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Speranza deve impugnare la legge Fontana-

Moratti
Angelo Barbato, Vittorio Agnoletto
20 Gennaio 2022 | Sezione: Apertura, Società
Dopo decenni di privatizzazione della sanità in Lombardia la giunta Fontana ora ha fatto
passare una legge regionale che non rispetta le prescrizioni del governo sulla
programmazione e apre ai privati anche la sanità territoriale. Raccogliamo le firme
perché il ministro la blocchi, invertendo il paradigma per tutti.

Entro il 13 febbraio di quest’anno il ministero della Salute e il governo dovranno decidere se dare il
via libera alla nuova legge sulla sanità della Lombardia o bloccarla e rinviarla alla Corte
Costituzionale.
Il coordinamento regionale per il diritto alla salute – Campagna Dico 32! ha inviato lo scorso 27
dicembre una lettera al ministro Roberto Speranza sollecitando un suo intervento affinché la legge
venga fermata e ha attivato una raccolta di firme online per supportare questa richiesta. (qui per
aderire alla petizione)
Le motivazioni sono lunghe e dettagliate, servono per spiegare come siamo arrivati a questo punto.
La revisione della legge sanitaria della Regione Lombardia, iniziata nel 2015, è ancora aperta,
nonostante l’approvazione nel dicembre scorso da parte del Consiglio Regionale della legge
22/2021 “Modifiche al Titolo I e al Titolo VI della legge regionale 30 dicembre 2009 n. 33 (Testo
unico delle leggi regionali in materia di sanità)”, che secondo le intenzioni del governo di
centrodestra della Regione avrebbe dovuto chiudere la questione. 
È noto che il profondo ripensamento sulla sanità in Lombardia, che l’ha portata ad allontanarsi dai
principi sanciti nel 1978 con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, trae origine dalla legge
approvata nel 1997 dalla giunta guidata da Formigoni. I contenuti di fondo erano la separazione tra
la funzione di acquisto dei servizi sanitari e la funzione di erogazione degli stessi, la competizione
tra erogatori pubblici e privati su un piano di parità, la possibilità per tutti gli erogatori di
accreditarsi soddisfacendo i requisiti richiesti, la libertà di scelta del cittadino che si rivolge
all’erogatore preferito. I presidi ospedalieri furono scorporati dalle Aziende Sanitarie Locali, che
agivano come ufficiali pagatori delle prestazioni fornite dagli ospedali pubblici e privati. 
La riforma di Formigoni era nata con una spinta fortemente ideologica basata sull’antistatalismo
dell’area cattolica che faceva capo a Comunione e Liberazione, profondamente ostile all’intervento
pubblico nelle politiche e sociali e sostenitrice della sussidiarietà orizzontale da parte della società
civile, integrato dalla concezione neoliberista che considerava il mercato capace di autoregolarsi e
proponeva l’inserimento anche nei servizi pubblici di logiche manageriali privatistiche.
Col passare degli anni le stesse forze politiche del centrodestra lombardo rilevarono alcuni aspetti
critici del modello, pur ribadendone la validità nei principi fondatori, e li evidenziarono nel Libro
Bianco sullo sviluppo del sistema sanitario in Lombardia, pubblicato nel 2014. Si trattava
dell’inadeguatezza del finanziamento basato su un sistema a prestazione efficace per i pazienti acuti
ma inadeguato per i pazienti cronici, dei requisiti di accreditamento carenti riguardo a criteri di
economicità e tempestiva risposta ai bisogni, di una insufficiente funzione di controllo
dell’appropriatezza dei percorsi di assistenza, delle definizioni dei budget delle ASL troppo ancorate
alla spesa storica. Veniva quindi suggerito un riordino del sistema.
Queste considerazioni sollevarono aspettative di una revisione del modello, dovute anche alla
convinzione di un orientamento più pragmatico della Lega rispetto al rigido ideologismo
formigoniano. Ricordiamo che la Lega con Maroni aveva preso la guida della Regione Lombardia,
mentre nel 1997, quando la riforma sanitaria era stata elaborata, era all’opposizione.
