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La politica locale - riassunto 1° capitolo

Introduzione
A lungo la politica locale è stata vista come bassa politica,contrapposta alla politica alta
dei parlamentari e dei governi nazionale. Eppure la politica locale gioca un ruolo
fondamentale nella vita quotidiana dei cittadini.
Nella tradizione anglosassone ,a lungo dominante,il local government è l’insieme delle
istituzioni e procedure attraverso le quali sono governati distretti di piccole dimensioni. La
particolarità del governo locale è il luogo in cui la democrazia si è sviluppata,spesso prima e
in modo più ampio che nel governo nazionale. Secondo Bogdanor il concetto di politica
locale è usato in tre diversi sensi per riferirsi a:
1) comportamento elettorale e competizione tra i partiti a livello locale:lo studio della
politica locale può rivolgersi alla natura delle èlites locali e alla distribuzione del potere
all’interno delle unita locali di governo o all’associazione delle caratteristiche demografiche
e socio-economiche con le attività politiche all’interno dell’unità locale. In Italia,uno dei
temi più affrontati da questo punto di vista,è stata la diversa distribuzione regionale del
voto di preferenza,considerato come indicatore di clientelismo e la persistenza in alcune
aree di radicalismo di specifiche forze politiche;
2) rapporti tra politici/amministratori/burocrati locali e istanze politiche più elevate in
vista di benefici specifici: l’unità locale è trattata come un attore politico,varia con le
caratteristiche strutturali del sistema politico e con il tipo di distribuzione di rischi e
ricompense all’interno del sistema politico;
3) influenza della struttura di governo locale sugli di governo nazionale in vista degli
interessi collettivi dell’unità locale: la differenza nelle capacità politiche locali di
intervenire collettivamente ai livelli più elevati è stata spesso attribuita alle caratteristiche
strutturali strutturali dei sistemi politici,per esempio sistemi federali o unitari di governo.
Lavori più recenti suggeriscono che l’equilibrio sistematico del potere tra politiche
nazionali e politiche locali ha più a che vedere con le caratteristiche costituzionali,storiche
e culturali dei sistemi politici.
A questi se ne aggiunge un quarto:
4) struttura degli interessi e loro politicizzazione: a livello nazionale come a livello
locale,la politica struttura i conflitti esistenti. Lo studio di questi conflitti ha riguardato sia
la frattura centro e periferia sia i diversi interessi emergenti a livello locale.

E' importante la politica locale?


Riguardo all’importanza della politica locale esistono due visioni opposte quelle degli
scettici e quella degli entusiasti:
1) gli scettici ritengono che la politica locale è poco rilevante in quanto: la politica locale
viene vista come un sottoinsieme di micro-livelli,non ha specificità proprie è piuttosto una
sottopolitica. Gli enti locali hanno scarsi poteri autonomi,vengono loro attribuiti compiti
meno rilevanti in quanto si trovano a livelli gerarchici bassi. La crisi fiscale limita i poteri a
livello locale. Riduzione del deficit pubblico attraverso una privatizzazione dei servizi,o
almeno la prevalenza anche nel settore pubblico di principi di redditività. La
modernizzazione rende le subculture regionali sempre meno importanti,la cultura
assimilatrice tende a cancellare le differenze locali. La globalizzazione sposta la soluzione
dei problemi verso l’alto. L’emigrazione di capitali e forza lavoro produce un mondo
sempre più integrato. Le decisioni a livello locale sono vincolate da interessi particolaristici.
Solo lo spostamento del potere verso entità di più grandi dimensioni permetterebbe di
tenere sotto controllo gli egoismi localistici a vantaggio del benessere della comunità
nazionale. Le piccole dimensioni creano diseconomie di scala comuni di dimensioni
maggiori e macro regioni può migliorare le efficienze dell’amministrazione pubblica
2) gli entusiasti invece ritengono che è a livello locale che si fanno le esperienze rilevanti
per la politica a livello nazionale. I cittadini imparano la politica nelle loro interazioni con il
governo ad essi più vicino. Il governo locale influenza la democrazia a livello nazionale in
tre modi:
-generando autorità locali che funzionano in modo democratico,
-offre prospettive alternative a quelle esistenti a livello nazionale,
-favorisce l’innovazione locale.
Gli enti pubblici offrono la maggior parte dei servizi pubblici(come la salute,le attività
culturali,attività di welfare,l’educazione,i servizi di assistenza…) i poteri degli enti locali
tendono ad aumentare in quanto è stata rilevata una tendenza verso il decentramento del
finanziamento. Con la crisi fiscale le città sono diventate importanti promotori di sviluppo a
livello locale. Problemi sempre più complessi possono essere affrontati solo elaborando
soluzioni decentrate per poter così rispondere ai principali problemi sociali. Lo
spostamento delle decisioni dall’alto verso il basso sarebbe un bene in quanto: aumenta la
solidarietà,il decentramento rende il governo più accessibile ai cittadini,avvicina i governati
ai governanti,il governo locale può stimolare l’innovazione,la partecipazione e la tutela
delle minoranze.
L’attenzione alla politica locale è stata elevata negli Stati Uniti,caratterizzati da una
struttura istituzionale federalista,un forte decentramento di competenze a livello locale,e
una tradizione culturale che enfatizza il ruolo della società civile. Inoltre,l’attenzione alla
politica locale tende a crescere quando aumentano i poteri a livello locale. Sono stati
distinti tre tipi ideale di governo licale:
1) il livello clientelare o di patronage: considerato come tipico dell’Europa
mediterranea,comporta frammentazione,politicizzazione,burocrazia partigiana e bassi
livelli di efficacia e efficienza. La principale funzione del governo locale è rappresentata
dalla distribuzione di benefici a individui o gruppi di individui particolari;
2) il modello dello sviluppo economico: tipico degli Stati Uniti. Vede la funzione del
governo locale nella promozione della crescita economica e nell’assicurare le condizioni
necessarie affinchè le forze di mercato operino senza vincoli,anche se non
necessariamente in modo privo di regole, la centralizzazione deve assicurare una
interpretazione uguale della legge;
3) il modello dello stato del benessere: tipico dei paesi Scandinavi,della Gran Bretagna e
della Germania. Il livello locale dovrebbe garantire,sulla base di un principio di
solidarietà,standard di vita adeguati a tutti i cittadini. La lealtà dei cittadini al sistema
politico a livello locale è legata alla sua capacità di soddisfare i bisogni della popolazione
nel suo insieme.

La politica locale - riassunto 2° capitolo


Gli studi di comunità
I precursori degli Studi di comunità sono Robert e Helen Lynd con le loro ricerche su
Middletown. Il primo studio fu condotto negli anni Venti del Novecento, il secondo nel
corso della grande depressione nel 1937. L'intento era di studiare le pratiche religiose
tipiche di una piccola città americana. I Lynd spostarono poi il fuoco della loro ricerca sugli
effetti della industrializzazione sulle attività della comunità nel loro insieme analizzando in
particolare i cambiamenti intervenuti tra il 1890 e il 1924 lasso di tempo in cui la
popolazione è più che triplicato. Pur ammettendo che una città tipica non esiste, i Lynd
ritenevano che la loro città avesse molte caratteristiche in comune con un ampio gruppo di
comunità. Il metodo che utilizzarono i Lynd era quello di partecipazione osservante,infatti
andarono a vivere nella comunità di Manzi, dichiarandosi degli studiosi,ma cercarono di
non disturbare in alcun modo la loro ricerca.Fecero delle interviste e utilizzarono anche
fonti scritte quali censimenti, atti giudiziari, registri scolastici, diari e giornali. Le principali
trasformazioni che rilevarono furono: la perdita di funzione della famiglia e la crescente
rilevanza del gruppo di amici nella utilizzazione del tempo libero, il ruolo di gruppi informali
ed i gruppi formali( come la chiesa) nell' integrazione degli individui nella comunità. Nella
ricerca i Lynd sottolineano la diversità nel comportamento nelle diverse aree di attività di
due gruppi di popolazione:
1) la working class: cioè la classe operai;
2) la business class:cioè la classe degli uomini d'affari di vendita e di promozione di beni.
Per la businness class si individuó una tendenza a erigere barriere per tenere fuori gli altri,
mentre la working-class i Lyndt sottolineano come l'industrializzazione avesse condotto
alla scomparsa della gerarchia di status legata alle competenze artigianali portando,
attraverso la meccanizzazione del lavoro, ad un livellamento verso il basso delle
competenze. Lo spirito di Middletown: gli abitanti erano a favore dell'onestà, della
gentilezza, del successo (visto nell uomo di affari), la famiglia, il cristianesimo visto come la
vera religione e la democrazia come la forma ideale di governo erano invece contro i
diversi, le idee innovative, il governo di Washington, gli stranieri e le minoranze etniche, i
devianti e deboli.
Nella prima ricerca si dedica poco spazio al governo della città ( la classe imprenditoriale
nutre scarso rispetto per la politica, i politici locali, considerandoli un male necessario per
gli uomini d'affari sostengono e controllano soltanto quanto basta per garantirsi
cooperazione in certe questioni necessarie es. pressione fiscale). L'attenzione al governo
locale cresce comunque nel secondo studio: i Lyndt osservano la notevole influenza sulla
comunità e sul governo di poche famiglie che costituivano una vera e propria upper class.
Il prototipo di queste famiglie è la famiglia X. Gli X, all'inizio piccoli industriali nel settore
della produzione di vasi di vetro, avevano fatto fortuna negli anni della depressione. La
famiglia X definita come famiglia reale regnante,viene analizzata utilizzando
sistematicamente la tipologia di attività già descritta precedentemente:
1) guadagnarsi da vivere: a questo proposito viene analizzato il potere della famiglia X in
diversi settori delle attività economiche. La finanza: il numero di banche passo da 5 nel
1925 a 1 al momento della ricerca. La famiglia X ne controllava la carica di presidente.
Attività giudiziarie: tutti i principali studi legali erano legati agli X. Industria:la famiglia X
influenzava le attività delle principali istituzioni. La politica della famiglia era caratterizzata
dal paternalismo antisindacale: bassi salari, ma aiuto in particolari circostanze;
2) mettere su famiglia: influenza della famiglia si era manifestata nella trasformazione
della struttura abitativa della città, attraverso lo sviluppo del quartiere nord occidentale, il
quartiere elegante dove la stessa famiglia viveva. La costruzione della zona residenziale
rafforzò la separazione tra la classe superiore e la classe lavoratrice. Nel quartiere
residenziale la famiglia X aveva costruito un ippodromo, un college e un ospedale;
3) L'educazione dei giovani: a capo delle scuole di Middletown, come presidente del
consiglio scolastico della città, vi era un membro della famiglia X e un altro sedeva nel
consiglio di amministrazione dell'università statale, cui la famiglia aveva regalato un
milione di dollari. Emergeva la pressione della famiglia contro il radicalismo, anche
attraverso bando di libri e emarginazione di chi seguiva tali idee;
4) l'impiego del tempo libero: gestione di associazioni sportive e di tempo libero, come
associazioni giovanili... Le donazioni della famiglia erano state fondamentali per costruire
teatri, centri sportivi e ricreativi, campi da golf, parchi;
5) le pratiche religiose: la famiglia X contribuì alla costruzione di chiese ed edifici religiosi.
Potere di veto anche sulle questioni religiose;
6) l'amministrazione pubblica: di tradizioni repubblicane, la famiglia aveva contribuito a
fare di middletown una fortezza di quel partito. Nel 1932 il governo statale e quello
federale passarono sotto il controllo dei democratici, non mancò l'adesione al Partito
Democratico di uno dei membri della seconda generazione della famiglia X che divenne
ben presto un leader locale. Dando contributi ad entrambi i partiti, la famiglia si assicurava
così una pesante influenza sui temi del governo locale;
7) l'assistenza agli indigenti: presenti in vari settori per rafforzare la loro immagine di
benefattori ma erano anche attività che permettevano gli X di ridurre il loro carico fiscale;
8) i mezzi di informazione: il quotidiano del mattino della città veniva definito come
“giornale degli X”;
La classe lavoratrice era infatti critica rispetto al paternalismo degli X, chiedevano salari più
elevati al posto della beneficenza. Ma il potere di ricatto legato al controllo dei posti di
lavori impediva che questo scontento si manifestasse apertamente. Per quanto riguarda la
business class invece,i Lynd,notarono come tra questi c’era una diffusa ammirazione nei
confronti della famiglia X.
Nel secondo periodo della ricerca emerge l'esistenza di una upper-class, definita sulla
base della sua posizione nelle attività lavorative dotate di influenza anche su tutte le altre
sfere di attività. Tale classe si costruisce soprattutto nel passaggio dalla prima alla seconda
generazione della famiglia X: la prima proveniva da una relativa povertà e poi sono passati
alla ricchezza. La seconda generazione invece era nata ricca e aveva teso a isolarsi dagli
strati inferiori, adottando uno stile di vita elitario potere della ricchezza resterà ma si ha
l'impressione che la dedizione alle cause cittadine diminuirà inevitabilmente tra queste
famiglie più giovani che non hanno lottato spalla a spalla con i pionieri. Lo studio dei Lynd
ricevette varie critiche riguardo diversi aspetti:
1) superficialità del metodo e poca chiarezza;
2) obiezioni sulla generalizzabilità dei risultati nel tempo e nello spazio:appare tutt'altro
che scontato che i risultati della ricerca potessero essere estesi ad altri casi;
3) problemi su affidabilità fonti: i Lynd si appoggiavano molto sulle interviste senza
soffermarsi sulle contraddizioni, rilevando così immagini diffuse , piuttosto che la realtà .
Si deve però ribadire che lo studio dei Lynd ha diversi meriti. La ricerca affronta alcuni temi
che diverranno centrali per la ricerca successiva sul potere nelle comunità: il grado di
concentrazione del potere , la sua origine , il rapporto tra politici di professione e le altre
élite . Concentrandosi sulla comunità,la ricerca dei Lynd rivelò le debolezze del mito
americano delle eguali opportunità cercando di individuare sistematicamente la struttura
dei rapporti sociali e di potere nelle diverse attività che compongono la vita degli esseri
umani.

Gli Elitisti
Nell’opera dei Lynd il concetto di potere rimane molto impreciso. Dalla tradizione di
community studies si distaccherà un filone di studi che si concentrerà sul potere locale.
Questo filone si differenzierà in due grandi scuole:l’approccio elitista e quello pluralista.
Caposcuola dell'approccio elitista è il sociologo Floyd Hunter. Nel suo libro "Comunity
power structure. A study of decision makers" ricostruisce il sistema delle decisioni a
Regional al City. Obiettivo della ricerca è l'individuazione di chi sono i nostri veri leader e di
come operano in rapporto l'uno con l'altro. Considerando la comunità con un centro
primario di potere Hunter ritiene che uno studio a livello locale permette di osservare più
facilmente le relazioni di potere.Il potere è una parola che sarà usata per descrivere gli atti
degli uomini che spingono altri uomini ad agire in relazione a se stessi o a cose organiche o
inorganiche. Hunter elenca così alcune ipotesi sulla struttura di potere:
1) il potere coinvolge relazioni tra individui e gruppi, sia controllati che controllori. Il potere
può essere quindi descritto strutturalmente;
2) il potere è, negli Stati Uniti, strutturato socialmente in una relazione duale tra governo e
autorità economiche ai livelli nazionali, regionali e locali,entrambi i tipi di autorità possono
avere unità di potere istituzionale,sociale,funzionale ad esse sussidiarie;
3) il potere è un fattore relativamente costante delle relazioni sociali, mentre mutevoli
sono le politiche pubbliche, le ricchezza, lo status sociale, il prestigio sono fattori della
costante di potere o variazioni nella forza tra unità di potere hanno effetti sull'intera
struttura di potere
4) il potere degli individui, per essere efficace, deve essere strutturato attorno a modelli di
tipo associativo, in clique o istituzioni. La democrazia rappresentativa offre le migliori
opportunità di assicurare agli individui una voce nella determinazione ed applicazione nelle
politiche pubbliche. La comunità offre un microcosmo di relazioni di potere organizzate,
nelle quali gli individui esercitano il massimo di effettiva influenza.
Da taluni assunti Hunter elaborò alcune ipotesi relative alla struttura di potere:
1) il potere esercitato come funzione necessaria nelle relazioni sociali.
2) l'esercizio del potere é limitato e indirizzato dalla formulazione ed estensione delle
politiche sociali all'interno di un quadro di autorità socialmente sanzionate.
3) in una data unità di potere si troverà che il numero di coloro che formulano e applicano
le politiche è minore di quello di coloro che esercitano il potere.
Tutti i policy makers sono uomini di potere. Tutti gli uomini di potere non sono,di per
sé,policy makers.
La ricerca sul potere a Regional City viene condotta utilizzando il metodo reputazionale,
basato su una serie di interviste a testimoni privilegiati. Possiamo individuare 5 tappe nel
percorso di rilevazione empirica:
1) attraverso elenchi forniti da una serie di associazioni locali , vennero compilate delle
liste contenenti nomi delle persone più importanti in quattro settori dell'attività
comunitaria: organizzazione civiche , affari economici , politica società.
2) bisognava accorciare le liste:vennero selezionati dei giudici persone che avevano vissuto
per anni nella comunità e che avessero di una certa conoscenza riguarda gli affari della
città.
3) A questi venne chiesto di collocare in ordine di importanza e di influenza 10 persone da
essi selezionati . Venne così stilata una lista di 40 leader .
4) I leader selezionati vennero intervistati su vari temi.
5) vennero infine intervistati 14 professionisti in una fascia media alta al fine di rilevare se i
modelli di relazione esistenti tra i 40 leader della comunità fossero simili a quelli esistenti
in una in altri gruppi paragonabile .
Uno dei risultati centrali della ricerca riguarda il potere del leader del mondo degli affari.
Dei 40 leaders selezionati il maggior numero si ritrova tra coloro che dirigono o
amministrano le porzioni maggiori dell'attività delle grandi imprese commerciali. E’
evidente quindi il dominio del business sugli affari civici a Regional City. La risorsa
economica emerge come la principale fonte di potere. Si evince l'esistenza di una
struttura di potere piramidale. In tre settori( vita comunitaria, politico amministrativo e
quello economico), gli intervistati erano infatti concordi nell'indicare una ristrettissima
cerchia di persone che decidevano per tutti. Hunter suggerisce l’esistenza di tre strati della
piramide: un gruppo molto ristretto di power leaders al vertice, composto da persone in
grado di assumere o fare assumere le decisioni rilevanti per la comunità;una under
structure composta da chi aveva un ruolo esecutivo ed ausiliare ai power leaders; e un
ampio numero di senza potere alla base. Ricordare che gli uomini in grado di decidere
costituiscono un gruppo piuttosto ristretto, mentre gli esecutori delle politiche possono
essere alcune centinaia. Potere oltre a essere gerarchizzato è anche coeso. Si osserva che i
leader della comunità si concentrano in alcune aree, definite come più desiderabili. In
questi gruppi, potere, prestigio, influenza si sommano in una gerarchia di tipo cumulativo.
Il potere è organizzato attorno a cricche economiche. I rappresentanti delle varie cricche si
incontrano e negoziano. Vi è dunque una struttura di potere verticale e coordinata.
Hunter osserva che il potere di questi leader è visibile, non occulto. Hunter offre una
brillante descrizione del funzionamento del sistema dei club e dei comitati. Alcuni club
risultavano avere un ruolo fondamentale nel promuovere le decisioni politiche. In questi
club si discuteva delle questioni politiche che più interessavano la comunità, anche se
nessuna decisione formale veniva presa né alcun verbale era tenuto delle riunioni. Il modo
informale o semi informale in cui le politiche pubbliche emergevano ed erano portate
avanti é secondo Hunter quella di comitato.I comitati possono essere organizzati
formalmente o informalmente, si possono portare aventi all'interno proposti seri o leggeri,
sono accompagnati in qualsiasi caso da una certa misura di ritualismo. Hunter descrivere le
diverse tappe del processo decisionale, in particolare prendendo come esempio il processo
decisionale relativo al piano di sviluppo della città. Possiamo individuare una prima fase di
formulazione in cui il comitato nasce a seguito di incontri informali tra individui , il
comitato coinvolgere soprattutto gli uomini di potere della comunità(gli uomini di affari).
Una volta definite le linee generali del progetto , i comitati vengono allargati , in
particolare ai leader delle associazioni civiche e delle istituzioni formali. Nella seconda fase
della messa in atto possono essere coinvolti nel processo i leader politici locali che devono
approvare la legislazione relativo al progetto. A proposito della possibilità del potere
Hunter osserva che in alcuni casi gli uomini d'affari non vogliono comparire nel processo
decisionale , per questo fanno partecipare dei prestanome. Conferma quindi l'intuizione
dei Lynd che molte decisioni vengono prese all'interno del club più esclusivi o attorno ad
un tavolo durante una cena. In linea con le affermazioni dei Lynd,Hunter inoltre individua
un numero ristretto di obiettivi della power èlite rispetto all’amministrazione:una debole
pressione fiscale,una politica antisindacale,limiti all’offerta di una serie di servizi pubblici e
la segregazione dei neri. Ma come si mantiene questo potere? secondo Hunter le fonti del
potere sono la persuasione , intimidazione , la coercizione e se necessario la forza . Il
controllo deriva dalla capacità di punire i ribelli. Hunter mira a rilevare il potere sostanziale,
non limitandosi al potere formale. Il metodo reputazionale viene apprezzato per la sua
praticabilità. Molte sono state le critiche rivolte ad Hunter. In primo luogo la metodologia
da lui elaborata non ha convinto tutti. Prima serie di dubbi ha riguardato la scelta dei
giudici definita come poco motivata e ragionata e la loro competenza definita come
incerta. Ancora più fondamentale è comunque il dubbio che il metodo stesso
precostituisca il risultato. Quanto Hunter infatti chiede ai giudici di ricostruire una piramide
del potere,egli predetermina l'esito della ricerca: gli intervistati saranno infatti portati a
offrire quella immagine piramidale che viene loro richiesta. Infine dal punto di vista
concettuale,lascia aperti proprio problemi rilevanti,primo fra essi il fatto di identificare
arbitrariamente di reputazione di potere e potere effettivo. In particolare poco chiaro è il
concetto di potere e irrisolto il rapporto tra varie gerarchie di potere nei diversi settori.
Ultimo problema è come per la middletown dei Lyndt,anche in questo caso resta aperta la
questione della rappresentatività di Regional City rispetto alle altre comunità americane.

