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La città del ventesimo secolo

Laboratorio di progettazione urbanistica (Politecnico di Milano)

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BERNARDO SECCHI – LA CITTA DEL VENTESIMO SECOLO

CAP.1 I TRE RACCONTI

Un secolo può essere breve o lungo in base al modo in cui viene letto. Sul ventesimo secolo ci sono due
ipotesi: si può considerare come un secolo breve oppure lungo in base agli eventi che vengono considerati.
L’utilità di riflettere su che tipo di secolo sia, è che diverse visioni mettono in luce aspetti diversi del secolo,
diversi centri tematici.
La difficoltà nel determinare una “giusta” temporalità del secolo sta nel fatto che molti fenomeni del XX
secolo sono sovra-determinati, esito cioè di un numero sovrabbondante di cause concorrenti. Per fare un
esempio pratico, Musil parla della prima guerra mondiale come un fatto sovra-determinato, perché esito di
numerose cause tra le quali non è possibile stabilire un ordine gerarchico.
Analogamente sovra-determinate sono le trasformazioni della città e dei territori europei.
La storia del XX secolo è ricca di biforcazioni, di percorsi prescelti e sentieri abbandonati, oltre che di
improvvise rotture. I tre racconti che seguono hanno lo scopo di dimostrare come si possa considerare
diversamente il XX secolo sulla base di centri tematici differenti.

1 – Espansione e dissoluzione della città. (secolo lungo)


Il XX secolo è collocato tra due estremi: l’attesa angosciosa di una crescita indefinita e smisurata della città e
il timore della sua scomparsa o sella sua trasformazione in forme di cui è impossibile prevedere il destino.
La crescita demografica è un fenomeno che ha colpito, negli anni 60, tutti i paesi europei e occidentali, i quali
hanno sfruttato questo fenomeno per trasferire buona parte della popolazione di campagna nelle città.
Il timore della dissoluzione della città, riguarda invece, gli ultimi decenni del secolo, quando i più elevati livelli
di benessere sono la causa dei grandi spostamenti di popolazione al nord verso le aree urbane.
Attesa e timore non sono però separati da una cesura netta, ma si sovrappongono lungo tutto il secolo.

2 – La fine della città moderna. (secolo breve)


Il secolo è dominato dall’idea della nascita di una “grande generazione” di intellettuali, e si diffonde l’idea
che la costruzione della città possa far parte di un più vaso progetto di edificazione di una nuova società.
La città e il territorio divengono oggetto di proposte radicali, attraverso le quali il secolo afferma la propria
alterità rispetto ad epoche precedenti. L’urbanistica e l’architettura diventano, in questa logica, la
rappresentazione del sistema di valori di una società protesa al cambiamento, nonché il concreto strumento
di una più ampia politica di suo rinnovamento, progresso e liberazione.
Si parla così di un secolo breve, durato per un lasso di tempo pari ai cinque decenni successivi alla seconda
guerra mondiale, durante i quali si era rappresentata la modernità.

3 – Città, individuo e società. (secolo lungo ma discontinuo)


Questo secolo registra una chiara rottura con il passato, segnata dalla costruzione del Welfare State.
Il XX secolo appare costituito da tre periodi, sovrapposti, con differenti centri tematici: un primo periodo in
cui si esaurisce l’esperienza della società disciplinare e durante il quale si cerca di ripristinare una correttezza
(moralizzazione) rispetto al XIX secolo (es. Vienna e Amsterdam); un secondo periodo in cui si ricerca il
Welfare; un terzo periodo in cui domina la progressiva estetizzazione della vita individuale.

Il senso dei tre racconti.


Questi tre racconti dividono l’asse del tempo diversamente.
Il primo si concentra su aspetti fenomenici e si scontra con una questione quasi insolubile: riusciamo a
conoscere la realtà solo attraverso le sue rappresentazioni. Tenta di mostrare come la città si è trasformata
servendosi di studi e ricerche.
Il secondo si concentra sul ruolo del progetto e cerca di mostrare che la città del XX secolo si è trasformata
anche perché immaginari e pratiche costruttive sono mutati e che, in questo cambiamento, il ruolo del
progetto urbanistico e di architettura non è stato irrilevante.

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Il secondo si concentra sul ruolo dell’individuo: egli è alla continua ricerca del benessere individuale e
collettivo; è il racconto di come questa ricerca abbia influito sulle trasformazioni dello spazio abitabile
europeo e, in particolare, sulle trasformazioni della città.

Le linee temporali dei tre racconti non coincidono con eventi che hanno segnato la storia economica, sociale
e politica del secolo, perché la città non cambia immediatamente a seguito di questi evento.
Questi tre racconti costruiscono tre differenti bacini semantici nei quali il futuro della città è disegnato
rispettivamente dalla paura, dall’immaginazione, mentre il passato è disegnato da nostalgia e dalla volontà
di separarsene.
Al cuore dei tre racconti c’è, secondo Secchi, il problema della libertà individuale e collettiva.

Esempi.

- Siena è costituita da spazi urbani e di significati che il passato ci ha trasmesso; è il mito di una città e di una
comunità perduta.
- Les Hauts de Rouen propongono un tema diverso: quello della distanza che intercorre tra riflessioni, progetti
e realizzazioni della “grande generazione”, tra i grandi esempi dell’architettura e dell’urbanistica moderna
nella parte centrale del secolo e la folla oscura delle realizzazioni che cercano di seguirne e interpretarne i
risultati.
- Milton Keynes propone una riflessione sulla politica delle new towns. Essa vuole essere la rappresentazione
di una progettazione ecologicamente corretta e che reinterpreti una tradizione progettuale maturata
durante quasi un secolo di esperimenti.
- la North Western Metropolitan Area (NWMA) propone un interrogativo.
Nella Delta region, compresa tra Amsterdam, Rotterdam, Anversa e Bruxelles, si è venuta formando, creando
una città aperta, diffusa dispersa.

CAP.2 CRESCITA E DISSOLUZIONE DELLA CITTA

- Un secolo dominato dall’angoscia.


Come già detto è un secolo dominato da angoscia e timore. Urbanistica e architettura svolgono un ruolo
salvifico di chi libera la società e la città dai fantasmi e dai malanni, assicurando più elevati livelli di benessere
e libertà.
La macchina urbana del XIX secolo si era dimostrata uno strumento di esclusione, segregazione e
impoverimento di ogni esperienza. Questo atteggiamento ha portato le amministrazioni locali, architetti e
urbanisti, ad esplorare temi che esorbitavano dai loro tradizionali ambiti di studio e intervento. Nel XX secolo
si capisce che la città è un tema che interessa più discipline, che tra loro sono chiamate a dialogare.
Negli ultimi decenni architettura, urbanistica e politiche urbane non appaiono più in grado di concettualizzare
adeguatamente la nuova situazione della città e del territorio e, come la città, sembrano dissolversi in un
nomadismo comunicativo che diviene ostacolo all’accumulo progressivo di risultati in gradi di dare risposte
efficaci alle domande che emergono dalla società, dall’economia e dal territorio.

Questo racconto implica due sequenze: la prima costruita sull’esperienza della progressiva concentrazione
urbana, la seconda su quella della frammentazione e dispersione della megalopoli entro territori di
sorprendente dimensione. Il punto di passaggio tra le due sequenze si ha tra gli anni 60 e 70, anche se ad uno
sguardo più attento si può notare che in realtà le due sequenze corrono parallele lungo tutto il secolo.
- Concentrazione
L’architettura della città ha cercato di rappresentare la nuova situazione. Movimenti di persone e di cose, di
idee ed informazioni, di tendenze artistiche e politiche, inseguendosi con propri differenti ritmi, hanno
espulso, da intere parti della città e dei territori ad essa contermini, individui e gruppi sociali, attività, funzioni
e immagini meno competitivi sostituendoli con soggetti, attività, funzioni, ruoli e immagini nuovi.
Rispetto al passato la città è divenuta un’ancor più imponente macchina produttrice di integrazione, ma
anche di esclusione e segregazione. Parti importanti delle città sono state demolite e trasformate.

