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SOCIOLOGIA ECONOMICA IN PILLOLE

SOCIOLOGIA ECONOMICA : insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza


tra fenomeni economici e sociali. La sociologia economica ha sviluppato un metodo più legato all’indagine
storico-empirica e dunque problematizza gli assunti a priori della teoria economica (gli individui non sono
normalmente ben informati e capaci di calcolo razionale, e non sono tutti moralmente affidabili; i mercati
non sono sempre pienamente concorrenziali). La sociologia economica mette in discussione l’atomismo e
l’utilitarismo della teoria dell’azione dei neoclassici e rileva la funzione simbolica dei consumi in una
competizione per acquisire maggiore prestigio specie nelle grandi città in crescita. La moda ha una duplice
finalità: identificarsi con altri gruppi sociali e distinguersi da altri gruppi sociali. Weber lega i comportamenti
di consumo alla ricerca di status tipica dei ceti ed talvolta si accompagna alla rigidità sociale del
comportamento di consumo (es. un aumento di prezzo di un bene può non dar luogo a minor consumo se il
bene ha un valore simbolico elevato o viceversa).

Capitolo 1

ISTITUZIONE

Complesso di valori e norme sociali che orientano il comportamento individuale e si basano su sanzioni che
tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti.

ORGANIZZAZIONE

Complesso coordinato di risorse umane e materiali per raggiungere uno scopo.

SISTEMA ECONOMICO

Modalità, variabili nel tempo e nello spazio, con cui le istituzioni orientano e regolano il mercato : mentalità
economica (valori che orientano il comportamento degli individui), organizzazione economica (norme
formali e informali che regolano l'esercizio delle attività economiche), tecnica (conoscenze tecniche e i
procedimenti utilizzati dai soggetti per produrre beni e servizi).

RECIPROCITA’ (obblighi sociali - si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di
solidarietà condivisi nei riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù) REDISTRIBUZIONE
(avvento dell’istituzione politica - Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi
sociali condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico, pur se di solito legittimate
in termini religiosi.) SCAMBIO DI MERCATO (autoregolazione del mercato – legge della domanda e
dell’offerta - modo relativamente pacifico per acquisire, attraverso un rapporto bilaterale, beni non
immediatamente disponibili.)

VISIONE ATOMISTICA

Le preferenze individuali si formano indipendentemente dall’influenza degli altri soggetti (visione


dell’economia)

NUOVO PARADIGMA DELL’ECONOMIA

Gli individui sono mossi all’azione economica da motivazioni utilitaristiche – lo stato non deve interferire
con il mercato)
EFFICIENZA DEL MERCATO

Soddisfare le preferenze individuali ai costi più bassi.

ECONOMIA NEOCLASSICA (funzionamento del mercato)

Soggetti ben informati e moralmente affidabili, capaci di calcolare razionalmente le proprie preferenze.
Piena commerciabilità di tutti i beni e fattori di produzione. Molti venditori e molti acquirenti.

SOCIOLOGIA ECONOMICA

Nella realtà, gli individui non sono ben informati, sono influenzati nel calcolo delle preferenze e possono
essere moralmente inaffidabili. Inoltre, il mercato non è pienamente concorrenziale. Quindi, l’intervento
dell’Istituzione è necessario, a tutela dell’interesse individuale.

UTILITA’ MARGINALE (la propensione a spendere diminuisce proporzionalmente all’incremento delle unità
di prodotto consumate).

E’ smentita dal fenomeno del consumo di massa. Quindi l’efficienza del mercato va costruita socialmente.

COMPROMESSO STORICO

Nel 2° dopoguerra, lo stato interviene massicciamente nell’economia sia per pianificare l’economia (es.
piano Marshall) che per redistribuire i redditi (welfare). Le imprese maggiori collaborano con l’Autorità per
stabilizzare i profitti di lungo termine. Si realizza la comunione di intenti stato-impresa.

RIVOLUZIONE KEYNESIANA (anni ’30)

Keynes rompe l’ortodossia del riaggiustamento automatico del mercato (vds crisi del 1929). Da fondamento
teorico all’intervento dello stato nell’economia per ridurre gli effetti negativi dell’incertezza e sostenere la
domanda attraverso la spesa pubblica e la redistribuzione (welfare).

DECLINO DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA (periodo 1930 – 1970)

Mentre negli anni ’30 l’economia recuperava aderenza alla realtà (rivoluzione keynesiana), la sociologia
registrava un periodo di stagnazione del pensiero in campo economico (studi di Parsons) e finiva per
interessarsi di altre discipline.

