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Capitolo 1
ISTITUZIONE
Complesso di valori e norme sociali che orientano il comportamento individuale e si basano su sanzioni che
tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti.
ORGANIZZAZIONE
SISTEMA ECONOMICO
Modalità, variabili nel tempo e nello spazio, con cui le istituzioni orientano e regolano il mercato : mentalità
economica (valori che orientano il comportamento degli individui), organizzazione economica (norme
formali e informali che regolano l'esercizio delle attività economiche), tecnica (conoscenze tecniche e i
procedimenti utilizzati dai soggetti per produrre beni e servizi).
RECIPROCITA’ (obblighi sociali - si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di
solidarietà condivisi nei riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù) REDISTRIBUZIONE
(avvento dell’istituzione politica - Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi
sociali condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico, pur se di solito legittimate
in termini religiosi.) SCAMBIO DI MERCATO (autoregolazione del mercato – legge della domanda e
dell’offerta - modo relativamente pacifico per acquisire, attraverso un rapporto bilaterale, beni non
immediatamente disponibili.)
VISIONE ATOMISTICA
Gli individui sono mossi all’azione economica da motivazioni utilitaristiche – lo stato non deve interferire
con il mercato)
EFFICIENZA DEL MERCATO
Soggetti ben informati e moralmente affidabili, capaci di calcolare razionalmente le proprie preferenze.
Piena commerciabilità di tutti i beni e fattori di produzione. Molti venditori e molti acquirenti.
SOCIOLOGIA ECONOMICA
Nella realtà, gli individui non sono ben informati, sono influenzati nel calcolo delle preferenze e possono
essere moralmente inaffidabili. Inoltre, il mercato non è pienamente concorrenziale. Quindi, l’intervento
dell’Istituzione è necessario, a tutela dell’interesse individuale.
UTILITA’ MARGINALE (la propensione a spendere diminuisce proporzionalmente all’incremento delle unità
di prodotto consumate).
E’ smentita dal fenomeno del consumo di massa. Quindi l’efficienza del mercato va costruita socialmente.
COMPROMESSO STORICO
Nel 2° dopoguerra, lo stato interviene massicciamente nell’economia sia per pianificare l’economia (es.
piano Marshall) che per redistribuire i redditi (welfare). Le imprese maggiori collaborano con l’Autorità per
stabilizzare i profitti di lungo termine. Si realizza la comunione di intenti stato-impresa.
Keynes rompe l’ortodossia del riaggiustamento automatico del mercato (vds crisi del 1929). Da fondamento
teorico all’intervento dello stato nell’economia per ridurre gli effetti negativi dell’incertezza e sostenere la
domanda attraverso la spesa pubblica e la redistribuzione (welfare).
Mentre negli anni ’30 l’economia recuperava aderenza alla realtà (rivoluzione keynesiana), la sociologia
registrava un periodo di stagnazione del pensiero in campo economico (studi di Parsons) e finiva per
interessarsi di altre discipline.
Capitolo 2
Partendo dalla teoria della modernizzazione (legata ai percorsi della civiltà occidentale nei paesi arretrati),
sviluppa delle critiche che evidenziano i CONDIZIONAMENTI ECONOMICI (teoria della dipendenza) e
POLITICI (nuova Political Economy comparata). Si evidenzia che la “soluzione occidentale” non è la sola
“best way” ma esiste una pluralità di percorsi di modernizzazione.
La società tradizionale che caratterizza i paesi arretrati ne ostacola lo sviluppo. La famiglia ha caratteristiche
estese (e non nucleare) e ciò facilità il controllo sociale. Inoltre, è proiettata all’autoconsumo e non al
contributo di lavoro individuale e specializzato per il mercato. Infine, inculca un riconoscimento passivo dell
“autorità” che ostacola la “creatività” dell’individuo per sostenere l’imprenditorialità. Manca una èlite
politico/intellettuale capace di ottenere legittimazione e di sostituirsi a modelli di tipo religioso/tribale. La
soluzione è il contatto/intrusione della civiltà di sviluppo occidentale per orientare l’assetto
istituzionale/culturale allo sviluppo. Si assume che: lo sviluppo è inevitabile, superiorità del modello sociale
occidentale, convinzione che il contatto con l’esterno stimola ineluttabilmente lo sviluppo. Contiene al suo
interno diversi approcci:
1) teoria della modernizzazione in senso stretto (anni ’50 – ’60): sottolinea l’importanza dei fattori
socioculturali e politici endogeni dei paesi meno sviluppati nel condizionare il cambiamento sociale;
3) political economy comparata: al centro della sua attenzione è il ruolo delle istituzioni politiche nel
processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici e quelli dell’America Latina.
