Sei sulla pagina 1di 73

AUGURI PER UN BUON 2013

L’ARCHITETTURA MO RALE DELLA CITTA’


Leonardo Caffo*

A Giuliana

«L'arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo


vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro»
Vasilij Kandinskij, Punto, linea, superficie

1. Città, una spe cie di “cosa”?


La città è il luogo principale in cui si sviluppano le relazioni sociali tra individui. In quanto tale la città non so-
lo è essa stessa un oggetto sociale, ma ne è un particolare tipo (un insieme di altri oggetti sociali). Inoltre, la città,
o meglio il modello architettonico attraverso il quale una città è costruita, influenza radicalmente la vita degli in-
dividui che la abitano. David Harvey sostiene (Harvey 2012) che la struttura attuale della città, in senso astratto,
dunque senza riferirsi a nessuna città nello specifico, non può essere ridotta a un diritto individuale di accesso alle
risorse concentrate nella città stessa: il suo argomento difende la tesi secondo cui è la città che va modificata in
modo da essere resa “ conforme ai nostri desideri più profondi” e non il contrario, ovvero quello che succede se-
condo prassi, secondo cui lo sviluppo della città debba seguire un modello autonomo rispetto ai bisogni degli a-
bitanti che saranno poi “ costretti” ad adattarsi. Secondo l’urbanista Charles-Edouard Jeanneret-Gris (Le Corbu-
sier), la città deve essere prima di tutto un modello di architettura votato alle esigenze degli abitanti (Jeanneret-
Gris 2011), in cui ogni edificio deve assolvere la funzione sociale di risposta ad una determinata esigenza. T utta-
via, e qui risiede l’errore di Jeanneret-Gris, che invece è superato nell’analisi di Harvey, la costruzione rimane
sempre qualcosa per un’entità astratta, e mai per un insieme di individui concreti quali sono i cittadini che vi de-
vono interagire. Sulla scia di queste concezioni, in questo articolo, verranno difese alcune tesi “ ad incastro”: (1)
la città è un oggetto sociale; (2) la città è un oggetto sociale composto (da altri oggetti sociali); (3) il modello ar-
chitettonico di una città deve essere un modello morale; (4) il modello morale impone che le costruzioni si adatti-
no alle esigenze degli abitanti, e non gli abitanti alle esigenze delle costruzioni.

2. Città come ogge tto sociale , e come suo insieme


Che la città sia un oggetto sociale è banale. Gli oggetti sociali, seguendo la classificazione standard (Searle
1996, Ferraris 2009), sono quel particolare tipo di oggetti di ordine superiore i cui inferiora sono dati da oggetti
fisici - per la città, ad esempio, la base fisica è data dall’insieme di costruzioni che la compongono ma, è ovvio,
che la città è “molto di più” che il suo insieme di pezzi – e quel “ di più” è ciò che la rende un oggetto sociale. È
questione assai controversa comprendere quale sia la teoria che spiega meglio il fenomeno della realtà sociale,
ovvero se la natura ontologica degli oggetti sociali sia spiegabile tramite una forma di realismo debole o di testua-
lismo debole (per cui io protendo), ma la disputa non è decisiva per classificare come “ sociale” l’oggetto “ città”.
Prima di tutto la città è un prodotto umano, e dunque non esisterebbe a prescindere dalla specie Homo Sapiens:
sembra un fatto banale, ma è proprio ciò che caratterizza la socialità degli oggetti, differenziandoli da montagne,
laghi o pianeti che, a prescindere da noi, esisterebbero comunque (anche se, ovviamente, non avrebbero i nomi
che hanno, ecc.). Inoltre la città è un oggetto sociale composto: tribunali, scuole, ospedali, ecc. che sono, a loro
volta, oggetti sociali, esistono al suo interno e in quanto parti della città stessa. Classificare come oggetto sociale
la città ci permette, già da un punto di vista filosofico, di parlarne come qualcosa di modificabile e di non neces-
sario: ad esempio, mentre è vero che la statua della libertà si trova necessariamente a New York (de dicto) non è
vero che necessariamente la statua della libertà si trova a New York (de re). Da questa analisi deriva la reversibi-
lità architettonica delle città, per cui possiamo sempre immaginare un cambiamento della struttura metropolitana
in quanto metafisicamente possibile.

3. La morale, a spasso in città


Conoscere la natura ontologica della città serve semplicemente a capire che, in quanto oggetto sociale, la città
è trasformabile senza impedimenti di sorta: nulla obbliga ad avere le città che abbiamo, con la loro struttura attua-
le. E lo stesso vale, ovviamente, per gli oggetti sociali che della città fanno parte. Ma la domanda da farsi, a que-
sto punto, è se ogni modello di costruzione è equivalente ad un altro o se, in senso assoluto, non sia possibile tro-
vare dei modelli migliori per certe caratteristiche. Come anticipato nel paragrafo uno cercherò di difendere la tesi
secondo cui la costruzione della città debba essere governata dall’idea morale esposta da Harvey (2012): non so-
no le persone a doversi adattare agli edifici, ma gli edifici alle persone. Difendere l’idea di questo specifico mo-
dello morale, come dettame architettonico, implica ovviamente la tesi secondo cui l’architettura delle città debba
essere in senso più generale “organizzata moralmente”. Gli oggetti sociali, città compresa, nascono per assolvere
a determinate funzioni: il rapporto che sussiste, o meglio che dovrebbe sussistere, tra individui e città, è logica-
mente sbilanciato – la città al sevizio del cittadino. T uttavia, soprattutto se si osservano i modelli di urbanizzazio-
ne delle prime città del mondo, la costruzione delle città sembra tener conto solo in parte delle esigenze di chi la
abita (scarseggiano case popolari, strutture per i diversamente abili, proliferano grattacieli disabitati, ecc.) mentre,
al contrario, si tiene conto delle esigenze di chi costruisce. Prima di tutto bisogna provare a capire perché una cit-
tà dovrebbe tenere contro degli abitanti, in secondo luogo, e argomenterò in questa direzione, dovremmo com-
prendere perché il modello architettonico debba essere votato alle istanze di coloro che nelle città vivono in modo
più disagiato – come i malati mentali, gli andicappati, gli anziani, gli animali randagi, i clochard, ecc.

4. Città per i cittadini


Organizzare le proprie vite in spazi comuni ha caratterizzato lo sviluppo della nostra specie, sin dai primordi
delle società stanziali del Neolitico. L’aggregazione e la stabilità hanno avuto la funzione di massimizzare certe
esigenze: costruire i primi agglomerati urbani scaturiva da rispondere a certi fabbisogni umani (Duque 2007). Ma
non è solo una questione storica, ma anche e soprattutto logica. Una città – dal termine civitas - etimologia di “ ci-
viltà” – è un agglomerato urbano che nasce per riunire certi gruppi di individui che cooperano, ognuno attraverso
la propria funzione sociale, al benessere e al funzionamento delle cose comuni (la “ cosa pubblica”). Edificare ha
la funzione di “ creare qualcosa per qualcuno”, esattamente come la casa serve per chi la abiterà, l’ospedale per
chi verrà curato, ecc. Una città che non è regolata da questo meccanismo di costruzione funzionale, non solo è
una pessima città, ma non è una città: non assolve alla sua stessa definizione, alla sua storia, ecc. Perché allora si
verifica il processo che abbiamo descritto, secondo cui il costruire non è più indissolubilmente legato all’uso dei
cittadini? Secondo Deyan Sudjic, la cui tesi appoggio (Sudjic 2011), in ogni cultura, per poter realizzare le pro-
prie creazioni, gli architetti hanno dovuto stabilire un rapporto con i ricchi e i potenti. Nessun altro ha infatti le
risorse per costruire: questo ha determinato uno sbilanciarsi dei benefici del costruire dalla parte di chi costruisce,
e non di chi usa. Gli architetti, sempre secondo Sudjic, non hanno avuto altra alternativa che scendere a compro-
messi con il regime al potere, qualunque esso sia (variazioni di epoca, cultura, contesto, ecc.). Per questo assi-
stiamo a quello che l’autore definisce “ complesso edilizio”: edificare diventa il mezzo con cui l’egotismo degli
individui si e sprime nella sua forma più pura. Si scatena qui, dunque, una contraddizione, giacché la “ città” è un
concetto sostanzialmente altruistico: tutti partecipano a una comunità, con i relativi compromessi, ma solo pochi
beneficiano da questo “ patto sociale”. In un senso, neanche troppo metaforico, potremmo dire che la città è la pa-
rente stretta del contrattualismo (una teoria del bene), così come lo ha formulato John Rawls secondo cui, la con-
dizione originaria in cui viene steso il “ velo di ignoranza” volto alla contrattazione, deve condurre a comunità in
cui ogni persona ha un uguale diritto e gode delle libertà fondamentali, compatibilmente con una simile libertà
per gli altri (Rawls 2008); inoltre, entro tale comunità, le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili
soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati (le ineguaglianze, in sostanza, sono giustificate se com-
portano un beneficio, in termini assoluti, anche per i meno avvantaggiati). La città è il luogo fisico, il prodotto di
questo contratto, e nella società di cui è espressione - nessuno deve avere né troppo, né troppo poco. Ma dato che
quanto sostenuto ( in Sudjic 2011) trova sostanziale conferma, sempre continuando con questo parallelismo, pos-
siamo dire che le città sono a misura di pochi che hanno gestito il contratto – ovvero i “potenti” che gestiscono le
costruzioni. In modo semplice possiamo definire del tutto scorretto un modello del genere: perché se tutti danno
qualcosa, tramite il lavoro e la partecipazione sociale ed economica, all’organizzazione della città in cui vivono,
allora tutti devono godere di una città a loro misura – in cui l’edificio è plasmato sulle esigenze di chi lo abiterà.
Per questo è necessario trovare “nuovi orizzonti” per la progettazione architettonica, che tengano conto di questa
analisi. Non solo, è anche indispensabile operare una decostruzione dell’architettura (Derrida 2008) realizzata,
tuttavia, cercando di inserirsi sin da subito negli spazi esistenti in modo pratico e istituzionale: modificando qui e
ora gli spazi inutili (o per pochi), inabitati e desolati delle città in luoghi di aggregazione tra i diversi membri del-
le comunità che la abitano.

5. Spazi dive rsi, pe r “i dive rsi”?


Questo progetto di città per tutti, proprio perché parallelo al contrattualismo filosofico, cade in problemi ana-
loghi: quale contributo danno alla città (e al contratto sociale, infatti) i diversamente abili, i malati mentali o gli
anziani, al tessuto di relazioni che crea il contesto abitativo? In realtà i rawlsiani hanno risolto parte abbondante
di questi problemi. Si potrebbe pensare, abbastanza ingenuamente, che le città contengano già spazi a sufficienza
per queste “ categorie di persone” – ospedali psichiatrici, ospizi, centri specializzati, ecc. Ma un progetto di demo-
cratizzazione della città, non può ignorare il ruolo di discriminazione giocato da questi posti specializzati. Non si
capisce (o meglio non è chiara la validità dell’argomento) la ragione per cui coloro che sono diversi dal paradig-
ma di normalità precostituito dovrebbero essere relegati in spazi a loro riservati, luoghi di isolamento totale dalla
vita standard delle città. Questi “ diversi” spesso sono parenti delle persone che definiamo “ normali”, potremmo
essere noi stessi futuri discriminati (ad esempio incorrendo nell’Alzheimer), ecc. Ma queste sono solo alcune del-
le ragioni “ indirette” per cui la città, e dunque l’architettura urbana, dovrebbe curarsi di questi soggetti. C’è una
necessità filosofica che impone all’urbanistica un occhio di riguardo verso queste categorie: ogni persona, indi-
pendentemente dalle proprie condizioni fisiche o mentali, è una singolarità che la città deve accogliere in modo
armonioso: nessuno deve essere discriminato, la struttura metafisica delle città deve tenere conto dei quodlibet
(Caffo 2012) – di ogni soggetto in quanto soggetto, e delle relazioni sociali che questo può intrattenere grazie, e
per mezzo, la città. In tal senso è meritevole il lavoro di Giuliana Frau che ipotizza (Frau 2009) una necessità di
cambiamento radicale degli spazi urbani, sulla ba se delle esigenze dei singoli più disagiati, partendo dal caso pa-
radigmatico dell’ Alzheimer. Secondo l’architetta, grazie alle acquisizioni scientifiche che abbiamo rispetto a ma-
lattie mentali degenerative, dobbiamo costruire parti della città per dare la possibilità a queste persone di vivere in
modo non disagiato, e in (quasi) autonomia, entro le città: ad esempio, Frau, ipotizza una continua ricerca
dell’abbattimento del confine tra il dentro e il fuori – la città deve essere una sorta di estensione della casa. Per i
malati di Alzheimer che, ad esempio, hanno problemi con i repentini cambi di illuminazione possiamo progettare
delle tettoie che filtrino gradualmente la luce tra l’interno della casa e la città: in modo da mantenere il più intatti
possibili i ricordi dell’individuo. Frau ipotizza poi percorsi per loro, ma che non siano diversi dai nostri, ovvero
integra senza discriminare prospettive esistenziali differenti attraverso stimoli olfattivi, uditivi e visivi che guida-
no l’individuo entro un percorso in cui è impossibile perdersi, ma soprattutto in cui è impossibile sentirsi smarri-
to. Il centro storico si ridisegna, nel progetto di Giuliana Frau, forte di una consapevolezza: sono se la città diven-
ta un luogo migliore e adatto per chi è più disagiato può esserlo davvero per tutti.

6. Sweet city, sweet home


La città, per il suo complesso ruolo sociale, deve cambiare e trasformarsi semplicemente tornando alle ragioni
per cui è stata concepita: l’unione di tutti, per il benessere di tutti. Lavori come quello di Giuliana Frau rappresen-
tano la realizzazione pratica (il progetto è stato effettivamente realizzato per essere applicato a Ozieri, in provin-
cia di Sassari) di certe idee filosofiche: non si parla di utopia, quando si descrive il modello architettonico come
un modello morale, di una via che va necessariamente seguita per massimizzare il benessere degli abitanti.

B ibliograf ia
Caffo, L. “ P er una metafisica dei quodlibet”, in A. Ramberti (a cura di), Scrivere per il futuro ai tempi delle nuvole informatiche, Fara Edi-
zioni, Rimini 2012.
Derrida, J. Adesso l’architettura, Sole 24 ore edizioni, Milano 2008.
Duque, F. Sull’abitare la terra. Ambiente, umanismo, città, Moretti e Vitali, Bergamo 2007.
Jeanneret-Gris, C. E. L’urbanistica, il Saggiatore, Milano 2011.
Ferraris, M. Documentalità: perché è necessario lasciar tracce?, Laterza, Roma – Bari 2009.
Frau, G (2009). Fra-m-menti. La dimensione urbana come nuovo modello di integrazione sociale, cura e supporto ai malati di Alzheimer,
Tesi di Laurea in Architettura, Università degli studi di Sassari.
Harvey, D. Il capitalismo contro il diritto alla città neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre corte, Verona 2012.
Rawls, J. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2008.
Searle, J. La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 1996.
Sudjic, D. Architettura e potere Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Laterza, Roma – Bari 2011.

Abstract:
Basandomi su (Harvey 2012) argomenterò che la struttura architettonica della città deve seguire un determinato modello morale: gli edifici
devono adattarsi alla persone e alle loro esigenze, e non il contrario. Definita la città come un particolare tipo di oggetto sociale, difenderò
la tesi della possibilità di cambiamento “ qui e ora” delle strutture architettoniche delle città sulla base del modello che, come mostra (Su-
djic 2011), è attualmente ribaltato in una situazione in cui gli agglomerati urbani seguono sostanzialmente una struttura che sposa le sole
esigenze dei costruttori. Una volta argomentato che la città deve tenere conto degli interessi di tutti, modificando di continuo le proprie
strutture, mi baserò su (Frau 2009) per sostenere che la città deve anche trasformarsi in un luogo in cui anche i “ diversi” (malati mentali,
ecc.) trovano un loro spazio non dissimile da chi è definito “ normale”.

* (LabOnt/Università degli studi di Torino)


S U ALCUN I MATERIALI IMMATERIALI PER L’ARCHITETTURA
Luigi Manzione

“ Malgré les nostalgiques de l’Histoire, Rome n’ est plus dans Rome, l’ architecture n’ est plus dans
l’ architecture mais dans la géométrie, l’ espace-temps des vecteurs, l’ esthétique du bâti se dissimule dans les
effets spéciaux de la machine de communication, engins de transfert ou de transmission, l’ art ne cesse de
disparaître dans l’ intense illumination des projecteurs et des propagateurs » .
P aul Virilio, Esthétique de la disparition, P arigi, Galilée, 1989 (1980), pp. 71-72].

Negli anni ’70 del Novecento, Luigi Ghirri lavorava intorno ad un inventario di soluzioni comunicative
dell’architettura a partire dai materiali, dalla ripetizione di forme e di moduli. Il suo progetto fotografico,
intitolato Catalogo, intendeva “ segnalare come il paesaggio progressivamente si uniformasse e si unificasse, e
come solo con un’attenzione microscopica, un’attenzione quasi spasmodica, si riuscissero a vedere le
differenze.”1 A distanza di più di trent’anni, che cosa resta di quel paesaggio, di quel movimento di
modificazione pervasiva del territorio – insieme di strategie e di pratiche più o meno spontanee – che ha prodotto
e continua a produrre, a fianco e in alternativa ai processi di pianificazione e di progettazione consapevole, una
generalizzata “ dissuasione al vedere”? Cosa resta di quel fiume in piena che ha travolto e portato con sé i
propositi e gli esiti di diverse generazioni di architetti italiani ed europei? Le note che seguono non pretendono di
fare un bilancio di una deriva di tali proporzioni, ma proporre qualche pista di riflessione partendo dal “nocciolo
duro”: i materiali del pensare e del fare architettura.
Le condizioni sono radicalmente cambiate. Gli universi dell’architettura e della città sono distanti anni luce
dal tempo in cui Ghirri ci accompagnava alla scoperta del “paesaggio italiano”: nelle dinamiche in atto, nelle
concettualizzazioni, nelle prospettive. Eppure un filo, esile ma resistente, non si è ancora del tutto slegato, se
ancora oggi – nell’epoca della non città o dell’anticittà – i meccanismi di formazione e riproduzione del
costruito, frammentario e disperso, sempre meno attribuibili a professionalità identificabili e qualificate, si
mantengono sostanzialmente omogenei (nei tipi, nelle forme, negli spazi), disegnando quella che Stefano Boeri, e
prima di lui Charles Lindblom in un diverso contesto, denomina la “poliarchia imperfetta” del paesaggio italiano
ed europeo.2
Nella costruzione e nell’immaginario degli spazi dell’abitare (in senso lato), siamo davvero di fronte al
prevalere di un paradigma poliarchico, per quanto imperfetto? Dal nostro punto di vista, rimane senz’altro la
necessità di osservare ancora microscopicamente e spasmodicamente in un campo di omogeneità e di differenze
diluite fino al parossismo. La diffusione sotto i nostri occhi di manufatti governati, almeno in apparenza, da un
principio di anarchia – tentativi individualistici di convertire spazi in luoghi, di aggregare pêle-mêle dimensioni
private e pubbliche, di far convivere attività, soggetti, potenzialità differenti e spesso incompatibili – è un
processo puramente casuale o sottintende, invece, regole più o meno formalizzate, seppure localmente
determinate? È possibile ragionare ancora di materiali – concreti e concettuali – nella e per l’architettura? Per
cercare di capire, mi sembra interessante traguardare tutto ciò da un’angolazione intermedia, ma non imparziale,
tra una serie di categorie assolute: materiale/immateriale, singolare/plurale, reale/virtuale, discorso/progetto,
realismo/utopia.

Mate riale /immate riale


Quando si parla di materiali viene subito in mente l’inclinazione verso le classificazioni, gli elenchi, gli
atlanti, gli abachi, ossia tutto ciò che attiene alla ripetizione, o alla ripetibilità: una postura ciclicamente ricorrente
in architettura. Ereditata dal positivismo, emendata dalla fenomenologia, riscoperta dal “pensiero laterale”, oggi
più che mai essa si esercita sulle singolarità, per quanto ripetute e ripetibili. Nel passato remoto si focalizzava in
prevalenza sui tipi (da Jacques-François Blondel ad Aldo Rossi), sulle forme (aulicamente definite “morfologie”),
sulle funzioni, sugli stili (vi ricordate di un certo postmodern?); nel passato prossimo sembrava invece
maggiormente concentrata sui layers, sulle mappe, sugli ipertesti, sulle connessioni. Il layering, inteso come
“ riordino di relazioni complesse entro una serie ordinata di relazioni semplici”3 , appare ancora una modalità
abbastanza flessibile, eppure perentoria, per orientare/orientarsi nel caos del tempo presente. Nel quale sembra
farsi spazio una riflessione nuovamente sensibile alle ragioni dell’architettura, alle sue componenti intrinseche e
non solo agli aspetti eteronomi che hanno a lungo monopolizzato l’attenzione degli operatori (a diverso titolo) e
dei media. Ma ci si può aggrappare, oggi, a ciò che resta in queste ragioni e in questi materiali di più “ semplice” e

1
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 69.
2
S. Boeri, L’Anticittà, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 8; Charles Lindblom, Politica e mercato. I sistemi politico-economici mondiali,
Milano, Etas Libri, 1979 (1977).
3
P . Viganò, La città elementare, Ginevra-Milano, Skira, 1999, p. 30.
di più “ elementare” – anche nel senso indicato da Ludwig Wittgenstein4 – per tentare di ricostruire una
immagine, la meno sfocata possibile, della realtà? Ha ancora senso, per noi, parlare di “ realismo”, per quanto
nobilitato o attenuato dagli attributi della “novità” e della “ criticità”?
Ora, nulla appare più genuinamente e costitutivamente semplice, né elementare. Ad una condizione siffatta si
può pervenire solo al termine di un processo e di una serie di mediazioni, non certo ritrovarvisi al punto di un
ipotetico “ inizio”. Semplicità ed elementarità sono connotazioni ormai difficilmente attribuibili a gli stessi
materiali, quelli solidi e consistenti.5 In una condizione aurorale, i maestri moderni – Mies, Le Corbusier, Aalto,
T erragni, per citarne alcuni – avevano fatto dei materiali e del loro impiego, ragionato ma “ sincero”, un punto di
dottrina, prima ancora che di poetica. Nei riguardi di que sti, e della loro riduzione/semplificazione, la storia
dell’architettura degli ultimi due secoli disegna una doppia parabola, di cui la prima, già interamente percorsa,
presenta la concavità verso l’alto. Il suo punto di flesso superiore si definisce nel periodo “ eroico” del Moderno e
coincide, se vogliamo, con il momento di maggiore espressività naturale, quindi “ semplice” ed “elementare”, del
materiale in architettura.
Negli anni ’40 del Novecento, la presentazione dei progetti di Frank Lloyd Wright, curata da Henry-Russell
Hitchcock, poteva ancora intitolarsi In The Nature of Materials.6 Con la crisi dell’International style, dopo la
metà del secolo scorso, inizia il tratto discendente di quella prima parabola, così come l’epoca in cui i materiali
concettuali dell’architettura assumono un’importanza progressivamente crescente rispetto a quelli concreti (alle
“materie”). Si apre allora una sorta di rottura epistemologica. T ali materiali vengono desunti, nel tempo, dalle
istanze e dai territori più diversi, non senza generare vere e proprie “ mistiche”: monumentalità, contesto,
linguaggi spontanei, preesistenze ambientali, memoria, identità/comunità, tipologia/morfologia, luogo,
infrastruttura, virtualità, reti, trasparenza, etc.
In seguito a quella rottura, anche su questo terreno le condizioni sono decisamente cambiate. Nella linea
volgarizzatrice dell’assunto nietzschiano secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni,7 il postmodern
avrebbe potuto affermare che, in architettura, “non esistono materiali, ma solo decorazioni”; più tardi, senza
troppo deviare da quella direzione, il decostruttivismo avrebbe potuto aggiungere che “ non esistono materiali, ma
solo riscritture (più o meno “ corali”), tecnologie (più o meno “ alte”) e riassemblaggi (più o meno infiniti). Oggi
ci ritroviamo sul limite inferiore della prima parabola, in prossimità del suo secondo punto di flesso. Di fronte
alla crisi globale che ci attraversa, al cospetto di una incognita decisiva eppure ancora enigmatica, ci si può
chiedere se la seconda parabola che va delineandosi – quella del terzo millennio – infletterà verso l’alto o
procederà verso il basso. Una riflessione sul realismo (e l’irrealismo) in architettura dovrebbe partire da questo
enigma.

Singolare /plurale
Appare dunque quanto mai necessario fermarsi e riflettere, in un’epoca come l’attuale in cui i materiali,
nell’accezione estesa del termine, sembrano essere già stati tutti sperimentati; in cui si è finito – per scelta o per
necessità – con il delegare ai software l’invenzione degli hardware per l’architettura, ossia di materie e metodi di
progettazione e di fabbricazione, in un contesto di possibilità solo virtualmente illimitate. A fronte di ciò, si
sarebbe tentati di concludere che oggi “non esistono materie, ma solo materiali”. Alle tradizionali categorie
attraverso le quali sono stati pensati e progettati i materiali e le tecniche, occorre quindi affiancare, se non
sostituire, altri strumenti di indagine e di sperimentazione, altri orizzonti di discorso e di invenzione. Non è infatti
casuale che, a partire dalla svolta del nuovo millennio, che innesca peraltro una nuova rottura epistemologica,
l’interesse degli architetti, teorici o pragmatici, sia rivolto prevalentemente verso gli elementi immateriali – come
la luce, i sensi, i suoni, etc. – e di quelli che sono stati definiti materiali “ ultramateriali”, la cui produzione è resa
possibile dall’utilizzo di nuove tecnologie sempre più raffinate.8
In un universo sempre più globalizzato, la relazione materiale/immateriale si gioca nelle pieghe di un’altra
dialettica, quella tra singolarità e pluralità. Nella omogeneizzazione infinita e nella estetizzazione generalizzata
del presente, le forme diventano valori in se stesse, degenerando talvolta in mostri. Come notava Jean
Baudrillard, “ un’opera è una singolarità, e tutte queste singolarità possono creare dei buchi, degli interstizi, dei
vuoti (…), nel piano metastatico della cultura.”9 Ora, occorre situare l’architettura esattamente su questo piano, in

4
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995 (1953).
5
Dovrei riferirmi, più precisamente, alle “ materie”, secondo la distinzione proposta da Vittorio Gregotti rispetto ai “ materiali”, i quali
formano un insieme più ampio: “ non solo la pietra, il legno o la terra, ma anche il clima, la storia, la geografia, le conoscenze e i desideri
(…).” (V. Gregotti, Architettura, tecnica, finalità, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 121).
6
H. R. Hitchcock, In The Nature of Materials, New York, Duell, Sloan and P earce, 1942.
7
Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Scelta di frammenti postumi 1886-1887, Milano, Mondadori, 1979, p. 235 (libro quarto, 7
[60]).
8
Cfr. T. Mori (a cura di), Immateriale‫׀‬Ultramateriale. Architettura, progetto e materiali, Milano, P ostmedia, 2004.
9
J. Baudrillard, Jean Nouvel, Les objets singuliers. Architecture et philosophie, P arigi, Calmann-Lévy, 2000, p. 39 (trad. mia).
cui anche il nulla può convertirsi in spettacolo; in questo magma, in cui il peggio che possa accadere alla
singolarità è di tramutarsi in ripetizione, saltando tutte le mediazioni di una estetica più o meno codificata, con la
disfatta totale dell’occhio e della mente. Del resto, saltare le mediazioni non appare affatto un’eccezione, ma
piuttosto un’attitudine consolidata nel mondo dell’architettura. Di fronte alla saturazione (e alla banalizzazione)
del visibile – alla disseminazione schizofrenica dei segni e degli oggetti sui territori –, l’alternativa sembrerebbe
consistere in una rinnovata e critica “ estetica della sparizione”,10 nella quale tenere una velocità che permetta di
guardare, tra assopimento e lucidità, nelle cose per scoprirvi – oltre le apparenze ingannevoli dell’immateriale,
che pure ci attraggono – gli ultimi residui di consistenza e di concretezza, le tracce superstiti di “ riconciliazione
del nulla e della realtà”.
T utto ciò, se denota una condizione desiderabile, o la meno temibile, non deve farci dimenticare che gli
interrogativi essenziali riguardano le mutazioni architettoniche e urbane in atto da quasi un ventennio; le
domande ancora senza risposta da queste sollevate, anche nel loro rapporto con la materia. Riproporre l’idea di
una materialità nuda e cruda non ha più senso. È altresì auspicabile che la nostra convivenza con l’immateriale,
che esperiamo ormai in un numero crescente di atti e di pensieri quotidiani (e che non si limita quindi al nostro
contatto con la leggerezza, la trasparenza, la luce, i dispositivi di comunicazione), si definisca attraverso nuove
forme di mediazione, e non per via di un’acritica, omologante accettazione dell’esistente. Il destino
dell’architettura, ammesso che ve ne sia uno, sembra propendere – dopo tante dichiarazioni di contestualismo –
verso la creazione di “ oggetti singolari” (nell’accezione proposta da Baudrillard, e non in quella di “ oggetti
celibi” tanto stigmatizzata, a giusto titolo, nel passato). T utto questo, peraltro, è abbastanza in sintonia con la
società degli individui in cui ci è dato in sorte di vivere, e con la differenziazione/uniformizzazione che la
caratterizza. Ma che cosa ne sarà dell’architettura come messa in forma e rappresentazione (materiale e
simbolica) della comunità umana?