Capitolo 2

SOCIOLOGIA DELLO SVILUPPO (periodo: decolonizzazione, anni ’50 – ’60)

Partendo dalla teoria della modernizzazione (legata ai percorsi della civiltà occidentale nei paesi arretrati),
sviluppa delle critiche che evidenziano i CONDIZIONAMENTI ECONOMICI (teoria della dipendenza) e
POLITICI (nuova Political Economy comparata). Si evidenzia che la “soluzione occidentale” non è la sola
“best way” ma esiste una pluralità di percorsi di modernizzazione.

TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE

La società tradizionale che caratterizza i paesi arretrati ne ostacola lo sviluppo. La famiglia ha caratteristiche
estese (e non nucleare) e ciò facilità il controllo sociale. Inoltre, è proiettata all’autoconsumo e non al
contributo di lavoro individuale e specializzato per il mercato. Infine, inculca un riconoscimento passivo dell
“autorità” che ostacola la “creatività” dell’individuo per sostenere l’imprenditorialità. Manca una èlite
politico/intellettuale capace di ottenere legittimazione e di sostituirsi a modelli di tipo religioso/tribale. La
soluzione è il contatto/intrusione della civiltà di sviluppo occidentale per orientare l’assetto
istituzionale/culturale allo sviluppo. Si assume che: lo sviluppo è inevitabile, superiorità del modello sociale
occidentale, convinzione che il contatto con l’esterno stimola ineluttabilmente lo sviluppo. Contiene al suo
interno diversi approcci:

1) teoria della modernizzazione in senso stretto (anni ’50 – ’60): sottolinea l’importanza dei fattori
socioculturali e politici endogeni dei paesi meno sviluppati nel condizionare il cambiamento sociale;

2) teoria della dipendenza: fa particolare riferimento ai paesi dell’America Latina ed ai condizionamenti


economici esercitati dai paesi più sviluppati sul cambiamento di quelli arretrati;

3) political economy comparata: al centro della sua attenzione è il ruolo delle istituzioni politiche nel
processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici e quelli dell’America Latina.

CRITICHE alla teoria della modernizzazione

 Non è dimostrato che il modello sociale occidentale sia ottimo o superiore né che possa pervadere
tutte le sfere sociali (dalla comunicazione, all’istruzione, alla domanda di consumo, alla produzione,
al funzionamento delle istituzioni politiche)

 L’incremento di sviluppo dei paesi arretrati porta questi ultimi ad una insostenibile competizione
con quelli sviluppati per il reperimento dei finanziamenti (insufficienti quelli generati all’interno)
che di fatto finisce per determinare dipendenza. Quest’ultima genera una penetrazione diretta del
capitale straniero che sottrae al paese ulteriore “vantaggio” generando sfruttamento.

 La “sostituzione” delle strutture tradizionali può generare instabilità, è imprevedibile nei risultati ed
è condizionato da eventi contingenti (guerre). Sarebbe preferibile porre attenzione ai soggetti del
cambiamento e non alle strutture sociali in astratto.

POLITICAL ECONOMY

Guarda al ruolo dello stato che deve guidare lo sviluppo negoziando i rapporti internazionali
(condizionamenti esterni) in un ambiente culturale che assicura l’autonomia dell’élite politica dagli interessi
particolari privati/di settore (condizionamenti interni)

Mantenendo elevata autonomia lo stato deve creare legami sociali personali tra i diversi attori economici,
pubblici e privati, ovvero deve creare capitale sociale.

I condizionamenti interni mettono in luce 3 diversi modelli:

 GIAPPONE: il capitalismo è guidato “dall’alto” dell’élite politica che intrattiene rapporti stretti con
l’impresa ed è favorito dalla cultura del confucianesimo (obbligo di sottomissione all’autorità). Ciò
ha reso possibile il grande sviluppo economico giapponese (sostituzione delle piccole imprese
familiari con le grandi imprese dell’industria pesante).
 CINA: nella società cinese assume rilievo la struttura della famiglia. Ciò ha reso possibile la
creazione di tante imprese familiari (piccole e medie) con ruoli complementari, coordinate da
relazioni fiduciarie e di reciprocità su base familiare (reti). Lo stato acconsente alla creazione di
queste imprese (pur mantenendo un’impostazione comunista), mentre il costo del lavoro è
determinato dalla famiglia e la domanda è determinata dall’esterno (multinazionali estere). La
domanda interna resta bassa.

 PAESI POST-COMUNISTI: capitalismo dall’estero (Rep. Ceca, Polonia, Ungheria), scarso ruolo dello
stato e rapida introduzione del capitalismo (le multinazionali acquistano le imprese locali e portano
capitali e tecnologia). Capitalismo dall’alto (Russia, Ucraina, Romania), gli esponenti politici si
impossessano delle imprese statali trasformandole in proprietà privata, cresce la corruzione e la
dipendenza delle imprese dal finanziamento pubblico. Capitalismo dal basso (modello Cina), cresce
la piccola impresa familiare ma permane la concezione comunista dello stato e la grande industria
statale.