Non è dimostrato che il modello sociale occidentale sia ottimo o superiore né che possa pervadere
tutte le sfere sociali (dalla comunicazione, all’istruzione, alla domanda di consumo, alla produzione,
al funzionamento delle istituzioni politiche)
L’incremento di sviluppo dei paesi arretrati porta questi ultimi ad una insostenibile competizione
con quelli sviluppati per il reperimento dei finanziamenti (insufficienti quelli generati all’interno)
che di fatto finisce per determinare dipendenza. Quest’ultima genera una penetrazione diretta del
capitale straniero che sottrae al paese ulteriore “vantaggio” generando sfruttamento.
La “sostituzione” delle strutture tradizionali può generare instabilità, è imprevedibile nei risultati ed
è condizionato da eventi contingenti (guerre). Sarebbe preferibile porre attenzione ai soggetti del
cambiamento e non alle strutture sociali in astratto.
POLITICAL ECONOMY
Guarda al ruolo dello stato che deve guidare lo sviluppo negoziando i rapporti internazionali
(condizionamenti esterni) in un ambiente culturale che assicura l’autonomia dell’élite politica dagli interessi
particolari privati/di settore (condizionamenti interni)
Mantenendo elevata autonomia lo stato deve creare legami sociali personali tra i diversi attori economici,
pubblici e privati, ovvero deve creare capitale sociale.
GIAPPONE: il capitalismo è guidato “dall’alto” dell’élite politica che intrattiene rapporti stretti con
l’impresa ed è favorito dalla cultura del confucianesimo (obbligo di sottomissione all’autorità). Ciò
ha reso possibile il grande sviluppo economico giapponese (sostituzione delle piccole imprese
familiari con le grandi imprese dell’industria pesante).
CINA: nella società cinese assume rilievo la struttura della famiglia. Ciò ha reso possibile la
creazione di tante imprese familiari (piccole e medie) con ruoli complementari, coordinate da
relazioni fiduciarie e di reciprocità su base familiare (reti). Lo stato acconsente alla creazione di
queste imprese (pur mantenendo un’impostazione comunista), mentre il costo del lavoro è
determinato dalla famiglia e la domanda è determinata dall’esterno (multinazionali estere). La
domanda interna resta bassa.
PAESI POST-COMUNISTI: capitalismo dall’estero (Rep. Ceca, Polonia, Ungheria), scarso ruolo dello
stato e rapida introduzione del capitalismo (le multinazionali acquistano le imprese locali e portano
capitali e tecnologia). Capitalismo dall’alto (Russia, Ucraina, Romania), gli esponenti politici si
impossessano delle imprese statali trasformandole in proprietà privata, cresce la corruzione e la
dipendenza delle imprese dal finanziamento pubblico. Capitalismo dal basso (modello Cina), cresce
la piccola impresa familiare ma permane la concezione comunista dello stato e la grande industria
statale.
La peculiarità del capitalismo asiatico di imprese deboli inserite in network forti (in occidente, imprese forti
con struttura organizzativa e cornice giuridica) evidenzia una specificità istituzionale, economica e politica,
riconducibile al concetto di civiltà (es. confucianesimo) e differenti visioni del mondo per legittimare il
potere. Tutto ciò nega l’avvento di un’unica civiltà economica mondiale e conferma l’esistenza di differenti
processi di modernizzazione seppur in un contesto globalizzato (le variabili della modernizzazione non sono
solo politico-istituzionale ma anche culturali).
Capitolo 3
Studia le trasformazioni del modello organizzativo “fordista” delle imprese (divisione tayloristica del lavoro
in attività semplici, manodopera non specializzata e struttura verticale gerarchizzata) e l’avvento di nuovi
modelli organizzativi “flessibili” (impresa-rete, reti di imprese, post-fordismo).