Reale /virtuale
La domanda non è priva di interesse se si pensa che la nozione stessa di “comunità” si colloca ormai sulla
soglia mobilissima tra realtà e virtualità, tra le dimensioni, mutabili e commutabili, dell’apertura e della chiusura.
In questa prospettiva, saremo capaci di ripensare l’architettura – i luoghi domestici e quelli pubblici, i
superluoghi del commercio e dell’intrattenimento, le infrastrutture della velocità nella sua intera estensione, i
paesaggi sempre più artificializzati e mediatizzati – nei termini della rappresentazione di agglomerazioni virtuali,
di reti interconnesse ed extraconnesse che formano comunità solo in maniera desiderata o intenzionale (in
occasione di eventi, manifestazioni, raggruppamenti)?
E qui l’attenzione si disloca su un campo irto di contraddizioni, messe in luce peraltro dalla sostanziale
incertezza della riflessione disciplinare e del discorso critico dell’ultimo decennio, in particolare per quanto
riguarda i modi del progetto e della sua produzione, comunicazione e ricezione.11 Al di là delle molteplici
narrazioni più o meno significative del caos e dell’ordine, la difficoltà oggi evidente di elaborare strategie
progettuali e critiche di rappresentazione dimostra che la crisi dell’architettura – provocatoriamente innescata
dalle avanguardie storiche – è tutt’altro che superata. Una crisi non solo di paradigmi, ma di struttura; non solo
epistemologica, ma materiale (ossia sociale ed economica): reale, insomma, e non solo virtuale.
T anto reale che l’emergere di nuove ricerche in architettura sembra obbligato a procedere da un lavoro di
riflessione sulla crisi stessa. Non appare quindi azzardato affermare che l’orizzonte della contemporaneità ha
ormai azzerato tutte le categorie ordinariamente accompagnate al prefisso post (modernità, storia, sociale, umano
e perfino architettura), per mantenerne in vita una sola: crisi. Post-crisi, è dunque l’orizzonte e la sfida
contemporanea. Si direbbe che il “presente permanente”, teorizzato quasi trent’anni fa da Paul Virilio12 e
sbandierato con equivoco entusiasmo dalle piccole avanguardie al volgere del millennio, sia più ragionevolmente
da sostituirsi con un “ futuro effimero” o, meglio, aleatorio.
I presupposti per ritornare a riflettere sulle ragioni e le prospettive dell’architettura non mancano. Dovremmo
anzi operarne una accorta selezione in un panorama di ridondanze, in cui la qualità confina non di rado con il
“ rumore”. Nell’epoca dell’incertezza e dell’eccesso di sollecitazioni e materiali, occorre forse ripensare il
progetto in termini di maggiore realismo, come presa di posizione e sguar do orientato sul mondo, instaurazione
(questa sì permanente) di differenze nella uniformità (virtuale) del mercato globale. Da questa angolazione, e al di
là di ogni mistica della diversità ad ogni costo, il progetto può giocare di nuovo la carta della rappresentazione

10
Cfr. P . Virilio, Esthétique de la disparition, P arigi, Galilée, 1989 (1980).
11
Mi sono occupato di questi temi, di cui svilupperò nel seguito alcune implicazioni, in Luigi Manzione, “ Image, séduction, promotion.
P our une critique architecturale au-delà du divertissement”, Le Visiteur, P arigi, n. 11, 2008, pp. 6-18 e in L. Manzione, “ La critique, le
marché, le simulacre. La critique architecturale est-elle nécessaire? ”, in Hilde Heynen, Jean-Louis Genard (a cura di), Critical Tools.
International Colloquium on Architecture and Cities #3/NeTHCA, Bruxelles, La Lettre volée, 2011, pp. 157-167.
12
P . Virilio, L’Espace critique, P arigi, Bourgois, 1984.
della complessità e delle contraddizioni: senza limitarsi a riprodurne i caratteri esteriori ed evanescenti,
proponendo altri scenari possibili. Ma, per tentare tutto questo, non è opportuno affiancare, in prospettiva, alla
pura cartografia del presente uno sguardo non miope sul futuro?

Discorso/proge tto
Come si può costruire questo sguardo? Abbiamo assistito negli ultimi anni ai più disparati tentativi di fare
ricorso a risorse eteronome rispetto all’architettura, le quali non sembrano aver sortito effetti duraturi: il pensiero
filosofico, il gesto artistico, la retorica del computer e dell’informazione, la chimera della sostenibilità,
l’accettazione incondizionata del globalismo e della “ genericità” assunti a paradigmi, etc. Risorse diversissime
che hanno in comune solo la circostanza di essere state mutuate come giustificazioni spesso a posteriori, quasi
mai discusse come apporti interdisciplinari. Certo, ciascuna di que ste sollecitazioni ha contribuito ad estendere il
campo del dibattito, a tirarlo fuori dalla palude di posizioni ridotte al dogmatismo e all’accademia. Ma, in sé,
ciascuna di esse si è rivelata incapace di costruire uno sguardo – critico e poietico – per l’architettura. Sono
piuttosto i materiali derivanti da questo insieme di sollecitazioni a costituire un corpus importante per
l’architettura. E tuttavia, se si eccettuano poche aree di resistenza (e di marginalità), la produzione architettonica,
distaccandosi da una linea di fertile ricerca, si polarizza sempre di più, a mio modo di vedere, tra gli estremi dello
star system e di un mainstream sempre più al ribasso. In entrambi i casi, a sovraintendere è il pensiero unico del
mercato globale e delle sue capillari ramificazioni.
L’opposizione a questo pensiero unico non può più avvenire mediante un’antitesi totale come la “ forma
assoluta”, teorizzata di recente in Italia, ma lavorando piuttosto sui suoi interstizi, con una serie di operazioni
progettuali “pazienti” che, pur rielaborandone i materiali costitutivi, agiscano sui vuoti, sui margini, sulle fessure
delle architetture spettacolari del mercato globale, così da produrre degli exempla differenti. Occorre perciò
rimettere in gioco i materiali contemporanei sull’orizzonte della costruzione di situazioni architettoniche
singolari, rigorosamente definite nel loro valore esemplare e nelle istanze etiche e politiche di cui esse si fanno
vettori. Se occorre invocare un maggiore realismo, è per cercare di rendere meno distanti la produzione
architettonica e il mondo reale. Il mondo di chi la globalizzazione prevalentemente la subisce, o comunque non la
sceglie, piuttosto che quello di chi la promuove e la alimenta, facendone anche una rendita di posizione, magari
aiutato da disponibili archistar.

Realismo/utopia
Un’impresa di tale portata presuppone un progetto teorico e una visione radicale dell’abitare e del costruire
che, per potersi bilanciare tra realismo e utopia, non può fare a meno di interrogarsi sulle dimensioni del politico
e del potere. Come scriveva Ignasi de Solà-Morales, tutto si dà nella “possibilità di portare sulla scena la realtà, la
dialettica del Potere, dei poteri, per contrapporla all’evanescente illusione dell’architettura.”13 È in que sta messa
in scena che può disvelarsi il décalage tra discorsi e progetti, tra gesti mediatici che si riproducono in una pura
logica di firma e costruzione di oggetti/eventi architettonici suscettibili di avere qualche incidenza sulle
condizioni economiche e sociali. In un mondo in cui – lo rilevava già Scott Lash più di venti anni fa – l’estetica
ha colonizzato il teorico e, insieme, il politico,14 la realtà si è progressivamente allontanata nella
rappresentazione, come Guy Debord aveva a sua volta profeticamente indicato quasi mezzo secolo fa.15
In un contesto in cui l’architettura non ha cessato di ridursi alla propria immagine, di farsi “ corpo
immateriale”,16 è oltremodo difficile individuare, o ricostituire, elementi di mediazione tra ricerca e mercato, tra
cultura e consumo. Eppure, la sfida risiede proprio lì: nella capacità di distanziarsi tanto dalla pura materialità,
quanto dalla pura performance comunicativa. Perciò mi sembra utile rileggere l’invito incessantemente rivolto da
Manfredo T afuri – figura tanto dimenticata in Italia, quanto meditata in America e in Europa – alla
demistificazione, alla decostruzione di pratiche e discorsi solo apparentemente coerenti, significativi, effettuali.17
Nella “ società dello spettacolo” e della declinazione mondializzata del tardocapitalismo, esistono ancora i
margini per dare vita ad un’architettura meno omologa e più critica? Per elaborare un’architettura che sia in grado
di situarsi tra i due poli della e stetizzazione diffusa, quale strategia di le gittimazione formale della produzione e
del mercato, e della critica della società qual era stata agitata dalle avanguardie storiche, teorizzata dalla scuola di

13
I. de Solà-Morales, “ Oltre la critica radicale. Manfredo Tafuri e l’ architettura contemporanea”, in Decifrare l’architettura.
“Inscripciones” del XX secolo, Torino-Londra-Venezia, Allemandi, 2001, p. 138.
14
S. Lash, Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse, Roma, Armando Editore, 2000 (1990).
15
G. Debord, La Société du Spectacle, P arigi, Gallimard, 1992 (1967).
16
F. P urini, “ La forma storica della decostruzione nell’ architettura italiana”, in Bianca Bottero (a cura di), Decostruzione in architettura e
in filosofia, Milano, Clup, 2002 (1991), pp. 55-56.
17
Cfr . Man fredo Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Torino, Einaudi, 1980 (in particolare
il capitolo “ L’ architecture dans le boudoir”).
Francoforte e praticata dai radicals negli anni ’60? In un mondo sempre più borderless18 ma attraversato
dall’incertezza, l’architettura dovrebbe ritornare a riflettere sui limiti dei domini disciplinari che la lambiscono e
sulle possibili estensioni e intersezioni dei relativi campi di pertinenza. È in questa ottica che si potranno
rielaborare i materiali costituenti il suo “ nocciolo duro”, progettando una transdisciplinarità che sia qualcosa di
più di un semplice travestimento. Non si tratta certo di abbracciare una prospettiva utopica, ma di creare le
condizioni (teoriche, tecniche e poietiche) affinché sia possibile scalfire l’impero della immagine, della
seduzione, della promozione che permette oggi all’architettura di mantenersi in vita, e di autoriprodursi, in quanto
produzione di minoranze per minoranze. Solo così, forse, sarà possibile ricollocare l’architettura dove ha luogo il
gioco della realtà, da dove è stata a lungo estromessa per eccesso, o per difetto, di realismo.

18
Cfr. K. Ohmae, The Borderless World, New York, Harper&Collins, 1990.
CORPO, LUOGO. DISS MINAZIONE
Carmine Piscopo

Disseminazioni urbane, distruzione di ogni astratta tipologia, utopie di sradicamento e di connessione


attraversano, come nuove misure temporali e visioni sempre più rapide, gli orizzonti della città. Proiezioni,
queste, cui si contrappongono antichi bisogni. Se siamo ancora corpo, scrive infatti Massimo Cacciari1 , in noi
abitano anche il desiderio di protezione e di riposo, di accoglienza. Così la città appare oggi come il terreno di
una esposizione a domande e pulsioni tra loro antagoniste. Che mescolano, come in una generica zuppa2 , bellezza
con orrore, istanze di cambiamento con antichissimi bisogni.
Come e in quale forma, tutto questo sarà allora componibile? Se perfino il nomade costruisce luoghi e se le
favelas e gli slum sono pur sempre forme di costruzione di stanzialità, come potrebbe l’uomo contemporaneo
abitare diversamente? In definitiva, afferma Cacciari, “ Se siamo luogo, come potremo non ricercare luoghi?”3 . È
questo il ritratto di una sfida impossibile che parla del nostro corpo e del desiderio di protezione, giacché, ci
piaccia o meno, viviamo, e questo è un dato. Il semplice fatto di esistere ci mette in contatto con una prospettiva
dove si contraddice ogni fuga dal mondo e dal corpo, in un mondo dove il corpo, già prima di venire alla luce, è
trattato, tecnicamente e politicamente, come un flusso di informazioni che si innerva e si irradia in un ulteriore
fascio programmato di informazioni. Per una deriva continua, fatta di orizzonti assoluti, dove il dato, biologico e
vivente, è messo a dura prova in ipotesi di scambi impossibili4 .
Si può trattare realisticamente una prospettiva del genere? Quali strumenti e quali conoscenze, che non
fondino su promesse di benessere ispirate a politiche eterodirette, possediamo per governare questo robusto
insieme di contraddizioni? E, ancora, sono, queste, davvero, fino in fondo, contraddizioni?
Se le nostre città appaiono scisse, come forme letterarie, entro processi non componibili, invocare la nostra
stessa appartenenza al mondo, come un fondo comune che poggia su un principio universale, potrebbe rivelarsi
un’illusione oggettivistica. Allo stesso modo, riproporre una forma urbis tradizionale, come una figura ben
installata dentro di noi, invocando, come un reale perso, un ordine logico smarrito, potrebbe rivelarsi un radicale
sradicamento da ogni condizione contemporanea. Se la coscienza di una verità, scrive Maurice Merleau-Ponty5 ,
procede come il gambero, rivolta al suo punto di partenza, sembra piuttosto giunta l’ora di una ricerca che ci
avvicini al senso di una proiezione logica, o, meglio, diversamente logica, che comporti punti di innesto tra
configurazioni sin qui note. Come accade, ad esempio, nell’ipotesi lanciata da Maria Balzano6 , che affonda le
proprie radici nei dogmi delle religioni rivelate, secondo la quale ogni forma di collettività futura non potrà che
abitare il mondo secondo un duplice movimento “ nel quale il “ luogo” e l’“ itinerario” possano coesistere in
perfetta osmosi”. Giacché, la ricerca di una verità presuppone un movimento che non si sostanzia mai
dell’appropriazione di un luogo, quanto, piuttosto, di una spazialità simbolica, che è fatta di costruzione di
“ luogo” (come verità continuamente da oltrepassare) e di una disposizione al cammino (come una tensione
continua) per il suo raggiungimento. O, come accade, ad esempio, nell’ipotesi lanciata da Chiara Menchise7
contro ogni rievocazione celebrativa della nascita della Città di Roma a opera di Romolo, secondo la quale, il
medesimo atto fondativo della Città conterrebbe già in nuce l’atto stesso della deriva urbana a opera di Remo, nel
suo schernire il confine della Città, nel suo irridere l’atto sacrale di fondazione della Città. Come un gesto che già
rivelerebbe in trasparenza, diversamente da quanto accade nella polis greca, la Roma mobilis, ossia, l’apertura
senza fine della città. O, ancora, è l’ipotesi descritta da Aldo De Poli8 , secondo il quale abiteremo il futuro come
si mette in scena uno spettacolo e, in sé, il più grande spettacolo della meraviglia, nell’obiettivo seducente di
edificare, dentro gli spazi vuoti (cosa ben diversa dagli spazi della disgregazione o della perdita di relazioni),
luoghi di riparo, dove costruire il silenzio. Giacché, da Francesco Milizia in poi, sappiamo che l’architettura è

1
Cfr. M. Cacciari, La città, P azzini, Villa Verucchio, 2004.
2
R. Koolhaas, Cronocaos, XII Biennale di Architettura di Venezia, 2010, in C. Piscopo (a cura di), Rem Koolhaas. Cronocaos, in
“ Dromos” n° 2, Il Melangolo, Genova 2012, p. 82.
3
Cfr. M. Cacciari, op. cit. p. 138.
4
Cfr. J. Baudrillard, L’Échange impossibile, Éditions Galilée, P aris 1999; trad. it., Lo scambio impossibile, Asterios, Trieste, 2000.
5
Cfr. Merleau-Ponty M., La prose du monde, Éditions Gallimard, P aris 1969; trad. it., La prosa del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1984.
6
Cfr. M. Balzano, Paradisi da oltrepassare, in La precarietà innocente del dimorare nell’ottica spirituale di Emmanuel Lévinas e Michel
de Certeau. Tesi di Laurea in Filosofia, relatore F. Lomonaco, correlatore R. Pititto, Università degli Studi di Napoli Federico II, Facoltà
di Lettere e Filosofia, 2012.
7
C. Menchise, tesi elaborata nell’ ambito del Laboratorio di Composizione architettonica, Università degli Studi di Napoli Federico II,
Facoltà di Architettura, a.a. 2010-2011.
8
A. De P oli, Spettacolo, in Biraghi M., Felenga A., (a cura di), Architettura del Novecento I. Teorie, scuole eventi, Einaudi, Torino, 2012,
pp. 776-783.
“ arte civile” e, dunque, macchina produttrice di spettacolo. Visioni, queste, che appaiono decisamente più
convincenti di quelle futuristiche fondate sulla proiezioni in avanti delle condizioni attuali. Così, il futuro della
città, più che nella “messa in futuro” dello stato di dilacerazione del presente, sembra contenuto in un quadro di
riformulazioni logiche che ammettono un differente uso della ragione.
Se il contestualismo, e, parimenti, i suoi opposti, hanno intrattenuto con il luogo un rapporto di costruzione
logica, l’uso di una ragione flessibile ci spinge a sondare i terreni di una costruzione diversamente logica, fondata
sull’associazione di relazioni e di analogie a distanza, giacché l’intero universo della ragione fonda sulla sua
reversibilità. È, piuttosto, l’ipotesi avanzata da Julien Gracq9 , secondo il quale, più che a uno stadio lacaniano,
sembra essere giunti nel cuore della città, nel suo spazio vitale, come un nesso deformato dalla sua stessa
esperienza. È qui che la città sembra approfondire le sue prospettive come il replicarsi e l’intersecarsi dei suoi
giochi, “ in un impulso che non finisce mai di cambiare”. È a questa città che, ora, tocca giocare i dadi. Ancora
una volta, proprio come nel gioco delle ipotesi del Parmenide, il cui esercizio interminabile sta nelle strategie e
nel rivolgimento dei metodi, negli usi e nell’intersezione delle conoscenze, nel loro mutare e nel loro intersecarsi
in nuove costellazioni.
Se il contestualismo ha avuto bisogno di istituire una prospettiva fondata sulla costruzione di un “autentico”
realismo, inteso come la riduzione di fenomeni complessi in sequenze e concatenazioni logiche, basate su tipi e
contesti ripetibili, per poi perdersi nell’orizzonte delle dilacerazioni dei procedimenti analitici, del rigore delle
scelte, dell’eliminazione dell’arbitrio, secondo un taglio diviso tra reale perso e reale ritrovato, la ragione che
abbiamo oggi di fronte ci mostra ordini di fenomeni non più assoggettabili a definizioni tautologiche. Dove, a un
antico concetto di reale, mutuato attraverso la sfera del giudizio morale e del suo imperativo, si sostituisce la sfera
del visibile, della materia che fuoriesce dalla sua fenditura. Così, nell’indagare un dibattito che oggi attraversa la
città, abbiamo potuto rilevare spinte differenti e domande contraddittorie, secondo un taglio diviso tra visioni
apocalittiche, seducenti promesse di progresso, proiezioni in avanti e nostalgici richiami a immagini di una
ragione classica. Nella medesima convinzione che ci unisce alla riflessione di Massimo Cacciari, secondo cui “ La
città è sottoposta a domande contraddittorie. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre darle
forma. La città è il perenne esperimento per dare forma alla contraddizione”10 .

Oggetti vagabondi e cultura del sospetto: il Paese Reale


Un orizzonte di spinte diverse attraversa, dunque, la città. Da un lato, sono le visioni apocalittiche che si
ispirano al cambiamento, come alla fine dell’architettura, per guardare l’inesorabile germinare di gemmazioni
plurime di anticittà, nel loro proporsi come prove generali di apertura senza fine su orizzonti di distruzione e di
fine della città. È qui, che la città postfordista porta a compimento il proprio manifesto cinico e violento, fatto di
rassegnazione e di ripiego, mentre l’anticittà, come un processo di rimozione e di disgiunzione dalla nostra stessa
vita, si dispone piuttosto come la cattiva coscienza dell’architetto. Dall’altro, sono i venti, altrettanto violenti, del
ripristino di un ordine logico acquisito, fatto di regole, di conservazioni forzate, di profondi richiami alle culture
resistenti al cambiamento, portatrici di una sedicente razionalità profonda e trasformatrice. Dove, al pluralismo
della ragione e ai suoi giochi, si contrappone l’uso di una ragione cartesiana, o, almeno, di una delle sue possibili
immagini, che esibisce i territori di una rappresentazione lineare e parla un linguaggio in stile ancora monista. Un
dibattito, questo, che da tempo attanaglia la cultura italiana nel suo complesso, secondo un taglio diviso tra paura
del cambiamento, nostalgia del futuro e inquisizione del tempo presente. Dove, se da un lato si tenta l’azzardo
della chiusura dei conti con il Moderno e con tutto ciò che esso ha significato, Novecento compreso, dall’altro si
guarda ad una prospettiva dell’architettura come l’irradiarsi di una neutralità senza oggetto.
T utto ciò ha prodotto nelle nostre scuole, come nelle nostre amministrazioni, un’intransigenza culturale e,
insieme, un dibattito dilacerato e confuso, fatto di contrapposizioni e di punti di crisi, dietro cui emergono culture
élitarie11 nel loro fare riferimento, per un verso, a imprenditorialità forti legate ad assetti internazionali, per un
altro, fondate sulla conservazione dell’esistente e sull’irrigidimento dello status quo.
Dalle teorie dell’anticittà, all’“apocalipse town”, all’improvvisazione teorica che programmaticamente
compone, come in un collage di specchi franti, immagini di città desunte dal suo corpo, ai custodi rabdomanti di
un ordine smarrito, da ricercare in giardini che ancora si biforcano, è la città, la sua umile sottoveste12 , il suo
aprirsi al mondo, come all’insieme perverso delle possibilità dello spirito13 .

9
J. Gracq, La Forme d’une ville. Éditions Gallimard, P aris 1995; trad. it., La forma di una città, Quasar, Roma, 2001, p. 131.
10
M. Cacciari, op. cit., p. 1.
11
Cfr. A. Belli, G. Belli, Narrare l’urbanistica alle élite, Franco Angeli, Milano-Roma, 2012.
12
A. Rossi, Un’educazione realista, in A. Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi. Architetture 1959-1987, Electa, Milano, 1987, p. 71.
13
Cfr. A. Artaud, Le Théâtre et son double, Gallimard, P aris 1938; trad. it., Giovanni Marchi ed Ettore Capriolo, Il teatro e il suo doppio, a
cura di Gian Renzo Morteo, con prefazione di Jacques Derrida, Einaudi, Torino, 1968.
Un panorama, questo, che si riflette nelle nostre città, come nell’insieme delle pratiche ordinarie e
straordinarie che giacciono in attesa di parere sui tavoli delle commissioni edilizie14 , come sui banchi degli
organismi di tutela paesaggistica e ambientale, dove, come proiezioni delle nostre stesse teorie, queste pratiche ci
portano in un viaggio a ritroso dal realismo alla realtà.
È forse questo un punto che spesso sfugge ai nostri ragionamenti, al dibattito e all’osservazione. Ma, visto da
qui, da questo insieme multiforme e composito di procedure accatastate senza un legame di interdipendenza, il
Paese Reale sembra lo specchio delle nostre argomentazioni. Come una costruzione fantastica e, insieme, astratta,
fatta di perimetri, di zone, di costruzioni che interpretano sentenze che decifrano vincoli, queste architetture si
dispongono come variazioni su un tema di fondo, come aggiunte e addizioni libere di depositarsi su un Corpo
(una Repubblica, secondo Roberto Saviano) fondato sul cemento15 .
Questo vasto insieme di pratiche, figlio delle istanze del cambiamento, come dei desideri e delle proiezioni
collettive, così formidabilmente tutelato dalla Convezione Europea del Paesaggio, come dal mosaico scisso delle
Italie16 del territorio (la cui competenza è affidata ai Comuni), dell’ambiente (la cui competenza è affidata alle
Regioni) e del paesaggio (la cui competenza è affidata allo Stato), visto da qui, si dispone come il più grande
monumento che oggi possiamo mai osservare, la congerie di una produzione architettonica che parla il linguaggio
della fine della storia e narra della profonda solitudine dell’architettura. Un grande edificio, che fa ombra già al
futuro. Così, visto da qui, il giocattolo Italia si mostra come il corpo di una complessità, fisica e amministrativa,
divisa tra città a rischio sparizione, chilometri di costa battuti dall’erosione, entroterra che hanno perso antichi
legami, territori esposti all’incoerenza politica. Un “Paese senza paesaggio”17 , nel quale potenti icone che ne
narrano la bellezza cedono il passo alla subalternità di oggetti fantastici, liberi di poggiarsi come feroci simulacri
di città su ogni dove. È su questi tavoli, dove si disputa l’incontro-scontro di teorie, tecniche, modelli, simulacri,
che il nostro dibattito si infrange come un monumento allo stato nascente, un suo manifesto che ci rende tutti
esposti al più grande dei fallimenti. Secondo un taglio diviso tra oggetti vagabondi, culture del tramonto e,
ancora, culture del sospetto. Dove, al carnevale variopinto di oggetti migratori18 , si oppongono, come in un
rinnovato Internationl Style, il convenzionale, il pastiche, il métissage e il monumentale delle aree della
conservazione radicale19 .
Un paesaggio, in entrambi i casi, obsoleto, che si fa beffe della modernità e del progresso e simbolo di una
profonda immutabilità. Dove, alle promesse mancate del nostro tempo, si affiancano, in una luce fredda e senza
ombre, lucidi oggetti, come manifestazioni corporee di una cultura élitaria che muove veti e agisce il sospetto. È
l’arbitrio della conservazione forzata, la cui prospettiva, descritta da Rem Koolhaas in Cronocaos, non favorisce
ciò, che con un ossimoro, Koolhaas ha definito “ la preservazione del cambiamento”.
È da questa città, che richiama un sottomondo in tutto analogo alle condizioni di coabitazione alterata,
descritte da Peter Brook, o di soggetto senza storia, avanzate da André Malraux, che forse, oggi, si deve ripartire.
Come un dato necessario e irrinunciabile, fatto di spinte e di contrapposizioni diverse, che guardi alle nostre città
come macchine meravigliose e fragili, nel loro aprirsi all’eloquenza del paesaggio e alla sua modificazione, al suo
cambiamento più che al suo divenire. Straordinarie macchine civili, da sempre legate alla vita dell’uomo, per noi,
oggi, pietre d’attesa20 di ordini di complessità, di simultaneità, di seducenti organizzazioni dell’attualità. Per
costruzioni diversamente logiche, che ne prolunghino il movimento.