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Mano a mano che le tecniche del trasporto e la diffusione dell’automobile lo consentivano, la pressione sulle
aree centrali è stata temperata dall’espansione di una vasta periferia, spesso identificata come il più evidente
prodotto della crescita urbana del XX secolo. Si creano quindi suburbs e, allo stesso tempo, si produceva
anche congestione e inquinamento nelle parti più dense della città.
Le infrastrutture assumono una presenza visiva sempre più importante Lungo tutta la prima metà del secolo
suggeriscono ad architetti e urbanisti immagini, piani e progetti che invitano a dilatare dimensione e scala
dello spazio urbano; ma, a metà del secolo il rapporto Buchanan giunge alla conclusione che la soluzione dei
problemi generati dalla congestione del traffico impone un radicale ridisegno della città.

Concentrazione e dispersione nelle grandi periferie metropolitane divengono fenomeni auto-contradditori,


ciascuno causa del suo opposto. Essi fanno sì che la città sia costantemente alla ricerca di un equilibrio
spaziale e temprale tra il proprio ruolo e l’infrastruttura che ne consente un completo svolgimento, che la
città sia perennemente instabile.
Le reti della città non saranno più concettualizzate unicamente come composte da tubi e canali, ma anche
come insieme di vasi capillari entro tessuti spugnosi; il problema del traffico non sarà più un problema di
adduzione e evacuazione, ma anche problema di percolazione (metafora del passaggio lento di un liquido
entro la massa porosa) entro città e territori porosi.

- Città, metropoli, megalopoli


I flussi migratori hanno alimentato la concentrazione urbana, già a partire dal XVII secolo.
Questo porta a importanti cambiamenti nelle relazioni tra le diverse città, le diverse regioni del continente e
del pianeta, modificandone l’ordinamento gerarchico e i ritmi di crescita.
Alla fine del XX secolo le maggiori città del mondo sono diverse da quelle di un secolo prima.
Il centro di gravità della popolazione urbana si è spostato, mentre la concentrazione urbana sembra essersi
arrestata laddove si era inizialmente prodotta, cioè in Europa, e ciò ha portato con sé nuove interpretazioni
e nuovi atteggiamenti nei confronti del fenomeno urbano.

È la dispersione della città europea ed occidentale, via via interpretata come forma degradata della città
moderna e delle forme urbane che l’hanno preceduta, che suscita nuove inquietudini e angosce e che
costruisce la seconda sequenza del racconto.

Si cerca, durante il XX secolo, di studiare, attraverso diverse discipline, la città e il territorio; si registrano
tentativi di comprenderle entro un unico frame stabilendo tra loro nuove gerarchie, quanto ad un diverso e
più razionale ordinamento delle politiche che hanno la città e il territorio come proprio oggetto.
È messo in evidenza il carattere frammentario della città, l’impossibilità di riferirla ad una sola immagine.

Non sono pochi a pensare che tra gli anni 60-70 la città europea esca dalla modernità per entrare in un
periodo nuovo, non ben definito.

- Dispersione.
Un gruppo di studiosi, Gregotti, Venturi e Rossi, cerca di riconcettualizzare la storia e la situazione della città
occidentale. Gregotti mette in evidenza come la dilatazione del fenomeno urbano su territori di inusitata
dimensione induca a nuovi rapporti con caratteri topografici di ciascuna parte di territorio investita dal
progetto urbano e di architettura.
Rossi interpreta la storia della città europea come continua costruzione e definizione dei caratteri topologici
dello spazio urbano.
Venturi sostiene che nelle città italiane di antico regime, l’adattamento e la stratificazione prevalgono
sull’affermazione rigida di un principio.

Vanno delineandosi in questo secolo due ideali di città differenti: quella verticale e quella orizzontale.

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Il fenomeno di dispersione si verifica a Londra, quando comincia a diffondersi l’idea della English country
house, o nelle Fiandre, dove un’intera area (quasi una regione per ampiezza) cerca di evitare la
concentrazione di masse proletarie nelle maggiori città in favore della dispersione (è per questa politica di
espansione che vanno sviluppandosi anche i trasporti pubblici su ferro).
All’inizio del secolo si sviluppa in Francia la periferia Pavillionaire, spesso abusiva, che darà luogo a
insoddisfazioni da parte delle famiglie che avendo acquistato un lotto di terreno senza conoscenze del luogo
si trovano a lottare con inondazioni e mancanza di infrastrutture adeguate.

- Nuova forma dell’abitare.


Le ripetute descrizioni della città diffusa e delle sue microscopiche variazioni hanno obbligato a prendere atto
di una definitiva e generale trasformazione della società occidentale; una trasformazione in corso da tempo,
ma che solo negli ultimi decenni del secolo produce le proprie conseguenze sul modo di pensare la città e le
sue politiche.
Si arriva infatti a dare un ruolo di centralità alle politiche dell’abitazione. La politica della casa, parte di
un’ampia politica economica e sociale, darà luogo, lungo tutto il secolo, ad un insieme di studi, di ricerche e
di politiche che lentamente modificano il ruolo dello Stato nei confronti della città, ma anche quello della
città nei confronti delle politiche pubbliche. La città diviene il luogo ove, per tutta la prima metà del secolo,
si sperimentano alcuni aspetti del Welfare: l’emergere del soggetto e della sua autonomia, della sua richiesta
di una privacy, l’emergere quotidiano, il benessere individuale e collettivo e, infine, la progressiva
democratizzazione dello spazio.

- Politiche e progetti.
Nel XX secolo assistiamo ad una grande varietà di politiche e di progetti per la città. È in questo secolo infatti
che si registrano esperienze di garden cities, new towns, di città e quartieri satelliti.
Si costruiscono green belts che, limitando l’espansione urbana o separando tra loro parti di città
differentemente connotate da un punto di vista funzionale e sociale, costruiscano nuovi paesaggi urbani.
La critica dei primi decenni del secolo alla città del XIX secolo e alla società disciplinare che in essa si
rappresenta come forma di organizzazione sociale e spaziale mutuata dall’istituzione totale e, in particolare,
dalla grande fabbrica, spinge in un primo tempo, in due diverse direzioni: verso la costruzione di
un’alternativa alla grande città (Broadacre, le città del lavoro sovietiche, le New Towns inglesi), o verso la sua
moralizzazione (Amsterdam sud di Berlage e le hofe viennesi).

Negli ultimi decenni, Cesare Beruto aveva tentato a Milano una cosa simile, ma i proprietari delle aree
destinate alla nuova edificazione lo avevano costretto a rinunciare al super-blocco e a limitarsi ad arricchire
gli spazi stradali.

La costruzione di edilizia sociale tra le due guerre dà luogo in Europa anche ad esperienze più radicali. Alla
ricerca di un ordine spaziale ove la modernità e un nuovo ordine sociale si rappresentino più chiaramente,
esse compiono tre operazioni fondamentali: aprono l’isolato sino a dissolverlo in un insieme di oggetti tra
loro separati e organizzati da differenti principi; eliminano la strada corridoio e modificano il modo
sostanziale i rapporti tra spazio edificato e spazio libero.
Si diffonde l’idea della distribuzione interna dell’alloggio, concepito come cellula elementare della
composizione urbana e sociale; ogni elemento assume ruoli, funzioni, dimensioni e prestazioni definiti in
modi più possibile precisi; nelle versioni estreme, l’alloggio cambia di natura facendosi casa comune ove
alcuni spazi sono condivisi dai diversi gruppi di abitanti; l’isolato si apre e si dissolve, le attrezzature collettive
e le infrastrutture assumono un’identità e una collocazione specifica; l’insieme degli spazi aperti, strade,
piazze, giardini e parchi, assume una propria forma coerente ad un ruolo che non è più compensatorio della
bassa qualità dell’alloggio, ma è costitutivo della forma urbana.

- Continuità e discontinuità.

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La grande varietà di politiche e di progetti può essere raggruppata sotto le bandiere della continuità con il
passato o dell’alterità, dell’affermazione della necessaria rottura di alcuni importanti legami con ciò che è
venuto prima.
Continuità e discontinuità sembrano inseguirsi lungo tutto il secolo. Ad uno sguardo più ravvicinato, da una
distanza critica temporale, il secolo appare però dominato soprattutto dalla ricerca di continuità.
NB. Continuità non è sinonimo di conservazione, cosi come discontinuità non è sinonimo di alterità.