PROSPETTIVE FUTURE DELLA POLITICAL ECONOMY

La peculiarità del capitalismo asiatico di imprese deboli inserite in network forti (in occidente, imprese forti
con struttura organizzativa e cornice giuridica) evidenzia una specificità istituzionale, economica e politica,
riconducibile al concetto di civiltà (es. confucianesimo) e differenti visioni del mondo per legittimare il
potere. Tutto ciò nega l’avvento di un’unica civiltà economica mondiale e conferma l’esistenza di differenti
processi di modernizzazione seppur in un contesto globalizzato (le variabili della modernizzazione non sono
solo politico-istituzionale ma anche culturali).

Capitolo 3

NUOVA SOCIOLOGIA ECONOMICA (a partire dagli anni ’70)

Studia le trasformazioni del modello organizzativo “fordista” delle imprese (divisione tayloristica del lavoro
in attività semplici, manodopera non specializzata e struttura verticale gerarchizzata) e l’avvento di nuovi
modelli organizzativi “flessibili” (impresa-rete, reti di imprese, post-fordismo).

STATO SOCIALE KEYNESIANO (2° dopoguerra)

La teoria di Keynes (1930) accetta l’intervento dello stato nei processi di mercato (con compiti
regolamentari e redistributivi) ma limitato al breve periodo (stabilizzazione del ciclo economico nei
momenti di depressione). Nel tempo (anni ’50 – ’60) l’intervento dello stato ha superato l’idea keynesiana
intervenendo stabilmente (cioè indipendentemente dal ciclo economico) nell’ottica di sostenere la
CRESCITA economica (non solo stabilizzazione). Ciò che caratterizza particolarmente lo stato sociale
keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. Inoltre nel modello keynesiano trova spazio la
teoria neomarxista dello stato (lo stato incrementa i programmi di protezione sociale per sostenere
l’accumulazione ed il mantenimento del consenso).

Tale intervento prolungato è lo STATO SOCIALE KEYNESIANO che ha contemplato 3 livelli di intervento:

 Modello istituzional-redistributivo: riconosce i diritti sociali come componenti essenziali della


cittadinanza. Si tratta di programmi pubblici che forniscono benefici uniformi per tutti i cittadini,
quindi su base universalistica (Svezia, Norvegia, Danimarca)
 Modello residuale: in cui la protezione sociale pubblica è volta a coprire una fascia limitata di
popolazione che si trova in condizioni di particolare indigenza e bisogno, per rischi che non sono
coperti dal mercato, dalla famiglia o da forme di azione volontaria (USA, Canada, Australia e
ultimamente Inghilterra)

 Modello remunerativo: la protezione sociale non si basa su un diritto di cittadinanza ma


sull’appartenenza a una categoria socio-professionale (non universale) e si concretizza
prevalentemente in trasferimenti monetari anziché elargizione di servizi (Europa continentale)

CRISI DELLO STATO SOCIALE KEYNESIANO (anni ’70: crisi petrolifera e concorrenza dei nuovi paesi
industriali)

La maggiore protezione sociale genera incremento della domanda e nuove ulteriori pretese salariali,
determinando inflazione dei prezzi e stagnazione dell’occupazione (stagflazione). Lo stato pur di mantenere
la propria legittimazione (consenso politico) rincorre le maggiori pretese, incrementando la spesa sociale e
generando nuova inflazione.

LA NUOVA POLITICAL ECONOMY

In questa spirale di generazione dell’inflazione, la nuova politcal economy studia le relazioni intercorrenti
tra governo, sindacati e imprese, domandandosi cosa spinga i governi a cercare il consenso politico
(legittimazione) mediante l’incremento della spesa pubblica (cedendo alle nuove pretese di protezione
sociale).

C’è uno scarto temporale tra l’espansione economica ed il manifestarsi degli effetti inflattivi e siccome gli
elettori hanno la memoria corta, essi non comprendono che l’inflazione post-elettorale è generata dalle
politiche espansive del governo per farsi rieleggere.

Vengono elaborati i concetti di NEOCORPORATIVISMO e CONCERTAZIONE, contrapposti ai precedenti


concetti di pluralismo e politica di pressione.

Per NEOCORPORATIVISMO si intende un modello di regolazione politica dell’economia nel quale grandi
organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma
concertata, al processo di decisione e attuazione di importanti politiche economiche e sociali (si distingue
dal corporativismo che abbiamo visto nelle esperienze dei regimi autoritari che serviva per imporre scelte
sostanzialmente definite dall’alto da parte dei governi autoritari).

