, per la sua inconcludenza nonostante gli enormi
sforzi profusi in termini di tempo, mezzi, denaro, uomini, donne, e vite sacrificate, attestò un fatto nuovo:
oltre a non essere invulnerabile l’Occidente non è nemmeno invincibile.

2) “Un mondo più giusto”: l’invasione dell’Iraq e le conseguenze della menzogna impunita di George W.
Bush e Tony Blair:

C’è solo una cosa che ha avuto effetti più devastanti dell’invasione dell’Iraq nel 2003 sulla credibilità
dell’ordine internazionale liberale e dell’Occidente più in generale: l’impunità di cui hanno goduto i suoi due
principali artefici→ presidente degli USA, George W. Bush, e il premier UK, Tony Blair (per molti anni
rappresentante europeo all’interno del “quartetto” incaricato del processo di pace arabo-israeliano→ciò ha
fatto innervosire solo di più gli arabi). L’amministrazione di Bush decise di dare via alla guerra contro il regime
di Saddam Hussein→ l’ossessione americana era il frutto di un mix di fattori politici, ideologici, economici e
personali.
Dopo il 9/11 c’è il progetto di trasformare il Medio Oriente, in particolare il Levante, in un’area sotto il saldo
controllo americano.
Nel Medio Oriente, per lungo tempo, gli USA non avevano avuto basi militari→ si erano concentrati su
un’azione di classico balancing by overseas: intervenire dal mare ogni volta che gli interessi americani
nell’area fossero minacciati. L’unico vero e proprio alleato degli USA nella regione era Israele. Le cose
cambiano dopo la guerra del 1990-91 per la liberazione del Kuwait→ forze americane erano presenti nel
Bahrein, Qatar e in Arabia Saudita→ si era passato a un coinvolgimento diretto nella politica mediorientale
(che diventa maggiore dopo l’invasione in Afghanistan del 2001 e quella dell’Iraq del 2003).

Nella pianificazione sotto l’amministrazione di Bush, la nascita del “nuovo Iraq” doveva costruire la
piattaforma per il consolidamento dell’egemonia americana in Medio Oriente→ questa lettura del quadro
strategico era influenzata da considerazioni di carattere ideologico: convinzione che la democrazia potesse
essere esportata militarmente a un costo oltretutto contenuto. Uno dei paradossi di tutta quella campagna
fu costruita dal fatto che l’intera operazione fu condotta al risparmio: il minimo delle truppe, per il minor
tempo possibile, al minimo costo. Tutto ciò era incongruente con l’ambizione degli obiettivi che si
proponeva→ disegnare il nuovo Medio Oriente democratico. Il risultato è che il “nuovo Iraq” non solo ha
rischiato fino al 2017 di essere spazzato via dallo stato islamico, ma oggi è entrato nell’orbita iraniana e nel
suo esercito.

L’idea che la democrazia potesse attecchire in un paese dopo che questo è stato debellato militarmente e a
seguito di un’occupazione da parte della potenza vincitrice non è di per sé irragionevole o irrazionale→ nel
testo La terza ondata di Huntington, egli colloca proprio la sconfitta militare come una delle possibili cause
di innesco della transizione alla democrazia di regimi autoritari o totalitari. Accadde così in Italia, Germania
e Giappone dopo 2ww→ in questi casi però dopo la caduta del regime non era presente un’ideologia di
“riserva” che avrebbe potuto sostituire quella del regime, e capace di proporsi come messaggio credibile per
alimentare forme di resistenza all’occupazione. In Iraq, infatti, la propaganda islamista attecchì così
facilmente che il paese divenne il campo battaglia scelto dalle formazioni islamiste di mezzo per combattere
gli americani. Sempre da un punto di vista ideologico, si credeva di poter fare dell’Iraq la seconda democrazia
della regione, dopo Israele.

Riguardo ai motivi economici→ entrano in gioco l’esportazione del petrolio e le spese della guerra e
dell’occupazione→ nel 2011 i primi grandi contratti per le concessioni dei vasti nuovi giacimenti scoperti nel
paese andarono a malesi, inglesi, cinesi, italiani… e agli americani non rimase nulla, e la situazione dal punto
di vista economico andrà a peggiorare se il legame tra Iran e Iraq continua a consolidarsi. Riguardo ai motivi
personali che influenzarono Bush a farla finita con Saddam Hussein, essi riguardano la volontà di punire il rais
per il tentativo di eliminazione del padre.
L’America ebbe poca fortuna nel convincere gli altri “grandi” detentori del potere del diritto di veto in
consiglio di sicurezza sulla fondatezza delle sue ragioni→ l’Europa, infatti, era spaccata in due al riguardo:
Francia e Germania erano contro, mentre UK, Italia, Spagna e Polonia avevano un atteggiamento più
favorevole al riguardo→ l’Unione Europea, quindi, non riuscì a elaborare una posizione comune, mancando
ancora una volta l’occasione per far crescere una soggettività in politica internazionale di fronte a un evento
così gravido di conseguenze come la guerra in Iraq.

Il sostegno di Tony Blair alla guerra, e il suo tentativo di recuperare il maggior numero di alleati, si scoprì
essere tutto dietro una menzogna→ egli era già in possesso di informazioni riservate all’intelligence inglese
che escludevano la possibilità che Saddam Hussein occultasse un arsenale chimico batteriologico e men che
meno uno nucleare. Egli non solo scelse di omettere agli USA quest’informazione, che li avrebbe potuti
aiutare fin dall’inizio della campagna, ma non lo menzionò nemmeno nelle comunicazioni con leader alleati
e con l’opinione pubblica UK e internazionale→ egli mentì deliberatamente ai suoi cittadini e al mondo, e
questa menzogna fu decisiva nello spostare le decisioni degli alleati a favore della guerra. →Costituì un vero
e proprio tradimento dei principi e delle promesse dell’ordine internazionale liberale, che ne scosse alle
fondamenta la credibilità→ dietro le nobili parole, che rivestivano il concetto di un nuovo ordine mondiale,
non ci celava altro che la solita e vecchia arroganza imperiale.
3) “Un mondo più ricco per tutti”: la crisi finanziaria e la sostituzione della libertà e dell’uguaglianza con
l’arroganza e il privilegio:

Nell’ambito economico-sociale l’ordine internazionale ha patito il suo attacco più devastante, perché non
solo ha colpito il sistema, ma è partito dal suo stesso centro. Con la fine della guerra fredda la promessa dei
dividendi della pace si è trasformata in una beffa, una volta sconfitto il nemico, e integrata una nuova forza
lavoro e nuovi capitali nel sistema, abbiamo assistito alla consapevole riduzione progressiva di quella tassa
per la coesione sociale, rappresentata dai meccanismi di welfare nelle sue diverse forme e declinazioni.
La libertà del mercato è presto diventata la dittatura del mercato, dove gli unici che sperimentavano una
crescente libertà sono i grandi operatori: quelli finanziari ancor più di quelli economici.
La conseguenza a tutto questo è stata una lenta polarizzazione della ricchezza, a partire dagli USA (da dove
è partita la crisi del 2007). Negli USA succede che gli aumenti di produttività favoriti dall’impiego delle nuove
tecnologie erano andati a remunerare solo il capitale, mentre l’incremento salariale non teneva il passo degli
incrementi nella produttività→ aumentano le persone che lavorano e le ore che fanno, ma non lo stipendio.
→ è stata proprio la crescente disuguaglianza dei redditi negli USA, insieme alla pressione politica, a facilitare
il credito che ne è conseguita, che ha prodotto una delle linee di faglia all’origine della crisi finanziaria del
2007.
I politici USA iniziarono a cercare di capire come poter correre ai ripari, possibilmente senza che questo
implicasse un aumento degli oneri per lo stato→ il punto di partenza era il seguente assunto: non è il reddito
che conta, ma i consumi→ se in qualche modo i consumi della classe media reggono, forse questa presterà
meno attenzione alla crescente disuguaglianza.
Questo non funzionò, e nel primo decennio del nuovo secolo, il livello di indebitamento della classe media si
impennò, rivelandosi decisivo nella crisi del 2001 e del 2007.

Si trattò del tradimento della good society→aveva garantito crescita economica e pace sociale a partire dal
secondo dopo guerra e per tutta la guerra fredda, sia pur conoscendo fasi di frenata e recessione (come è
normale).

Si è così alterato quel patto tra economia capitalista e democrazia politica che, nel corso della seconda parte
del 1900, aveva consentito l’un l’altra di rafforzarsi attraverso il reciproco bilanciamento, e di rendere
popolare l’economia di mercato. Democrazia e mercato non sono fondati sullo stesso principio→ il mercato
produce disuguaglianza perché premia la più efficiente organizzazione dei fattori produttivi, mentre la
democrazia si fonda sulla premessa dell’uguaglianza. Democrazia e mercato si sono storicamente sostenuti
e rafforzati a vicenda in Occidente, perché il mercato allevia e corregge i difetti della democrazia e così fa
anche quest’ultima.

L’alleanza tra queste due formidabili istituzioni si stabilì nell’epoca delle grandi rivoluzioni, quella americana
e quella francese, quando la forza del mercato venne impiegata per svellere i privilegi delle società di antico
regime. Essa venne impiegata per abbattere quelle disuguaglianze di status e quei privilegi che erano presenti
nella società dell’anicien regime e che non derivavano dalla moderna logica economica. Ma ciò non
trasformava l’idea di mercato in fattore di uguaglianza, e neppure rendeva la democrazia e mercato naturali
compagni di strada: lasciava aperto il campo alla creazione di nuove e diverse forme di disuguaglianza
prodotte dall’interno del mercato dall’agire economico. L’uguaglianza che in premessa la democrazia
postulava, e la cui immediata applicazione economica era quella di stabilire un campo di gioco libero da
barriere artificiali in grado di ostacolare il dispiegarsi dell’azione economica, non era più sufficiente. Proprio
perché associata al mercato, la democrazia doveva porsi anche il problema del preservare condizioni capaci
di rendere l’uguaglianza qualcosa di diverso da un lontano e perduto momento originario. La premessa
dell’uguaglianza doveva cioè essere completata dalla promessa dell’uguaglianza: impedire che i vecchi
privilegi, abbattuti grazie all’azione congiunta di democrazia e mercato, non venissero sostituiti da nuovi
privilegi questa volta costruiti proprio dall’azione economica mercatistica, se si voleva che la società
dell’uguaglianza non cedesse mai più al ritorno della società dei privilegi.
Questo è esattamente quello che è successo a partire dal 1989, quando si è voluto ignorare che, privati
ognuno del sostegno dell’altro, la democrazia e il mercato possono essere travolti dai loro stessi difetti, non
più alleviati dalla reciproca interazione. La questione non è se la disuguaglianza economica debba essere
eliminata affinché l’uguaglianza politica possa funzionare, ma che essa non sia troppo grande. Per
salvaguardare l’uguaglianza politica dagli effetti della disuguaglianza economica l’importante è vigilare
affinché i cittadini sappiano e credano che le disuguaglianze di potere economico non sono un buon motivo
per rinunciare a far sentire la propria voce→ senza ceto medio, infatti, la possibile middle class democracy,
società degli uguali, è destinata a lasciare il posto a una nuova società di privilegi.
Inoltre, se il fallimento del mercato può essere catastrofico, anche il suo successo è altrettanto pericoloso
dal punto di vista politico.

Il problema del liberalismo contemporaneo in quanto movimento politico è che dipende dall’esistenza di un
certo equilibrio tra le forze presenti nella società, per riuscire ad assicurare la varietà di cui ha bisogno→ per
cui, se, come in questi 20 anni, l’ago della bilancia del potere si sposta in una posizione che favorisce la
crescita della disuguaglianza e la nascita di un élite egemonica, il liberalismo ha difficoltà a lanciare
un’offensiva sociale contro tale orientamento.
La differenza tra chi può permettersi migliori e più costosi servizi e chi non può farlo, è un prezzo che
dovrebbe essere considerato inaccettabile da un punto di vista liberale, perché altera le probabilità di
successo degli individui e mercerizza valori, che col mercato non hanno nulla a che fare.
Capitolo 3: Le quattro facce dell’iceberg

1) Il declino della leadership americana e l’emergere delle potenze autoritarie russe e cinesi:

L’ordine internazionale liberale, come il Titanic, non era e non è un vascello inaffondabile, ed è stato dirottato
dall’imperizia di chi ne è al comando, che si è dimostrato incapace di prevenirne lo scarroccio verso una rotta
diversa e molto più pericolosa di quella progettata, sulla quale si staglia inquietante un iceberg che presenta
quattro facce, tutte diversamente pericolose:

a) La prima è una nuova distribuzione della potenza nel sistema associata alla divergenza delle diverse
politiche, che modifica le relazioni tra USA, Russia e Cina, mentre sullo sfondo si stagliano la fragilità
e la debolezza dell’Europa;
b) La seconda è la polverizzazione e la privatizzazione della minaccia, che consente ai gruppi
terroristici, più o meno organizzati e ramificati, di introdurre capacità distruttive considerevoli e
altamente destabilizzanti;
c) La terza consiste nella contestazione dello stesso ordine internazionale liberale, nei suoi principi e
nelle sue istituzioni da parte degli USA;
d) La quarta è la deriva delle democrazie occidentali che sembrano incapaci di mantenere la propria
rotta.

Nel corso degli ultimi anni, a partire dal progressivo disimpegno americano nel Medio Oriente, abbiamo
assistito a una redistribuzione della potenza tra i principali attori del sistema internazionale. Non si è trattato,
in realtà, di un’effettiva riduzione della potenza americana accompagnata dalla crescita della potenza cinese
e russa→ in termini di budget militari, sappiamo che Mosca e Pechino hanno incrementato le proprie spese
rispetto agli anni precedenti, ma gli USA non sono di certo rimasti a guardare.

Russia:

Il Cremlino, di fatto, si è imbarcato senza indugio in un massiccio programma di modernizzazione e riforma


militare: tra il 2006 e il 2007 la Russia è diventata la terza potenza mondiale per le spese per la difesa (dopo
USA e Cina). I russi hanno soprattutto colmato gran parte del gap verso gli USA nel settore del comando e del
controllo delle proprie forze armate, e sono riusciti a riorganizzarle a un livello di efficienza persino superiore
a quello della vecchia URSS. Nel Caucaso, in Ucraina e in Siria, le forze dell’Armata Russa (si chiama ancora
così), hanno progressivamente e deliberatamente mostrato un incremento delle proprie capacità di svolgere
azioni complesse di joint (terra, mare, cielo), con l’impiego di missili tattici e artiglieria campale: un ambito
nel quale fino a pochi anni fa non erano all’avanguardia.
In tal senso, è stato la dimostrazione di potenza e di coordinamento con la quale la Russi ha dato il la
all’incremento massiccio del suo intervento in Siria→ in quell’occasione l’alto comando russo optò per
un’azione di bombardamento delle posizioni dei ribelli, che avrebbe segnato l’inizio dell’inversione di
tendenza nella dinamica del loro confronto con il regime, operata attraverso l’impegno congiunto di mezzi
navali, aerei e terrestri. Questo inviò un segnale forte e chiaro alla NATO sul fatto che la Russia era tornata,
e sul piano militare, avesse raggiunto un livello persino superiore a quello posseduto dall’ex URSS.
Con le medesime finalità, sono state svolte le grandi manovre denominate Zapad (Occidente) nel 2017, a
ridosso del confine ucraino e delle repubbliche baltiche. La determinazione della Russia si vede nella
decisione di posizionare missili a corto raggio dotati di testate nucleari nell’enclave di Kaliningrad, una
porzione di territorio russo collocata all’interno dell’Unione europea.

Non va sottaciuto il rinnovato attivismo russo nell’Artico, sempre più strategico anche in seguito al
riscaldamento globale. Nel corso del 2017 è stata riattivata la base di Alakurtti al confine con la Finlandia, che
trona ad ospitare uno stormo dell’aviazione navale e uno di elicotteri Mi-24. A partire dal 2015, la Russia ha
proceduto al rafforzamento della sua presenza nell’Artico, decaduta dopo il 1990, prevendendo la
costruzione di altre due basi nell’area. Al di là dell’opportunità realistica dell’apertura di nuove rotte artiche,
capaci di connettere via mare Europa, Asia e America settentrionale in maniera molto più rapida di quanto
avvenuto fin ora, il ritiro dei ghiacci rende più facilmente sfruttabili le risorse della regione e maggiormente
necessaria la loro protezione. Il 13% del petrolio e il 30% del gas naturale esistente al mondo non è ancora
sfruttato, e gran parte di queste riserve sarebbero collocate nell’Artico. La Russia negli ultimi anni ha investito
più di chiunque altro nell’Artico, chiedendo alle Nazioni Unite il riconoscimento della sovranità marittima
nell’area, pari a una superficie di oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati. Nel marzo del 2017, Putin
ha visitato una nuova struttura nominata “Trifoglio del Nord”, l’ultima avveniristica e più settentrionale base
militare delle forze armate russe nel Grande Nord→ un arcipelago di 192 isole nell’Oceano Artico, a solo 800
chilometri dal Polo Nord, in grado di ospitare 150 soldati delle unità di difesa aerea e di operare per 18 mesi
in assenza di rifornimenti. Anche in questo caso, l’attivismo russo ha spinto il Canada ad ammodernare la
propria flotta con unità rompighiaccio armate e a rispolverare il progetto di dotarsi di un sottomarino
nucleare di attacco con evidenti funzioni di anti-access (impedire alla controparte l’ingresso in una
determinata area operativa) e area denial (inibire la libertà d’azione della controparte qualora essa sia
riuscita ad accedervi).