Il frutto di queste riflessioni fu la legge 23 del 2015 “Evoluzione del sistema sociosanitario
lombardo”. La lettura del testo mise rapidamente fine alle ipotesi ottimistiche suscitate dal Libro
Bianco, nonostante alcune affermazioni di principio in esso contenute, come l’obiettivo di passare
“dalla cura al prendersi cura”, che ambiva a superare la logica degli interventi frammentari centrati
sull’urgenza, definendo percorsi di accompagnamento delle persone fragili nel quadro di un’azione
di regia per rispondere ai bisogni delle persone, e la promozione di un’integrazione tra strutture
territoriali e ospedaliere, affidate alla gestione di un’unica agenzia. 
L’aspetto più rilevante della legge è stato l’istituzione di due soggetti, le Agenzie di Tutela della
Salute (ATS) e le Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST), dotati di autonomia gestionale,
amministrativa e operativa, derivanti dalle ASL e dalle Aziende Ospedaliere. Questa scelta in realtà
estremizzava i principi di base del modello, la libera scelta, la parità pubblico-privato, la
concorrenza tra erogatori, attraverso un’ancora più netta separazione tra le funzioni di
programmazione, accreditamento, acquisto e controllo attribuite alle ATS e quelle di erogazione dei
livelli essenziali di assistenza attribuite alle ASST, che però agiscono in parallelo e in competizione
con i privati accreditati. La Programmazione era ridotta ad Accreditamento e Contrattazione, basate
sui meccanismi di mercato (libera scelta, concorrenza) senza quadri complessivi dei bisogni della
popolazione in rapporto a evidenze epidemiologiche, né obiettivi di salute 
L’articolazione in due settori delle ASST, cioè la rete territoriale e polo ospedaliero, lungi dal
favorire processi di integrazione, senza la concreta possibilità di fare rete con le strutture territoriali,
in assenza di risorse dedicate al potenziamento organizzativo necessario appariva destinata a
perpetuare la subalternità della sanità territoriale a quella ospedaliera.
Questa volta, a differenza del 1997, l’evidenza di un’accentuata incongruità della legge 23 rispetto
alla normativa nazionale, sollevò obiezioni da parte dei ministeri della Salute, della Giustizia e
dell’Economia, col rischio di un ricorso alla Corte Costituzionale. Il governo Renzi tuttavia scelse
una soluzione di compromesso in base alla quale la Regione Lombardia accettò di promulgare alla
fine del 2015 la legge 41, che modificava l’originale art.1 della legge 23, oltre a recepire punti
d’importanza minore, specificando che l’articolazione in ATS e ASST del Servizio Sanitario e
Sociosanitario regionale avveniva in via sperimentale per un periodo di 5 anni. Al termine del
quinquennio, Regione e ministero della Salute avrebbero valutato i risultati della sperimentazione. Il
4.4.2016 il Protocollo d’Intesa tra ministero e Regione per la verifica della legge veniva firmato
dalla ministra Lorenzin e dal presidente Maroni.
Ora, alla fine dei cinque anni trascorsi alla fine del 2020, come può essere considerato il bilancio
della legge 23? Senza timore di esagerare possiamo dire che la sua applicazione pratica ha messo in
luce aspetti ancora più problematici rispetto a quanto era emerso da un esame preliminare,
determinando un quadro disastroso i cui effetti si sono concretizzati in modo clamoroso in
Lombardia nella gestione fallimentare delle prime fasi della pandemia.
L’articolazione in ATS e ASST, oggetto primario della verifica della sperimentazione quinquennale,
ha incontrato difficoltà organizzative, strutturali, finanziarie. L’esito ha peggiorato la qualità del
Servizio e ha prodotto disgregazione e frammentazione dei servizi. L’offerta affidata al mercato ha
progressivamente tolto risorse alla Sanità pubblica, convogliandole verso la Sanità privata
accreditata. Questo approccio, da tempo perseguito, ha ulteriormente aumentato il suo peso, per lo
squilibrio derivante dai vincoli normativi e di bilancio a carico della Sanità pubblica, rendendo
evidente il fallimento di un sistema basato sulla parcellizzazione della risposta ai bisogni, in assenza
di una visione strategica nella programmazione e nella catena di comando, senza una logica di
sistema integrato e di comunità. La legge 23 ha attuato un processo di marginalizzazione della
componente territoriale dei servizi Sanitari, in cui il ruolo dei Distretti di enormi dimensioni è stato
svuotato, mentre contemporaneamente è mancata la funzione di programmazione ospedaliera. La
funzione delle ATS ha infatti ulteriormente liberalizzato il rapporto giuridico con strutture private
per mezzo del depotenziamento della Programmazione pubblica regionale e locale, sostituita in
sostanza dalla Contrattazione annuale della fornitura, limitata da tetti di spesa annuali e non
sostenuta da valutazioni epidemiologiche dei bisogni di salute. Previsto già dal 2009, e ribadito
nell’art. 4 della nuova legge sperimentale, l’ultimo Piano Socio-Sanitario integrato è stato
presentato la prima volta nel 2019 e subito ritirato, travolto dalla pandemia. Il ritardo della
presentazione è un segnale di come la programmazione sia stata di facciata. Le ATS non sembrano
obbligate a redigere una programmazione complessiva comprendente i loro servizi.