14
Chi scrive è P residente della Commissione Edilizia e della Commissione Locale P aesaggio del Comune di Napoli.
15
Cfr. Rumore di fondo, XII Biennale di Architettura di Venezia, P adiglione Italia, Venezia, 2010, F. Ippolito (cura), M. Cerreta, C.
P iscopo, V. Santangelo (responsabili di ricerca), D. Cannatella, M. C. Fanelli., R. Giannoccaro, S. Sposito (gruppo di ricerca), F. Lancio,
E. Micelli, F. Zanfi (consulenti).
16
“ Davanti allo scempio del paesaggio a cui assistiamo, sempre più chiara è la debolezza di questo sistema normativo. Non giova l'intrico
di norme e competenze, che non chiarisce se "territorio", "a mbiente" e "paesaggio", ambiti regolati da diverse normative e sotto diverse
responsabilità, siano tre cose o una sola. Esiste un "territorio" senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un "ambiente" senza territorio e
senza paesaggio? Esiste un "paesaggio" senza territorio e senza ambiente? Eppure "paesaggio" e "a mbiente" sono prevalentemente sul
versante delle competenze statali (ma di due diversi ministeri), mentre il governo del territorio spetta a Regioni ed enti locali. Una
ricomposizione normativa, per cui le tre Italie del paesaggio, del territorio e dell'ambiente ridiventino una sola, è al tempo stesso ardua e
necessaria”, S. Settis, La lunga guerra tra Stato e Regioni, “ La Repubblica” 28.11.2007.
17
Franco P urini, Un paese senza paesaggio, in “ Casabella” n. 575-576, 1991, pp. 40-47.
18
Cfr. A. Vidler, John Hejduck: Vagabond Architetture, in “ Lotus” n° 68, 1991.
19
Cfr. R. Koolhaas, op. cit.
20
Cfr. Henri Pirenne, Les villes du Moyen Age. Essai d'histoire economique et sociale, Lamertine, Bruxelles 1928; trad. it., Le città del
Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1971, cit. in D. Vitale, Le pietre di attesa, in La trasformazione delle aree dismesse nell’esperienza
europea, Bollettino del Dipartimento di P rogettazione urbana di Napoli, Argomenti n. 2, Napoli 1992,. 44.
IL PAES AGGIO COME COS A
Emmanuele Jonathan Pilia

A che fine tutta l'arte delle nostre opere d'arte se arriviamo a perdere questa arte superiore che è l'arte della festa?
Nietzsche

Raramente vi è stata una così grande produzione di oggetti come nel nostro secolo. Eppure, difficilmente
possiamo intendere che questa sclerosi consumistica ci abbia donato una eguale dimensione di artefatti, di oggetti
la cui forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato, ancora prima della sua effettiva realizzazione1 .
Questa condizione pone un problema, in quanto ci interroga sulla natura dell'artefatto. In esso, infatti, alberga un
duplice movimento, che seduce e respinge: quello dell'artifìcio contrapposto a quello dell'artéfice. Vi è una
distanza difficilmente colmabile nell'illusione creata della prima categoria, mentre vi è una estrema vicinanza nei
prodotti della seconda. In un era in cui tanto in arte quanto in architettura, si configura un predominio quasi
assoluto del primo termine sul secondo, emerge la necessità di ricercare il luogo dove quest'ultimo risiede.

1. L'assenz a dell'ope ra
In un contesto di apparente indistinzione, in cui i parametri di valutazione dell'arte e dell'architettura sembrano
smarriti o per lo meno in difficoltà, diventa fondamentale affrontare il problema posto dall'opera. La stessa
nozione di opera, intesa come un prodotto artefatto di una qualsiasi operazione artistica od architettonica, viene
già da tempo contestata, secondo un'attitudine tipicamente romantica, che ne vede il pieno compimento proprio
nella sua assenza. Attitudine nata dalla consapevolezza della velleità delle cose che l'uomo, l'artista, il genio
stesso crea. Queste, restando su una matrice romantica, proprio per la loro condizione finita possono rivelare una
dimensione infinita, e quindi di verità. Ma
tale abilità rimane relegato nell'hic et
nunc, oltre il quale la verità differisce dalla
cosa. È solo il momento creatore, e
l’istante immediato del completamento di
un’opera, ad aprirci alla verità. Da qui
l'idea di una produzione vertiginosa di
opere, in un inseguimento continuo
dell'infinito che volge inevitabilmente
all'autodistruzione. Ma dietro il dramma
romantico dell'impossibilità di fissare in
un'opera alcunché, si cela un'ironia
considerata da Friedrich Schlegel come la
rinuncia del soggetto a prestare attenzione
alla realtà materiale, quindi il non
prenderla sul serio, ed in qualche modo
liberarsi da essa. Walter Benjamin
sintetizza bene il paradosso dell'impossibilità della produzione dell'opera d'arte quando afferma che «uno dei
compiti principali dell'arte è stato quello di generare esigenze che non è stata in grado di soddisfare attualmente»2
(Benjamin 1966, p. 42). Paradosso che vorrebbe il prodotto artistico sempre in anticipo o in ritardo rispetto al
proprio tempo, e quindi mancare costantemente il proprio ruolo. Benjamin dopotutto è stato un attento interprete
del fenomeno delle avanguardie, le quali poetiche sono sempre state «attraversate, in modi più o meno espliciti,
da una idea della morte dell'arte, o, meglio, della morte e trasfigurazione, si potrebbe dire, pensando appunto alla
tematica dell'oltrepassamento dell'opera, dei suoi confini limitati, e del suo inveramento nella dimensione totale
della vita quotidiana» (Menna 1985, p. 18).
Non a caso, infatti, sono proprio le avanguardie che concretizzano, sotto diverse forme, l'idea di una vita come
opera d'arte, filiazione diretta di quella Gesamtkunstwerk wagneriana, che ambiguamente si pone proprio come
un tentativo di superamento dell'arte stessa. Il dadaismo è senz'altro il movimento che più si è avvicinato,

1
La definizione di Wikipedia, che ho trovato corretto riportare dato che mi rifarò nel saggio a questa, mi sembra molto più interessante di
quelle che offrono solitamente i vari dizionari della lingua italiana, che tendono invece a sottolineare la componente illusiva risiedente
nell'artefatto.
2
In realtà Walter Benjamin in questo contesto non parla strettamente della nozione di opera, bensì delle forme artistiche: lo stesso continua
il passo suggerendo che: «La storia di ogni forma d'arte conosce periodi critici in cui questa determinata forma mira a certi risultati, i quali
potranno per forza essere ottenuti soltanto ad un livello tecnico diverso, cioè attraverso una nuova forma d'arte» (Benjamin 1966, p. 42).
Anche se non direttamente, vi è un accento vagamente romantico nell'idea di superamento delle forme d'arte ormai obsolete.
fissando bene i canoni e la società del tempo, all'idea di un'anti-arte e di un superamento del manufatto artistico,
nonostante vi sia ancora presente la produzione di opere seppur queste fossero nient'altro che feticci. Per il
dadaismo infatti «la disgregazione ad oltranza dell'opera può avvenire solo attraverso un'altra opera cui si
attribuisce un carattere negativo» (Morroni 2009, p. 66), solitamente tramite la detronizzazione di un artefatto. Il
caso del para-dadaista3 Jacques Riga ut resta esemplare per descrivere l'essenza di questo tentativo di
oltrepassamento dell'opera: avviato ormai da tempo un processo di sottrazione dalla cultura occidentale, egli
procede, tramite la moltiplicazione della propria identità, verso l'abolizione della propria soggettività,
disconoscendo così l'idea di autore e quindi di opera. Accortosi di essere giunto alla tanto declamata vita come
opera d'arte4 , non può che esorcizzare questa condizione alla maniera dadaista progettando accuratamente il
proprio suicido5, come gesto di pare valore alla propria vita, ma con segno negativo.
Ad ogni modo, il suicidio di Rigaut rappresenta un gesto limite, un'azione senza ritorno ma che difficilmente
riesce a sottrarsi alle categorie dell'artistico. Occorre però rilevare come in tutte queste manifestazioni artistiche
nel cui centro non si presenta alcun oggetto vero e proprio, sia presente la ricerca di un rapporto più intimo ed
immediato con il mondo, con la vita, con il vero, il cui risultato è una attitudine creativa fortemente
soggettivistica ed una mortificazione ed uno svilimento dell'artefatto artistico6.
Il noto riflusso dadaista, voluto da Bréton e da T zara, all'interno del neonato surrealismo, ha portato alla
prosecuzione di alcune attività già perseguite dagli artisti dada, ossia le pratiche di visite-escursioni nei luoghi
banali delle città. Se questo atto rappresentava nella mente dei dadaisti un rifiuto dei luoghi canonici delegati
all'arte, verso una riconquista dello spazio urbano, nei surrealisti tali esperienze sono assimilabili ad «una sorta di
scrittura automatica nello spazio reale, capace di rivelare zone inconsce ed il rimosso della città» (Careri 2006, p.
5). Ma le sporadiche esperienze surrealiste e dadaiste del genere, arriveranno ad avere consistenza teorica soltanto
trent'anni dopo, quando, in seno alla costellazioni di correnti e movimenti che finiranno per convogliare
all'interno dell'Internazionale Situazionista, concetti come quello di deriva e psicogeografia arriveranno ad avere
una propria indipendenza teorica.

2. Ne w Babylon: la città come arte fatto.


I situazionisti, ed i lettristi prima di loro, contestavano infatti il carattere soggettivo ed inconscio delle
deambulazioni surrealiste. Essi miravano ad una sorta di metodo scientifico da utilizzare per la lettura del tessuto
urbano, visto come un terreno passionale oggettivo, il quale può essere mappato e descritto con margini di errore
trascurabili. Questo metodo è la pratica della deriva, che consiste in un vagabondaggio tra le pieghe di un tessuto
psicogeografico, formato, come da definizione, dagli «effetti precisi dell'ambiente geografico coscientemente
organizzato o meno, in quanto agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui» 7 (Lippolis 2002
pag, 43). Chi affronta la deriva, rinuncia, «per una durata di tempo più o meno lunga, alle ragioni di spostarsi e di
agire che sono loro generalmente abituali, concernenti le
relazioni, i lavori e gli svaghi che sono loro propri, per
lasciarsi andare alle sollecitudini del terreno e degli
incontri che vi corrispondono»8 (Lippolis 2002 pag, 47).
Così, sebbene in maniera meno teatrale e diretta che nelle
avanguardie dadaiste e surrealiste, anche l'azione
situazionista punta al superamento dell'autore, proponendo
«un'operazione artistica che, compiuta in gruppo, aveva il
potere di annullare le componenti individualistiche
dell'opera d'arte» (Careri 2001, pag 27). Dal punto di vista
dei situazionisti, questa rinuncia alla soggettività nella
lettura dello spaccato psicogeografico è necessaria
affinché le parti di aleatorietà siano meno determinanti possibile: lo spazio urbano si rivela infatti come il
prodotto di affettività e relazioni, nel quale il singolo, o il gruppo, è dissolto con un fare impressionista: i contorni
sono sfumati in varie gradazioni, le quali per essere lette necessitano la giusta distanza critica. Chi si lancia alla

3
Rigaut non può definirsi tout court come dadaista: infatti, anche se partecipò ad alcune azioni dadaiste ed anche ad alcune pubblicazioni,
non aderì mai pienamente al movimento fondato da Tzara.
4
Morroni affer ma: « La sua esperienza di vita è stata interpretata come un'azione artistica, un'esistenza voluta e vissuta sotto il segno
costante dell'eccesso e del dispendio» (Morroni 2009, p. 63).
5
È da segnalare che il suicidio è un tema costante degli scritti di Rigaut.
6
Sono interessanti a tal proposito le considerazioni di Giuseppe P atella nel suo saggio: Dov'è l'opera? Arte, teorie e nuove parole d'ordine,
in Àgalma, rivista di studi culturali ed estetica n. 17, Mimesis 2009.
7
Il passo è tratto da Guy Debord, introduzione a una critica della geografia urbana del 1955, riprodotto nel testo in Lippolis 2002,
riportato in bibliografia.
8
Il passo è tratto da Guy Debord, Teoria della deriva del 1956, riprodotto nel testo in Lippolis 2002, riportato in bibliografia.
deriva, è spinto (o respinto) unicamente dall'attrito provocato dai rilievi, vortici o vettori che la psicogeografia
produce, ed è quindi condizione necessaria lasciarsi andare.
Ma tanto la deriva, quanto la psicogeografia, non restano pratiche autoreferenti, come invece le analoghe di
trent'anni addietro: alla base di queste vi è infatti il tentativo di superare la geometria euclidea, la quale si fonda
su una visione esclusivamente quantitativa dello spazio, per valutare invece il gradiente di influenza emotiva con
cui lo stesso condiziona il comportamento dell'uomo9 . Ricerche che confluiscono nella teoria dell'urbanistica
unitaria, definita come «la teoria dell'impiego d'insieme delle arti e delle tecniche concorrente alla costruzione di
un ambiente in legame dinamico delle esperienze di comportamento»10 (Perniola 1998, p. 17). All'interno
dell'urbanistica unitaria ha una grande importanza la nozione di Situazione, momento della vita costruito tramite
l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario, secondo Debord «così fatta per essere vissuta dal suo
costruttore», ed idealmente replicata secondo l'indole e le pulsioni degli uomini.
Per quanto anche nella situazione l'intento è quello di sfuggire all'opera, è difficilmente possibile inserirla
all'interno delle categorie del superamento dell'arte così come inteso dalle avanguardie. È invece possibile
osservare la presenza di un reflusso romantico, in cui in qualche modo si manifesta quell'ironia schlegeliana a cui
già si è accennato. Se la produzione romantica tende infatti al consumo delle energie creative dell'artista
concentrato su un fare e disfare potenzialmente eterno, la situazione, tramite la manipolazione di materiale
linguistico tra il più eterogeneo ed improbabile11 , tende a costruire un nuovo habitat che non può cristallizzarsi
semplicemente nella costruzione di edifici, bensì necessita di un ambiente continuamente rielaborato, in modo da
poter provocare «nella realtà urbana i momenti di quella che sarebbe potuta essere la vita in una società più
libera» (Careri 2006, p. 76). Società che non può che prevedere una rivoluzione antropologica, di cui il prototipo
è l'Homo Ludens di Johan Huizinga. Costant aveva capito che l'Homo Ludens era l'abitante ideale della città
situazionista, la New Babylon, prototipo delle successive esperienze megastrutturiste, unico artefatto possibile di
una civiltà nomade che rinuncia alla reificazione dei propri sforzi in opere. È attraverso la proposta della New
Babylon da parte di Costant che gli sforzi situazionisti prendono per la prima volta forma in un progetto concreto
ed unitario, tanto da catalizzare le energie dell'intero movimento per un periodo significativo. L'idea che sottostà
il progetto di New Babylon è infatti quella di una città ludica potenzialmente estendibile all'intera terra emersa,
costruita da una collettività in eterna deriva, intenta a costruire e ricostruire all'infinito il proprio paesaggio
artificiale, spinta unicamente dalle proprie pulsioni, e quindi influita a livello globale dalle correnti
psicogeografiche. Sarà il nomadismo quindi «a dar vita all'architettura facendo emergere la necessità della
costruzione simbolica del paesaggio» (Careri 2006, p. 16).

3. New Ne w Babylon
Il progetto di New Babylon, successivamente all'uscita dello stesso Costant dal gruppo, sarà più tardi
abbandonato dagli stessi situazionisti, i quali ormai si preparavano a spostare i propri interessi sul fronte della
politica. Ma le ricerche non rimasero orfane per molto. Intere generazione di architetti, con l'intento di
contaminarvi le più varie esperienze ed utopie architettoniche, ripresero in mano l'idea di un contesto
architettonico capace di condizionare la nascita di una nuova società utopica, o quanto meno di supportarne la
crescita. Ma questi tentativi affondavano le proprie basi su ideologie assimilabili alle dottrine nate in seno alla
rivoluzione industriale, offrendosi come opere architettoniche chiuse, attente soprattutto ad un rinnovamento dei
caratteri stilistici. La prescrizione di Costant che vedeva New Babylon realizzata secondo le forme che gli stessi
neobabilonesi avessero inventato, verrà così tradita dalle invenzioni grafiche e spaziali dello stesso ideatore.
Certo, l'aver fissato la propria ideazione in una proposta formale dai caratteri ben precisi è stato fondamentale per
la diffusione del messaggio, ma ciò ha allo stesso tempo significato il malinteso di una New Babylon rigidamente
impostata sul modello offerto. Per poter attualizzare il discorso situazionista, si rende così necessario
abbandonare ciò che emerge dalle immagini, per tentare la ricerca di una certa purezza infantile nella situazione.
Purezza che è possibile trovare nelle attività del gruppo Stalker, ma anche in altre realtà, come quelle proposte da
Oplà+, gruppo veneziano che focalizza la propria attenzione nell'inserimento, in paesaggi abitati, di elementi
minimi tali da catturare l'attenzione di fruitori, i quali non possono che essere occasionali e che vanno a

9
Questa è in realtà una ricerca che a più riprese si è presentata nel corso della storia dell'arte, ma soprattutto dell'architettura. Le ricerche
situazioniste sono però da porsi, a mio avviso, su un punto di vista privilegiato, essendo per la prima volta coscienti ed autodirette in tal
senso. P er un quadro più esaustivo riguardo questa tematica consiglio la lettura del capitolo terzo de Tracciati d'invenzione di Fabio Quici,
Euristica e disegno dell'esistente.
10
È importante sottolineare che come la deriva non era concepita come una pratica artistica, ma uno strumento di indagine, anche
l'urbanistica unitaria non era concepita come metodologia di progettazione della città, ma bensì come una critica all'urbanistica moderna.
Anche in questo caso i situazionisti hanno cercato di sfuggire all'idea di opera o progetto.
11
Anche questa pratica rientra nel ricco glossario situazionista, con il nome di détournement, definita da Debord come l'«integrazione di
produzioni attuali o passate delle arti in una costruzione superiore dell’ ambiente» .
contaminare con la loro presenza e le loro manipolazioni tanto il paesaggio, quanto la visione del paesaggio che
essi hanno. Per quanto l'intento non sia dichiaratamente situazionista, emerge così una situazione12 .
Situazione che però è da porre con fare ambiguo se relazionata ai lavori che hanno come destinazione fruitiva
la sede virtuale, ove emergono in tutta la loro ambiguità le difficoltà valutative prima citate. Se ci limitassimo allo
studio dei soli mondi virtuali, è possibile ritrovare i frutti di ciò che New Babylon rappresenta la radice. Gerosa a
tal proposito non ha dubbi, essendo i Mondi Virtuali tre volte mobili: «Uno: perché non hanno confini e non sono
recintati, sono sempre in espansione. Due: perché sono abitati da gente in buona percentuale nomade. Tre: perché
per loro natura questi luoghi dovrebbero
scomporsi e riaggregarsi continuamente,
seguendo nuove associazioni» (Gerosa
2008, p. 77). Chi si occupa di creare
paesaggi ed oggetti, o chi
semplicemente vaga per i Mondi
Virtuali non avrebbe quindi un
comportamento troppo diverso da
quell'Homo Ludens che sarebbe
destinato a raccogliere l’eredità
dell’Homo Sapiens, dato che egli
«creando il suo territorio da esplorare, si
occuperà di esplorare la propria
creazione» (Careri 2001, p. 36). La
deriva a cui si presta l'utente dei Mondi
Virtuali sarebbe quindi del tutto
naturale, il ché forzerebbe un avvicinamento tra questi e una
possibile attualizzazione di New Babylon, soprattutto se
prendiamo per buono l'auspicio di Gilles Ivain (alias, Ivan
Chtcheglov) che vedeva la costruzione della nuova città come un
processo spontaneo nato da «un senso della vita rinnovato e
contagioso» (Lippolis 2002, p. 11). Quali processi però potrebbero
portare a realizzare tale occupazione simbolica dello spazio
tramite situazioni? Interessante è la risposta offerta da Fabio
Fornasari, artista ed architetto attivo in Second Life sotto lo
pseudonimo di Asian Lednev, che, tramite il progetto Torre di
Asian, ripropone quella già descritta nascita dell'architettura
tramite l'erranza. Prendendo spunto dal romanzo collettivo
omonimo, curato da Lorenza Colicigno, alias Azzurra Collas,
Fornasari viene proposta la costruzione di un elemento totemico,
attorno alla quale si svolgono gli eventi narrati nel romanzo.
Eventi che andranno a trasfigurarsi sulla pelle istoriata e traslucida
della torre, la quale presenterà sulla propria superficie la
narrazione stesa dagli autori. La lettura diventa così non solo
metafora di un percorso, ma per essere attuata necessita di quel
vagare sospeso tra pulsione emotiva e curiosità istintiva di cui la
deriva è pratica collaudata. La lettura dello spazio tramite tessuti
psicogeografici diventa lettura di un'artefatto allegorico
rappresentante un intreccio di relazioni fatto paesaggio, nel quale
gli stessi autori vi sono come incastonati, essendo impossibile la
loro esclusione dal discorso: essi sono parte integrante delle
relazioni che intrattengono, così come essi sono parte integrante di
tale allegoria, e quindi di tale paesaggio. Paesaggio che, proprio
come New Babylon, è l'unico artefatto ipotizzabile in una società
di corpi fatti cosa, di corpi reificati.

12
A tal proposito, mi piace citare LIU, progetto proposto dagli Oplà+, che prevede l'innesto di un ambiente scatolare da inserire in contesti
pubblici. Le sagome che questo porta in sé consentono la penetrazione, e la possibilità di osservare il paesaggio circostante sotto diversi
profili. Il paesaggio viene così ricostruito in base alla posizione che tale ambiente assume, o che i fruitori vogliono che esso assume.
L'esperienza ha dimostrato che la presenza di un elemento inaspettato in ambienti banali suscita la curiosità dei passanti, che si
avventurano alla scoperta della situazione qui offerta.
4. Il corpo fatto cosa
È doveroso a questo punto contestualizzare la reificazione dei corpi in ambiente virtuale illustrata da Fornasari
in un contesto più ampio. Diodato, nel tentativo di illustrare un'o ntologia del corpo virtuale, descrive tale
ambiente come «caratterizzato in quanto ambiente da un insieme di corpi virtuali che non sono corpi
dell'ambiente o nell'ambiente, ma coincidono con esso» (Diodato 2005, p. 13). L'ambiente virtuale, quindi, non
può che manifestarsi nell'interattività col fruitore, il quale così si dissolve in esso. Occorre però notare che, se è
vero che è tale paesaggio ad essere l'unico artefatto ipotizzabile in una società di corpi fatti cosa, è altrettanto
vero che in ambiente virtuale «ciò che è percepito dall'utente come cosa è in realtà un evento, [...] esiste solo [...]
come funzione di relazione interattiva» (Diodato 2005, p. 25), contraddicendo in parte la propria natura cosale.
La Torre di Asian si presta quindi ad essere considerata non come cosa, ma come evento, come situazione, la
quale attualizzazione è quella di un'apertura di rapporti (Bezüge) che per Heidegger è inseparabile alla nozione
di mondo, ovvero un tessuto irriducibile di rimandi di senso, di apertura di rapporti. Ma l'uso del lessico
heideggeriano qui si fa problematico: egli infatti invita ad identificare il luogo con la cosa che lo occupa,
introducendoci alla nozione del luogo-cosa, in cui «è la cosa stessa che, per così dire, si fa corpo. Il farsi corpo
(Verkörperung) della cosa da origine a luoghi ed apre l'esperienza dello spazio» (Perniola 1985, p. 19). Ci si trova
quindi davanti ad una contraddizione di termini: se l'azione di trasposizione signica di Fornasari non può
concretizzarsi pienamente in un artefatto, la dissoluzione delle esperienze dei singoli soggetti che hanno
partecipato al progetto, non può considerarsi letteralmente reificata, fatta cosa. Ci ritroviamo quindi di nuovo di
fronte all'idea di una produzione artistica che rifiuta l'o pera, ma che rifugge anche lo spettacolo di una società di
spettatori divenuti attori, alla maniera situazionista per intenderci. Per risolvere tale problematica lasciata aperta,
ossia la difficoltà di individuare una reificazione, un farsi corpo di un artefatto che eppure si manifesta, dobbiamo
riconsiderare tale paesaggio di cui si è parlato come una contrada così come intesa da Heidegger, ossia una
libera vastità in cui l'uomo si pone come tramite di rapporti, ovvero di quel tessuto di cui è formato il mondo.
Dunque affiancare la vita quotidiana alla nozione di paesaggio significa considerare lo stesso non come sfondo di
un palcoscenico su cui l'uomo recita la propria parte, bensì appunto come paesaggio-cosa formato da una rete da
cui l'uomo-cosa non può essere escluso, perché, come già detto, egli è parte integrante delle relazioni che
intrattiene. «Ciò implica un dissolversi dell'individualità nella pluralità, nelle molteplicità, un disseminarsi di
presenze che restano tuttavia connesse, collegate tra loro, in modo libero, aperto» (Perniola 1985, p. 26).
È possibile quindi giustificare la natura artefatta di New Babylon ed i Mondi Virtuali nella loro complessità
tramite la nozione di paesaggio: entrambi infatti possono rappresentare tale paesaggio, poiché entrambi sono
dispositivi pensati per essere utilizzati come trame di relazioni di chi vi si immerge come in un paesaggio. La
metafora del paesaggio diviene concreta nella pratica: tanto New Babylon, quanto i Mondi Virtuali, sono
concepiti per essere trasfigurati dall'esperienza di una società per la maggior parte nomade, la quale ha deciso di
reificare i propri sforzi nell'unico artefatto ipotizzabile nel regime di storicità dell'assenza dell'o pera: il paesaggio.

Bibliografia

Benjamin W., L'opera d'a rte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, introduzione di Cesare Cases, nota di
Paolo Pullega, Einaudi, Torino, 2000 (1.a ed. 1966).
Careri F., Walkscape. Camminare come pratica estetica, Einaudi Editore, Torino, 2006.
Careri F., Costant. New Babylon, una città nomade, Testo & Immagine, Torino, 2001.
Diodato R., Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano, 2005.
Gerosa M., Rinascimento Virtuale. Convergenza, comunità e terza dimensione, Meltemi Editore, Roma, 2008.
Gerosa M., A mondo mio, in Exibart.onpaper n. 57, Firenze, 2009.
Heidegger M., Sentieri interrotti, a cura di Paolo Chiodi, La nuova Italia, Firenz,e 1968.
Lippolis L., Urbanismo Unitario, un'antologia situazionista, Testo & Immagine, Torino, 2002.
Menna F., Opera e Scrittura, in Figure, teoria e critica dell'arte n. 12, Kappa, Roma, 1985.
Morroni A., Jacques Rigaut, Scrittore senza opere, in Àgalma, rivista di studi culturali ed estetica n. 17, Mimesis,
Roma, 2009.
Patella G., Dov'è l'opera? Arte, teorie e nuove parole d'ordine, in Àgalma, rivista di studi culturali ed estetica n.
17, Mimesis, Roma, 2009.
Perniola M., Lo spettatore-cosa, in Figure, teoria e critica dell'arte n. 12, Kappa, Roma, 1985.
Perniola M., I Situazionisti, il movimento che ha profetizzato la «Società dello spettacolo», Castelvecchi, Roma,
1998.
Quici F., Tracciati d'invenzione, Euristica e disegno di architettura, UT ET Libreria, Torino, 2004.
INTERVIS TA A PATRIK S CHUMACHER
Mario Coppola

M. C. - Le Corbusier enunciò i famosi cinque punti del Modernismo: quasi nessuno degli architetti che si limita-
rono a seguire pedissequamente quei dogmi colse lo spirito dell’architettura di LC. Come ha scritto G. Carlo
Argan, si trattava invece di restaurare, purificare e rappresentare i valori tradizionali della società occidentale
espressi a partire dalla figura del Partenone, con l’armonia delle sue proporzioni, la struttura trilitica e
l’ortogonalità come tratti principali della composizione. Nel manifesto del “Paramatricismo”, anche tu hai e-
nunciato una serie di tabù e dogmi linguistici a proposito del nuovo stile che proponi. Pensi che la semplice os-
servanza di quelle regole grammaticali e sintattiche permetterebbero ad un architetto di talento di progettare
una buona architettura d’avanguardia?