Tragedia del Kursk→ il Kursk era il sottomarino nucleare sovietico, gioiello della flotta del Nord, affondato
nel mare di Barents il 12 agosto del 2000. La causa fu probabilmente un incidente al reattore, che causò
un’esplosione che fece adagiare il sottomarino sul fondo del mare.
Nonostante la tragedia, un’aliquota dell’equipaggio, 23 uomini su 118, sopravvisse alcune ore, forse giorni,
all’incidente.
Il comando della flotta del nord negò per 48 la notizia, ma non appena essa fu diffusa, scattò una gara di
solidarietà internazionale per cercare di salvare la vita dei marinai ancora vivi. Su precisa disposizione di Putin
però, tutte le offerte di aiuto vennero respinte, e la Marina russa mise in atto una serie di tentativi
inconcludenti che segnarono la tragica sorte dei sopravvissuti.
Quando dopo 5 giorni di inutili fallimenti, Mosca accettò l’aiuto di Norvegia e UK, era troppo tardi.
L’incidente di Kursk e la penosa gestione del suo salvataggio segnarono forse il punto più basso del
deperimento dell’apparato militare della Russia, fu quindi una grandissima umiliazione per la Russia intera.

Cina:

I cinesi, dal canto loro, stanno allestendo una blue water fleet (una flotta d’alto mare) di tutto rispetto,
raddoppiando il numero di portaerei di loro possesso, introducendo nuovi incrociatori lanciamissili e
moltiplicando il numero di sottomarini. I cinesi hanno anche già impostato una terza più grande portaerei
che dovrebbe entrare in linea il 2022-2023. Esiste un’ovvia correlazione tra lo sviluppo della marina cinese,
l’apertura ai mari della Cina stessa e la sua dipendenza dal commercio internazionale, in particolare dal
commercio via mare, esposto a una serie di minacce come la pirateria, le quali sono diventate oggetto della
sicurezza nazionale. Come aveva già detto Mahan, mari e oceani sono fondamentali per i trasporti e le
comunicazioni, e il loro controllo è lo scopo decisivo della competizione tra le potenze che aspirano
all’egemonia. La Cina, infatti, sta attuando la cosiddetta “strategia del filo di perle”→ stringere rapporti
diplomatici, commerciali e militari con alcuni paesi che si affacciano sull’oceano Indiano (dove transita il 70%
dei traffici di energia e la metà del commercio mondiale), al fine di acquisire postazioni utili al controllo delle
linee di comunicazione strategiche per l’approvvigionamento petrolifero (la Cina ne è il primo consumatore
mondiale).

È all’inizio degli anni 80, che iniziò la straordinaria crescita degli scambi commerciali tra la Cina e l’estero, e il
manifesto cinese per la sicurezza della navigazione. Ciò non implicava una minore attenzione cinese per i suoi
interessi regionali→ le acque dell’Asia orientale si mostravano infatti appetibili anche agli occhi degli altri
stati dell’area, con la conseguenza di far avvertire a Pechino una sfida all’autorità cinese sui mari asiatici, in
un contesto di competizione regionale intorno alle risorse. Alla Marina dell’Esercito popolare di liberazione
venne quindi chiesto di proteggere i “diritti e gli interessi marittimi” cinesi, ovvero di garantire l’accesso e lo
sfruttamento delle risorse contenute nelle acque su cui si affaccia, contribuendo così allo sviluppo economico
del paese. In quest’ottica, il perimetro d’azione della Marina è stato allargato gradualmente sino a inglobare
l’intera sfera marittima dell’Asia orientale.
Proprio questa sensazione di sfida montante ha dato origine alle pretese cinese sugli arcipelaghi e sulle isole
circostanti. I casi più noti sono la controversia per l’arcipelago delle Senkaku, conteso con il Giappone, e le
rivendicazioni di due arcipelaghi nel mar cinese meridionale: le Paracelso, rivendicate anche dal Vietnam, e
le Spratly, sulle quali hanno mire il Vietnam, Filippine e Malesia. Si tratta di confini si che originano alla fine
degli anni 80 e sono sono nuovamente tornati alla ribalta nel corso dell’ultimo lustro.
Nella battaglia navale delle Spratly, combattuta il 14 marzo 1988, Cina e Vietnam arrivarono allo scontro
militare aperto, vinto dai cinesi. La sequenza degli eventi testimonia la determinazione con cui la Cina è
disposta a far valere le proprie ambizioni. Nella prima metà degli anni 80, Vietnam, Filippine, Malesia e
Taiwan occupavano buona parte dell’arcipelago rivendicato da Pechino, che, nel 1988, aveva deciso di
istituire una presenza stabile nell’isola di Fiery Cross Reef. Hanoi reagiva impossessandosi di cinque isole
vicino a Fiery Cross, con l’intento di creare intorno a quest’ultima un cordone in funzione anticinese. Le
tensioni esplosero in uno scontro aperto, nel quale le navi cinesi affondarono due delle navi vietnamite e ne
danneggiarono una terza. La battaglia navale del 14 marzo 1988 dimostrò concretamente che l’obiettivo della
dottrina navale di Pechino di proteggere l’autorità cinese sugli spazi marittimi contesi era da prendere sul
serio. D’altra parte, l’arcipelago delle Spratly rientrava pienamente nel perimetro d’azione delineato dalla
“difesa nei mari vicini”, e le capacità introdotte nello scontro erano quelle con cui era stata attribuita priorità
nella fase iniziale del programma di modernizzazione navale.

Le motivazioni dietro queste controversie sono relative alla rivendicazione e alla difesa della sovranità e dei
diritti cinesi inerenti allo sfruttamento delle risorse nelle acque contigue, anche quando ciò viola il diritto
internazionale (come è accaduto nella sentenza riguardo al caso della costruzione delle isole artificiali nel
mar cinese meridionale nel 2016, con la quale la corte ha respinto la proposta cinese). D’altronde, al di là di
tutte le possibili radici storiche della disputa delle isole, ciò che ha spinto la Cina a rivendicarle con tanta
durezza è l’inequivocabile aumento della sua potenza militare, che la porta a sostenere le proprie pretese
anche con l’aiuto della forza. Va ricordato che il mar cinese meridionale rappresenta una delle rotte più
importanti per il commercio internazionale, la fonte del 10% dell’intera produzione di pesca mondiale e
conserve sotto i suoi fondali consistenti riserve di petrolio e gas naturale.

Dalla metà degli anni 2000, la dottrina navale cinese ha sostenuto con sempre maggior consapevolezza il
peso strategico delle vie di comunicazione marittime. Per ridurre la vulnerabilità della rotta che da Hormuz
e Bab el-Mandeb arriva a Shangai, passando per lo stretto di Malacca o quello della Sonda, Pechino sta
pensando sia di migliorare l’approvvigionamento via terra, sia di dare effettivo svolgimento al progetto del
“taglio dell’istmo di Kra, il punto più stretto della penisola malese in territorio thailandese, che ridurrebbe di
1.500 miglia nautiche la rotta marittima tra il mare della Andamane e il golfo della Tailandia verso i porti della
Cina”. I documenti cinesi hanno iniziato a menzionare la protezione della “sicurezza marittima” in acque
globali, intendendo con tale espressione la sicurezza della navigazione lungo le vie di comunicazione
marittime, con specifico riferimento a minacce non tradizionali: pirateria, terrorismo marittimo e criminalità
transnazionale. Alla fine degli anni 2000 questo interesse alla sicurezza marittima è stato ancora rielaborato
in un nuovo slogan: “oceani armoniosi”, incorporato nell’ideologia ufficiale. Alla marina sono stati affidati
nuovi compiti, “operazioni militari diverse dalla guerra”→ tutte le operazioni che comportano un eventuale
uso della forza armata con gradi d’intensità inferiore alle operazioni militari belliche vere e proprie.
Un’enfasi particolare è stata posta sulla partecipazione della Marina cinese a forme di collaborazione con
altre marine, individuando nello strumento collaborativo il mezzo principale per la costruzione di “oceani
armoniosi”. A tale scopo, la Cina ha proceduto a un graduale ma rapido sviluppo del sistema di supporto
logistico, sul quale la marina può contare per operazioni navali al di fuori dell’Asia orientale→ il fulcro del
sistema è rappresentato dai rifornimenti in porti amici: Birmania, Bangladesh, Singapore, Sri Lanka, Maldive,
Pakistan, Yemen, Oman e Gibuti. Sono, quindi, le buone relazioni che la Cina intrattiene con alcuni stati
dell’oceano Indiano a garantire alla Marina il necessario supporto logistico nella regione, senza la preliminare
conclusione di accordi di cooperazioni militare. Si tratta di ciò che nella dottrina militare americana è definito
military places, in opposizione a military bases→ non strutture permanenti direttamente gestite, ma punti
d’appoggio usati per elementari esigenze di rifornimento (con l’eccezione del porto di Obock in Gibuti, che è
la prima e vera base navale cinese all’estero).
Pechino può così restare fedele al proprio principio di “non stabilire basi all’estero”, senza con ciò rinunciare
al supporto logistico in loco, necessario per operare continuativamente lontano dal territorio nazionale.

La crescente presenza militare di Pechino nel mare cinese meridionale e i numerosi contenziosi relativi ai
limiti della zona economica esclusiva, hanno inasprito nuovamente i rapporti con Hanoi, sempre comunque
complicati dopo il tentativo di invasione del Vietnam operato dalla Cina nel 1979.
La questione del controllo delle isole Spratly e Paracelso, si colloca almeno in parte dell’ambito del
“tradizionale contenzioso” tra Pechino e Hanoi, ma è anche una manifestazione della nuova strategia navale
cinese. Nel Libro bianco della Difesa, elaborato nel 2005, la Cina ha infatti optato per una svolta importante,
ribadendo il concetto della protezione delle acque in mare aperto. In tal senso, Pechino ritiene prioritario il
rafforzamento delle capacità di anti-acess e area denial del mar cinese meridionale. La dirigenza guidata da
Xi Jinping ha dato una nuova linfa alle mia sospite rivendicazioni territoriali sul mar cinese meridionale,
definito area di interesse primario per la sicurezza internazionale (come Taiwan e il Tibet). Per questo si cerca
di spingere il Vietnam a stringere relazioni anche militari con Washinton e di rafforzare la propria Marina,
come quanto messo in atto da Giappone e Corea del Sud.

Di per sé, la rielaborazione della strategia navale e della dottrina di impiego della Marina cinese non prefigura
un atteggiamento ostile agli USA, anche perché la Cina non è ancora una grande potenza navale in grado di
sfidare la leadership americana sui mari internazionali. La marina, inoltre, non dispone di capacità navali
paragonabili a quelle americane, né lo sarà in futuro, perché la disparità della forza sui mari globali è destinata
a persistere e il rapporto di Pechino nei confronti degli USA resta, su questo piano, di subordinazione, date
tutte le innovazioni che stanno avendo e che avranno gli americani. Dal punto di vista regionale, invece, i due
stati si muovono più su un piano di parità, e gli USA percepiscono le minacce cinesi alla propria libertà
d’accesso e agli spazi regionali dell’Asia orientale come già concrete e imminenti. Per quanto, però, russi e
cinesi stiano ammodernando i propri dispositivi, gli americani rimangono di gran lunga la prima superpotenza
militare del pianeta.

USA:

Per quando riguarda gli USA, un ripiegamento strategico è avvenuto ben prima che Trump diventasse
presidente. L’America di Obama aveva già optato per una simile politica: concetti come selective
engagement, retranchement, balancing by overseas, leaning form behind sono ricorrenti nei documenti degli
otto anni dell’amministrazione Obama, prima ancora di essere applicati in Afghanistan, Iraq ed Europa. Si
tratta di locuzioni che esprimono tutte la medesima indicazione politica: ripiegamento degli USA, della
ridefinizione della loro postura strategica globale, dopo la fase di iperestensione e sovra estensione che aveva
caratterizzato la presidenza di G. W. Bush. Obama aveva deciso di tornare a concentrarsi sull’altro oceano e
di ridurre progressivamente la presenza e l’impegno militare in Europa e in Medio Oriente, riservando a
quest’ultimo più che altro un’attenzione più politica che militare.

In linea di principio, la minor assertività americana non avrebbe dovuto necessariamente pregiudicare la
tenuta e la stabilità dell’ordine internazionale liberale. Anzi, avrebbe potuto aprire nuovi spazi al
multilateralismo→ ma per poter funzionare, cioè per essere considerato idoneo alla salvaguardia dell’ordine
internazionale liberale, il multilateralismo deve poter contare sulla sintonia tra le politiche di Cina, Russia e
USA→ nessun multilateralismo è possibile laddove gli attori abbiano in mente soluzioni diverse e rivali
rispetto ai principali problemi da affrontare, oltre che i principi organizzativi dell’ordine internazionale
alternativi.

È importante sottolineare però la differenza tra la situazione dell’America “superpotenza solitaria” e la realtà
contemporanea, caratterizzata da un’esitazione nella proiezione di potenza americana e da un ripiegamento
nella postura degli USA.
Allora l’America poteva agire anche da sola, il suo principale problema consisteva nel non eccedere nelle
proprie ambizioni e nel riuscire a presentare le proprie azioni sempre (o il più possibile) come orientate al
sostegno e al mantenimento dell’ordine liberale, e non esclusivamente al soddisfacimento dei propri meri
interessi nazionali. Oggi le cose sono molto diverse, l’America necessita non solo del sostegno dei suoi alleati,
come abbiamo visto in Afghanistan, ma ha anche bisogno che le altre grandi potenze si considerino suoi
partner, e non sue rivali, nel disegno e nel sostegno dell’ordine internazionale.
Ed è proprio questo che è cambiato negli ultimi anni a mano a mano che Russia e Cina hanno chiarito di non
condividere sempre e comunque i medesimi interessi degli USA e dell’Occidente più in generale.

Lo schema cui sembra assomigliare il sistema politico internazionale odierno è “1+2”→ superpotenza globale
affiancata da due grandi potenze regionali o multiregionali, cioè USA + Russia e Cina.
In una situazione simile è cruciale che gli interessi degli attori convergano, perché se le due potenze minori
non sono ancora in grado di imporre il proprio, possono però impedire che l’ordine dell’egemone sia
mantenuto e ostacolare i suoi obiettivi o farne salire il prezzo (quello avvenuto in Medio Oriente), possono
anche trarre vantaggio dagli errori e dai fallimenti della superpotenza globale.

Si può dire che fino al ritorno della Russia in Medio Oriente e allo sviluppo di una politica più confrontational
da parte della Cina, Washinton poteva commettere errori anche vistosi (Iraq 2003), senza che nessun rivale
strategico potesse approfittarne, perché nessun’altra potenza si metteva in una simile situazione.
Ora tutto questo non è più vero: cinesi e russi in scala più ampia, o iraniani in termini regionali, possono trarre
vantaggi dagli errori di Washinton.

Russia:

Se prendiamo in analisi il comportamento della Russia di Putin nell’ultimo decennio, il paese si è mosso in
maniera spregiudicata per ampliare la propria sfera di influenza: ad esempio nel Caucaso meridionale (2008).
La Russia si è imbarcata in una sistematica sfida all’occidente→ l’obiettivo è indebolire i legami tra USA ed
Europa e minare la solidarietà della Nato, per rafforzare anche la posizione strategica della Russia nel suo
vicinato immediato e oltre. Si vuole il ritorno della Russia al centro della politica globale.
Nel corso del lungo dopo guerra non si era mai visto uno stato tanto determinato a ridefinire i propri confini
con l’uso della forza militare. Lo avevano tentato la Serbia di Milosevic e l’Iraq di Saddam Hussein e vennero
sanzionati pesantemente dalla comunità internazionale. Quello che hanno fatto i russi in Crimea è
inaccettabile e mira oggettivamente uno dei principi principali cardine dell’ordine liberale.

In Medio Oriente, l’altro teatro nel quale la Russia si è mostrata molto attiva, il primo segnale del grande
ritorno della Russia è avvenuto in concomitanza delle accuse mosse con particolare enfasi al presidente
Bashar al-Asad. Obama lo accusava di aver fatto ricorso ad agenti chimici durante un bombardamento
dell’area di Ghouta, e sottolineò come avesse oltrepassato la “linea rossa”, da lui stesso tracciata, e che
avrebbe comportato la dolorosa punizione inferta dagli USA a nome della comunità internazionale.
Fu sufficiente che Putin ricordasse a tutti come la Siria fosse un alleato della Russia per convincere Obama a
far rientrare in porto la flotta che stava apprestando a bombardare le basi da cui si supponeva fosse partita
l’azione incriminata. Giusta o sbagliata che sia stata la posizione di Obama, resta di fatto che da quel
momento in poi la Russia è intervenuta sempre più pesantemente nella guerra civile siriana, portandola fuori
dallo stallo in cui si trovava→ ha stretto un’intesa di fatto con l’Iran e ne ha poi esteso il significato politico
coinvolgendo la Turchia di Erdogan.
Il significato di questo accordo triangolare è di enorme portata politica e strategica→ ha fatto della Russia il
possibile pacificatore del Levante, e comunque la potenza senza la quale nessun accordo sarà praticabile, ha
legittimato le aspirazioni regionali dell’Iran e ha spostato di fatto la Turchia (paese formalmente membro
della Nato) nella sfera di influenza russa, investendola del ruolo di protettrice dei sunniti nel Levante al posto
della monarchia sunnita.
È paradossale che sia stata proprio Mosca a trarre i maggiori e più immediati benefici dalla fine del lungo
ostracismo iraniano dalla comunità internazionale, quando gli USA di Obama sono stati gli artefici decisivi
dell’accordo che vi ha posto, almeno formalmente.
Sicuramente gli americani sono stati “bruciati” dalla tempestività russa, e d’altra parte i russi erano nella
posizione migliore per poter approfittare della situazione: condividevano con l’Iran l’avversione totale verso
il radicalismo sunnita e l’alleanza con il regime di Ashar al-Asad in Siria, e potevano anche offrire all’Iran
quella legittimazione delle proprie preoccupazioni e ambizioni strategiche che la repubblica islamica avanza
dal 1979. Inoltre, Obama, con le pressioni da Israele e dall’Arabia Saudita, aveva bisogno di tempo, tempo
che Putin gli ha negato. Nonostante tutto, quell’accordo rappresenta un enorme successo per la comunità
internazionale nel suo complesso.