La carenza informativa dello stato di salute della popolazione non è stata colmata dall’Osservatorio
Epidemiologico già istituito dalla L.31/1997 e richiamato da provvedimenti successivi. Compiti e
attività dell’Osservatorio trovano pochi riscontri in pubblicazioni regionali. Solo una pubblicazione
sui ricoveri è stata presentata, come rapporto di produzione dei DRG, senza alcuna descrizione della
crescita o diminuzione delle varie patologie. L’Agenzia di Controllo che avrebbe dovuto garantire la
trasparenza e la completezza informativa è stata lasciata con pochi mezzi. 
La legge definisce il Servizio Sanitario come erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi,
cura e riabilitazione, mentre funzioni strategiche come analisi e governo della domanda sanitaria,
più volte enunciate, non sono mai state implementate, nonostante siano ancora inserite nella
proposta di Piano Socio-Sanitario Integrato 2019-2023, peraltro mai approvato.
Le ATS, che avrebbero dovuto svolgere funzioni di programmazione, contrattazione, acquisto e
controllo dei servizi, di fatto non hanno mai avuto alcuna autonomia, perché i contratti sono
standard e fissati annualmente dalla Regione con le delibere sulle regole, per cui le ATS non
possono negoziare tariffe, tipologia, qualità e quantità delle prestazioni con gli erogatori. Sono
semplicemente agenzie di pagamento decentrate della Regione e la maggior parte di esse deve
gestire aree così vaste da rendere impossibile qualsiasi funzione di verifica dei servizi, di
programmazione territoriale e di interazione con gli enti locali. Basti ricordare che è stata istituita
una sola ATS che copre la città metropolitana milanese e la provincia di Lodi, con oltre 3,4 milioni
di abitanti. Alle ASST, non sono stati formalmente assegnati bacini d’utenza in omaggio al principio
della libera scelta e della competizione tra erogatori, che deve prevalere anche per i servizi pubblici.
Di conseguenza, gli ambiti delle reti territoriali gestite dalle ASST sono mal definiti. Alcuni esempi
eloquenti: tre ASST che operano nel Comune di Milano hanno logiche competitive senza chiare
responsabilità territoriale. L’ASST Gaetano Pini di Milano non ha alcuna rete territoriale ed è di
fatto un ospedale monospecialistico. L’ASST Nord Milano, che comprende le zone di Sesto San
Giovanni e Cinisello Balsamo gestisce tutti i poliambulatori specialistici della città di Milano, senza
che vi sia uno strutturato collegamento con i presidi ospedalieri. 
Una volta esaminati i problemi derivanti dall’assetto istituzionale disegnato dalla nuova legge,
approfondiamone gli effetti su tre settori chiave: la prevenzione, le cure primarie e i servizi
territoriali, l’assistenza ospedaliera.
I Dipartimenti di Prevenzione e Sanità pubblica sono stati inseriti nell’ATS, che non è una struttura
operativa ma deputata al governo e al controllo, restando quindi privi di rapporti con la medicina
territoriale e sono stati drasticamente ridimensionati. Il depotenziamento ha investito
l’organizzazione, i livelli di autonomia, i finanziamenti e la dotazione di risorse umane e
tecnologiche. I Dipartimenti sono stati ridotti da 15 a 8 e i Presidi Multizonali d’Igiene e
Prevenzione da 15 a 3. L’intero territorio della Città Metropolitana milanese è oggi dotato di un solo
Dipartimento e un solo Presidio. Il personale assegnato alla Prevenzione e alla Sanità pubblica è
continuamente diminuito e oggi risulta a livello regionale dimezzato negli ultimi 15 anni da 5000 a
2500 unità. La percentuale del finanziamento regionale dei Livelli Essenziali di Assistenza dedicata
alla prevenzione negli ambienti di vita e lavoro è scesa nel 2018 al 2,8%, ben al disotto del 5%
risultante dalle indicazioni nazionali.