La continuità è una linea che viene seguita dalla maggior parte delle città europee nei due dopoguerra; il
“dov’era com’era” diviene un giustificato imperativo in molte occasioni.
Nella seconda metà del secolo prendono piede fenomeni di dispersione e di frammentazione dello spazio
urbano.

- Ricostruzione e dismissione della città industriale.


Sopraffatte dall’imponente domanda di abitazioni, di attrezzature e di infrastrutture, dagli intensi flussi
migratori e dalla crescita demografica, le amministrazioni delle città europee si sono trovate impreparate a
fronteggiare fortissime pressioni speculative.
Ma le ondate speculative del secondo dopoguerra hanno avuto conseguenze ancor più durature sulla
costituzione fisica della città, che si traduce nella costruzione di immense periferie.
A partire dalla seconda metà degli anni 60, le condizioni di vita della grande città europea appaiono sempre
meno sopportabili a parti sempre più consistenti della sua popolazione.
Nasce una questione urbana che riecheggia la questione delle abitazioni di un secolo prima.

Ci troviamo in un periodo in cui famiglie e fabbriche vengono non solo attratte dalla campagna, ma anche
respinte dalla città.
Nelle grandi città europee, specialmente nelle grandi città della rivoluzione industriale, si aprono i vuoti di
aree industriali abbandonate. Un fenomeno non nuovo: più volte alcune città europee sono stata
abbandonate dai loro abitanti e poi ricostruite utilizzando in parte i materiali della città precedente.
Come conseguenza, sono state abbandonate intere parti del sistema infrastrutturale. Ciò che era stato
lentamente accumulato durante quasi due secoli di crescita e sviluppo, intere parti di città si trovano ad
essere prive di una funzione e di un ruolo con gravi conseguenze sui livelli occupazionali, sullo sviluppo
demografico e sulla geografia sociale, funzionale e simbolica dell’intera città.

Contemporaneamente, nei paesi e nelle regioni più povere, il confronto con le parti di città costruite
abusivamente, bidonvilles, barrios, favelas, porta a dubitare dell’efficacia delle politiche amministrative, delle
tecniche, degli strumenti e dei principi del Welfare State e dell’urbanistica moderna.

- Il tempo.

Di fronte al frammento e alla dispersione urbanistica, architettura e politiche urbane sembrano non essere
più in grado di ritrovare un pertinente programma di ricerca comune: da un lato devono dare risposte rapide
e immediate ad una società sempre più esigente, dall’altro divengono sempre più consapevoli dell’inerzia e
della durabilità dei propri prodotti.

Negli anni 50 Olivetti, che negli anni tra le due guerre aveva studiato negli Stati Uniti, riprende, nel secondo
dopoguerra le idee che aveva visto applicate nel New Deal, nelle città di Ivrea e nel Canavese. Olivetti pensa
a degli insediamenti nei quali si possa riconoscere lo spirito comunitario della città dell’uomo, ma nei quali
particolare attenzione viene posta anche alla qualità dello spazio del lavoro e dello spazio abitato.
Le sue proposte furono allo stesso tempo tardive e mature: in quegli anni il sistema economico italiano era
troppo proteso verso l’utilizzazione di un’estesa forza lavoro entro le maggiori aree industriali e urbane;
inoltre, è solo alla fine del secolo che si inizia a concepire la porosità e la dispersione anche come occasione
per costruire una nuova forma urbana e sociale nella quale per molti versi si rappresenti un nuovo rapporto
con la natura e l’alterità del XX secolo rispetto al passato.

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Le esperienze cumulatesi nell’Europa tra le due guerre, o quelle inglesi e scandinave del secondo dopoguerra,
hanno cercato di affrontare i problemi incontrati dalle città e dai territori europei dopo gli anni 60l hanno
costruito una forte distanza dall’estetica della città di antico regime contribuendo ad una modifica radicale
dell’immagine della città europea.
In linea generale le politiche vengono ritenute responsabili della frammentazione dello spazio urbano, della
sua eterogeneità visiva.
Numerosi indizi fanno pensare agli anni 60 come spartiacque: l’enorme progresso delle tecniche costruttive,
l’inflazione della normativa e il frantumarsi delle procedure che regolano i processi di costruzione della città,
conseguenza in larga misura di una progressiva democratizzazione di una società come quella europea che
velocemente si trasforma in una società di minoranze se non di attori isolati.
Dopo di allora urbanistica, architettura e politiche urbane si disperdono in una sorta di nomadismo
consumatore di immagini e la città appare come l’esito di una miriade di risposte individuali a problemi dei
quali si stenta a cogliere il carattere generale.

SIENA

Siena è la città medievale per eccellenza. I centri antichi sono parte dell’esperienza urbana del XX secolo, così
come le questioni connesse alla loro conservazione, al loro riuso e risanamento.
Siena da sempre ha sollecitato l’immaginario: non solo individuale, ma soprattutto collettivo. Chiunque abbia
frequentato con curiosità ed attenzione la città, i suoi abitanti e la loro storia, non può che cogliere la forza
con la quale un fascio di immagini si è depositato sulla città e ha resistito nel tempo.
Il XX secolo ha sempre progettato la città con un occhio rivolto a quella del passato, interpretandone le
principali lezioni. Alla fine del secolo la città antica, Siena, propone tre principali lezioni.
La prima: negli ultimi decenni del secolo i centri antichi sono amati e frequentati da folle sempre più
numerose. Questo turismo trasforma i centri antichi, che sempre più si svuotano dei loro abitanti, per
diventare immensi parchi a tema o grandi centri commerciali (es. Venezia, Bruges, Rouen).
Gli abitanti abbandonano il centro antico in favore di abitazioni più areate e luminose, miglior comfort interno
ed esterno all’abitazione.
- Il primo ordine di riflessioni che la città antica solleva è quello del comfort dello spazio pubblico.
Piazza del Campo a Siena, una piazza su cui si affacciano edifici di 5 diversi secoli, è caratterizzata da modi
semplici nei quali il disegno della pavimentazione facilita lo scolo dell’acqua da questa immensa superficie; è
geniale per il modo in cui lo stesso disegno suggerisce le sue modalità d’uso senza imporle; non può che
convenire che è soprattutto il grande comfort di questo spazio del pubblico ciò che appartiene all’esperienza
comune e lo fa amare. Piazza del Campo è quindi un esempio in cui permane il comfort dello spazio pubblico.
- La seconda lezione riguarda la natura dello spazio aperto: strade, giardini, corti, piazze ecc. Ciò che lascia
stupiti è l’assenza di un’esperienza significativa e sistematica dello spazio aperto. Enormemente dilatatosi,
esso sembra essersi polverizzato in un insieme di frammenti collegati da spazi privi di un chiaro statuto.
Lo spazio aperto di Siena, invece, ha tre principali e chiari statuti: lo spazio pubblico in cui si svolgono riti
collettivi, che siano la processione o il passeggio; lo spazio aperto prossimo della campagna, della laguna,
dell’esterno, che si traduce all’interno del centro storico in corti, chiostri, orti e giardini; gli spazi segreti, della
privacy assoluta, che sono spazi di lavoro, dell’ozio, ma anche della vita comune.
- L’ultima lezione riguarda la grammatica e la sintassi del tessuto urbano antico; l’intimo rapporto che si è
stabilito e conservato nel tempo tra segno e suo significato, tra forma e ruolo.
A Siena i percorsi più rilevanti sono quelli di cresta (notare la costituzione morfologica di Siena), lungo i quali
si sviluppano le attività principali e di rappresentanza.

Durante tutto il secolo, Siena è rimasta al margine della modernità, in particolare dello sviluppo urbano.
Molti centri antichi, invece, sono stati investiti violentemente dallo sviluppo moderno.
Siena si è costituita attraverso una continua interpretazione individuale di una stessa struttura dello spazio
collettivo; all’opposto la città moderna si è costituita come tentativo di dare una interpretazione collettiva
ad esigenze individuali. Due programmi di ricerca giustificati, ma profondamente diversi.