Iran:

È indubitabile che in questi anni l’Iran abbia acquisito maggior potere nella regione: tutto questo è dipeso
innanzitutto dalle guerre che i suoi avversari (USA, Israele, Arabia Saudita) hanno condotto in Afghanistan,
Iraq, Libano e Yemen, e dagli errori nella non gestione della crisi siriana e non certamente dal raggiungimento
dell’accordo sul nucleare.
Se gli USA dovessero adottare sanzioni unilaterali contro l’Iran, spingerebbero quest’ultimo a riconsiderare
l’utilità dell’accordo e a fare della proliferazione nucleare nella regione una tragica profezia auto-avverante.
Per completare la riflessione su questo snodo della politica mediorientale, proprio il successo dell’azione di
politica estera e militare conseguito dall’Iran in Siria, Iraq e Libano, rischia di avere conseguenze tutt’altro
che stabilizzatrici sulla dinamica internazionale del paese sciita.
Questi successi, infatti, contribuiscono a rafforzare quell’ala più conservatrice del regime, espressione della
guida suprema di Ali Khamenei, contrapponendosi non solo all’ala moderata, ma anche e più
pericolosamente ancora alla tendenza di una parte consistente della società civile iraniana che mostra
un’insofferenza crescente verso il regime ierocratico, illiberale, sessuofobico e corrotto degli ayayolah e dei
loro “sacrestani”.
Al di là delle problematiche ricadute sugli equilibri politici interni, è ovvio ed evidente che l’Iran abbia un
interesse oggettivo alla stabilizzazione della regione, considerando come la situazione stia evolvendo nella
direzione dei suoi interessi strategici; contrariamente ciò che accada per Arabia Saudita, che, non a caso,
svolge un’azione altrettanto oggettivamente destabilizzatrice.

Turchia:

La Turchia è il terzo polo di quell’allineamento tattico organizzato da Mosca per il consolidamento di una
tregua generale in Siria, che passa per la sopravvivenza del regime di Asad e la tutela dei propri interessi
strategici. Qui in Turchia le cose sono però molto diverse→ il regime di Erdogan conosce da tempo
un’involuzione autoritaria e confessionale che genera preoccupazione nei suoi alleati Nato e nei suoi partner
interlocutori dell’UE. Inoltre, il regime ha un’influenza destabilizzante sul regime stesso, concorrendo a
polarizzare la separazione, l’incomunicabilità e l’astio tra le due Turchie: quella pia e conservatrice
dell’Anatolia profonda, e quella laica e occidentalizzata delle grandi metropoli.

Dopo tre lustri ininterrotti di associazione al potere, la politica estera di Erdogan su è rivelata un fallimento
complessivo, “salvata” dall’offerta di Putin, sia pure in posizione inferiore all’Iran. Dopo anni in cui le relazioni
tra la Turchia e Russia, Israele, Siria, Iran, Egitto, Tunisia e Arabia Saudita sono peggiorate, la Turchia ha
nuovamente switchato, riavvicinandosi a Mosca e Teheran e mettendo invece nel mirino USA e Europa→ in
particolare i paesi europei che, a causa delle critiche verso il regime, hanno impedito che lui o i suoi ministri
usassero le piazze europee per svolgere propaganda a favore del plebiscito costituzionale.

Il conflitto tra l’appartenenza a due distinte comunità nazionali era evidentemente molto più sfumato e
riassorbibile quando in Turchia prevaleva una cultura politica occidentalizzante e laica, ovvero quando il
regime stesso era impegnato a colmare il gap verso l’Europa in termini di diritti civili e politici. Esattamente
il contrario di quanto ormai da molti anni sta avvenendo. Il fenomeno di Erdogan è semplicemente una
versione edulcorata dell’islamismo politico radicale, e pone gli stessi problemi alle nostre società.
Allontanando la Turchia dall’Europa e dalla sua cultura politica, esso non fa che creare i presupposti per una
divaricazione sui principi e limiti cui una democrazia deve ispirarsi a sottostare, che renderanno più
complicata e difficile la convivenza ordinata dei cittadini europei di origine turca con i loro concittadini
autoctoni.
Sul versante della sicurezza, la sempre più brutale repressione nei confronti dei curdi ha portato al ritorno
del terrorismo riconducibile a Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan), mentre l’esercito di Ankara ha
accentuato le sue azioni contro i peshmerga curdi in Siria, impiegati sul duplice fronte della lotta contro Asad
e contro l’Isis. Sotto pressione internazionale, Erdogan ha dovuto anche rinunciare a quel comportamento
ambiguo nei confronti dell’Isis, che aveva trasformato la Turchia nel principale paese di transito dei foreign
fighters di mezzo mondo diretti verso Raqqa e Mosul.

L’interesse di Erdogan per l’accordo con la Russia, che lo costringe ad accettare e consolidare il fatto
compiuto della permanenza al potere di Asad almeno su una parte della Siria, si spiega con la sua duplice
valenza interna e internazionale. Sul fronte esterno il sultano può sperare di recuperare almeno il risultato
minimo di poter esercitare la propria azione contro i curdi, verso i quali tanto i russi quanto gli iraniani non
nutrono alcuna simpatia, considerandoli troppo vicini agli americani e il cui rafforzamento potrebbe costruire
un problema per la tenuta dell’Iraq. Sul fronte interno, attraverso l’accordo con la Russia, Erdogan ha potuto:
rivendere alla propria opinione pubblica domestica un successo in politica estera, presentarsi come il
protettore dei sunniti in Siria e tenere in qualche modo sotto controllo le mosse dei curdi di Turchia.

Dal punto di vista occidentale però, l’accordo di Ankara con Mosca e Teheran ha significato il transito di un
paese membro NATO nella sfera di influenza russa. Inoltre, la Turchia decise di procedere all’acquisto di
alcune batterie di missili antiaerei S-400 proprio da Mosca→ un fatto senza precedenti e inconcepibile per la
stessa sicurezza dell’organizzazione di difesa occidentale. I rapporti tra la Nato e Ankara sono
progressivamente peggiorati, a partire dall’incidente Mavi Marmara: la nave turca nolleggiata da una serie
di ONG raccolte sotto la sigla Freedom Flotilla, che, nel maggio 2010, stava cercando di forzare il blocco,
illegale e unilaterale, delle acque di Gaza attuato dalle autorità israeliane. In quell’occasione, un assalto tanto
brutale quanto rafforzato delle forze israeliane portò all’assassinio di nove occupanti della nave e alla
sostanziale rottura delle relazioni diplomatiche tra Ankara e Tel Aviv. In quell’occasione Erdogan chiese la
convocazione d’urgenza dell’organismo di consultazione previsto dal Trattato Atlantico del Nord, con lo
scopo di ottenere solidarietà e di mettere in difficoltà gli USA e altri paesi filoisraeliani. Il risultato però fu
all’opposto, l’invito rivolto al governo turco di non proseguire con attività in grado di alimentare una tensione
già alle stelle.

A causa dell’opacità del comportamento turco nella lotta contro l’Isis (il figlio di Erdogan è ancora indagato
per traffico illegale del petrolio iracheno e siriano esportato dall’Isis per autofinanziarsi), da anni ormai la
Nato e molti altri paesi membri non condividono una serie di informazioni sensibili in materia di terrorismo
con i turchi, anche se, ovviamente, gli interessati smentiscono.

Cina:

La Cina si sta già candidando a sostituire gli USA come leader dell’economia globalizzata, ma non è per nulla
detto che ci riesca né quando ci riesca. Questo anche perché la delicata transizione in corso in Cina da
un’economia fondata sulle esportazioni a una basata sul consumo interno è complicata da un eccesso di
capacità produttiva e da una grossa esposizione debitoria delle sue principali compagnie nei confronti del
sistema finanziario interno. Nel momento in cui l’America dovesse ritirarsi dalla sua posizione di leader
dell’economia internazionale, la Cina dovrebbe consentire un accesso molto più grande e profondo al suo
mercato interno da parte degli altri attori economici, e rendere il suo mercato finanziario molto più
trasparente e internazionalizzato: esattamente il tipo di misure opposte a quelle recentemente adottate dalle
autorità cinesi, che hanno viceversa innalzato i controlli sui movimenti di capitale.

Tutto questo, affiancato anche al lungo periodo del secolo dell’umiliazione cinese, non impediscono che
Pechino possa sperare di coltivare con successo il proprio disegno di un capitalismo para-statale, operato
cioè attraverso un informale ma sostanziale “regime di concessioni”, che consenta a ben selezionati grandi
operatori di agire nell’ambito di un mercato.
Xi Jinping ha ribadito, nel discorso al XIX Congresso del partito comunista, l’impianto che finora ha governato
la Cina, promettendo più competizione tra le imprese private, ma anche il rilancio delle aziende di Stato, una
maggiore apertura della Cina agli operatori internazionali, insieme al mantenimento del ruolo guida del Pcc,
il tutto condito dalla volontà di garantire al popolo “una vita migliore” e di fare della Cina una superpotenza
globale del XXI secolo.

Il capitalismo non è un sistema politico: è una forma di vita economica, compatibile nei fatti con dittature di
destra (Cile sotto Pinochet), dittature di sinistra (Cina contemporanea), monarchie socialdemocratiche
(Svezia) e repubbliche plutocratiche (USA). Il fatto che le economie capitalistiche prosperino maggiormente
in condizioni di libertà forse è meno scontato di quanto ci piaccia pensare.
In termini strategici, fu nel momento in cui gli USA hanno gestito in modo insoddisfacente e inefficace la crisi
del 2007, che i cinesi decisero che fosse necessario trovare un’alternativa all’ordine liberale e all’egemonia
americana.
Parlare di un’esplicita strategia condivisa da Russia e Cina volta a svellere la supremazia americana è
probabilmente eccessivo e prematuro, però in questi anni gli approcci tra russi e cinesi sono stati ricorrenti
per provare a individuare una possibile piattaforma comune in grado di arginare l’egemonia americana. Ad
esempio, la Shanghai Initiative, gli accordi sulla fornitura di gas da parte della Russia e il sostegno russo alle
pretese del “dragone” nel Mar della Cina. Inoltre, nel luglio 2017, la Russia e la Cina hanno condotto
esercitazioni navali congiunte nel Mar Baltico. Lo stesso documento sulla dottrina strategica russa, rilasciato
dal Cremlino nel dicembre 2016, nel dichiarare esplicitamente la volontà russa di tornare a essere un global
veto player nel sistema internazionale, indicava proprio nella ricerca di maggiore sintonia con la Cina uno
degli assi su cui orientare la politica estera del prossimo decennio.

Nord Corea:

Nel dipanarsi della crisi nordcoreana, la collaborazione fattuale tra Pechino e Mosca è già stata evidente.
La crisi ha rischiato, e continua a rischiare, di portare la regione all’interno di una guerra che potrebbe anche
vedere l’impiego di armi nucleari. È dalla fine degli anni 80 che il regime di Pyongyang ha intrapreso una corsa
al nucleare caratterizzata dalla sua natura “proclamata”→ invece di tentare di occultare le prove del suo
coinvolgimento, Kim Yong-Un ne ha fatto motivo di vanto e propaganda verso l’interno e verso l’esterno.
La scelta del nucleare della Corea del Nord è inquietante all’interno di una duplice condizione di cause. A
livello internazionale, il repentino cambiamento di scenario intercorso alla fine degli anni 80 (crollo URSS,
fine guerra fredda…) si trattava di uno scenario da incubo per il regime del Nord, che lo privava dai propri
tradizionali punti di riferimento, facendogli percepire un aumento della minaccia alla sua stessa
sopravvivenza. Una percezione, oltretutto, molto condivisa che la Corea del Nord fosse uno stato fallito,
sull’orlo del collasso: al punto che i vicini del Sud e la Cina avevano predisposto piani volti a fronteggiare una
possibile catastrofe umanitaria derivante dal crollo del regime→ questa catastrofe ci fu con la carestia
indotta dal regime stesso.
A livello domestico, la Corea del Nord attraversò contemporaneamente una vera e propria crisi di transazione
di potere legata alla trasformazione del sistema in una monarchia totalitaria comunista→ mentre il quadro
internazionale mutava, erano in corso le manovre del primo Kim, fondatore della Corea del Nord, per
trasmettere il potere al proprio figlio, il padre dell’attuale presidente.
È in questo contesto che prende corpo la decisione nordcoreana di procedere a sviluppare un progetto
nucleare militare, prima segretamente, e poi sempre più sbandierato al mondo. Lo scopo era ed è di ottenere
la garanzia della sopravvivenza del regime, proteggendo l’isolamento del paese e usando la capacità nucleare
come una vera e propria arma di ricatto, allo scopo di ottenere concessioni dalla comunità internazionale.
Il disastro nella gestione della crisi nucleare nordcoreana stride se confrontato al successo della gestione del
dossier iraniano→ l’Iran, infatti, sta ottemperando con lealtà e spirito collaborativo a tutte le prescrizioni
previste dall’accordo, dalla consegna del materiale fissile allo smantellamento di migliaia di centrifughe alla
chiusura di impianti e laboratori: il tutto sotto l’attenta vigilanza degli organismi internazionali preposti.
Occorre allora chiedersi, perché il successo è conseguito nel Golfo e non in Asia orientale? La risposta è
semplice: la mancanza di una sincera unità di intenti tra tutti i principali attori della comunità
internazionale→ nessuna crisi come quella nordcoreana testimonia la fine imminente dell’ordine
internazionale liberale.

Se con Pyongyang le cose sono andate diversamente che con Teheran è perché i tre grandi coinvolti nella
vicenda non hanno cooperato tra di loro. Dato che si tratta di un caso proclamato di proliferazione nucleare,
la mancata cooperazione assume un rilievo di una gravità enorme.
Il trattato di non proliferazione nucleare, che chiudeva di fatto il club dei paesi dotati della “bomba” ai cinque
grandi, è uno dei pochi sui quali una cerca concordanza di interessi esisteva persino nei momenti peggiori
della guerra fredda→ ci sono state violazioni ovviamente, ma nessuna alimentata dalle due superpotenze
(Israele, il primo che irruppe il ristretto club, non lo disse mai in modo esplicito).
Dovremmo quindi domandarci, che cosa ha portato la divisione tra le grandi potenze davanti agli sforzi
oggettivamente molto pericolosi di Kim? Anche qui la risposta è semplice, il motivo sta nella crescente
divergenza nelle politiche dei tre grandi (USA, Russia, Cina)→ la cosa è apparsa con particolare trasparenza
nel 2017: dopo una serie incalzante di esplosioni sotterranee di straordinaria magnitudine, di fronte alla
ferma reazioni degli americani, cinesi e russi proponevano una mediazione i cui termini di base erano la
cessazione delle provocazioni da parte nordcoreana, in cambio della sospensione delle manovre congiunte
sudcoreane e americane. È qui che si palesa come l’interesse cinese e russo di vedere allentata la presenza
americana in Asia orientale, peraltro condiviso dalla Corea del Nord, prevalga sull’interesse comune ai tre
grandi di evitare un conflitto nella regione.