NEOCORPORATIVISMO E CONCERTAZIONE

Il controllo degli effetti perversi dello stato sociale keynesiano (stagflazione) passa attraverso un nuovo
sistema di rappresentanza degli interessi (neocorporativismo) e di decisione politica (concertazione). Le
piccole associazioni volontarie esprimono un interesse di settore e sono in competizione tra loro
(pluralismo) ed hanno scarsa capacità di coordinamento. Con l’avvento del NEOCORPORATIVISMO la
rappresentanza degli interessi è organizzata da poche organizzazioni (oligopolio) strutturate verticalmente
e che ricomprendono ampi settori di interessi, che godono sia del riconoscimento della base rappresentata
sia della legittimazione e riconoscimento del governo. Esse tutelano l’interesse della base partecipando con
l’autorità pubblica al processo di definizione ed attuazione delle politiche economiche e sociali
(concertazione). I sindacati sono spinti ad accettare la moderazione salariale perché il governo ha beni da
distribuire ed è pronto a scambiarli con il consenso sociale che è nella disponibilità dei sindacati. I vantaggi
sono le migliori politiche sociali per i rappresentati ma anche un accresciuto e riconosciuto potere politico
dei dirigenti sindacali.

Il neocorporativismo si è manifestato con diversi gradi intensità e stabilità, fondamentalmente


caratterizzati dalla presenza al governo di partiti di sinistra, da un tessuto culturale più o meno sospettoso
verso forme di aggregazione degli interessi (Italia), organizzazione della rappresentanza forte e tendente al
monopolio.

DECRETO

E’ un tipo di regolazione alternativo sia alla CONCERTAZIONE (neocorporativismo) sia alla POLITICA DI
PRESSIONE (pluralismo). E’ caratterizzato dalla politica dirigistica dello stato che orienta il comportamento
delle imprese (leve del credito, fiscali, sostegno all’esportazione), escludendo dalla decisione politica la
partecipazione dei gruppi sindacali che risultano deboli.

Le differenze tra il decreto e gli altri due modelli, l’accordo (che coincide con il neocorporativo) ed il
mercato (che coincide con il pluralismo radicale il cui riferimento principale sono gli Stati Uniti).

GLI ANNI ‘80

Al tema del controllo dell’inflazione (corporativismo e concertazione degli anni ’70) si aggiunge la sfida
dell’innovazione per contrastare la maggiore concorrenza dei nuovi paesi industriali. Il nuovo quadro
impone conseguenze per tutti gli attori economici: le imprese, abbandonano progressivamente
l’organizzazione “fordista” per nuovi modelli flessibili, spostando all’estero le fasi di mera produzione e
privilegiando la creazione di imprese (ristrutturazione) orientate ai servizi. Conseguentemente, aumentano
i lavoratori specializzati e cala drasticamente la classe operaia, nocciolo duro delle rappresentanze sindacali
che perdono potere in assoluto e subiscono una frammentazione organizzativa parallela al declino del
modello fordista. Il diminuito peso sindacale (e con esso il minor conflitto sociale), l’integrazione politica in
strutture sovranazionali (Unione Europea) e la globalizzazione dei mercati finanziari (moneta unica)
modificano le priorità dei governi, indirizzandone l’azione verso il controllo dei bilanci pubblici ed in
particolare il contenimento della crescente quota di spesa sociale (sanità, pensioni, previdenza, assistenza,
ecc.). Vengono meno i requisiti costitutivi del neocorporativismo (sindacati forti, conflitto sociale
incombente, disponibilità di risorse pubbliche da distribuire). Emergono nuovi orientamenti: contrattazione
decentrata e definizione di nuovi patti sociali. In USA si conferma ed accentua il modello di regolazione
liberale (mercato) mentre in Europa permane il sistema regolativo della concertazione, seppur con
differenti graduazioni a livello regionale, incentivato dalla stessa Unione Europea.

NUOVI PATTI SOCIALI

Conseguenza del quadro economico degli anni ’80, pongono l’accento sulla necessità di incentivare la
riorganizzazione flessibile dell’impresa (post-fordismo e distretti), promuovere la deregolamentazione del
mercato del lavoro (flessibilità) introducendo nuove forme di protezione sociale, con funzione
compensativa (flexicurity), ma compatibili con l’esigenza di stabilizzare i bilanci pubblici e contenere la
spesa sociale.

Capitolo 4

SOCIOLOGIA ECONOMICA DEGLI ANNI ‘80


In questo periodo la sociologia economica si concentra sullo studio dei nuovi modelli organizzativi flessibili
dell’impresa (post-fordismo e modelli ibridi), sul nuovo approccio di intervento istituzionale (influenzare i
livelli dell’offerta di beni più che regolare la domanda: ovvero spinta all’innovazione), influenzato da nuovi
fattori culturali, rapporti fiduciari e reti di relazioni sociali.