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CAP. 3 LA FINE DELLA CITTA MODERNA

Il secondo racconto è quello di una grande generazione che opera diverso campi artistici e di ricerca, tra i
quali l’architettura e l’urbanistica, e si impegna a costruire una società differente, un uomo nuovo, cosciente
del fatto che la propria liberazione non può essere trovata altro che all’interno di una più ampia collettività.

- Una “grande generazione”.


Si parla della generazione testimone della prima guerra mondiale e degli sconvolgimenti che l’hanno seguita,
dei movimenti rivoluzionari, della speranza di un mondo migliore, delle crisi economiche, dello straordinario
sviluppo della produzione industriale e di una completa riorganizzazione dei metodi produttivi.
Non è azzardato ritenere che la prima guerra mondiale abbia indotto alcuni a prendere una distanza critica
dall’esperienza e a riflettere sulla natura della storia e sulle possibilità di imprimerle, nel proprio campo di
studio e d’intervento, una diversa direzione.
In modo analogo, nel XIX secolo, la Rivoluzione francese e gli orrori del Terrore, il periodo napoleonico e la
restaurazione, sono stati la causa di una trasformazione urbana.
La seconda guerra mondiale non ha prodotto una reazione analoga, seppur essa, con le sue conseguenze,
sembra aver gelato in Europa e nel mondo occidentale ogni forma di pensiero utopico.

- Un mappamondo che non includa “Utopia” non merita neppure uno sguardo.
Che la costruzione della città possa far parte di un più vasto progetto di costruzione sociale non è un’idea
nuova. Con la sua forza critica e la sua capacità immaginativa l’utopia accompagna tutto il XX secolo.
L’utopia impone il confronto tra il presente e la sua storia e spinge a immaginare un suo possibile
cambiamento. Essa incontra sempre resistenze, inerzie ed atteggiamenti rivolti verso un passato dal quale
si ha paura di allontanarsi.
Immaginare un futuro possibile è quanto fanno i protagonisti della nuova generazione.

- Utopie concrete
La riflessione e le realizzazioni degli architetti e degli urbanisti della grande generazione cercano di dare
all’utopia dimensioni concrete; ciò è quanto le rende specifiche.
Esse cercano di costruire una prospettiva per il futuro ben sapendo che una parte degli eventi futuri potrebbe
trasgredire le regole della rappresentazione prospettica, deformandone il significato e il ruolo, e che ciò
potrebbe obbligare a modificare il punto di fuga, a riferire il futuro a più punti di fuga.

Negli anni tra le due guerre l’utopia, in maniera diversa, si sviluppa in Europa (non solo con il Movimento
Moderno e i CIAM), negli Stati Uniti e in Unione Sovietica.
Città e territorio sono investiti da una molteplicità di progetti radicali attraverso i quali il secolo cerca di
mostrare la propria diversità rispetto al passato.

La grande generazione è all’origine di una serie di città di fondazione, di una serie di parti di città che si sono
inserite, sovrapposte e giustapposte alla città esistente; è all’origine di una serie di “progetti dimostrativi”
attraverso i quali si è cercato di convincere della necessità e della possibilità di cambiare in modi radicali il
quadro di vita consentito dalla città di antico regime.

- Sforzi estremi dell’immaginazione.


La grande generazione negli anni venti ha 30-40 anni. La loro storia è stata raccontata più volte seguendo
diverse linee espositive che mettono in evidenza questioni differenti.
I CIAM hanno solitamente occupato, sino ai tempi recenti, un posto centrale. Ma la stessa storia, lo stesso
periodo, può essere raccontato mettendo al centro gli sforzi estremi dell’immaginazione, cioè Ville Radieuse
e Broadacre City.
Considerati molto spesso come progetti piuttosto che testi-manifesto, in essi convergono una serie di
riflessioni, di esperienze, di prese di posizione intorno ai caratteri della società e della città maturati in un

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luogo lavoro collettivo. Essi sono la rappresentazione di diversi principi insediativi, di diverse maniere di
pensare alle relazioni tra individui, società e territorio.
Direttamente o no, entrambi questi sforzi nascono dall’incontro con la prima fase della Rivoluzione sovietica
e, in particolare, con i problemi del mondo occidentale ad essa connessi. La Ville Radieuse nasce a seguito
del viaggio di LC a Mosca nel 1930, mentre Wright è chiamato a realizzare un progetto che si differenzi dalle
idee di LC e da quelle socialiste.

- Elementaire.
Vent’anni dopo la costruzione di Letchworth, dei primi tentativi di costruire un’alternativa alla grande città,
Ernst May costruisce una serie di quartieri satelliti separati tra loro e dalla città da corridoi verdi; entro un
vasto programma d’edilizia sociale, dà un largo spazio alle case unifamiliari a schiera ma opta per un
linguaggio chiaramente Moderno.
Negli stessi anni Wagner e Taut costruiscono delle Siedlungen a Berlino, non più città satelliti, prendendo
come riferimento le città giardino e i suburbs di Amsterdam Sud.
Anche a Milano si svolgono esperimenti simili. Essi costituiscono un’importante testimonianza di un sentiero
che avrebbe potuto essere più rigorosamente percorso fino in fondo.

Negli anni 20 si erano già svolti diversi esperimenti nel campo della prefabbricazione edilizia e avevano
partecipato ad un intenso dibattito sui rapporti tra tecnica e cultura. LC, in una interpretazione forme
dell’autonomia dell’architettura, ne rivendicava il ruolo apolitico: l’architettura della città, migliorando le
condizioni di vita di tutti, sta al di sopra delle forme del potere; la Ville Radieuse è genericamente dedicata
all’autorità. Le nuove tecniche del trasporto o produttive assumono, per LC, un carattere naturale e
ineludibile, indipendente dal significato contingente che possono avere sulla parte di popolazione che ne è
coinvolta e, attraverso questa, sull’intera società.

Il gruppo svizzero-tedesco-olandese aveva un differente retroterra: un’interpretazione elementarista della


città e del processo di sua costruzione che proveniva da De Stijl li portava ad interpretare in modi più originali
e approfonditi la questione delle tecniche; taylorismo e fordismo potevano essere interpretati non solo come
origine di una maggior produttività del lavoro e sfruttamento della classe operaia, ma anche come
opportunità per una diminuzione della fatica, della forza lavoro erogata durante il processo produttivo, come
contributo cioè alla liberazione dal lavoro. Ciò li portava a collegare i progressi del macchinismo con
l’organizzazione del tempo e del riposo, a proporre la città verde, luogo ove la forza lavoro progressivamente
liberata potesse ricostituirsi dedicandosi ad altre attività, ad interpretare la questione delle abitazioni
ponendo una forte enfasi sulla casa comune e, più in generale, sugli spazi condivisi.
Una parte di questo gruppo nel 1930 si trasferisce in Unione Sovietica dove, attraverso la creazione di città
del lavoro, possono continuare la loro ricerca a scala più ampia. Si pone l’attenzione sull’ambientalismo, sulla
dimensione finita della città, sul lavoro, sulla creazione di tanti piccoli nuclei urbani, sull’educazione collettiva,
l’egualitarismo, gli spazi condivisi, il club operaio e la casa comune.

- Equilibrium.
In Broadacre e nella Ville Radieuse alcune attività, la residenza, la produzione ed il commercio, le attrezzature
collettive per l’istruzione, lo sport e la cultura, assumono una chiara e visibile identità che si esprime in
specifici materiali, principi insediativi e ubicazioni. Separare, stabilire corrette distanze e tra loro connettere
le diverse attività e le architetture nelle quali esse si rappresentano, dare a ciascuna attività corrette
dimensioni, costruire la città come un parco è parte essenziale dell’architettura della città.
In entrambi i casi domina la serialità: la maglia infrastrutturale si compone di due griglie ortogonali, una
ruotata di 45° rispetto all’altra; la griglia costituisce uno spazio flessibile, che può espandersi su vasti territori;
accanto alle infrastrutture si ritrovano le attività produttive e le attrezzature collettive, mentre le aree
residenziali sono irrigate capillarmente da una rete infrastrutturale minore. In entrambi i casi, infine, vi è il
rigetto della storia, l’urgenza di un’architettura della città esteticamente pura e priva delle influenze del
passato. Le differenze tra i due schemi si costruiscono su due terreni di diversa profondità.
Rapporto con il terreno: il LC l’alloggio è staccato dal terreno, mentre in Wright no.