Su quest’ultimo punto occorre la massima chiarezza. Come abbiamo detto nessuno, nemmeno i cinesi,
intendevano vedere la Corea del Nord trasformata in una potenza nucleare. Allo stesso tempo però, e in
maniera sempre più consistente, Pechino avverte l’ingombro della presenza militare americana nella regione,
e del ruolo che gli USA giocano nell’impedire alla Cina di poter conseguire un’egemonia sul Pacifico orientale
e sul Mar della Cina.
A mano a mano che una lunga serie di amministrazioni americane hanno accentuato la propria politica di
confronto con Pechino, la Cina ha manifestato una crescente insofferenza verso la nuova assertività
americana. È una partita a scacchi quella tra Washinton e Pechino, in cui entrambe le potenze tentano di
usare la pedina nordcoreana per conseguire anche i propri obiettivi.
Gli USA vogliono dimostrare di essere in grado di tutelare i propri alleati e in tal modo di riaffermare con forza
il proprio ruolo di overseas balancer in Asia orientale, ovvero i soli possibili garanti di un ordine al cui interno
la Cina deve e può trovare il proprio ruolo subordinato.
Allo stesso tempo, un’efficace azione di contenimento della minaccia nordcoreana che avvenisse sotto la
guida americana costruirebbe un motivo di attrazione verso l’orbita di quei paesi dell’area, che sono
preoccupati del crescere della potenza cinese e della sua maggiore assertività: Vietnam e Malesia.
Questo è ciò che Pechino non può accettare→ lo sforzo cinese di questi anni è stato quello di dimostrare di
essere una potenza affidabile, la cui crescita economica, politica e militare non costituisce una minaccia per
nessuno. Fino a un certo punto la presenza americana nella regione è stata funzionale a questo, ora però non
è più così. Se la Cina vuole veder crescere il suo status, il suo ranking internazionale, deve progressivamente
sostituirsi a Washinton nella funzione di leader regionale.
In questo senso, il fallimento americano sul dossier nordcoreano rappresenterebbe un oggettivo successo
per Pechino, a maggior ragione se questo non fosse seguito da un conflitto nella penisola coreana, ma invece
dal buon esito della mediazione cinese, magari con l’aiuto russo.
Ne emergerebbe così un innegabile ridimensionamento del ruolo americano nell’area e della sua stessa
credibilità nel prestare effettiva protezione ai propri alleati, e nell’immediato convincerebbe gli indecisi a
allearsi con Pechino.
Non solo queste due politiche sono tra loro incompatibili, ma sono anche estremamente pericolose: Pechino
non ha nulla da guadagnare da una “vittoria” nordcoreana, ma ne ha molto nel lasciare che il cerino acceso
da Pyongyang bruci le mani americane; ma se l’America reagisse anche solo riportando le proprie testate
nucleari tattiche sotto il 32 parallelo, la prospettiva si uno scacco matto a Washinton si ribalterebbe in quella
di uno scacco nei confronti di Pechino. La Russia gioca la sua partita interessata a sostenere la Cina e pronta
a proporsi come “mediatore”, senz’altro attratta dalla prospettiva di poter infliggere un ulteriore colpo alla
leadership e al prestigio americani.
USA-Russia-Cina:

La divaricazione tra la politica americana e quella russa e cinese apre uno scenario diverso da quello della
guerra fredda.
Fino al 1989, il confronto tra USA e URSS concentrava al suo interno tanto la dimensione politico-ideologica
quanto quella strategico-militare. Per contro, la dimensione economica ne era in gran parte esclusa, perché
i sistemi economici capitalista e collettivista avevano pochi punti di contatto e di interscambio.
Oggi la partita vede impegnati tre giocatori, di cui uno considerato “atteso” e in costante crescita, la Cina, e
gli altri due declinanti, sia pure con modalità diverse e comunque in grado di produrre sussulti in
controtendenza anche molto significativi: l’egemone in ripiegamento strategico, gli USA, e la seconda
superpotenza nucleare del sistema, la Russia.
Non solo, se la Cina è considerata da tutti il rivale degli USA con le carte maggiormente in regola per sfidarne
l’egemonia, occorre anche ricordare che dal punto di vista economico e finanziario, Pechino è ancora sempre
più inserita nel sistema internazionale, oltre a essere il primo detentore di titoli del debito pubblico
americano.
Questo rappresenta un elemento di completa diversità rispetto allo schema della guerra fredda. Certo è che
la Cina, rispetto alla vecchia URSS, ha la chance di proporre un suo “nuovo ordine” al cui interno la struttura
economica finanziaria della globalizzazione potrebbe trovare una collocazione: un ordine internazionale che
perderebbe i suoi caratteri autenticamente e politicamente liberali, preservando invece quelli neoliberali.

C’è però un’altra e diversa suggestione che ci arriva dai tempi della guerra fredda→a cavallo degli anni 70 la
capacità americana di portare la Cina dalla parte degli USA si rivelò cruciale per consentire a un’America in
crisi di recuperare fiato e terreno nei confronti dell’URSS.
Oggi non può che destare preoccupazione assistere a un processo opposto: un’America che sta da molti anni
favorendo un ravvicinamento tra Cina e Russia. Si tratta di uno scenario preoccupante anche per il semplice
fatto che, senza la loro fattiva collaborazione, l’ordine internazionale liberale non ha alcuna possibilità di
essere mantenuto.

In tutto questo spicca l’assenza dell’Europa→ l’introversione europea non è solo preoccupante per il futuro
del progetto politico dell’Unione, ma anche perché fa venir meno il peso di un attore decisivo per il sostegno
convinto e la naturale adesione a quel tipo di ordine. Così facendo, inoltre, priva gli USA di un partner politico,
prima ancora che militare.
Capitolo 4: Il terrorismo, la polverizzazione della minaccia e il disastro mediterraneo

Quello della polverizzazione e privatizzazione della minaccia all’ordine internazionale è un fenomeno


nuovo→ compare su vasta scala nel primo decennio del nuovo secolo e ha assestato il primo duro colpo
all’ordine liberale. Si tratta di un attacco alla sua dimensione securitaria, i cui effetti devastanti sono stati
pienamente compresi solo progressivamente.

La natura terroristica dell’attacco, multiplo e di estrema gravità, portato dalla periferia al centro del sistema
e la condanna sostanzialmente unanime che attirò, sembravano paradossalmente rafforzare la legittimità
dell’egemonia americana.
Eravamo ancora nella fase unipolare del sistema internazionale con l’egemonia americana.
Il rallentamento dell’economia americana e il perdurare di tassi di disoccupazione importanti, avevano
determinato la bocciatura di G. H. Bush alle elezioni del 1992 (fu sorprendente dopo tutto quello che aveva
fatto nei quattro anni precedenti); al suo posto salì Clinton, la cui agenda sarebbe stata dominata dai temi
economici della ripresa e della disoccupazione.
Gli anni di Clinton rappresentarono l’apogeo della potenza americana, in cui niente e nessuno sembrava
poterle arrecare danno.

Gli attentati del 9/11 ruppero la tradizione di invulnerabilità degli USA, essi produssero una genuina ondata
di solidarietà che circondò anche l’esordio della campagna in Afghanistan nel dicembre dello stesso anno.
La guerra del 2003 contro Saddam Hussein consumò rapidamente questo surplus di legittimità guadagnato
con l’11 settembre. L’intervento suscitò critiche molto dure anche da parte di alcuni alleati, Germania e
Francia, aprendo una manifestazione di hybris imperiale, erodendo quella convinzione che aveva portato per
tanto tempo una gran parte dell’opinione pubblica e dei leader politici mondiale a considerare l’egemonia
americana il “male minore”, rispetto alla vittoria dell’URSS o al semplice caos.

L’amministrazione di G. W. Bush cercò di fare del terrorismo di matrice islamista il nemico pubblico dell’intera
civiltà e della War on Terror lo schema di ordinamento del mondo, ma in realtà senza grandi risultati. Il
concetto di terrorismo era infatti troppo vago perché la lotta contro di esso riuscisse a conferire concrete e
durature possibilità di gerarchizzare il nuovo ordine mondiale. Con il 9/11 si era passati dalla pace del terrore
dei tempi della guerra fredda, caratterizzata dall’impossibilità della guerra basata sul concetto di deterrenza,
alla guerra del terrore, nella convinzione che quest’ultima possa essere invece combattuta e vinta.
→ quel terrore, che precedentemente era la base su cui veniva edificata la sola pace possibile, diventava oggi
l’obiettivo che legittima e giustifica la guerra e che fornisce a occidentali, russi e cinesi la nuova cornice
politico-concettuale e la lente interpretativa distorcente della porzione di mondo dalla quale provengono gli
attentati terroristici caratterizzanti il nuovo millennio.
Tutti utilizzeranno la comune lotta al terrorismo di matrice islamista per proseguire i propri interessi, spesso
contrastanti gli uni con gli altri: dal Levante al Golfo, dall’Asia centrale al Nord Africa, dal Corno d’Africa alla
Nigeria, dal Ciad al Niger.

La minaccia terroristica ha inoltre messo in mora la questione della crisi e del superamento del ruolo dello
stato→ lo stato può infatti aver perso molti dei ruoli che aveva progressivamente acquisito durante l’era
moderna, ma ha mantenuto la sua originale ragion d’essere: la protezione dei suoi cittadini da pericoli violenti
dall’interno e dall’esterno dei popoli confini.
In questo senso, il terrorismo ha contribuito a rilegittimare la funzione dello stato e la sua insostituibilità
soprattutto nel campo della sicurezza, che è quello specifico del potere politico.
Solo lo stato gode del monopolio dell’uso legittimo della forza perché le organizzazioni internazionali non
sono dotate di proprie forze militari e contano su quelle degli stati membri, mentre i gruppi subnazionali che
usano le armi lo fanno contro la legge.
Di fronte all’attacco da parte di organizzazioni terroristiche, le società non possono fare altro che rivolgersi
allo stato per averne protezione.
La natura non decisiva dimostrata dalla straordinaria forza militare americana nel chiudere vittoriosamente
le lunghe guerre in Afghanistan e in Iraq e l’indecisione dimostrata nel trovare una via d’uscita dal caos
provocato dagli interventi militari sono tutti fattori che hanno eroso la legittimità dell’ordine internazionale
liberale e messo in discussione la natura benevolente dell’egemonia americana.

Il Mediterraneo ha assunto una nuova centralità nella dinamica della sicurezza occidentale.
Esso tornava a coprire una valenza cruciale, come punto focale sul quale insistevano le dinamiche del Nord
e del Sud dei suoi litorali, ricongiunti e riconnessi dalle conseguenze di fenomeni che li riguardavano
entrambi, a prescindere da dove fossero originati e dalle cause scatenanti immediate.
Si tratta di un’interdipendenza securitaria evidentemente acuita dal collasso di alcuni stati, dalla diffusione
della minaccia terroristica e dalla crescita abnorme del fenomeno delle migrazioni incontrollate.

È su questo scenario che prende forma il ritorno della Russia in queste acque.
Detto in estrema sintesi, ciò che questi fenomeni appena evocati (turbolenza della costa Sud, terrorismo e
ritorno della Russia) mette in scena, è il fatto che il Mediterraneo è nuovamente contenibile.
Nel risorgere della tensione geopolitica con la Russia i fronti della contesa sono due:
- Quello baltico, dove Nato e Russia sono in contatto, e dove ogni azione dell’uno o dell’altro attore
rischia di provocare un’escalation estremamente pericolosa: entrambi sono consapevoli di doversi
muovere con prudenza;
- Il Mediterraneo. Qui le cose stanno diversamente, dove una serie di paesi terzi, che non confinano
per via terrestre né con USA né con la Russia, offrono la chance di un’azione strategica indiretta,
volta a indebolire l’avversario con un gioco di sponde (ad esempio l’accordo Turchia, Russia, Levante).

Immigrazione:

Negli ultimi anni, soprattutto nel dibattito politico e pubblico italiano, il caos mediterraneo ha assunto i
sembianti dell’emergenza profughi, ovvero del ritardo con il quale si è tentato di adottare le misure
necessarie a fornire una cornice legislativa e legale al crescente flusso di persone che si sono riversate nel
Mediterraneo. È un fenomeno che ha messo in luce come troppa della retorica europea di questi decenni
continui a nascondere logiche del tutto particolaristiche→ il fatto che norme europee pensate e scritte in
tempi diverse di fronte a sfide differenti siano state impiegate per rifiutarsi di affrontare insieme una crisi
che riguarda l’Unione→ colpo durissimo alla credibilità della solidarietà europea.

D’altro canto, chi oggi di questa mancanza di solidarietà è vittima, come l’Italia, è altrettanto colpevole di
aver troppo a lungo pensato di poter aggirare accordi insostenibili nel nome di un’emergenza la cui pretesa
imprevedibilità veniva a essere magnificata dai ritardi nell’allestimento di centri accoglienza, identificazione
ed eventuale rimpatri adeguati.

Per quanto ovviamente limitata nella sua capacità di risolvere un problema gigantesco come quello dei flussi
migratori, la legislazione indotta su iniziativa del ministro degli interni del governo Gentiloni teneva almeno
in considerazione una semplice evidenza: a fronte dell’indisponibilità degli altri paesi europei ad assorbire
quote parti dei flussi, l’Italia rischia di diventare una sorta di sentina dell’Unione, un gigantesco e ingestibile
campo profughi. Limitare gli sbarchi, identificare e controllare i nuovi arrivati in attesa che se ne possano
determinare i requisiti per il diritto all’asilo politico, sono invece passi necessari per costringere gli altri paesi
dell’Unione, trattato di Dublino vigente, a fare la propria parte di fronte a una sfida che interpella innanzitutto
il diritto e la politica.
L’efficacia della strategia di controllo dei flussi migratori e di identificazione dei migranti ha dimostrato che
l’’idea che il fenomeno fosse ingestibile era una comoda folla, utile a chi aveva rinunciato a esercitare la
propria funzione politica di governo. Attraverso gli accordi che il governo Gentiloni che ricercato con le
autorità libiche e con i paesi di transito dei migranti, il flusso verso le sponde italiane si è ridotto.
Questo non significa che il problema sia stato risolto in via definitiva, ma attesta tuttavia che uscire dalla
solita logica dell’emergenza è possibile.
Storia del terrorismo e terrorismo in Italia:

Radicalizzazione: processo graduale attraverso cui un individuo abbraccia un sistema valoriale incompatibile
con la società in cui vive, perseguendo così, anche attraverso la violenza, il cambiamento sociale.
Nel percorso di radicalizzazione un individuo vive trasformazioni cognitive che portano a legittimare la
violenza in sé e il suo impiego a fini politici. Se è evidente che la radicalizzazione può essere ispirata e guidata
da qualunque ideologia estremista, è pur vero che oggi l’opinione pubblica italiana converge nel vedere nella
radicalizzazione islamista di matrice jihadista la principale minaccia alla sicurezza.

Occorre fissare alcuni punti storici e terminologici. Islamismo (o islam politico): progetto ideologico-politico
e giuridico basato sulla legge islamica. Esso come fenomeno si colloca tradizionalmente nel XX secolo. I
pionieri dell’islamismo novecentesco saranno due egiziani. Il primo è Hassan al-Banna, ideologo e fondatore
della Fratellanza Musulmana→ organizzazione che verrà repressa dal regime di Gamal Abdel Nasser.
La spietata repressione è paradossalmente il motore dell’odio dottrinario contro un ordine costituito che,
dalle carceri dove si consuma la tortura verso i fratelli musulmani, appare sempre più ingiusto e brutale.
È proprio nelle carceri egiziane che il pensatore Sayyed Qutb, impiccato per mano del regime Nasser,
approfondisce il tema del cambiamento sociale: di fronte a uno stato laico così violento, lui invoca la necessità
di una rivoluzione islamica che rovesci i governi arabi sostenuti dall’occidente.

Per almeno due motivi è opportuno sottolineare come la transizione dell’islamismo politico verso l’adozione
di forme di lotta radicale che contemplino l’uso della violenza sia successiva alla repressione da parte dei
regimi al potere. Innanzitutto, per ricordarci, l’equivalenza tra islamismo e radicalità è impropria. Vale la pena
sottolineare che un programma radicale in sé, se perseguito attraverso mezzi leciti, non può e non deve
essere criminalizzato in una società che si voglia liberale.
In secondo luogo, non dovremmo mai dimenticare che è la natura liberticida, cleptocratica e criminale dei
regimi che governano gran parte delle società dove l’islam è maggioritario ad alimentare l’islamismo radicale.

Il pensiero di Qutb avrà un’influenza rilevatissima su una parte importante del movimento islamista,
ampliatasi dopo la sconfitta del 1967 da parte di Israele e il tramonto del nazionalismo arabo. Una versione
peculiare di islamismo si svilupperà nell’Iran sciita dove, nel 1979, Khomeyni instaura la Repubblica islamica,
la cui rivoluzione è anche ideologicamente nutrita dal pensiero di Ali Shariati→ la sua idea centrale era la
ricostruzione del vero islam, che per lui si identificava con l’islam sciita delle origini, il periodo di ‘Ali. Lui
nell’islam delle origini coglieva anche le implicazioni di giustizia sociale e politica, considerati i suoi ideali di
una società senza classi e pervasa da un’etica rivoluzionaria.
Sarà soprattutto negli anni 80 che la corrente qutbista si meticcierà con il salafismo (movimento ben più
antico)→ il salafismo ha una preferenza a favore della predicazione religiosa piuttosto che dell’azione politica
vera e propria. Tuttavia, dopo l’incontro con il qutbismo, si è progressivamente sviluppata al suo interno una
componente tutt’altro che maggioritaria che ha sviluppato una piattaforma e un’agenda politiche incentrate
sul rovesciamento violento dei regimi cosiddetti “moderati” o “repubblicani”, da cui ha preso forma il
cosiddetto salafismo jihadista, a cui fanno riferimento gruppi come Isis e Al-Qaeda.
(nell’islam esiste una tensione tra testo e interpretazione. I salafiti assegnano al testo un primato assoluto e
questo costituisce la specificità del loro essere “fondamentalisti”. Ciò non implica la necessaria adesione alla
violenza, quello che distingue i salafiti dagli altri movimenti rigoristi sunniti è ritenere che l’accesso al testo
debba avvenire senza mediazioni, saltando quindi il filtro della tradizione scolastica).
Il movimento jihadista è molto variegato e diviso per famiglie interne, e la rivalità tra Isis e Al-Qaeda ne è un
esempio. Esso rappresenta il frutto di una sorta di rivisitazione della tradizione in chiave moderna e Pan
politicista, operata anche attraverso una narrazione egemonica del significato di jihad.
Tra le varie divisioni che lo articolano, va segnalata quella che oppone i sostenitori della lotta al nemico vicino
(i regimi nel mondo arabo e islamico) rispetto a quella rivolta al nemico lontano (l’occidente). Il dibattito si è
poi esteso fino a interessare sia le forme che la galassia jihadista avrebbe dovuto assumere, sia le modalità
di lotta da portesi impiegare, la legittimità di colpire obiettivi tradizionalmente considerati inviolabili (donne
e bambini) e il ruolo dei singoli. Quasi tutti i gruppi terroristici che appartengono all’internazionale jihasita
sono sunniti.
Hezbollah, il partito-milizia sciita libanese, è inserito dagli occidentali nelle organizzazioni terroristiche, non
è così però→ quello libanese è un movimento di resistenza sorto per reagire alle ricorrenti invasioni israeliane
del “paese dei cedri” e per dare rappresentanza politica e sociale agli sciiti del Libano.
Da questo mix di posizioni e principi diversi e contrastanti ha preso forma il modello di jihadismo globale che
fronteggiamo oggi: diffuso, mutevole e dai confini e limiti poco definiti, di cui il sedicente stato islamico ha
rappresentato uno degli esempi di maggior successo.
La sua ideologia ha fatto proseliti sia in paesi dove l’islam è religione maggioritaria, sia in quelli occidentali.