MODELLO FORDISTA, CRISI E TRASFORMAZIONI

Le caratteristiche del modello (nato negli USA, con popolazione a forte immigrazione ed elevata
propensione al consumo di beni standardizzati): produzione di massa, manodopera scarsamente qualificata
e struttura di imprese integrate verticalmente. Il modello convive con l’esistenza di piccole imprese (che
rispondono alla domanda di beni non standardizzati) ed imprese controllate (per la produzione nei settori
caratterizzati da domanda instabile nel tempo). Il modello è fortemente legato allo stato sociale
keynesiano.

I fattori di crisi del modello: SATURAZIONE del mercato dei beni di massa ed accresciuta CONCORRENZA dei
paesi di nuova industrializzazione (che beneficiano di manodopera a basso costo).

L’ evoluzione del modello (post-fordismo): è ascrivibile all’avvento di MACCHINE A CONTROLLO NUMERICO


che consentono produzione di qualità, in quantità limitata e soggetta a rapido mutamento dell’articolo (in
sostanza si continua a fare produzione di massa, ma di qualità e notevole variazione del prodotto). Infine, il
ricorso alla MULTINAZIONALITA’ (investimenti nei paesi in via di sviluppo) consente di ritrovare quelle
condizioni di vantaggio tipiche del modello fordista originario.

Contrapposto al nuovo modello fordista (post-fordista) si afferma il modello della SPECIALIZZAZIONE


FLESSIBILE (distretti industriali).

DISTRETTI INDUSTRIALI

L’alternativa all’evoluzione del modello fordista (post-fordismo) sono i nuovi modelli di specializzazione
flessibile cioè i DISTRETTI INDUSTRIALI.

Caratteristiche territoriali: concentrazione di tante piccole imprese in un territorio limitato (non


necessariamente identificabile con i confini amministrativi), avente vocazione per la produzione in un
settore specifico (es. calzaturiero, abbigliamento, tessile, ceramica, ecc.), caratterizzato dalla presenza di
una forte subcultura politica locale (es. tradizione cattolica, socialista/comunista), con presenza di
manodopera motivata e culturalmente disposta alla flessibilità del lavoro (riferita sia al salario che alla
flessibilità di mansioni oppure alla mobilità da impresa ad impresa), ove ciascuna impresa si specializza in
una particolare fase del ciclo produttivo di un determinato bene.

Caratteristiche organizzative: le singole imprese intrattengono un elevato grado di cooperazione (sia tra
loro che tra imprenditori e lavoratori), accettando che solo alcune di esse intrattengono rapporti diretti col
mercato finale, impegnando i sub fornitori a “non tirare troppo la corda” ma a puntare sui vantaggi di lungo
periodo-

In questo sistema è essenziale la cooperazione tra imprese e la presenza di università e centri di ricerca per
sviluppare i processi cognitivi (conoscenze) e dare impulso all’innovazione che accresce la competitività.
Inoltre, visto il livello medio-piccolo delle singole imprese, la produzione dei servizi alle imprese è devoluta
a specifici centri di servizio (cooperazione tra imprese e sindacato) oppure è svolta direttamente dagli Enti
locali/regionali (istituzione pubblica).
Il modello dei distretti si è evoluto in due direzioni: RETI DI IMPRESE (dove piccole imprese cooperano tra
loro su un piano sostanzialmente paritario – vds. Toscana); IMPRESE-RESE (dove poche imprese di
dimensione maggiore coordinano una rete di subfornitori senza che intercorra una vera dipendenza
organica – vds. Veneto).

DISTRETTI “HIGH TECH”

Sono particolari distretti industriali dove piccole imprese operano nei settori produttivi dove “l’alta
tecnologia” riveste un ruolo di assoluta preminenza (di contro, esistono settori produttivi dove l’high tech è
importante ma non esclusiva).

Caratteristiche territoriali: Fattori essenziali per lo sviluppo di distretti high tech sono la presenza sul
teriitorio di:

 economie esterne correlate ai processi cognitivi (Università e Centri di Ricerca alimentano sia lo
sviluppo di nuove tecnologie sia la disponiblità di personale altamente qualificato, con frequenti
passaggi tra attività scientifiche e formative;

 fornitori specializzati di beni e servizi all’impresa, con particolare riferimento ai servizi finanziari
stante l’incertezza ed il rischio elevato che caratterizza gli investimenti nel settore high tech;

 qualità socioculturali del contesto territoriale, che deve attrarre personale altamente qualificato
ed istruito, idoneo all’insediamento delle rispettive famiglie, a garanzia della formazione di una
comunità professionale stabile.