La teoria di Keynes (1930) accetta l’intervento dello stato nei processi di mercato (con compiti
regolamentari e redistributivi) ma limitato al breve periodo (stabilizzazione del ciclo economico nei
momenti di depressione). Nel tempo (anni ’50 – ’60) l’intervento dello stato ha superato l’idea keynesiana
intervenendo stabilmente (cioè indipendentemente dal ciclo economico) nell’ottica di sostenere la
CRESCITA economica (non solo stabilizzazione). Ciò che caratterizza particolarmente lo stato sociale
keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. Inoltre nel modello keynesiano trova spazio la
teoria neomarxista dello stato (lo stato incrementa i programmi di protezione sociale per sostenere
l’accumulazione ed il mantenimento del consenso).
Tale intervento prolungato è lo STATO SOCIALE KEYNESIANO che ha contemplato 3 livelli di intervento:
CRISI DELLO STATO SOCIALE KEYNESIANO (anni ’70: crisi petrolifera e concorrenza dei nuovi paesi
industriali)
La maggiore protezione sociale genera incremento della domanda e nuove ulteriori pretese salariali,
determinando inflazione dei prezzi e stagnazione dell’occupazione (stagflazione). Lo stato pur di mantenere
la propria legittimazione (consenso politico) rincorre le maggiori pretese, incrementando la spesa sociale e
generando nuova inflazione.
In questa spirale di generazione dell’inflazione, la nuova politcal economy studia le relazioni intercorrenti
tra governo, sindacati e imprese, domandandosi cosa spinga i governi a cercare il consenso politico
(legittimazione) mediante l’incremento della spesa pubblica (cedendo alle nuove pretese di protezione
sociale).
C’è uno scarto temporale tra l’espansione economica ed il manifestarsi degli effetti inflattivi e siccome gli
elettori hanno la memoria corta, essi non comprendono che l’inflazione post-elettorale è generata dalle
politiche espansive del governo per farsi rieleggere.
Per NEOCORPORATIVISMO si intende un modello di regolazione politica dell’economia nel quale grandi
organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma
concertata, al processo di decisione e attuazione di importanti politiche economiche e sociali (si distingue
dal corporativismo che abbiamo visto nelle esperienze dei regimi autoritari che serviva per imporre scelte
sostanzialmente definite dall’alto da parte dei governi autoritari).
NEOCORPORATIVISMO E CONCERTAZIONE
Il controllo degli effetti perversi dello stato sociale keynesiano (stagflazione) passa attraverso un nuovo
sistema di rappresentanza degli interessi (neocorporativismo) e di decisione politica (concertazione). Le
piccole associazioni volontarie esprimono un interesse di settore e sono in competizione tra loro
(pluralismo) ed hanno scarsa capacità di coordinamento. Con l’avvento del NEOCORPORATIVISMO la
rappresentanza degli interessi è organizzata da poche organizzazioni (oligopolio) strutturate verticalmente
e che ricomprendono ampi settori di interessi, che godono sia del riconoscimento della base rappresentata
sia della legittimazione e riconoscimento del governo. Esse tutelano l’interesse della base partecipando con
l’autorità pubblica al processo di definizione ed attuazione delle politiche economiche e sociali
(concertazione). I sindacati sono spinti ad accettare la moderazione salariale perché il governo ha beni da
distribuire ed è pronto a scambiarli con il consenso sociale che è nella disponibilità dei sindacati. I vantaggi
sono le migliori politiche sociali per i rappresentati ma anche un accresciuto e riconosciuto potere politico
dei dirigenti sindacali.
DECRETO
E’ un tipo di regolazione alternativo sia alla CONCERTAZIONE (neocorporativismo) sia alla POLITICA DI
PRESSIONE (pluralismo). E’ caratterizzato dalla politica dirigistica dello stato che orienta il comportamento
delle imprese (leve del credito, fiscali, sostegno all’esportazione), escludendo dalla decisione politica la
partecipazione dei gruppi sindacali che risultano deboli.
Le differenze tra il decreto e gli altri due modelli, l’accordo (che coincide con il neocorporativo) ed il
mercato (che coincide con il pluralismo radicale il cui riferimento principale sono gli Stati Uniti).
