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Il fallimento della riforma delle province in Sicilia

Introduzione
Per quanto riguarda il processo di riforma istituzionale che ha riguardato gli enti intermedi
(comuni, province, regioni, ma anche organizzazioni del Terzo Settore o partiti politici), la Regione
Siciliana ha seguito un percorso singolare, ben più complesso rispetto a quello avvenuto nelle
altre regioni a statuto speciale e rispetto al processo di riforma nazionale che ha portato
all’approvazione della legge n.56 del 2014 (la quale ha dettato un’ampia riforma in materia di enti
locali, prevedendo l’istituzione, la disciplina delle città metropolitane e la ridefinizione del sistema
delle province). La riforma siciliana è stata avviata precocemente, già nel 2012, passando
attraverso numerose proposte, dibattiti e leggi regionali. Nel 2015, sebbene si pensava, per via
della legge regionale 15\2015, di essere giunti all’approdo finale, molte cose sono state rimesse in
discussione. Dopo un lungo confronto con il governo nazionale, infatti, nel 2016 la regione ha
accettato di accogliere completamente la riforma nazionale, rinunciando così ad una riforma
originale. Da ciò si evince la rilevanza della cornice istituzionale entro cui si dispiega tale processo,
chiamando però in causa la controversa attuazione della speciale autonomia siciliana e il suo
rapporto problematico con lo stato. Data la presenza di un sistema partitico frammentato e
instabile anche nel corso della seconda repubblica, infatti, l’autonomia siciliana è stata gestita in
modi distorti e parziali: la Regione Siciliana ha in particolare rinunciato progressivamente a
delineare progetti di autogoverno in grado di riflettere la specificità e gli interessi della comunità,
rinunciando così ad assumersi la responsabilità politica dell’autonomia; al contrario sono state
sempre più di frequente promosse politiche distributive indirizzate a creare e riprodurre il
consenso. In un tale contesto la riforma degli enti intermedi diviene rilevante per due ragioni:
- è in controtendenza rispetto alla scarsa vocazione riformatrice delle politiche regionali;
- per via delle previsioni statutarie che connotavano il decision making, in quanto ciò
implicava la soppressione delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione dei liberi consorzi di
comuni dotati di più ampia autonomia.
L’analisi del policy failure viene mossa a partire dalle politiche istituzionali (politiche che mirano a
modificare l’assetto istituzionale). Esse infatti in primo luogo appaiono più propense a essere
orientate attraverso paradigmi o giudizi di valore. In secondo luogo è utile considerare il nesso tra
policy makers e policy takers, che tendenzialmente coincidono per la loro autoreferenzialità.
Nello specifico ambito esaminato però questa coincidenza tra policy makers e policy takers non si
riscontra, sebbene sussista comunque una forte inter-indipendenza dovuta alle diverse
conseguenze delle decisioni di policy riguardo la produzione e riproduzione del consenso.
Partendo da tali presupposti il decision-making è stato interpretato a partire dall’evoluzione della
tematizzazione della riforma. Fra le molteplici lenti teorico-interpretative del policy process, il
Multiple Stream Framework (MSF) si è rivelato un’utile cornice: l’elemento chiave del MSF è la
mancanza di una correlazione tra problemi e soluzioni nello sviluppo delle policies, e trova
riscontro nelle caratteristiche tipiche del sistema politico siciliano. Se il presupposto del MSF si
basa sull’incertezza riguardante la comprensione dei problemi (problem stream) e le relative
possibili soluzioni (policy stream), sulla scarsa chiarezza delle preferenze di policy da parte dei
partiti e quindi sulla scarsa coesione e coerenza interna, il caso siciliano risulta un esempio
emblematico. Nel decision-making della riforma siciliana tali tratti distintivi ambigui spiegano il
come e il perché del policy failure. Oltre ciò, deve essere tenuta in considerazione anche la
prospettiva dell’istituzionalismo storico e del path-dependence, che ha avuto effetti sui valori,
sulle preferenze e sulle percezioni. Dunque la prospettiva di fluidità e instabilità delineata dal MSF
può essere integrata dalla prospettiva analitica del path-dependence, evitando così che non
avvenga una carenza di causalità storica. Il clientelismo di massa che ha permeato sin dagli esordi
della storia repubblicana il sistema politico siciliano ha infatti progressivamente indebolito e
frantumato le organizzazioni partitiche, innescando tendenze individualiste tra i boss in
competizione per il controllo delle risorse. Ciò avrà un ruolo rilevante nel fallimento della riforma.
Dal punto di vista metodologico la ricostruzione e l’analisi del processo decisionale è stata
effettuata attraverso fonti documentali dell’Assemblea Regionale Siciliana, del governo regionale e
nazionale, della Corte dei conti e dei sindacati confederali, la consultazione della rassegna stampa
locale e lo svolgimento di interviste semistrutturate.