Differenze rispetto ai comuni distretti industriali sono:

 prevalenza di economie esterne orientate alle “conoscenze” piuttosto che orientate alle
infrastrutture, alle relazioni industriali, trasporti, ecc. che caratterizzato i distretti industriali.

 basso impatto con la comunità locale, in particolare quanto agli aspetti occupazionali

 maggiore incisività del ruolo delle istituzioni locali e regionali (ma anche centrali) cui compete il
ruolo di “intermediazione e collegamento” nella costruzione di rapporti cooperativi tra il mondo
della ricerca e le imprese impegnate nei settori high tech.

ECONOMIA INFORMALE

E’ caratterizzata da tre dimensioni: produzione di beni legati con metodi illegali; produzione di beni illegali
con metodi legali; produzione di beni destinati all’autoconsumo (cioè che non entrano nelle filiere di
mercato).

L’economia informale rappresenta la via bassa alla flessibilità, contrapposta alla via alta alla flessibilità,
centrata sui distretti (reti di imprese ed impresa rete).

Capitolo 5

NUOVA SOCIOLOGIA ECONOMICA DEGLI ANNI ‘80

La profonda riorganizzazione delle imprese degli anni ’80 (reti di impresa ed imprese-rete) ha evidenziato
l’incremento di “reti di contratti” tra le imprese, mettendo in luce i relativi “costi di transazione”,
determinati da comportamente opportunistici che sfruttano le incertezze e le carenze informative. La
nuova sociologia si sofferma su tali costi, evidenziano come essi sia riconducibili, più che a fattori di
mercato, a “fattori umani”: razionalità limitata (impossibilità di conoscere tutte le alternative) e
opportunismo (mancanza di sincerità ed onestà).

Ne derivano due approcci di studio: quello strutturale (considera la collocazione dei soggetti nelle “reti
sociali”) e quello neoistituzionale sociologico (che considera i “fattori culturali”).

L’APPROCCIO STRUTTURALE (reti sociali)

L’inserimento dei soggetti in “reti sociali” stabili contribuisce a creare relazioni personali che generano
fiducia e permettono lo scambio informativo in modo da tenere sotto controllo i comportamenti altrui ed
individuare quelli scorretti, isolando dalla rete i relativi soggetti responsabili. Ciò riduce i costi associati alle
transazioni ed aumenta la quantità delle transazioni stesse. E’ da evidenziare, tuttavia, che questo risultato
“positivo” delle reti sociali non è l’unico in quanto il concetto di rete è altrettanto funzionale allo sviluppo,
in forma associata (controllo informazione e sanzione) dei comportamenti scorretti (economie criminali,
insider trading - cioè della possibilità di utilizzare informazioni relative a ordini o a intendimenti dei clienti,
per trame vantaggi particolari per sé o per la propria società (per esempio, acquistando o vendendo in
proprio i titoli interessati, o vendendo ad altri le informazioni) - . Gli operatori possono sfruttare le
«asimmetrie informative» a scapito dei clienti, manipolando le informazioni e orientandone le scelte.). Per
gli autori riconducibili all’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata e non può essere
spiegata soltanto sulla base di motivazioni individuali.

Granovetter con la nozione di embeddedness sottolinea i ruolo delle relazioni personali concrete e delle
strutture di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione. Il maggior grado di
fiducia (legami sociali forti )che lega i soggetti della rete radicata favorisce la circolazione di informazioni,
specie quella di natura tacita, legate a conoscenze specifiche non facilmente codificabili e trasmettibili. Egli
mostra inoltre l’importanza dei contatti informali come strumento per trovare lavoro ed attira l’attenzione
sulla forza dei legami deboli (i soggetti inseriti in relazioni sociali deboli hanno più possibilità di accesso a
un numero maggiore e più diversificato di informazioni rispetto a quelle ottenibili attraverso legami “forti”
con i familiari, parenti e amici intimi perché i conoscenti hanno maggiori probabilità di essere inseriti in
cerchie sociali diverse).

Dunque, l'attività innovativa sembra essere legata alla combinazione di buoni e diffusi legami deboli verso
l'esterno con legami forti interni.

In senso positivo, le reti sociali contribuiscono allo sviluppo di collaborazioni interorganizzative, necessarie
a creare il ciclo virtuoso tra ricerca (lo studio)  invenzione (l’idea)  finanziamento (disponibilità dei
mezzi)  innovazione (realizzazione dell’idea), dove i manager collegati alla rete sociale riescono a dare il
contributo migliore, colmando alcune lacune strutturali (ciò che manca).

Le medesime conseguenze dell’appartenenza alle reti sociali (sia in positivo che in negativo) sono emerse
negli studi specifici riferiti alle attività finanziarie, evidenziando come la reste possa di volta in volta favorire
il controllo dei comportamenti opportunistici o generale “cartelli” (comportamenti scorretti o criminali).