I Pluralisti
Il potere piramidale dominò per alcuni anni gli studi sul potere nella comunità locale. Esso
venne comunque criticato da un gruppo di scienziati politici,guidati da Robert Dahl. Loro si
dedicarono allo studio del potere a livello locale attraverso un diverso metodo e arrivando
a risultati diversi. Essi individuarono una struttura di potere pluralista, nella quale il potere
è diffuso tra una moltitudine di élite,sia istituzionali sia non istituzionali. L'opera più
rappresentativa della scuola pluralista è il volume di Robert Dahl Who governs? Democracy
and power in an American City. Pubblicato nel 1961.Lo studio condotto dai pluralisti
riguarda una serie di processi decisionali in una comunità locale. Le domande centrali per
la ricerca riguardano gli effetti delle disuguaglianze sociali in termini di governo delle
caratteristiche di coloro che governano.Il metodo elaborato da Dahl e dai suoi
collaboratori è composto da due procedure: posizionale e decisionale. La prima consiste
nell'analizzare le caratteristiche socio-economiche di coloro che avevano occupato uffici
pubblici, dalla fondazione della città al 1950. Per quanto riguarda la seconda prende in
esame tre processi decisionali:il reinserimento urbano, l'istruzione pubblica e la scelta dei
candidati alle cariche pubbliche da parte dei vari partiti. Ad esse si aggiunge la vicenda
relativa all'adozione di un nuovo statuto per la città, in seguito respinto dagli elettori. In
ciascuna area vennero analizzate le più importanti decisioni a partire dal 1950. Le decisioni
vennero ricostruite tramite 46 interviste con esperti, verbali e documenti di varie
organizzazioni, rassegne stampa e osservazione partecipante. Di ogni decisione vennero
individuati iniziatori, oppositori, vincitori, perdenti sommando i punteggi relativi all'
influenza su ciascuna decisione si ottiene una classifica relativa al potere dei vari attori. La
ricerca venne inoltre arricchita attraverso l'analisi della partecipazione di varie categorie
socio-economiche agli affari pubblici della città;un sondaggio d'opinione con i partecipanti
e vari e decisione;e un sondaggio a campione della popolazione orientati alla rilevazione
delle caratteristiche delle persone che intervengono in diverse arene decisionali. L'analisi
storica della struttura di potere viene svolta con metodo posizionale attraverso
l'individuazione delle caratteristiche di coloro che avevano occupato posizioni di potere
istituzionale.A New Haven vennero distinti 4 periodi che rappresentano altrettante fasi di
un passaggio dalla oligarchia al pluralismo, cioè dalla concentrazione alla dispersione delle
risorse politiche rilevanti. Secondo Dahl tale passaggio ha portato al passaggio dalla
ineguaglianza cumulativa nelle risorse politiche alle ineguaglianze non cumulative o
disperse.
1° periodo: è caratterizzato dal predominio dei patrizi, con una classe dirigente che cumula
le varie risorse del potere e gode di una alta legittimazione. Periodo che va dalla
dichiarazione di indipendenza al 1842, caratterizzato da un suffragio ristretto e un sistema
di votazioni in pubblico.
2° periodo: con l'allargamento del suffragio i sistemi elettorali a scrutinio segreto si ridusse
il potere dei patrizi, sostituito dagli imprenditori, ricchi ma privi di prestigio sociale e
istruzione. Fra il 1856 e il 1899 erano, infatti, i businessman i due terzi dei candidati a
sindaco. Erano gli uomini d'affari a dominare la vita pubblica. Caratteristiche dei
businessman erano la popolarità, la fiducia e rispetto dato agli uomini d'affari da parte dei
cittadini e forse anche una identificazione simpatetica.
3° periodo: con lo sviluppo dell'immigrazione si aprì la strada agli ex plebei. Data la forte
presenza di immigrati i leader politici decisero di utilizzare un sistema politico basato sulla
eliminazione degli handicaps associati con l'identità etnica piuttosto che ridurre gli
svantaggi che derivano dalla distribuzione delle risorse da parte dello stesso ordine
economico esistente. Offrivano quindi protezione in cambio di sostegno elettorale, gli
etnici avevano i numeri per ottenere e mantenere i voti, i leader politici li ricompensavano
con impieghi pubblici. La popolarità era stata separata sia dalla ricchezza che
dall'istruzione. La popolarità voleva dire voti, i voti cariche e le cariche influenza. Si passò
quindi dai vecchi modelli di oligarchia basati su disuguaglianze cumulativa ai nuovi modelli
di leadership basati su disuguaglianze disperse. I leader non erano più uomini d'affari ma
politici di professione.
4° periodo: l'integrazione dei gruppi etnici nella comunità ridusse il potere degli ex plebei.
Con il completamento del passaggio dall' accumulo delle disuguaglianze alla loro
dispersione si aprì alla metà del ventesimo secolo, la fase contemporanea. Dahl rileva una
drastica riduzione della partecipazione dei patrizi alle decisioni pubbliche, una limitazione
della partecipazione dei businessman, e la presenza di una forte influenza in diretta dei
cittadini, tramite le elezioni, sulle posizioni dei leader. In tale fase, secondo Dahl non si
sviluppa nè una politica di classe né una politica etnica, ma piuttosto una politica orientata
verso benefici collettivi.
Successivamente con l'assimilazione dei gruppi etnici anche gli ex plebei entrano in crisi. A
questa fase si riferiscono gli studi di caso sulla elaborazione di specifiche politiche
pubbliche,condotti secondo il metodo decisionale.
Dahl ricostruisce i processi decisionali relativi al piano di risanamento urbano presentando
alcune idee di base dell'approccio pluralista. Dahl illustra le ragioni del fallimento dei
precedenti programmi di rinnovamento,Dahl individua i gruppi che,detenendo risorse
politiche,possono esercitare potere di veto: per tre ragioni nessuno dei progetti venne
approvato. Per prima cosa essi ,e nessuno offriva soluzioni realistiche al problema dei costi.
In secondo luogo essi non si occupavano realisticamente di quel processo politico che
avrebbero dovuto portare consensi sul piano strategico. In terzo luogo coloro che
occupavano cariche politiche, vedevano in tale progetto molte perdite politiche e nessun
guadagno.Ci furono dei mutamenti che aumentarono la possibilità di successo di tale
progetto,sarà in particolare il nuovo sindaco a investire tutto sul risanamento costruendo
attorno al progetto una coalizione di interessi destinata a divenire tipica per la politica
locale americana. Il sindaco ebbe la capacità di formulare il progetto in modo da renderlo
appetibile ai gruppi più diversi,creando così un ampio consenso. Dahl sottolinea (in
contrasto con gli elitisti) il ruolo delle istituzioni politiche nel processo decisionale,
concludendo che le risorse pubbliche sono più importanti di quelle private.Il potere del
sindaco e del suo staff non era comunque assoluto i gruppi di interesse,per quanto deboli
per iniziare un processo politico avrebbero comunque potuto ostacolare il progetto di
risanamento. In qualche modo ancor più potenti,gli elettori avrebbero potuto tagliare il
mandato al sindaco qualora il suo progetto di risanamento non fosse stato di loro
gradimento. Il sindaco era quindi costretto a disegnare il suo progetto tenendo conto delle
preferenze sia dei gruppi di interesse che degli elettori.Il successo del sindaco e del suo
staff era legato alla capacità di anticipare gli interessi dello stato politico e degli elettori.
Una funzione molto rilevante nel garantire il consenso di un ampio gruppo di attori venne
dalla Citizens Action Commission, una associazione di privati cui il sindaco aveva dato
impulso.Composta da rappresentanti del potere
economico(banchieri,imprenditori,presidente della Camera di Commercio, rappresentanti
di diverse istituzioni come Università di Yale,Partito Democratico). Tale associazione non
aveva una funzione decisionale, ma assume un'importante ruolo di legittimazione. Dahl
conclude che non vi è un elite unica ma varie elite in varie aree decisionali.Vari gruppi
confliggono per il controllo di alcune risorse e su alcune decisioni.Le risorse di potere non
sono cumulate nelle mani degli stessi gruppi. La principale risorsa è quella istituzionale. In
alcune arie le decisioni vengono prese da una minoranza ristretta che però tiene conto
delle preferenze degli elettori. Il consenso di base viene favorito dall'assenza di ideologie di
classe
Vengono sottolineati in tale ricerca alcuni aspetti innovativi, ad esempio l'attenzione al
processo decisionale,la centralità del sistema politico amministrativo, la visione storica e
l'approfondimento del concetto di potere. La metodologia utilizzata era inoltre più
sofisticata di quella utilizzata nelle ricerche precedenti, nonostante ciò questa metodologia
ebbe alcune critiche per quanto riguarda il metodo si è osservato che non viene ponderata
la rilevanza delle varie decisioni in secondo luogo ci si limita alla parte visibile del processo
decisionale,in terzo luogo non si forniscono strumenti per valutare l'appropriatezza del
giudizio di Dahl e dei suoi collaboratori sugli esiti. di un processo decisionale,in quarto
luogo il metodo viene considerato estremamente costoso e difficile da mettere in pratica.
Tali limiti si riflettono sul risultato invalidando la capacità dei metodi posizionale e
decisionale di individuare i veri detentori del potere. Non guardando all'esistenza di
contrasti tra l'elite dei diversi processi decisionali,Dalh avrebbe rinunciato a controllare se
l'elite sono in concorrenza tra loro. Inoltre,e questo è il punto centrale di un successivo
filone di studi sul potere locale non si considera il potere di non far emergere delle
decisioni. Infine Dahl e i suoi collaboratori non si sarebbero posti un problema centrale per
la democrazia: in nome di chi o meglio nell'interesse di chi vengono prese le decisioni?

Elitisti e Pluralisti a confronto


Elitisti e pluralisti condividono una concezione simile della democrazia, con un'immagine
del potere locale prevalentemente autonoma rispetto all'esterno e una valutazione
positiva del decentramento/dispersione del potere. La concentrazione sul livello locale
rifletteva secondo solo due convinzioni: la prima rimanda ad una tradizione americana che
ha sempre dimostrato una particolare sensibilità per lo studio delle città e per il mondo
della provincia descritto come un microcosmo di democrazia e partecipazione, la seconda
è connessa alla persuasione che un'indagine svolta in un contesto di dimensioni medio
piccole consentisse l'acquisizione di un maggior numero di dati e di informazioni rigorose
con un minor dispendio di energie e costi. Quindi la convinzione che il livello locale
rispecchi come un microcosmo le caratteristiche della distribuzione del potere a livello
nazionale. Elitisti e pluralisti si differenziano però nel giudizio empirico. I principali punto di
disaccordo fra le due scuole sono:
1) legittimità: che misura il grado in cui i leader occupano uffici pubblici o posizioni in
associazioni
2) visibilità : che riguarda la misura in cui il potere è riconoscibile oppure nascosto
3) raggio di influenza: cioè l'ampiezza delle aree di decisioni controllate da uno stesso
gruppo di leader
4) coesione: la misura in cui i leader dominano un gruppo compatto.
Le somiglianze che riguardano le critiche portate ad entrambi gli approcci sono una prima
critica che riguarda la questione del metodo in entrambi i casi metodi adottati sono stati
accusati di avere predeterminato i risultati. Una seconda critica si è rivolta alla definizione
del concetto di potere. Normalmente la concezione del potere degli elitisti è definita come
posizionale: si ha potere per le risorse che si possiedono. La concezione del potere dei
pluralisti è invece relazionale: si ha potere nella misura in cui si riesce ad utilizzare le
proprie risorse. Entrambe le concezioni sono state comunque tacciate di parzialità. Una
terza critica riguarda la sterilità di una polemica che portava gli esponenti delle diverse
scuole sempre gli stessi risultati.

La politica locale - riassunto 3° capitolo


Il potere nelle comunità: l'evoluzione del dibattito
Altri studi inerenti al potere locale furono quelli dei comparatisti. Questo filone di studi si
sviluppò tra la fine degli anni cinquanta e soprattutto alla fine del decennio successivo. Il
metodo dei comparatisti è l'analisi secondaria di studi già condotti in precedenza su varie
comunità. Partendo dalla comparazione qualitativa di un paio di comunità si giunge poi al
confronto quantitativo di un gran numero di esse. Accanto alla analisi secondaria sono
state avviate un certo numero di ricerche che si proponevano la rilevazione di dati primari
su alcune caratteristiche di campioni di comunità negli Stati Uniti. Analizzate le
caratteristiche principali della comunità e collegandole con quelle della struttura di
potere rilevata ,i comparatisti cercavano delle sistematicità nelle correlazioni per poter
elaborare ipotesi generali. In primo luogo,i comparatisti descrivono delle tipologie di
struttura di potere. Peter H. Rossi propose di distinguere le seguenti strutture di potere
nella comunità:
1) Struttura di potere monolitica piramidale: caratterizzata dal potere di una unica
èlite,costituita prevalentemente da uomini d'affari e ha un potere politico debole;
2) Struttura di potere controllata da un gruppo di vertice: cioè una situazione intermedia
tra quella descritta dagli elitisti e quella descritta dai pluralisti, in cui le decisioni vengono
prese da un gruppo di persone che opera sulla base di un consenso interno;
3) Struttura politica: caratterizzata dalla compresenza di più centri di potere in diverse
aree decisionali con una certa autonomia del potere politico rispetto agli interessi
economici;
4) Conformazione amorfa: categoria residuale che raccoglie le situazioni dove non c'è una
struttura di potere identificabile in relazione ai primi tre tipi.
Terri Clark nel 1968 ha distinto i modelli di potere locale in:
1) partecipativo di massa: con numerosi membri attivi che tendono a partecipare in ogni
tipo di decisioni
2) monolitico: con pochi attori che influenzano tutte le decisioni
3) politico: con varie arene, ciascuna è caratterizzata da un sistema monolitico
4) pluralistico: con differenti gerarchie di influenza indifferenziate indifferenti arie.
Per quanto riguarda il tema del rapporto tra potere economico e potere politico nell'analisi
comparata sulla City Politics Benfield e Wilson nel 1967 hanno individuato sei principali
strutture di influenza nella città:
1) Alto livello di centralizzazione nel mondo degli affari e nella politica e le due sfere
controllate direttamente dalla stesse èlite, cioè quella imprenditoriale.
2) Alto livello di centralizzazione in entrambe le sfere con la èlite imprenditoriale che
influenza la sfera politica, non direttamente ma attraverso un boss politico.
3) Alto livello di centralizzazione in entrambe le sfere con nè uomini d'affari nè politici
capaci di imporre il loro volere sugli altri
4) Limitata centralizzazione nella sfera degli affari, ma alta centralizzazione in quella
politica dove i molti controllori del mondo degli affari hanno una scarsa influenza sui pochi
controllori della politica.
5) Alta concentrazione nelle sfere della impresa ma bassa generalizzazione in quella
politica con difficoltà per il mondo degli affari a promuovere azioni politiche.
6) Decentrazione nella sfera degli affari e in quella politica e conseguentemente influenza
minima nel mondo degli affari
Per spiegare le diverse strutture di potere vengono utilizzate più variabile tra cui quelle
attinenti alla distribuzione delle risorse tra diversi gruppi della comunità. Banfield e Wilson
affermano che almeno tre condizioni costituiscono prerequisiti per un alto grado di
influenza del mondo degli affari:
1) Gli imprenditori devono avere un interesse ad esercitare influenza a livello locale.
2) Essi devono avere un insieme di mete in comune o perché si trovano d'accordo o
perché sono spinti ad accordarsi da un agente che centralizzati l'influenza all' interno
della comunità degli affari.
3) Essi devono controllare quelle risorse desiderate dai politici e attraverso di esse
controllare i politici.
Non tutti gli uomini d'affari hanno interesse alla vita della comunità, ad esempio i grandi
magazzini avrebbero un interesse ad aumentare il traffico commerciale nel centro della
città incoraggiando l'affluenza dei buoni clienti e scoraggiando quella degli indesiderabili.
Promuoveranno quindi rinnovamenti dei centri urbani, costruzione di metropolitane e
parcheggi. Le banche sarebbero ovviamente favorite da tutto ciò che accresce il benessere
della città e dei loro clienti e favorirebbero quindi tali progetti. Per quanto riguarda la
capacità di aggregare le proprie domande su mete comuni Banfield e Wilson citano ad
esempio le grandi coalizioni di uomini d'affari emersi in alcune grandi città americane sui
temi del rinnovamento urbano. I piani di rinnovamento furono spesso poco credibili, ma
essi creavano un immagine degli uomini d'affari come civic statesman dotati, cioè di
coscienza civica. Il controllo da parte degli uomini d'affari delle risorse desiderate dai
politici varia, secondo i comparatisti, nel tempo e nello spazio. In una fase iniziale gli
uomini d'affari avrebbero occupato le cariche pubbliche direttamente o tramite il controllo
di una political machine. In seguito, essi sarebbero entrati in rapporti privilegiati con un
boss politico cercando di ottenere dei vantaggi particolari attraverso le pratiche di
corruzione.. Se la corruzione appariva fuori moda ci sono comunque altre forme di
intervento del mondo degli affari sul mondo politico. Ad esempio contributi finanziari che
vengono destinate alle campagne politiche locali per poter essere favoriti nelle gare
d'appalto. Banfield e Wilson suggeriscono che il relativo accentramento o decentramento
nella sfera economica e in quella politica sarebbero collegati alla struttura sociale e alle
istituzioni presenti nella città.
Anche altri autori comparatisti propongono varie spiegazioni delle caratteristiche della
politica nella comunità. Sintetizzando contributi di vari autori, si può dire che il potere
locale considerato come una variabile dipendente a pari influenzato da
1) interdipendenza della comunità rispetto all'esterno. Maggiore è l' interdipendenza
della Comunità rispetto all'esterno maggiore è la probabilità che la struttura di potere sia
di tipo pluralista. La presenza di industrie di proprietà di individui esterni alla comunità così
come la dipendenza funzionale dall'esterno moltiplicando i centri di potere aumenta la
tendenza verso una struttura di potere competitiva.
2) il livello di sviluppo economico i processi di urbanizzazione e industrializzazione
favoriscono strutture di potere pluraliste nella comunità. Ciò si riflette in una distinzione
geografica laddove la comunità dell'ovest degli Stati Uniti appaiono come più portati al
pluralismo di quelle dell'est del Sud. Un corollario è che le grandi città tendono verso
strutture di potere pluraliste si può aggiungere che nelle città di maggiori dimensioni è
economicamente differenziati i leader informali vedono ridurre il proprio potere a
vantaggio dei politici professionisti con quella differenziazione e specializzazione delle
risorse politiche che era stato osservata da Dahl.
3) La stratificazione sociale. Anche la struttura sociale influenza la struttura di potere.
Secondo Clark ad esempio ad una stratificazione sociale egualitaria semplice corrisponde
un modello decisionale di tipo di partecipazione di massa, ad una struttura gerarchica
semplice corrisponde il modello decisionale monolitico,ad una struttura gerarchica
complessa corrisponde un modello politico,ad una struttura egualitaria complessa il
modello pluralista. Il numero degli abitanti e la loro disomogeneità aumenta le tendenze al
conflitto a livello locale.
4) l'ethos politico. L'ethos della classe media vedrebbe la politica come un servizio alla
comunità,enfatizzando le pubbliche virtù di onestà,efficienza e parzialità;mentre nelle
classi basse favorirebbe la macchina politica, cioè una organizzazione d'affari in un
particolare campo d'affari, raccogliere i voti e vincere le elezioni. Organizzazione apolitica,
la macchina sarebbe interessata solo a fare e distribuire reddito, principalmente denaro, a
coloro che la fanno a funzionare e vi lavorano. Per questo, essa, sarebbe soprattutto al
servizio dei gruppi più poveri della popolazione bisognosi di una protezione. Minore è
l'importanza che i gruppi sociali danno al loro voto,maggiore sarà la loro propensione a
scambiarlo per qualcosa che ambiscono ad avere. Infatti nei distretti più piccoli i dirigenti
intermedi della macchina passano una parte del loro tempo a ricevere i clienti.
L’integrazione degli immigrati e la diffusione dei servizi sociale avrebbe portato comunque
alla crisi della macchina politica contraria ai valori della classe media.
5) le caratteristiche politico-istituzionali. È emersa una tendenza verso il modello
pluralistico è tale tendenza la si può collegare al urbanizzazione, è stato però rilevato che le
strutture decisionali pluralistiche mostrano una minore capacità di soluzione dei problemi.
La scuola dei comparatisti ha avuto il merito di uscire dalla sterilità dello scontro tra elitisti
e pluralisti,contribuendo alla elaborazione di una serie di tipologie sulla struttura del
potere nelle città oltre che di ipotesi sulle cause delle diversità tra i molteplici tipi. La
ricerca si è orientata anche alla costruzione di tipologie di comunità: alla individuazione
cioè di tipi di comunità,definibili sulla base di un insieme di caratteristiche da quelle
demografiche,economiche o a ecologiche, a quelle legate alla leadership e agli esiti
decisionali. È interessante notare che anche variabili politiche cominciano a diventare
centrali per la definizione della struttura di potere nella comunità. Riprendendo i numerosi
studi di casi esistenti i comparatisti hanno avuto il merito di cercare delle spiegazioni
complessive. Molte analisi condotte nell'ambito comparativo presentano comunque forti
debolezze dal punto di vista metodologico. In primo luogo la comparazione avviene spesso
tra risultati ottenuti attraverso metodologie diverse ciò è tanto più grave se si pensa che
soprattutto negli studi di comunità gli esiti delle ricerche appaiono particolarmente
sensibili al metodo adottato per indagine. In particolare si può ricordare, che il metodo
reputazionale degli elitisti era stato considerato come particolarmente adatto a rilevare
l'immagine di un potere piramidale, mentre il metodo decisionale dei pluralisti tendeva a
individuare la compresenza di varie gerarchie di potere senza però consentire di rilevare se
e come le diverse gerarchie si fondassero in una struttura di potere unica. Attraverso il
metodo dei comparatisti si creerebbe infatti degli artificiosi insiemi statici,che portano a
dimenticare che ogni comunità è caratterizzata da un inscindibile intreccio delle varie
caratteristiche.