Al tema del controllo dell’inflazione (corporativismo e concertazione degli anni ’70) si aggiunge la sfida
dell’innovazione per contrastare la maggiore concorrenza dei nuovi paesi industriali. Il nuovo quadro
impone conseguenze per tutti gli attori economici: le imprese, abbandonano progressivamente
l’organizzazione “fordista” per nuovi modelli flessibili, spostando all’estero le fasi di mera produzione e
privilegiando la creazione di imprese (ristrutturazione) orientate ai servizi. Conseguentemente, aumentano
i lavoratori specializzati e cala drasticamente la classe operaia, nocciolo duro delle rappresentanze sindacali
che perdono potere in assoluto e subiscono una frammentazione organizzativa parallela al declino del
modello fordista. Il diminuito peso sindacale (e con esso il minor conflitto sociale), l’integrazione politica in
strutture sovranazionali (Unione Europea) e la globalizzazione dei mercati finanziari (moneta unica)
modificano le priorità dei governi, indirizzandone l’azione verso il controllo dei bilanci pubblici ed in
particolare il contenimento della crescente quota di spesa sociale (sanità, pensioni, previdenza, assistenza,
ecc.). Vengono meno i requisiti costitutivi del neocorporativismo (sindacati forti, conflitto sociale
incombente, disponibilità di risorse pubbliche da distribuire). Emergono nuovi orientamenti: contrattazione
decentrata e definizione di nuovi patti sociali. In USA si conferma ed accentua il modello di regolazione
liberale (mercato) mentre in Europa permane il sistema regolativo della concertazione, seppur con
differenti graduazioni a livello regionale, incentivato dalla stessa Unione Europea.
Conseguenza del quadro economico degli anni ’80, pongono l’accento sulla necessità di incentivare la
riorganizzazione flessibile dell’impresa (post-fordismo e distretti), promuovere la deregolamentazione del
mercato del lavoro (flessibilità) introducendo nuove forme di protezione sociale, con funzione
compensativa (flexicurity), ma compatibili con l’esigenza di stabilizzare i bilanci pubblici e contenere la
spesa sociale.
Capitolo 4
Le caratteristiche del modello (nato negli USA, con popolazione a forte immigrazione ed elevata
propensione al consumo di beni standardizzati): produzione di massa, manodopera scarsamente qualificata
e struttura di imprese integrate verticalmente. Il modello convive con l’esistenza di piccole imprese (che
rispondono alla domanda di beni non standardizzati) ed imprese controllate (per la produzione nei settori
caratterizzati da domanda instabile nel tempo). Il modello è fortemente legato allo stato sociale
keynesiano.
I fattori di crisi del modello: SATURAZIONE del mercato dei beni di massa ed accresciuta CONCORRENZA dei
paesi di nuova industrializzazione (che beneficiano di manodopera a basso costo).
DISTRETTI INDUSTRIALI
L’alternativa all’evoluzione del modello fordista (post-fordismo) sono i nuovi modelli di specializzazione
flessibile cioè i DISTRETTI INDUSTRIALI.
Caratteristiche organizzative: le singole imprese intrattengono un elevato grado di cooperazione (sia tra
loro che tra imprenditori e lavoratori), accettando che solo alcune di esse intrattengono rapporti diretti col
mercato finale, impegnando i sub fornitori a “non tirare troppo la corda” ma a puntare sui vantaggi di lungo
periodo-
In questo sistema è essenziale la cooperazione tra imprese e la presenza di università e centri di ricerca per
sviluppare i processi cognitivi (conoscenze) e dare impulso all’innovazione che accresce la competitività.
Inoltre, visto il livello medio-piccolo delle singole imprese, la produzione dei servizi alle imprese è devoluta
a specifici centri di servizio (cooperazione tra imprese e sindacato) oppure è svolta direttamente dagli Enti
locali/regionali (istituzione pubblica).
Il modello dei distretti si è evoluto in due direzioni: RETI DI IMPRESE (dove piccole imprese cooperano tra
loro su un piano sostanzialmente paritario – vds. Toscana); IMPRESE-RESE (dove poche imprese di
dimensione maggiore coordinano una rete di subfornitori senza che intercorra una vera dipendenza
organica – vds. Veneto).
Sono particolari distretti industriali dove piccole imprese operano nei settori produttivi dove “l’alta
tecnologia” riveste un ruolo di assoluta preminenza (di contro, esistono settori produttivi dove l’high tech è
importante ma non esclusiva).