P. S - Dunque, prima di tutto io non chiamo i principi che ho formulato principi “ linguistici”. Sono principi euri-
stici che guidano il processo della progettazione. Essi danno una definizione operativa del Parametricismo. La
mia formulazione di questi principi si basa sull’osservazione: ho guardato ciò che noi ed altri architetti abbiamo
fatto negli ultimi dieci, quindici anni, ciò che gli studenti globalmente stanno facendo, ed ho analizzato il genere
di valori e di tratti che questi lavori condividono. Ed “ Euristica” significa un certo tipo di regole che vengono ri-
spettate nell’elaborazione di un progetto: che cosa evitare per non ricadere nei vecchi sistemi, per ottenere una
netta linea di demarcazione rispetto ai vecchi stili, e come iniziare il progetto e portarlo avanti attraverso specifici
stadi di progettazione. Così, per fornire una chiara ipotesi di ricerca, occorre negare con chiarezza certe modalità
di lavoro, ad esempio occorre evitare rigide figure platoniche come il cubo, il cilindro…

M. C. - Il rischio, qui, è che si dica: “fai questo, non fare quell’altro”. Ma siamo sicuri che lo spirito del nuovo
che proponi sia proprio in questi dogmi e tabù?

P. S. - Certo, l’uso di termini come “ dogma” e “tabù” implica una sorta di provocazione, proprio ad enfatizzare la
pervicacia di queste regole nella nostra comunità progettuale. Uso questi termini anche per riconoscere che non si
devono ri-pensare, ri-formulare criticamente valori e principi ad ogni nuovo progetto. C’è un momento di pensie-
ro critico, di valutazione critica delle differenti opzioni e dei differenti modi di andare avanti e poi, una volta sta-
biliti alcuni principi, si lavora affidandosi ad essi, senza rimetterli più in discussione. Essi diventano dogmi de
facto. Per la maggioranza degli architetti non c’è neanche una decisione consapevole di affidarsi a questi principi,
si tratta di un filtro e di una selezione collettiva di certi modi di lavorare in sede di sperimentazione.
C’è stata l’influenza della lettura di Deleuze, Guattari, Derrida e l’interesse per i sistemi naturali e la teoria della
complessità. Questo impegno intellettuale è stato fonte di ispirazione per la formazione del Parametricismo.
Da ciò emerge un modo di lavorare in cui, quando ti fermi a descriverlo, puoi riconoscerne i tabù, che cosa non è
più ammissibile, e i dogmi, cioè che cosa si tenta e ci si aspetta sempre. Ecco perché uso i termini dogma e tabù.
Si può garantire un buon lavoro in questo modo? No, ma questi principi euristici diventano una condizione neces-
saria (piuttosto che sufficiente) per un lavoro pertinente alla società contemporanea complessa e dinamica del
network. Essi diventano anche una condizione necessaria, non una garanzia, per partecipare ad un eccitante mo-
vimento collettivo. In architettura non c’è un altro movimento originale in questo momento. Voglio dire che, se si
esita, se si vuole rimanerne al di fuori, se non ci si concede di seguire un movimento per esigenze di individualità,
si è condannati a rimanere ai margini. Molti, istintivamente, si rifiutano di essere “ categorizzati” e vogliono ri-
manere liberi dalle categorizzazioni. Credo che questo sia comprensibile da un punto di vista psicologico, poiché
essi vogliono sentirsi aperti e flessibili, ma, se sono davvero onesti, riconosceranno che già, di fatto, stanno se-
guendo un movimento collettivo. Sto solo descrivendo ciò che accade: riconosciamo ciò che accade e rendiamolo
esplicito. Non c’è nessun'altra strada al momento che porti innovazioni reali, originalità. C’è un solo movimento
nuovo. Ciò che io restituisco è una descrizione retrospettiva e una ratifica post-factum. Sto spiegando perché i
nostri investimenti intuitivi sono stati validi, razionali e superiori a tutti gli stili precedenti. Lo stiamo discutendo
e a teorizzando, ma quindici anni fa non sapevamo che, quindici anni più tardi, avremmo continuato a fare la
stessa cosa, solo in un modo più profondo, più intenso, inerente a programmi su vasta scala. Adesso dovremmo
renderci conto che questo è diventato una sorta di nuovo paradigma che raccoglie uno slancio sempre maggiore
ed è realmente potente, produttivo. Può risolvere problemi complessi con soluzioni di gran lunga più interessanti,
più versatili, più adatte al contesto, che generano un maggior numero di affiliazioni, correlazioni, connessioni, in-
terazioni. Questo stile è maturo per essere uno stato della miglior pratica dell’arte nella nostra disciplina, adatto
alle sfide e alle opportunità del ventunesimo secolo, alle domande della società post-fordista del network.
Dunque, questi sono i vantaggi. Quanto agli svantaggi, per esempio il fatto che comporti difficoltà nella costru-
zione, essi stanno scomparendo perché architetti, ingegneri e fornitori hanno investito in nuove tecnologie capaci
di affrontare i livelli richiesti di differenziazione e complessità. Sia nella progettazione che nella costruzione la
differenza dei costi tra ripetizione e variazione sta diminuendo. Possiamo disegnare un insieme continuamente
differenziato tanto velocemente e facilmente quanto un insieme ripetitivo di elementi.
Riassumendo: questi principi euristici sono formulati retrospettivamente. E’ un’affermazione empirica: essi sono
i dogmi e i tabù della generazione contemporanea dell’architettura. C’è una sola partita nuova, originale e pro-
mettente in circolazione. Possiamo dire anche che è così per un motivo, perché questo lavoro ha una capacità su-
periore di ordinare e articolare la crescente complessità dei processi di vita societaria. Il parametricismo è più
versatile e adattabile di tutti gli stili precedenti. Ciò significa che l’affermazione descrittiva si trasforma in una af-
fermazione normativa. Facciamo questo e dovremmo fare questo. A un certo punto direi persino che il fatto che i
principi del parametricismo siano stati accettati quasi acriticamente da molti, in questo stadio maturo, è una buo-
na cosa. E’ una buona cosa non dover ri-criticare principi validi tutti i lunedì mattina, ad ogni nuovo progetto,
chiedendosi che cosa dover fare. Molti non fanno altro che seguire l’onda. Ma quest’onda ha un forte momento
per un buon motivo: questi principi e i risultati che essi rendono possibili, hanno una razionalità superiore, che si
adatta benissimo alla società contemporanea. Poi, per chi ha una mente critica, ci sono molte teorie e scritti da
consultare. Se si vuole analizzare la qualità dei risultati, capirne i pro e i contro, ci sono i miei scritti e quelli de-
gli altri, ad esempio di Greg Lynn, Jeff Kipnis, Jesse Reiser, ecc.

M C. - Alcuni, al di fuori del tuo stile o paradigma, dicono che c’è un sacro, una sacralità dell’architettura. E’
nella struttura trilitica del Partenone di Atene, l'origine reale dell’architettura. Questo sacro è l’espressione del-
la società occidentale, della sua cultura e della sua identità, e se si fa qualcosa di completamente diverso, quella
semplicemente non è architettura.

P. S. - Questo è un atteggiamento che definirei feticistico: si fa un feticcio della storia e in questo modo non c’è
possibilità di parlare delle necessità vitali della vita contemporanea, che rende le nostre vite più produttive, più li-
bere. L’architettura non è una rappresentazione metafisica, è uno strato dinamico di una società multi-strato. Que-
sti strati sono co-evolutivi.

M. C. - Secondo alcuni essa, invece, deve essere principalmente una rappresentazione di quel sacro,
dell’architettura occidentale storica e originale, così come era ancora nell’architettura europea moderna. Inve-
ce, se non sbaglio nel leggerti, tu vi anteponi un altro sacro, quello della vita.
P. S. - Esattamente. Io credo non sia più produttivo parlare di “ cultura occidentale”. E’ ancora necessario distin-
guere tra oriente e occidente? Penso che noi viviamo in una società di un mondo globale a cui partecipano tutti i
continenti e tutte le persone. Come Homi Bhabha ha dimostrato, la cultura contemporanea è segnata da un ibridi-
smo inestricabile. T utte le culture contemporanee, inclusa la cosiddetta cultura occidentale, hanno integrato così
tante influenze straniere che si dovrebbe rinunciare al concetto di “ cultura occidentale”: si produce una resistenza
improduttiva e non necessaria alla piena diffusione di ottime pratiche globali. Lavoriamo tutti per un’architettura
mondiale, un discorso architettonico globale, dove tutto e tutti partecipano, dalla Cina all’Iran, all’India. Attra-
verso internet tutti i giovani architetti si collegano con il resto del mondo. Qualsiasi progetto messo da chiunque
da qualche parte sul web diventa una sorgente potenziale di influenza nel network globale delle comunicazioni
disciplinari che io chiamo l’autopoiesi dell’architettura e della progettazione.

M. C. - E’ ciò che ha detto Edgar Morin: internet può generare, a partire dal mondo globale, una specie di
“consapevolezza globale”.

P. S. - Sì, tutto influenza tutto il resto.

M. C. - Ora la seconda domanda. A pag.114 del tuo “L’autopoiesi dell’architettura”, a proposito della “struttu-
ra delle rivoluzioni scientifiche” di Kuhn, scrivi: “in architettura la successione dei paradigmi può essere identi-
ficata nella successione degli stili architettonici”. A partire da questo assunto, nel “Manifesto del Parametrici-
smo” tu proponi, in sintesi, la sequenza "popperiana" di stili/paradigmi: Classicismo - Modernismo - Parametri-
cismo. Ciò che tu chiami “parametricismo” è però relativo a un’auto-creazione post-decostruttivista, una pro-
duzione auto-creativa e perpetua che non ha niente a che fare con la rappresentazione di figure pre-codificate a
partire dal Partenone che è la base delle strutture trilitiche e ortogonali del Modernismo. Non pensi che tra pa-
rametricismo e modernismo ci sia una distanza maggiore che tra modernismo e classicismo?

P. S. - Sì, sono d’accordo, c’è una differenza molto maggiore. La differenza di stili è cominciata con il Gotico. Il
Gotico rappresenta la transizione dalla costruzione legata alla tradizione
all’architettura vera e propria. La prima vera architettura è quella del Rinascimento, poi seguono gli stili del Ba-
rocco, il Rococò, il Neoclassicismo e poi lo Storicismo. Voglio dire che il Gotico è la transizione dal vernacolare
all’Architettura. L’architettura romanica medievale non è un vero stile, è simile ad un vernacolare. Faccio una di-
stinzione tra gli stili epocali e quelli sussidiari. Così, ad esempio, tra gli stili epocali del Rinascimento e il Baroc-
co c’è stato lo stile transitorio del Manierismo, e il Barocco ha avuto uno stile sussidiario, cioè il Rococò. Lo sto-
ricismo del XIX secolo include molti stili sussidiari: il Neogotico, il Neobarocco, il Neorinascimentale ed anche
le eclettiche misture degli stili storicisti, per esempio l’Eclettismo. La transizione dallo stile epocale dello Storici-
smo allo stile epocale del Modernismo è passata attraverso gli stili transitori dell’Art Nouveau e
dell’Espressionismo. Il Modernismo ha avuto molti stili sussidiari come il white modern, il razionalismo, il bruta-
lismo, il metabolismo, l’high-tech ecc.

M. C. - Sì, ma io non vedo un’evoluzione lineare, un progresso unico, ma flussi e correnti differenti di evoluzio-
ne. Una di esse porta il Barocco e l’architettura organica. Il Barocco non sta “dopo” il Rinascimento, ma sta so-
lo in un’altra corrente evolutiva e tra di esse, le differenti correnti, c’è una specie di movimento circolare in cui
una è dominante e l’altra semplicemente residua…

P. S. - Quest’idea si basa su un antico concetto astorico, ciclico del tempo. Idee simili venivano proposte nel XIX
secolo: l’eterno gioco degli opposti, ad esempio il principio apollineo contro il principio dionisiaco. Credo che la
storiografia culturale sia andata oltre queste idee.
Naturalmente si possono rintracciare influenze non-lineari. Ora, nel guardarci indietro, troviamo affiliazioni al
Barocco, così possiamo dire anche che nel Modernismo c’è una specie di tendenza organica: Sharoun, Niemeyer,
Wright e così via. Io mi concentrerei piuttosto su ciò che è storicamente nuovo in ciascun’epoca. Se guardo ai
precursori, mi chiedo perché alcuni di essi, i più remoti (ad esempio Sharoun), siano rimasti delle eccezioni del
loro tempo, e ciò che lascia rilevare questa tendenza alla somiglianza diventa ora pervasivo.

M.C. - Non sono sicuro riguardo ciò che dici di Niemeyer, il quale trasformava gli “objets a réacion poetique”
del suo maestro Le Corbusier in architettura, e si tratta di elementi scultorei per lo più chiusi, che non vengono
generati da un'interazione organica con l'esterno.
P. S. - Sì, nessuno di questi precursori è davvero Parametricista. Possiamo sempre enfatizzare ciò che è radical-
mente nuovo nel nostro approccio. T uttavia si possono identificare delle somiglianze. Ho identificato Niemeyer
perché lui ha influenzato moltissimo alcuni dei nostri lavori, perché a volte ha messo in piedi una topografia del
terreno artificiale. Ha usato curve e “forme libere”. Ma le sue curve sono sempre archi e le sue “ forme libere” so-
no sempre costruite a partire dagli archi e dalle rette. Anche nel lavoro di Le Corbousier ci sono forti anticipazio-
ni, per esempio nel progetto per Algeri. Non è un progetto del genere tabula rasa modernista, ma anticipa la no-
stra idea di integrare edificio e paesaggio, come se questo fosse concepito attraverso una logica associativa.

M. C. - Infatti Le Corbousier è senz'altro un genio capace di saltare da un paradigma all’altro…

P. S. - Ad Algeri si addentra nella topografia con i suoi lastroni e le sue strade sopraelevate, seguendo le curve di
livello della topografia. Comunque, questi slanci puntano oltre il Modernismo. Devi fare una distinzione tra due
discorsi: uno è sui riferimenti e le influenze trasversali, ma non è questo il punto primario. La mia prima doman-
da è: quali sono i tratti e i principi dominanti che realmente definiscono uno stile epocale? Quale è stata, ad e-
sempio, la logica essenziale del modernismo, quella che ha affermato la sua razionalità e il suo potere nel XX se-
colo? Anche se ci sono delle sottocorrenti, come indicano Frank Lloyd Wright e Sharoun, dobbiamo afferrare il
nocciolo essenziale di uno stile. Ci sono sempre tendenze multiple. Anche all’interno del paradigma della mecca-
nica newtoniana c’è l’alchimia, e lo stesso Newton era religioso. T uttavia descriviamo l’essenza di questa éra
come razionalità illuminata. Lo scopo della mia analisi è quello di capire e mostrare come, in ogni epoca storica,
l’ambiente costruito si adatti alle modalità particolari, prevalenti del processo di vita socio-economico. Ad esem-
pio, i principi del Modernismo – separazione, specializzazione e ripetizione – sono congeniali alle modalità
dell’organizzazione societaria della società Fordista della produzione meccanica di massa.
Se guardi le mie lezioni on line puoi vedere come io stia cercando di descrivere perché il Barocco prese il posto
del Rinascimento, analizzando quali erano i vantaggi del Barocco, perché il Barocco fosse meglio attrezzato per
articolare i bisogni grandiosi dei vasti stati-nazione, mentre il Rinascimento era sufficiente per le più piccole cit-
tà-stato. Il repertorio compositivo del Barocco è capace di organizzare e articolare unità molto più grandi, con le
sue curve e i suoi profondi rilievi per vedute distanti. La simmetria dinamica delle sue parti era in grado di soste-
nere simmetrie globali molto più potenti in confronto alle composizioni aggiuntive del Rinascimento, dove ogni
parte ricade su se stessa, con la sua simmetria.
Ciò che dico non contraddice quello che dici tu a proposito dei progressi multipli. Ciò che descrivi può coesistere
con la mia descrizione, io sto solo parlando di quali sono i paradigmi principali che diventano dominanti perché
si adattano bene all’epoca particolare, come il Modernismo che era adatto all’era industriale della riproduzione di
massa, con una classe operaia uniforme, che partecipava ai risultati della produzione industriale di massa. Ciò
crea una società della ripetizione di massa, l’idea della riproduzione seriale. I principi del Modernismo, ad esem-
pio la separazione delle funzioni urbane, l’ottimizzazione dello standard per un tipo universale per ogni funzione,
e la ripetizione di questo singolo tipo non sono più adeguate ad una società dinamica e molto più diversificata.
Ecco perché il modernismo ha sperimentato una crisi severa e non può essere risuscitato.

M. C. - Questo è quanto si può riconoscere nel modo cartesiano di pensare la separazione tra soggetto e oggetto.
Deleuze, Morin e altri pensatori della contemporaneità lavorano affinché si possa riconnettere questi elementi, e
di qui veniamo alla terza domanda.
Dietro il concetto della "piega", c’è proprio il tentativo di riconnettere la spaccatura cartesiana tra soggetto e
oggetto, che fu indicata da Husserl per la prima volta nel 1936 ne “La crisi delle Scienze europee”. Deleuze si
sposta verso una concezione circolare, dinamica e complessa del soggetto-oggetto, che sarà ripresa, ampliata e
articolata da Edgar Morin nella sua teoria della complessità ("com-plexus" come "intessuto insieme"). A me
sembra che il nostro tempo sia caratterizzato proprio da questo sforzo del ricomporre gli individui frammentati,
gli Edipi "post-umani" di Deleuze e Guattari, gli individui atomizzati di Bauman.
In architettura può darsi che sia la fondazione di un nuovo paradigma culturale o semplicemente che stia diven-
tando dominante un paradigma già esistente, infatti Deleuze, nel suo libro "La piega", fa riferimento a Leibnitz e
al Barocco, così come Carlo Giulio Argan fa riferimento a Wright in quanto precursore di un cambiamento di
paradigma culturale. Nel secondo caso, la mia tesi è che potremmo mettere nello stesso paradigma culturale,
come successivi programmi di ricerca di progetto (i Design Research Programs di cui parli), il classicismo, il
Neoclassicismo, il Modernismo e il Minimalismo, e in un altro paradigma culturale il Romanico, il Barocco,
l’architettura organica e il linguaggio contemporaneo che chiami Parametricismo. Questo sembra aver assunto
il concetto di “continuità” nel suo DNA, mentre invece può sembrare che il termine "Parametricismo" riguardi
solo gli strumenti che usiamo, non il significato reale e profondo di questo stile. E, paradossalmente, le caratteri-
stiche di questa architettura sono esattamente le stesse che Michelangelo Buonarroti usò per il suo progetto di
fortificazione fiorentina del 1500, dagli esiti totalmente organici e biomorfi.
Se non definisci parametrica la maggior parte del lavoro di Foster o semplicemente tutta l’architettura progetta-
ta via software parametrici (ormai la stragrande maggioranza), perché preferisci ancora l’etichetta di architet-
tura “parametrica” invece che “organica” o semplicemente morinianamente “complessa”?

P.S. - Bene, perché se la chiamassi organica accetterei l'esistenza di una sorta di corrente pressoché eterna, il che
è una modalità superata di vedere la storia. Ciò che dici ricalca l’idea di un’oscillazione permanente tra l’ apolli-
neo e il dionisiaco. Allora puoi dire che c’è stato un rinascimento apollineo, seguito dalla controtendenza dioni-
siaca del Barocco, assumendo che c’è sempre un’oscillazione che va avanti e indietro. Come abbiamo detto pri-
ma, questa è una nozione ciclica della storia, astorica, poiché essa si muove in cerchi, tra due poli, avanti e indie-
tro. C’è anche nella cultura greca questo dualismo tra il primo periodo classico e quello ellenistico. O abbiamo la
distinzione tripartita tra Arcaico, classico ed Ellenistico. Si discute a volte in termini di inizio arcaico, maturità
classica e poi degenerazione/esagerazione decadente. Ad alcuni sembra plausibile, ma io non sopporto questa
specie di “ teoria”, perché non contempla l’idea di un’evoluzione storica che produca qualcosa senza precedenti,
qualcosa di nuovo in ogni età.

M. C. - Sto dicendo che c'è un progresso generale, ma non solo all'interno di in un singolo corso. Ci sono svilup-
pi progressivi differenti e simultanei in paradigmi culturali differenti.

P. S.- Se dici questo, allora direi anche che c’è un progresso dal classicismo al Modernismo, al Minimalismo e
che questo potrebbe essere in parallelo alla nostra ricerca…

M. C. - Ed è esattamente ciò che sta accadendo: ci sono moltissime persone - forse ancora la maggioranza - che
lavorano all’interno del paradigma che va dal classicismo al minimalismo…

P. S. - Non credo che ci sarà un ritorno al semplice nelle prossime iterazioni. Non la vedo così, penso nei termini
di un’ evoluzione reale, nel senso di livelli nuovi, negli stadi evolutivi, che non hanno precedenti, nonostante sia
possibile rintracciare, nelle idee nuove, influenze e precursori. In retrospettiva si possono identificare le influenze
e le anticipazioni più remote che nessuno avrebbe potuto predire, ad esempio non si potevano prevedere i feno-
meni radicalmente nuovi che sono emersi. Non si dovrebbero enfatizzare le somiglianze tra il Barocco e ciò che
si sta facendo adesso, perché ci sono differenze radicali.

M. C. - Ma io penso al progetto delle fortificazioni di Michelangelo, che prende forma proprio dalla traiettoria
delle armi, o a ciò che ha fatto Wright: moltissimi suoi progetti appartengono esattamente alla euristica della tua
architettura. Per questo non credo che il punto siano gli strumenti parametrici ma il concetto di fondo, il cuore
culturale che vi sottende.

P. S. - T i inviterei a sforzarti di vedere ciò che è radicalmente nuovo. Naturalmente potrai sempre trovare precur-
sori che hanno anticipato certi aspetti di un fenomeno, ma penso che dovresti anche accorgerti del fatto che i
precursori lasciano intravedere di sfuggita cose che puoi riconoscere solo in retrospettiva.

M. C. - Chiarisco una cosa: io non sto affatto negando un progresso generale, di sicuro ora ci sono cose che non
hanno precedenti. Sto solo dicendo che non c’è un solo progresso lineare nella cultura umana, e in architettura,
che va dritto dall'antica Grecia al parametricismo, ma che invece ci sono traiettorie di sviluppo progressive dif-
ferenti in correnti evolutive differenti… Penso che ciò che tu chiami Parametricismo, per il suo significato inter-
no, non appartiene o non dovrebbe appartenere alla stessa "linea evolutiva" del modernismo perché non ne con-
divide le fondazioni genetiche, lo spirito cioè. E se ci interroghiamo sulle origini, se non cerchiamo radici e si-
gnificati profondi, penso che corriamo il rischio di perdere di vista l’aspetto essenziale della discussione e pro-
porre qualcosa che, come in passato, non ha alcun senso e potrebbe essere addirittura pericoloso.

P. S. - Sono d’accordo sul fatto che ci sono spesso traiettorie competitive multiple, e che ciascuna potrebbe avere
una certa affiliazione storica. Ammetto anche che ci sono sempre continuità e influenze da rintracciare, ma voglio
evidenziare il fatto che c’è sempre qualcosa di nuovo, emergente, che non ha precedenti, ecco perché ho bisogno
di trovare un termine nuovo, che non è mai stato usato prima e coniare un’espressione che indica anche qualcosa
di specifico come il nostro termine “parametricismo”. Dunque è questa la mia intenzione nell’uso del termine pa-
rametricismo. E’ la mia enfasi. Non volevo negare il fatto che ci sono delle somiglianze, influenze, simpatie, ispi-
razioni che vengono da traiettorie precedenti, non lo nego, ma non vorrei enfatizzarle, perché c’è anche
quest’aspetto, cioè che ogni epoca storica ha necessità nuove e, se c’erano correnti precedenti, correnti marginali,
esse non avevano la possibilità di fiorire a quel tempo, per qualche motivo. A me sembra che la tua descrizione
abbia troppi elementi immutabili. Piuttosto che assumere che ci sono diverse derive di sviluppo coesistenti in un
lungo antagonismo che attraversa i secoli – classico versus organico – credo che ciascuna nuova epoca ponga
nuovi quesiti e inizialmente generi tentativi diversi per affrontare le nuove sfide. Questi tentativi iniziali sono gli
stili transitori che hanno vita breve. Per esempio la transizione dal Modernismo al Parametricismo ha prodotto
due stili transitori competitivi: il Postmodernismo e il Decostruttivismo. Ciascuno può essere ricollegato ad un
corso precedente: il Postmodernismo si può ricollegare allo Storicismo/Eclettismo e il Decostruttivismo si può ri-
collegare al Costruttivismo russo. Comunque penso che queste identificazioni non colgano le novità radicali sia
del Postmodernismo che del Decostruttivismo. Infatti, filosoficamente, il Postmodernismo e il Decostruttivismo
condividono tra loro molte più cose che non, ciascuno, con i propri presunti precorsi: entrambi pongono le basi
del Post-strutturalismo, e condividono un relativismo e un nichilismo ideologico, un’ironia, che è assolutamente
estranea allo Storicismo/Eclettismo o al Costruttivismo.

M. C. - Infatti la mia tesi è che Michelangelo e Wright anticipino proprio quelle teorie post-strutturaliste, post-
decostruttiviste. Ritornando al “parametricismo” come termine, penso che, volendo fare un'enfasi come dici tu,
“network” o “complessità” siano definizioni più profonde per la tua architettura. Enfatizzare il parametricismo
equivale a puntare il dito sugli strumenti, e quando abbiamo inventato la matita non abbiamo certo chiamato
l’architettura “matitismo”…

P. S. - E’ un punto di vista. T u che nome proporresti?

M. C. - Be’, appunto, penso a “architettura del network” o “architettura della complessità”.

P. S. - Potrei anche essere d’accordo, ma ci potrebbe essere un problema: forse, molti architetti più anziani po-
trebbero sostenere di farne parte. Sono definizioni troppo generiche… Comunque credo sia meglio accettare che
un nome è solo un nome. Ci potrebbe essere un dibattito sulla terminologia, ma non è molto importante per la no-
stra discussione, e forse è già troppo tardi per farlo. Il termine “ parametricismo” è già in circolazione. C’è già una
pagina dedicata in Wikipedia.