I neolisti
Negli anni 60 in contrasto con la scuola pluralista si sviluppa un'altra corrente di pensiero la
corrente neoelitista. I rappresentanti sono Bacharach e Bartz, che con due articoli
propongono il problema dell'altra faccia del potere, cioè del potere che si esprime non
nelle decisioni, ma anche nelle non decisioni. Tali osservazioni verranno riprese in un libro
pubblicato nel 1970 dove verrà analizzato il caso delle politiche sulla povertà a Baltimora. I
due studiosi accettano le principali critiche dei pluralisti rispetto agli elitisti,i neolitisti
sostengono però che anche l'approccio pluralista conduce a risultati che falsano la realtà
cogliendo solo una parte. Individuano due principali difetti nell'approccio pluralista non si
tiene conto del fatto che il potere possa essere esercitato limitando l'ambito del processo
decisionale a questioni relativamente innocue. Il secondo è che il modello non fornisce
alcun criterio oggettivo per distinguere tra le questioni che sorgono nell'arena politica
quelle importanti, da quelle irrilevanti.
Un concetto fondamentale introdotto è quello di mobilitazione del pregiudizio. Con esso i
due studiosi si riferiscono all'attivazione di un insieme di norme, valori e regole che
impediscano che alcune tematiche divengano oggetto di decisione. Le decisioni vengono
quindi prese su temi spesso scarsamente rilevanti, mentre le non decisioni sono quelle che
riguardano i conflitti più importanti.I due studiosi ritengono che la distinzione tra
questioni importanti e questioni rilevanti non possa essere operata in modo intelligente se
non si dispone di un'analisi della mobilitazione del pregiudizio. Nella comunità le questioni
rilevanti sono quelle che sfidano le regole. Il non decision making è un mezzo per soffocare
le richieste di cambiamento nella distribuzione dei vantaggi e dei privilegi all'interno della
comunità prima ancora che vengano formulate, oppure per tenerle segrete o sopprimerle
prima che accedano all'arena delle decisioni rilevanti.
Ai neolisti va riconosciuto il merito di definire un problema rilevante che non era stato
affrontato in precedenza nell'analisi del potere locale: le forme meno visibile del potere.
Le critiche rivolte ai neoliberisti sono sostanzialmente di due tipi: una prima
critica,riguardo un certo lassismo concettuale, per esempio il concetto centrale per la loro
teoria di non decisione è definito di volta in volta come comportamento attivo o assenza di
azione, intervento consapevole o operare inconsapevole del pregiudizio, assenza di
decisione o decisione negativa. Una ulteriore critica è di tipo metodologico e riguarda la
possibilità di rilevare empiricamente le decisioni rimosse: tanto più la rimozione delle
decisioni opera con successo, tanto meno visibile sarà il processo di non decisione, non
solo per i partecipanti al processo, ma anche per gli scienziati sociali che lo osservano.

La ricerca sul potere locale: dagli studi di comuità ai temi specifici della politica locale
L'approccio europeo è in generale profondamente critico dei risultati dell'esperienza
americana e si caratterizza al momento attuale per l'impegno a elaborare prospettive di
ricerca nuove. Innanzitutto si nega che l'ipotesi formulate nel contesto statunitense siano
valide o perlomeno centrali nell'approccio al problema in contesti diversi, un secondo
aspetto importante è lo sforzo di comprendere tutti gli aspetti considerati rilevanti per la
identificazione e l'analisi del problema, un terzo aspetto di carattere metodologico
differenzia l'attuale orientamento degli Studi europei da quello prevalente negli Stati Uniti.
Quel che è certo è che in generale la ricerca sulla comunità locale andava specializzandosi
e che a questa specializzazione gli studi europei contribuirono con alcune tematiche
nuove. Questa, ad esempio, l'indicazione proveniente dal lavoro di Delbert Miller studioso
di scuola elitista, che fu il primo ad applicare quel modello da lui stesso già utilizzato per lo
studio di una comunità americana allo studio di una città inglese, Bristol. La maggiore
complessità deriva in parte dalla presenza di diverse subculture territoriali, la cui esistenza
non era stata sistematicamente analizzata negli Stati Uniti. La presenza delle subculture si
sostanziava in strutture organizzative di mediazione tra centro e periferia. Spesso gestite
da un soggetto che non desta stupore attirò più attenzione in Europa che negli Stati Uniti:
il partito politico.
Si può ricordare inoltre che l’approccio europeo esprime una critica esplicita rispetto
all'approccio dominante negli Stati Uniti, si occuperà più sistematicamente degli attori
esclusi dal potere e delle loro forme di mobilitazione politica. In primo luogo, si
analizzeranno le fratture esistenti tra centro e periferia con un attenzione rinnovata a
movimenti etnico- nazionali e partiti regionalisti. Sarà in particolare negli anni settanta che
si svilupperanno gli studi sui movimenti urbani definiti, come attori centrali di nuovi
conflitti politici. Furono tra l'altro gli studi sulla struttura delle opportunità disponibili per la
protesta che spinsero l'attenzione anche su un altro attore e arena, delle politiche locali: le
istituzioni pubbliche. A questo proposito, nella ricerca già citata, Miller aveva sottolineato,
come novità rispetto al caso americano,il ruolo rilevante giocato dalle istituzioni locali,e in
particolare dal City Council, nel processo decisionale della comunità.I risultati del processo
decisionale verranno in particolare collegati sia a variabili strutturali che alle modalità del
processo decisionale. Più di recente una serie di politiche pubbliche più legate al governo
locali, quali le politiche ambientali quelle culturali e quello urbanistiche sono state oggetto
di numerose ricerche.

La politica locale - riassunto 4° capitolo


Culture e politiche locali
Negli anni '60 si didffuse nella scienza politica un approccio di tipo politico-culturale che
sottolineava l'influenza determinante della cultura sullo sviluppo socio-economico ed
evoluzione politica. In queste ricerche la cultura politica italiana venne definita alienata,
frammentate e particolaristica con una scarsa fiducia nell'amministrazione e nella politica.
In Italia si avviò un dibattito sul ruolo della subcultura, ritenuta tipica delle regioni
meridionali, nellì'impedire lo sviluppo politico ed economico del Mezzogiorno.
Uno studio che suscitò notevole interesse fu quello di C. Banfield. Le ipotesi di Banfield
vennero poi riprese in tempi recenti per spiegare le differenze nel rendimento
istituzionale.

Le basi morali di una società arretrata


Una cultura "familista e amorale" è stata individuata come pricipale causa di povertà.
Banfield effettua una ricerca negli anni '50 su un paese agricolo di 3.400 abitanti in
provincia di Potenza, Montegrano. La ricerca durò 9 mesi e utilizzò una metodologia di tipo
psico-antropologico: effettuò una serie di interviste in profondità, poco strutturate e non
significativamente campionate, con una settantina i persone e somministro a 16 persone
alcuni test attitudinari tematici comprendenti sia domande su "cosa è meglio" in una serie
di liste di aggettivi, sia l'interpretazione del significato di alcune figure. Prendendo
Montenegro come un esempio dell'arretratezza del Mezzogiorno, Banfield si interroga sui
motivi del mancato sviluppo. La descrizione di Montenegro evidenzia diversi indicatori di
disagio:
1) un sistema scolastico carente;
2) l'assenza di un ospedale;
3) la grande miseria dei contadini.
Banfield, inoltre, osserva:
1) un mancato sviluppo di associazioni volontarie;
2) la scarsa importanza dei partiti politici;
3) l'assenza di stampa locale;
4) l'inesistenza di attività solidaristiche;
5) mancanza di pressioni sulle autorità per ottenere un miglioramento delle condizioni di
vita della comunità.
Banfield cerca di spiegare il perchè di questa arretratezza, ed esclude alcune ipotesi: in
primo luouo pensa sia impossibile che le persone di questo paese siano così povere da
dover spendere tutte le loro energie per sopravvivere; in secondo luogo, sostiene che non
è vero che i cittadini siano così ignoranti da non capire nulla di politica, anzi, a seguito di
qualche intervista, sono emerse diverse idee politiche non indifferenti; in terzo luogo,
sostiene che non è certo l'antagonismo di classe ad impedire azioni collettive, perchè i
contadini non fanno nessuna azione contro l'aristocrazia; in quarto luogo i cittadini non
hanno sfiducia nei confronti dello stato, ma chiedono ad esso aiuto soltanto quando ne
hanno estremamente bisogno.
Banfield non trova ritrova la spiegazione nel familismo amorale: con tale concetto si
intende "l'incapacità degli abitanti di agire insieme per il loro benessere collettivo o per
qualsiasi fine che trascenda l'interesse immediato, materiale o nucleo familiare". Il
familismo amorale guida comportamenti impregnando sentimenti, valori, idee e
credenze. I Montegranesi agiscono come se seguissero questa regola: massimizzare il
vantaggio materiale, di breve periodo del nucleo familiare e assumono che tutti gli altri
faranno lo stesso.
Questo ordinamento ostacola l'associazionismo e, quindi, il benessere economico. Infatti,
l'interesse per il familista amorale è esclusivamente quello di accrescere il proprio
benessere e non il bene della comunità nel suo complesso. Quindi, nel comportamento
elettorale egli tenederà a ricompensare benefici individuali. Più ipotesi su una società di
familisti amorali:
1) nessuno perseguirà l'interesse del gruppo o delle comunità, a meno che non abbia un
vanttaggio personale a fare diversamente;
2) solo i funzionari pubblici si preoccupano degli affari pubblici e solo perchè essi sono
pagati per farlo. Lavoreranno, inoltre, lo stretto indispensabile per mantenersi il posto;
3) l'organizzazione sarà molto difficile da raggiungere e mantenere. Le organizzazioni di
successo si basano sulla fiducia e sulla lealtà assenti in una società di familisti amorali;
4) il familista amorale detentore di un impiego pubblico si farà corrompere quando sa di
non rischiare niente;
5) il familista amorale valuterà i vantaggi per la comunità solo nella misura in cui egli ne
può usufruire;
6) l'elettore riporrà poca fiducia nelle pormesse dei partiti. Egli sarà propenso ad utilizare il
suo voto per pafare favori già ricevuti;
7) si assumerà che qualsiasi gruppo al potere si interessato al proprio tornaconto per favori
già ricevuti;
8) si assumerà che qualsiasi gruppo al potere sia interessato al proprio tornaconto e
corrotto.
Banfield, inoltre, individua qualsi sono le condizioni per diventare familisti amorali:
1) grande miseria;
2) forte mortalità (ansia di morte prematura riduce la tendenza a posporre i vantaggi nel
lungo periodo);
3) le condizioni umilianti del lavoro dei contadini.
4) assenza di una famiglia patriarcale estesa e la riduzione di rapporti di solidarietà
nell'ambito del nucleo familiare;
5) metodi educativi basati sull'alternanza di premi e punizioni.
I Montegranesi agiscono come bambini egoisti perchè vengono cresciuti come bambini
egoisti. Non avendo nessun principio interiorizzato, l'individuo dipenderà dalle pormesse di
ricompense e punizioni che gli indicheranno come agire.
Secondo Banfield, anche se la popolazione si decidesse ad agire collettivamente, questo
influirebbe molto poco sule loro condizioni materiali in quanto non si muterebbe la
struttura sociale economica. Potrebbe diminuire il senso di umiliazione ma resterebbe la
fame e la stanchezza. Ci vorrebbe molto tempo per avere effetti positivi.

La marginalità storica
La ricerca di Banfield, e il relativo libro, ha ruscitato molta attenzione: Banfield ha
affrontato un nodo che aveva preoccupato i sociologi e gli storici economici, gli
amminstratori e gli esperti di sviluppo per decenni. Banfield afferma che la variabile
fondamentale nella creazione della moderna economia capitalistica, non è l'espansione
delle opportunità economiche, nè la creazione di uno spirito capitalistico orientato al
risparmo; senza la scienza dell'associazione questi elementi non sono di nessun aiuto.
Critiche: il sociologo è stato in primo luogo tracciato di etnocentrismo per aver utilizzato la
piccola comunità americana come modello di democrazia. Inoltre, è stato osservato che le
ipotesi di Banfield sono basate su una mitizzazione della comunità, che appare superata
dalla storia. Non solo il familismo, ma anche il "villagismo" amorale ostacolerebbe, infatti,
lo sviluppo. Altre osservazioni critiche sono state rivolte alla presunta irrazionalità del
comportamento dei Montegranesi. In primo luogo, osserva Pizzorno, scegliendo il proprio
interesse il montegranese si comporterebbe come qualsiasi homo oeconomicus; è stato,
infatti, notato che si potrebbe parlare di "razionalismo amorevole". Anche la preferenza
per i vantaggi materiali e di breve periodo potrebbe essere spiegabile come
comportamento razionale, e in particolare dato che si sceglie il vantaggio di breve periodo
quanto non si è in grado di prevedere ciò che succedrà nel lungo.
Anche Pizzorno spiega perchè non c'è nulla da fare a Montenegro: in Italia come in
Germania, Francia e altri paesi di tradizione giuridica romanistica,il negoziato tra privato e
funzionario pubblico non è previsto dall'ordinamento giuridico perchè si ritiene che esso
potrebbe portare al privilegiamentpo di alcuni interessi contro altri; negli Stati Uniti ciò è
consentito, invece, dal momento che si parte dalla convinzione che tutti gli interessi
abbiano uguale possibilità di accesso all'amministrazione pubblica. Secondo Pizzorno è,
quindi, chiaro che i Montegranesi non c'entrano con il familismo amorale perchè se i
Montegranesi si dessero da fare, i funzionari non li ascolterebbero e avrebbero dalla loro il
diritto. Inoltre non essendovi solidarietà interna, Montenegro non può essere considerata
una comunità ma soltanto un'unità amministrativa. Viene, inoltre, detto che Montenegro
si trova in una situazione di marginalità storica, derivante dalla struttura dei rapporti di
classe, che spiega molti elementi del familismo amorale. Il familismo amorale di Benfield, o
meglio la bassa propensione alla cooperazione tra i contadini sarebbe piuttosto da
attribuire alla precarietà delle loro esistenze, che dipende da una lunga storia di
sfruttamento estremo da parte dei grnadi proprietari terrieri. Costretto a vivere ai limiti
della sussistenza, il contadino sarebbe, quindi, costantemente in guardia contro ogni
possibile riduzione del suo magrissimo reddito. La mancanza di prospettiva storica
impedisce a Banfield di capire che è l'arretratezza economica a produrre familismo
amorale e non viceversa. Galtung, distingue i sistemi di valori di varie classi sociali: il
familismo amorale è tipico dei contadini poveri, mentre i ceti medi sono più propensi
all'associazionismo e al mutamento, sono, però, anche quelli meno legati agli interessi
della comunità e traggono più vantaggi dell'emigrazione, tendendo, quindi, ad
abbandonare le comunità. E' evidente che fra l'essere al centro o ai margini del processo
storico, Montenegro si trovi ai margini. Nelle situazioni di marginalità storica non c'è più
comunità e non vi è ancora società, non vi sono forti solidarietà associative. La sede del
"progresso storico" è, invece, là dove si elaborano i valori per tutti, anche per coloro che
stanno ai margini e là dove si realizzano i successi individuali misurati su quei valori; là
dove si fabbricano nuovi beni che soppiantano gli antichi, dove c'è chi ha il potere e dove si
cerca di arrivare.