In Italia la radicalizzazione e la comparsa dei primi allarmi legati al jihadismo sono in realtà piuttosto antiche
e rimontano agli anni 90 quando, durante la guerra civile in Bosnia, l’imam della moschea milanese in viale
Jenner rappresentava l’emiro di tutti i foreign fighters impiegati nel conflitto balcanico.
Verso la fine del decennio scorso, però, i servizi di intelligence hanno iniziato a segnalare ricorrentemente
l’eventualità che immigrati di seconda generazione potessero intraprendere la via della violenza jihadista. Le
medesime fonti hanno evidenziato la crescita di una nuova generazione di estremisti islamici sempre meno
collocati all’interno di organizzazioni strutturate, ma che viceversa avevano intrapreso un proprio personale
percorso di avvicinamento al credo jihadista.
Negli anni seguenti, i casi jihadisti e foreign fighters italiani sono stati piuttosto limitati e dai profili molto
variegati. Quelli che hanno colpito di più l’opinione pubblica sono due:
- Il caso di Maria Giulia Sergio, la ragazza campana residente in Brianza che, dopo aver contratto
matrimonio con un jihadista albanese, si era convertita all’islam, seguita anche dalla propria famiglia
di origine, ed era poi fuggita nel territorio del “califfato” dal quale continuava a svolgere opera di
proselitismo a favore dell’Isis.
- Il caso del kick boxer di origine marocchina, Abderrahim Moutaharrik, che si presentava sul ring con
la bandiera dell’Isis e che gli investigatori ritengono fosse in procinto di progettare un attentato sul
suolo italiano.

Per cercare di spiegare il fenomeno sono state avanzate diverse teorie:


• Alcune si concentrano sui fattori strutturali, come tensioni politiche e conflitti culturali a livello
interno e internazionale.
• Altre insistono maggiormente su fattori psicologici e personali, legati anche all’età sempre più
giovane, adolescenziale, in cui avviene il processo di radicalizzazione.
• Alcune teorie sono state formulate specificatamente per spiegare la radicalizzazione dei musulmani
europei ed enfatizzano elementi quali la ricerca di identità, la discriminazione o la situazione di
relativo disagio economico.
• Inoltre, la tesi sostenuta da Oliver Roy, parla di “islamizzazione della radicalità”, ovvero del fatto che
quella dell’islamismo violento rappresenta oggi la principale offerta che incontra la domanda di
protesta radicale, frutto del disagio soprattutto giovanile. In particolare, seconde e terze generazioni
di migranti sperimenterebbero una “doppia assenza”: una situazione dove non si è né stranieri né
cittadini e che genera quindi un vuoto identitario, il quale viene riempito dal jihadismo, proprio per
la sua capacità di offrire punti fermi all’indeterminatezza dell’esistenza.

Se guardiamo il numero di arresti di foreign fighters italiani o di arresti operati sul nostro territorio, troviamo
evidenza della dimensione fin qui ridotta del fenomeno in Italia: secondo i fati del ministero dell’interno, tra
il 1° gennaio e il 25 ottobre 2016 si sono avuti 34 arresti e 57 espulsioni; numero decisamente inferiore
rispetto alla Francia o alla Germania.
Per spiegare l’anomalia italiana sono state avanzate diverse ipotesi, raggruppabili in due filoni: quello
demografico-sociologico e quello legato alla risposta del nostro apparato antiterroristico.
- Riguardo al primo, le spiegazioni partono dal rilevare la più recente storia dell’immigrazione in Italia,
in forza della quale le seconde e le terze generazioni, le più vulnerabili alla propaganda jihadista, sono
scarse.
In Italia sono anche decisamente più eterogenee rispetto a quelle in Francia, magrebine, o in
Germania, turche.
In Italia, inoltre, non esistono quartieri ghetto a maggioranza islamica, lo scenario italiano vede la
forte presenza di organizzazioni musulmane di impronta nazionale e governativa, esse stesse per
prime impiegate nella mobilitazione antiradicale.

- Il secondo ordine di spiegazioni è incentrato sull’efficacia dell’azione dell’intelligence da parte dei


nostri servizi. A loro favore giocano sia la lunga esperienza antiterrorismo maturata nel corso dei
decenni, sia la consuetudine nella lotta alle organizzazioni mafiose.
La legislatura italiana proprio per essersi dovuta confrontare a lungo con il terrorismo nostrano e con
le diverse mafie offre strumenti più duttili di quelli a disposizione per scopi analoghi altrove.

Il quadro italiano, per molto tempo rassicurante, potrebbe non essere più così: se predicatori estremisti
dovessero scegliere il nostro paese come target della loro azione la situazione potrebbe dare preoccupazioni,
soprattutto ora che le seconde generazioni sono nella fase dell’adolescenza e quindi vulnerabili alla
radicalizzazione.
Capitolo 5: La deriva degli USA da Obama a Trump: da egemone riluttante a potenza revisionista

La crisi del 2007-2008 partita nel biennio conclusivo della presidenza di G. W. Bush ha evidenziato l’incapacità
dell’egemone di tenere in ordine i rapporti tra l’economia finanziaria, il “turbocapitalismo” e l’equilibrio
politico sociale. Essa ha fatto emergere un’incredibile incapacità di governare l’economia capitalista persino
nella dimensione interna americana, che hanno nuovamente, come nel 1929, esportato verso l’intero
sistema dell’economia globale il proprio disordine.

Quella americana si è presentata come una crisi scaturita dall’eccesso di debito privato e dall’insolvenza che
derivava a fronte del credito troppo facilmente concesso a chi non ne aveva evidentemente i titoli.
Quella europea, appena successiva, ha assunto le vesti di una crisi del debito pubblico. Comune a entrambe
è stata la necessità di alimentare i consumi attraverso l’indebitamento: privato e legato ai muti ipotecari nella
tradizione americana, pubblico e legato alla spesa pubblica nella consuetudine europea. La crisi è stata
devastante all’interno dell’occidente da aver smascherato come negli anni doro della globalizzazione abbiano
prodotto un’inaccettabile polarizzazione della ricchezza, a svantaggio dei ceti medi impoveriti.

Quella a cui stiamo assistendo appare essere una vera e propria mutazione genetica del capitalismo, iniziata
negli anni 90, quando in pieno nuovo boom economico il sistema produttivo ha subito un profondo
cambiamento caratterizzato dall’innovazione tecnologica.
La scelta di questa via ha comportato una crescente necessità di capitale per alimentare l’innovazione,
mentre quest’ultima ha finito per distruggere molti più posti di lavoro ben pagati di quanti non sia riuscita a
crearne di nuovi.
In assenza di provvedimenti politici corretti, l’innovazione tecnologica, in sé e per sé positiva, ha generato
profitti crescenti che sono stati utilizzati nella quasi totalità per remunerare il capitale investito, piuttosto
che il lavoro impiegato.

L’impatto di lungo periodo della robotizzazione e digitalizzazione sul mercato del lavoro è tutt’altro che
chiaro, anche gli esperti si dividono tra ottimisti e pessimisti:
- Per gli ottimisti, si produrrà un effetto analogo a quello della rivoluzione industriale e delle rivoluzioni
meccaniche dei secoli scorsi, con un ricollocamento della manodopera in settori più produttivi e con
salari alla fine più alti;
- Per i pessimisti, si ripeterà il sentiero fin qui tutt’altro che virtuoso sperimentato con l’ultima
rivoluzione informatica. Secondo una ricerca, entro il 2025 la digitalizzazione rimpiazzerà negli USA
il 16% dei lavoratori umani con robot.

Il problema, quindi, di una jobless growth, di una crescita economica che strutturalmente non crea posti di
lavoro, si pone in maniera drammatica→ si tratterebbe della possibilità di sostituire fino al 49% delle attività
lavorative retribuite con tecnologie già al momento testate, con una distruzione di 1,1 miliardi di posti di
lavoro, per un monte di salari complessivo pari a 16 miliardi di dollari.
E considerando che le persone non possono essere “rottamate”, si pone la questione di come assicurare il
sostentamento e una piena vita alla crescente porzione di umanità che non avrà un lavoro.

La nuova economia finanziaria ha finito così con l’essere caratterizzata da due sindromi: una bulimia di
capitale, sempre insufficiente, sempre scarso, da strappare ai competitori a suon di tassi di remunerazione i
più alti possibili; e una vera e propria anoressia di lavoro, sempre in esubero, sempre troppo oneroso, da
espellere e da sostituire a costi decrescenti.
In una simile situazione, la sola alternativa che si è pensato di poter mettere in campo per consentire la quiete
sociale, è stata quella del mantenimento dello standard di consumi attraverso due vie:

1. L’abbassamento dei prezzi di una serie di beni e servizi;


2. Il loro sostegno attraverso l’indebitamento privato (via americana) o pubblico (via europea), con le
conseguenze devastanti evidenziate nella fase attuale della crisi tutt’ora in corso.
È un fenomeno che potremmo definire di rentierizzazione del sistema capitalistico, in cui gli investimenti
finanziari sono remunerati assai più di quelli produttivi→ quando il tasso di rendimento privato dal capitale
è per lungo tempo molto superiore al tasso di crescita del reddito e della produzione, il sistema economico
viene destabilizzato e le diseguaglianze crescono minacciando inevitabilmente le società democratiche e i
valori sui quali si fondano. (l’imprenditore tende inevitabilmente a trasformarsi in rentier, e a prevaricare
sempre di più su chi non possiede nient’altro che il proprio lavoro.

Donald Trump:

È su questo scenario che si innesca il trionfo elettorale della proposta di Trump, il quale ha vinto grazie alla
promessa di provare a destrutturare, dal suo stesso interno, l’ordine internazionale liberale, a partire
dall’impegno di riportare posti di lavoro, produzioni e profitti agli USA. Che si tratti di una proposta velleitaria
e dai tratti contraddittori non c’è dubbio, però rispetto alla sua rivale Hillary Clinton, agli occhi di chi ha votato
Trump, lui aveva almeno il merito di non ostinarsi a negare il problema degli squilibri prodotti da una
globalizzazione economica e finanziaria malgovernata, lasciata alla mercé dei più ricchi. È questo che spiega
come mai un candidato sicuramente meno “presentabile” e dotato di meno finanziamenti come Trump,
abbia potuto sconfiggere una rivale ben più quotata, esperta e con le amicizie giuste.

L’America di Trump si propone come una potenza revisionista del sistema: un ruolo inedito, mai giocato dalla
potenza egemone. Quello che risulta più problematico nella sua azione, è il fatto che Trump da l’impressione
di voler scaricare verso l’esterno le contraddizioni reali esistenti nel rapporto tra democrazia, politica e
capitalismo finanziario, e non di provare a disinnescarle. La minaccia di imporre dazi o limitazioni alle
importazioni di prodotti da paesi come Messico, Germania o Cina, potrebbe effettivamente dar luogo a una
serie di pericolose ritorsioni, capaci di produrre un rallentamento della ripresa economica. In particolare, il
carattere unilaterale dell’azione americana e i toni polemici e persino aggressivi con cui è proposta,
impediscono di poter anche solo concepire una strategia coordinata tra paesi emici e alleati, volta alla riforma
ordinata e complessiva del sistema, che invece potrebbe raggiungere un risultato di ben altra portata.

È ormai sotto gli occhi di tutti che turbocapitalismo e iperglobalizzazione finanziaria abbiano rotto
deliberatamente quella alleanza tra democrazia e mercato. Una reazione che si proponesse seriamente di
porre un freno alla deriva sempre più oligarchica assunta del capitalismo dovrebbe partire proprio dal centro
del sistema, USA e EU, attraverso una revisione concordata, attenta e controllata delle norme che (non)
regolano l’economia globalizzata. Non si tratta di ripristinare il protezionismo, ma di procedere insieme verso
un’economia meno fuori controllo, più conscia del suo carattere strumentale rispetto al benessere e alla
“ricerca della felicità”, più al servizio dell’uomo e meno asservente l’uomo. Se abbiamo così paura che le
misure sbagliate e unilaterali di Trump rischino di danneggiare l’economia globalizzata, proviamo a riflettere
su quale effetto positivo potrebbero avere misure giuste e multilaterali assunte da quei paesi, come i nostri,
in cui la cultura politica dominante e più diffusa ancora ritiene che la democrazia e il libero mercato debbano
cercare un equilibrio, che siano entrambi due valori, in un gioco che può e deve tornare a essere a somma
positiva.

Che cosa stia producendo sul versante politico l’assenza di una simile consapevolezza è: la plutocratizzazione
della democrazia negli USA, e la diffusione dei movimenti populisti che in EU assumono sovente le forme
dell’innatismo. Si tratta di due modi diversi di affrontare il problema dello scambio tra globalizzazione e
democrazia→ negli USA questo è successo attraverso la deriva plutocratica degli ultimi decenni che ha
tentato di mantenere il fenomeno della globalizzazione, pur ignorando le opinioni e i desideri di chi si trova
in fondo o anche nel mezzo della distribuzione del reddito nazionale.
Mentre nel caso del populismo, l’esposizione alla globalizzazione viene ridotta nei vari paesi ostacolando
l’immigrazione e tendando di proteggersi da flussi liberi di capitali e scambi commerciali, ridefinendo anche
la cittadinanza e i diritti di cittadinanza.
Per cui, estremizzando→ mentre la plutocrazia cerca di mantenere la globalizzazione sacrificando elementi
fondamentali della democrazia, il populismo cerca di preservare un simulacro di democrazia riducendo però
l’esposizione alla globalizzazione.
La contestazione da parte dell’amministrazione americana di Trump della vitalità e rilevanza di istituzioni
centrali per la difesa della dimensione politica liberale dell’ordine mondiale, come ONU e NATO, è in realtà
la conseguenza di una strategia di attacco alla globalizzazione che, invece di provare a rimediarne i guasti, si
limita a scaricarne i costi verso l’estero (in generale all’Unione Europea).
In questa sorta di impossibile sogno neoisolazionista, antistorico e non perseguibile, non esistono alleati o
rivali, ma solo stranieri (aliens). Si tratta di una semplificazione che porta, ad esempio, a valutare le alleanze,
la loro utilità e importanza in meri termini contabili→ ma le alleanze non si stipulano per arricchirsi, e
neppure per risparmiare, ma per rendere il proprio paese più forte grazie a una rete di relazioni politiche e
militari istituzionalizzate che diventano cruciali nel momento del bisogno (come è successo dopo 9/11,
quando furono i paesi europei a offrire il loro aiuto agli americani invocando l’articolo 5 del Trattato
dell’Atlantico del Nord, ma questa offerta venne rifiutata da Washinton pensando di poter fare meglio da
solo).
→ l’esteso network di alleanze americane, di cui la Nato rappresenta la parte più istituzionalizzata e rilevante
politicamente e militarmente, è la base su cui si fondano tanto l’egemonia statunitense quanto la stabilità
dell’ordine internazionale liberale.

Come la lunga stagione della guerra fredda ci ha dimostrato, la pace egemonica e la pace di equilibrio possono
convivere.
Con un’inversione rispetto a quanto avveniva fino al 1989, però, la stabilità internazionale contemporanea
ha poggiato finora sull’egemonia statunitense, mentre quella regionale è risieduta nell’equilibrio, ovvero
nella capacità di contenere gli sforzi delle potenze revisioniste di modificare l’equilibrio complessivo del
sistema, attraverso una strategia incrementale, fatta di sfide portate in periferia rispetto al centro del potere
americano.
In un recente lavoro di Grygel e Mitchell, si sostiene come sia soprattutto nelle zone di Rimlands (Spykman)
che, in caso di tensioni regionali, il ruolo degli alleati americani si rivelerebbe cruciale, perché sarebbero i
primi ad avere la possibilità di opporsi alle potenze sfidanti e mantenere l’equilibrio del sistema.
Se vuole continuare a massimizzare la tenuta dello status quo e minimizzare i costi, l’egemonia americana
deve configurarsi come quella che Snidal aveva definito “leadership benevolente”, in grado di rappresentare
una credibile deterrenza contro le minacce, di distribuire in modo equo i dividendi di potere tra alleati e di
favorire così la compartecipazione al mantenimento dell’equilibrio. Questo è l’opposto di quello che ha fatto
la politica di Trump, mossa unicamente dal perseguimento del proprio tornaconto.