L’insieme delle relazioni sociali generate dalla rete (e di cui dispone ciascun soggetto) rappresentano il
capitale sociale che si ricollega allo sviluppo economico. Il capitale sociale è un bene collettivo e non
divisibile (in quanto i suoi vantaggi non sono appropriabili individualmente ma vanno a tutti coloro che
partecipano alla rete), che i singoli sono poco propensi a produrre in proprio. Spetta all’istituzione pubblica,
pertanto, stimolarne la produzione ed orientarne l’uso “positivo” (scoraggiando i comportamenti scorretti).

L’APPROCCIO NEOISTITUZIONALE (fattori culturali)

A differenza dell’approccio strutturale (reti sociali), pone l’accento sul comportamento del singolo soggetto
(sia esso individuale o collettivo) che, di fronte alla carenza informativa ed ai rischi delle transazioni, si
affida in modo acritico a quelle soluzioni che sono state scelte come ottimali dall’ambiente nel quale egli
opera. Ne consegue una sorta di uniformazione dei comportamenti dei singoli (tutti tendono ad adottare
quella soluzione presentata come ottimale), generando ISOMORFISMO che può essere: istituzionale
(coercizione - cioè portare a modelli simili a causa vincoli cogenti - da parte dell’antitrust, di norme sul
lavoro e la sicurezza; da parte di imprese committenti verso i subfornitori; causate dalle relazioni industriali
- ), normativo (standard comportamentali - dovuto al ruolo delle università e delle scuole di
specializzazione che formano manager che spostandosi all’interno delle varie imprese possono diffondere
idee e standard professionali di comportamento che assumono elevata legittimità da parte delle imprese
stesse) o mimetico (per imitazione dei modelli che appaiono più appropriati e legittimati nel campo
organizzativo).

In questo contesto, ad esempio, si inserisce l’attività delle agenzie di revisione contabile e di valutazione del
credito che, alla luce della diffusa asimmetria informativa esistente, si propongono di elaborare
“informazioni affidabili” a sostengo della decisione del singolo soggetto (che ad essi si affida). La genuinità
di questo sistema è strettamente connesso alla effettiva “indipendenza” di dette agenzie (vds le collusioni
evidenziate dal caso Parmalat).

Studi recenti indicano come i fattori culturali (neoistituzionalismo) non possono essere considerati in modo
totalmente separato dalle relazioni generate dalle reti sociali (strutturalismo) e pertanto la nuova tendenza
di studio porta a considerare unitariamente sia le risorse relazionali che gli orientamenti culturali, attuando
una COMPARAZIONE volta ad identificare differenti modelli locali in base a tutte le variabili (relazionali e
culturali) presenti nel singolo contesto.

Le agenzie di revisione contabile e di valutazione del credito svolgono in realtà una funzione latente
essenziale per l'andamento del mercato: quella di rassicurare gli investitori. Sono «agenti di diffusione
della fiducia», la quale rende possibile investimenti che potrebbero essere altrimenti problematici.

CONSUMI

La sociologia economica tradizionale si è interessata pressoché esclusivamente della “produzione” dei beni,
mentre gli studi recenti hanno concentrato l’attenzione sui “consumi”, elaborando:

 l’approccio neodifferenziazionista (i beni consumati vengono scelti in funzione dell’esigenza di


identificarsi con un gruppo sociale e distinguersi dagli altri – competizione per lo “status sociale”). Secondo
Jean Baudrillard i modelli di consumo attraverso i quali i soggetti tendono a differenziarsi sono sempre più
mediati dai mezzi di comunicazione di massa ed i consumatori hanno l’illusione di scegliere liberamente tra
questi modelli, ma in realtà sono fortemente condizionati dal sistema dei media che li impone (sono degli
automi sociali che si adattano passivamente agli stimoli provenienti dall’esterno) mentre per Pierre
Bourdieu i comportamenti di consumo rispondono a una logica di competizione per lo status che spinge a
identificarsi con gli stili di vita e i gusti di alcuni gruppi e a differenziarsi dagli altri. Tuttavia, l’attenzione non
si focalizza in questo caso sui media, ma sui condizionamenti esercitati sugli individui dalla loro posizione
nella stratificazione sociale. Anche qui i singoli soggetti sembrano non disporre di margini di autonomia
nella sfera dei consumi per l’influenza dei gruppi sociali di appartenenza (e non per i media).

 l’approccio dei fattori culturali (incline a considerare i consumi come segni di identificazione, o
distacco, o addirittura di contestazione, nei riguardi dei valori culturali prevalenti (es. le subculture
giovanili, etniche, politiche, religiose) – Sono più strumenti di “comunicazione sociale” che non di
competizione per lo status.