Tradizioni civiche e rendimento istiuzionale


Le ipotesi dell'arretratezza come effetto di culture locali sono riemerse in anni recenti. Ne
"La tradizionecivica nelle regioni italiane" 1993 il politologo americano R. Putman riprende
l'approccio basato sulla cultura civica per spiegare il rendimento istutizionale delle regioni
italiane. Putman sottolinea gli effetti del contesto sociale e in particolare quello della
cultura. L'attenzione di Putman alle regioni deriva, infatti, dalla singolare occasione storica
che permette di ossrrvare la differente capacità amministrativa di istituzioni uguali l'una
con l'altra nel loro disegno organizzativo: cioè le 15 regioni italiane a statuto ordianrio.
Putman combina varie fonti: interviste a consiglieri reginali, a rappresentanti della vida
locale, sondaggi a livello nazionale ì, misure statistiche sul rendimento istituzionale in vari
settori, esame delle norme legislative ed esperimenti atti a misurare la prontezza di
risposta del governo locale; il tutto eseguito in più regioni. Putman vuole misurare il
rendimento istituzionale, osservando che esso coincide ampiamente con il grado di
soddisfazionedei cittadini per il loro governo. Putma costruisce, infatti, un indice di
rendimento utilizzando:
1) tre indicatori di funzionamento della gestione politica = - stabilità della giunta - la
puntualità nella presentazione del bilancio - presenza di sevizio statistici e di informazione.
2) alcuni indicatori riguardanti le realizzazioni (apertura di consultori familiari, ecc...).
Non solo questi indicatori sono risultati fortemente correlati l'uno con l'altro , ma il
rendimento istituzionale coincideva anche ampiamente conil grado di soddisfazione dei
cittadini per il loro governo. Putman osserva quindi che: alcune regioni hanno operto
meglio di altre, che il loro apparato amministrativo ha funzionato meglio che in altre, che
alcune hanno adottato e attuato una politica creativa. Putman individua due spiegazioni
che mette a confronto per quesro diverso rendimento. Putman analizza alcuni indicatori di
modernizzazione economica (reddito pro capite, il prodotto regionale lordo,ecc...).
Osserva che nonostante la correlazione tra rendimento e modernizzazione, la
modernizzazione non è comunque in grado di spiegare il rendimento. L'autore si
concentra, quindi, su una seconda variabile: la comunità civica ovvero il tessuto sociale in
cui si intrecciano l'impegno sociopolitico e la solidarietà. Secondo Putman il
comportamento dei cittadini, in alcune occasioni, può non ostacolare il raggiungimento del
bene comune. Questo avviene se si ci trova nelle comunità civiche, dove i cittadini si
rispettano e si stimano l'uno con l'altro. Putman sceglie quattro indicatori per misurare il
grado di civismo di una comunità:
1) la partecipazione associativa in gruppi che si occupano di tempo libero ed assistenza
sociale;
2) la lettura di giornali;
3) la partecipazione elettorale ai referendum;
4) l'utilizzazione del voto di preferenza all'interno delle liste.
Una società civica riporterà alti valori nei primi tre indicatori e un basso valore nell'ultimo
indicatore. La correlazione tra rendimento istituzionale e civismo della comunità appare
altissima. La divisione tra regioni civiche e regioni non civiche coincide con la divisione tra
regioni settendrionali e refioni meridionali Il civismo influenza la visione della politica e
delle istituzioni pubbliche: le virtù civiche appaiono come molto presenti e la politica viene
descritta come poco clientelare. Nelle regioni civiche, la maggior parte dei contatti, anche
all'esterno delle istituzioni, riguarda temi di interesse generale e i consiglieri sono più
favorevoli alla partecipazione popolare e più aperti al negoziato. I cittadini descrivono la
politica come "onesta" e hanno maggiore fiducia negli altri e ritengono che, in generale, la
gente rispetta la legge.
Secondo Putman, nelle regioni non-civiche la vita pubblica è organizzata in modo
gerarchico, il concetto stesso di cittadino è stereotipato. Sono pochissimi coloro che
partecipano alle decisioni riguardanti il bene pubblico. L'interesse per la politica non è
dettato dall'impegno civico ma scatta per l'obbedienza verso gli altri o per affarismo.
Le radici della comunità civica vengono fatte risalire al Medioevo, più esattamente ai
regimi politici che si affermano in quel periodo nelle due parti del paese. I Normanni al sud
avrebbero portato una regolamentazione dall'alto e struttura gerarchica, con il
mantenimento del potere dei feudatari. Al nord, invece, i comuni autonomi e repubblicani,
avrebbero favorito la collaborazione orizzontale e la vita associativa, l'espansione
dell'elitè, lo sviluppo dei contratti e la professionalità dell'amministrazione. Anche dopo
l'unificazione, le associazioni di mutuo soccorso prooliferarono al nord e vennero, invece,
bloccate al sud, dove la mancanza di una credibile imposizione della legge e l'antica cultura
della sfiducia, scoraggiavano la cooperazione. Scegliendo come indicatori di tradizione
civica le affiliazioni alle società di mutuo soccorso , le iscrizioni alle cooperative , la forza
dei partiti di massa, l'affluenza alle urne e la longevità alle associazioni locali, Putman
osserva un'altra correlazione tra il civismo di inizio secolo e rendimento istituzionale nel
periodo tra il 1978 e il 1985, oltre che sviluppo economico degli anni '70.
Nelle regioni civiche, la cooperazione volontaria sarebbe favorita dalla presenza sia di un
controllo sociale che penalizza la violenza degli accordi, sia da meccanismi informali per la
soluzione di conflitti. La cooperazione, quindi, è più facile in una società dotata di capitale
sociale, inteso come fiducia, norme che regolano la convivenza reti di associazionismo
civico. In queste società, esperienza positive di cooperazione spingono a continuare a
cooperare; il capitale cresce su se stesso. Generalizzando a partire sulla ricerca sul caso
italiano, Putman ha osservato che la "qualità della vita pubblica e il rendimento delle
istituzioni sono potentemente influenzate dalle norme e dalle reti dell'impiego civico"; la
presenza di associazioni aumenta, infatti, le probabilità di successo nei vari settori di
attività. Capitale sociale: si riferisce a quelle caratteristiche dell'organizzazione sociale,
quali reticoli e la fiducia sociale che facilitano il coordinamento e la cooperazione per il
mutuo beneficio. La vita è più facile in una comunità con capitale sociale. In primo luogo,
reti di impegno civico rafforzano le norme di reciprocità generalizzata ed incoraggiano
l'emergere della fiducia sociale; allo stesso tempo, le reti di impegno civico incorporano o
passati successi della collaborazione, che possono servire come modello culturale per
collaborazioni future; infine, dense reti di associazioni probabilmente ampliano il senso di
identità dei partecipanti, sviluppando l'"io" in un "noi".
Putman insiste, quindi, sulla necessità di politiche che sviluppano il capitale sociale.
I meriti della ricerca: raccolta un'enorme mole di dati con rigore scientifico, egli ha inolte
elaborato ipotesi interpretative e innovative che sono sficiate in proposte utili in termini di
politiche per lo sviluppo.
Critiche: è stato sottolineato il fatto che la presenza di capitale sociale non sempre facilita
il buon governo. Il capitale sociale è, infatti, composto da tutte quelle risorse sociali che
facilitano l'azione. Il capitale sociale può favorire il conflitto ed essere da esso rafforzato. In
secondo luogo, la cooperazione non migliora automaticamente il rendimento di un
governo democratico: gli interessi possono essere quelli di una minoranza e non essere
congruenti con la democrazia capitale sociale; si è cominciato a parlare di "cattivo capitale
sociale", ad esempio, quello usato dai nazisti in Germania. Un ulteriore critica riguarda le
capacità delle associazioni di produrre fiducia e cooperazione. E' stato osservato che
assocazioni quali, cori o le soicetà sportive, non producono norme di reciprocità. Inoltre, la
fiducia generata dentro un'associazione non si estende facilmente ad altri contesti: ad
esempio, il vicinato è fonte di fiducia e fonte di mancanza di fiducia; promuove cioè la
fiducia all'interno e sfiducia in coloro che non appartengono al vicinato. Inoltre, non solo le
associazioni creano capitale sociale, il quale può essere prodotto anche da altre istituzioni
dal basso, come la famiglia e il gruppo dei parti o, dall'alto, come le scuole, organizzazioni
nazionali di movimaneto sociale.
Sidney Tarrow (1996) sottolinea che gli indicatori di capacità ciciche utilizzati dal politologo
americano non sono indipendenti dai partiti politici: è la politica progressista a produrre
civismo. Sono i governi a stimolare solidarietà piuttosto che viceversa.
Si sono quindi contestati i dati utilizzati da Putman e la stessa affidabilità dei risultati.

Subculture territoriali e localismo


Il tema della presenza in Italia di subculture territoriali era già emerso da tempo nella
ricerca sullo sviluppo economico e politico di alcune regioni. Negli anni '60 un filone di
ricerca si era concentrato sul tema del rapporto tra struttura, potere e sviluppo
economico nella comunità. In particolare riportiamo due ricerche: una su Sassari e una su
Salerno.
La ricerca su Sassari, il cui rapporto non è mai stato pubblicato, è stata condotta da
Alessandro Pizzorno e Laura Balbo. I due sociologi osservano che quando l'economia
sassarese tradizionale entra in crisi, non sviluppa alcun tipo di economi sostitutiva. Tale
mancanza di innovaizone viene collegata ai modelli di carriera ai quali si ispirava la classe
dirigente tradizionale: libera professione, carriera accademica e carriera politica. In queste
condizioni le uniche opportunità di sviluppo economico venfono dall'esterno, attraverso
investimenti da parte di imprese private ed enti pubblici al di fuori della città.
L'imprenditore che interviene ha, però, bisogno di una serie di infrastrutture e garanzie,
offerte dal potere locale. Gli imprenditori sono così costretti a seguire una logica di tipo
politica (dove i politici locali fanno da mediatori) piuttosto che di tipo economico: essi
andranno dove hanno le portezioni politiche e non dove effettivamente l'investimento
potrebbe essere più produttivo. I confini tra stato e mercato si confondono con effetti
negativi.
Un'ipotesi simile è stata fatta nella ricerca di Bonazzi, Bagnasco e Casillo (1972) su Industria
e potere, condotta nella porvincia di Salerno e volta ad analizzare gli effetti del rapporto
tra centralità e marginalità sui processi di sviluppo e sottosviluppo. L'ipotesi di fondo è che
la dominanza del centro sulle aree marginali produca e riproduca gli squilibri territoriali
nello sviluppo. L'intervento politico del centro nelle aree marginali, giustificato come aiuto
allo sviluppo, causerebbe invece sottosviluppo. L'intervento riproduce la polarizzazione tra
aree centrali e aree marginali, anche all'interno delle aree marginali stesse. In particolare,
la distribuzione del credito agevolato e delle agevolazioni fiscali è tal da aumentare le
differenze tra poli di sviluppo e aree arretrate. L'intervento della politica nelle attività
imprenditoriali è spesso anti-economico, in quanto, basato sulla creazione di industrie che
assorbono mano d'opera, senza tener conto della produttività. Le imprese nascono e
sopravvivono per un certo periodo di tempo grazie al denaro pubblico ma poi scompaiono
rapidamente. Si parla, quindi, di spreco delle risorse pubbliche, non si riesce a creare una
classe imprenditoriale con un auotonomo spirito di iniziativa. Le caratteristiche dello
sviluppo economico di alcune aree si intrecciano con la cultura tipica di queste zone , con
ripercussioni anche dal punto di vista del potere locale. Ad esempio,se la marginalità
produce una cultura che scoraggia l'associazionismo e l'azione collettiva, la mancanza di
azione collettiva aiuta il riprodursi della marginalità. Si manifestano, cioè, delle subculture
politiche che si radicano nella tradizione e si riproducono attraverso la creazione di
istituzioni subculturali.
In Italia si parla di subcultura rossa e subcultura bianca. Nel libro "grandi partiti e piccole
imprese" Carlo Triglia ha collgaato subculture politiche e caratteristiche dello sviluppo
industriale, cercando di rispondere alla domanda "che relazione c'è tra le origini e la
persistenza di regioni rosse e bianche e un'organizzazione economica che ha privilegiato le
piccole dimensioni e il lavoro autonomo?". Triglia richiama una categoria, cioè la
subculturra politica territoriale che definisce come: un particolare sistema politico locale,
la subcultura politico territoriale, caratterizzato da un elevato grado di consenso per una
determinata forza e da una elevata capacità di aggregazione e mediazione dei diversi
interessi a livello locale. Questo presuppone l'esistenza di una fitta rete istituzionale
coordinata dalla forza dominante, che controlla anche il governo locale e tienen i rapporti
con il potere politico centrale. Attraverso questa rete, non solo si riproduce un'identità
politica particolare, ma si contribuisce anhe all'accordo locale tra i diversi interessi. In
Italia, come in altri Paesi gli orientamenti e i comportamenti politici sono caratterizzati da
rilevanti variazioni territoriali. Esistono alcune aree in cui è prevalente una determinata
tradizione politica, ed è radicato un complesso di istituzioni che si richiamano alla
medesima matrice politico-ideologica. Tali casi vengono definiti, nel linguaggio
sociologico, come subculture politiche territoriali. Le zone di forte presenza comunista
dell'Italia centrale e quelle democristiane del nord-est sono tipici esempi di questo
fenomeno. Tale situazione è particolarmente rilevante in Italia anche a causa della
ritardata costruzione dello stato-nazione che si riflette in differenze territoriali. Gli studi
sulle subculture territoriali sono stati anche centrali per l'analisi della geografia elettorale ,
orientata a collegare le mappe del voto con quelle sociali. In Italia sono stata osservate le
specificcità regionali del comportamento elettorale, concentrando l'attenzione sulla forza e
sul radicamento di particoalri partiti. Si è individuato un Mezzogiorno dell'Italia
caratterizzato da arretratezza economica e da un particolare tipo di voto: il voto
clientelare o di scambio; gli studi sulla "terza Italia" hanno collegato il "voto di
appartenenza" radicato nell'identità collettiva delle regioni del Certo e del Nord-Est
all'assenza di polarizzazione di classe ed alla presenza, invece, di interessi locali percepiti
come comuni , cos' che il conflitto territoriale tende a ricomporre quello sociale. Gli studi
elettorali hanno permetto di delineare in maniera precisa i confini territoriali delle
subculture. E' stata individuata una zona a subcultura rossa, composta da 20 province,
localizzate prevalentemente in Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Marche; e una zona a
subcultura bianca, comprendente 17 province prevalentemente in Veneto, Friuli, Trentino
e Lombardia.
Nelle zone bianche la subcultura si era costituita attorno alle istituzioni della chiesa
cattolica, nelle regioni rosse vi era stato un precoce insediamento del partito socialista
ereditando tradizioni anarchiche e repubblicane.
Per quanto riguarda l'emergere delle due subculture, essa è stata spiegata come
caratterizzata da una particolare forma di integrazione politica di gruppi sociali emergenti.
Entrambe le subculture emergevano nel secondo dopoguerra. Il partito comunista e la
Chiesa esercitavano un controllo e un coordinamento delle altre istituzioni assistenziali,
culturali e ricreative, economico-categoriali.
Nelle regioni rosse, la subcultura era riaffermata durante l'esperienza della resistenza al
fascismo. Nel secondo dopoguerra assumeranno un ruolo centrale come miti unificanti, sia
l'Unione Sovietica che l'antifascismo. Socializzazione familiare ed una fitta rete di istituzioni
riproducevano il sistema di valori tipico della subcultura che si riflesse in un massiccio
sostegno elettorale ai partiti di sinistra.
La subcultura bianca, invece, organizzata attorno alla chiesa e alle sue associazioni
collaterali. Il voto per il DC viene spiegato dal rapporto tra quel partito e la Chiesa, che
assumeva in queste zone una funzione di organizzazone della società locale.
Le due subculture cosi distanti e nemiche avevano molti tratti in comune:
1) alto grado di partecipazione;
2) ferrea fedeltà di voto;
3) i valori: la famiglia, l'etica del lavoro, la comunità locale, ecc...
Secondo Triglia la permanenza delle due subculture, dopo la guerra fredda, può essere
spiegata tramite la continuità politica delle subculture di riprodurre un ampio consenso
favorendo una mediazione di tipo localistico degli interessi coinvolti nella crescita delle
piccole imprese. Vi sono tre aspetti di questa mediazione, comuni in entrambe le aree:
1) la sedimentazione di risorse per l'organizzazione degli interessi e di uno specifico stile di
mediazione degli interessi di tipo localistico;
2) il contributo che viene al mantenimento di un quadro culturale e istituzionale
tradizionale;
3) la specifica influenza della cultura socialista e cattolica delle aree inesame e sula
formazione di una particolare etica del lavoro.
Di recente il concetto di subcultura è sfumato in quello di localismo: il discorso sul
localismo prende spunto dal ruolo assunto dall'econommia nazionale a partira dagli anni
'70, dai sistemi di piccola impresa, localizzate nelle aree settendrionali del paese. Si tratta
di attività produttisve svolte in prevalenza da sistemi di imprese di piccola dimensione, in
prevalenza "mononucleari", caraterizzati da un forte reticolo di interdipendenze, da un
elevato grado di comunicazione specifica e da una stretta interazione fra attività
economica, cultura e istituzioni territoriali. La famiglia e la comunità locale, in particolare,
garantiscono e riproducono l'etica del lavoro, la solidarietà, la trasmissione di valori,
conoscene e conoscenze lavorative.
Dagli anni '70 si comincia a parlare di una crisi delle subculture territoriali, crisi che si
manifesta nello sgretolamento del consenso elettorale ai due partiti di riferimento. La DC
ha un crollo completo all'inizioo degli anni '90 e lascerà ampio spazio alla Lega. Alcune
specificità de modello di localismo democristiano, unite ad alcune caratteristiche
nell'ambiente, aiuteranno a spiegarne la crisi: secolarizzazione mette in crisi questo
sistema di legittimazione. Lo stemperarsi dell'identità religiosa fa si che orientamenti di
valore tradizionalmente radicati, in queste aree, quali il localismo, il particolarismo
falimista e individualista, la sfiducia verso lo stato, riemergano. La subcultura territoriale
tende a scindersi da quella cattolica. La DC ha, inoltre, risentito del conflitto che emergeva
tra centro e periferia. Trasformazioni sociali si sono riflesse in nuove rivendicazioni. Se la
rete associativa si è ampliata, essa, comunque, si è autonomizzata rispetto alla chiesa,
diventando più laica e pluralista.
La globalizzazione economica unita al rafforzarsi dell'Unione Europea hanno messo in crisi
vecchie identità e stimolano alla ricerca di nuove. Mentre nelle "regioni bianche" si
privilegia la logica della mediazione con lo Stato, in quelle "rosse" si valorizza
maggiormente l'intervento autonomo dell'azione pubblica sul territorio a sostegno e
indirizzo delle economie e delle società locali. In questo modo, l'intervento pubblico è
avvertito come "vicino" al territorio. La crisi comunque arriverà anche per la subcultura
rossa alla fine degli anni '80, catalizzata in particolare con il crollo del socialismo reale che
ne aveva rappresentato un mito importante. All'inizio degli anni '90 ci fu un crollo degli
iscritti al PCI. Interviste in profondità indicarono un logoramento dei valori della subcultura
rossa, un incrinarsi della fiducia nell'amministazione locale, una critica alla
burocratizzazione di partito e sindacato. Inolte, la secolarizzazione culturale e le
trasformazioni sociali sono state viste come cause di una crisi che è prima di tutto crisi di
valori tradizionali.
Nelle elezioni più recenti, in particolare nel 1994, la vittoria nelle aree di subcultura rossa è
stata nettissima. Inolte, nel 1996, l'elettorato di sisnistra ha mostrato una grande fedeltà al
partito e un'ampia disponibilità alle strategie di alleanze con il centro. L'ipotesi esplicativa
è stata individuata nella presenza di valori di una cultura civile diffusa e una solidarietà del
rapporto con le istituzioni locali, un intrecci odi interessi materiali e beni simbolici,
struttura degli interessi e sistema dei valori condiviso che ha resisitito abbastanza sullo
sfondo della crisi dell'ideologia. La perdita del mito internazionalista potrebbe essere
sostituita de una maggiore identificazione localista. Il localismo è il fondatore d'identità,
compresa l'identità politica: cultura territorializzata, la cultura rossa può allora trovare, qui
delle opportunità di sopravvivenza. Un'identificazione con la propria terra.
Condizioni e attitudini delle amministrazioni locali intervengono in maniera determinante
sulle direzioni dello sviluppo economico. Le due subculture hanno , infatti, dato vita a due
diversi modelli di regolazione e di sviluppo locale. Il concetto di subcultura è ancora utile
nell'analisi sul potere locale. Nelle analisi non si possono, comunque, trascurare i ruoli che,
nell''affermazione delle culture locali, hanno i partiti politici e gli altri attori della
mediazione degl interessi.