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Nel retroterra di Wright sta la griglia jeffersoniana che aveva consentito di misurare e colonizzare l’intero
territorio degli Stati Uniti. Si fonda anche sulla proposta di Roosevelt di redistribuire la popolazione sull’intero
territorio statunitense, oltre che sul rapporto con Ford e con la sua idea di piccoli centri produttivi.

Negli anni successivi al 1933, dopo il quarto CIAM e dopo le difficoltà per realizzare la Carta d’Atene, la grande
generazione si disperde in Turchia, Kenya, Brasile, Giappone e Stati Uniti. Una parte rimane in Europa,
un’altra vi ritorna dopo la guerra, ma la tensione che aveva animato gli anni tra il primo conflitto mondiale e
gli anni 30 è scomparsa. I CIAM del dopoguerra hanno temi più articolati anche se meno chiari di quelli degli
anni 20 e 30; lo sforzo sembra essere quello di rimettere ordine nelle idee emerse, di costruire frames e
griglie entro le quali collocare i nuovi problemi della città e le proposte di una più giovane e numerosa
generazione di architetti e urbanisti.
Quando i CIAM si sciolgono, nei 15 anni della ricostruzione, architetti e urbanisti richiedono un
approfondimento nel senso di una nuova riflessione sulla storia e un’apertura che riesca a confrontarsi con
più articolate situazioni.

- Continuité
Il termine “generazione” vuole sottolineare quanto alcune reazioni nei confronti del passato, alcune idee nei
confronti del futuro e alcuni temi siano condivisi da una schiera assai vasta.
Negli anni 30 si sviluppano progetti di essenziale importanza, come la creazione di diverse città lineari.

Nel 1935 Braillard realizza il piano urbanistico per la città di Ginevra. Il piano non ha uno scopo dimostrativo,
ma ha l’ambizione di proporre e realizzare una nuova forma di città. Il piano della città e quello esteso per
tutto il Cantone ginevrino di due anni successivo mostrano l’importanza dei concetti di ripetizione, serialità
e struttura. L’astrazione geometrica della figurazione s’incontra in modi sofisticati con la topografia del
territorio. Si cerca di costruire una città aperta all’uguaglianza dei soggetti.

Tra il 29 e il 34 Van Eesteren prepara il piano di espansione di Amsterdam, ipotizzando una città funzionale.
Van Eesteren spiega i principi della città funzionale, principi maturati in un lungo studio critico dell’urbanistica
di Berlage e, soprattutto, durante alcune importanti esperienze concorsuali.
I motti di Van Eesteren sono assai significativi: nel 1924 il motto della competizione per il Rokin di Amsterdam
è “elementaire”, per Berlino diventa “equilibrium”, nel concorso parigino “continuitè”. In questi tre motti è
condensato il programma di Van Eesteren: un’interpretazione elementarista della città, che lo porta a
riconoscere e separare i differenti materiali dei quali la città è composta, dando un largo spazio allo zoning;
una cncezione analitica del progetto della città come continua ricerca di equilibrio, tra il passato e il nuovo,
tra le diverse funzioni, tra costruito e aperto, che lo porta al tentativo di fissare in rapporti e parametri i
risultati via via raggiunti. Il processo è dominato dalla continuità, dunque dalla possibilità di inserire ogni
nuova azione entro il frame offerto da una storia urbana.

All’inizio del XX secolo l’azzonamento è pratica diffusa, specie nel Nord America; alla metà del secolo in
Europa è quasi totalmente istituzionalizzata, ma anche ridotta e banalizzata abbandonando percorsi che pure
erano stati proposti. Nel suo progetto di città industriale, Tony Garnier vuole mostrare che diverse funzioni,
la residenza, l’industria e le attrezzature collettive, danno luogo a differenti principi insediativi e a differenti
rapporti con la topografia e con le principali infrastrutture.
In passaggio in più che compie Van Eesteren è quello di dare dimensioni alle diverse zone, di ubicarle
correttamente rispetto al sistema infrastrutturale e alla topografia di separarle o unirle efficacemente

- Copenaghen, Stoccolma.
Nel secondo dopoguerra queste due città si dotano di piani urbanistici che adottano una politica di
espansione incrementale lungo le direttrici segnate dalla storia.
Nella grande Copenaghen si ritrova l’immagine delle cinque dita; il rapporto con lo spazio aperto della
campagna diviene un elemento fondamentale per la forma urbana, mentre le acque lo saranno per
Stoccolma. Stoccolma nel 32 era composta da piccoli insediamenti dispersi in una natura dominata da acque

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e boschi. Da questa data l’espansione della città dà luogo alla densificazione e unificazione di un territorio
disperso. Il piano è quello di realizzare quartieri satelliti separati tra loro dalle aree produttive da ampi parchi
connessi da una fitta rete di corridoi verdi; un arcipelago di diversi quartieri, dotati di propri centri e gravitanti
attorto ai centri maggiori. Le densità decrescono dal centro di ciascun quartiere, dove si trova la stazione.

- Questioni ereditarie.
I piani di Copenaghen e Stoccolma e la tradizione del neo-empirismo scandinavo, hanno avuto un’influenza
enorme in Europa perché costituiscono una continuità con il passato per la struttura urbana, e una rottura
da esso nell’organizzazione interna del quartiere.

La ricerca degli architetti e degli urbanisti della grande generazione non è stata solo ricerca formale,
produzione di una nuova estetica urbana; lungo le due linee della moralizzazione e della costruzione di
un’alternativa radicale, cercando di dare una dimensione concreta al welfare individuale e collettivo, essa ha
investito strati assai più profondi e rilevanti della storia sociale europea e del mondo occidentale.

LES HAUTS DE ROUEN

È uno dei quartieri di iniziativa pubblica costruiti in Francia durante i “trenta gloriosi”, cioè tra la fine degli
anni 50 e i primi anni 70.
A questi quartieri veniva affidato il compito di risolvere la gravissima crisi degli alloggi, di modernizzare
l’industria edilizia e di costruire una nuova città nei modi dell’urbanistica moderna: grandi spazi aperti,
attrezzature collettive, rete stradale, aree verdi ed edifici ben orientati.
Il quartiere è stati inizialmente abitato da famiglie nucleari, due genitori e due figli, operai o impiegati con
comportamenti e consumi sostanzialmente omogenei; trent’anni dopo diventa luogo per immigrati extra-
europei con redditi bassi, e si genera violenza diffusa.
Il problema dell’alloggio è un problema fondamentale e spinge verso una politica delle abitazioni che sia in
grado di aumentarne rapidamente l’offerta grazie ad una spinta industrializzazione del settore edilizio.
I grand ensembles entrano a far parte del paesaggio urbano francese: con una dimensione media tra i 2500
e i 3000 alloggi essi formano città nuove lontane da un grande centro urbano, in località monoindustriali.
Nei paesi dell’Europa centro orientale, circa 30 milioni di persone abitano alla fine del secolo in alloggi
progettati e realizzati tra gli anni 50 e 90, con metodi industrializzati.
Si costruiscono Grossensiedlungen, quartieri che ospitano più di 2500 abitazioni costruiti dopo la seconda
guerra mondiale e che prediligono abitazioni in affitto, e Siedlungen, di dimensioni più piccole.
In Italia questo atteggiamento si sviluppa a partire dagli anni 60, con la costruzione di vari piani quali INA-
Casa.