Il Settore delle Cure Primarie, inserito nell’ATS e trasferito poi all’ASST, ha subito gli effetti di
un’impostazione confusa e contraddittoria che di fatto ne negava la centralità. È stato istituito un
solo Distretto in ognuna delle 27 ASST con lo stesso ambito territoriale (in media uno ogni 370.000
abitanti), mentre il D.L. 229/99 indicava in 60.000 abitanti il bacino d’utenza ottimale.
I MMG sono convenzionati e remunerati dall’ATS, ma dovrebbero operare ed essere coordinati
all’interno della rete territoriale dell’ASST. Non sono state attuate le indicazioni della Legge
Balduzzi del 2011, che prevedeva la riconversione della medicina di base da un modello basato sul
singolo professionista a uno associativo fondato su Aggregazioni Funzionali Territoriali e Unità
Complesse di Cure Primarie. In Lombardia, le Aggregazioni Funzionali Territoriali e le Unità
Complesse Cure Primarie non hanno avuto sviluppo, poiché questa mutazione è stata ostacolata da
un nuovo modello di aggregazione imprenditoriale e cooperativo centrato sui Gestori. Nel 2018 solo
il 40% dei MMG in Lombardia lavorava in gruppo, mentre in Emilia-Romagna erano oltre il 70%,
in Toscana il 65%, in Veneto oltre il 60%, nel Lazio quasi il 60%.
Lo scollamento tra ATS e ASST, evidenziato nel periodo dell’epidemia specie coi malati più fragili
per svantaggio socio-economico, isolamento e difficoltà psicologiche, ha lasciato i MMG senza
governo da parte delle ATS, per estensione eccessiva del territorio di competenza, senza
coordinamento da parte delle ASST completamente dedicate alla gestione degli ospedali presto
travolti dalla pandemia, senza appoggi su strutture integrate e degenze di comunità per sostenere i
Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali. La grave carenza dell’assistenza territoriale, dovuta a
fattori strutturali e non solamente a cattiva gestione, è dimostrata dalla distribuzione dei pazienti
Covid assistiti in Lombardia nella prima fase della pandemia, a confronto col Veneto e l’Emilia
Romagna. Risalta la bassa percentuale di casi assistiti a domicilio e il conseguente sovraccarico
degli ospedali. Questi dati contribuiscono a spiegare l’alto livello di contagi per Covid e l’elevata
mortalità riscontrata in Lombardia.
Tabella 1 qui
La Legge 23 aveva un nucleo potenzialmente innovatore nella procedura di Presa in carico dei
Cronici, in applicazione del Piano della Cronicità definito a livello nazionale. Tuttavia, il modello è
stato centrato su gestori pubblici o privati a cui erano affidati i pazienti cronici sottratti in parte alla
medicina di base. Il confronto tra gli obiettivi dichiarati e i risultati concreti per i 3,4 milioni di
malati cronici in regione, ha presentato un bilancio negativo; molte associazioni impegnate nella
tutela del diritto alla salute si sono mobilitate per contrastare questi provvedimenti ed il risultato è
stato che solo il 10% di cittadini invitati ad aderire hanno scelto di seguire il percorso indicato dalla
Regione. Gli indicatori di risultato sono stati cambiati e ridefiniti, senza dare luogo a report
pubblici, né a relazioni semestrali previste dal Protocollo di verifica. Pertanto, alla fine, il risultato
organizzativo principale del nuovo assetto è stato l’esternalizzazione parziale della Medicina di
Base, in evidente contrapposizione all’assetto delle Cure Primarie esistenti in tutto il resto del paese.
La disarticolazione organizzativa è stata istituzionalizzata e completata con la creazione della figura
giuridica del Gestore, che ha dato la possibilità a diversi soggetti erogatori di prestazioni sanitarie o
sociosanitarie accreditati e a contratto con il Servizio sanitario regionale, nonchè a cooperative
formate da medici di medicina generale, di candidarsi a ricoprire questo ruolo. L’accreditamento
senza limiti e controlli, con la contemporanea assegnazione di funzioni proprie dell’Ente pubblico a
Enti di diritto privato ha declassato e ridotto a mera attività burocratica la programmazione dei
servizi, senza alcuna correlazione con una Programmazione dell’offerta, in rapporto alla domanda
rilevata. I Gestori dei cronici hanno eroso e minacciato la medicina di base, costituendo un circuito
privatistico parallelo ad essa. In questo processo è emersa una delle maggiori differenze tra le
normative nazionali e quelle scelte dalla Regione Lombardia. 