La politica locale - riassunto 5° capitolo


I partiti clientelari
Il clientelismo definisce una relazione di potere tra individuo o gruppi in posizione
diseguale. La parola cliente deriva dal latino clientes,e indica gli individui di status inferiore
che,nell’antica Roma,venivano protetti di fronte alla legge e aiutati economicamente dal
patronus. In questo caso,clientelismo è sinonimo di patronage,ed entrambe le parole sono
utilizzate per definire una relazione tra due individui con differenti risorse di
status,prestigio e ricchezza sociale. La relazione patrone-cliente assume delle
caratteristiche specifiche:
1)sono interazioni sociali basate sullo scambio personale di favori,esse si differenziano
dalle relazioni basate sulla solidarietà primarie e orizzontali di classe,lo scambio è diretto e
diffuso;
2)sono relazioni reciproche:il patrono protegge il suo cliente e in cambio questo deve fare
qualcosa per lui;
3)si entra in relazione volontariamente;
4)la restituzione del favore non è imposta da una obbligazione di contratto ma da un senso
più personale di gratitudine e lealtà;
5)la relazione inizialmente era solo fra due persone,ora è uno scambio tra più persone.
In base alla differente relazione che si instaura tra patrono-cliente viene fatta una
distinzione tra tipologie e classificazioni.
Le risorse possono essere dirette(terre,prestigio personale,lavoro,competenze tecniche) e
indirette(risorse la cui disponibilità dipende da contratti strategici con coloro che le
controllano). Le caratteristiche del clientelismo variano anche a seconda del tipo di risorsa
che il cliente adopera per restituire il favore ottenuto dal patrono.
L’obbligazione che lega il cliente al patrono può variare,su un continuum affettività-
strumentalità,e può essere sanzionata o meno da vincoli di tipo ascritto nella definizione
dei ruoli. La relazione patrono-cliente differisce inoltre grandemente in durata,forza e
generalizzabilità del patto reciproco,oltre che nella presenza o meno di sanzioni. In alcuni
casi il clientelismo può assumere la forma di nepotismo,cioè distribuzione di lavori o
contratti sulla base del vincolo di parentela.
Possiamo individuare due tipi di clientelismo quello dei notabili e quello dei partiti,essi
sono connessi tra loro perché quello dei partiti segue quello dei notabili.
Il clientelismo dei notabili o tradizionale:le relazioni sono diadiche,verticali,e faccia a
faccia. Nelle società tradizionali i notabili usano il loro denaro e i loro prestigi per costruirsi
reti protetti;grazie alla loro posizione controllano i loro protetti. Quando la struttura dello
stato si espande al centro,i notabili fanno da tramite tra centro e periferia:lo stato centrale
fornisce ai notabili risorse pubbliche che devono essere distribuite,aumentando così il loro
potere. In cambio,i notabili “trasferiscono” lealtà alle istituzioni politiche. Con il processo di
modernizzazione i notabili iniziano a perdere i loro poteri:la distribuzione delle risorse
pubbliche viene amministrata dai partiti. Nasce così il clientelismo di partito o moderno:le
relazioni sono poliadiche,orizzontali e coinvolgono spesso attori collettivi. Con il
clientelismo di partito,il consenso comincia ad essere organizzato attorno ai politici
professionisti,che usano le risorse pubbliche come loro risorsa privata. In questa situazione
le relazioni si affinano,convertendosi in impersonali. Da parte dei clienti cessano i
sentimenti di timore e devozione verso il notabile. Questa nuova relazione si base sullo
scambio materiale. I clienti possono comparare e valutare le varie proposte e benefici
offerti da differenti patroni. Si afferma così la tendenza a negoziare continuamente il loro
appoggio in cambio di favori. Principale risorsa per il funzionamento della macchina
clientelare sono i contributi che provengono dai privati,e vengono quindi gestiti
assicurandosi consenso in cambio della distribuzione di posti di lavoro e welfare. Come ha
osservato Raymond Wolfinger,in una descrizione della macchina politica a New Haven è “ il
controllo del governo cittadino o statale a offrire ai partiti locali una quantità formidabile
di risorse che,secondo la legge,il costume e l’opinione pubblica,possono essere sfruttate in
cambio di denaro e lavoro. I leaders di partito ricompensano coloro che sono fedeli ed utili
offrendo loro lavoro,e quindi chiedono loro contributi significativi per pagare il costo del
loro mantenimento al potere. Il potere del boss politico deriva infatti dalla sua capacità di
costruirsi reticoli di clienti fedeli”;è stato proprio un boss politico di New Haven ha
affermare “io faccio molto per la gente…la gente mi chiama pure di notte a casa,mi viene a
cercare. Io costruisco rapporti di lealtà. La gente non lo dimentica”.

Cause e dinamiche del clientelismo


Se il clientelismo è un modo per organizzare delle relazioni tra centro e periferia, esso non
è il solo. Ci devono comunque essere della precondizioni nell’ambiente perché si
sviluppino relazioni patrono-cliente:
1) Disuguaglianza sociale: tali relazioni si sviluppano in quelle società in cui i patroni hanno
molto da offrire e i clienti hanno un forte bisogno di favori. (esempio lampante: paesi del
terzo mondo!stratificazione di classe estremamente polarizzata).
2) Dal punto di vista economico sembrano svilupparsi meglio dove si presentano
economie estensive ed estrattive, con una bassa specializzazione interna e una bassa
propensione per la innovazione tecnologica. La macchina clientelare non attira solo i
poveri, e tantomeno li avvantaggia.
3) Per quanto riguarda la cultura politica, tali relazioni sono di solito accompagnate da
codici culturali che solidificano lo scambio, enfatizzando l’onore, la reciprocità, la
mediazione, il fatalismo e il ruolo dei rapporti di parentela, e da un familismo amorale,che
scoraggia le solidarietà orizzontali allargate,spingendo invece verso la ricerca di protezione
individuale. In ambienti culturali a forte diffusione di norme tradizionali, i patroni
sviluppano una generosità strumentale: attraverso la distribuzione dei favori, essi
vincolano i loro clienti alla restituzione attraverso il voto e la lealtà. La maggior parte di
queste condizioni sono più probabili nelle fasi di transizione, quando cioè il mondo
capitalistico di produzione e la burocrazia pubblica non hanno ancora penetrato l’intero
sistema, mentre l’immigrazione e l’urbanizzazione hanno già scosso gli assetti tradizionali.
In queste situazioni, le istituzioni politiche non sono abbastanza forti da mediare,
soprattutto a livello locale, tra i cittadini e lo stato. Il clientelismo non è scomparso con lo
sviluppo delle democrazie moderne. Il crescente potere dello stato è accompagnato da
tentativi sempre più aggressivi di avere accesso alle risorse pubbliche attraverso rapporti
privilegiati e si è generalizzata nel sistema dei partiti la prassi di cercare di conquistare
interi blocchi di voti attraverso la distribuzione di favori e privilegi a particolari gruppi della
popolazione. Ma cosa determina la scelta di un partito tra la distribuzione universalistica
di benefici collettivi e la distribuzione clientelare di benefici divisibili? Le variabili più
importanti che intervengono nella scelta dei partiti sono l’orientamento e le preferenze
degli elettori, gli interessi, il tipo e l’ammontare di risorse disponibili per il partito.
Per quanto riguarda gli elettori,per esempio, gli immigrati, i contadini sradicati dalle
campagne e a volte le classi media vengono considerate più sensibili ai partiti che offrono
benefici divisibili, mentre la classe operaia sembra rispondere in modo più favorevole ai
partiti che offrono benefici collettivi. Partiti a base operaia tenderanno quindi a distribuire
incentivi ideologici, mentre i partiti interclassisti saranno più portati al clientelismo. Ci sono
delle conseguenze che implica il clientelismo. Alcuni hanno individuato delle funzioni
positive del rapporto patrono-cliente: essi permetterebbero un’integrazione sociale
verticale, offrirebbe un’alternativa alla violenza nella gestione dei conflitti sociali,
favorirebbe la collaborazione inter-classe e svilupperebbe gli scambi tra centro e
periferia. In alcuni momenti la macchina politica ha preso decisioni vantaggiose per la
classe operaia (esempio: città americane secolo scorso: la macchina politica avrebbe
sostenuto sia politiche del lavoro riformatrici che un sistema di welfare informale basato
su associazioni. Altri studiosi sostengono che la macchina politica invece non sia
interessata a politiche che migliorano il benessere collettivo o a politiche innovative in
quanto distribuiscono ricompense tangibili e divisibili. Lo sviluppo dei rapporti clientelari
presenta seri rischi per la democrazia: in primo luogo la distribuzione individuale di
benefici è un modo di raccogliere consenso molto costoso e inflazionistico,a causa del
numero di persone che premono per essere incluse che cresce continuamente. Richiede
quindi una quantità crescente di risorse, riduce la possibilità di programmare la spesa
pubblica in vista dell’interesse generale. Delegittima i partiti che divengono strumenti per il
perseguimento di interessi personali e scoraggia la mobilitazione collettiva.
Un’altra “patologia” presente nel governo locale è la corruzione: corruzione e clientelismo
vengono considerati come fenomeni vicini. I due fenomeni sono comunque differenti:
1) Per il medium di scambio innanzitutto, la corruzione politica comporta uno scambio di
decisioni pubbliche per denaro, nel clientelismo è invece la protezione ad essere scambiata
per il consenso.
2) In secondo luogo solo nel caso del clientelismo è possibile individuare una distinzione
verticale con una subordinazione di un clientes ad un patrono, mentre nella corruzione è
molto più problematico stabilire una eventuale subordinazione di una parte all’altra.
3) Nel caso del rapporto patrono/cliente lo scambio è generalizzato, relativo a prestazioni
non definite, mentre nella corruzione politica lo scambio è di tipo economico.
4) Anche i meccanismi di restituzione sono differenti: la restituzione nel caso del
clientelismo è garantita da obblighi personali e gratitudine, mentre nel caso della
corruzione è collegata più ad una scelta di razionalità strumentale legata alle aspettative di
una ripetizione del gioco.
5) Diverso grado di percepita illegalità: l’imprenditore che paga il politico commette reato,
non lo commette invece chi vota il politico che gli ha fatto un “favore”. Proprio per questo
gli attori presenti nella corruzione si nascondono maggiormente.
La osservata compresenza dei due fenomeni non è casuale ma i due fenomeni sono
complementari. I valori dell’amicizia strumentale sono tipici sia per i rapporti clientelari sia
per quelli di corruzione. Entrambi i fenomeni portano a una privitizzazione della politica,
cioè l’utilizzazione dell’accesso all’autorità politica come risorsa privata. Clientelismo e
corruzione si intrecciano: la diffusione dell’uno facilita quella dell’altro e viceversa. Alla
presenza di clientelismo è collegato il voto di scambio, inteso come acquisizione
individualistica di suffragi in cambio di favori. La necessità di acquistare individualmente i
voti aumenta i costi della politica, spingendo i politici a raccogliere risorse materiali da
investire nella ricerca del potere. Clientelismo e voto di scambio aumentano cioè la
propensione a cercare denaro illecitamente,quindi anche a farsi corrompere. Inoltre,essi
rendono più competitivi i politici corrotti,che possono reinvestire le tangenti
nell’acquisto,più o meno diretto,dei voti. Aumenta quindi il numero di politici disponibili a
comprare voti e consenso attraverso strategie di rapporti individualistici. Ma c’è anche un
passaggio uteriore:l’offerta dei canali privilegiati trasforma i cittadini in clientes.Occorre
anche un’altra condizione per il completamento del passaggio: i cittadini devono sentirsi
spinti a cercare protezioni individualizzate. Per capire come ciò avviene,si deve guardare ad
un ulteriore fenomeno,anch’esso intrecciato a clientelismo e corruzione:la cattiva
amministrazione.

Clientelismo e Mezzogiorno
Per molto tempo, gli studi sul clientelismo hanno riguardato i paesi in via di sviluppo e
sono stati un campo privilegiato degli antropologi. Gli scienziati politici che si sono occupati
del clientelismo nelle democrazie avanzate si sono concentrati prevalentemente su due
casi storici: la macchina politica negli Stati Uniti tra la fine del secolo scorso e l’inizio del
nostro, e il Sud Italia, in particolare a partire dal secondo dopoguerra.
Il Mezzogiorno d’Italia raccoglie alcune della cause del clientelismo prima evidenziate, ma
ha anche una particolarità: una “particizzazione” delle relazioni clientelari, e la loro
capacità di estendersi anche superata la fase della modernizzazione politica. Lo sviluppo
del clientelismo nel Meridione è stato tradizionalmente collegato al dualismo territoriale,
in particolare all’emarginazione del Sud dallo sviluppo economico che avveniva nelle altre
regioni italiane. Il clientelismo stesso, in effetti, è un indicatore del fallimento di istituzioni
quali il mercato, i partiti e la burocrazia pubblica. In Italia non vi è stato lo sviluppo di
partiti politici organizzati per difendere gli interessi della periferia, in particolare del Sud.
Data la distanza del Parlamento dalla gente e dello stato dalla società locale, i politici locali
assunsero un ruolo di mediatori del consenso, gestendo raccomandazioni e favori. Nel
secondo dopoguerra si è tentato di intervenire rispetto all’arretratezza economica del
Mezzogiorno attraverso interventi straordinari, con la creazione della Cassa per il
Mezzogiorno, la riforma agraria, e la localizzazione dei imprese statali al Sud. Il Sud divenne
un serbatoio di consenso per una classe politica di governo che aveva difficoltà a radicarsi
nella classe operaia. “Lo sviluppo del Mezzogiorno degli ultimi decenni ha caratteri
contradditori: incremento del reddito, ma scarsa capacità di produzione, miglioramento di
condizioni civili, ma cattiva qualità dei servizi e minaccia crescente di criminalità”. Moti
studi di scienziati politici hanno analizzato il funzionamento delle macchine clientelari nel
secondo dopoguerra, concentrandosi su alcune città del Mezzogiorno. Ricerche su Catania,
Palermo, Napoli ed Eboli hanno ricostruito il passaggio dal clientelismo notabiliare al
clientelismo di massa, attraverso l’analisi delle trasformazioni organizzative del partito
dominante nel Sud Italia, la Democrazia Cristiana. Nella ricerca di Mario Caciagli,
nell’immediato secondo dopoguerra, la Dc era organizzativamente debole, nel 1948 il
partito si rafforzò grazie soprattutto alla mobilitazione della Chiesa e dei Comitati civici.
Negli anni 50’, l’attività di potenziamento, dell’apparato del partito si intrecciò con una
utilizzazione della spesa pubblica ai fini della raccolta individualistica di consenso.
La gestione del comune e della provincia erano caratterizzate da un enorme aumento del
deficit e dalla esplosione dell’occupazione pubblica.
La spesa pubblica serviva a rafforzare il controllo clientelare attraverso la gestione di posti
di lavoro, assegnazione case, sussidi, posti letto in ospedale, gestione appalti… Nel
mezzogiorno si assistette così alla formazione di rapporti stabili tra la Dc e i costruttori
edili, che faranno fortuna nel periodo della grande speculazione edilizia. (Esempio: caso
catanese: il reclutamento di iscritti avveniva attraverso i segretari di sezione, che
controllavano una rete di “capi-tessera”, che a loro volta erano in contatto con dei
“capofamiglia” ciascuno dotato del suo pacchetto di voti. Veniva ricambiata la loro fedeltà
con posti di lavoro negli enti pubblici e/o nomine nei consigli di amministrazione degli enti.
Una simile struttura la si trova anche nel caso napoletano. Mentre all’inizio le sezioni erano
il luogo principale dell’aggregazione del consenso, in seguito con l’occupazione della
pubblica amministrazione, si assiste ad una trasformazione. Negli anni sessanta il socio-
cliente non entra più in contatto con i dirigenti del partito attraverso la sezione, ma tramite
gli uffici pubblici e poi si iscrive alla sezione a sostegno degli uomini che ricoprono cariche
pubbliche ai quali si è rivolto.) La macchina viene controllata dai boss che distribuiscono
le risorse pubbliche. I boss locali si presentano come mediatori di risorse materiali
provenienti dal governo centrale. Le federazioni locali della Dc nel Mezzogiorno divengono
così l’illustrazione per eccellenza di un partito clientelare di massa. Il partito diventa solo
un canale di distribuzione di benefici. Possiamo trovare somiglianze e differenze con il
modello del partito macchina che è definito come: apparato stabile guidato da boss locali
in grado di controllare la massa degli elettori e i centri di decisione politica e di attività
economica, privo di ideologia e fondato su scambi diretti e parcellizzati, che esclude una
crescita autonoma e una partecipazione reale dei suoi aderenti. Il partito clientelare è a-
ideologico ed è basato sulla distribuzione di favori in cambio di voti, la principale diversità
tra i due modelli è collegata ai rapporti con il centro politico, che sono irrilevanti per il
partito-macchina e fondamentali invece per il partito clientelare di massa. Nella macchina
clientelare vi è un enorme spreco di risorse, dato che il consenso viene acquisito
attraverso la distribuzione di favori pagati attraverso denaro pubblico. La lotta per il potere
inoltre, incentiva forti spinte centrifughe all’interno dei partiti politici laddove
un’opposizione politica debole è incapace di sfidare i boss politici.
La ricerca di Caciagli e dei suoi collaboratori mostra, alla metà degli anni Settanta, una fase
di apparente crisi della macchina clientelare coincidente con un periodo di bassa
congiuntura economica. Nonostante le difficoltà, comunque, il potere della Dc non è stato
incrinato, almeno fino all’inizio degli anni 90’. Palermo spiega la sopravvivenza della
macchina clientelare alla crisi economica e di risorse: il rapporto tra patrono-cliente non
dipende dal flusso continuo di benefici, ma piuttosto dal sostegno delle aspettative di
ricompensa del maggior numero di persone con il minimo dei pagamenti in termini di
benefici concreti. La crisi economica può anche rafforzarlo. Il clientelismo al Sud si è
radicalizzato, si è infatti parlato di una “meridionalizzazione” del sistema di potere
democristiano, con un clientelismo esteso anche nelle zone a subcultura bianche. Recenti
riflessioni hanno messo in luce la presenza del fenomeno anche al Nord del paese. Anche
al nord infatti, se l’ideologia è stata spesso considerata come fondamento del potere della
Dc, essa tuttavia si intrecciò con lo sviluppo di un sistema clientelare. Tradizionalmente la
Dc nell’area di subcultura bianca, si fondava sulla parrocchia, il vescovo interveniva
attivamente negli affari della comunità. Secondo un’ intervista il vescovo sceglie i
candidati,li dissuade perché il partito non li vuole e li convince a non candidarsi.Poi ricerca i
candidati che considera adatti e affida loro gli incarichi.. Questo si estende poi anche alle
associazioni.