Alla fine del secolo Les Hauts de Rouen sono divenuti una zona sensibile e, come molti quartieri simili in
diverse parti d’Europa, sono investiti da proposte opposte: demolirli, trasferire gli abitanti altrove, oppure
gradualmente svuotarli dei loro abitanti attuali, attendere che i caratteri di una massa critica di popolazione
cambino, che gli abitanti diventino una minoranza; oppure ancora connettere la rete viaria gerarchizzata che
renda il quartiere permeabile in ogni direzione; oppure modificare l’immagine del quartiere inserendovi
nuove attività, ospitate in edifici immersi nel verde e in zone ben allacciate alle maggiori infrastrutture.

Se questo periodo era caratterizzato da una forte crescita demografica, negli ultimi decenni la stessa subisce
un rallentamento, fino ad annullarsi.

Il mito dell’industrializzazione edilizia produce tre conseguenze importanti: la ricerca di un’unificazione e


codificazione delle componenti del prodotto edilizio e dei loro dispositivi di assemblaggio; l’accorciamento
dell’orizzonte di durata dello stesso prodotto considerato, alla pari di altri prodotti industriali, come destinato
ad una vita assai più breve che per il passato; la scarsa attenzione per ogni specificità locale, riguardi essa il
clima, i materiali, i segni esteriori di una cultura radicata nel tempo.

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I ritmi produttivi richiesti e i limiti di spesa imposti dalla situazione sociale sono i responsabili dalla forte
riduzione e banalizzazione tipologica degli edifici e delle loro regole compositive, della mancanza di flessibilità
degli alloggi e di prestazioni di basso livello. L’idea era quella che questi edifici non dovessero durare più di
25 anni, e che quindi non ci si dovesse porre il problema della città in trasformazione.

Il XX secolo è stato, in Europa, il secolo del cemento armato e dei sistemi di industrializzazione edilizia più
diffusi; essi diventano gli elementi base per un’edilizia prefabbricata che avrà grande diffusione a partire dagli
anni 50.
Les Hauts de Rouen sono stati costruiti con sistemi di prefabbricazione pesante non molto sofisticati. Qui
cucine e bagni troppo piccoli costituiscono, insieme al corpo scale, un nocciolo duro e difficilmente
modificabile. La scarsa insonorizzazione degli edifici esalta i conflitti tra gli inquilini. La ristrettezza degli
appartamenti e la numerosità delle famiglie fanno sì che i giovani non abbiano altro luogo in cui radunarsi
oltre al vano scale, recando così disturbo agli altri inquilini.

CAP. 4 CITTA, INDIVIDUO E SOCIETA

Il terzo racconto ha come tema cardine il Welfare individuale e collettivo.


Le condizioni di vita del XIX secolo e dell’inizio del XX fino all’indomani del primo conflitto mondiale,
sollecitano tutti i paesi a una riflessione; il dibattito, non solo teorico, del benessere assume una maggiore
attenzione da parte di tutti i governi ai problemi relativi alla distribuzione del reddito tra i diversi gruppi sociali
e individui e ad una maggiore attenzione per le condizioni di produzione dei beni pubblici.
Si prendono due diverse direzioni: “positiva” quella dei gruppi scandinavi, in cui la redistribuzione della
ricchezza avviene tramite un’imposizione fiscale progressiva con il reddito che finanzia l’erogazione ai gruppi
sociali meno favoriti; la casa e le attrezzature per l’istruzione, la sanità e lo sport assumono un ruolo centrale.
L’altra, adottata dai paesi occidentali, è una politica di redistribuzione monetaria fatta di trasferimenti
monetari tra le famiglie sotto forma di un’imposizione fiscale progressiva da un lato e di aiuti, crediti ed
esenzioni fiscali dall’altro.
Si oscilla quindi tra due esterni; tra un forte intervento pubblico, nella produzione di nuovi alloggi per gruppi
sociali meno favoriti, e i sempre più macchinosi trasferimenti monetari tra le famiglie.
La città del XX secolo propone materiali e relazioni spaziali differenti. I risultati, tutt’altro che scontati, sono
in parte accettati, in parte rifiutati.

- Costruire il welfare mediante case, attrezzature collettive, spazi verdi e infrastrutture.


Sorgono nel XX secolo nuovi problemi, legati alla compatibilità dei diversi materiali, il loro fondersi l’uno
nell’altro, la loro compatibilità o incompatibilità, le loro distanze relative, la loro disseminazione entro la città
e il territorio, il loro contributo alla costruzione di specifiche aree connotate, e la costruzione di uno spazio
omogeneo.
Nella prima metà del XIX secolo le attrezzature collettive si confondevano nei fronti stradali e nel tessuto
urbano. Distribuite nei diversi quartieri assumevano i connotati architettonici dell’edilizia circostante.
Nel XX secolo invece, scuole, collegi, palestre e edifici per lo sport, assumono un ruolo fondamentale per lo
sviluppo sociale. Il XX secolo sottopone ad un’accurata analisi le pratiche e i processi che si svolgono al loro
interno e tramite loro nelle città; li analizza come si trattasse di processi produttivi; li decostruisce nelle loro
principali fasi, ne isola gli elementi fondamentali e di ciascun elemento studia il funzionamento, forma,
dimensioni e relazioni con gli altri. Il programma economico e funzionale di ogni spazio e di ogni edificio è
sottoposto ad un’accurata analisi.

- Case.
Campo di sperimentazione è l’alloggio. Si delineano due idee principali: la prima, per la quale l’abitazione
corrisponde ad un bisogno insopprimibile e incomprimibile, il cui mancato soddisfacimento diviene causa
d’instabilità sociale e politica; da questa concezione nasce un insieme di studi che cercano di decostruire il
termine “bisogno” nelle sue componenti fondamentali e nelle loro reciproche relazioni, di riconoscere il

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limite inferiore del loro soddisfacimento, oltre il quale è compromessa la stessa esistenza del soggetto, della
famiglia, del gruppo sociale.
Per la seconda, la politica dell’abitazione riguarda soprattutto il quotidiano e la ricerca del comfort. Il concetto
di comfort è meno ampio di quello di welfare, perché riguarda solo il rapporto tra il corpo e l’ambiente fisico
circostante.

La prima pone al centro le pratiche abitative, arrivando ad indagare le possibilità e i modi di riduzione
dell’alloggio alle sue dimensioni minime; il minor spazio interno potrà essere compensato da una maggior
dotazione di spazi e di attrezzature condivise, come la casa comune (es. Les unitès d’habitation di LC e le
ricerche sull’existenz minimum di Klein). La speranza di riuscire a ridurre i costi di costruzione dell’alloggio
attraverso una politica di forte industrializzazione del settore edilizio spinge, d’altra parte, attraverso
difficoltà che non verranno mai totalmente superate, verso la serialità e la standardizzazione.
La seconda direzione di ricerca mette al centro le abitazioni più ricche ove le diverse dimensioni dell’abitare,
dell’articolazione e dei dettagli delle attrezzature necessarie allo svolgimento della vita quotidiana, hanno
modo di rappresentarsi senza molti vincoli ad esse estranei.

Queste due concezioni sono alla base di una forte e continua tensione verso l’innovazione tipologica e, nello
stesso tempo, delimitano l’intervallo ideologico e pragmatico entro il quale le politiche dell’abitazione e della
città sono state costruite.

- Scuole e campi da calcio.


Scuola e sport subiscono cambiamenti nella definizione dei loro scopi, del loro ruolo entro la società, dei loro
programmi, degli edifici e degli spazi che li ospitano, della loro collocazione entro la città.
Gli esperti di diversi settori spingono verso le pratiche all’aria aperta via via facendo riferimento a differenti
ipotesi teoriche: le scuole divengono scuole all’aperto, le attrezzature sportive entrano nelle scuole, i campi
sportivi contribuiscono alla costruzione dell’immagine di molti campus scolastici e si diffondono sempre più
numerosi nella città.
Prima questi erano ambienti a cui potevano accedere solo i ceti più abbienti. La diffusione e generalizzazione
delle pratiche sportive, la loro articolazione e dilatazione su spazi sempre più vasti, è uno degli aspetti più
evidenti del XX secolo che accompagna le diverse forme della modernizzazione ed ha una forte relazione con
la concentrazione urbana.
Lo sport diviene occasione per molte città di varare importanti e complessi progetti di riscrittura dell’intera
struttura urbana. I giochi olimpici, come i periodici confronti internazionali, divengono la principale occasione
per studiare e realizzare questi piani.
In questo senso lo sport ha svolto un ruolo simile alle esposizioni universali che, peraltro, hanno continuato
lungo tutto il secolo ad essere occasione di riflessione per l’architettura delle città.