Negli ultimi anni, Russia e Cina hanno intrapreso un percorso di rafforzamento militare e di iperattività in
politica estera, tramite la pratica del probing: la politica di portare sfide limitate e periferiche nei confronti
degli USA per verificarne la volontà e la credibilità di reazione e per minarne il prestigio.
Contemporaneamente, a partire dalla presidenza di G. W. Bush ma soprattutto con Obama, gli USA hanno
concentrato sempre più risorse a supporto della vacillante economia domestica, sacrificando le risorse
dedicate alla politica internazionale: questo ha contribuito a diffondere la crescente percezione che
l’egemonia statunitense fosse in fase di concentrazione. Come di conseguenza di ciò, se da una parte Cina e
Russia hanno rafforzato le proprie ambizioni, dall’altra si è indebolita la fiducia degli alleati negli USA, con il
rischio di compromettere la promessa americana di una deterrenza estesa; quindi, capace di garantire la
stabilità anche delle aree periferiche rispetto alle tradizionali alleanze strutturate.

Se guardiamo alle scelte prese da Trump, rispetto a Obama, sembra emergere la tentazione verso una grand
strategy americana basata sull’isolazionismo e sul navalismo mahaniano→ un’illusione pericolosa, se solo si
considera, guardando la storia delle potenze europee, come non basti solo una forte flotta per controllare il
sistema politico internazionale, ma è decisiva la collaborazione terra-mare, ottenibile tramite le alleanze.
Del resto, gli stati piccoli e periferici che vedono in maggior pericolo la loro esistenza non possono che seguire
il proprio interesse→ sono disponibili ad abbandonare costose e rischiose politiche di bilanciamento nei
confronti di potenze emergenti, se ritengono che i vantaggi della lealtà verso l’ordine liberale e verso gli
americani siano inferiori rispetto a quelli delle potenze sfidanti (Russia e Cina). Se gli USA, quindi, allentassero
ancora di più il legame con gli alleati, soprattutto con quelli periferici, questi potrebbero sentirsi più esposti
alle minacce e dunque ritenere più vantaggioso cambiare schieramento. L’effetto sarebbe quello di
provocare un’accelerazione nella crisi del sistema d’ordine incentrato sugli USA.

Fino ad ora l’amministrazione di Trump è sembrata oscillare tra due opposte tentazioni:
1. Ricercare grandi accordi con i rivali anche a scapito degli alleati: una soluzione rischiosa soprattutto
quando si ha come sfidanti la Russia che desidera un cambiamento post-guerra fredda. Questo è
molto rischioso anche perché gli alleati potrebbero, nel peggiore dei casi, dubitare della volontà
americana di proteggerli;
2. Ritirarsi nel Nordamerica e condurre una strategia di offshore balance, alleviando la pressione
geopolitica e risparmiando risorse. In questo modo si sposterebbe il focus dell’impegno dagli alleati
ai rivali, lasciando così l’onere della gestione dei problemi regionali agli alleati.
Il beneficio in questa situazione sarebbe solo temporaneo, perché gli USA non potrebbero più
contare sulle basi aeronavali degli alleati ma solo sui propri territori.

Il rigetto del multilateralismo esprime con chiarezza l’idea di Trump di un’America “libera da vincoli”, e si
traduce nella convinzione che accordi e alleanze vadano rinegoziati, cercando di strappare ogni volta
l’accordo migliore per gli interessi immediati americani, come lo slogan “America first” ben chiarisce.
Un secondo slogan della campagna elettorale di Trump è “Make America great again”, esso racchiude non
solo un ovvio richiamo alla grandezza nazionale, ma svela l’impossibilità dell’America di Trump a continuare
a sostenere i costi di mantenimento dell’ordine e delle sue istituzioni multilaterali→ si tratta di un presidente
diffidente rispetto alla tradizionale politica di apertura dei mercati internazionali.
Dato che l’ordine internazionale liberale è stato profondamente indebolito negli ultimi anni da avvenimenti
interni ed esterni (Russia, Cina, crisi in USA e EU), l’avvento di Trump introduce l’incertezza sulla volontà da
parte degli USA di continuare ad assumersi la responsabilità di leadership internazionale.

L’attenzione portata sul dossier coreano, ad esempio, ha sicuramente rappresentato un passo nella giusta
direzione.
Il programma nucleare della Corea del Nord rappresenta una minaccia alla pace mondiale, e sono giuste le
critiche mosse a Obama per i suoi fallimentari tentativi.
In questo senso, è evidente che una soluzione diplomatica non è una panacea, ovvero resta in campo
semplicemente perché, mentre è inaccettabile che il regime di Kim possa continuare impunito nella sua
violazione del trattato di non proliferazione, le altre ipotesi sul terreno sono irrealistiche (non esistono
presupposti per un regime change) o estremamente pericolose e incerte nell’esito.
Persino se la Corea del Nord dovesse reagire a un’incursione contro le sue basi missilistiche e i suoi impianti
nucleari “solo” in maniera convenzionale, essa lascerebbe Washinton nell’imbarazzo di come reagire per non
far sì che il proprio alleato del Sud, a magari anche il Giappone, non patisca danni consistenti.
In questo senso, la ricerca di una soluzione diplomatica non ha alternative. Ma per riuscire a coinvolgere
Pechino nella ricerca di una soluzione accettabile, è fondamentale dismettere i toni troppo accesi e
ondivaghi.
Non ha nessuna utilità l’esibizionismo muscolare dimostrato dal presidente nell’assemblea generale
dell’ONU il settembre scorso, dove aveva ammonito il dittatore nordcoreano che la Corea del Nord sarebbe
stata distrutta se avesse osato scatenare un attacco agli USA o ai suoi alleati.
Ciò che ha lasciato più interdetti è stato l’accostamento della Corea del Nord, un paese che si rifiuta di trattare
sul tema del disarmo nucleare, all’Iran, un paese che invece ha stretto un accordo con la comunità
internazionale per la verifica della natura esclusivamente civile del suo programma nucleare. Sicuramente
uno strike contro l’Iran che non ha nemmeno la bomba appare più allettante che uno scontro con la Corea
del Nord.

Alla luce di queste prese di posizione e degli inquietanti tanti scenari che esse aprono, occorre sottolineare
che se c’è un problema più complessivo nella politica estera di Trump rispetto alla tutela dell’ordine
internazionale liberale, esso deriva dalla domanda che una volta veniva rivolta alla Cina: quanto gli USA si
ritengono un credibile stakeholder di quest’ordine che li ha così a lungo serviti e che essi stessi hanno
fondato?
Gli atteggiamenti revisionisti dell’amministrazione minano le fondamenta della sua credibilità, inducono gli
alleati e i partner a ritenere che il perseguimento degli interessi nazionali americani possa avvenire anche a
spese e a detrimento della loro sicurezza, benessere e diritti.
Questo riduce ulteriormente la capacità degli USA di esercitare il loro soft power, e incoraggia i tanti al-Sisi o
Erdogan a preservare con ancora maggior forza nella direzione della repressione e dell’abuso del potere, certi
dell’impunità se non dell’incoraggiamento americano→ uno simile scenario non è negli interessi degli USA,
oltre a non servire gli ideali di un ordine liberale.

Anche rispetto alla Russia le cose non sono andate come si poteva dedurre dalla campagna elettorale: si
pensi all’apprezzamento iniziale manifestato da Trump per Putin, che poi a conseguenza di diversi eventi,
come il Russiagate, si è compromesso il loro rapporto; tanto che il presidente americano ha dovuto
riconoscere che le relazioni tra i due paesi erano giunte “al punto più basso di sempre” dalla fine della guerra
fredda.

È importante riconoscere che in particolare l’attacco condotto in Siria rappresenta un’anomalia rispetto allo
scetticismo sempre dimostrato dal presidente degli USA, leader del mondo libero.
Ancora prima di essere eletto, Trump aveva detto che era a favore dell’uso della forza armata solo nel caso
in cui gli interessi vitali americani fossero stati minacciati→ è evidente che però l’attacco in Siria è stato
condotto in risposta a un crimine contro l’umanità che non minacciava direttamente la sicurezza americana.
Dopo l’intervento, il segretario di stato ha dichiarato la necessità che gli USA debbano agire in nome della
comunità internazionale per punire le violazioni al bando dell’impiego di armi chimiche, un principio stabilito
dalle norme internazionali.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’isolazionismo di Trump non trova applicazione in Medio
Oriente, dove lui si è impegnato a sconfiggere l’Isis molto di più di quanto abbia fatto Obama. Washinton è
ora più coinvolta nel contrastare l’espansione iraniana nella regione, pattugliando gli accessi al canale di Suez
e prestando maggiore assistenza alla coalizzazione dell’Arabia Saudita in Yemen.
Specificatamente nella penisola arabica, la politica trumpiana ha contribuito a surriscaldare un clima già
rovente→ anche in seguito alla visita di Trump nel 2017 in Arabia Saudita, interpretata come una vera e
propria conferma alla cambiale in bianco della politica estera saudita, Riad si è sentita autorizzata a portare
un affondo nei confronti del Qatar, rompendo le relazioni diplomatiche con Doha, Bahrein, Emirati Arabi ed
Egitto.
Questo sviluppo delle relazioni intra-penisulari non deve essere stato del tutto previsto né totalmente gradito
dagli americani, che hanno in Qatar delle installazioni militari, che unite a quelle navali collegati un Bahrein,
sono dei punti nodali di CENTCOM (il comando centrale delle forze armate americane che va dal Medio
Oriente all’Afghanistan).

Ancor prima del viaggio in Arabia Saudita di Trump, il segretario della difesa statunitense Mattis era volato a
Doha nel 2017 per incontrare l’emiro Tamim bin Hamad al Thani, allo scopo di ottenre un cambiamento nella
politica estera dell’emirato. I risultati non sono stati brillanti, considerando anche che la politica di appoggio
alla Fratellanza e i buoni rapporti con la Repubblica islamica dell’Iran fa parte di una strategia messa in atto
dal Qatar per guadagnare influenza presso governi amici, anche in EU, e liberarsi dell’invadente presenza e
pressione saudita.

Da parte saudita, le crescenti manifestazioni di indipendenza qatarine sono malsopportate. I sauditi, dal
canto loro, sono alle prese con problemi al loro interno→ un movimento di opposizione organizzato,
“movimento 21 aprile”, che chiede l’istituzione si una monarchia costituzionale: potere decisionale del
sovrano bilanciato da un parlamento democraticamente eletto e nel rispetto della piena parità di genere→
si tratta di qualcosa di nuovo.
La monarchia appare sempre più divisa al suo interno, anche per le declinanti condizioni di salute di re
Salman, ma ha percepito la gravità del pericolo di una rivolta diffusa, decidendo, quindi, di reintrodurre
immediatamente tutti i benefici finanziari di cui godono i cittadini sauditi, tagliati a seguito della possibile
vera e propria bancarotta dello stato.
Le vendite di quote dell’Aramco (compagnia petrolifera nazionale) sui mercati internazionali, scelta obbligata
per ottenere le risorse necessarie a ripianare gli spaventosi buchi del bilancio pubblico, sono state oggetto di
forte contestazione interna nei confronti di Saud, accusati di svendere le ricchezze nazionali.
L’Arabia Saudita, che nel 2015 aveva il terzo budget militare del mondo, è in un anno scesa al quarto posto.
Proprio per cercare di far risalire il prezzo del greggio, nel 2017 il re Salman dell’Arabia Saudita si è recato in
Russia, primo della sua dinastia, per un incontro con Putin, nuovo fondamentale player della regione.
Ma a scuotere l’Arabia Saudita è soprattutto il terremoto politico scatenato dalla sempre più irresistibile
ascesa di Mohammed bin Salman, che nell’ambito di una pretesa operazione anticorruzione, ha decretato
l’arresto di 11 principi e 38 ex ministri del regno. La sensazione è che quello presentato come un blitz
anticorruzione sia in realtà un “golpe bianco”, realizzato per spianare la strada verso il trono del giovane,
eliminando tutti quelli che ne potevano intralciare il cammino.
Per costruire una sua legittimazione politica via la trono, MbS ha puntato tutto sulla Saudi Vision 2030→
piano molto ambizioso che prevede per quella data lo sganciamento del paese dalle risorse energetiche e
una decisa diversificazione economica con cospicui investimenti finanziari e la vendita di quote dell’Aramco
attraverso la sua quotazione in borsa. Lui parrebbe anche intenzionato a ridurre l’invadenza della gerarchia
wahhabita, da sempre legata a filo doppio dalla monarchia, la cui influenza sarebbe però aumentata a partire
dal 1979. Tornare al 1979 significa ricostruire per lo meno la narrazione dell’Arabia Saudita come un paese
islamico moderato, e non come la fucina delle principali organizzazioni terroristiche di matrice islamica e, più
in generale, del radicalismo più oscurantista.
Quest’ultimo passaggio costituisce un tassello fondamentale per accreditare il nuovo profitto che MbS vuole
dare al regno, in preparazione della lotta senza quartiere che intende condurre in Iran, accusato di essere lo
sponsor internazionale del terrore.
L’escalation nella virulenza degli attacchi, per ora solo verbali, dai sauditi verso l’Iran e il movimento politico-
militare sciita degli Hezbollah libanese è impressionante. E la sensazione è che Riad stia valutando di aprire
un nuovo fronte con Teheran proprio in Libano, dopo la sconfitta in Siria e la situazione in Yemen.

Il 4 novembre scorso le dimissioni de parte del premier libanese, Saad Hariri, hanno rappresentato un
pessimo segnale per il Libano. Hariri ha motivato il suo gesto con la soffocante ingerenza iraniana in Libano
di cui Hezbollah sarebbe lo strumento.
Nel successivo incalzare di dichiarazioni, le autorità saudite invitavano i propri cittadini a lasciare il Libano,
imitate da quelle di Bahrein e Kuwait.
Il 5 dicembre Hariri ritirava le sue dimissioni, anche a forza del presidente libanese Aoun.
L’apertura del fronte libanese potrebbe avvenire in maniera “coperta”, attraveso il finanziamento di una
campagna di attentati terroristici. Ma potrebbe anche essere possibile un’opzione militare affidata a Israele,
dove una parte della classe politica e militare vedrebbe di buon occhio una “guerra preventiva” contro
Hezbollah. Una dichiarazione da parte del capo di stato maggiore israeliano, Eisenkot, ha parlato di “un’intesa
totale tra Israele e Arabia Saudita quando si parla dell’asse iraniano e delle due mezze lune sciite” (Siria e
Libano, Bahrein e Yemen che minaccerebbero la pace regionale).
I diplomatici israeliani invitano a “sottolineare che le dimissioni di Hariri dimostrano quanto Hezbollah e l’Iran
siano pericolosi per la sicurezza del Libano”, e si chiede di esercitare la massima pressione sui funzionari dei
paesi ospiti affichè chiedano l’espulsione di Hezbollah dal governo libanese e di sostenere la guerra saudita
in Yemen.

Certo è che anche per l’America di Trump, l’Iran e Hezbollah rappresentano la prima minaccia regionale, per
contrastare la quale Washinton appare persino disponibile a stracciare accordi internazionali faticosamente
raggiunti. Si tratta di una strategia pericolosa perché gli USA potrebbero finire con il restare incatenati e
trascinati in un conflitto per gli interessi dei loro alleati regionali più che per i loro. Da ultimo, Trump ha
annunciato la sua strategia per l’Afghanistan, riconfermando l’impegno americano di sostenere il governo di
Kabul nella lotta contro i talebani→ l’opinione pubblica è però contro il nuovo invio di truppe in un teatro
bellico che rischia di rimanere aperto a tempo indefinito.
Il rischio che un presidente che voleva ridurre il prezzo e il livello dell’impegno militare americano all’estero
e in generale il peso del containment americano rispetto all’ordine internazionale liberale, si trovi coinvolto
in una serie di guerre, Afghanistan, Siria, Iraq, Corea, è tutt’altro che da sotto valutare.
Persino nei confronti della Cina, verso la quale Trump si era mostrato particolarmente risoluto se non
aggressivo, promettendo che avrebbe dato istruzioni al segretario del Tesoro per classificarla come
manipolatrice di valuta, i fatti sono andati diversamente. La one China policy è stata riaffermata nel 2017 e
le accuse di manipolare la valuta sono state ritirate in nome di un’alleanza per risolvere la questione
nordcoreana.

Alcune delle promesse fatte in campagna elettorale sono state rispettate: la firma dell’ordine esecutivo per
ritirare gli USA dal Trans-Pacific Partnership, accordo commerciale di libero scambio che avrebbe unito i paesi
delle due sponde del pacifico.
Un ulteriore e grave passo indietro degli USA è avvenuto sul fronte del cambiamento climatico: ritiro degli
USA dall’Accordo di Parigi per volerlo rinegoziare.