Clientelismo, corruzione e criminalità organizzata


Le indagini di “Mani pulite” hanno almeno, apparentemente, portato al crollo delle
macchine politiche. La ricerca sulla corruzione politica ha messo in luce il complessivo
indebolimento della struttura organizzativa che essa aveva prodotto in tante federazioni
locali, non solo della Dc. Per quanto riguarda la Dc, una ricerca sul caso catanese alla fine
degli anni 80’ ha rilevato una frammentazione della macchina politica che poco tempo
prima sembrava trionfare. La struttura di partito forte della Dc si era andata gradualmente
indebolendo. Negli anni 70’ i segretari di sezione, conquistatisi una base autonoma di
risorse nella pubblica amministrazione si erano ribellati a Drago (a lungo boss del partito a
livello locale), minandone il potere. La ricerca sulla corruzione politica conferma che il
sistema ad alta corruzione si è sviluppato in un periodo in cui il clientelismo diffuso aveva
contribuito a ridurre le capacità di controllo dei partiti sui loro amministratori. La
frantumazione del sistema partitico era favorita dal fatto che, per molti amministratori, il
passaggio dalla Dc ad un partito minore diveniva un modo per aumentare il proprio
potere”poiché le forme di governo sono coalizioni, chi ha 5.000 voti e sta in un partito di
60.000 voti come la Dc, deve confrontarsi con altri, ma se sta in un partito di 7.000 voti,
con il suo pacchetto di 3.000 voti diventa un soggetto egemone del partito”. Le cause della
crisi del modello di Drago possono essere individuate nell’emergere di una nuova classe
politica che, grazie ad un uso intrecciato di corruzione e clientelismo, riesce ad aumentare
il proprio peso, trasformando i partiti politici stessi. Simili a quelle delle federazioni locali
della Dc erano le vicende delle due federazioni locali del Psi. Nella pubblica
amministrazione, i politici corrotti si sono arricchiti personalmente, raccogliendo tangenti e
sfruttando il loro potere politico in altre attività, soprattutto dove la loro posizione politica
li avvantaggia. In primo luogo, gli agganci politici servivano ad occupare posti di burocrati
nel settore pubblico. I rapporti che esse permettevano di costruire nei mercati illegali
producevano vantaggi anche nelle carriere legali. Le carriere politiche divenivano così
particolarmente attraenti per quelle categorie di professionisti (dai medici agli architetti)
che pensavano di poter lucrare di più dal controllo delle decisioni pubbliche. Con lo
sviluppo di clientelismo e di corruzione è cresciuto il potere e il prestigio di una serie di
figure caratterizzate dalla gestione di un potere pubblico, come quella dei “cassieri di
partito” che coordinano le spese di vari enti e le entrate illecite degli amministratori o i
“professionisti protetti”, cioè architetti, ingegneri, avvocati o manager dotati di agganci
nella politica e nell’amministrazione che i partiti sistemavano come loro uomini di fiducia
nelle varie commissioni di attribuzione e controllo degli appalti pubblici. Mentre i boss
politici americani dovevano sopperire in parte con fondi propri alla mancanza di servizi
sociali, i moderni boss possono contare sulle ampie risorse pubbliche di un welfare state
ben sviluppato per assolvere ad una funzione necessaria al sistema politico: la
mobilitazione del consenso.I politici corrotti costruivano, in primo luogo, rapporti
privilegiati con alcuni gruppi imprenditoriali, realizzando stabili alleanze orientate al
finanziamento della loro carriera. L’imprenditore che, grazie al pagamento della tangente,
si trova in una situazione di mercato privilegiata può avere interesse alla stabilizzazione del
rapporto con la sua controparte, e quindi votare e far votare per l’amministratore con cui è
in rapporto. La corruzione quindi anche come strumento per raccogliere consensi. Proprio
l’aspirazione a far crescere il volume delle tangenti ha portato inoltre i politici corrotti a
moltiplicare spese e attività dei loro enti, e con esse, la possibilità di distribuire favori. Per
raccogliere più tangenti, essi devono spendere più denaro pubblico, almeno in quei settori
in cui i ricavi illeciti sono più facili. Infine, il denaro delle tangenti, aumenta la possibilità di
costruirsi ampie clientele di elettori, sia attraverso il mantenimento di contatti continui, sia
coinvolgendo nella propria rete individui e organizzazioni capaci di spostare interi pacchetti
di voti. Il denaro acquisito attraverso la corruzione politica rafforza la mobilitazione del
consenso. In questa situazione i partiti si frammentano in più gruppi, basati spesso su una
cieca, per quanto temporanea, obbedienza ad un capo. Gli uomini politici “sfoggiano” i
rapporti privilegiati con i boss mafiosi in quanto risulta finalizzato alla creazione di una
reputazione di pericolosità, in vario modo utile ai politici. È infatti una risorsa di violenza
che intimidisce l’opposizione politica o sindacale, scoraggia le denunce e rende improbabili
eventuali violazioni degli accordi. Inoltre la criminalità organizzata offre ai politici corrotti
pacchetti di voti. Ai politici viene chiesto in cambio dei favori soprattutto riguardo alla
protezione dalle indagini giudiziarie e all’assegnazione di appalti. Ciò spinge la mafia a
cercare di influenzare gli enti pubblici. Attraverso il controllo della distribuzione degli
appalti, i mafiosi contribuiscono in maniera decisiva all’espansione del mercato della
corruzione. Le organizzazioni criminose facenti capo a Cosa Nostra cercano di realizzare un
controllo integrale sugli appalti pubblici attraverso 4 fasi successive:
1) Interferenza nelle scelte delle opere pubbliche da finanziarie, per mezzo di tecnici che
realizzano mediazione illecita.
2) Completa manipolazione delle gare indette dalla pubblica amministrazione, ove
occorra anche utilizzo di intimidazione.
3) Gestione dei subappalti, tecnica di equilibrato coinvolgimento di gruppi mafiosi locali.
4) Ricerca di compiacenze e omissioni nella fase della esecuzione dei lavori nonché in
quella conclusiva dei collaudi.
Il controllo degli appalti rafforza il controllo sul territorio da parte delle stesse bande
criminali. Gli appalti costituiscono uno dei principali terreni di incontro tra mafia,
imprenditori, uomini politici, funzionari amministrativi. Gli obiettivi sono tre: lucrare
tangenti, collocare mano d’opera nei subappalti, far acquisire le forniture alle ditte
“amiche”, e infine Cosa Nostra vuole controllare gli aspetti essenziali della vita politica ed
economica del territorio. Si rafforza così il dominio sul territorio. Inoltre danneggiano le
imprese che si rifiutano di collaborare, se necessario utilizzando la forza e la violenza.
Aspetto importante è che la protezione mafiosa rischia sempre di trasformarsi in
intimidazione ed estorsione per i politici che sono scesi a patti con la criminalità
organizzata. L’estendersi della politica illegale ha portato a una crescita del potere
criminale. Secondo le indagini nel tempo è aumentata la percentuale di tangente che
rimaneva nelle mani della malavita organizzata, ed è proporzionalmente diminuita invece
quella che andava agli uomini politici corrotti. La corruzione tende a distruggere i partiti
politici.
Concludendo, i partiti che scompariranno a seguito degli scandali politici iniziati nel 1992
erano macchine che la stessa corruzione politica aveva minato dall’interno. Il clientelismo
si era dimostrato troppo costoso sia economicamente che politicamente. Prenderà forza
un nuovo attore politico: la Lega.

La politica locale - riassunto 6° capitolo


La struttura dei conflitti tra centro e periferia : la frattura centro periferia
L’approccio territoriale alla politica sembrò scomparire dopo il 1945 ma tornò rilevante
dopo il 1960. L’approccio centro-periferia da importanza non solo alla dimensione
geografica, secondo Derek Urwin: “Il paradigma centro-periferia riguarda il grado di
distanza sia geografica che sociale dall’asse centrale di una società e può riferirsi sia al
territorio sia ai gruppi sociali. La distanza può essere psicologia oltre che fisica, e può
ingenerare, nella periferia, sentimenti di dipendenza verso quei luoghi/gruppi che
diffondono i valori e le norme dominanti della società, e viceversa sentimenti di superiorità
tra coloro che vivono al centro”. L’essenza del rapporto centro-periferia è stata
considerata:
1) culturale = trasmissione di valori dal centro alla periferia;
2) economica = dipendenza della periferia dalle risorse provenienti dal centro; 3) politica =
le decisioni prese dal centro vengono imposte sulla periferia.
Il centro: Definito come area privilegiata del territorio dove i detentori delle principali
risorse politiche, economiche e culturali si riuniscono in apposite istituzioni per esercitare il
loro potere decisionale. Il centro è vicino alle regioni ricche di risorse, domina la
comunicazione, controlla.
La periferia: Distante dai luoghi dove si prendono le decisioni, caratterizzata da differenza
culturale e dipendenza economica. Ha scarso controllo, risorse minime, è spesso una
regione conquistata, come una “colonia”. Tenderà a essere poco sviluppata dal punto di
vista economico, avrà una cultura marginale e frammentata. Caratterizzata da distanza,
differenza e dipendenza. Le periferie differiscono comunque l’una dall’altra a seconda
dell’interazione di vari fattori etnici, religiosi, economici e politici. Inoltre arretratezza
economica, diversità culturale e marginalità politica non sempre procedono di pari passo.
La cultura è l’elemento più importante: la lingua è un elemento essenziale per la
costruzione di un’identità territoriale in quanto fa da collante potente (anche se le
periferie possono mantenere la loro identità anche senza un linguaggio proprio).
Per comprendere le differenti caratteristiche del conflitto territoriale in Europa, Rokkan e
Urwin affermano che le periferie differiscono, comunque, una dall'altra a seconda delle
interazioni complesse di fattori etnici, religiosi, economici e politici. Inoltre arretratezza
economica, diversità culturale e marginalità politica non sempre procedono di pari passo.
Nella costruzione di un territorio l'elemento più importante per le costituzione di un
identità territoriale è la lingua.
Per comprendere le differenti caratteristiche del conflitto territoriale in Europa, Rokkan e
Urwin ricostruiscono la storia delle varie lingue presenti nei centri e nelle periferie
europee.
Nel loro studio il processo di standardizzazione della lingua viene collocato tra l'VII e il XII
secolo, con una accelerazione legata all’invenzione della stampa e all’affermazione
dell’istruzione obbligatoria, allo sviluppo economico (quindi esigenza di forza lavoro
qualificata). Alcune circostanze storiche potevano favorire la sopravvivenza di una lingua o
meno. Le lingue che non erano riuscite a sviluppare una certa standardizzazione potevano
comunque divenire mezzi regolari di comunicazione se:
1) La lingua era considerata un simbolo di identità territoriale da una parte importante
delle élites;
2) Presente una spinta per raggiungere accordi su grammatica e un vocabolario comuni per
l’espansione della lingua, sforzi di diffonderla attraverso il suo uso nelle cerimonie religiose
o simboliche;
3) Precoce sviluppo di scuole nella lingua periferica.

I movimenti nazionalisti
L’esistenza delle tensioni tra centro e periferia è costante ma soli in alcuni stati queste
tensioni si sono politicizzate. Come hanno scritto Rokkan e Urwin solo in pochi casi i
sentimenti associati alla lingua hanno trasformato le principali forme della politica
diventando un tema significativo o dando vita ad un’organizzazione abbastanza forte da
dover essere presa in considerazione a livello nazionale. Varie sono le risorse e i
catalizzatori del conflitto etnico:
1) La concentrazione su un territorio, molto dipende anche dalla stabilità della popolazione
(> tasso di emigrazione > incentivi ad imparare la lingua della comunità più ampia);
2) Una serie di attori della mediazione fra centro e periferia (dal prete al maestro al
giornalista) possono trasformarsi in portavoce e difensori delle popolazioni delle periferie,
utilizzando i loro legami istituzionali con le autorità centrali per ottenere accesso al centro
politico dello stato;
3) La posizione economica delle periferie in termini di risorse materiali e di posizione
strategica per i mercati internazionali.
Spesso si mobilitano le periferie più ricche, che si sentono svantaggiate dalle politiche di un
centro distante. Ancora più importante del valore assoluto delle risorse è la posizione
rispetto al centro.
Rokkan e Urwin hanno elaborato la tipologia di periferie europee:
Forza economica relativa:
bassa: Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre
media: Scozia, Galles Jura, Vallonia
alta: Sardegna, Val d'Aosta, Alto Adige, Irlanda del Nord
Forza culturale:
alta: Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre
media: Alsazia
bassa: Galizia, Schleswing, Friesland, Occitania, Corsica, Friuli
Quando sono presenti risorse culturali e/o economiche la mobilitazione politica avviene
attraverso l’iniezione di catalizzatori capaci di metamorfizzare questo potenziale in
movimento, organizzazione e domande. Una volta politicizzati, i conflitti tra centro e
periferia tendono in genere a cristallizzarsi, durando nel tempo. In alcuni periodi storici i
conflitti territoriali si sono addensati, Rokkan e Urwin hanno individuato due grandi ondate
di mobilitazioni sul conflitto centro-periferia:
1) Le rivoluzioni industriali e democratiche del IX secolo produssero i primi partiti a difesa
delle minoranze, il campo di questo conflitto di identità fu quello della lingua e l’istruzione
il tema più aspro;
2) Una seconda ondata seguì il rapido sviluppo economico del dopoguerra. Negli anni ’60 e
’70 ci fu un notevole aumento della protesta nelle periferia caratterizzato da domande di
autodeterminazione, enfatizzazione della lingua della periferia, rivitalizzazione linguaggi
defunti, richiesta di diritto di utilizzare la lingua della minoranza in più situazioni, come nel
sistema di istruzione, nei mass media e nei rapporti con le agenzie.
Oggigiorno, è accettato nella maggior parte degli stati dell’Europa che ci siano diversi livelli
di identità con significati politici reali o potenziali. Secondo Rokkan e Urwin il catalizzatore
di questo revival del conflitto tra centro e periferia, potrebbe essere stato il crescente
rischio di un conflitto nucleare, che delegittimò gli stati centrali, incapaci di proteggere le
loro popolazioni dalla possibile tragedia. Contemporaneamente la seconda rivoluzione
industriale aumentava le tensioni con la periferia, talvolta attraverso processi di
deindustrializzazione poertatori di problemi economici.
Il movimento etnico-nazionale si riferisce ad attori organizzati che si mobilitano, sulla base
di un’identità legata ad una razza o a una cultura chiedendo il controllo su di uno specifico
territorio. I movimenti etnico-nazionali vengono distinti dai movimenti regionalisti, dove vi
è una richiesta di maggior controllo territoriale senza l’affermazione di una distinta identità
etnica, che dalle mobilitazioni per i diritti di cittadinanza per gli immigrati che richiedono
una rivendicazione solo dal lato della diversità etnica, senza richiesta di maggior controllo
sul territorio. Nel tempo, i conflitti tra centro e periferia, sono variati sia i fini strategici che
le forme d’azione.
I movimenti e le formazioni politiche etnonazionaliste, molto diverse per storia e contesto
sociale, hanno seguito, nella loro azione e comunicazione politica un modello di base che
include tre elementi:
1) valorizzazione della componenete etnica§
2) la denuncia della condizione di colonia
3) il tentativo di far coincidere la comuità etnica con la comunità politica.
Nel grande numero di conflitti fra centro e periferia sono variati sia i fini strategici sia le
forme di azion. In genere, gli obiettivi dei moviemnti alla periferia possono essere
sintetizzati in modo ingannevolmente semplice: vivere nel proprio paese, parlare la propria
lingua, ecc...

Gli obiettivi dei movimenti della periferia si possono esprimere in una vasta gamma di
progetti, collocabili lungo un asse che va dalla piena integrazione alla piena indipendenza
(costruzione identità periferica, protesta, regionalismo, autonomia regionale,
federalismo, confederalismo, separatismo/irredentismo). Gli obiettivi culturali includono
il riconoscimento della lingua negli usi ufficiali, la difesa della cultura popolare, dal teatro
alla musica. Gli obiettivi politici riguardano il riconoscimento dei diritti civili per le
minoranze che forme di organizzazione autonome sul territorio. Le rivendicazioni culturali
e politiche si sommano spesso con rivendicazioni economiche, quali il controllo su materie
prime presenti sul territorio della periferia o il rifiuto della collocazione di impianti
inquinanti.
Le strategie vanno invece dalla rielaborazione culturale al terrorismo. Le forme più radicali
di azione si sono sviluppate in presenza di rivendicazioni di indipendenza nazionale e in
regioni con tradizioni di sollevamenti violenti, come Irlanda o il Paese Basco. Le strategie
non si escludono a vicenda , spesso in uno stesso territorio diverse organizzazioni si
specializzano in particolari forme d’azione.
Anche le definizioni del conflitto sono variate. Le ideologie si sono mosse da un
nazionalismo conservatore che assume le categorie del gruppo dominante, alla resistenza
creativa che definisce l’avversario come un estraneo, o formule che combinano
rivendicazione etnica e rivendicazioni di giustizia sociale.
Per la posizione in relazione allo stato-nazione, sono stati distinti tre diversi periodi:
1)Una reazione legittimista = di fronte ai mutamenti profondi intervenuti al centro
attraverso la Rivoluzione nazionale, la periferia, guidata dalle sue élites tradizionali è
animata da un’ideologia altrettanto tradizionale, si attacca al vecchio ordine, questo stato
assolutista, che in passato aveva denunciato e combattuto;
2) La seconda fase è quella della contromobilitazione etnonazionalista = “la periferia,
dopo aver combattuto nei ranghi dei legittimisti contro l’affermazione nazionale finisce per
farla propria, pur sovvertendola. Il nazionalismo si diffonde nella periferia, portato da
gruppi che intendono ccostituirla in nazione. Si tratta di un “nazionalismo riflesso” che
rivolta contro il centro i canoni di un nazionalismo del quale esso utilizza la retorica
mettendola al servizio di rivendicazioni antiche. Si formano due rivendicazioni nazionaliste
che si disputano lo stesso territorio, negandosi reciprocamente;
3) Una terza tappa sarebbe la mobilitazione nazionalitaria = quando il nazionalismo
classico cede il posto alla volontà di emancipazione nazionale. Costituisce la negazione del
nazionalismo riflesso della periferia, dando invece via ad un nazionalismo senza stato.
Mario Diani e Alberto Melucci hanno osservato che, negli anni ’60 e ’70, l’ondata di
mobilitazioni sul tema del territorio notata da Rokkan e Urwin ha avuto una particolare
caratteristica: la mobilitazione nazionalista si accompagnava ad un orientamento anti-
capitalistico, che attribuiva le cause della subordinazione del gruppo etnico non più
solamente ad una forma di organizzazione politica, ma anche al capitalismo. La
mobilitazione territoriale ha inoltre cominciato ad intrecciarsi con le tematiche del
movimento ecologista. In questo caso il territorio diventa depositario dell’identità
biologica/naturale e la sua salvaguardia una garanzia della sopravvivenza del gruppo
umano. Si è acuito inoltre il conflitto inter-etnico, sia alla periferia, dove gli sconvolgimenti
seguiti al crollo dell’Unione Sovietica hanno fatto riemergere tensioni storicamente
radicate, sia al centro, dove si sono avute ondate massicce di immigrazione dal terzo
mondo. Ritorna anche il razzismo come riaffermazione della identità nazionale in chiave
etnocentrica. I diversi movimenti a base etnica sono stati variamente interpretati: si sono
osservati più fattori, come l’identità etnica che si basa su una serie di caratteri oggettivi,
acquisiti al momento della nascita. In questo senso si è collegata la forza della
mobilitazione al grado di diversità e concentrazione di minoranze etniche alla periferia.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’identità etnica è sempre soggettivamente costruita
(comunità immaginarie di Anderson) per sottolineare il ruolo della rielaborazione simbolica
nella definizione di identità etnica. In queste interpretazioni l’etnicità diventa una
costruzione simbolica. È stato anche osservato che mentre le politiche sociali migliorano le
condizioni di vita anche delle minoranza, esse aumentano la rilevanza dei bisogni simbolici,
tra cui il riconoscimento di un’identità etnica.
Mentre gli approcci culturalisti sottolineano come i movimenti etnici riaffermino un
diritto alla diversità nella visione marxista, la mobilitazione etnica si oppone ad una
discriminazione soprattutto economica appellandosi all’eguaglianza. Secondo
l’interpretazione marxista il conflitto etnico è legato ad un controllo di risorse materiali: i
capitalisti sfruttano la divisione etnica, opprimendo economicamente le minoranze. Si
parla di “colonialismo interno” secondo il quale lo sviluppo capitalistico porta ad una
differenziazione crescente tra un centro che guida lo sviluppo nazionale, ed una periferia
che assume una posizione subordinata. Ricchezza e potere vengono drenate dalla periferia
al centro: la periferia offe ma non riceve dal centro risorse sufficienti per emanciparsi dallo
sfruttamento. Alla dipendenza economica si simma la discriminazione politica e culturale.
L’identità etnica diventa così una base di resistenza contro lo sfruttamento economico e
l’oppressione politica. Avviene comunque che movimenti o autonomistici o
indipendentisti si sviluppino anche in zone economicamente avanzate, come nel caso
basco o in quello catalano. Per questi casi è stata elaborata una spiegazione che sottolinea
l’incongruenza territoriale tra sviluppo economico e leadership politica. In regioni ricche
appartenenti a stati in cui il potere è gestito politicamente da un centro poco dinamico
economicamente,si sviluppa una sorta di incongruenza di status.
Approcci più politici hanno guardato alla identità etnica come risorsa per l’aggregazione
degli interessi sul mercato politico. L’identità etnica è stata spesso alla base della
costruzione di solidarietà “spendibili” politicamente, funzionando come strumento di
aggregazione e unità di riferimento della rappresentanza nelle istituzioni politiche. La
dimensione etnica può, infatti, costituire una base per l’emergere di nuove solidarietà. Una
delle variabili politiche più rilevanti per l’evoluzione della mobilitazione etnico-nazionalista
è comunque la reazione che ad essa viene dal centro, e che può oscillare sia in relazione al
grado di accettazione delle rivendicazioni della periferia, sia in relazione alla preferenza
accordata a politiche di tipo culturale o economico. La tendenza di ogni regime è quella di
centralizzare e standardizzare. Tuttavia la resistenza totale si è rilevata una operazione
costosa. Le domande della periferia sono spesso un insieme di rivendicazioni culturali ed
economiche. I regimi possono offrire una risposta economica o più specificamente politica.
La prima può essere più costosa ma nel lungo periodo è meno rischiosa per gli imperativi
territoriali dello stato. Infatti le politiche di riequilibrio economico sono state spesso
incomplementate, in particolare nel secondo dopoguerra, quando ai problemi delle aree
rurali arretrate si sono aggiunti quelli delle zone industriali nei settori di crisi.
Le reazioni del centro sono state tra le più importanti determinanti delle strategie
adottate dalle periferie. Le forme più radicali di protesta si sono sviluppate dove la
compresenza sullo stesso territorio di diversi gruppi in conflitto ha scoraggiato strategie di
accomodamento da parte del centro.
I partiti neo regionalisti
Sono presenti in più o meno tutti i paesi europei e assumono spesso una funzione rilevante
nel sistema politico. Con partito etno-regionalista ci si riferisce a tutti quei partiti la cui
principale caratteristica è il tentativo di rappresentare gruppi territoriali etnici e/o
regionalmente concentrati che affermano di costruire una categoria sociale specifica con
una identità comune specifica e unica. È quindi caratterizzato da un riferimento ad un
territorio sub-nazionale e da una identità di gruppo esclusiva, oltre che dalla richiesta di un
variabile livello di auto-governo. Mirando ad una politicizzazione dei conflitti su base etnico
territoriale, questi partiti sono, infatti, stati definiti come imprenditori etnici.
Tali partiti si differenziano dagli altri (socialisti, comunisti…) perché focalizzano le loro
richieste sulla riorganizzazione politica della struttura di potere nazionale o su forme di
autogoverno. A seconda del loro grado di radicalità possiamo suddividerli in:
- Partiti protezionisti orientati alla difesa dell’identità culturale - Partiti autonomisti che
domandano un trattamento speciale per la loro regione nell’ambito di uno stato unitario
- Partiti nazional-federalisti orientati alla riorganizzazione di uno stato unitario in stato
federale
- Partito euro-federalista con richieste di autonomia o indipendenza della loro regione
nell’ambito di una Europa delle regioni - Partiti separatisti che lottano per la piena
indipendenza
- Partiti irredentisti che vogliono l’annessione della loro regione ad un altro stato nazione.
Secondo una ricerca buona parte dei partiti regionalisti dell’Europa occidentale ci colloca
nel centro-sinisra, qualcuno a sinistra e qualcun altro a destra con punte di razzismo.
Spesso i partiti regionalisti hanno un leader carismatico che corrisponde al "padre
fondatore” del partito, che assolve compiti organizzativi, ideologici e simbolici. Si possono
creare dei problemi al momento della “successione” al fondatore, la loro eterogeneità
ideologica e strategica li rende soggetti frequenti a scissioni. Ecco perché in un solo
territorio troviamo più partiti etno-regionalisti. Per quanto riguarda l’elettorato esso è
stato collocato soprattutto nelle campagne, emerge infatti un radicamento fra i ceti rurali.
Successivamente alcune ricerche hanno rilevato la predominanza di una
sovrarappresentazione di giovani, maschi, con livello di istruzione elevato e provenienti da
classi medie.
Secondo le analisi più recenti la caratteristica principale dei partiti regionalisti è il loro
“interclassismo” cioè una base elettorale che tende a divenire sempre più simile a quella
della popolazione nel suo complesso. In molti paesi tali partiti hanno avuto un forte
impatto sul sistema politico, avvicinando alle loro posizioni anche partiti tradizionalmente
centralisti. La crescita di questi partiti è stata attribuita da alcuni al fallimento della
modernizzazione e dello stato-nazione, mentre altri hanno osservato che viceversa è
proprio il successo della modernizzazione che, rimuovendo le barriere fra i gruppi etnici,
produce competizione. Una delle principali determinanti del voto a questi partiti è la forza
di una identità etno-regionale, misurata in termini di uso della lingua, sentimenti di
appartenenza e mobilitazioni autonomiste. Esempi dove i partiti etno-regionalisti sono
presenti e forti: Paese Basco, Catalogna, la Fiandre, Scozia, Galles e il Sud Tirolo. Dal punto
di vista delle condizioni socio-economiche è stato osservato che il voto regionalista è più
forte nelle regioni con uno status socio-economico privilegiato rispetto allo stato nazionale
di cui fanno parte. Inoltre situazioni di instabilità politica e insoddisfazione verso altri
partiti possono portare ad un voto di protesta che può favorire i partiti etno-regionali. Il
sistema maggioritario non ostacola tali partiti, o comunque non nella stessa misura in cui
ostacola l’emergere di altri partiti di protesta. Ciò è dovuto alla tendenziale concentrazione
sul territorio del voto e riescono quindi ad essere rappresentati anche in parlamento. Il
loro successo sembra comunque collegato alla capacità di collegare al tema regionalista
altri temi emergenti (insoddisfazione, insofferenza, immigrazione…).