Caratteristiche territoriali: Fattori essenziali per lo sviluppo di distretti high tech sono la presenza sul
teriitorio di:
economie esterne correlate ai processi cognitivi (Università e Centri di Ricerca alimentano sia lo
sviluppo di nuove tecnologie sia la disponiblità di personale altamente qualificato, con frequenti
passaggi tra attività scientifiche e formative;
fornitori specializzati di beni e servizi all’impresa, con particolare riferimento ai servizi finanziari
stante l’incertezza ed il rischio elevato che caratterizza gli investimenti nel settore high tech;
qualità socioculturali del contesto territoriale, che deve attrarre personale altamente qualificato
ed istruito, idoneo all’insediamento delle rispettive famiglie, a garanzia della formazione di una
comunità professionale stabile.
prevalenza di economie esterne orientate alle “conoscenze” piuttosto che orientate alle
infrastrutture, alle relazioni industriali, trasporti, ecc. che caratterizzato i distretti industriali.
basso impatto con la comunità locale, in particolare quanto agli aspetti occupazionali
maggiore incisività del ruolo delle istituzioni locali e regionali (ma anche centrali) cui compete il
ruolo di “intermediazione e collegamento” nella costruzione di rapporti cooperativi tra il mondo
della ricerca e le imprese impegnate nei settori high tech.
ECONOMIA INFORMALE
E’ caratterizzata da tre dimensioni: produzione di beni legati con metodi illegali; produzione di beni illegali
con metodi legali; produzione di beni destinati all’autoconsumo (cioè che non entrano nelle filiere di
mercato).
L’economia informale rappresenta la via bassa alla flessibilità, contrapposta alla via alta alla flessibilità,
centrata sui distretti (reti di imprese ed impresa rete).
Capitolo 5
La profonda riorganizzazione delle imprese degli anni ’80 (reti di impresa ed imprese-rete) ha evidenziato
l’incremento di “reti di contratti” tra le imprese, mettendo in luce i relativi “costi di transazione”,
determinati da comportamente opportunistici che sfruttano le incertezze e le carenze informative. La
nuova sociologia si sofferma su tali costi, evidenziano come essi sia riconducibili, più che a fattori di
mercato, a “fattori umani”: razionalità limitata (impossibilità di conoscere tutte le alternative) e
opportunismo (mancanza di sincerità ed onestà).
Ne derivano due approcci di studio: quello strutturale (considera la collocazione dei soggetti nelle “reti
sociali”) e quello neoistituzionale sociologico (che considera i “fattori culturali”).
L’inserimento dei soggetti in “reti sociali” stabili contribuisce a creare relazioni personali che generano
fiducia e permettono lo scambio informativo in modo da tenere sotto controllo i comportamenti altrui ed
individuare quelli scorretti, isolando dalla rete i relativi soggetti responsabili. Ciò riduce i costi associati alle
transazioni ed aumenta la quantità delle transazioni stesse. E’ da evidenziare, tuttavia, che questo risultato
“positivo” delle reti sociali non è l’unico in quanto il concetto di rete è altrettanto funzionale allo sviluppo,
in forma associata (controllo informazione e sanzione) dei comportamenti scorretti (economie criminali,
insider trading - cioè della possibilità di utilizzare informazioni relative a ordini o a intendimenti dei clienti,
per trame vantaggi particolari per sé o per la propria società (per esempio, acquistando o vendendo in
proprio i titoli interessati, o vendendo ad altri le informazioni) - . Gli operatori possono sfruttare le
«asimmetrie informative» a scapito dei clienti, manipolando le informazioni e orientandone le scelte.). Per
gli autori riconducibili all’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata e non può essere
spiegata soltanto sulla base di motivazioni individuali.
Granovetter con la nozione di embeddedness sottolinea i ruolo delle relazioni personali concrete e delle
strutture di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione. Il maggior grado di
fiducia (legami sociali forti )che lega i soggetti della rete radicata favorisce la circolazione di informazioni,
specie quella di natura tacita, legate a conoscenze specifiche non facilmente codificabili e trasmettibili. Egli
mostra inoltre l’importanza dei contatti informali come strumento per trovare lavoro ed attira l’attenzione
sulla forza dei legami deboli (i soggetti inseriti in relazioni sociali deboli hanno più possibilità di accesso a
un numero maggiore e più diversificato di informazioni rispetto a quelle ottenibili attraverso legami “forti”
con i familiari, parenti e amici intimi perché i conoscenti hanno maggiori probabilità di essere inseriti in
cerchie sociali diverse).