M. C. - Veniamo alla prossima domanda allora. Tornando al pensiero contemporaneo, se vediamo nella ri-
composizione dei frammenti della società edipica il fulcro principale del paradigma culturale corrente, natural-
mente dovremo considerare le interrelazioni come tratto principale dello spirito della società del network post-
fordista. C’è un’etica nuova e forte in questa concezione, dal momento che la prima separazione da ricomporre è
quella tra l’umanità e il resto dell’ecosistema terrestre. Procedere in questo modo implica che i temi da svilup-
pare all’interno della ricerca sull’architettura d’avanguardia sono, in primo luogo, l’apertura degli spazi, il ra-
dicamento e l'attaccamento alla terra dell'edificio, l’interdipendenza e l’interconnessione degli spazi tra loro e
tra essi e il sito. Il MAXXI, il Landscape Formation One, il Museo Nuragico di Cagliari e molti altri progetti me-
ravigliosi del tuo studio parlano di questo nodo cruciale e di questi temi: secondo me, sono la miglior espressio-
ne recente del paradigma post-decostruttivista. Al contrario, il Phaeno Museum, che si stacca sinistramente dal
suolo, il Rabat grand theatre con la sua chiusura a cappio, il Vilnius Guggenheim ed altri, sembrano essere me-
ga-oggetti chiusi, non relazionati al contesto e non connessi al suolo. Essi non raccontano la stessa storia post-
decostruttivista. Sembrano appartenere al paradigma pre-decostruttivista, poiché, oltre la complessità della
grammatica e della sintassi, mostrano distacco, separazione, isolamento, chiusura e alienazione in generale.
Come rispondi a queste critiche?

P. S. - Capisco il contrasto tra i progetti di campo come il MAXXI che sono racchiusi in un luogo, e i progetti-
oggetto. Ma, se si leggiamo più da vicino, in questi oggetti si può comunque vedere l’ambizione ad adattarsi, ad
affiliarsi e correlarsi con il contesto circostante, non attraverso una connessione diretta, ma attraverso una con-
nessione a distanza (come agisce la gravità nell’influenza a lungo raggio). Guarda, ad esempio, la forma del pro-
getto Wolfsburg, il modo in cui la sua linea si staglia nell’ambiente e il modo in cui crea un tipo di topografia al
di sotto che risponde (che è sensibile) ai flussi urbani. Chiaramente nessuno di questi progetti richiama
l’atterraggio di una navicella spaziale modernista. I dogmi e i tabù del parametricismo sono stati seguiti anche
qui.
M. C. - Intendi dire che ci sono elementi di connessione che cercano comunque di trovare affiliazioni con il con-
testo...

P. S. - Sì, qui puoi vedere la metodologia della ricerca delle affiliazioni, degli incastonamenti. C’è anche un pon-
te di connessione che taglia e attraversa l'edificio. Si può dire che i progetti di campo sono più paradigmatici, ma
si possono certamente trovare altri generi di correlazioni e connessioni. Potresti studiare la nostra Opera House di
Guang Zhou, il modo in cui i due oggetti si congiungono senza sfiorarsi l’uno con l’altro, il modo in cui entrano
in risonanza con i plinti simili ad un paesaggio entro cui sono incastonati ecc. Dovunque trovi il tentativo di stabi-
lire rapporti formali che provano a superare ciò che è probabilmente un’impressione iniziale di “ oggettualità”. Se
metti questi progetti accanto ad uno di quei mostri metabolisti o megastrutture degli anni sessanta e settanta, puoi
vederne la differenza: la differenza sta nel tentativo di intensificare i rapporti con il complesso e tra il complesso
e il suo intorno. Con una descrizione dettagliata posso dimostrare che questi progetti più simili ad oggetti operano
ancora all’interno del paradigma parametricista.

M. C. - Ultima domanda. La forza del Guggenheim di Wright è che, al suo interno, ti senti parte di un tutto, in-
sieme parte dell’umanità e parte dell’ecosistema, tutti insieme interagiamo tra noi e con l'arte all'interno di una
conchiglia. C’è una comunicazione potentissima: si può fluire in questo spazio senza barriere, vedere l’arte e ve-
dere gli altri sempre. Tutto è parte dell’esperienza, della comunicazione. Il senso è profondamente etico: ti indu-
ce a sentirti parte organica della Terra, a sperimentare un sentimento di concatenazione, continuità tra gli esseri
umani, e tra essi, la natura e l’arte. Anche nel Maxxi ho percepito lo stesso sentimento di unione, di continuità, e
in più la struttura esprime forse ancor meglio la complessità della vita, il suo essere intrecciata e colma di diffe-
renti direzioni, versi, correlazioni inaspettate. Sia il MAXXI che il Guggenheim, come il Saarinen terminal all'ae-
roporto JFK, sono semplicemente di cemento. Mi sembra estremamente etico, perché la loro bellezza non ha
niente a che vedere con il costo di un lussuoso materiale, ma solo con la forma dello spazio conformato da una
struttura insieme guscio spaziale e strutturale. Invece, molte delle tue costruzioni recenti sono ricoperte da pan-
nelli a doppia curvatura o mostrano, dietro il processo di costruzione, altre caratteristiche molto costose in ter-
mini economici ed energetici per inseguire un effetto attraente e alla moda. Può sembrare un vezzo, un capriccio
derivante da motivazioni commerciali più che da una necessità poetica reale.
Non pensi che la declinazione "spigolosa" e poligonale del tuo stile sarebbe più etica in un tempo frugale di crisi
economica e ambientale come il nostro?

P. S. - Dunque, prima di tutto accetto il fatto che occorra affrontare la sfida ecologica. Sull’architettura c’è una
pressione esterna e sono contento di ritrovarmi in questa sfida. Penso che il nostro paradigma parametricista sia lo
stile meglio attrezzato per fronteggiarla, per la sua capacità intrinseca di adattarsi, attraverso la transcodificazione
dei dati ambientali (come le mappe dell’esposizione ai raggi solari) agli adattamenti morfologici. Quando si pone
il problema dell’energia incorporata (energia grigia, ndr) e dei costi, la mia posizione è che questi sono problemi
dell’ingegneria. E’ responsabilità degli ingeneri rendere le macchine efficienti e informare gli architetti
dell’efficienza energetica di vari sistemi passivi dipendenti dalla morfologia. Gli ingegneri sono responsabili del
benessere fisico e dei nostri corpi fisici per quanto riguarda la temperatura, l’umidità, l’aria, ecc. Responsabilità e
competenza specifica degli architetti è creare ambienti gradevoli e socialmente produttivi, compatibilmente a
quanto ci è richiesto in qualità di attori sociali. Gli architetti progettano un sistema leggibile e ordinato di spazi
che ordina i processi sociali, permettendo agli utenti di trovarsi l’un l’altro e riunirsi in costellazioni specifiche
per specifici eventi ed interazioni comunicative. Le morfologie spaziali inizialmente motivate dal punto di vista
ambientale devono essere alla fine strumentalizzate per articolare e caratterizzare i differenti spazi e le loro rela-
zioni. La disposizione e il dimensionamento delle finestre e delle porte, gli elementi di protezione dalla luce e dal
calore, le sporgenze dei tetti e simili – inizialmente motivati dall’ambiente – diventano mezzi dell’ articolazione
architettonica. Il loro funzionamento fisico è in definitiva una responsabilità ingegneristica. Il loro funzionamento
sociale (comunicativo) è una responsabilità degli architetti. Ciò implica che l’architetto deve lavorare in stretto
contatto con gli ingegneri per trovare queste sinergie fortunatissime che trasformano la logica ingegneristica in
una grammatica dell’articolazione. Nello stile parametrico ci sono una congenialità ed una sinergia potenti tra
l’interesse per le continue differenziazioni morfologiche (per ordinare un processo di vita sociale) da una parte e
la richiesta e l’opportunità, dall’altra, di differenziazioni morfologiche continue dovute ad un adattamento am-
bientale pieno di sfumature, reso possibile dall’ingegneria contemporanea, supportata attraverso strumenti com-
putazionali.

M. C. - Sì, ma sappiamo che, se facciamo forme del tutto libere come i “blob”, i processi di realizzazione e co-
struzione sono sempre più costosi in termini di energia incorporata oltre che di denaro.
P. S. - No, penso che occorra distinguere tra avanguardia e semplice pratica professionale. Penso che,
nell’avanguardia, abbiamo bisogno di spingere per ottenere nuove risorse, e qualcuno deve investire in questi
progetti-manifesto. Comunque, più i contraenti investiranno in nuove tecnologie di fabbricazione supportate dagli
strumenti computazionali, più i costi differenziali dovuti alla complessità si abbatteranno. Mi piace il cemento
faccia-vista e una struttura a nudo, capisco il suo fascino estetico, il suo senso di purezza. Ma non mi tiro indietro
davanti a una curvatura più complessa, a transizioni intricate, lisce ed omogenee, a dettagli superorganici, perché
essi chiarificano la nostra percezione degli spazi. Se costruisci la complessità e metti solo cose insieme senza
transizioni, senza una continuità che le articoli, il campo visivo diventa rapidamente caos visivo. Per costruire
scene più complesse, ricche di informazione, che offrano più eventi senza perdere la loro leggibilità, è necessario
incrementare il gioco complesso di curvatura della superficie. Una superficie più complessa può raccontare una
storia più complessa.

M. C. - E’ meglio in termini di comunicazione, certo.

P. S. - Dunque non si tratta semplicemente di essere alla moda, si tratta di leggibilità di scenari sociali complessi.
Questa è la differenza tra l’ingegneria e l’architettura. Loro curano l’esecuzione e la performance fisica, noi
l’esecuzione visiva come sistema di orientamento, aspetto cruciale della performance sociale.

M. C. - Dunque dici che questo è semplicemente più importante dell’energia…

P. S. - Per noi architetti è sicuramente più importante. E’ il nostro compito. Occorre un ambiente ordinato, com-
plesso, leggibile per sostenere un processo di comunicazione sociale sempre più ricco e denso. Il progresso della
società dipende da questo avanzamento dell’architettura quanto dipende da una scienza che fa passi avanti, da un
sistema politico progressista, ecc. Il bisogno di salvare l’energia è un impedimento importante, ma non l’obiettivo
finale. In quanto architetti cerchiamo di trasformare questo impedimento in opportunità di articolazione. Dunque
qualcuno deve lavorare su come progettare spazi più comunicativi e quindi più produttivi. Si tratta di ordinare e
ridurre la complessità visiva di un sistema complesso, altrimenti si aggiungerebbero parti e soluzioni disparate tra
loro come farebbe un ingegnere, producendo un brutto disordine o, per essere più educati, un semplice disorien-
tamento.

M. C. - Ma il linguaggio spigoloso e poligonale di cui parlavo non è solo assembramento di elementi post-
moderni, è ricerca di un nuovo linguaggio continuo per la complessità, come mostrano Plasma Studio o Tom Wi-
scombe, o Delugan con il suo museo ad Amsterdam.

P. S. - Conosco il loro lavoro e abbiamo anche progettato in questo senso, ma diventa limitato se si deve aggiun-
gere ulteriore complessità, se si devono aggiungere ulteriori dettagli e spazi che devono funzionare insieme. Qui,
quando si lavora con mura diritte piuttosto che curvilinee, per il fruitore non ha alcun senso che gli spazi siano
più grandi. Non saprebbe neanche se è all’interno o all’esterno di un muro, perché è piatto. Invece il progetto
curvilineo consente al fruitore di percepire la differenza tra la convessità e la concavità di un muro come indica-
zione di esterno vs interno. In un sistema con linee diritte, spigoli e angoli, perdi l’orientamento se lo spazio è
molto complesso. Con le curve i fruitori percepiscono la differenza tra continuità e discontinuità e così possono
identificare i territori o le unità funzionali rilevanti. Nello stile "poligonale", dove proliferano gli spigoli, unità e
continuità si disintegrano e i rapporti e le unità funzionali complesse non possono più essere percepiti. Dunque
dico che se questo stile "spigoloso" ha bisogno di diventare più complesso, allora diventa disarticolato, diventa un
caos visivo disorientante dove non si possono riconoscere identità e continuità funzionali.
Prova a fare qualcosa di complesso, o più complesso, come il MAXXI o il nostro progetto BMW a Leipzig, e a
portar via tutte le curve… senza curve si perderà l’orientamento.

M. C. - Nel progetto BMW o nel MAXXI ci sono solo superfici a curvatura singola, e comunque tutto è in cemen-
to faccia-vista. Io pensavo alle superfici a curvatura doppia e ai materiali molto più costosi dei progetti recenti.

P. S. - Il MAXXI e il BMW sono stati disegnati 10 anni fa. Ora vogliamo di più. Qualche volta si può aver biso-
gno di interconnettere e stabilire continuità in sezione. Se provi a farlo, sia nella pianta che nella sezione allo
stesso tempo, finisci con la doppia curvatura.
M. C. - Quindi la tua risposta è che hai il diritto di fare queste "forzature" perché stai facendo una ricerca
d’avanguardia che genererà un progresso tecnico, abbattendo i costi futuri...

P. S. - Considera questo. Noi dobbiamo investire nel nostro futuro collettivo, e questo è un piccolo investimento
nella spesa globale del mondo. Questi investimenti sperimentali non sono grandi, ma hanno molto valore perché
sviluppi capacità, risorse, tecnologia. E’ dopo dieci anni che l’efficienza arriva pienamente. Ora comincia già a
succedere. Nei progetti commerciali e più grandi puoi davvero essere più efficace dal punto di vista dei costi per-
ché usi i modelli parametrici BIM. Quando hai un modello parametrico puoi ottenere la distinta di tutti i pannelli
"srotolati" con un solo clic. Così la differenza di costi di cui parlavi si riduce fino al punto in cui è del cinque o
dieci per cento. Forse è ancora del quindici per cento, ma si sta riducendo ad ogni nuovo investimento. Penso che
tu abbia bisogno di capire la nostra competenza essenziale in quanto architetti. Come architetti d’avanguardia
dobbiamo innovare e far avanzare la disciplina in linea con il progresso generale della nostra civiltà. Leggi il mio
articolo “Parametric City”, in cui focalizzo la discussione sull’argomento più importante, cioè la qualità e la pro-
duttività sociale del nostro ambiente. Se tu dici solo che il problema è salvare l’energia, perdi di vista il significa-
to delle cose. Devi innanzitutto aspirare a far progredire la qualità e la produttività del processo della nostra vita
societaria. Poi puoi chiederti come si può raggiungere que sta qualità con la minima traccia di carbonio, senza sa-
crificare le qualità essenziali di cui abbiamo bisogno per fare il prossimo passo avanti nella nostra civiltà. Pos-
siamo risolvere la sostenibilità ambientale globale solo se siamo capaci di incrementare e intensificare la comuni-
cazione societaria, perché, per salvarci, devono progredire la scienza, la politica, ecc. Queste possono progredire
solo in un ambiente progressista.

M. C. - Ti ringrazio molto Patrik.


ARCHITETTURA E D ETTAGLIO
Luigina De Santis

Il recente dibattito sul Realismo, declinato come 'nuovo' ma invece assolutamente 'vintage', ha chiamato alle
armi filosofi e intellettuali, in difesa della priorità dei fatti rispetto alle interpretazioni, opponendo
l’inemendabilità dei dati a una realtà divenuta reality nel populismo mediatico dominante. La contesa tra Gianni
Vattimo e Maurizio Ferraris: relativismo delle interpretazioni versus oggettività non emendabile dei fatti - con le
interpretazioni che pretendono di modificare tutto e i fatti che non si lasciano modificare – ci pone di fronte
all'alternativa: ragione senza realtà o realtà indipendente dalla ragione?
Dobbiamo ritenere concluso il moderno e nel suffisso 'p ost' rassegnarci alla perdita della realtà e del vero o
paradossalmente tornare al 'pre'-moderno e tacciare di soggettivismo ermeneutico il lavoro inevitabile delle
interpretazioni del mondo? E se ci fosse una 't erza via', nella consapevolezza che il Realismo “è mentalità una che
percorre trasversalmente le aree del 'moderno', insinuandosi in esso come elemento di resistenza e di
inquietudine” (Manfredo Tafuri)?
'Io', 'r ealtà', 'v erità', 'libertà' sono parole d'ordine del 'moderno', inizialmente indicazione cronologica –
dall'avverbio latino 'm odo' che vuol dire “ora, in questo momento, recentemente”- che designa la semplice
attualità del tempo presente e successivamente, trasformatasi in sostantivo e caricata del senso di “novità”,
passata a contrassegnare l'atteggiamento del pensiero critico e della libertà di autodeterminazione della ragione e
le sue peripezie ermeneutiche, fino a farsi evanescente sinonimo di ciò che è al passo con i tempi: neutra
registrazione di ciò che è di 'moda' – sostantivo latino 'm odus' - e prescinde da ogni interrogazione critica.
L'approccio alla verità, l'esercizio della libertà, il disincanto su un 'r eale' accesso all'o ggetto – non 'dato' ma
eternamente compito, problema - sono questioni tutte moderne la cui potenza interrogativa sfida risposte già
tentate per interpellarci sempre ancora, in definitiva mettendo in questione noi stessi.
Il Nuovo Realismo, nell'”esorcismo” dell'ontologia – secondo la brillante definizione di Jacques Derrida – si
arrocca nella purezza di una filosofia ridotta all'osso e fa appello al senso comune per descrivere e catalogare la
consistenza inemendabile del mondo, banalizzata fino all'ovvio.
Ma, ci insegnano gli psicologi, se la realtà è quella effettuale, la cui esistenza si pone “ al di là di ogni possibile
dubbio”, talmente scontata da produrre assuefazione ” ed essere assunta acriticamente come in sonno, reale è
invece ciò che ci inquieta e ci scuote. Ci sveglia dal “ sonno della realtà (Massimo Recalcati), perché la
scompagina e resiste al potere dell'interpretazione. La realtà è il velo che ne ricopre l'asperità scabrosa,
“ analgesico” invocato a sedare il 'patimento' di una ragione che si scopre “paziente” nel duplice senso di
rassegnata a elaborazioni lente - “ senza fretta” - e di fragile di fronte ai propri limiti - “ ammalata” di finitezza.
Destinata a 'p atire' innanzitutto se stessa, il fatto di non riuscire a dare ragione di sé né di rispettare i limiti che
essa stessa si dà, in un infirmitas essenziale che coinvolge il proprio modo di “ esserci”, di rapportarsi al mondo e
più genericamente all'altro.
Anche l'architettura 'soffre' il reale: sostrato plurale che mette in questione le ragioni del progetto. Il peso della
consistenza concreta e la durezza della 'datità' materiale sono condizioni del suo stesso esistere, del suo essere
“ cosa costruita”, ma anche eccedenza provocatoria che, nel lavoro, innesca la dinamica trasformatrice dei
bisogni. “ Quid tuum” - che cosa allora? L'interrogativo tragico è inciso sulla medaglia che Matteo Pasti dedica a
Leon Battista Alberti; su di esso lo sguardo di una palpebra in forma di ala, “ occhio alato” che restituisce il senso
di questo interrogare che disincanta e permette di vedere - tra fissità e colpo d'occhio - la Res Aedificatoria: il
'reale' architettonico.
Quale Realismo, dunque, per l'architettura, sempre pensata in reciproco rispecchiamento con la filosofia,
paradigma della costruzione e al tempo stesso figura dell’interrogazione sulle strutture, della loro fondazione e
della loro esposizione?
E' l'architettura un 'fatto inemendabile' o piuttosto il suo statuto, molto più complesso, non è semplice
questione ontologica?
Limitandoci al moderno, val la pena ricordare che Kant, nella Critica della ragione pura, descrive l'”insieme
di ogni conoscenza della ragione pura e speculativa”come un “edificio di cui possediamo in noi almeno l’idea”.
L'architettura del sistema consta di due livelli - quello dei materiali e quello dell’idea - ed è proprio grazie a
questo doppia essenza della costruzione – concretezza ed effettualità della materia ed idealità e progettualità della
forma – che la metodica può innestarsi sulla sistematica.
Con i soli materiali della conoscenza, infatti, si può costruire “ una casa d’abitazione” e non “ una torre che
avrebbe dovuto elevarsi fino al cielo”. La concretezza della casa definisce i limiti dell’opera sistematica, legata
alla finitezza dei suoi materiali, mentre il ‘disegno’ della torre - quella babelica – mette in guardia sulle velleità
della ragione nel suo procedere metodico.
La metafora architettonica si rafforza con Fichte, che, nella Dottrina della scienza, assimila la scienza a un
edificio il cui carattere essenziale è la solidità, posta ‘a base’ di ogni possibile abitare, nella necessità prima di un
fondamento, di un appoggio sicuro “ sul fermo terreno”. Identifica, dunque, la costruzione come saldo oggetto di
ostensione.
Innestandosi su questa tradizione di pensiero, Heidegger rappresenta la metafisica come un edificio eretto
sulle fondazioni sicure di una struttura stabile. Pone l'accento sull'importanza del fondo (Grund), quale suo
supporto essenziale, cui la filosofia, nello svolgersi della sua storia, ha dato molteplici nomi - logos, ratio,
archè… - tutti riferiti all’essere, inteso come presenza e identificato con lo stare eretto, con il 'tenersi' della
costruzione. La metafisica, come “ fondamento”, è il supporto che regge e la filosofia è la costruzione di
proposizioni che si tengono proprio grazie a quel fondo, in una reciproca interazione. Come ci insegna
l'architettura, disegnare una fondazione è già costruire un edificio: la fondazione regge l'edificio, ma l’edificio
condiziona la fondazione, la rende possibile. Il fondamento, dunque, è costituito, piuttosto che disvelato, da ciò
che appare come aggiunto. In fondo, la storia della filosofia è evoluzione di soluzioni strutturali: i modi della
costruzione cambiano al cambiare del peso e del fondo.
La metafora della struttura fondata pone la relazione con l'essere in termini rappresentativi, tra pensiero e
linguaggio. La serie metafisica essere/presenza/rappresentazione si rispecchia nella serie, tutta architettonica,
fondazione/struttura/ornamento, dove la fondazione è il pensiero che dà ragione dell'essere, la struttura la parola
che lo manifesta, la scrittura l'eccedenza segnica che lo rappresenta.
Ma, se la logica della metafisica è quella del supporto, la figura dell'architettura è quella dell'addizione:
l'assemblaggio tettonico della struttura e l’aggiunta decorativa del rivestimento. Alla dicotomia metafisica
fondamentale/supplementare corrisponde, allora, quella architettonica struttura/ornamento. La struttura poggia
sulla fondazione, sottomessa all'autorità della presenza. L'ornamento si rapporta alla struttura e la rappresenta: è
un elemento ridondante rispetto alla logica fondativa, ma necessario ai fini della rappresentazione. Si ascrive,
quindi, all'economia del supplemento: inerisce la rappresentazione, piuttosto che la presenza. Ricoprendo la
struttura, vela la natura del supporto - del fondamento - ma al tempo fenomenizza l'opera, la offre ai sensi,
svelando che l'ergon - la costituzione strutturata e fondata dell'opera - non è sufficiente a se stesso. È
un’addizione che svela una carenza essenziale, un “più” che denuncia il “meno” cui supplisce, perciò è detto
parergon: “ sta in cambio, in posizione subordinata e in più dell'ergon, del lavoro compiuto, del fatto, dell'opera»
e a essa partecipa «né semplicemente al di fuori, né semplicemente all'interno” (Jacques Derrida, La verità in
pittura).
Può esser dunque l'eliminazione dell'ornamento e del suo statuto supplementare garanzia di certezza, così
come vuole il Nuovo Realismo? L' “ architettura nuda”- come titola il libro di Valerio Paolo Mosco –
francescanamente povera ma incredibilmente chic, essenziale e semplice a evocare la limpidezza della ragione -
addirittura “ senza pelle” con ossa, muscoli e nervi scoperti - è davvero l'unica via al reale? Dobbiamo tornare alle
origini del moderno, all'idea di una verità architettonica interpretata come struttura necessitata, che, a partire dal
'600, percorre la tradizione moderna della razionalità e del rigore?
La costruzione, come espressione diretta della resistenza statica, dissolvere il decorativo nel tettonico. Per
August Perret “ l'architettura è l'arte di far cantare il punto di appoggio” e “non esiste dettaglio in costruzione”,
perché la messa a punto di particolari decorativi troppo spesso nasconde difetti di esecuzione. Ma non
sperimentiamo tutti noi architetti, sul cantiere, che l'imperfezione di esecuzione chiama alla correzione? Con
'realismo', il giunto mal riuscito va 'pazientemente' ripensato perché possa riscattarsi sul piano estetico.
Il particolare, dunque, può essere fattore di realtà, come ci suggerisce la filosofia. E' proprio un paladino del
Realismo, György Lukács, a eligere la “particolarità” a categoria centrale dell'estetica. Nelle sue parole: “ la
particolarità (...) è, negativamente, la rinuncia a riproporre la totalità espressiva della realtà e, positivamente, la
rappresentazione di una parte della realtà (...) da un determinato ed essenziale punto di vista. (...) In essa le
determinazioni essenziali della vita interna, per quel tanto che possono trovarsi in genere in una tale cornice
determinata, si esprimono nella loro giusta proporzionalità, nella loro contraddittorietà, nel loro movimento e
nella loro prospettiva reale”.
L'arte, “ rispecchiamento” del reale, pur condizionata dal complesso dei rapporti di produzione della società, è
luogo privilegiato dell'auto-consapevolezza umana, perché nel “ particolare (...) sintesi che unisce organicamente
il generico e l'individuale” è capace di cogliere l'intera struttura dialettica della propria situazione storica, “ il
nucleo più profondo di un'epoca, ciò che la caratterizza nelle sue tendenze di sviluppo più esemplari e
significative”. A differenza della scienza, che privilegia “ i fatti e le loro connessioni” e separa il fenomeno
dall'essenza per ricavarne leggi universali, l'arte “ si risolve completamente nel fenomeno”, ne ricerca il mistero
senza svelarlo, “mette a fuoco” un particolare concentrando il suo sforzo sull'intensità della rappresentazione, per
offrirci “ anime e destini”. Non pedissequa rappresentazione della realtà, ma processualità tesa a catturare l'aspetto
“tipico”, funzionale a un determinato ordine di significazione.
E il “tipico” è la chiave di lettura del Neorealismo del secondo dopoguerra. Sono gli anni in cui l'Italia
rinuncia all'industrializzazione del settore delle costruzioni per privilegiare un'edilizia artigianale, capace di
impiegare il maggior numero possibile di operai non specializzati, e per rispondere al dirompente problema della
“ casa per tutti” con toni domestici, familiari e concilianti. Nascono le borgate, scene privilegiate dei “ ragazzi di
vita” pasoliniani, con edifici popolari che riscattano la banalità strutturale e formale nell'esaltazione di elementi
accessori: 'particolari', appunto, che nel linguaggio popolare perseguono il riconoscimento dell'abitante rispetto al
luogo e nella “ distorsione linguistica” di quel lessico celebrano la spontaneità e la vitalità della “purezza”
contadina.
Dal quartiere T iburtino di Mario Ridolfi, a Roma – “Paese dei Barocchi” nella icastica definizione di
Ludovico Quaroni - al superamento dell'ideologia del quartiere nel progetto dello stesso Quaroni per le Barene di
S. Giuliano... la stagione neorealista si consuma in fretta. Come lascito: l'idea del dettaglio e la sua condensazione
segnica.
Al di là del senso, però, il 'particolare' può essere interpretato letteralmente come 'dettaglio' architettonico,
seguendo le suggestioni offerte da Jacques Derrida, ne La verità in pittura, a proposito delle “ scarpe di Van
Gogh” che tanto intrigano Martin Heidegger e Meier Shapiro e che lo stesso Vittorio Gregotti cita nel titolo di un
vecchio articolo su «Casabella». Significativamente “ Restituzioni” è il capitolo che affronta il tema. Cosa
“ restituisce” la pittura – e con essa l'architettura? Cosa “ rende” l'immagine di due scarpe logore slacciate,
abbandonate, “ separate dal soggetto e da se stesse”?
Sorge un primo problema di “ attribuzione”. La disputa tra Shapiro, che le vorrebbe dismesse da un cittadino, e
Heidegger, che le immagina solo accantonate da una contadina, suggerisce a Gregotti “ l'importanza costitutiva
della relazione con il soggetto (...), tema specifico” del progetto. Importante, certo, ma non 'inemendabile' dato
iniziale, come ci insegnano appunto quelle scarpe. La loro attribuzione, che muove differenti interpretazioni, è in
fondo una “ ri-messa”: “ rimettere le scarpe ai piedi, (...) al soggetto, (...) al portatore o proprietario, reintegrato nei
suoi diritti e re-stituito nella sua posizione eretta”. Le scarpe toccano il terreno (fondo, fondazione o fondamento)
e al tempo stesso se ne distaccano: “ staccano da sé un mandatario, una parte di sé per pensare il tutto, per suturare
o cicatrizzare il tutto che subisce il distacco”.
Il paio di scarpe, dunque, è “ simbolo”: parola greca che in origine indica il frammento di coccio che
l’ospitante dona all’ospite affinché sia possibile, in futuro, un riconoscimento e un ritorno alla stessa casa.
Sottende un’unità da ravvisare nella parte residua;' una parte che evoca il tutto, lo rappresenta per metonimia o
sineddoche. Inoltre, sottolinea Derrida, è del “ genere del vestiario”: parergon per eccellenza, che “accenna a un
movimento di ritorno alla cosa (...) definita ‘mera’ (spogliata dei caratteri di usabilità e di fabbricazione) (...) ma,
come vestiario è investito, abitato, informato (...) assillato (...) dalla forma di un'altra cosa da cui è distaccato”. Si
“ distacca” per poi “ allacciarsi” “per mezzo di un laccio invisibile che fora la tela”e la ricollega al suo ambiente e
al suo mondo. Anche il quadro è preso in quei lacci che sembra contenere come propria parte. Attraverso la
foratura degli occhielli – pointure restituita in peinture – i lacci connettono il quadro al suo “fuori”: al reale che
“ restituisce”.
Dunque, il particolare (détail), come nel feticismo, implica un investimento simbolico, è faccenda di economia
che riguarda la taglia (de-taille) e la sua dissimmetrica eccedenza, perché altera il rapporto tra parte e tutto in una
corrispondenza che si intreccia e si aggroviglia, eccessiva nella sua gara al rialzo, dove la parte “ diviene più
grande del tutto di cui fa parte, di cui essa fa (una) parte”.
I lacci, sono “ dettaglio” (détail o dettaille) che agisce il passaggio dalla taglia piccola o piccolissima del
particolare al fuori misura del reale, presente che non si lascia mai adeguatamente presentare. Forniscono un
massimo estetico senza perdersi nell'impresentabilità del reale. “ Dettagliare” è lavorare sulla “ messa a fuoco”, in
un corpo a corpo con la cosa reale, un allonatanamento regolato tra un troppo vicino e un troppo lontano.
Anche il dettaglio architettonico può farsi tramite verso il reale – questa la lezione del Neo-razionalismo –
oltre che tramite verso il tutto: attraverso il suo esser parte e nel generare le parti compendia la struttura
dell'intero. Svela il sistema costruttivo e il senso dell'edificio.
Come “ condensazione tettonica”, è intersezione che assorbe il tutto nella parte in una significativa distorsione
simbolica. Passando dal grande al piccolo, nella scala 1:1 del disegno al computer, riporta il progetto alla
dimensione reale avvicinandolo alla prossimità dell'uso. Luogo di passaggio tra differenti piani: il capitello che
connette verticale e orizzontale; tra differenti giaciture: la soluzione d'angolo nelle molteplici declinazioni; tra
differenti elementi e materiali: l'incastro o l'aggiunta... ma anche “nodo” concettuale capace di “ allacciare” una
relazione con il reale sempre sfuggente.
Nella dialettica tra idea globale e approssimazione dettagliata, l'architettura esige la perfezione del dettaglio
fino a dissolversi in esso, in un lavoro “paziente” - consapevole e lento – ben lontano dall'immediatezza di tanti
edifici contemporanei, che invece lo rifuggono, prediligendo una materializzazione provvisoria dove i punti di
transito sono definiti con graffe e adesivi nell'illusione di una superficie ininterrotta, da ammorsare, incollare,
piegare, fondere – piuttosto che giuntare – per dar vita a forme spettacolari.
Anche questo è un modo – forse il più banale – di declinare il Realismo, come appiattimento sulla realtà, per
cavalcare cinicamente le mode e i mercati nell'incapacità a pensarsi in una prospettiva diversa. Una via “ anti-
patica”, che si nega al patimento dell'interrogazione che il reale comporta, con le sue contraddizioni e i suoi
squilibri.
LIVIO VACCHINI (1933-2007): LA S TRUTTURA ES PRESS IONE DELL’ARCHITETTURA
Vincenzo Ariu