La lega come attore del conflitto centro-periferia in Italia


In Italia, i conflitti tra centro e periferia sono spesso stati mediati dai partiti nazionali o
attraverso il radicamento subculturale o attraverso lo scambio clientelare. Nella storia
della repubblica italiana, la frattura centro-periferia è riemersa tre volte:
1) Nell’immediato dopoguerra, quando le aperture create dal processo di transizione dal
fascismo alla democrazia favorirono il riemergere di alcune spinte secessioniste: il
Movimento indipendentista siciliano ebbe inizialmente qualche sostegno dai proprietari
terrieri e dagli occupanti americani; in Val da Osta un movimento auronomista radicato
nella resistenza tedesca, già nel 1945 promosse una serie di manifestazioni, minacciando
una secessione. L'altra minoranza etnicca, quella slovena del nord-est, le richieste di
protezione furono oggetto di un lungo negoziato tra Italia e Iugoslavia. In Sardegna
riemerse il Partito sardo d'azione che assunse via via posizioni sempre piùfederaliste. Una
risposta a tutte queste richieste fu l'emplementazione delle 5 ragioni a statuto speciale
(Val da Osta, Trentino, Friuli, Sicilia e Sardegna).
2) Una seconda fase di mobilitazione la si ebbe nel corso del ciclo di protesta che scosse il
paese tra la metà degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo = i conflitti regionali e
territoriali furono rivitalizzati e ridisegnati. Molti adottarono anche un’ideologia
anticapitalista, questi nuovi gruppi definirono i loro territori come colonie interne. A
queste mobilitazioni seguirono alcune leggi di protezione delle lingue e delle minoranze
etniche, una protezione comunque effettiva solo dove essa era stata garantita nei trattati
di pace (Sud Tirolo e Gorizia e Trieste).
3) La terza fase fu negli anni ’80 con la protesta delle Leghe = alcune associazioni
autonomiste presenti nel Nord tentarono la strada elettorale. Le varie Leghe si unificarono
all’inizio degli anni ’90 nella Lega Nord. Il balzo elettorale si avrà nel elezioni politiche del
1992, quando la Lega Nord divenne primo o secondo partito in molte grandi città del Nord
guadagnando 80 seggi in parlamento. La struttura organizzativa del partito si è però
trasformata con l’ingresso nelle istituzioni. Negli anni ’90, dopo i successi elettorali, il
modello organizzativo verrà rielaborato. Nel 1989 si costituì la Lega Nord, dove
confluirono: Lega Lombarda, Lega emiliano-romagnola, Alleanza toscana, Union ligure, Liga
veneta e Piemont autonomista. Fu il leader della Lega Lombarda, Umberto Bossi, a
proporre l’unione di più movimenti in un unico strumento capace di vincere. Nacquero
associazioni parallele, formalmente autonome, come il Sindacato autonomo lombardo e
venne distribuito un quotidiano “La Padania” su tutto il territorio nazionale.
Dal punto di vista ideologico le Leghe hanno rifiutato ripetutamente di collocarsi sull’asse
destra/sinistra, si presentavano piuttosto come un’alternativa alla politica tradizionale.
Tale “non decisione” le permise di attirare consensi da posizioni anche lontane. Le Leghe
hanno invece concentrato l’attenzione su una presunta identità etnica. In Veneto, la Liga
ha adottato un’idea di territorio di tipo etno-regionale, presentando il Veneto come una
“nazione europea”. La Lega Lombarda presenta il territorio come base di comuni interessi
contro l’inefficienza dello stato centralista, della “Roma ladrona”: la Lombardia dei
produttori e dei lavoratori. Si è prestata attenzione all’elemento culturale, a valori come la
religiosità, laboriosità e impegno, si è fatto riferimento a stereotipi diffusi. Il federalismo è
stato presentato come soluzione per le rivendicazioni concrete che rispecchiavano le
insoddisfazioni presenti fra le popolazioni del Nord. La lega Lombarda presenta
l’autonomia regionale come: Lombardia zona franca, precedenza ai lombardi nei concorsi
pubblici, tasse gestite dalla regione, pensionamento su base regionale. Si promuove la
necessità di delineare territori capaci di autoamministrarsi. Al bisogno di elaborare
un’identità etnica ha risposto l’uso abbondante da parte della Lega di azioni simboliche. Si
cercò di creare un senso di appartenenza etnica attraverso iniziative all’apparenza
folkoristiche. Già la Liga veneta aveva utilizzato un tipo di propaganda particolare
utilizzando volantini e manifesti scritti in dialetto con il pennarello utilizzando un contatto
di tipo diretto. Il tema dell’identità etnica riemergerà con forza dopo la sconfitta elettorale
alle elezioni europee del 1994 a vantaggio di Forza Italia. Nel 1995 è cominciata così una
strategia di tipo indipendentista, con l’istaurazione di un parlamento del nord, formato da
parlamentari e amministratori locali della Lega; ed è proseguita con le tre giornate di
mobilitazione lungo il Po per l’indipendenza della Padania. Il tutto accompagnato con
l’utilizzazione di simboli forti (le camicie verdi come forze autonome, il parlamento
autonomo…che mirano a rafforzare l’identità etnica). La spinta verso l’indipendenza è
comunque strumentale piuttosto che basata su un’identità etnica, che la Lega vorrebbe
costruire. Proprio tale debolezza avrebbe spinto la Lega a combinare l’appello al popolo
padano con un certo populismo. Nella Lega lombarda si ritrovano tutti i caratteri tipici dei
movimenti populisti classici. Questi rappresentano in genere formazioni politiche in cui
manca una elaborazione teorica organica e che fanno semplicemente riferimento al
popolo come unità sociale omogenea e sede esclusiva di valori positivi e permanenti. È
comune di tanti movimenti populisti è autorappresentazione come rappresentanti della
gente comune, contrapposta alle élites; la delegittimazione dei partiti, l’attribuzione a
immigrati e marginali delle responsabilità per una insicurezza diffusa; la rivolta fiscale. Il
populismo della Lega sarebbe composto da tre principali elementi: razzismo,
antistatalismo e antipolitica.
In primo luogo, molti hanno sottolineato l'utilizzazione, almeno per un determinato
periodo di tempo, di un discorso xenofobo contro gli immigrati extracomunitari e i
meridionali, fino a giungere ad una logica di azione populista che contrappone il popolo
lombardo alle classi dirigenti individuate come il motivo dello sfascio del sistema operate ai
danni del ceto medio.
Ad un sondaggio condotto nel 1990 tra gli elettori della Lega sulle ragioni del voto a quel
partito, la maggior parte (26%) rispondeva che la Lega difende la Lombardia dai troppi
immigrati e stranieri, altri definivano il Sud come un ostacolo allo sviluppo ! “i soldi delle
tasse pagati nelle nostre regioni dovrebbero essere usati per la maggior parte qui”
“sarebbe meglio che gli insegnanti delle nostra regione provenissero da qui”. Entrata nel
governo nazionale, nel 1994, la Lega si presenta come partito del rinnovamento,
accentuando la propensione verso l’intervento privato, e il parallelo rifiuto
dell’intervento pubblico. Propose di privatizzare ospedali, asili e scuole, abolire l’Inps, dare
un taglio ai contributi, blocco investimenti clientelari al Sud, perseguire insomma il
welfare society. La Lega riflette un’insofferenza diffusa in tutto il Nord, verso l’inefficienza
dell’amministrazione, unita alla crescente pressione fiscale. La Lega diventa uno strumento
di opposizione alla burocrazia di Roma. L’esplosione di Tangentopoli accentuerà questa
posizione, portando alla contrapposizione tra “onesti” e “disonesti”. Tra il 1990 e il 1993 la
Lega da “partito indipendentista, sostenitore delle rivendicazioni etno-regionaliste e del
malessere dei ceti e delle zone emergenti del Nord, la Lega si trasforma in partito del Nord
che mira al rinnovamento dello stato, sotto il profilo della politica economica, delle
istituzioni, del ceto politico. La Lega si propone di imporre Milano a Roma e di restituire al
Nord la direzione del Paese. La Lega combina etnonazionalismo e populismo presentando
una divisione geografica Nord/Sud, con una verticale (élite/popolo).
Infatti le polarizzazioni create dalla comunicazione leghista si disclocano in due dimensioni
principali: una orizzontale, lungo le linee di potenziale frattura fra i popoli e territori; ed
una verticale, che contrappone chi sta in "alto" e chi sta in "basso" nelle diverse gerarchie
di stratificazione sociale.
Le vicende della Lega sono state lette anche richiamando il localismo: è stato osservato che
la Lega non propone l’abolizione dello stato sociale, ma una gestione dove le tasse
vengano raccolte sul territorio. Si richiede indipendenza che dovrebbe essere in grado di
garantire pensioni, casa e lavoro per i cittadini del Nord.
Le origini della Lega sono state collocate nella frustrazione di ceti emergenti, che vedevano
accrescere il proprio status ma non il proprio potere politico. La crisi economica e fiscale
avrebbe aggravato il sentimento di privazione relativa diffuso in questi strati. Il localismo
enfatizzato dalle leghe è stato visto come un’espressione, non solo italiana, di crisi dello
stato nazionale, di fronte alla globalizzazione dei mercati. Il leghismo è stato anche
analizzato come effetto della crisi della subcultura bianca. In effetti la Lega ha mietuto i
suoi primi successi elettorali nelle aree tradizionalmente bianche (Varese, Como, Sondrio,
Bergamo). La Lega è capace di incarnare e sviluppare i valori della subcultura bianca,
proponendo un’ideologia dove trovano posto i valori caratterizzanti della cultura localista:
il laburismo, l’imprenditività, l’identificazione nel contesto locale e la parallela domanda di
autonomia rispetto allo stato, l’avversione per la sinistra, l’anticomunismo, paura verso i
cambiamenti, l’insicurezza delle trasformazioni socioculturali, dalle immigrazioni al declino
dei valori di riferimento. Anche nel 1996 la Lega colleziona un altro successo elettorale in
tali regioni diventa il principale partito operaio dell’Italia del Nord. Alla fine degli anni ’90 si
apre però per la Lega una fase di crisi, culminata con il crollo elettorale delle consultazioni
politiche del 2001 quando perdono più della metà dei voti. L’insuccesso elettorale lo si può
attribuire al fallimento della linea secessionista della Lega, che l’ingresso dell’Italia
nell’Unione Europea aveva reso del tutto incongrua. I sentimenti neoliberisti si orientano
verso Forza Italia. Rimane così la Lega con un elettorato particolarmente sensibile ai temi
della “minaccia immigrazione” e della “minaccia criminalità”. Se la vicenda delle leghe è
stata circoscritta ad alcune regioni, l’insoddisfazione verso il governo nazionale si
svilupperà in tutto il paese attraverso altri movimenti che, pur non facendo riferimento ad
un conflitto fra centro e periferia, criticheranno comunque l’accentramento delle
istituzioni politiche, proponendo forme nuove di partecipazione soprattutto a livello locale.
Tali movimenti vengono definiti movimenti urbani.

La politica locale - riassunto 7° capitolo


La protesta come risorsa politica
La protesta come risorsa politica è il tema del libro Protest in City Politics pubblicato nel
1965 dal politologo americano Michael Lipsky. La questione che si propone di affrontare è
quella delle precondizioni per una protesta organizzata da parte dei più deboli, dei
problemi che questa organizzazione comporta e dei possibili effetti della protesta sul
sistema politico.
L’indagine è basata su analisi documentale, rassegna della stampa e interviste non
strutturate con testimoni privilegiati. L’oggetto empirico è uno sciopero degli affitti
organizzato dagli abitanti, in prevalenza neri, di alcuni quartieri poveri di New York. A New
York, nel 1963, erano infatti ancora abitate costruzioni che le autorità avevano dichiarato
non adatte ad uso abitativo.
Il fallimento delle politiche pubbliche e il movimento per i diritti civili e la campagna del
presidente J. F. Kennedy contro la povertà avevano reso questa situazione sempre più
visibile. Tra il 1963 e il 1965 ci furono gli scioperi degli affitti. Obiettivo dell’indagine è
verificare la validità della concezione della politica americana come aperta e pronta a
rispondere alle domande dei gruppi più emarginati. Lo studio guarda alle caratteristiche
del movimento di sciopero degli affitti, alle interazioni con le autorità, alle sue
conseguenze sulle politiche pubbliche. La ricerca fu completata nel corso del 1966. Un
concetto centrale nel modello esplicativo elaborato da Lipsky è quello della protesta
intesa come risorsa politica. Gli attori presenti nel modello sono molteplici: La protest
constituency è la base direttamente interessata alle politiche pubbliche. Essa esprime una
leadership, che guida le azioni di protesta e tiene e rapporti con l’esterno. I mezzi di
comunicazione di massa diffondono i messaggi, che sono indirizzati verso il pubblico di
riferimento dei bersagli della protesta, cioè verso coloro che hanno un’influenza sui
decisori pubblici, i bersagli della protesta. Questi ultimi poi possono rispondere a questi
stimoli distribuendo due tipi di ricompense: materiali e simboliche. La protesta è un
processo indiretto, mediata attraverso i mezzi di comunicazione e alcuni gruppi dotati di
risorse e potere. Coloro che non hanno potere devono mobilitare la solidarietà dei gruppi
dotati di più potere: la protesta deve raccogliere le simpatie dei potenziali alleati. Lipsky
sottolinea che la protesta, per avere successo, deve anche indirizzare stimoli positivi,
conquistare le simpatie di gruppi che hanno più risorse da investire nelle arene
decisionali. Per poter acquisire le simpatie del pubblico di riferimento i leader della
protesta devono evitare le forme d’azione troppo radicali. Compiendo questa scelta, però,
essi rischiano di perdere il sostegno della protest costituency. La protesta serve a costruire
e rafforzare la solidarietà interna ai gruppi più emarginati dal potere. Per raggiungere
questo obiettivo,i leader devono favorire le azioni più radicali, che rischiano di alienare le
simpatie dei loro potenziali alleati. Riprendendo il dibattito allora diffuso negli studi sulla
Negro Politics, Lipsky osserva che, i leader possono quindi intraprendere due vie rischiose:
il radicalismo, che indebolisce il sostegno esterno e il moderatismo che riduce la
solidarietà esterna. È emerso che più gli stili saranno militanti tanto più difficile sarà
ottenere benefici materiali. In questi casi le gratificazioni simboliche sostituiscono quelle
materiali. Viceversa, più risorse materiali sono disponibili, più moderati saranno gli stili di
leadership. Bisogna aggiungere che le caratteristiche dei gruppi che si impegnano nella
protesta porranno vincoli nelle tattiche prescelte dai leader:
1) nutrire e sostenere un'organizzazione che comprende persone con le quali essi non
hanno sempre cose in comune;
2) massimizzare la loro esposizione pubblica attraverso i messi di comunicazione;
3) massimizzare l'impatto delle terze parti sul conflitto politico;
4) massimizzare le loro chance di successo fra coloro che sono in grado di garantire il
raggiungimento dei loro obiettivi.
I mass media sono un attore rilevante nella politica locale. Si è osservato che il successo
delle azioni di protesta era direttamente legato alla quantità di attenzione ottenuta dai
media. Lipsky sottolinea il fatto che non conta solo la quantità di pubblicità ricevuta ma
anche il contenuto dei messaggi trasmessi dai media. I giornalisti sono a caccia di novità
ma vogliono anche il “buon gusto”. Problemi simili si presentano quando i leader devono
confrontarsi con le parti terze, cioè con i loro potenziali alleati. Per quanto riguarda lo
sciopero degli affitti, nella ricerca si individuano due possibili sostenitori dei neri poveri che
costituivano la base diretta della protesta: gruppi civici come sindacati e i club per una
riforma politica. I leader del movimento dovevano quindi cercare di attirare la loro
attenzione e simpatia, in modo da poter usufruire di riflesso della loro influenza politica.
Infine i leader della protesta devono gestire i rapporti con chi decide le politiche pubbliche
(esempio affitti: le autorità municipali della città). Le autorità possono elaborare una serie
complessa di risposte: possono distribuire soddisfazioni simboliche (dare l’impressione di
starsene occupando del problema ad esempio); possono risolvere solo alcuni casi
esemplari distribuendo un minimo di risorse materiali, possono adottare modelli
organizzativi che portano ad una maggiore efficienza in futuro, possono screditare i leader
della protesta, posporre l’azione,ecc… Le possibilità di successo aumentano ad alcune
condizioni: accrescere l’importanza della tematica, i leaders della protesta devono
sviluppare continuamente tecniche nuove e drammatiche per avere la pubblicità per loro
vitale. Nel caso dello sciopero degli affitti hanno avuto fortuna in quanto c’erano alcune
condizioni favorevoli come la legislazione sulla casa particolarmente liberale a New York e
il contesto sociale sensibile in quel momento ai movimenti di protesta.
Ma i gruppi di protesta mancavano di coesione nel lungo periodo e essi furono così
sconfitti da tutte le tattiche messe in moto dalle autorità per prendere tempo. Furono cioè
fornite risposte prevalentemente simboliche.
In sintesi, Lipsky sostiene che l'affidarsi a terze parti rende gli esiti della protesta insicuri.
Criticando le osservazioni dei pluralisti, Lipsky conclude che è molto improbabile che i
gruppi poveri si possano fare sentire dai policy makers. Il sistema politico americano come
“aperto” e “fluido” appare inadeguato perché:
1) La proposizione che ciascun gruppo può farsi sentire è vaga
2) Vi è confusione rispetto a quale gruppo tende a ricevere soddisfazione dalle ricompense
distribuite dai pubblici ufficiali
3) Vengono messe insieme come egualmente rilevanti le ricompense tangibili e quelle
simboliche.
Lipsky pone al centro dell’attenzione le condizioni che facilitano l’accesso dei gruppi più
poveri ed emarginati alle arene decisionali e studia le conseguenze sulle concrete
condizioni di vita degli individui che ne hanno preso parte. Ma focalizzando l’attenzione su
New York, Lipsky non può indagare sugli effetti delle diverse variabili istituzionali e
politiche che potrebbero influenzare le risposte.
Pur rappresentando uno dei primi e più importanti contributi all'analisi dei movimenti
collettivi livello locale, la ricerca di Lipsky condivide dei limiti del case-study, adatto più alle
elaborazioni di ipotesi che al loro controllo; ponendosi, inoltre, all'interno della letteratura,
allora diffusa mella politoligia americana, sul tema della Negro Politis, Lipsky non può
distinguere le dinamiche e le potenzialità della protesta utilizzaa da attori diversi della
popolazione povera di colore.