Il paradigma dominante nel processo di riforma delle province
In Italia la crisi economica e le politiche promosse per farvi fronte hanno fortemente condizionato
gli equilibri dei livelli sub-statali di governo. In un tale contesto ha preso avvio un processo
riformatore che ha riguardato in primo luogo le province, capro espiatorio da parte del livello
europeo e da quello nazionale, che hanno individuato nell’ente provinciale una delle fonti di
spreco da eliminare. Ciò ha presieduto all’avvio del processo riformatore, tanto a livello nazionale
quanto a livello regionale siciliano:
1. in particolare a livello nazionale è con il decreto “Salva Italia” del 2011 che si definisce il
quadro degli obiettivi minimi da raggiungere, attribuendo alle province esclusivamente
funzioni di indirizzo e coordinamento;
2. nel 2012 viene approvata la legge regionale 14 che fissa anche una prima scadenza per il
riordino degli organi di governo.
L’obiettivo del risparmio di spesa introduce un’ulteriore specificazione del problema di policy: in
Italia il problema della spesa pubblica è sempre stato associato con quello dei costi della politica,
e dunque si tende ad associare l’inefficacia e l’inefficienza di molti ambiti del settore pubblico ai
principi di democrazia rappresentativa. In secondo luogo l’ambiguità di tale associazione si è
riflessa sulla scelta di attori politici che non hanno perseguito l’obiettivo di riduzione dei costi della
politica, integrandoli in più generali disegni di riduzione della spesa pubblica. Anzi, una parte
significativa degli attori politici siciliani è giunta all'apparente paradosso di perseguire
l'abrogazione della legittimazione elettorale diretta e la drastica riduzione dei costi degli organi
politico-rappresentativi insieme al mantenimento delle funzioni e del numero di enti.
La via statutaria della riforma siciliana: le leggi regionali 7\2013 e 8\2014
Il primo punto di svolta nel processo di riforma siciliano si verifica nella fase immediatamente
successiva alle elezioni regionali dell’ottobre 2012. Il presidente eletto Rosario Crocetta e la
coalizione di centrosinistra che lo sostiene mancano l’obiettivo della maggioranza parlamentare e
tutti i partiti registrano un arretramento delle percentuali di voto a favore dell’exploit del
Movimento 5 stelle. Questo quadro di instabilità è stato affrontato dal presidente mediante
l’avvio di una collaborazione con il governo regionale e il M5s in merito ai provvedimenti. Agli inizi
del 2013, con la legge 7 il presidente della regione propone e ottiene l’abolizione delle province
regionali e l’istituzione di liberi consorzi di comuni e delle città metropolitane quali enti che
esercitano le funzioni di governo di area vasta, i cui organi devono essere eletti con sistema
indiretto di secondo grado. I liberi consorzi di comuni sono gli enti intermedi dotati della più
ampia autonomia amministrativa e finanziaria, previsti dallo Statuto della Regione Siciliana e che
mai hanno trovato attuazione nel corso della storia istituzionale siciliana. Per questa via, attraverso
i consorzi, i comuni avrebbero potuto rappresentare un autorevole interlocutore nei confronti di
una regione che avrebbe teso all’accentramento. Questa declinazione dell’autonomia locale
serviva per ottenere significativi risparmi di spesa: l’idea di dare libertà ai comuni e metterli nelle
condizioni di potersi organizzare equivaleva a mettere i cittadini in primo piano ed eliminare allo
stesso tempo un costoso organo politico. Tuttavia la soluzione adottata prescinde da una chiara
definizione dei problemi, in quanto restano da affrontare i nodi più rilevanti della riforma: dalle
funzioni alle risorse, dal sistema di governo alla regolazione territoriale e alla collocazione del
personale. Dopo l’approvazione della legge 7 prende avvio una fase in cui l’imprenditore di policy
prova in primo luogo a razionalizzare il tutto mediante il coinvolgimento di esperti quali
economisti, giuristi, politologi e geografi, i quali sono chiamati a definire tali problemi. Tuttavia le
proposte avanzate dagli esperti si rivelano del tutto eterogenee e inconciliabili. La proposta
avanzata dal governo per dar seguito alla legge 7 si basa su tre caposaldi:
1. circoscrivere i confini delle città metropolitane ad aree più ristrette rispetto a quelle delle
province, per definire una certa continuità urbana;
2. promuovere il principio di autodeterminazione dei comuni «di confine» e consentire
l'istituzione di nuovi liberi consorzi;
3. attribuire ai sindaci un ruolo centrale nei sistemi di governo prescindendo dalla consistenza
demografica dei comuni.
Raggiungendo tutti e tre gli obbiettivi il governo nel marzo 2014 ottiene l’approvazione della legge
8, che prevede che le assemblee rappresentative dei liberi consorzi e delle città metropolitane,
con poteri di indirizzo politico e di controllo, siano composte da tutti i sindaci dei comuni dell’ente
e che i presidenti dei liberi consorzi siano eletti tra i sindaci da sindaci e consiglieri comunali con
un sistema maggioritario a doppio turno chiuso (ballottaggio). Quanto alla regolazione
territoriale, la delimitazione delle città metropolitane viene notevolmente ridotta rispetto ai
territori delle province di Palermo, Messina e Catania, così che oltre alle città metropolitane di
aggiungono dieci liberi consorzi corrispondenti alle sei ex province regionali, e il numero di enti
siciliani intermedi passa da 9 a 13.