L’insufficienza di risposte ai bisogni sociosanitari da parte di servizi territoriali impoveriti e
disorganizzati è esemplificata da quanto si è verificato in tre settori delicati: l’assistenza agli
anziani, i consultori familiari e i servizi per la salute mentale. Nel primo caso in Lombardia la
percentuale di anziani oltre i 65 anni in Assistenza Domiciliare Integrata è stata nel 2018 del 2,45%,
rispetto a una media italiana del 2,81 e a valori nelle regioni del Centro-Nord tra 2,79 e 3,55. Solo
cinque regioni in Italia hanno registrato un tasso inferiore. Ciò è in contrasto col numero molto alto
di posti in RSA, quasi tutte private, che nel 2018 erano 288,5 per 10.000 anziani, rispetto a una
media italiana di 180,3. Solo in Piemonte e Trentino-Alto Adige si sono registrati valori più alti. Ha
prevalso quindi un modello istituzionale di assistenza, i cui effetti sugli anziani sono emersi durante
la pandemia. A ciò si aggiunga che la copertura per la vaccinazione antinfluenzale negli anziani è
stata nel 2018 del 48%, per cui la Lombardia è nel gruppo di regioni col tasso più basso. Va notato
che questo indicatore è peggiorato negli ultimi 10 anni: nel 2008 era del 60%. 
Quanto ai consultori, in Lombardia ce ne sono 251, di cui 151 pubblici e 100 privati, uno ogni
40.000 abitanti, cioè metà di quanto indicato dalla legge 34/96, che ne prevedeva uno ogni 20.000.
Di conseguenza gli utenti dei consultori nel 2018 sono stati circa metà della media nazionale, cioè
2,6 su 100 residenti rispetto a 5. Stessa situazione di riduzione dell’offerta si è verificata per i
servizi psichiatrici territoriali: i Centri di Salute Mentale erano 104 nel 2005 e sono oggi 78, per
effetto di chiusure, accorpamenti o collocazioni all’interno degli ospedali.
Riguardo al settore ospedaliero, gli accorpamenti che hanno dato vita alle ASST hanno generato
situazioni critiche, affidando ad alcune più presidi ospedalieri, spesso distanti e non integrati tra
loro. La centralizzazione della gestione dei servizi negli ospedali non è stata accompagnata da una
programmazione adeguata della rete ospedaliera, ma l’ha addirittura ostacolata. La riduzione
progressiva di letti per acuti ha determinato un tasso di posti inferiore alla soglia critica in 4
province (Como, Lodi, Monza Brianza, Mantova), col 20% della popolazione regionale. Inoltre,
questi dati sommano i posti letto pubblici coi privati accreditati, che sono in percentuali rilevanti in
varie ATS, fino al 32% nell’ATS della Città metropolitana di Milano. Mentre tutti i posti letto
pubblici sono in ospedali dotati di Dipartimenti di Emergenza e Pronto Soccorso, una quota
rilevante di quelli privati, che arriva fino al 60% a Brescia, si trova in ospedali che ne sono privi. I
posti letto per acuti, non supportati da servizi per l’emergenza/urgenza, hanno un’operatività
limitata e non forniscono risposte adeguate in situazioni critiche. Escludendo questi posti dal
computo totale, la disponibilità scende sotto la soglia accettabile in 5 province (Bergamo, Como,
Lodi, Monza Brianza, Mantova). Ciò solleva pesanti riserve sui criteri generosi adottati dalla
Regione per l’accreditamento degli ospedali privati.
Dall’avvio della legge si sono accentuate tendenze negative: la riduzione di posti letto a favore dei
privati, evidenziata nella tabella 2 e la riduzione dell’offerta di prestazioni ambulatoriali
specialistiche, evidenziata nella tabella 3.