Nuovi confitti e movimenti urbani


Dopo lo studio pilota di Lipsky l’attenzione ai movimenti sociali nelle città crescerà
notevolmente sia negli Stati Uniti che in Europa. Ci si cominciò a chiedere se ci si trovava di
fronte ad un nuovo modo di fare politica dato la sempre maggior frequenza di protesta nel
tempo. Manuel Castells condusse una ricerca negli anni setanta che chiamò movimenti
urbani i quali, secondo Castells, esprimono nuovi conflitti, legati all’intervento dello stato
nel campo dei consumi collettivi. Essi annunciavano la trasformazione nelle relazioni
sociali della società, il sociologo definisce i movimenti urbani come promotori di sistemi
politici e culturali nuovi. Attraverso le sue ricerche (Parigi, Madrid, San Francisco, Lima,
Città del Messico e Santiago del Cile) Castells rileva l’esistenza di tre ideal-tipi di
movimenti:
1) Il sindacalismo per consumi collettivi = esprime movimenti di tipo economico, che si
richiamano a parole d'ordine del tipo "salario" e la "qualità della vita"; l’obbiettivo è quello
di ottenere per i residenti una città organizzata attorno al suo valore d’uso, contro la
nozione dei servizi urbani come merce. Le rivendicazioni avevano riguardato, durante la
ricerca, l’edilizia pubblica, i trasporti, i centri per i giovani, i parchi,ecc...;l l'avversario è
indicato come la borghesia;
2) i movimenti di comunità = sono azioni rivolte alla ricerca di identità culturale, per il
mantenimento o la creazione di autonome culture locali, fondate etnicamente o radicate
storicamente. Difesa della comunità, della vita di quartiere, delle tradizioni storiche contro
il monopolio dei messaggi dai parte dei medi , la predominanza dei flussi informativi e la
standardizzazione della cultura di base. L'avversatio è la tecnocrazia;
3) i movimenti di cittadinanza Orientati in modo politico = chiedono un maggiore potere
per il governo locale, in decentramento per le decisioni e l’autogoverno urbano. Il nemico
è lo stato, distante e accentratore.
I movimenti si presentano come attori urbani, essi sono secondo Castells movimenti multi
classisti in quanto essi non si riferiscono alle relazioni di produzione ma alle relazioni di
consumo, comunicazione e potere. Un movimento urbano ha successo solo quando riesce
a combinare tutti e tre gli elementi. Esso dovrà, inoltre, essere autonomo dai partiti
politici, ma dotarsi di una serie di collegamenti con i media, i tecnici e gli stessi partiti.
I conflitti principali si allineano lungo il conflitto di classe tra chi guadagna il proprio reddito
dalla proprietà (interesse ai profitti), e chi lo prende invece dal salario (interesse ai
consumi). Il governo esprimerebbe gli interessi dei proprietari, infatti la frammentazione
della città esprime questo interesse, permettendo al capitale di evitare le alte tasse del
centro città. Crescono quindi le mobilitazioni sui temi locali che sembrano coinvolgere la
maggioranza dei cittadini, definita come backyard revolution.

Movimenti urbani e opportunità politiche


All’inizio degli anni settanta il politologo americano Peter K. Eisinger ha focalizzato
l’attenzione sulle precondizioni della protesta nelle città americane. Eisinger ha coniato
un concetto destinato ad avere successo negli studi sui movimenti sociali: la struttura delle
opportunità politiche. Egli ha osservato che l’attività dei cittadini per il perseguimento
delle mete politiche è influenzata da quattro variabili:
1) La natura dell’esecutivo
2) Il modo di elezione dei consiglieri comunali
3 La distribuzione di capacità e status sociali
4) Il grado di disintegrazione sociale
Elementi nell’ambiente impongono alcuni vincoli all’attività politica a aprono strade per
essa. Per misurare l’effetto di tali variabili sull’emergere e le conseguenze della protesta,
Eisinger costruisce (a partire dalla stampa locale di 43 città nel periodo maggio-ottobre
1968- una banca dati sulle azioni di protesta e le risposte ad esse. Vengono così raccolte
informazioni su 120 eventi di protesta. Il politologo rileva in particolare il numero di eventi,
le forme d’azione utilizzate, il bersaglio di queste azioni e le reazioni del bersaglio stesso
(dialogo o repressione). Questi dati sono stati correlati con alcuni indicatori delle variabili
prima menzionate, relativi all’assetto istituzionale della città e alla distribuzione del potere
nella comunità. Secondo Eisinger una struttura delle opportunità aperta è caratterizzata
da occasioni formali di partecipazione per i segmenti distinti della popolazione e dalla
propensione del governo a rispondere alle domande provenienti dal basso. Inoltre
propone un’ipotesi secondo cui più grandi i distretti elettorali sono, minore sarà la
possibilità per le minoranze di avere accesso al consiglio comunale. L’ipotesi principale di
Eisinger poi confermata dai dati empirici, è che la protesta nella città non si sviluppi dove la
struttura politica è completamente chiusa, né dove essa è completamente aperta: nel
primo caso, essa non sarebbe possibile per mancanza di risorse organizzative, nel secondo,
essa non sarebbe necessaria. Eisinger sottolinea la differenza tra le condizioni che
producono l’esplosione violenta di riots e quelle che permettono la mobilitazione delle
forme più moderate di protesta. Eisinger ritiene che la protesta sia un comportamento
razionale, la protesta scoppia cioè non quando i cittadini sono maggiormente frustrati
ma quando intravedono una possibilità che le loro azioni abbiano successo. La reazione
dei bersagli delle proteste era varia: nel 58% dei casi rispondevano ai dimostranti, ma solo
nel 15% dei casi venivano fatte loro realmente delle concessioni, in quanto per il resto o
l’azione veniva rinviata o non vi era alcuna concessione.
I risultati della ricerca indicano che la protesta si diffonde nelle città più grandi, dove il
sistema istituzionale è più aperto e vi è una certa tradizione di apertura verso il basso, ma
la distribuzione del potere svantaggia alcni gruppi.
“Il paradosso della protesta è che nonostante essa appaia come la risposta ad alcune
caratteristiche dei sistemi chiusi, essa si sviluppa solo nei sistemi in cui altre caratteristiche
sono aperte”.

I movimenti urbani in Italia


La ricerca sui movimenti urbani non è stata sistematica. La stessa definizione di movimenti
urbani è ambigua, andando dai movimenti che hanno come arena la città a quelli che
rivolgono le loro richieste al governo locale. Elementi utili per definire i movimenti urbani
sono il loro mobilitarsi sul tema delle politiche pubbliche a livello locale, utilizzando
forme d’azione non istituzionali (protesta) e dotandosi di una struttura organizzativa
flessibile e concentrata al livello locale. Ma una definizione più ampia di movimenti urbani
ha compreso tutte le forme di protesta presenti a livello locale, ovvero quegli attori politici
non istituzionali capaci di interagire con le istituzioni del governo subnazionale. Nei
decenni più recenti l’incidenza dei movimenti sociali urbani è cresciuta grazie a più
elementi:
1) la crisi del welfare state che ha peggiorato la qualità di molti servizi e la
modernizzazione che fa aumentare il bisogno di consumi pubblici;
2) la crescente domanda di democrazia dal basso;
3) una maggiore sensibilità per i temi dell’ambientalismo;
Negli anni ’50 e ’60 le iniziative dei cittadini a livello locale erano state analizzate
soprattutto come associazioni di volontariato. Negli anni ’70, i movimenti urbani sono
stati visti come movimenti di classe, occasioni di alleanze tra gruppi dei ceti medi e
lavoratori. Dagli anni ’80 le categorie si sono sfumate, si è guardato da più punti di vista:
il decentramento delle decisioni politiche, le rivendicazioni sociali e il terzo settore.
Questi diversi approcci corrispondevano in parte alle diverse caratteristiche dei movimenti
stessi. Fino agli anni ’60, l’organizzazione delle rivendicazioni a livello locale passava
soprattutto attraverso l’intermediazione dei partiti, strutturati in sezioni presenti in
molti quartieri delle città italiane. I gruppi di cittadini che si organizzavano al di fuori dei
partiti lo facevano per iniziative culturali o di solidarietà. Alla fine degli anni ’70 i
movimenti urbani si intrecciano ad un ciclo di protesta che, partendo dalla protesta nelle
università, coinvolgerà le grandi fabbriche e poi, man mano, i più diversi gruppi sociali. I
movimenti urbani saranno infatti influenzati da schemi ideologici. Il primo movimento a
comparire fu il movimento studentesco, negli Stati Uniti nel 1964, le rivendicazioni si
allargarono oi alle principali città europee. Dal 1964 in Italia furono occupate più università
dagli organi di autogestione degli studenti, tali proteste si estesero alla società. Inoltre sin
dagli anni ’60 si erano formati, sul tema della condizione femminile, gruppi informali misti,
concentrati sulla discussione e la elaborazione culturale. Dall’inizio degli anni ’70 si
cominciano ad affrontare argomenti come la sessualità, l’aborto e il corpo. Negli anni ’70,
sulla scia delle grandi proteste nelle scuole e nelle università anche la questione urbana
diviene ancora più visibile: le rivendicazioni si ampliarono dalla fabbrica alla scuola e al
territorio, cioè dai luoghi della produzione a quelli della riproduzione. I movimenti attivi
nelle città in questa fase furono definiti come movimenti della sinistra libertaria. Come i
movimenti della sinistra tradizionali tali movimenti rivendicavano un ampliamento dei
diritti sociali, maggiore attenzione ai diritti civili e una maggiore partecipazione alle
decisioni pubbliche. I movimenti urbani condividevano con gli altri movimenti della
sinistra libertaria la ricerca di maggiore giustizia e di maggior democrazia. Negli anni ’70
la crisi economica e il conseguente aumento dei prezzi, l’urbanizzazione e la costruzione di
quartieri “a rischio”, l’istruzione di massa che aumentava le aspettative e la crescita
demografica con alcune conseguenze negative, favorirono lo sviluppo di movimenti
potremmo definire come sindacalismo per consumi collettivi (riferendoci alla definizione
di Castells). I sindacati diventarono protagonisti di alcune lotte su temi urbani. I movimenti
della sinistra libertaria hanno ampliato e trasformato il repertorio, cioè l’insieme delle
forme della partecipazione politica. Il movimento studentesco combinò vecchie e nuove
forme d’azione, ispirandosi al movimento operaio in Europa e a quello per i diritti civili
negli Stati Uniti. Dal primo vennero ripresi le forme d’azione (cortei e occupazioni) dal
secondo vennero importati repertori ad alto contenuto simbolico, in grado di attirare
l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Negli anni ’70 il movimento delle donne
introdusse nuovi modelli di protesta: ricercarono forme d’azione “non maschili” puntando
sulla creatività, vennero ad esempio effettuate mostre grafiche, sketch per
strada…occupazione di luoghi pubblici, l’incatenarsi fra gruppi di militanti o di cancelli di
edifici pubblici, poi si aggiunse “l’autogestione dell’aborto”. Le proteste urbane ebbero
un’escalation di violenza a cui seguirono spesso gli interventi della polizia. Reticoli
organizzativi: il movimento studentesco sviluppò i principi della democrazia di base. Le
decisioni erano prese in assemblee generali aperte a chiunque volesse partecipare, i leader
erano coloro che devolvevano più energie all’azione collettiva. Occupazione e assemblee
avevano il compito di elaborare un nuovo modello di democrazia, che si contrapponeva
alla democrazia maggioritaria. Nel movimento delle donne i piccoli gruppi erano
considerati come la formula organizzativa necessaria ad un processo di graduale presa di
coscienza della propria oppressione. Rifiuto della burocrazia e dell’aspirazione al potere,
viste come tipicamente maschili. Le funzioni cominciarono ad essere assunte da
organizzazioni di movimento, quali riviste, radio… Una simile frammentazione
organizzativa caratterizzò anche il movimento giovanile, strutturato attorno a circoli
giovanili di quartiere.
Negli anni '70 si creò, dunque, una contro cultura di piccoli gruppi informali e non
strutturati. La struttura di questi gruppi tendeva, comunque, a privilegiare il
consolidamento delle relaziomi all'interno, piuttosto che la mobilitazione all'esterno. La
fase di costruzione dell'identità coincise, infatti, con una sorta di chiusura in se stessi e con
la creazione di una controcultura dove rapporti politici e amicali si intrecciavano, finendo
per creare dei ghetti, poco sensibili alle influenze esterne.
Dagli anni ’80 si diffusero i movimenti per la pace (in coincidenza con la campagna -1983-
contro l’installazione da parte della Nato dei missili a testata nucleare in gran Bretagna,
Belgio, Italia, Germania e Olanda). Le rivendicazioni urbane si intrecciarono anche con le
tematiche sollevate dai movimenti ecologisti. Già nel corso degli anni sessanta
l’inquinamento ambientale cominciava a preoccupare ma l’attenzione a tale tema
aumentò quando ci furono una serie di disastri ecologici dal 1976 (Italia: fuga materiali
tossici a Seveso, incidente impianto nucleare negli Stati Uniti…). I movimenti sociali
tornano in azione con nuove tematiche: difesa dell’ambiente, la sicurezza urbana e il neo-
localismo. Se negli anni ’70 i movimenti urbani erano stati caratterizzati da
un’aspirazione alla totalità, i movimenti degli anni ’80 e ’90 sembrano presentare un
sistema di credenza più pragmatico. Anche la struttura organizzativa si modifica:
proliferano gruppi di base autonomi tra loro che si coordinano nei momenti di
mobilitazione e aumentano le associazione dotate di statuti e regolamenti. Il potere
decisionale è distribuito tra molti e le decisioni venivano spesso rinviate per evitare
contrasti. A partire degli anni ’80 emerge un volontariato laico (prima in mano alla
chiesa): se spesso il volontariato cattolico era strutturato attorno alle parrocchie e poco
strutturato, il volontariato laico tende invece ad essere strutturato in organizzazioni
specializzate e con maggiori livelli di professionalità. Sia in Italia che altrove si è assistito ad
una crescita del finanziamento pubblico e ad una crescente responsabilizzazione delle
associazioni volontarie sia dal punto di vista amministrativo sia da quello della
rappresentanza. La situazione appare in profonda trasformazione negli anni novanta,
quando sono emerse nuove esperienze di partecipazione dal basso, anche in Italia.
Laddove le rivendicazioni venivano presentate ed incanalate attraverso i partiti adesso si
cerca sempre più di influenzare gli amministratori rivolgendosi direttamente alla sfera
pubblica, attraverso azioni di protesta che possono attrarre l’attenzione dei media. Questi
gruppi vengono definiti come caratterizzati dalla sindrome NIMBY “not in my backYard”
(non nel mio cortile) e accusati quindi di difendere interessi egoistici e particolari. Ma tali
esperienze sono anche state apprezzate in quanto forme di partecipazione ai destini
della comunità e attivazione dal basso. Tali comitati spontanei di cittadini hanno spesso
come dirigenti che appartengono al ceto medio, con alti livelli di istruzione. La membership
è socialmente eterogenea. Dai movimenti del passato i comitati prendono la struttura
organizzativa non-gerarchica e flessibile, con rari momenti di coordinamento.
L’appartenenza al comitato è fonte di solidarietà, effettuano manifestazioni di massa e
provocazioni simboliche e si rifiutano di identificarsi con una parte politica. Spesso hanno
successo in quanto riescono a bloccare progetti di insediamenti di impianti ad alto impatto
ambientale.

Movimenti urbani e democrazia


La ricerca di nuove forme d’azione e formule organizzative è una delle aspirazioni principali
di questi movimenti. I movimenti creano critiche ai modi fondamentali di fare politica,
propongono forme di democrazia alternativa rispetto a quella parlamentare, criticando sia
la democrazia liberale sia quella organizzata nei partiti. L’idea di democrazia che i
movimenti hanno sviluppato, dagli anni sessanta ad oggi, ha fondamenta in parte diverse
rispetto a quelle su cui si basa la democrazia rappresentativa, il cittadino elegge i suoi
rappresentanti, ed esercita il suo controllo attraverso la minaccia della non-rielezione
alle successive consultazioni. La democrazia diretta sostenuta dai movimenti, si oppone
invece al principio della delega, che viene vista come strumento di un potere oligarchico,
affermando che i rappresentanti devono essere revocabili. Nella democrazia
rappresentativa la delega è inoltre generalizzata: i rappresentanti decidono per i cittadini
su un ampio raggio di temi; nella democrazia invece la delega è ad hoc, su singole
decisioni: alla cittadinanza, riunita in assemblea, spetta di volta in volta, la definizione degli
obiettivi. Dove la democrazia rappresentativa è spesso burocratizzata, con un
accentramento delle decisioni al vertice, la democrazia diretta è decentrata, sottolineando
la necessità di portare le decisioni il più vicino possibile alla gente. La dimensione locale
risulta molto importante per stimolare la partecipazione e l’impegno diretto dei cittadini.

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