La riforma nazionale e il primo impatto sul policy design regionale
Qualche giorno dopo la pubblicazione della legge regionale 8/2014 giunge a compimento il
processo di riforma nazionale mediante l’emanazione della legge Delrio, la quale introduce
profonde modifiche al sistema delle autonomie locali e alle relazioni intergovernative,
ridimensionando il ruolo delle province, regolando quello delle città metropolitane e riorientando
verso nuove funzioni istituzioni già esistenti. Tale riforma, essendo economica e sociale, pone un
vincolo a processo di riforma siciliano, prevedendo che le regioni a statuto speciale adeguino i
propri ordinamenti ai principi della legge. L’assetto previsto dalla Delrio risulta infatti
profondamente diverso dalla legge regionale 8/2014. Complessivamente infatti manca nella legge
nazionale la centralità che la riforma siciliana attribuisce ai sindaci quali rappresentanti unitari
delle comunità aderenti all’ente territoriale di area vasta, senza riguardo per i diversi livelli di
rappresentatività degli elettori. Quanto alle città metropolitane, la Delrio opta per una soluzione
territoriale conservativa, facendone coincidere l'estensione con quella delle dieci ex province
nelle quali sono istituite. Inoltre, a differenza della previsione siciliana, la carica apicale di sindaco
metropolitano non è elettiva, ma affidata al sindaco del capoluogo della città metropolitana.
Come per le province, il consiglio metropolitano è l'organo di indirizzo e di controllo ed è eletto da
sindaci e consiglieri comunali della città metropolitana fra candidati sindaci e consiglieri comunali
mediante un sistema elettorale proporzionale con voto ponderato e possibilità di esprimere una
preferenza. La conferenza metropolitana, strutturalmente equivalente alla assemblea provinciale
dei sindaci, è invece l'organo che ha poteri decisionali sullo statuto. Con questo impianto
riformatore deve dunque confrontarsi il processo di riforma siciliano. Da un lato, il presidente della
regione mira a preservare l'assetto già delineato, dall'altro indirizza l’attività dell'assessorato alle
autonomie locali verso un ridimensionamento delle competenze dei nuovi enti. Il disegno di legge
che ne scaturisce prevede che ai liberi consorzi spettino funzioni inerenti alla organizzazione ed
alla gestione del territorio ed allo sviluppo economico articolate secondo un dettagliato elenco di
attività proprie. Rispetto all’assetto funzionale delle ex province e delle nuove province delineate
dalla Delrio, si prevede di sottrarre ai liberi consorzi alcune competenze di rilievo, attribuendole ai
comuni, alla regione e al genio civile.
Squilibri strutturali e logiche politiche: il dissolvimento del paradigma riformatore
Parallelamente a quanto emanato a livello regionale siciliano e a livello nazionale, gli elementi
problematici relativi alle risorse e alle prospettive del personale delle province siciliane assumono
un rilievo crescente. D’altro canto sul versante politico si diffonde tra molti deputati regionali la
percezione dei rischi derivanti dalla nuova delimitazione territoriale degli enti, per il riflesso sulle
reti di produzione e riproduzione del consenso, mentre il governo nazionale lascia trapelare il suo
disaccordo circa l’incremento del numero di enti per via della possibile crescita del fabbisogno
economico. Oltre a ciò, viene constatata la difficoltà di redistribuire rapidamente le funzioni delle
ex province alla regione e ai comuni, in considerazione dell’aumento dei lavoratori precari negli
enti locali siciliani. Dunque viene modificato il ddl governativo: come nella riforma nazionale
l’estensione delle città metropolitane dei liberi consorzi viene fatta coincidere con quella delle ex
province, ottenendo il ritorno a nove enti; ai liberi consorzi torna la gestione, manutenzione e
bonifica della rete stradale intercomunale; è introdotto il voto ponderato e il doppio turno con
ballottaggio per l’elezione delle cariche monocratiche. L’innovazione comporta la netta
opposizione del M5S, sancendo l’avvio di una nuova fase del policy-making istituzionale, sempre
meno ispirato all’originalità del precedente disegno statutario e sempre più permeato da una
logica basata sul nesso tra policy makers e policy takers, e quindi indirizzata alla produzione e
riproduzione del consenso del ceto politico regionale. Nel 2015 dunque la centralità funzionale
attribuita ai nuovi enti territoriali di area vasta si accompagna, incoerentemente, al contenimento
del ruolo dei comuni più grandi, dei capoluoghi e delle città metropolitane, prefigurando la
costruzione di organi monocratici dotati di scarsa legittimazione politica. La legge regionale
15/2015 che finalmente disciplina anche in Sicilia ordinamento, funzioni, personale e assetto
territoriale dei nuovi enti di area vasta non è che lo sbocco inerziale di un incerto processo
incrementale ormai privo di policy entrepreneurship e prevalentemente orientato a garantire alla
classe politica regionale il controllo delle risorse necessarie a riprodurre la propria centralità, sia
pur frammentata e indebolita da vincoli di bilancio sempre più stringenti.
L’impugnazione della legge regionale 15\2015 e il successo della strategia centralizzatrice del
governo nazionale

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