Livio Vacchini assieme a Botta, Snozzi, Galfetti, stesso.”1 L’architettura è un fatto mentale, non c’è
Campi e Pessina faceva parte di quel gruppo di separazione tra teoria e prassi, Vacchini, come Eu-
architetti trentenni e quarantenni che Kenneth Fram- palinos, costruisce con il corpo e con l’intelletto.
pton, alla fine degli anni settanta, consacrò come Costruire è atto completo, è soddisfare un bisogno,
esponenti di punta del “ regionalismo critico” nella ma è ancor più esprimere un desiderio. Vacchini è
nota Modern Architecture: A Critical History. Un un architetto che studia: studia i maestri, la storia.
gruppo di architetti eterogenei per formazione e Egli non cerca il sapere fine a se stesso, tantomeno
interessi, accomunati da un’ondivaga amicizia, da un sapere finalizzato alla scrittura. Vacchini studia
un fazzoletto di terra comune, dalla vicinanza per comprendere, per misurarsi.
culturale di Milano e Como e dalla figura onnipre- Per lui la storia non esiste, esistono opere, opere
sente e mitica del maestro del Moderno: Le Corbu- che vanno criticate. Opere dei maestri, cioè di quegli
sier. architetti che sono stati capaci di interpretare l’ere- Foto vista di scorcio, P alestra polivalente, Losone, 1990-
97.
Tra questi giovani e talentuosi architetti Livio dità del passato. I maestri sono coloro che hanno
Vacchini, dopo aver condiviso per circa cinque anni colto il problema, lo hanno sviscerato, per poi ab-
lo studio con Luigi Snozzi, dal 1969 al 1990 intra- bandonarlo e lasciarlo ai posteri.
prese una ricerca professionale ed intellettuale sofi- Di fronte ad ogni nostro fare i maestri compaiono
sticata distante dalle facili derive contaminanti del come spettri e con le loro soluzioni ci sfidano, ci
post-moderno della fine degli anni settanta. Le chiedono di comprendere, di contribuire, di dare il
realizzazioni di quel periodo, seppure di altissimo nostro apporto ad ogni singolo problema. In questo
livello, accompagnati da una comunicazione, a vol- senso la storia delle opere di architettura, secondo
te criptica, apparivano meno accomodanti per un Vacchini, è una sorta di confronto, di verifica, di
pubblico allora ammaliato dalle forme seducenti di continua messa in discussione dell’esistente, dello
Mario Botta o dalla dialettica etico-politica e pro- stato, del già stato. Relazioni pericolose intorno ai
fessorale di Luigi Snozzi. temi centrali dell’architettura. I maestri sono coloro
Lo incontrai una prima volta nel 1999. In quel che prendono di petto le questioni, donando un
momento Livio Vacchini viveva una nuova fase del- contributo essenziale impossibile da ignorare.
la sua parabola professionale. Aveva appena rea- Le questioni sono sempre le stesse, riguardano il
lizzato o stava per realizzare le sue opere più im- senso del fare architettura, il senso dell’abitare il
portanti e appariva, non solo ai miei occhi di gio- luogo, la città, il mondo. Si modifica, si evolve la
vane architetto, come l’esponente più profondo e T ecnica. Ogni tempo possiede la sua tecnica e
concettuale di quella stessa generazioni di architetti questa assolve e si a datta ai desideri degli uomini.
ticinesi. Dopo quel primo incontro ebbi la fortuna di Per Livio Vacchini non esiste un problema della
incontrare Vacchini altre volte prima della sua tecnica (Fig.1).
inaspettata dipartita, riuscendo anche a organizzare
una mostra collettiva nei locali della fortezza del Struttura come inte rludio tra lo spazio archi-
Priamar di Savona, che lo vide protagonista assieme tettonico e il mondo
all’amico Luigi Snozzi e la compagna di quella Lo spazio architettonico è isolato dal mondo. È
stagione della sua vita Silvia Gmur. Nell’arco di un uno spazio contemporaneamente chiuso da fuori e
quinquennio incontrai Livio Vacchini altre quattro concluso da dentro. Il limite tra lo spazio isolato e lo
volte, incontri molto intensi, anche se conviviali, nei spazio del mondo è dato dalla struttura. La struttura
quali l’architettura come disciplina si dispiegava è ciò che media i due mondi, quello dell’individuo,
nelle sue parole in puro pensiero manifesto nel fatto dell’abitante e l’altro. La struttura non è solo “ strut-
costruttivo. Mies e Kahn forse più che Le Corbusier tura”, non sopporta solo il peso della costruzione
rappresentavano per l’architetto di Locarno i mae- dello spazio. Essa è mediazione, è significato, è
stri con i quali instaurare dispute concettuali, mai espressione. Nell’opera di Vacchini la struttura esce
formali. Poco prima della sua scomparsa scrissi al- fuori dell’involucro, diventa facies, nello stesso
cune riflessioni nelle quali aleggia l’audace trasfi- tempo è rapporto con il luogo. La struttura diventa
gurazione dell’architetto di Locarno in una mitica gioco di pieni e di vuoti, la struttura è luce e ombra,
figura di Paul Valery. è ciò che definisce lo spazio, nel quale è possibile la
Livio Vacchini è Eupalinos. Architetto è il co- vita e dal quale essa è visibile.
struttore, è colui che “ (…) pensa alla propria arte
esercitandola e mentre la costruisce costruisce se 1
R. Masiero, op. cit., p. 173.
La struttura non è verità costruttiva, non essenza centripeta, raccoglie e accoglie virtualmente indif-
dell’utilità. La struttura, una particolare struttura, ferentemente da tutte le direzioni. Però essa non è
non è che una possibilità tra mille altre possibili. È tempio, non è formata da autentiche colonne, l’in-
uno dei possibili del fare architettura, come tale è terno è comunque orientato e direzionato. Vacchini
essenzialmente scelta, creazione di senso che si ha il problema dell’ingresso, che risolve con una
manifesta, poi, solo nell’unicità dell’opera realiz- doppia astuzia: Sopraeleva il tempio di 140 cen-
zata. La struttura è allora espressione, è ciò che si timetri4 , l’altezza che permette allo sguardo di attra-
manifesta, è ciò che si mostra dello spazio isolato versare l’edificio, e pone l’ingresso interrato.
del mondo. Entrare è, quindi, penetrare nella terra, senza alterare
Esempio straordinario è la palestra di Losone il recinto strutturale.
(Figg.2,3). L’edificio è un tempio periptero, un re- Nell’opera di Vacchini la struttura non è solo ciò P ianta, P alestra polivalente.
cinto, senza muri, senza finestre. Pura struttura, le che divide lo spazio architettonico dal mondo ester-
colonne segnano il ritmo. Non esiste architrave, no, in alcuni casi è l’elemento ordinatore dello spa-
l’edificio, o meglio le colonne, si concludono decise zio.
da una cesoia e dise gnano la forma del cielo. Il tetto Nella Scuola di architettura di Nancy (Figg.6,7),
è piano, non direzionato. La forma è un’invenzione la struttura distingue gli spazi serventi e gli spazi
strutturale che fa tesoro della lezione kanhiana. Si serviti. Al piano pubblico, a livello della strada, la
tratta di un reticolo di travi in calcestruzzo armato struttura forma uno spazio straordinario. Struttura è
precompresso2 con un particolarissimo perimetro ritmo, struttura è, come nella moschea di Cordoba,
che risolve l’aggancio con i pilastri. Così lo descrive labirinto nel quale, in un gioco mutevole, la luce
Roberto Masiero: compare e scompare.
“ Quale la soluzione? Pensare (l’architettura è Nelle ultime opere tra le quali il progetto di
questione mentale) di dare alla piastra una forma concorso per il centro amministrativo della città di
dentata. Ogni dente lungo tutto il perimetro si ap- Marsiglia, la struttura prende il sopravvento. Livio
poggia sopra il relativo pilastro-colonna, diven- Vacchini da un po’ di tempo lavora su una struttura
tando così capitello.(…) ”3 portante esterna all’edificio, una struttura che deter-
Nella palestra di Losone struttura e architettura mina i prospetti, il rapporto tra l’esterno e l’interno.
sono una identità. Identità non vuol dire riduzione La struttura, diventa brise-soleil, controlla la luce ed
della dimensione architettonica in mera struttura è determinata dalla luce. L’architettura è nuova-
funzionale. La struttura è essenza, una delle essenze, mente gioco di pieni e di vuoti. Negli ultimi progetti
senza la quale non può esistere architettura. Non Vacchini si misura con la struttura di acciaio, si
esiste mediazione reale tra lo stare dentro e lo stare misura con il doppio T di Mies van der Rohe. Si
fuori. misura, cerca di dare un apporto disciplinare, ma
L’opera di Vacchini è una critica feroce verso un non vuole competere con il maestro di Aquisgrana.
mondo disciplinare che cavalca la separazione tra la Il doppio T miesiano raggiunge la poesia nella Sezione longitudinale, P alestra polivalente.
struttura, spesso indifferente o semplicemente espe- Nationalgalerie di Berlino, diventa colonna, le
diente tecnologico, e l’involucro, sede dell’espres- infinite sfaccettature, bagnate dal sole, segnano il
sione architettonica, sede della deriva stilistica, sede tempo. Eppure, non raggiungono le infinite vibra-
dello stemperamento dell’architettura in prodotto, in zioni delle scanalature di una colonna dorica. La
bene commerciale. stessa sezione del doppio T, così perfetta stati- Foto vista generale, P alestra polivalente
Una volta data, la struttura articola e ordina tutto camente, resistente alle diverse tensioni, impedisce
il complesso architettonico (Figg.4,5). Nell’architet- alla luce di penetrare, di esprimere profondità e resi-
tura della tradizione il muro e l’orditura del solaio stenza della struttura. Così Vacchini lavora su una
determinano l’ingresso, lo sviluppo e l’orientamento struttura complessa disegnata per resistere e per
dell’edificio. Nella palestra di Losone la struttura è dichiararsi, esprimere la propria essenza. Kunstform
che determina la Kernform. Non si tratta di una
2
“la soletta è dunque una piastra che staticamente è caricata ricerca speciosa, volontà debordante dell’architetto.
sul muro di pilastri mentre concettualmente è contenuta fra di Si tratta piuttosto di pensare la struttura come opera
essi. Essa è stata eseguita in tre tappe di circa 31x18 m creativa, possibile tra i possibili. In questo senso la
procedendo dapprima al getto delle travi, alla scasseratura
delle parti verticali e successivamente al getto della soletta su
lezione di Mies è colta nella sua dimensione, del tut-
elementi prefabbricati di chiusura del cassettone in to antiformalista e antistilistica. Una lezione che non
calcestruzzo. La tesatura dei cavi di precompressione è stata intende precludere i possibili, le possibili soluzioni
eseguita nel senso trasversale per ogni fase di getto della ad un problema, ma piuttosto coglierne i criteri
soletta per permettere la scasseratura. A getto ultimato è
generali, universali.
tesatura longitudinale avvenuta è stata riequilibrata la
precompressione dei cavi precedentemente tesi nel senso
trasversale.( …) ” Brano tratto da R. Masiero. Livio Vacchini.
4
Opere e progetti. Electa, Milano 1999. P ag.184. L’ altezza esatta corrisponde a 1,397 metri, numero magico,
3
R. Masiero. Livio Vacchini. Opere e progetti. Op. cit. P ag.14. numero del Modulor. P ianta, Scuola di architettura, Nancy, 1993-95.
Livio Vacchini, colti i criteri generali, colto il Polemizza con i maestri di sempre: Palladio, Wright,
problema, diventa radicale. Le Corbusier, Mies, Kahn. La casa è composta di
La nuova parete-struttura del progetto di Mar- due spazi, per Vacchini tutte le case sono composte
siglia è un reticolo di travi incorniciate in un telaio. di due spazi, uno serve, l’altro è servito. La struttura
Ma nel suo studio di Locarno sta già studiando una ribalta la concezione strutturale della Farnsworth di
nuova soluzione del tutto innovativa. Il reticolo non Mies van der Rohe ed è composta di una soletta
è composto di travi, ma è un doppio grande (grande piena portante, tetto della casa, e sei setti posti,
quanto la facciata) reticolo di acciaio, mediato da come nel Kimbell Art Museum di Kahn, ai lati corti
elementi piatti in acciaio orientati per resistere alle della casa. Non esiste, quindi, struttura che inter-
tensioni e per catturare la luce all’interno della rompe, come nella Farnsworth, lo spazio della casa,
struttura stessa5 . o meglio la relazione dello spazio interno con
La lezione miesiana nell’opera di Vacchini non si l’esterno. In Casa Vacchini ci sono solo due cose: lo
presenta mai come forma, come linguaggio codi- spazio chiuso e l’altro, la natura. La struttura media P rospetto e sezione, Scuola di architettura.
ficato riproducibile, ma piuttosto come risultato di uno spazio isolato, dal quale si osserva il mondo.
una riflessione. Lo studio dei maestri è proprio rico- Punto di vista particolare, sopraelevato. Non è con-
struire il processo, coglierne le aperture porne in fondersi con la natura, ma è dominarla, anche se per
crisi le soluzioni. un istante. Dall’esterno la struttura a setti però è
Poi, c’è la suggestione. Vacchini si misura con i insufficiente per trovare radice. La casa è orientata
maestri ma, nello stesso tempo, soggiace di fronte ai perpendicolarmente al terreno acclive, la struttura
loro capolavori. Il Segram Building diventa cavia di ordina il cerimoniale, il percorso d’ingresso. Nello
laboratorio, se ne cercano i limiti, le sfasature, o stesso tempo la struttura definisce gli spazi della
semplicemente i trucchi, trucchi di prestigiatore. casa nell’unico piano. Poi però essa deve trovare
Così, il problema dell’ombra e dei riflessi dei mon- radice, ancorarsi al difficile terreno. All’apparenza
tanti sul curtain wall del grattacielo è risolto con il rinuncia al basamento, al piano che tutto risolve. In
vetro bronzeo. Si tratta di un trucco per ottenere realtà osservando la sezione longitudinale possiamo
l’ombra, per ottenere l’unità dell’opera, ma non è la osservare come in Mies van der Rohe, il fare piano Sezione longitudinale, Casa Vacchini, Costa Tenero,
soluzione al grattacielo, all’edificio monolitico che esiste, esiste sempre. Il piano di calpestio della casa 1991-92.
orienta, che segna con le sue scanalature, come la è base, ba se che piega, leggermente inclinata, che si
colonna loosiana, il divenire del tempo. Scoperto radica nella terra6 .
l’inganno il Segram Building è ancor più il capola- Nella città il discorso muta. Livio Vacchini è un
voro, l’opera alla quale torniamo ogni volta, l’opera architetto ancora capace di sognare, e quando sogna,
che chiude e nello stesso tempo dischiude il proble- sogna la città ideale.
ma. Livio Vacchini si misura con chi ama. È com- “Ho sempre immaginato che la città ideale
petizione (cum-petěre, chiedere, dirigersi, andare, appoggia su una superficie perfettamente piana,
chiedere insieme) nel senso nobile del termine. Si orizzontale, che forma lei stessa lo zoccolo di tutti
compete per comprendere insieme, si compete per gli edifici. La mia città ideale è un grande zoccolo,
comprendere l’altro. Tettonica e città ideale magari con gli scalini tutti in giro per tutti i chilo-
Se la struttura si manifesta come espressione metri del suo perimetro. Su questo grande zoccolo
dello spazio isolato, dello spazio che dichiara la posano le case che non hanno più bisogno di basa-
soglia, diventa fondamentale la relazione con il mento, si posano tramite giunti. La città è già la
contesto. Per Vacchini il contesto è essenzialmente città, è già costruita.”7
problema, contesto significa comprendere come è La città ideale di Livio Vacchini ricorda l’acro-
possibile radicare l’architettura, trovare il legame tra poli, le antiche città fortificate, essa è un piano, un
essa e la terra. In questo senso la struttura, un po’ piano costruito dagli uomini, lo zoccolo, il basa-
come ho sottolineato analizzando le opere di Mies, è mento di tutte le costruzioni. Fuori c’è la campagna,
espressione tettonica, di quella tettonica/carpenteria la natura, dentro ci sono gli uomini comunque radi-
di matrice semperiana. È téchnè, l’arte del costruire. cati. Gli edifici all’interno di questa città non hanno
Poi c’è il problema della base, di quell’originario necessità di ristabilire un ordine, ci sono già dentro,
fare il piano in una T erra magnifica e ostile. Livio sono parte di un tutto che è a sua volta parte del
Vacchini è uomo di montagna, sa quanto è difficile mondo. È il piano per il campus dello IIT di Chi-
radicare un edificio in un luogo impervio.
6
Casa Vacchini in Costa Tenero (Figg.8,9) è per Livio Vacchini mi ha confessato di non amare il prospetto nel
l’architetto la conclusione di un viatico importante. quale sono visibili i setti della struttura. La mediazione del
solaio che piega non la considera un’ autentica soluzione al
problema del radicamento. Forse ha ragione, ma il progetto mi
5
Mi riferisco alla struttura esterna all’ edificio chiamato “ La sembra più interessante per come pone il problema piuttosto che
Ferriera” a Locarno. Quando lo incontrai nel suo studio nel per come lo risolve.
7
2001 Vacchini stava realizzando il prototipo della struttura ed in Da un’ intervista che mi è stata rilasciata a Locarno il 10 di-
quella occasione me ne illustrò il senso. cembre 2001.
cago di Mies van der Rohe, ma anche Chicago in questo modo, renderla unica. Nello stesso tempo il
rapporto con il Federal Center. La città si radica alla proporzionamento è l’atto del chiarire, del fare luce
terra. La terra è tellurica (tellus, terra), l’architettura sull’opera. Di nuovo Eupalinos. Nella palestra di
della città è solo tettonica (in senso semperiano, Losone, anch’essa dimensionata con il Modulor, la
téchnè). proporzione declina nel ritmo. Come nella Crown
Si dispiega l’opera di Vacchini in città, la strut- Hall di Mies van der Rohe, le geometrie si stem-
tura determina l’architettura, poi cerca una media- perano in un gioco di elementi in successione che
zione con il piano della città, lo spazio pubblico. senza soluzione di continuità s’inseguono lungo il
L’edificio in città si solleva come nel Palazzo perimetro. In tal modo i singoli elementi non sono
postale di Locarno, o come nel suo studio sempre a più solo comparabili alla singolarità dell’opera, ma
Locarno. Fuori città, in mezzo alla natura, cerca divengono misura del contorno.
radici diventa tellurico, come nella palestra di
Losone. Particolare
Foto del particolare dei capitelli della copertura, P alestra
Non esiste distinzione tra il particolare e l’opera.
polivalente, Losone, 1990-97.
Il rapporto con la te cnica Per Vacchini il particolare è sempre in relazione, e
Per Vacchini l’uomo faber è la sintesi di due fat- ha senso, all’intero di una costruzione architettonica
tori. Il primo è eterno, immutabile, è il bisogno, il specifica. Il progetto nel suo farsi è un perfezio-
desiderio, l’altro è in divenire, muta, è il mondo namento continuo, è una ricerca continua. Nel parti-
della tecnica. colare il progetto prende forma, sostanza. Lascia il
“ La tecnica è un fatto concreto che io non metto mondo delle idee, del generico è diventa reale, cor-
in discussione e che utilizzo per poter osservare i poreo. Le opere di Vacchini sono continuo studio
problemi fondamentali (dell’uomo, gli aspetti che del particolare, perché solo da esso è possibile de-
non mutano) che non cambiano mai e interpretarli finire l’opera. Il particolare trascende la soluzione
in un altro modo.(…)”8 tecnologica, è disegno precisissimo dell’opera.
Vacchini non ha paura della tecnica, essa è per Nella palestra di Losone (Fig.10), la soluzione
l’appunto un fatto, grazie ad essa è possibile mutare del tetto piano dentellato, che diventa capitello, è un
i punti di vista, senza di essa l’uomo perderebbe la dettaglio che ha senso solo se inserito nelle logiche
possibilità di creare. Vacchini non si affida a essa, costruttive ed espressive dell’opera nella sua inte- Foto vista interna, Casa Vacchini.
intende semplicemente usarla, magari deformarla. rezza.