Capitolo 6

DUE CAPITALISMI A CONFRONTO (economie coordinate di mercato – economie non coordinate di


mercato)

Il problema degli anni ’70 era il controllo dell’inflazione ed ha dato luogo a differenti modelli regolativi
(neocorporativismo con l’accordo; il decreto con le politiche dirigistiche; il pluralismo con le libere
fluttuazioni delle regole di mercato). Negli anni ’80, posta sotto controllo l’inflazione, è emersa la sfida
dell’INNOVAZIONE quale rimedio per competere con successo sui mercati internazionali (esteri) e vincere la
concorrenza delle importazioni sui mercati interni. L’innovazione si concretizza con l’idea della “produzione
flessibile di qualità” per evitare la competizione (perdente) sul terreno del costo del lavoro. Il ruolo dello
stato viene concepito a sostegno di un contesto istituzionale favorevole allo spostamento verso produzioni
flessibili e di qualità. Si delineano due idealtipi istituzionali: economie coordinate di mertato (modello
germano-nipponico) ed economie non coordinate di mercato (modello anglosassone).

CONFRONTO NEL BREVE PERIODO

I risultati migliori sembrano arrivare dalle economie coordinate di mercato. Infatti:

 nelle economie NON coordinate i finanziamenti provengono dal mercato e di conseguenza la


proprietà dell’impresa (azionisti) è molto instabile ed orientata al reddito a breve. Conseguentemente, il
management (pur di essere riconfermato) persegue obiettivi di breve periodo rinunciando agli investimenti
di lungo respiro che invece sarebbeo necessari all’innovazione.
Nelle economie coordinate i finanziamenti sono reperiti nel sistema bancario e la proprietà dell’impresa è
più stabile nel tempo. Ciò consente al management di operare con investimenti di lungo periodo, a tutto
vantaggio dei processi innovativi e della competitività.

 formazione professionale: nelle economie non coordinate il lavoro è regolato dal mercato e
comporta una elevata mobilità che scoraggia gli investimenti dell’impresa nella formazione dei dipendenti.
Di contro, impegna ingenti risorse per il maggior costo del lavoro del personale già specializzato,
rinunciando così agli investimenti di risorse per l’innovazione.
Nell’economia coordinata, parte dei costi della formazione professionale sono sostenuti dallo stato, inoltre
i rapporti di lavoro più stabili assicurano una disponibilità più stabile di forza lavoro su cui investire in
formazione senza rischi, il che è funzionale all’innovazione.

 relazioni industriali: nelle economie non coordinate i bassi vincoli normativi comportano elevata
mobilità del personale e bassa qualificazione, a svantaggio dell’innovazione. Nelle economie coordinate i
vincoli più rigidi del mercato del lavoro incentivano le imprese ad investire in formazione per valorizzare le
risorse umane disponibili e di cui comunque non potrebbero liberarsi facilmente.
Nonostante queste diversità, alla fine degli anni ’90 le economie NON coordinate presentavano livelli di
occupazione, competitività e crescita economica superiori a quelli delle economie coordinate. Tali successi
sono ascrivibili ai più bassi livelli di disoccupazione, maggiore specializzazione dei settori produttivi (settori
dell’alta tecnologia - industria aerospaziale, informatica e telecomunicazioni, biotecnologie – e settore dei
servizi al consumatore). Questa realtà, da un lato evidenzia la differenza di risultato se misurata nel lungo
periodo, dall’altra dimostra che competitività e sviluppo possono coesistere (sono compatibili) con elevati
livelli di disuguaglianza sociale (la maggiore occupazione è proporzionale alla diminuzione dei salari reali e
delle protezioni sociali).

IL DIBATTITO ATTUALE

Il comportamento dinamico tra economie coordinate e non coordinate ha evidenziato (oltre alla differenza
di risultati nel tempo) che tra questi due estremi si vanno affermando numerosi altri modelli intermedi che
non troverebbero spiegazione esaustiva né nell’economia coordinata né in quella non coordinata e che in
sintesi sono ascrivibili a:

 differenti gradi di intervento economico delle istituzioni (dirigismo, stato che compensa, stato non
interventista, stato che concerta);

 diversificazione dell’intervento, a livello locale/regionale, seppur all’interno di un sistema istituzionale


nazionale prevalente (distretto industriale toscano / veneto);

 composizione variabile di una ampia gamma di modalità operative con cui le aziende possono puntare
al successo competitivo (non esiste un modo “unico” di competere ma mix: organizzazione “modulare”
della produzione, impiego di macchinari multiuso nell’ottica della diversificazione produttiva,
multinazionalità, ecc.).

CONCLUSIONI

Mentre i mercati si muovono nel senso della “globalizzazione”, le economie e le istituzioni sembrano
muoversi verso la “diversificazione” dei modelli, in funzione delle specificità storiche e culturali delle singole
territorialità. Più che ragionare in termini di superiorità di un modello su un altro occorre dunque
guardare alla possibilità di equilibri multipli con punti di forza e di debolezza diversi.

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