- Parchi, giardini e playgrounds.


La città moderna ha separato la campagna dalla città e, a partire dalla metà del XIX secolo, sotto la pressione
di evidenti fenomeni connessi alle condizioni igieniche e fisiche della popolazione urbana, ha dovuto
sostituire l’esperienza della natura e dello spazio rurale con quella dei parchi e dei giardini pubblici, dei viali
alberati e dei campi gioco, dilatando o inventando ex novo una serie di pratiche sociali prima inesistenti,
solamente abbozzate o riservate ad una sparuta minoranza.

Si pensa di collegare questi spazi pubblici attraverso avenues e promenades in modo da formare ragionevoli
sequenze, anticipando temi che diverranno di attualità solo alla fine del secolo. Essi dovevano dar luogo a un
sistema di parchi più che a parchi isolati, e dovevano costruire una rete ecologica capace di dare forma e
struttura ad una città che sempre più si dilatava.
Disposti lungo un continuum, distribuiti entro lo spazio urbano seguendo criteri diversi, dall’utilizzazione degli
spazi in between, come nei famosi settecento playgrounds di Van Eyck ad Amsterdam, sino alla connessione
dei maggiori spazi liberi che ancora penetrano nella città, come a Copenaghen e a Stoccolma.
Parco e giardino costituiscono un continuum come dovrebbero costituirlo lo spazio pubblico e quello privato.

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“Il parco pubblico deve educare le masse alla natura e alla bellezza, sola condizione per dare alla classe
operaia l’impressione di serenità e di ordine”.

MILTON KEYNES

Milton Keynes è importante per la sua coerenza e allo stesso tempo la contraddittorietà di alcuni suoi aspetti.
Essa fa parte del più recente gruppo di New Towns inglesi, solitamente indicate con il termine Mark III per
distinguerle dalle New Towns avviate tra in 46 e il 50, oltre la green belt prevista per il Greater London Plan
di Abercrombie e ad una distanza dal centro di Londra compresa tra i 32 e i 56 km (Mark I), o da quelle tardive
realizzate tra i 96 e i 130 km di distanza da Londra (Mark II).
La realizzazione dei Mark III è stata dettata dalla domanda crescente di abitazioni.
Con Milton Keynes si ha la possibilità di riflettere su una parte importante della storia della città del ventesimo
secolo e sulle sue politiche che hanno cercato di migliorare il welfare dei suoi abitanti. Essa è l’esempio più
recente di un’esperienza che ha la propria origine nel Regno Unito nell’immediato dopoguerra e nella quale
si sono impegnati i migliori architetti e urbanisti inglesi del periodo.

Milton Keynes si propone come alternativa all’eccessiva crescita e congestione della grande città, e alla
dispersione degli insediamenti nella campagna. Occorre ricostruire una misura e un equilibrio, soprattutto
tra residenza e posti di lavoro, facendo in modo che attrezzature e servizi di uso più frequente fossero
facilmente accessibili da parte degli abitanti.
Nell’esperienza inglese delle New Towns il limite è fisicamente delineato per Londra e poi per altre grandi
città dalla green belt, mentre è definito in termini demografici per le città di nuova costruzione: dai 50-60.000
abitanti per le città del Mark I, fino a 250.000 per il Mark III.
All’indomani della seconda guerra mondiale la dicotomia tra dimensione della città e spazio che la connota
si accentua: il sovraffollamento, il conseguente degrado delle condizioni dell’alloggio, la lunghezza degli
spostamenti tra casa e lavoro, la restrizione degli spazi destinati a scuole, playgrounds, parchi e giardini e
l’abbandono delle campagne accompagnano la crescita urbana.

Milton Keynes assume la forma di una vera e propria rete di percorsi pedonali e ciclabili indipendente e
fortemente separata da quella automobilistica; le zone produttive, distribuite come tessere di un puzzle in
modi apparentemente disordinati entro una griglia che organizza e struttura il tessuto urbano, in realtà sono
poste, seguendo consolidati principi ubicativi, nei pressi della linea ferroviaria e dell’autostrada.
Qui viene soddisfatto il desiderio di molte famiglie di abitare in una casa monofamiliare con giardino, a diretto
contatto con il terreno, in prossimità di vasti spazi verdi, prendendo una giusta distanza dai luoghi di lavoro
ed eventualmente da vicini che pur sono stati scelti accuratamente per i loro connotati sociali.

Dalla fine del XVIII secolo, con l’emergere graduale dei ceti medi, si modifica un intero sistema di valori relativi
all’abitare. Esso si manifesta alla fine del XX secolo in ciò che viene usualmente indicato come
comportamento NIMBY (not in my back yard). Questa modifica di valori è all’origine della separazione tra
zone urbane destinate a differenti attività o gruppi sociali che verrà codificata nello zoning.
Oggigiorno il centro di Milton Keynes è stato ridisegnato: sono migliori gli spazi pedonali, coperti e climatizzati
in larga misura, è migliore il rapporto con le aree di parcheggio, è soprattutto leggibile la struttura spaziale;
ma ciò che colpisce è l’inversione dei valori che il centro di Milton propone rispetto al centro antico della città
europea. Al centro sono posti gli spazi del commercio, ai suoi margini le principali istituzioni culturali e civili.
Forse realisticamente la società contemporanea si rappresenta in uno shopping mall più che nella
magnificenza civile.
La città inoltre, è priva di semafori e ricca di circa 200 rotonde. Immersa in ampi canali verdi, e utilizzando la
topografia del luogo, essa è posta normalmente a quote differenti delle aree residenziali evitando in parte
l’inquinamento acustico.
Ogni area residenziale ha un numero limitato di punti di accesso ed è organizzata da una maglia stradale
minore che in alcuni casi riprende orientamento e misure riferibili alla maglia di base, ma il più delle volte si
snoda con percorsi tortuosi.

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Le aree verdi di Milton negano l’idea della green belt in favore di una rete di spazi verdi tra loro interconnessi.
Il greenspace web di Milton si pone obiettivi più importanti interpretando i temi che gli studiosi di scienze
ambientali propongono al disegno della città negli ultimi decenni del secolo: salvaguardare le aree che
possono essere considerate importanti riserve di naturalità, connetterle mediante ampi corridoi verdi,
costruire una rete di percorsi pedonali che consenta le pratiche sportive e l’accesso ai parchi, alle attrezzature
collettive e al centro commerciale.

Tuttavia, nell’opinione di molti, di alcuni dei suoi originali progettisti e dei suoi abitanti, Milton manca di
senso del luogo: troppo simile ad un patchwork e quindi poco leggibile.
All’inizio degli anni 60 il governo ritiene di dover porre un termine all’esperienza

CAP.5 EVENTI, PROCESSI, PERIODI

La città cambia seguendo un proprio e in gran parte autonomo percorso, spesso come conseguenza sia di
eventi locali, sia di processi più ampi e più lenti.

- Eventi.
Molti architetti e urbanisti sono divenuti sempre più partecipi di una nuova figura intellettuale e
professionale, meno radicata in una cultura locale e più aperta nei confronti delle suggestioni provenienti da
altre culture.
La circolazione di idee si fa più ampia e meno mono-direzionale; le sue basi materiali più chiare, legate a
interessi, persone e materiali che veicolano le conoscenze, a circostanze concrete nelle quali uno specifico
attore, un gruppo sociale o politico, un ingegnere, un urbanista o un architetto scava in una riserva di
conoscenze e di immagini, in un bacino semantico che si trova in un’altra parte del mondo.

- Processi.
Tutto ciò ha avviato processi lenti di trasformazione del modo di pensare la città: i loro risultati possono
spesso essere colti a grandi distanze spaziali e temporali.
I comportamenti dei singoli, dei gruppi e delle istituzioni sono cambiati in parte omologandosi, ma in parte
anche seguendo itinerari costruiti da legami a specifiche culture locali, professionali o religiose.