Dunque, l'attività innovativa sembra essere legata alla combinazione di buoni e diffusi legami deboli verso
l'esterno con legami forti interni.
In senso positivo, le reti sociali contribuiscono allo sviluppo di collaborazioni interorganizzative, necessarie
a creare il ciclo virtuoso tra ricerca (lo studio) invenzione (l’idea) finanziamento (disponibilità dei
mezzi) innovazione (realizzazione dell’idea), dove i manager collegati alla rete sociale riescono a dare il
contributo migliore, colmando alcune lacune strutturali (ciò che manca).
Le medesime conseguenze dell’appartenenza alle reti sociali (sia in positivo che in negativo) sono emerse
negli studi specifici riferiti alle attività finanziarie, evidenziando come la reste possa di volta in volta favorire
il controllo dei comportamenti opportunistici o generale “cartelli” (comportamenti scorretti o criminali).
L’insieme delle relazioni sociali generate dalla rete (e di cui dispone ciascun soggetto) rappresentano il
capitale sociale che si ricollega allo sviluppo economico. Il capitale sociale è un bene collettivo e non
divisibile (in quanto i suoi vantaggi non sono appropriabili individualmente ma vanno a tutti coloro che
partecipano alla rete), che i singoli sono poco propensi a produrre in proprio. Spetta all’istituzione pubblica,
pertanto, stimolarne la produzione ed orientarne l’uso “positivo” (scoraggiando i comportamenti scorretti).
A differenza dell’approccio strutturale (reti sociali), pone l’accento sul comportamento del singolo soggetto
(sia esso individuale o collettivo) che, di fronte alla carenza informativa ed ai rischi delle transazioni, si
affida in modo acritico a quelle soluzioni che sono state scelte come ottimali dall’ambiente nel quale egli
opera. Ne consegue una sorta di uniformazione dei comportamenti dei singoli (tutti tendono ad adottare
quella soluzione presentata come ottimale), generando ISOMORFISMO che può essere: istituzionale
(coercizione - cioè portare a modelli simili a causa vincoli cogenti - da parte dell’antitrust, di norme sul
lavoro e la sicurezza; da parte di imprese committenti verso i subfornitori; causate dalle relazioni industriali
- ), normativo (standard comportamentali - dovuto al ruolo delle università e delle scuole di
specializzazione che formano manager che spostandosi all’interno delle varie imprese possono diffondere
idee e standard professionali di comportamento che assumono elevata legittimità da parte delle imprese
stesse) o mimetico (per imitazione dei modelli che appaiono più appropriati e legittimati nel campo
organizzativo).
In questo contesto, ad esempio, si inserisce l’attività delle agenzie di revisione contabile e di valutazione del
credito che, alla luce della diffusa asimmetria informativa esistente, si propongono di elaborare
“informazioni affidabili” a sostengo della decisione del singolo soggetto (che ad essi si affida). La genuinità
di questo sistema è strettamente connesso alla effettiva “indipendenza” di dette agenzie (vds le collusioni
evidenziate dal caso Parmalat).
Studi recenti indicano come i fattori culturali (neoistituzionalismo) non possono essere considerati in modo
totalmente separato dalle relazioni generate dalle reti sociali (strutturalismo) e pertanto la nuova tendenza
di studio porta a considerare unitariamente sia le risorse relazionali che gli orientamenti culturali, attuando
una COMPARAZIONE volta ad identificare differenti modelli locali in base a tutte le variabili (relazionali e
culturali) presenti nel singolo contesto.
Le agenzie di revisione contabile e di valutazione del credito svolgono in realtà una funzione latente
essenziale per l'andamento del mercato: quella di rassicurare gli investitori. Sono «agenti di diffusione
della fiducia», la quale rende possibile investimenti che potrebbero essere altrimenti problematici.