Va rilevato che per l’attività ospedaliera la valorizzazione economica delle attività dei privati ha
assorbito nel 2017 il 40% dei finanziamenti regionali, a fronte di una percentuale di letti del 27%,
una chiara indicazione di come il settore privato attragga in modo privilegiato le attività più
remunerative secondo la tariffazione regionale, in assenza di qualunque programmazione. Vi è stata
inoltre una riduzione del personale soprattutto nel settore pubblico, con pensionamenti senza
sostituzioni e ricorso alle esternalizzazioni. Il confronto col Veneto e l’Emilia-Romagna mostra che
nel 2017 in Lombardia il numero di medici per 1.000 abitanti era 1,44 rispetto a 1,65 e 1,85 e il
numero di infermieri x 1.000 abitanti era rispettivamente di 3,81 per la Lombardia, 4,89 per il
Veneto e 5,61 per l’Emilia-Romagna. La riduzione ha colpito soprattutto il personale ospedaliero.
La sottrazione di risorse umane fa un effetto stridente se si confronta con l’abnorme incremento di
dotazioni tecnologiche, in larga misura dovuto a investimenti privati nel settore. La Tabella 4 mostra
la dotazione sproporzionata di apparecchiature per la TAC e la RM in Lombardia, a confronto coi
maggiori paesi europei.

Alcuni dati di attività ospedaliera, che sono indicatori indiretti di efficacia dell’assistenza
territoriale, testimoniano come sugli ospedali si siano riversati bisogni assistenziali connessi a
patologie che avrebbero dovuto essere trattate sul territorio. Infatti, il tasso di accessi al Pronto
Soccorso in Lombardia nel 2018 è stato di 368 per 1.000 residenti, contro 361 in Toscana, 359 in
Veneto, 350 in Friuli-Venezia Giulia, con punte particolarmente elevate in alcune province (Lodi
405). Il tasso di ospedalizzazione per patologie da curare principalmente sul territorio è stato in
Lombardia di 10,2 per 1000 residenti, contro 9,8 in Friuli-Venezia Giulia, 6,7 in Toscana, 3,4 in
Veneto. Due esempi significativi in questo senso sono l’alto tasso di ospedalizzazione in Lombardia
per broncopatie croniche ostruttive degli adulti (368 per 1.000) e di asma e gastroenterite dei
bambini (addirittura 233 per 1.000 residenti con meno di 18 anni), più del doppio che in Emilia
Romagna, quattro volte il Veneto e sette volte la Toscana.
La valutazione, curata dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, che il ministro ha
inviato alla Regione Lombardia nel dicembre 2020, al termine del periodo sperimentale della legge
23, non conteneva tutti i rilievi critici che abbiamo formulato e non sollevava obiezioni su alcuni
aspetti importanti, come la privatizzazione o l’introduzione dei gestori per i cronici. In un certo
senso potremmo dire che era abbastanza indulgente. Cionondimeno individuava alcuni aspetti
problematici che hanno portato il ministro a dare alla Regione alcune prescrizioni ritenute
indispensabili per una revisione della normativa e altre raccomandazioni suggerite ma non
indispensabili.
Le più importanti prescrizioni obbligatorie erano le seguenti:
1. Istituire i Dipartimenti di Prevenzione, come articolazioni delle ASST, con funzioni di
governo ed erogazione delle prestazioni per la tutela della salute della popolazione.
2. Istituire nell’ambito delle ASST i Distretti con funzioni di governo ed erogazione delle
prestazioni distrettuali, prevedendo un adeguato coinvolgimento dei sindaci.
3. Assegnare alle ASST l’attuazione degli atti di indirizzo, di pianificazione e di
programmazione regionali con le connesse attività di programmazione ed organizzazione dei
servizi a livello locale, sulla base della popolazione di riferimento.
4. Attribuire alla Regione la funzione di accreditamento istituzionale delle strutture pubbliche,
private e dei professionisti che lo richiedessero.
5. Assegnare alla Regione, tramite l’Agenzia di controllo, oppure all’ATS unica, funzioni di
vigilanza e controllo degli erogatori privati accreditati di valenza regionale o extraregionale
con cui ha stipulato gli Accordi Contrattuali e assegnare alle ASST la funzione di controllo
degli erogatori privati accreditati: ospedalieri, ambulatoriali e sociosanitari, con valenza
locale, con cui hanno stipulato gli Accordi Contrattuali.
Vi erano poi le indicazioni non strettamente necessarie, ma fortemente raccomandate:
1. Costituire un’ATS unica con funzioni tecnico amministrative specialistiche a livello centrale,
col compito di coordinare delle ASST e migliorare i processi tecnico amministrativi e di
organizzazione sanitaria nonché con l’incarico di supporto alla programmazione regionale.