La città e il territorio divengono, nell’opinione di molti osservatori, una rete sempre più fitta, più estesa e più
difficile da decifrare.

- Tre questioni.
I tre racconti illustrati non cercano di riportare l’insieme eterogeneo di questi eventi e di questi processi a un
unico percorso; tanto meno cercano di suggerire una loro spiegazione.
Lo sfondo comune di questi tre racconti è l’emergere del soggetto, l’emergere del quotidiano e la progressiva
democratizzazione dello spazio urbano. Forse è solo alla luce di questa ricerca e delle questioni cui essa
tentava di dare risposta che possono essere compresi e giudicati alcuni poco amati, ma fondamentali, aspetti
della città e delle politiche urbane del XX secolo: la progressiva frammentazione e banalizzazione da un lato,
la progressiva burocratizzazione dall’altro.
Ciò che si teme ora è l’alienazione della vita sociale, la perdita del senso di appartenenza ad una classe o a
una comunità. Ciò che si teme è la dissoluzione della città; la dispersione, all’improvviso, appare più
pericolosa della degenerazione urbana della quale si era a lungo discusso lungo tutto il XIX secolo.
Molteplicità e unità, moltitudine e ricerca di un’unità di senso, costruiscono lungo tutto il secolo uno dei
maggiori problemi. Essi non sono però termini sinonimi di concentrazione e dispersione.
Ciò che sta avvenendo è l’emergere del quotidiano, della dimensione corporale e temporale della città.
L’attenzione al quotidiano connota tutto il XX secolo: evidentemente associato alla crescente autonomia del
soggetto, esso giunge, dopo un lungo periodo di rimozione e repressione ideologica, nell’astrazione della
città moderna, della corporalità e della differenza.

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La città diviene allo stesso tempo concentrazione, reinvenzione delle sue parti più antiche, modificazione
delle parti moderne, densificazione e rarefazione, produzione di nuovi luoghi centrali.

Per quanto riguarda lo spazio urbano, il XX secolo è non tanto il secolo della distruzione della specificità dei
luoghi e dei contesti, quanto della loro banalizzazione e continua riproducibilità offerta dall’osservazione
distratta dei loro abitanti e visitatori. Lo spazio pubblico è diventato un luogo della ripetizione burocratica e
quello privato sta diventando luogo della ripetizione.

- Ambiguità.
Delle descrizioni del quotidiano emerge il diverso rapporto tra vissuto, memoria individuale e memoria
collettiva, tra tempo individuale, tempo collettivo e spazio; emerge un’ansia diffusa nei confronti della cultura
della performance, nei riguardi della propria adeguatezza a prestazioni dagli incerti limiti e confini; il desiderio
di un ritorno ad uno spazio urbano concepito dai cittadini non come mero supporto di pratiche pre-codificate,
ma anche come occasione per l’invenzione di nuove pratiche o di nuovi modi di loro svolgimento, di nuove
derive. Più che aree funzionali o sociali nella città diviene possibile riconoscere luoghi attraversati e investiti
da pratiche differentemente tematizzate e con differenti temporalità che, come i loro differenti protagonisti,
si sovrappongono, intersecano, frantumano e disperdono.
La democratizzazione diviene il punto di partenza per una nuova riflessione sulle relazioni tra valori d’uso e
valori di scambio.

- Due linguaggi.
Ciò che connota il XX secolo è la continua oscillazione tra due linguaggi che affondano le radici in un passato
lontano: un linguaggio esplicito mediante il quale la nuova concezione dello spazio urbano si esprime
direttamente e in modo specifico, e un linguaggio implicito mediante il quale la stessa concezione dello spazio
si esprime attraverso enunciati di carattere generale e performativi destinati a far convergere le azioni dei
singoli, dei gruppi e dell’intera società.
Il XX secolo può essere interpretato come un periodo durante il quale questi due linguaggi tentano di
continuo di entrare in risonanza senza mai intendersi completamente.

La città di fine secolo appare agli occhi di molti come una città dominata dalla figura del frammento.
Le stesse ragioni forti e condivise che hanno costruito la città del XX secolo, l’apertura dell’isolato, la ricerca
dell’ottimo orientamento dell’edificio e dell’alloggio, i nuovi rapporti dimensionali tra spazio edificato e
aperto, ne sono ritenute le cause principali; cause difficilmente contrastabili entro una società costituita da
minoranze nelle quali si rispecchi l’emergere dell’autonomia del soggetto, dell’individuo, dell’impresa o
dell’istituzione come del suo gruppo di appartenenza.
La strada torna a ridursi, ritorna svuotata del suo valore per la collettività, ritorna ad avere puro ruolo tecnico.

NORTH-WESTERN METROPOLITAN AREA (NWMA)

All’inizio del XX secolo in Belgio viene adottata in modo consapevole una politica che tende a evitare che
grandi masse di popolazione e, in particolare, di proletariato, si concentrino nelle grandi città.
La costruzione della “periferia verde” belga è sospinta da una infrastrutturazione del territorio di rara densità.
Di fatto diviene possibile abitare ovunque, perché ovunque è possibile lavorare e trovare i servizi essenziali.
Nella regione compresa tra Bruxelles, Gent, Anversa e Lovanio, la densità di infrastrutture della mobilità
raggiunge punte elevatissime. La rete ferroviaria raggiunge la sua estensione massima negli anni 60. Il treno
rende inutile la strada e l’autostrada; è con il treno che può essere distribuita in luoghi diversi la “pizza”,
prodotto simbolo del just in time. Il treno diviene un ambiente domestico e attraente.
Una fitta rete ferroviaria ed autostradale collega oggi questa regione con altre. Si sta cosi formando la NWMA,
connotata da una forte dispersione degli insediamenti, entro la quale si trovano alcune importanti città
capitali sovra-nazionali, nazionali e regionali, molte aree produttive e i due più importanti porti europei.
Città come Gent propongono lezioni analoghe a quella di Siena.
Naturalmente vi sono anche tante anonime periferie e, soprattutto, un mare di case unifamiliari su lotto.

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La NWMA è allo stesso tempo una megacity, una world city e una global city. Questi termini non alludono
solo a situazioni e ruoli differenti della città, soprattutto della grande città, ma anche a luoghi, tempi e
contesti differenti.
Ovviamente il territorio non è tutto uguale: a regioni praticamente disabitate si alternano regioni
densamente popolate, aree con alto livello di benessere e altre con povertà.
La megacity propone un’immagine della città come: società della flessibilità, della competitività, di
un’ideologia del mercato come competizione, della disuguaglianza come stimolo alla emulazione tra
individui, gruppi sociali, città e territori, di chi corre dei rischi ed è premiato in casi di successo. Alle sue spalle
stanno, come ovvio, le delusioni procurate dal Welfare State, la sua incapacità di garantire nei fatti uno
sviluppo egualitario e diffuso, la critica degli apparati a della burocratizzazione.
Le megacities costituiscono un robusto reticolo tra le maglie del quale si distende l’arcipelago della nuova
forma di città. La parte più estesa della città diffusa europea non nasce attorno alle grandi città come loro
lontana ed estrema periferia, non ha alle proprie spalle un processo di suburbanizzazione che la faccia
assomigliare ai suburbs americani.

Urbanesimo e urbanità sono, alla fine del secolo, termini distinti.


Gran parte della città diffusa è immersa nella globalizzazione; è presente e competitiva nei mercati
internazionali; è disponibile nei confronti delle suggestioni che le provengono da altre culture e continenti
ed è percorsa da intricati sistemi di differenze.
Ciò che si sta dissolvendo nella NWMA non è la città, quanto alcuni concetti e le loro declinazioni.
Nella mixitè di attività e soggetti che connota la città di fine secolo si dissolve il concetto di funzione;
lentamente emergono i concetti di compatibilità e incompatibilità.
Si dissolvono i concetti di zona e gerarchia, mentre emerge quello di porosità.

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Scaricato da teresa de ambrogio (t.deambrogio@campus.unimib.it)

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