Proporzione
Nei disegni progettuali di Livio Vacchini non manca
la figura stilizzata del Modulor. Non a caso, l’ar-
chitetto dichiara di utilizzare abitualmente il sistema
proporzionale definito da Le Corbusier, sistema di
misure che sostituisce in pratica l’astrazione del
sistema metrico decimale. Le misure del Modulor
non garantiscono il buon proporzionamento, semp-
licemente operano una prima selezione, riducono le
infinite possibilità dei numeri. Sotto sotto Vacchini
cerca la precisione, ed essa è oltre il Modulor, oltre
qualsivoglia codice. È la ricerca che unisce i maestri
del novecento (Loos, Behrens, Le Corbusier, Mies
van der Rohe, ecc.) con l’antica numerologia. Senza
soluzione di continuità Ictino, come Mies, come
Vacchini cercano il Kanón9 , cercano l’unità di
misura, cercano la precisione (pre-caeděre, tagliare,
dove tagliare). Nei progetti di Vacchini il dimen-
sionamento e il rapporto tra le misure è l’estremo
tentativo di determinare la soluzione possibile e, in

8
Ibidem.
9
F. Ferro. Il disegno della pianta: concezione dello spazio e
rappresentazione dell’architettura. Tesi di dottorato di ricerca
in “rilievo e rappresentazione dell’architettura e dell’am-
biente” Consorzio fra le facoltà di architettura delle università
degli studi di P alermo, Reggio Calabria, Napoli II Ateneo,
P alermo, 2000.
NUOVI PAES AGGI
Gaetana Laezza

Nel passato, qualunque periodo storico si vada ad bili a sistemi e linguaggi predeterminati, essendo
esaminare, si manifestano chiaramente alcuni ele- sempre il risultato di rapporti temporanei, locali, sì
menti che permettono l’attribuzione di un determi- da variare al variare di questi rapporti. Un carattere
nato modo di organizzare la natura ad un preciso co- non necessariamente negativo, dal momento che, se-
dice stilistico. condo quanto ha rilevato il Bauman, nella sua e-
Di fronte ad un giardino di forma quadrata o ret- stemporaneità, l’oggetto artistico, ed anche quello
tangolare cinto da mura in cui le aree verdi sono di- proprio alle forme d’arte più stabili come
vise secondo i diversi tipi di coltivazione (giardino l’architettura e l’arte dei giardini, si dona come e-
degli odori con fiori profumati, orto, area destinata vento offerto alla partecipazione dei fruitori, libe-
alle piante officinali, vasca con pesci, ecc.) si può rando energie creative ed, infine, estetiche.
con estrema facilità attribuire l’opera allo stile me- Secondo Ludovico Quaroni l’architetto dovrebbe
dioevale. Passeggiando invece in un giardino dal di- possedere una cultura storica dell’architettura e,
segno planimetrico regolare e ben definito, simme- quindi, conoscere le opere del passato per progettare
trico, con la presenza di scalinate, catene d’acque, nel contemporaneo, pur senza adeguarsi ai canoni
aiuole potate in forme geometriche, può ritenersi di dell’arte trascorsa, classica, barocca, ottocentesca.
essere certamente in un giardino all’italiana di stile Se di conseguenza appare giusto affermare che la
rinascimentale. Così, di seguito, per i parchi ed i storia dell’architettura non va presa come un reper-
giardini barocchi, il paesaggio settecentesco, o per- torio di elementi utili al progetto, quanto come il ne-
sino per le grandi e piccole ville comunali interne cessario sfondo da cui separarsi nel “nuovo” (cfr. M.
alla città ed alla metropoli moderna. Cacciari: progetto come entwurf e non come for-
Questa possibilità di attribuzione di un impianto tschrift), la produzione architettonica attuale, suc-
verde ad un determinato codice-stile è assente però cessiva al Movimento Moderno, se si vuole “po-
nel paesaggio contemporaneo, poiché non è possibi- stmoderna”, sembra non riferirsi a nulla se non a se
le individuare in esso elementi chiaramente ricondu- stessa in un carattere autistico che non crea codici
cibili ad un progetto o ad una architettura condivisi, utili a determinare una riconoscibilità.
sebbene tali elementi sarebbero necessari, non solo Per documentare quanto l’arte dei giardini e
per rappresentare l’appartenenza alla nostra epoca, l’architettura del paesaggio siano presenti nella sto-
quanto proprio per riconoscere il tipo di relazione ria dell’uomo e ne esprimano, con la stessa dignità
della nostra cultura con la natura.. delle altre opere d’arte, il grado di civiltà, di cultura
Mettendo a confronto alcuni esempi di giardini o e di progresso tecnologico appare opportuno traccia-
parchi contemporanei, sia progettati sia realizzati, re brevemente una storia del giardino in un excursus
anche da firme prestigiose, si evince una tale diffi- che non vuole avere alcun tono erudito quanto quel-
coltà, e si direbbe che le opere vogliano rappresenta- lo di una riflessione da cui emerga la necessità della
re esclusivamente le idee dei progettisti e non i ca- tutela, della conservazione e della fruizione dei siti
ratteri della nostra età. in cui l’uomo ha interpretato materialmente la natura
Perché tutto questo? La risposta è da considerarsi e che costituiscono un vero suo patrimonio culturale.
solo nell’architettura e nell’arte? Oppure anche nella Che cosa si intende per giardino? La parola giar-
società? dino deriva dal francese jardin, che a sua volta deri-
Esaminando giardini e parchi contemporanei si va dall’alto tedsco gart o gard (recinto) per indicare
evince lo spaesamento e la mancanza di una precisa un terreno coltivato senza scopo produttivo, in cui
linea di pensiero. Infatti, gli architetti ed i paesaggi- l’uomo svolge una serie di attività a contatto con la
sti attuali non si sono diretti alla definizione di un natura. Originariamente il giardino veniva goduto in
codice-stile che rappresenti la contemporaneità, solitudine e solo dal Rinascimento, nel Seicento, nel
dando vita esclusivamente a linguaggi personali che Settecento ed ancor di più nell’Ottocento gli archi-
rappresentano di conseguenza solo il loro pensiero tetti si sono posti l’obiettivo di fornire a comunità
ed il loro atteggiamento nel confronto con gli ele- ristrette o ai cittadini luoghi di godimento della natu-
menti naturali. Non si può affermare che questa ra, sino a realizzare al centro delle città grandi par-
mancanza di stile determini anche una non buona chi e grandi polmoni verdi. I primi giardini, risalenti
qualità delle opere o uno scarso valore artistico, ma al periodo classico, ci sono stati riportati esclusiva-
bensì un’eccessiva individualità che sembra essere mente attraverso le miniature, le rappresentazioni
caratteristica di ogni forma d’arte contemporanea pittoriche o le descrizioni letterarie. Uno dei primi
dove le diverse espressioni non sono mai riconduci- giardini viene descritto anche da Omero. Si trattava,
nella maggior parte dei casi, di giardini recintati da quindi, de gli stessi elementi naturali. Nel giardino
muri che avevano come scopo fondamentale, più rinascimentale, cioè, si manifesta in termini espliciti
che la fruizione estetica, la produzione agricola o di il principio della scienza moderna rivolta a scorgere
piante officinali, sebbene già in Grecia dal giardino i segreti del cosmo per adattarlo all’uomo ed esso
degli orti fertili, di veste prettamente agricola, si stesso, sebbene molto ricco nell’abbellirsi delle sue
passa al kepos, area coltivata protetta da recinzione forme con giochi d’acqua, terrazzamenti, parterre, è
non necessariamente con piante alimentari. Succes- caratterizzato dalla struttura geometrica con l’uso
sivamente, a Roma, sotto l’influenza della cultura dell’ars topiaria in un esercizio che piega la natura
alessandrina, il cui punto d'unione è Bisanzio, si in- alla ragione ed ai voleri umani. Malgrado ciò, esso,
trecciano rapporti tra le due civiltà che introducono, considerato fino al Cinquecento un hortus conclu-
anche dall’esempio greco, orti conclusi i quali ma- sus, acquista un’immagine idilliaca: è il giardino dei
nifestino l’eleganza e la raffinatezza nella stessa cu- sentimenti da rivolgere all’incontro sociale. L’aper-
ra delle piante. Di qui, probabilmente, la realizza- tura del giardino, divenuto ormai un vero e proprio
zione di giardini, in epoca medioevale, di solito in- parco - dall’alto tedesco Barg, o dal latino Percere,
terni ai monasteri, nati per il sostentamento dei mo- luogo chiuso in cui contenere molte specie vegetali
naci o per applicazioni medicamentose e tuttavia ed amimali per proprio diletto - avviene pertanto nel
improntati anche alla grazia ed alla gradevolezza. periodo seicentesco, con viste verso l’esterno, verso
Esempi significativi sono i giardini-orti della Certo- il panorama ed il paesaggio circostante come è alla
sa di Padula, risalenti al 1300 o quelli dei chiostri Reggia di Versailles, uno degli esempi più significa-
delle chiese come è a Santa Chiara in Napoli, dove tivi dell’epoca, in cui Le Nôtre disegna l’intero si-
gli aranceti, oltre l’aspetto produttivo, possiedono stema del verde con un grande asse centrale, in cui
anche un carattere decorativo. Ed è nel Medioevo sono sistemati parterre, boschetti e nastri d’acqua,
che nei giardini, grazie all’ influenza della cultura rivolto verso il paesaggio. La poetica di Le Nôtre si
islamica, si introduce l’acqua quale elemento di pre- diffonde rapidamente in tutta Europa influenzando il
ziosismo orientale che aggiunge sensazioni di piace- disegno dei parchi paesaggistici sino a tutto il XVIII
re. Nel passaggio dalla città medioevale a quella ri- e XIX secolo, eccetto in Inghilterra dove l’intro-
nascimentale, il giardino diventa quindi sempre più duzione di piante esotiche dalle colonie determina
ricco di elementi che lo impreziosiscono relazio- una commistione di essenze nella diffusione incon-
nandolo a palazzi e ville, pur conservandone il carat- trollata della natura che sarà simbolo della sensibili-
tere agricolo. Si giunge così alla realizzazione di tà romantica. Siamo negli anni della affermazione,
grandi progetti di giardini intesi parte integrante nella prima metà del XVIII secolo, del giardino pae-
dell’architettura attraverso l’uso di molti elementi saggistico ed in Inghilterra, come nel resto d’Euro-
decorativi: scalinate, terrazzamenti, fontane, ninfei pa, in termini diversi, pittoreschi o geometrici, si i-
con l’utilizzazione di specie sempreverdi non neces- niziano a realizzare i primi parchi pubblici che do-
sariamente produttive. Emerge il senso di un giardi- cumentano le mutate esigenze sociali che si inoltre-
no dove l’architettura si fondi con la natura in una ranno nell’Illuminismo. Nell’Ottocento, quindi, i
simbiosi artistica che fa da sfondo alla vita e ai mo- parchi e giardini realizzati nell’intero continente
menti più importanti dell’uomo. Il significato del sembrano rappresentare i desideri di conquista so-
giardino si modifica così decisamente. Infatti, in ciale della nuova classe borghese o, anche, di quelle
pieno Rinascimento, la maggior parte di essi nasce più povere, pure più partecipi, rispetto al passato,
come completamento delle grandi ville e palazzi si- della vita urbana sebbene, verso la fine del secolo,
gnorili progettati da architetti come Bramante, Vi- con l’affermarsi dell’industrializzazione e del neces-
gnola, Pirro Logorio, non più per coltivare piante sario espandersi delle città, essi si riducano note-
utili al sostentamento quanto per disporne in termini volmente per dar luogo alle nuove esigenze della vi-
estetici, come è ad esempio in quello di villa Lante a ta meccanizzata. Senza considerare qui come spesso
Bagnaia, cui forse pose mano agli inizi del cinque- i grandi parchi urbani saranno l’occasione per la de-
cento Jacopo Barozzi, dove sono evidenti i caratteri terminazione di nuovi equilibri economici nei con-
tipici del giardino all’italiana di epoca rinascimenta- flitti interni al capitalismo, può dirsi che, comunque,
le, ovvero il suo realizzarsi su di un’area in penden- nel Novecento, nasce un nuovo bisogno di relazione
za (circa 16 metri) secondo tre ripiani, con un asse con la natura in ragione dell’espansione urbana la
principale rappresentato dal corso d’acqua e con quale, mentre la espelle fuori dalle città, la ingloba
aiuole e piante dal rigoroso disegno geometrico a al loro interno in forme per così dire addomesticate
simboleggiare il dominio sulla natura. Il XV secolo che ritaglino lo stesso tempo libero come pausa utile
aveva visto del resto l’invenzione della stampa che, all’attività produttiva. Sarà per questo che, di contro
modificando la vita sociale, aveva indotto anche ad una idea parcellizzata dell’abitare dell’uomo, in
modificazioni nel rapporto uomo-natura-architettura Europa come in America si sviluppa, a partire dalle
facendo strada ad una idea di controllo del mondo e, idee di Howard, una linea di pensiero che considera
l’integrazione tra le diverse attività umane ovvero il caso del “ Vulcano buono” progettato da Renzo Pi-
quella de gli edifici con la natura, quali elementi di- ano dove la forma conica, ricoperta di verde onde
stribuiti nel verde inteso elemento non accessorio rinviare a quella di un Vesuvio amico, esente da pe-
del tessuto urbano. Ma anche in questo caso quanto ricoli, è stata utilizzata solo quale richiamo pubblici-
si realizza non sembra configurare nuovi equilibri tario per il grande centro commerciale che copre,
tra costruzioni e natura. Da un lato, in America, le laddove, concluso l’evento reclamistico, lasciato a
idee howardiane finiscono con il tradursi nella attua- se stesso, il giardino pensile è deperito sino a mo-
le, immensa e squallida realtà suburbana, e, dall’al- strare solo il suo sottofondo, in una sagoma scura
tro, in Europa, nella cosiddetta città diffusa, dove del tutto minacciosa. E’ indubbio quindi che una
alla povertà dell’architettura corrisponde la mortifi- nuova sensibilità che contemperi paesaggio costruito
cazione dell’elemento naturale. e paesaggio naturale, indispensabile per il migliora-
Si pone quindi, tanto più in uno scenario che ve- mento delle nostre condizioni di vita non possa sor-
de il deterioramento del’intero habitat, la necessità gere che dalla prioritaria tutela del paesaggio stori-
di ripensare il rapporto tra costruzione e natura, così co, dalla sua conoscenza, ed è singolare che in Italia,
come del resto si delinea in alcune tendenze con- malgrado la presenza di una tradizione notevole nel
temporanee del progetto che mirano alla rivalutazio- campo della progettazione del paesaggio, oggi, que-
ne il paesaggio come modo di mutare in termini pro- sta disciplina, si muove con notevole ritardo attuan-
fondi la relazione tra uomo e ambiente. Oltre all’in- do una delle più modeste politiche di conservazione
teresse per i grandi episodi, quali i parchi urbani e a livello europeo, anche in contraddizione con quan-
regionali, le grandi riserve naturali, con l’au-mentare to è stabilito dalla costituzione che sottolinea l’im-
della richiesta di riqualificazione dei luoghi di lavo- portanza della tutela del paesaggio e del patrimonio
ro e delle aree residenziali si sta facendo strada una storico ed artistico.
offerta della cultura architettonica che contempla Insomma, se sono sicuramente apprezzabili i ten-
l’inserimento del verde in ogni ambito della vita. tativi della cultura architettonica di realizzare nuovi
Questo tipo di giardinizzazione si allontana, così, modelli progettuali per il paesaggio e, come si usa
dalla originaria configurazione del giardino quale dire, “ nuovi paesaggi”, probabilmente appare forse
area recintata, specializzata, per concepire l’integra- più necessario, anche al fine di fondare in termini
zione con i nuovi elementi architettonici ed urbani e rigorosi una disciplina della progettazione paesaggi-
l’inserimento nelle stesse aree già in uso per altre stica, così come sosteneva Quaroni generalmente per
funzioni. Di solito i progetti, analizzando il sistema l’architettura, affidare alla conoscenza storica la
del verde (storico, agricolo e dei parchi urbani) della possibilità dello slancio nel nuovo.
città al fine di recuperare nei nuovi usi del territorio
le forme della memoria e le vocazioni dei siti, i ca-
ratteri delle specie vegetali autoctone, si pongono
all’interno di un più ampio processo di riconfigura-
zione dei luoghi in base alle loro potenzialità ed alle
caratteristiche dell’utenza. Si va così dagli esempi
dei giardini verticali di Patrick Blanc progettati per
le opere di Jean Nouvel e riproposti ormai da molti
architetti, ai tetti verdi di Cucinella, alle Tower flo-
wer di Eduard Francois e di Stefano Boeri, alle teo-
rie ed alle applicazioni di Gilles Clèment, dove si
relazionano diverse competenze come la botanica,
l’agronomia, la geologia, l’urbanistica e la storia.
Malgrado la rinnovata attenzione dell’architettura
verso il verde, però, è indubbio che la progettazione
del paesaggio sia una disciplina ancora alla ricerca
di un lingua ggio ade guato alla contemporaneità, ri-
volto ad offrire un contributo sostanziale alla rela-
zione tra l’uomo e l’ambiente, ed alla reciproca in-
fluenza degli aspetti estetici ed ecologici. Gli esempi
di utilizzazione del verde nei progetti, sia singolari
che a carattere urbano o paesaggistico, infatti, spes-
so, come si diceva all’inizio, si rivelano quali puri
esercizi per l’affermazione di una griffe che non
modi di una nuova volontà a relazionare il costruito
con l’ambiente ed il paesaggio. Si veda ad esempio
REQUIEM PER UN CAVALLO
Gabriella Galdi

Si è aperta il 25 settembre di quest’anno, alla Wi- piccati o del cavallo imbalsamato trafitto dalla scrit-
thechapel Galery di Londra, una mostra che inaugu- ta “ INRI”, è come se fosse scappata di mano all’ar-
ra un intero ciclo dedicato alle collezioni private, in- tista, in un gioco solo un po’ più estremo.
vitate ad esporre per un anno le opere degli artisti in In definitiva Cattelan è l’esponente forse più in
esse privilegiati. Per la prima mostra, e quindi sino vista di un’arte incapace di essere arte, chiusa in
all’8 settembre 2013, le porte della Withechapel si piccoli espedienti di derivazione Dada, che tuttavia,
sono aperte alla Collection Sandretto Re Reaba u- proprio per l’indigenza delle idee, finisce comunque
dengo che, sotto il titolo “T hink T wice”, organizzerà per alimentare il mercato e la curiosità del grande
quattro diverse manifestazioni, di cui la prima consi- pubblico, i due e stremi tra i quali Ba udrillard ha se-
stente nell’esposizione delle opere di Maurizio Cat- gnato la “ sparizione dell’arte”. Scrivendo dell’opera
telan aperta al pubblico sino al 2 dicembre. di alcuni artisti contemporanei, tra i quali lo stesso
La collezione Rebaudengo fa capo ad una fonda- Cattelan, Jean Clair ha messo in luce, in un pam-
zione privata presieduta da Patrizia Sandretto senza phlet dal titolo “ L’hiver de la culture” come l’arte
scopo di lucro, anche se, considerando come di re- sia gestita da una oligarchia finanziaria costituita da
cente un’opera di Cattelan, una scultura in resina che alcune grandi gallerie private parigine e newyorkesi,
mostra l’artista stesso emergere da un buco del pa- alcune istituzioni pubbliche che gestiscono i fondi di
vimento (il buco deve essere realizzato realmente) stato per l’acquisto di opere, e da banche che entra-
sia stata battuta all’asta, da Sotheby’s New York, no nel gioco degli scambi dei prodotti artistici, scelti
per otto milioni di dollari, è evidente come il suo pa- tra quelli di un ristretto numero di artisti, facendone
trimonio no-profit sia “ stellare”. lievitare il prezzo, In merito alle opere, lo stesso au-
Le opere esposte sono opere “ storiche” (si fa per di- tore, rileva come, mentre in altre espressioni artisti-
re) di Cattelan che non hanno provocato lo scandalo che, nella musica, nella danza, l’artista è costretto ad
suscitato nel 2004 dai fantocci di tre bambini impic- un severo esercizio formativo, nell’arte propria ai
cati agli alberi di piazza XXIV Maggio a Milano o musei ed alle gallerie, personaggi come Hirst o Cat-
dal cavallo imbalsamato appeso l’anno scorso al sof- telan, dopati dagli interessi finanziari, finiscono per
fitto del Guggenheim di New York. A Londra sono cedere alla improvvisazione
esposti il tappeto-megaformaggino tondo “ Belpae- offrendo prodotti rivolti a sol-
se” di una nota casa di formaggi, che gioca sull’im- lecitare reazioni istintive prive
magine dell’Italia utilizzata quale zerbino ed anche, della riflessività sull’arte inne-
con l’altro gioco delle Campbell di Warhol, che qui scata dalla pure provocatoria
sembra assumere proprio i caratteri di un dispositivo arte dadaista e postdadaista.
pubblicitario (ma si sa in arte l’ambiguità è d’ob- Le reazioni al volumetto di
bligo), la stella cometa che si illumina dell’altra stel- Clair sono state in Italia abba-
la delle brigate rosse, un piccolo espediente per fare stanza scomposte, rilevando,
ammuina e, tra le altre, forse l’opera più vicina a tra Dorfles e Bonito Oliva, co-
quelle maggiormente indisponenti dell’artista, Bidi- me il valore economico delle
bidobidiboo, del 1996, che, richiamando la filastroc- opere non possa considerarsi
ca cantata dalla fata di Cenerentola nel film di Di- segno di un decadimento del-
sney, mostra invece uno scoiattolo morto, forse sui- l’arte, essendo piuttosto l’au-
cida, seduto in una cucina in miniatura che riprodur- tore del pamphlet affetto da
rebbe quella della difficile (così ama far sapere) in- “ depressione culturale” contra-
fanzia dell’artista. Abbastanza ironica ed autoironica rio alla modernità ed all’arte
è anche, in mostra, La rivoluzione siamo noi, una intera intesa da lui “ come mi-
scultura costituita da un fantoccio in resina, raffigu- naccia” e non come “ un mas-
rante lo stesso Cattelan che, ristrettosi insieme al ve- saggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collet-
stito indossato, quello di feltro di Beuys, uscito dalla tiva” (ABO).
lavatrice, è appeso ad asciugare ad un appenditoio Singolarmente Bonito Oliva, in particolare, com-
razionalparanazista di Breuer. Le opere esposte a plimentandosi per la grande retrospettiva di Cattelan
Londra, manifestano, se mai ve ne fosse bisogno, organizzata lo scorso anno, di questi tempi, al Gug-
come la provocazione di Cattelan sia più giocosa genheim di New York, e, cogliendo l’occasione per
che scandalosa, tanto da potersi dire che là dove ricordare che anche i “ suoi” Chia e Chucchi (ormai
l’opera fa scandalo, come nel caso dei fantocci im decotti) erano stati ospitati nel tempio dell’arte a-
mericano (ma non con una retrospettiva) e che lo perché anche l’ultimo barlume di forza creativa pos-
stesso Cattelan sia stato scoperto in una sua Bienna- sa essere speso nel vivere.
le, sembra aver dimenticato che, solo pochi anni fa, Se in Kounellis cioè, ancora sotto il segno dell’a-
ben altri cavalli sono stati introdotti dagli artisti in vanguardia, l’arte mette in gioco la propria fine per
galleria, anche con la sua sponsorizzazione critica. smuovere ed anzi negare il senso comune, quello
Risale infatti al lontano 1969 la performance di Jan- che regge il mondo degli alienati rapporti umani
nis Kounellis che mise in mostra, nella galleria (“ Vitalità del negativo” fu il titolo di una mostra cu-
L’Attico di Fabio Sargentini, 12 cavalli legati alle rata nel 1970 proprio da Bonito Oliva in cui l’artista
pareti i quali interagirono circospetti con un ancor greco propose un pianista che due volte al giorno
più circospetto pubblico in un muto reciproco inter- suonava l’aria centrale del Nabucco, un’opera cioè
rogarsi sul loro senso. In entrambi i casi, di Kounel- che, pur sollecitando l’anima, tentava di sfuggire il
lis e di Cattelan, l’opera assume toni provocatori, museo ed ogni determinazione), per cambiarlo, al
ma, come è evidente, se nei cavalli, vivi, del primo, fine di ritrovare agli uomini lo stupore delle cose,
vi è un esplicito desiderio di comunicare, si direbbe nelle opere di Cattelan, forse come suggerisce il
quasi un entusiasmo vitale teso ad immettere l’arte, nome dell’artista (nomen omen), l’arte appare già in
dalla sua fine quale produzione specifica, diretta- una sorta di catalessi post mortem, e quasi se ne e-
mente nella vita, in quelli imbalsamati sofferenti del spone la salma, come negli obitori, per determinarne
secondo vi è il gusto macabro che si compiace del- una possibile riconoscibilità. In fondo i fantocci
l’opera morta sulle cui spoglie alimentare, attraverso morti o gli animali imbalsamati non sono che la me-
il gioco innescato da tempo sulla stessa fine dell’ar- tafora di una morte, quella dell’arte, ormai avvenuta
te, comunque un valore, specialmente economico. da tempo e che, mentre sino alla neoavanguardia ve-
niva agita per sollecitare
la vita, in Cattelan viene
esposta per darne consta-
tazione e per un fine so-
lamente documen-tario
o, anche, utilitaristico,
scoprendo alla spoglia,
come accade in certi an-
tichi racconti memori
delle usanze egizie e
mediterranee, il suo na-
scosto tesoro, quello del-
le valoriz-zazioni eco-
nomiche che si intrec-
ciano sui suoi lacerti.
Ciò che fa veramente
scandalo, in real-tà, è
appunto la quasi or-mai
esclusiva gestione
Dopo i primi anni, le aspirazioni, autentiche, ad in- dell’arte, o di ciò che rimane dell’arte, da parte degli
vestire con l’arte il mondo, nel tentativo di mutarlo istituti finanziari, le cui valorizzazioni, come è per i
anche attraverso le proprie interrogazioni su se stes- derivati economici, appaiono del tutto prive di rela-
sa, Kounellis, nell’esplicito fallimento, pure sembra zione con contenuti concreti.
chiudersi in sé, e gli animali vivi vengono sostituiti Naturalmente Kounel-lis e Cattelan appartengono ad
da quelli imbalsamati sino al culmine tragico costi- età diverse, l’uno a quella in cui valeva la speranza
tuito dal corpo squartato di un bue appena macellato, di poter mutare lo stato delle cose verso la liberazio-
esposto nel 1989 all’Espai Poublenou di Barcellona, ne dei sensi, l’altro alla nostra dove appare caduta
appeso con ganci a lastre metalliche e fiocamente ogni illusione di li-berazione, di presa di possesso,
illuminato, come in una veglia, dalla luce di lampa- per ciascuno, della vita. Di qui l’estremo cinismo,
de ad olio. oltre quello di Warhol che tentava di “ giocare” il
Ancora una volta, sebbene il corpo dell’animale, e mercato, degli artisti attuali, come Cattelan i quali,
dell’arte, sia dichiaratamente morto, sembra che surdeterminati proprio dal mercato, tentano di com-
Kounellis voglia ancora trarre, dal suo sangue caldo, piacerlo con trovate che possano riscuotere, in ogni
la vita, con un’opera che non vuole esplicitamente modo, interesse dell’opinione, allo stessa maniera
destinarsi al museo e, quindi, al mercato, per invitare con cui questa è utilizzata per muovere l’andamento
invece ad uscire dalla galleria, dal recinto dell’arte, borsistico.
Certo, ciò che differenzia un Kounellis da Catte- farda, sarcastica verso i segni macabri che espone e
lan è anche la radice culturale, l’essere greco del verso il pubblico, puri strumenti del suo gioco, e-
primo per il quale il tragico, quello stesso della mor- straneo al tragico e più propenso al comico, alla bat-
te, è segno, come ha mostrato Nietzsche per i greci, tuta di spirito, alla clownerie, la finta autocommise-
di un ottimismo, di una volontà di vita, laddove la razione di artista secondo, minore, rispetto ai grandi
provenienza padana del secondo, mista di terra e di del passato, che tuttavia se la ride dal suo sito sul
credo cattolico, inquadra la morte come mero desti- web dove dice di essere “ il più quotato tra gli artisti
no, fatale e superfluo evento cui si apre una possibi- italiani”, superando in asta le quotazioni di un Ro-
le felicità posta solo nel suo al di là. Di qui thko e ringraziando per la fortuna avuta il proprio
l’indifferenza ed anzi l’irriverenza sardonica, bef- pene chiuso nella patta-home.
Che dire: discesa
nella tomba, dopo
Cattelan, non possia-
mo che attenderci un
al di là dell’arte o,
chissà, forse una sua
resurrezione in puro
spirito, essendo il
suo corpo ormai, al
più, imbalsamato.