2. Assegnare all’ATS unica, o in alternativa alla Regione, la negoziazione e la contrattazione
con gli erogatori privati di profilo regionale e extraregionale.
3. Assegnare all’ATS unica, o in alternativa alla Regione secondo, le attività di controllo sul
rispetto degli Accordi Contrattuali con gli erogatori privati accreditati di valenza regionale o
extraregionale, ferme restando le attività di controllo sul rispetto degli Accordi Contrattuali
con gli erogatori privati accreditati di valenza locale alle ASST.
4. Assegnare alla Regione, oppure all’ATS unica, la stipula degli Accordi Contrattuali con gli
erogatori privati accreditati per attività di ambito regionale o extraregionale, ed assegnare
alle ASST, previa valutazione del fabbisogno locale, l’incarico di stipula degli Accordi
Contrattuali con gli erogatori privati accreditati di prestazioni ospedaliere, ambulatoriali e
sociosanitarie per attività in ambito locale.
5. Ridefinire le dimensioni delle ASST al fine di renderle maggiormente funzionali
all’organizzazione dei servizi sanitari della popolazione di riferimento ed efficienti
nell’erogazione delle prestazioni ai cittadini.
Per rispondere a queste osservazioni la giunta regionale ha predisposto la suddetta legge 22/2021,
approvata dal Consiglio regionale dopo un duro confronto con le opposizioni che comunque non ha
apportato al provvedimento cambiamenti significativi.
È quindi di cruciale importanza verificare in che misura le indicazioni ministeriali sono state
accolte, cominciando dalle prescrizioni obbligatorie:
1. È stato confermato quanto previsto dalla legge precedente, cioè che il Dipartimento di Igiene
e Prevenzione sanitaria fa parte dell’ATS, con funzioni di programmazione, governo e
svolgimento delle attività di prevenzione e controllo della salute negli ambienti di vita e di
lavoro. All’ASST afferisce un Dipartimento funzionale di prevenzione, che tuttavia opera in
attuazione degli indirizzi del dipartimento dell’ATS. Questa confusa frammentazione di
competenze non rispetta la prescrizione di istituire il Dipartimento di Prevenzione come
articolazione delle ASST con funzione sia di governo che di erogazione degli interventi.
2. Sono stati istituiti i Distretti il cui territorio coincide con uno o più ambiti sociali territoriali
di riferimento per i piani di zona. Non è specificato quanti distretti vanno istituiti per
ciascuna ASST e quale sia il loro bacino di utenza. Peraltro, il Distretto è uno dei vari
erogatori delle prestazioni territoriali, che interagisce con altri erogatori pubblici e privati,
ma non li coordina. Questo costituisce un problema in particolare rispetto agli erogatori
privati che possono concorrere all’istituzione di qualunque presidio territoriale mantenendo
la propria autonomia giuridica e amministrativa. La privatizzazione, già rilevante nell’area
ospedaliera e specialistica, può quindi estendersi senza controllo ai servizi territoriali e alle
cure primarie.
3. Sono rimaste invariate le disposizioni già in vigore, in cui si specificava che le ATS attuano
la programmazione definita dalla Regione per il territorio di propria competenza ed
assicurano, con il concorso di tutti i soggetti erogatori, sulla base dell’analisi della domanda
di salute, avvalendosi del Dipartimento per la programmazione, l’accreditamento e
l’acquisto delle prestazioni. Il ruolo delle ASST nell’attuazione degli indirizzi di
pianificazione e programmazione regionale per il proprio territorio è marginale e si riduce a
favorire l’integrazione delle funzioni sanitarie sulla base della valutazione dei bisogni del
territorio elaborati dall’ATS e fornire informazioni alle ATS per l’analisi della domanda e la
programmazione delle attività. È quindi evidente che programmazione e pianificazione a
livello locale sono compiti delle ATS e non delle ASST.
4. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente legge, secondo cui la Regione definisce
le regole di autorizzazione, accreditamento e contrattualizzazione, nonché le relative tariffe
delle prestazioni, e le ATS accreditano le strutture sanitarie e sociosanitarie e dispongono
eventuali variazioni dell’accreditamento. Quindi la Regione definisce regole e procedure, ma
l’accreditamento istituzionale dei soggetti che lo richiedono rimane in capo alle ATS.