CONSUMI
La sociologia economica tradizionale si è interessata pressoché esclusivamente della “produzione” dei beni,
mentre gli studi recenti hanno concentrato l’attenzione sui “consumi”, elaborando:
l’approccio dei fattori culturali (incline a considerare i consumi come segni di identificazione, o
distacco, o addirittura di contestazione, nei riguardi dei valori culturali prevalenti (es. le subculture
giovanili, etniche, politiche, religiose) – Sono più strumenti di “comunicazione sociale” che non di
competizione per lo status.
Capitolo 6
Il problema degli anni ’70 era il controllo dell’inflazione ed ha dato luogo a differenti modelli regolativi
(neocorporativismo con l’accordo; il decreto con le politiche dirigistiche; il pluralismo con le libere
fluttuazioni delle regole di mercato). Negli anni ’80, posta sotto controllo l’inflazione, è emersa la sfida
dell’INNOVAZIONE quale rimedio per competere con successo sui mercati internazionali (esteri) e vincere la
concorrenza delle importazioni sui mercati interni. L’innovazione si concretizza con l’idea della “produzione
flessibile di qualità” per evitare la competizione (perdente) sul terreno del costo del lavoro. Il ruolo dello
stato viene concepito a sostegno di un contesto istituzionale favorevole allo spostamento verso produzioni
flessibili e di qualità. Si delineano due idealtipi istituzionali: economie coordinate di mertato (modello
germano-nipponico) ed economie non coordinate di mercato (modello anglosassone).
formazione professionale: nelle economie non coordinate il lavoro è regolato dal mercato e
comporta una elevata mobilità che scoraggia gli investimenti dell’impresa nella formazione dei dipendenti.
Di contro, impegna ingenti risorse per il maggior costo del lavoro del personale già specializzato,
rinunciando così agli investimenti di risorse per l’innovazione.
Nell’economia coordinata, parte dei costi della formazione professionale sono sostenuti dallo stato, inoltre
i rapporti di lavoro più stabili assicurano una disponibilità più stabile di forza lavoro su cui investire in
formazione senza rischi, il che è funzionale all’innovazione.
relazioni industriali: nelle economie non coordinate i bassi vincoli normativi comportano elevata
mobilità del personale e bassa qualificazione, a svantaggio dell’innovazione. Nelle economie coordinate i
vincoli più rigidi del mercato del lavoro incentivano le imprese ad investire in formazione per valorizzare le
risorse umane disponibili e di cui comunque non potrebbero liberarsi facilmente.
Nonostante queste diversità, alla fine degli anni ’90 le economie NON coordinate presentavano livelli di
occupazione, competitività e crescita economica superiori a quelli delle economie coordinate. Tali successi
sono ascrivibili ai più bassi livelli di disoccupazione, maggiore specializzazione dei settori produttivi (settori
dell’alta tecnologia - industria aerospaziale, informatica e telecomunicazioni, biotecnologie – e settore dei
servizi al consumatore). Questa realtà, da un lato evidenzia la differenza di risultato se misurata nel lungo
periodo, dall’altra dimostra che competitività e sviluppo possono coesistere (sono compatibili) con elevati
livelli di disuguaglianza sociale (la maggiore occupazione è proporzionale alla diminuzione dei salari reali e
delle protezioni sociali).
IL DIBATTITO ATTUALE
Il comportamento dinamico tra economie coordinate e non coordinate ha evidenziato (oltre alla differenza
di risultati nel tempo) che tra questi due estremi si vanno affermando numerosi altri modelli intermedi che
non troverebbero spiegazione esaustiva né nell’economia coordinata né in quella non coordinata e che in
sintesi sono ascrivibili a:
differenti gradi di intervento economico delle istituzioni (dirigismo, stato che compensa, stato non
interventista, stato che concerta);
composizione variabile di una ampia gamma di modalità operative con cui le aziende possono puntare
al successo competitivo (non esiste un modo “unico” di competere ma mix: organizzazione “modulare”
della produzione, impiego di macchinari multiuso nell’ottica della diversificazione produttiva,
multinazionalità, ecc.).
CONCLUSIONI
Mentre i mercati si muovono nel senso della “globalizzazione”, le economie e le istituzioni sembrano
muoversi verso la “diversificazione” dei modelli, in funzione delle specificità storiche e culturali delle singole
territorialità. Più che ragionare in termini di superiorità di un modello su un altro occorre dunque
guardare alla possibilità di equilibri multipli con punti di forza e di debolezza diversi.