La “pericolosità sociale” si Trump è caratterizzata anche da un cinismo riprovevole e da un’assenza di scrupoli


imbarazzante: come quando ha annunciato di voler spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a
Gerusalemme, il che causò l’ira dei musulmani di tutto il mondo e la spaccatura in sede ONU.
Capitolo 6: La scomparsa del popolo: l’occidente stretto tra il populismo identitario e sovranista
e l’oligarchia apolide e tecnocratica

Dal punto di vista interno, come conseguenza della direzione presa dall’economia di mercato nel corso degli
ultimi 30 anni, tutte le società occidentali risultano afflitte dalla contrapposizione tra forme di populismo
identitario e sovranista e tendenze oligarchiche e tecnocratiche, caratterizzate, in maniera più o meno
accentuata, dalla svalutazione effettiva del vincolo della cittadinanza.
Ci sono diverse idee su cosa fare della cittadinanza→ chi vuole restringere a un recinto identitario
strettamente ereditario, che lo fa per non doverla spartire con i nuovi venuti, immigrati, profughi o
clandestini; chi invece ne postula un allargamento a chiunque si trovi a vivere in un determinato territorio o
vi arrivi.
Il paradosso è che anche i vecchi e i nuovi cittadini sembrano spesso incapaci di uscire da questa logica
dimessa, che fa della più grande conquista della democrazia liberale (la cittadinanza) poco più di una mera
social card, possedendo la quale diventa possibile accedere a un universo di prestazioni sociali e politiche.
Così, troppo spesso, il dibattito circa la ridefinizione della cittadinanza e delle modalità della sua acquisizione
si perde in retoriche e magniloquenti perorazioni di principi astratti da parte di chi sembra aver fretta di
sbarazzarsi del trascinamento delle tradizioni e dell’indiscutibile sinergia tra cittadinanza e nazione, e di chi
si risveglia custode di un nazionalismo ottocentesco dai costumi poco liberali. Altre volte, la polemica assume
i sembianti della pretesa convenienza o sconvenienza economica dei neocittadini per il sistema pensionistico,
il mercato del lavoro, l’equilibrio demografico…
Non può sfuggire che il dibattito sulle nuove regole che dovrebbero definire le modalità di acquisizione della
cittadinanza nazionale, stabilire quindi chi è dentro e chi è fuori e le modalità di come entrare, è associato a
un’effettiva svalutazione della cittadinanza e ad una scomparsa del popolo dalla centralità dell’orizzonte
politico concreto e teorico.

Nadia Urbinati introduce l’efficace immagine della “democrazia sfigurata”, affrontando da un punto di vista
filosofico il tema della “qualità della democrazia”.
Lei vede la democrazia rappresentativa minacciata da tre deformazioni che la rendono irriconoscibile,
alterandone la “diarchia tra opinione e volontà”.
- La prima è una concezione epistemica della democrazia, una sorta di platonismo democratico, che si
illude di trasformare un oggetto di conoscenza ciò che è invece oggetto di valutazione→ si tratta di
un vero e proprio tentativo di depoliticizzare la democrazia, allargandone il campo a sfavore delle
valutazioni propriamente politiche;
- La seconda, il populismo, è una concezione che vorrebbe che l’opinione venisse semplicemente e
sistematicamente trasformata in decisione, raffigurando tutto il popolo come un insieme unitario di
valori, identità e storia, tanto immutabile quanto immaginario;
- La terza, la concezione plebiscitaria della democrazia, mentre riconosce la distinzione tra opinione e
deliberazione vuole tenere i due ambiti artificiosamente separati, collegati solo ed esclusivamente
attraverso il momento elettorale, occupando l’intero spazio del dibattito mediatico con
l’identificazione con il leader, e la contemplazione della sua figura, delle sue performance e delle sue
esternazioni.

Anche Branko Milanovic, osservando la realtà americana, dove il sostegno finanziario di società e individui
ricchi è ormai indispensabile per il successo politico, sottolinea che, in concomitanza con il continuo
indebolimento del ceto medio, il sistema sta cominciando sempre di più ad assomigliare a una plutocrazia,
ad una dittatura delle classi possidenti.
Tutto ciò è semplicemente uno dei frutti della deriva della democrazia alla “post-democrazia”. Quest’ultima
la si può definire e idealizzare in modi molto diversi, ma nella sostanza ha coinciso con l’allontanamento delle
masse dalla politica e con l’ascesa di oligarchie sempre più coese→ in questo modo le élite tendono a saldarsi
e a far convergere i propri interessi in quello più complessivo della conservazione delle posizioni raggiunte,
provvedendo a istituire nuove enclosures, così da precludere agli altri le vie di accesso alle proprie posizioni
di potere e privilegio.
Questo slittamento è tanto più facile quanto più le élite economiche sono riuscite a imporre la propria logica,
i propri valori e i propri interessi come egemonici, acquisendo un potere di agenda setting ormai
incontrastato.

Sono state le decisioni politiche adottate a partire dalla seconda metà degli anni 80 a sbilanciare l’equilibrio
tra l’ambito politico ed economico, tra il mercato e la democrazia, consentendo ai vincitori della
competizione economica di trasferire tutto il peso del loro successo nell’arena politica, realizzando quella
struttura neoliberale del liberalismo che ha consentito di avere, e legittimare, élite sempre più ricche,
potenti, arroganti e privilegiate, in tal modo tradendo il presupposto principale della teoria democratica
classica: la fiducia nelle capacità e nella virtù del popolo.

L’elezione di Trump può essere considerata come un successo sulla piattaforma populista, che desta anche
preoccupazioni per la tenuta stessa della democrazia americana.
Bisogna però tenere in conto di diversi fattori, come la natura flessibile della Costituzione americana, le cui
prescrizioni sono in realtà facilmente aggirabili→ pensiamo a come il regime segregazionista nei confronti
dei neri sia rimasto in vigori nel sud fino agli anni 60, quasi un secolo dopo la guerra di secessione che aveva
posto fine alla schiavitù.
È vero però che l’orientamento conservatore, i pro-life, anti-gender e così via sono posizioni preoccupanti
per la tutela delle libertà civili delle minoranze, donne, gay…

Del resto, ben prima di Trump e attraverso due presidenze molto diverse tra loro prima di lui, Bush e Obama,
il campo dei diritti civili e la possibilità concreta della loro tutela si sono effettivamente ridotti dopo
l’introduzione del Patriot Act, approvato il 26 ottobre 2001.
Sull’efficacia e sulla costituzionalità del complesso di provvedimenti raccolti nel Patriot Act il dibattito tra
giuristi americani è molto intenso e l’opinione prevalente è che esso rappresenti un grave vulnus alle libertà
costituzionalmente garantite, per lo spostamento di potere che opera a favore delle agenzie federali di
intelligence e investigazione, per la riduzione della tutela dei diritti degli inquisiti, per la sproporzione di
capacità tra accusa e difesa che viene introdotta in campi sensibilissimi come l’utilizzo delle intercettazioni,
la schedatura dei siti internet visitati e dei volumi richiesti in lettura pressi le biblioteche pubbliche e
universitarie.
Nell’immediato post 9/11, il Patriot Act poteva sembrare costruire lo strumento giusto al momento giusto
per proteggere il paese. L’atmosfera di stato di emergenza di fatto generatasi dopo gli attentati, contribuì
enormemente all’approvazione di misure e leggi speciali, che sarebbero diventate permanenti, di cui il Patriot
Act ne è l’esempio più noto e organicamente strutturato.
Poiché già da anni il dipartimento di giustizia richiedeva un certo ampliamento di poteri, il Patriot Act, più
che il coraggioso progetto di una legge forte contro il terrorismo, risultò essere il ritorno di una wishlist di
poteri e competenze che il ramo esecutivo per anni aveva accumulato, una wishlist che era già stata bocciata
dal congresso, perché ritenuta poco rilevante nella lotta contro il terrorismo e un’inutile violazione delle
libertà civili.
Si tratta di cambiamenti resi possibili dallo slittamento della cultura politica dominante, a sua volta sempre
più spinta su posizioni radicali proprio a seguito dell’introduzione di provvedimenti come il Patriot Act.

I sostenitori della fragilità del tessuto democratico degli USA sottolineano come la polarizzazione del sistema
politico americano ha progressivamente trasformato, dal decennio successivo, il partito repubblicano (quello
di Abramo Lincoln) in un partito essenzialmente “bianco”, sempre più ostaggio di gruppi minoritari
organizzati intorno a issues molto chiare e potentemente supportate (come l’acquisto di armi o la negazione
del diritto a una maternità consapevole).
Mentre è stato fatto del partito democratico (quello che al Sud difendeva la segregazione razziale) il partito
collage delle minoranze di ogni tipo e specie.
Il risultato è stato quello di una cultura politica polarizzata che fatica a riconoscere come legittime le posizioni
altrui, le quali peraltro, sono sempre più lontane, estreme e inconciliabili.
Questo è un fenomeno che si è accentuato negli anni della presidenza Obama, considerato un usurpatore da
quella parte di opinione pubblica vicino alla destra suprematista bianca, alle cui tesi Trump ha fornito
un’incredibile cassa di risonanza e una sorta di legittimazione→ si pensi alle accuse a Obama di essere stato
eletto con inganno non essendo nato negli Usa.
Una cultura politica polarizzata è il peggior nemico per la costituzione di politiche bi-partisan e per la stessa
condivisione allargata di un’interpretazione comune della declinazione concreta dei principi sanciti dalla
costituzione→ questo incoraggia i presidenti a perseguire posizioni unilaterali, al confine dei limiti
costituzionali.

L’elemento razziale è forse il tratto più distintivo del populismo trumpiano, che si inscrive in una delle due
correnti della tradizione del populismo americano, e spiega la difficoltà con la quale il presidente prende le
distanze dagli episodi di violenza a sfondo razziale nei quali siano coinvolti esponenti del suprematismo
bianco.
Ci sono due correnti del populismo americano:
- Il primo prende di mira le élite economiche e finanziarie e gli intrighi che consentono loro di
condizionare il governo federale e di approvare politiche che tradiscono gli interessi dei lavoratori
americani, uomini e donne. Si tratta di una corrente che appartiene al mondo liberal della vita politica
americana, che crede nell’uguaglianza fondamentale degli esseri umani, nel diritto inalienabile di
ogni individuo alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.
- Anche la seconda corrente del populismo americano, quella cui appartiene Trump, accusa le élite del
grande business e il governo di aver minato gli interessi economici e le libertà politiche della gente
comune, ma la sua definizione tradizionale di popolo è più stretta e più etnicamente definita→
comprende i cittadini di origine europea, i veri americani, la cui appartenenza razziale li
accomunerebbe nella richiesta di preservare i diritti della vera America. Si tratta di un “nazionalismo
razziale”, una concezione di un’America espressa in termini etnici, di un popolo tenuto insieme da
un sangue e un colore della pelle comune.

Ciò che accumuna questi due diversi populismi è che crescono in presenza di ben fondante contestazioni: un
sistema economico che favorisce i ricchi, la paura di perdere il lavoro a favore dei nuovi immigrati e politici
che si preoccupano più delle proprie carriere che del benessere della maggioranza dei cittadini.

Il risultato di ciò che è accaduto in questi anni in occidente è la sostituzione di democrazia e mercato con due
simulacri, grazie ai quali populismo e tecnocrazia sono legati.
È evidente che una cattiva democrazia non possa regolare il mercato, come non può avvenire viceversa,
perché le istituzioni esercitano un’influenza regolatrice solo finché la politica è in grado di restare in un
ragionevole equilibrio nei suoi rapporti tra i poteri dello stato, tra questi e i partiti, e tra entrambi questi
soggetti e l’opinione pubblica.
È stata proprio l’assenza di una profonda disuguaglianza contemporanea, costruita attraverso decisioni
consapevolmente inique, ad alimentare proposte politiche capaci di superare i vincoli di qualsiasi istituzione:
ovvero quel fenomeno che chiamiamo populismo.

Per molti aspetti, le democrazie contemporanee sono condannate a convivere con il populismo, una forma
di mediazione tra l’elemento popolare della democrazia e l’elemento liberale, oltre che un vettore dalle
aspirazioni popolari.
La sua comparsa manifesta un segnale di malessere e insieme un richiamo all’ordine, che si palesa quando si
diffonde la percezione che l’equilibrio tra élite e popolo si sia sbilanciato a sfavore del secondo; come
tipicamente avviene quando si cerca nell’opzione tecnocratica la via d’uscita da una democrazia in affanno.
In tal modo si dimentica che il valore ultimo della democrazia, la sua superiorità morale, sta nel procedimento
attraverso il quale si formulano le decisioni e le si giudicano, e non nella bontà delle decisioni stesse. È invece
nel campo del dibattito pubblico che vanno sostenuti quei valori che le procedure democratiche, alimentate
dalla pubblica opinione, possono meglio di altre cercare di implementare proprio grazie al ruolo giocato da
libertà e uguaglianza.
Quando supera una certa misura e quando i meccanismi per ridurla sono percepiti come inefficaci o
addirittura truffaldini, la disuguaglianza ha effetti devastanti sulla convivenza civile, minando alla base sia la
democrazia sia il mercato, rendendo la prima una finzione lontana, e il secondo un meccanismo di
legittimazione del privilegio.
In particolare, quando i correttivi che la democrazia produce sono assenti o carenti, il mercato diventa un
vero e proprio moltiplicatore di disuguaglianza. Perché senza la democrazia e i correttivi che essa offre al
mercato, le disuguaglianze che il mercato produce si accumulano nella società, e in virtù di tale
accumulazione, i più forti diventano sempre più forti e i più deboli sempre più deboli. Cosicché le differenze
create dal mercato, in sé e per sé utili e positive, accumulandosi e trovando crescente protezione legislativa,
si trasformano in privilegi e la nostra società torna ad essere fondata sui privilegi e sulla loro tutela.

È in queste condizioni che la convinzione di non poter esercitare attraverso il voto alcuna influenza sui
processi decisionali che ci sono cittadini che non votano, e questo è motivo di preoccupazione per la tutela
della democrazia, e dovrebbe preoccupare classi politiche democratiche degne di questo nome, che non
fossero solo intente all’occupazione sistematica di posizioni di potere.

Anche se la disuguaglianza economico-sociale viene accettata come una conseguenza naturale delle diverse
abilità individuali, tale disuguaglianza non deve riflettersi in termini di disuguaglianza politica→ una società
è giusta quando le libertà fondamentali sono distribuite in maniera equa (principio di uguale libertà), quando
le possibilità di accesso alle diverse funzioni e posizioni sono distribuite altrettanto equamente (principio di
uguaglianza di eque opportunità), e quando la distribuzione degli altri beni primari è tale da massimizzare la
parte che spetta ai più sfavoriti (principio di differenza).
Conclusioni: Si salverà L’Europa?

Negli anni recenti, la tensione tra le istituzioni sovranazionali (Commissione e Parlamento) e quelle
intergovernative (Consiglio europeo e Consiglio dei ministri) è spesso sfociata nella prevalenza delle seconde
sulle prime, quando non, più semplicemente, nell’esercizio di un concreto diritto di veto da parte di questo
o quello stato membro.

È stata proprio la crisi dell’euro che ha agevolato e giustificato le soluzioni intergovernative che hanno
comportato l’aumento del potere relativo del Consiglio dei ministri e del Consiglio europeo. Alla sua
manifestazione più eclatante abbiamo assistito durante i cosiddetti bail-out, il cui risultato è stato che lo
European Finantial Stability Facility e lo European Stability Mechanism, creati per fronteggiare le crisi
bancarie in Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna e Ciro, sono stati finanziati dai singoli stati membri attraverso
versamenti concordati a livello intergovernativo e non attraverso un’emissione di obbligazioni europee (i
famosi eurobond), sottolineando così che nei momenti di crisi il pallino torna nelle mani dei governi nazionali.
Se ci chiediamo come questo possa essere stato possibile, cime mai negli stati membri abbiano potuto e
possano impunemente disattendere a delle precise intimazioni delle autorità europee, piuttosto che perché
le risposte politiche e programmatiche forti che sarebbero state necessarie all’Unione per fronteggiare una
serie di crisi di gravità mai sperimentata prima (come la crisi ucraina, quella finanziaria, quella dei migranti o
quella del territorio jihadista) non siano apparse neppure nell’orizzonte mentale e istituzionale dell’Unione;
e soprattutto, come mai di fronte a simili sfide le istituzioni centrali dell’Unione solo in parte sono state capaci
di reagire efficacemente e di riformare il proprio ruolo politico→ occorre ricordare che UE è il frutto di
numerosi compromessi fra le tre prospettive che le hanno dato forma: quella della comunità economica,
dell’unione intergovernativa e dell’unione parlamentare.
Si tratta di una democrazia composita, organizzata in un sistema di istituzioni separate che condividono il
potere decisionale.

Negli anni successivi al 2008, a complicare il quadro, oltre alle frizioni tra le istituzioni sovranazionali e quelle
intergovernative, se ne sono manifestate almeno altre due: quella tra il Consiglio europeo e la Commissione
(all’interno della funzione esecutiva dell’Unione), e quella tra il Parlamento europeo e gli organi del potere
esecutivo dell’Unione stessa. Senza dimenticare uno degli effetti più perversi del classico problema del deficit
democratico: la competizione, nell’ambito della funzione legislativa, tra il Parlamento europeo e i Parlamenti
nazionali.
Eppure, la crisi del 2008 è stata una crisi condizionata dell’Europa, perché i paesi membri dell’Unione hanno
affrontato l’impatto della crisi in una situazione di integrazione delle rispettive economie assai maggiore che
in passato.
Allo stesso tempo, però, se l’architettura europea li costringeva a rinunciare all’uso di strumenti nazionali per
rispondere agli effetti della crisi, gli strumenti dell’Unione per intervenire attivamente a livello europeo
restavano molto limitati e in ogni caso lenti da mettere in azione.

In materia di rapporto debito/PIL, contenimento del deficit e rientro dal debito pubblico nell’ambito
dell’Eurozona, i margini di tolleranza della Commissione si riducono pressoché a zero e, semmai una
flessibilità viene concordata, ciò avviene solo di concreto con i governi dei principali paesi e comunque
sempre con il placet tedesco.
La DE rappresenta all’interno dell’Eurozona il ruolo di veto player, di attore il cui assenso è necessario per
qualunque decisione. Occorre sottolineare che, con la grave eccezione della crisi greca, Berlino ha gestito con
grande senso della misura questa sua oggettiva responsabilità.
Sulla crisi migratoria, le mosse della Merkel sono apparse meno dettate dall’opportunismo di quelle di altri
paesi, e decisamente più lungimiranti, anche se non certo assenti da critiche o poco attente all’interesse
nazionale tedesco.
La Merkel si è inoltre mostrata molto più inflessibile di tanti altri capi di governo europei nel difendere il
principio dell’inammissibilità di variare i confini nazionali ricorrendo all’uso della forza, come ha fatto la
Russia con l’Ucraina nel caso della Crimea→ la Merkel ha compiuto un’inversione di marcia rispetto alla
secolare politica tedesca, risalente ai tempi di Bismark, di cercare di avere sempre ottimi rapporti con la
Russia.
In materia economica, però, la DE non ci sente→ non solo insiste nel perseguire una politica di austerità che
finora ha danneggiato la timida ripresa dell’economia europea, ma continua a mantenere lo squilibri della
propria bilancia commerciale, che fa una sorta di Cina all’interno dell’Unione, con effetti distorsivi su tutta
l’economia dell’Eurozona.