5. Alle ATS sono attribuite le funzioni di garanzia, verifica e controllo dell’erogazione dei LEA
sul territorio di competenza per tutti i servizi. L’Agenzia di controllo del servizio socio-
sanitario lombardo predispone e propone alla giunta regionale, che lo approva, previo parere
della commissione consiliare competente, il piano annuale dei controlli e dei protocolli. La
funzione di controllo delle strutture territoriali delle ATS deve svolgersi in coerenza con i
contenuti del piano annuale, con la verifica dell’Agenzia di controllo. Non risulta che le
ASST abbiano funzioni di controllo degli erogatori privati accreditati con valenza locale,
considerando che peraltro non spetta ad esse stipulare gli accordi contrattuali.
Vediamo ora le decisioni della Regione sulle principali prescrizioni non obbligatorie ma
raccomandate:
1. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente legge che ha istituito 8 ATS. Quindi il
numero delle ATS rimane invariato e non viene istituita l’ATS unica.
2. È rimasto invariato quanto indicato in precedenza, cioè che le ATS stipulano contratti con gli
erogatori pubblici e privati del proprio territorio. È rimasta altresì invariata l’indicazione per
i privati di sottoscrivere con le ATS competenti per le prestazioni previste dalla
programmazione contratti analoghi a quelli per le ASST. L’intero processo di negoziazione e
contrattazione rimane quindi in capo alle singole ATS e non alla Regione, mentre le ASST
sono considerate dalle ATS sullo stesso piano dei privati.
3. Le ATS devono garantire la verifica e il controllo della corretta erogazione dei LEA sul
proprio territorio per tutta la rete dei servizi. Le attività di controllo rimangono quindi in
capo alle singole ATS e non alla Regione. Non risulta che siano attribuite alle ASST funzioni
di controllo sul rispetto degli accordi contrattuali con gli erogatori privati a livello locale.
4. Non risulta che sia attribuito alle ASST l’incarico di stipulare accordi contrattuali con gli
erogatori privati a livello locale.
5. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente, che ha istituito 27 ASST. Si prevede
che sia possibile istituire distretti in comune tra diverse ASST confinanti il cui territorio
coincide con uno o più ambiti sociali territoriali di riferimento per i piani di zona, per cui,
almeno in alcuni casi, la definizione del territorio di riferimento delle ASST non è
funzionale all’organizzazione dei servizi sanitari della popolazione di riferimento. Non
risulta peraltro che sia stata considerata l’indicazione di ridefinire le dimensioni delle ASST.
Inoltre, la Regione prevede che a gestire le Case della Salute e gli ospedali di Comunità possano
essere anche dei soggetti privati, aumentando ulteriormente la presenza nel Servizio Sanitario
Regionale degli enti accreditati.  
A conclusione di questa analisi è evidente che sono state disattese quasi del tutto non solo le
raccomandazioni ma anche le prescrizioni indispensabili, perpetuando quindi le criticità evidenziate
nel documento di valutazione dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari. In relazione a questa
considerazione, il Coordinamento Lombardo per il Diritto alla Salute Dico 32 ha scritto, in una
lettera al ministro Speranza, che sussistono pienamente le condizioni per rinviare la legge 22/2021
al Consiglio Regionale della Lombardia, chiedendo di riaprire un ulteriore percorso legislativo per
adeguarla in tempi brevi alle indicazioni formulate già più di un anno fa. Il ministro non ha risposto,
ma l’11 gennaio alla Camera un’interrogazione di un gruppo di deputati del Partito Democratico ha
chiesto quali iniziative urgenti il ministro ritenga doveroso adottare per assicurare il pieno rispetto
delle prescrizioni indicate nel documento inviato alla Regione Lombardia. Il ministro ha risposto di
avere già aperto un’istruttoria per approfondire i contenuti della legge. Quindi, come dicevamo
all’inizio, la questione non è chiusa ed è importante che giungano al ministero le sollecitazioni della
società civile per bloccare la strada a una legge che stravolge i principi del Servizio Sanitario
Nazionale pubblico, equo e universalistico, e costituirebbe un precedente pericoloso per altre
regioni che volessero avviarsi nella stessa direzione.
* Angelo Barbato per Forum diritto alla salute
** Vittorio Agnoletto per Medicina Democratica

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