A fronte di un simile quadro, nei diversi stati membri si ha una disaffezione nei confronti della concreta
realizzazione del progetto europeo: è un disincanto nutrito dalle cattive performance di questi ultimi decenni.
La sensazione è che UE abbia disatteso molte delle sue promesse, soprattutto quelle più solennemente
formulate in occasione dei chockepoints, attraverso i quali la EU è transitata con sempre maggiori difficoltà:
ovvero quando ha tentato un rilancio provando a riattingere dalle premesse originarie una linfa nuova per
fronteggiare le sfide che le paravano innanzi.

In maniera tanto irrazionale quanto scorretta e diseducativa, le istituzioni europee hanno stabilito un
principio che con le regole del mercato fa a pugni: la speculazione, tanto più quanto è consapevole e
alimentata da evidenti asimmetrie informative, è protetta e tutelata in ambito europeo. I banchieri e gli
speculatori finanziari sanno che UE non consentirà che siano loro a pagare il prezzo delle proprie scelte
azzardate oltre il lecito. Per cui, chiunque voglia prestare denaro a potenziali creditori, anche quando questi
siano molto probabilmente insolventi, può accomodarsi, tanto ha solo da guadagnare.

Riguardo alla situazione greca, chi osserva che i greci sono stati puniti per aver mentito all’Unione e barato
sui conti pubblici sbaglia, semmai sono stati alcuni politici greci a mentire, ma le loro colpe ricadono su un
intero popolo che non poteva sapere quello che stava succedendo.
Un gruppo ristretto di manager bancari e finanziari, che aveva ben altri e potenti strumenti per intuire che
qualcosa non quadrava nei fondamentali macroeconomici greci, non ha invece pagato alcun prezzo→ non
c’è da stupirsi se questa Unione non è amata né stimata da un numero crescente di cittadini.

Sono episodi gravi e ripetuti come quello greco ad aver accentuato la percezione che questa Unione
rappresenti sempre più l’Europa delle banche e sempre meno l’Europa dei cittadini.
La sensazione di essere sempre più anche cittadini europei si è sviluppata dopo Maastricht, ma in una
direzione per la quale a fronte di indubbi vantaggi immediatamente percepibili da chiunque, si manifestava
una serie di cambiamenti che finivano anche con l’interferire in maniera non lieve con la vita del cittadino
europeo.
La tensione tra dimensione economica e dimensione sociale dell’integrazione europea è esplosa in un tema
ideologicamente e politicamente diviso proprio a partire dagli anni della crisi greca (o crisi dell’euro).

Sono stati del resto proprio gli anni della lunga crisi finanziaria che ha caratterizzato l’ultimo decennio a
mettere in evidenza il contrasto tra le esigenze e le aspettative di protezione sociale, da un lato, e quelle
dell’austerità imposta dall’unione monetaria, dall’altro.
Si è trattato di un contrasto inevitabile, per molti aspetti, considerando che il sistema di welfare hanno
assunto nel secolo dopoguerra un’importanza sempre più rilevante all’interno dei patti di cittadinanza
nazionali.
Non dovrebbe mai essere dimenticato che l’espansione del welfare state non rappresenta né una semplice
tappa del percorso evolutivo né un mero accidente storico, essa costituì la risposta che le élite politiche
liberali fornirono alla crisi strutturale del capitalismo degli anni Venti del secolo scorso o, per meglio dire,
l’espansione rappresentò la risposta politica alle conseguenze politiche di una crisi economica innescata dal
malfunzionamento della meccanica capitalista.
Esattamente come accadde negli anni Venti, oggi la lunga crisi finanziaria ha sviluppato il sorgere di una
domanda da parte dei cittadini affinché lo stato, o anche l’Unione, bilanci gli effetti maggiormente deteriori
delle ricadute negative del mercato sull’organizzazione sociale.
D’altronde la globalizzazione ha minato le basi sociali e materiali per una maggior uguaglianza politica,
centrale per l’idea stessa della democrazia. Il risultato è che le scelte politiche pubbliche hanno via via
generato alti livelli di disoccupazione, precarizzazione e minor retribuzione del lavoro, erosione dei servizi
sociali e fine delle politiche redistributive: aumentando la polarizzazione dentro i paesi ricchi, consentendo a
esigui segmenti di popolazione dei paesi poveri di essere integrati nella rete dell’economia mondiale, ma
facendo sì che i paesi ricchi generassero al proprio interno “il loro proprio terzo mondo”.

Lo smantellamento, spesso travestito da forma dei sistemi di welfare in Europa, è particolarmente gravido di
conseguenze politiche anche perché per tutto il periodo del secondo dopoguerra, quello dalla cui fucina è
emersa l’Unione, lo Stato westfaliano, sovrano dal punto di vista politico-militare, era stato sostituito dallo
Stato welfarista.
L’oggettiva limitazione della sovranità che il sistema bipolare della guerra fredda imponeva anche agli stati
dell’Europa occidentale, faceva sì che lo scambio tra protezione e lealtà politica traslasse da quello sicuritario,
in gran parte garantito dalla potenza egemone, a quello economico-sociale.
L’odierna ritirata dello stato dal campo della protezione economico-sociale sta così minando la nozione stessa
di cittadinanza per come si era sviluppata in Europa nel secondo dopo guerra.

L’edificazione dell’EU riconosceva il legame intrinseco tra sovranità dello stato, cittadinanza e pratiche di
solidarietà e redistribuzione, riservando alla comunità europea l’apertura dei mercati e conservando agli stati
membri la sfera della solidarietà e della protezione sociale.
È proprio a partire dagli anni 80, però, che i progressi realizzati nell’integrazione economica hanno condotto
alla vera e propria introduzione di vincoli, sia di carattere diretto che indiretto nell’ambito dei meccanismi
statali di solidarietà sociale. Ma una cittadinanza politica che non contempli la solidarietà non può esistere,
e la prassi dell’Unione in questi anni, tutta sbilanciata a favore del rigore e dell’efficienza e indifferente
rispetto alla solidarietà tra le sue componenti e i suoi popoli è stata una cattiva lezione che è dilagata anche
all’interno degli stati nazionali, insinuando la possibilità che nel nome dei propri interessi particolari sia
possibile disinteressarsi di quelli degli altri.
D’altra parte, non può essere nascosto che valori quali la solidarietà o la comune cittadinanza europea hanno
trovato raramente applicazioni pratiche, se non in misure utili alla risoluzione di problemi generali, quali la
libera circolazione di persone o la politica di coesione nel percorso di integrazione europea.

Una delle lezioni che possiamo trarre dalla vicenda catalana è proprio che la crisi economica unita al rigorismo
fiscale imposto dall’Unione ha prodotto la svalutazione della solidarietà territoriale.
Da un lato, le difficoltà dei paesi devastati dalle conseguenze sociali dell’economia globalizzata sono state
trattate dell’Unione con freddo distacco.
Dall’altro, la persistenza della sovranità ha mandato in crisi la questione dei trasferimenti di risorse tra aree
disomogenee allo scopo di favorirne la progressiva convergenza.
In altri termini, mentre la cittadinanza europea veniva a relativizzare oggettivamente la cittadinanza
nazionale, contemporaneamente negava che l’appartenere alla medesima casa politica europea implicasse
un’effettiva solidarietà attiva e concreta tra le diverse aree dell’Unione, senza riuscire a riempire di contenuti
sufficientemente “caldi” la cittadinanza europea.
La conseguenza di questo è stata l’indiretta delegittimazione dell’idea che anche il patto di cittadinanza
nazionale dovesse implicare necessariamente la solidarietà tra le diverse aree di un paese. Sono infatti le ex
“regioni ricche” che oggi chiedono di separare il proprio destino da quello del paese, applicando la lezione
dell’egoismo comunitario imparato a proprie spese sulla propria pelle.
Dopo il referendum di settembre, una parte consistente delle imprese catalane ha spostato la propria
residenza fiscale a Madrid, e molti commentatori hanno sostenuto la tesi che banche e aziende avessero
“votato con i piedi” a favore, non tanto di una cittadinanza spagnola, quanto di una cittadinanza europea.

Simili ragionamenti in realtà ci dicono quanto del senso di appartenenza alla casa comune europea sia stato
in tutti questi anni fatto appoggiare su motivazioni economicistiche di interesse e non su una profonda
adesione politica. Se questa impostazione può aver funzionato con le imprese, che non hanno un passaporto
o una cittadinanza, non è stata invece priva di conseguenze per gli individuo che vivono nell’Unione, e svela
la fragilità della concezione di una sovranità, e di un patto di cittadinanza, che si fondi sul mero tornaconto e
non su una più profonda adesione anche sentimentale.
Proprio l’aver lasciato sguarnito questo campo di significato ha offerto la possibilità ai vari leader populisti di
occuparlo e stravolgerlo in senso identitario e contro l’Unione stessa.

In dettaglio, questa tensione tra solidarietà necessariamente ancorata alla scala nazionale e l’integrazione
economica di scala europea ha generato 4 specifiche “sotto tensioni”:
1. Tra dimensione sociale e dimensione economica del processo di integrazione, con una governance
programmaticamente sbilanciata a favore delle misure pro-mercato e a sfavore di quelle pro welfare;
2. Una seconda che scorre all’interno dell’Eurozona, e oppone Nord e Sud, paesi core (centrali dal punto
di vista economico) e paesi periferici, creditori e debitori;
3. La terza che ha per tema la libera circolazione dei fattori di produzione nel mercato interno riguarda
soprattutto la polemica tra paesi con welfare consolidato (generoso e costoso) e paesi con welfare
limitato, con basso costo del lavoro e bassa regolazione;
4. La quarta è di natura verticale: Bruxelles, le istituzioni sovranazionali, contro stati membri, i governi
nazionali e le solo sovranità in ambiti ritenuti cruciali come le pensioni e il mercato del lavoro.

Bisogna aggiungere il fatto che l’Unione ha presidiato e sviluppato terreno sul quale il neoliberalismo e la
rivoluzione conservatrice avviata negli anni 80 hanno riformulato non solo il rapporto tra economia e politica,
ma le stesse attribuzioni e priorità del politico→ allo stato nazione è rimasto non solo un ambito dalle
dimensioni ridotte, ma anche dalle prestazioni sempre più messe in discussione, e tutto questo avveniva
mentre lo stato risultava sempre meno dotato di risorse per attuare i propri compiti.
L’ancillarità dell’Europa sociale rispetto all’Europa economica non poteva perciò che diventare un problema
sempre più manifesto, a prescindere dalla crisi finanziaria. Quest’ultima semmai ha reso evidente
l’insostenibilità sociale del modello neoliberale di capitalismo fondato su una visione riduttiva dell’individuo
come homo eoconomicu, cha ha legittimato l’emergere di un’economia di rendita, finendo col creare una
dottrina pericolosa, per il suo semplicismo, quanto il marxismo.

Oggi la questione che attraversa l’Europa non è quella del sovranismo, un mero sintomo del problema o una
sbagliata risposta, ma è quella delle trasformazioni che la sovranità deve affrontare per non scomparire
graziosamente, ma per essere riaffermata in una maniera che le consenta di essere uno scudo efficace per i
diritti politici, civili e sociali, che continuano a riempire e dare senso alla nozione di cittadinanza.
Se non partiamo da un recupero del valore positivo della sovranità politica, non sapremo mai raccogliere la
sfida della sua ricostruzione per rimediare all’erosione patita ormai da tre decenni.
Bisogna essere consapevoli che il mondo in cui viviamo è frutto dell’azione dell’uomo e in quanto tale può
essere ricostruito in maniera diversa e migliore.
Uno degli errori più grandi operato dalla grande sostituzione della fine degli anni 80 è stato quello di credere
che un ordine internazionale fosse possibile a prescindere dalla tenuta delle singole unità che lo
componevano: e che per giunta un ordine senza stati sovrani, un ordine fondato su stati dalla sovranità
programmaticamente evanescente, potesse dirsi liberale.

Il futuro dell’EU dipende dall’atteggiamento con cui sapremo porci la sfida di una riarticolazione nei suoi
rapporti con gli stati membri che non ne mortifichi le varie sovranità, ma che si ponga il problema di
armonizzarne la pluralità e di rendere compatibili gli obbiettivi; e che preveda un sempre più
improcrastinabile riequilibrio tra la dimensione sociale e quella economica e finanziaria dell’Unione.

Una via per affermare una sovranità europea che contenga, armonizzi e completi le singole sovranità degli
stati membri è quella di impostare la questione della frontiera comune europea. Essa consentirebbe di far
compiere un passo avanti significativo al processo di costruzione di una casa comune europea.
Gli effetti positivi→ sorgere di un effettivo confine europeo sotto una comune responsabilità delle forze
militari e di polizia dei singoli stati dell’Unione in modo da abbattere nuovamente le frontiere interne. Inoltre,
questa responsabilità comune nei confronti della sicurezza collettiva europea alimenterebbe il senso di
appartenenza e cittadinanza europea.
Non si tratterebbe di avocare all’Unione la responsabilità e il comando permanente delle forze militari e di
polizia o di costruire un esercito europeo, ma di riservare all’Unione la funzione di coordinamento
dell’impiego di questi strumenti relativamente alla vigilanza dei confini esterni all’Europa.
Questo non significa la necessità di confini chiusi e porte faccia ai migranti, ma renderebbe più efficace il
controllo e la gestione dei flussi stessi, con pratiche di accoglimento o di rimpatrio.

La permeabilità dei confini opera nei due sensi: anche il sistema internazionale importa dall’interno dei singoli
sistemi statali caratteristiche, influenze e incognite che concorrono a modificarlo. Fatti salvi però gli attori
più poderosi o i gruppi di attori più coesi e omogenei, l’influenza delle singole unità statali sul sistema
internazionale è minore.

Flussi reciproci tra il sistema internazionale e i suoi attori statali sono sempre esistiti.
La presenza degli stati ha progressivamente disegnato il sistema internazionale, conferendogli l’aspetto di
arena anarchia, ma anche di un reticolo di trattati, ordinamenti, istituzioni e regimi altrettanto costitutivo
della sua sostanziale unità e identità.
Allo stesso tempo, proprio negli stati trovava maggiore resistenza il tentativo del sistema internazionale di
scaricare verso l’interno dei singoli attori la sua instabilità, disordine e anarchia. È per questa ragione che
oggi l’importazione del disordine dal sistema internazionale verso gli stati aumenta nella misura in cui gli stati
perdono forza.
Il rapporto tra stati e sistema internazionale, in sostanza, resta caratterizzato da un export di ordine e un
import di disordine dai primi al secondo. Ma mentre nella situazione che ha preceduto la globalizzazione
prevaleva il primo flusso, oggi predomina il secondo.
Inoltre, a complicare il quadro, gli stati dell’Africa e del Medio Oriente contribuiscono a portare verso il
sistema internazionale il loro disordine interno. Evidentemente, l’intreccio di interdipendenze economiche e
politiche che esercitano gli stati più forti negli stati più deboli concorrono a generare caos che aumenta il
disordine internazionale→ il flusso di migranti è l’esempio più eclatante, dove si vede l’incapacità degli stati
a gestirlo con efficacia e umanità.

Oggi si ha quindi la necessità di riarticolare il rapporto tra le sovranità nazionali che devono essere sostenute
e l’azione dell’Unione, che deve riuscire a coordinarle, armonizzarle e completarle. Questa è la sola risposta
che può essere fornita alla deriva e al rischio di naufragio del Titanic, a condizione che l’Unione e i paesi
membri sappiano e vogliano rimettere in equilibrio le ragioni della solidarietà per salvare la democrazia e il
mercato.
Possibili domande d’esame (prese dagli scorsi appelli)

L’esame dura 60min con 16 domande a crocette (16 punti) + 1 domanda a risposta breve sul Manuale (3
punti), 1 domanda a risposta breve su Ikenberry (3 punti), 1 domanda a risposta breve sul suo libro sulla
guerra (3 punti) + 1 domanda più elaborata su Titanic (6 punti) → TOT 31 punti

• In cosa consiste il Trilemma di Rodrik;


• Cos’è il Patriot Act;
• Descrivi le 4 facce dell’iceberg;
• In cosa consiste il liberalismo vincolato (embedded liberalism);
• In cosa consiste la Open Door diplomacy;
• Classificazione delle tipologie di guerre secondo il COW;
• Descrivi la teoria marxista/liberale/realista;
• Elenca quali sono le fasi che hanno portato all’evoluzione dell’ordine internazionale liberale;
• Definisci bilanciamento esterno, bilanciamento interno e bandwagoning;
• Descrivi i punti dell’internazionalismo wilsoniano;
• Che cosa si intende per equilibrio di potenza;
• Che cosa si intende per dilemma della sicurezza;
• Che cosa si intende per guerra egemonica;

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