.
IL PRITZKER PRIZE ALLA… C INA!!
Francesca Buonincontri

Il Pritzker Prize del 2012 è stato assegnato, come è colleghi, interamente in Cina, con laurea in architet-
ormai noto, all’architetto cinese Wang Shu da una tura nel 1985 dell’Istituto of Technology di Nanjing,
Giuria internazionale formata, tra gli altri componenti, Jangsu Province, (ora Southeast University), con
da Alejandro Aravena, Yung Ho Chang, Zaha Hadid, Master presso lo stesso istituto che lo conduce a lavo-
Glenn Murcutt, Juhani Pallasmaa, progettisti che in rare presso l'Accademia di Belle Arti di Zhejiang a
Cina risulterebbero per così dire ’anomali’. E del resto Hangzhou occupandosi della sostenibilità ambientale,
la loro designazione intende onorare un lavoro ritenu- del recupero delle tradizioni locali e del restauro di
to “ esteticamente sorprendente e ambientalmente so- vecchi edifici.
stenibile”, differente dalla maggior parte dell'architet- Nel 1990 Wang Shu termina il suo primo progetto,
tura cinese, attualmente impegnata in una frenetica e l'Youth Center ad Haining, piccola città vicino ad
devastante urbanizzazione, quasi che essa voglia lan- Hangzhou, e, per conoscere a fondo come operare e
ciare un messaggio politico premiando un architetto “per imparare i gesti del costruire”, lavora otto anni
impegnato in una posizione di dura critica verso la di- come manovale, studiando contemporaneamente la
struzione del patrimonio architettonico e ambientale storia dell'arte non solo cinese, ma anche europea, in-
del proprio territorio e rivolto alla non professionaliz- diana, americana e africana e interessandosi di filoso-
zazione della disciplina architettonica,:“ come architet- fia, letteratura, antropologia e cinema. Ritornato allo
to, per prima cosa, mi sforzo d’essere una persona studio dell’architettura consegue, nel 2000, un dotto-
sensibile, l’architettura per me è un lavoro part-time. rato presso la Sc uola di Architettura di Shanghai di-
Per certi versi, considero l’umanità più importante ventando professore e capo del dipartimento di archi-
dell’architettura stessa, come del resto il semplice la- tettura dell'Accademia cinese di Belle Arti di Han-
voro manuale è più importante della tecnologia ... gzhou. Scosso dalle enormi macerie lasciate dalla di-
qualunque attività costruttiva senza un esauriente ap- struzione dei molti edifici tradizionali analizza, con
proccio riflessivo è, per me, del tutto insignificante.” particolare cura, la situazione della architettura in Ci-
Il Pritzker a Wang Shu, cioè ad un architetto capace na, e i possibili rapporti tra la tradizione cinese e il fu-
di innovare il mestiere all'interno di tradizioni ricono- turo, nel 2011 è il primo architetto cinese a ricoprire
scibili, ha nelle motivazioni principali, sintetizzate da la carica di “ Kenzo Tange Visiting Professor” alla
Aravena, la capacità di saper coniugare, insieme, ta- Harvard Graduate School of Design a Cambridge,
lento ed intelligenza, nella precisione e adeguatezza Massachusett, ed è invitato a tenere lezioni nelle
dei suoi interventi che rivelano grande maturità, nono- università di tutto il mondo. Nello stesso tempo, segue
stante la “ giovane” età, (49 anni sono giudicati gene- il suo lavoro presso l' Amateur Architecture Studio, ad
ralmente insufficienti per la realizzazione di opere si- Hangzhou, fondato nel 1998 con la moglie Lu Wenyu,
gnificative) e intende premiare le opere architettoni- ed a questo proposito è da considerare negativamente
che realizzate ritenute “ capaci di andare oltre il dibat- la mancata assegnazione del Pritzker anche alla mo-
tito contingente per diventare universali e senza tem- glie e socia che, come dichiarato in un'intervista dallo
po... Il tutto nel segno di un equilibrio 'virtuoso' che si stesso Wang. Shu, meritava di condividere il premio,
traduce in 'p resenze monumentali mai opprimenti', in come avvenne nel 2010 con il riconoscimento a Ka-
un gioco tra luce, materiali, proporzioni.” zuyo Sejima, ma anche al socio Ryue Nishizawa. In
Per la prima volta dall' anno di inizio, il 1979, vie- un’intervista al Chicago Tribune Wang Shu espone gli
ne assegnato il Pritzker Prize ad un architetto cinese, errori commessi in questi ultimi anni dalla Cina che
riconoscendo “ il ruolo che la Cina giocherà nello svi- ha trasformato tante belle città in sobborghi metropo-
luppo degli ideali architettonici….” (Thomas J. Pri- litani, e spiega le ragioni per cui ha preferito indiriz-
tzker) e, manifestando, come dichiarato dallo stesso zare il suo lavoro sui problemi inerenti il patrimonio
Wang Shu, tangibilmente “ la consapevolezza del ruo- storico e artistico: “nel mio Paese in soli vent’anni
lo che la Cina svolgerà nell’architettura del futuro e abbiamo distrutto più del 90% dei vecchi edifici.
dell’importanza che lo sviluppo delle città cinesi rap- Questo è un vero disastro perché se ci dimentichere-
presenta per questa regione e per il mondo intero”. mo della tradizione non avremo un futuro”.
L'assegnazione del premio è stata interpretata an- Wang Shu si rifà alla cultura tradizionale del Jan-
che come la parziale condivisione delle attuali scelte gnam, un’ampia area centromeridionale, che com-
economiche, politiche e culturali del governo e il ri- prende le città di Hangzhou, Suzhou e Yangzhou, in
conoscimento dell’efficacia del sistema universitario cui ebbe il massimo sviluppo la letteratura classica ci-
cinese, essendosi Wang Shu, nato nel 1963 a Urumqi nese, la pittura a inchiostro e la calligrafia e dove fu-
nello Xinjiang, formato, a differenza di tanti altri suoi rono realizzati giardini leggendari, ideati dall'architet-
to cinese T ong Jun considerato suo primo maestro, zione creativa non è un problema di conservazione del
mentre, tra quelli successivi riconosciuti in Aldo Ros- passato, ma di 'ricongiungimento' del tempo”2 .
si, Alvaro Siza, Le Corbusier, Mies van der Rohe, T ra il 1999 e il 2000 realizza la Gallery Whith a
Louis Kahn, Carlo Scarpa e Tadao Ando. Vie w (demolita) e la Library of Wenzheng Colleg,
Il problema della coesistenza tra natura e architettu- Suzhou University, premiata nel 2004 nella prima edi-
ra, che, con sensibilità, Wang ritiene essere prioritario, zione del China's First Architecture Arts Award 3 ,
dovunque e soprattutto nelle grandi aree urbane, vie- opera che ha fatto conoscere Wang Shu anche fuori
ne risolto nelle sue opere salvaguardando il paesaggio dalla Cina e tra le costruzioni più rappresentative della
e “ progettando modi in cui l'architettura si mescola sua architettura eco-sostenibile. L'intento del proget-
con la natura insieme”, dal momento che “non è pos- to, dichiarato esplicitamente, è rendere i frequentatori
sibile separarli.... la sfida degli architetti cinesi e de- della biblioteca consapevoli dell'ambiente naturale,
gli architetti americani è di mantenere il valore tradi- coscienti di trovarsi tra una montagna ricoperta di
zionale di [fusione] con la natura attraverso il de- bambù ed un lago, anche se, applicando i principi del
sign urbano” e il suo processo progettuale è analogo giardinaggio cinese che impongono gli edifici costruiti
a quello di un pittore della tradizione cinese, il quale tra i monti e l’acqua non siano troppo visibili, Wang
osserva e studia intensamente il luogo, la città, le valli, costruisce parte della biblioteca sotto terra. La sua
i monti, e poi, solo in un secondo tempo, passa al di- architettura è volta alle antiche tradizioni locali ed in
segno che, in genere, è già chiaramente definito. questo caso all’antica arte dei giardini, in cui ogni e-
L’Amateur Architecture Studio è noto in particolar lemento rappresenta un richiamo alla memoria di versi
modo per i progetti, realizzati tutti in Cina, di musei, o brani letterari, principi buddisti o taoisti. Il corpo
biblioteche, campus universitari, complessi residen- principale, a pianta rettangolare, galleggia sopra
ziali, ma Wang Shu ha più volte dichiarato il suo inte- l’acqua ed è esposto a sud secondo la direzione domi-
resse per l’abitazione individuale, punto di riferimento nante dei venti estivi, mentre l’intero complesso, da
di un’architettura più vicina all'uomo. Le sue opere nord a sud, e anche dalla montagna all’acqua, è for-
architettoniche, come è riconosciuto da più parti, han- mato da quattro padiglioni separati che, secondo i ri-
no la capacità di evocare il passato, pur senza citazio- ferimenti del giardino tradizionale cinese, hanno scale
ni dirette alla storia e sono alla costante ricerca non diverse.
solo del migliore equilibrio con l’ambiente naturale Ritorna qui l’interesse di Wang Shu per le costruzioni
ma dell'accordo con il committente, del rispetto per piccole, ed egli stesso dichiara la preferenza per la co-
la cultura e le tecniche locali. struzione di “ una casa” piuttosto che per quella di un
Proprio l'utilizzo di pratiche e tecnologie per una e- “ edificio”, in quanto la prima mostra meglio
dilizia sostenibile con metodi di costruzione e di pro- l’attenzione verso quanto è più vicino alla vita quoti-
getto recuperati dalle tradizioni locali è l’elemento più diana.
interessante della sua architettura, basata sulla con- Sarà per questo che gli edifici più grandi manifestano,
vinzione che ”il futuro non è solo tecnologia” e che è malgrado i premi, una certa mediocrità, tali in occi-
possibile progettare, in modo attuale servendosi di dente da poter essere scambiati per banali costruzioni
materiali antichi come legno, e pietra, spesso riciclati, speculative. E’ il caso del Vertical Courtyard Apar-
come nel caso della copertura dei tetti degli edifici del tment realizzato, tra il 2002 e il 2007, ad Hangzhou. I
Campus Xingshan della China Academy of Art a ll fabbricato, nominato per il Premio Internazionale di
Huangshou, realizzati con più di due milioni di tegole High Rise Award del 2008, è costituito da una struttu-
recuperate da vecchie case tradizionali. ra composta da appartamenti ,”a quattro corti”, im-
Nel T iled Garde (Giardino delle tegole) alla Bienna- pilati in 6 esili torri di 26 piani, dove, ad ogni secon-
le di Venezia del 20061 Wang Shu si serve della col- do piano è posto un doppio alto “ cortile” che ricorda,
laborazione dell'artista Xu Jiang per creare un luogo di concettualmente, la piegatura di una stuoia di bambù,
meditazione, posto all’esterno del padiglione cinese e e permette ad ogni residente, a qualsiasi altezza abiti,
costruito con una leggera struttura di legno rivestita di di usufruire di un proprio spazio all’aperto. Questo
mattonelle e tegole d’argilla di recupero messe in ope- progetto mostra, al di là del suo scarso valore estetico,
ra secondo lo schema tradizionale. in modo concreto, la consapevolezza da parte di
Per Wang Shu il riutilizzo di materiali riciclati ha il Wang Shu di come nella grande scala si debba andare
senso della rivisitazione di “ brandelli materiali di
2
memoria” dal momento che ”...mantenere una tradi- Dalla conferenza “ Rebuilding a Life-World in Collapsing Cities:
My Design In Urban China”, tenuta da Wang Shu il 7/05/2008
1
Cfr. C. Slessor, Delight China at the Venice Biennale, in "Archi- presso la Faculty of Architecture and P lanning, The University of
Melbourne (Australia.)
tectural Review", vol.220, n.1316, (Oct 2006,) p. 98. Tiles Gaden 3
rden, Pavillon De La Chine, Xe Biennale d'Architecture De Venise Wang Shu, Tong Ming, Lu When-Yu, Library of Wenzheng Col-
2006, Italie:Wang Shu Architecte, in "Architecture d'Au- lege, Suzhou University, China, in "Via arquitectura", n.10, (dic
2001),
jourd'Hui",, n. 367 (Nov. 2006).
oltre il narcisismo tipico dello star system architetto- dover attendere per l’invecchiamento” dal momento
nico che “trasforma anche ogni parte dell'edificio in un
L’Amateur Architecture Studio, tra il 2003 e il pezzo unico e irripetibile essendo ogni centimetro è
2006, progetta e realizza a Ningbo, le Five Scattered diverso da quello successivo”, in una tecnica che per-
Houses, che hanno vinto l’Holcim Award for Sustai- mette inoltre “ l'assorbimento di errori che un lavoro
nable Construction in the Asia Pacific nel 2005, una non qualificato in un volume piuttosto grande potreb-
serie di cinque strutture, in un parco di 25 ettari, nel be produrre: rappresenta l'idealismo e il pragmatismo
cuore della New T own Ynzhou, nel distretto di Nin- sintetizzati in un unico elemento.”
gbo, che reinterpretano la cultura tradizionale e le Lo stesso Wang Shu dichiara di cercare “ l'accura-
tecniche di costruzioni popolari. Il progetto è stato tezza del sentimento, non la perfezione della costru-
commissionato con obiettivi chiari: utilizzare materia- zione”, laddove gli ottimi risultati raggiunti nel suo
li locali e disponibili servendosi di una tecnologia po- lavoro, anche con materiali comuni e manodopera
co costosa, privilegiare il design qualificato piuttosto non qualificata, con budget modesti e tempi limitati,
che materie prime pregiate, fornire un distretto locale hanno influenzato la scelta della giuria che ha inteso
che permettesse il miglior inserimento nell’ambiente indicare un possibile referente ai tanti architetti co-
naturale dei residenti e che potesse costituire un e- stretti a lavorare nelle identiche, non facili, condizioni,
sempio per i successivi sviluppi urbani. Wang Shu, “ un notevole esempio per dimostrare che la differenza
utilizzando materiali ed artigiani locali, è riuscito a sta nel modo di inquadrare la questione, come capire i
ridurre l’impatto ambientale, con il parco che ospita vincoli (invece di lamentarsi di loro) e come scegliere
anche il Ningbo History Museum (2003-2008) vinci- gli strumenti giusti e le operazioni per superare le dif-
tore del maggior premio di architettura in Cina, il ficoltà.La bellezza di tutto questo, è che lo fa apparire
Premio Lu Ban 2009, sebbene l’intera operazione non come se fosse senza sforzo, una naturalezza ottenuta
abbia centrato appieno l’obiettivo a causa della forte con la grande architettura.” (Aravena)
diminuzione del finanziamento4 . Inizialmente,come Un altro progetto che si rifà alle antiche tradizioni è
ammette lo stesso architetto, il suo progetto di Museo il Xiangshan Campus, Cina Accademia di Belle Arti
non aveva convinto il governo locale che avrebbe pre- ad Hangzhou (I fase 2004-II fase 2007)5 , in cui l'inter-
ferito una soluzione più dichiaratamente avveniristica, vento di Wang Shu riguarda sia l’ideazione del ma-
ma, una volta completato, l’edificio ha riscosso gran- sterplan, che la progettazione degli edifici sistemati
de interesse soprattutto per il tentativo di indicare sulla cima di una collina. Già la scelta, anomala, di
modi di vivere migliori, con ritmi più lenti, più adatti collocare i nuovi edifici del Campus, non all'interno
ad una popolazione passata in breve tempo da abitudi- della città universitaria, ma in una zona suburbana di
ni estremamente rilassate, le più lente al mondo, ad Hangzhou, tra alberi secolari e stagni, carente di
altre frenetiche. Il Museo, definito da Aravena un ca- infrastrutture, denota l'intenzione di privilegiare l'am-
polavoro, è stato paragonato, per la sua potenza e- biente più degli edifici. Le due diverse fasi che hanno
spressiva e per la capacità di emozionare, alla sede del portato alla realizzazione del Campus sono state para-
Parlamento del Bangladesh a Dacca e all’Indian Insti- gonate ai diversi stili di calligrafia cinese, in cui il pa-
tute of Management di Ahmedabad, opere di Luis esaggio funge da tela bianca che suggerisce di volta in
Kahn, lo stesso Wang Shu lo definisce una monta- volta il tratto ordinato e regolare della Prima fase o
gna, sorto sui resti di pietre di recupero assemblate rapido e mosso della Seconda. I blocchi architettonici
dagli operai secondo l’antica tecnica del wa pan, che della Prima Fase, nelle parti in cui il suolo è caratte-
affidava agli stessi abitanti la ricomposizione dei resti rizzato da una morfologia più mossa, mostrano volu-
delle proprie abitazioni, distrutte dalle ricorrenti ca- metrie geometriche e controllate, assecondando
lamità. l’andamento inclinato del terreno con forme semplici
Il riutilizzo di materiali di recupero per l’architetto in modo da ottenere insieme uniformità e variabilità.
cinese non ha valore solo quanto alla sostenibilità, La tipologia è libera, basata sul tema della “ corte”,
ma, come dice Aravena,”introduce una storia nella co- in modo da relazionarsi sia alla tradizione sia allo spa-
struzione, creando nel muro il senso del tempo senza zio e alle esigenze funzionali di una struttura colletti-
va, i blocchi rettilinei, orientati verso Xiangshan rac-
4
Cfr. Wang Shu, Sh i Hong Li, Zhuang Museum, Ningbo, Zhejiang, Cina, chiudono intimi cortili verdi, aperti verso l’esterno e
in "GA document", n.117 (jun 2011), pp.18-23 B. McGetrick, Ningbo
History Museum, Museum–design, Wang Shu & Lu Weny u, Amateur Ar- 5
chitecture Studio, in "Domus", n.922, (feb 2009), pp. 67- 75 A. Marotta , Cfr. Nuovo campus della China Art Academy a Hangzhou City , in "L'In-
Museo storico di Ningbo, Cina,in " L'industria delle costruzioni", n.414, dustria delle costruzioni", n.389 (maggio-giugno 2006), Architetture in
(luglio- agosto 2010), pp. 48-53Wang Shu & Lu Weny u: Ningbo Historic Cina, pp.56-63. Amateur Architecture Studio. Xiangshan Campus, China
Museum, West of Central Park of Yinzhou District, Ningbo, Zhejiang, Academy of Art, Xiangshan, Zhuangtang, Hangzhou, 2001-07, in" Lotus
China, in "GA Document", n.112 (May 2010), pp. 94-109. Museo de His- International", 2010, n. 141 , pp. 22-31Wang Shu & Lu Weny u, Xiangshan
toria, Ningbo (China), in "AV Monografias", n. 139 (Sep 2009), pp.124- Campus, China Academy of Art, Xiangshan, Zhuangtang, Hangzhou, Zhe-
131 T.Wohler , Ningbo Museum, Yinzhou, Ningbo, Ch ina. Amateur Ar- jiang, China, in "GA Document", China Today , n. 112 (May 2010), pp.
chitecture Studio, Wang Shu and Lu Weny u. Architectural Construction 110-131 M. Webb, Campus calligraphy : China Art Academy , Hangzhou,
Research Institute, China Academy of Art, in "Architectural Review", vol. in " Architectural Review", n. 224 (Jul 2008) pp.54-57
227, (March 2010), pp. 56-63
collegati da un reticolo di sentieri sinuosi, di percorsi dei luoghi...bisogna improvvisare...essere in grado di
coperti o da passerelle aeree. risolvere i problemi nel momento in cui sorgono”, E'
Il campus, pur presentandosi come una costruzione necessario per lui essere flessibili e progettare un'ar-
contemporanea, mostra forti legami con la tradizione chitettura “ che sappia portare avanti una sperimenta-
sia per l'uso di materiali di recupero che per il ricorso zione con modalità critico-creative in grado di rappor-
a strategie formali come, ad esempio, la configurazio- tarsi ai luoghi” affidando al progetto di architettura il
ne dei cortili interni che determina una altezza ridotta compito “ di ricostruire un mondo vitale, essenziale e
degli edifici (non più di 5 piani) permettendo la mas- vernacolare”.
sima penetrazione della luce naturale e una ventila- L'intervento del Xiangshan Campus vuole rappre-
zione trasversale. Ogni edificio, sviluppatosi intorno sentare una specie di esperimento per indicare un mo-
ad un cortile centrale vede ridotto al minimo l'ingom- dello di città cinese del futuro e risulta interessante
bro totale e la distanza da percorrere tra le opposte ali; proprio per l’idea di “ ambiente collettivo realizzato
le aule ed i monolocali risultano ben isolati, posti die- che suggerisce un modo diverso di vivere che favori-
tro corridoi protetti dalle intemperie solo da persiane sce la vita sociale.
in legno e questa scelta, un poco spartana, è stata fatta T utti i singoli edifici del Campus mostrano una par-
in contrapposizione agli spazi super climatizzati di ticolare attenzione formale e spaziale ma i piccoli
oggi. Le facciate seguono l’orientamento solare, con padiglioni si caratterizzano per quei processi formali,
lisce pareti intonacate in bianco esposte a nord dalle applicati alle piccole costruzioni, su c ui lo studio
tipiche finestre industriali (soluzione che rimanda al Amateur sembra testare un proprio linguaggio da ap-
Bauhaus o, forse, a pratiche costruttive maoiste) e plicare nei progetti successivi, le Five Scattered Hou-
ruvidi muri di cemento grezzo, verso sud, che presen- ses a Ningbo (2003-2006), la Ceramic House (2003-
tano infissi con grandi pannelli orientabili, in legno 200) e la Sala delle Esposizioni della Strada Imperia-
massiccio. I blocchi sono sormontati da tetti costruiti le della dinastia Song del Sud a Hangzhou (2009)6 in
in piastrelle di argilla grigia, secondo il metodo tradi- cui, per la realizzazione delle strutture in legno, Wang
zionale così come i conci per il basamento delle bot- Shu studia gli antichi ponti coperti della provincia di
teghe artigiane sono disposte secondo la tecnica co- Zhejiang.
struttiva locale. La Ceramic House è uno dei 16 piccoli edifici del
L'architettura della Seconda fase, elaborazione delle Jinhua Architecture Park7 realizzati da architetti e arti-
tecniche già sviluppate precedentemente, è meno rigi- sti convocati da tutte le parti del mondo dal progettista
da, mostra maggiore flessibilità e la varietà degli edi- e curatore Ai Wei We per comporre una microcittà
fici sembra imitare la complessità del territorio, con lungo il fiume Yiwu. Essa è una piccola costruzione
improvvise e inaspettate soluzioni, come è per le a- di circa 100 mq che nasce da un'intuizione, dalla for-
perture irregolari sulle pareti di cemento. ma dei contenitori d’inchiostro dell’epoca della dina-
L'architettura del Campus mostra affinità con gli stia Song (960-1279), la cui superficie è divisa in due
edifici popolari dove la forza dell'architettura popolare parti, una piana e una in pendenza, l’una per conserva-
viene utilizzata con metodologie moderne, integrando re, l’altra per fare sgocciolare l’inchiostro,”come un
pratiche e tecnologie per un’edilizia sostenibile a me- vaso di ceramica che si riempie di vento e acqua”,
todi progettuali e costruttivi spesso tradizionali. Wang con una parte piana a sbalzo sull’acqua ed un’altra
Shu non si limita cioè al rifacimento di elementi della poggiata su di un piano inclinato, interamente rivesti-
civiltà contadina e delle antiche tradizioni ma speri- ta, all'interno e all’esterno, da migliaia di elementi
menta, a volte con ironia, continue soluzioni perfetta- porcellanati, colorati, realizzati dall'artista Wu Zhou.
mente adeguate ai luoghi e alla cultura locale, ricor- Le facciate est e ovest sono realizzate con molte pic-
dando l’architettura antica nella scelta dei materiali, cole aperture che non sono solo funzionali alla illu-
legno, pietra, mattoni e vetro, sebbene il modo di uti- minazione e alla ventilazione dell’ambiente, ma vo-
lizzarli sia inconsueto, con pareti, tetti in cemento gliono anche sottolineare l'orientamento della costru-
spesso rivestiti di tegole e piastrelle in argilla di recu- zione.
pero ma assemblate su telai in acciaio in modo da fa- Più recente è il progetto di Conservazione del Cen-
vorire un buon isolamento termico. tro Storico di Zhongshan Steet, Hangzhou (2007-
La città di Hangzhou, per più di mille anni impor- 2009) in cui l'Amateur Architecture Studio, per rivi-
tante città d'arte e definita da Marco Polo “ la città più talizzare la Zhongshan Road, ha scelto di evocare la
nobile e la miglior metropoli del mondo”, negli ultimi storia di Hangzhou e la forza economica trainante
trent'anni si è trasformata in una delle tante anonime dell’intera regione, basata sul trasporto fluviale, pro-
città cinesi. Contro questa crescita senza regole Wang gettando una rete di canali poco profondi (per la sicu-
Shu ritiene sia necessario “ individuare un modo di
6
costruire capace di cambiare rapidamente, di rinno- Amateur Architecture Studio, Exhibition Hall, Hangzhou, Zhejiang,
varsi, …. rifacendosi al metodo progettuale degli anti- China, 2008-09, in " Lotus international", n. 145 ( 2011), pp. 124-127.
7
chi giardini cinesi che consiste nell'adattarsi alla realtà Jinhua Architecture Park, in " Domus", n. 894, (giugno-agosto 2006),
pp.14-29
rezza dei bambini), perimetrati da fioriere e collegati chitecture durable 2007”, l'Annual Global Haward
da innumerevoli ponti in pietra8 ,. 2007, l'Erich Schelling Architecture Award del 2010,
La scelta ha privilegiato la conservazione della una delle tre menzioni speciali alla XII Biennale di
maggior parte degli edifici e sistenti e, separando il Venezia del 2010 per l’installazione Decay of a Do-
percorso principale veicolare, posto al centro, da me, la Medaglia d'oro dell'Académie d'Architecture de
quello pedonale, realizzando numerosi padiglioni per France nel 2011 e, infine, nel 2012, il Pritzker, un
renderlo più tortuoso, ha creato una serie di nuovi premio che, come afferma Lord Palumbo, presidente
spazi davanti alle vetrine dei negozi che incrementa- della giuria, vuole dare risposta alla domanda se
no ulteriori attività commerciali e di intrattenimento. l’architettura deve mantenere un legame con le pro-
Un unico linguaggio formale caratterizza e unifica i prie origini o deve guardare solo al futuro.
singoli padiglioni in cemento grezzo, pannelli di le-
gno, mattoni e tegole tradizionali, in modo che l'inter-
vento di innovazione non cancellasse la storia di una
strada estremamente stratificata, caratterizzata dalla
presenza di negozi della dinastia Qing, facciate neo-
classiche, fabbriche di stile sovietico.
Nel 2010, per il progetto della “ Cupola in legno fai
da te”, premiato con la menzione d’onore alla Bienna-
le di Architettura di Venezia, Wang Shu studia un si-
stema di murali in legno, tutti della stessa dimensio-
ne, che realizzano una cupola imperfetta, mostrando
non solo la particolare attenzione per le strutture in
legno e per le tecniche elementari della cultura mate-
riale orientale quanto anche il riferimento a forme na-
turali.
Il lavoro de l'Amateur Architecture Studio prosegue
senza sosta e in fase di progettazione o di costruzione
sono l’Heyun Culture and Leisure Center Kunming e
City Cultural Center a Jnhua, il Museo d'Arte Con-
temporanea sul Dock a Zhoushan e il Buddhist Institu-
te Library a Hangzhou.
L'architettura cinese, nel suo complesso, oggi pre-
senta un quadro estremamente diversificato, in un Pa-
ese che con grande facilità distrugge tutto ciò che ap-
pare vecchio e che si mostra attratto da ogni novi-
tàimportata dagli architetti occidentali che hanno tro-
vato il luogo ideale dove operare con la massima li-
bertà e con ampie superfici a disposizione. Gli archi-
tetti cinesi hanno molto appreso dagli occidentali, ma
hanno saputo anche rielaborare e, infine, ritrovare
temi di ricerca comuni. In questa complessa realtà a
Wang Shu va riconosciuta la capacità di coniugare
nelle proprie opere, globale e locale, di saper indicare
una strada universale, con uno sguardo attento alla so-
stenibilità e al riuso. La sua architettura, rispettosa del
passato, rivolta allo studio della storia, delle tradizio-
ni, delle abitudini degli abitanti, per i giurati del Pri-
tzker Prize, è apparsa non solo “ una notevole architet-
tura contemporanea” quanto una architettura “ in grado
di trascendere, come tutta la grande architettura fa, ad
un certo livello di atemporalità."
Importanti e numerosi sono stati i riconoscimenti
alle opere architettoniche dell Amateur Architecture
Studio, oltre quelli già citati, il premio “Pour une ar-
8
Amateur Architecture Studio. Zhongshan Road Renovation, Hangzhou,
2009, in "Lotus International", 2010, n. 141, pp. 106-111
LA MATERIA DELLA FORMA
Nello Luca Magliulo

Gli ultimi decenni hanno visto un continuo evol- bile. In entrambi i casi la scelta del materiale assume
versi delle tecnologie nel campo del disegno informa- un significato legato principalmente all’effetto scenico
tizzato come strumento della progettazione architetto- di una mero valore formale e, sebbene nel caso del
nica. Siamo così spettatori di strumentazioni che of- museo di Bilbao sia possibile pensare alla volontà di
frono all’architetto sempre maggiori capacità di rap- scegliere un materiale di rivestimento capace di asse-
presentare e prefigurare forme architettoniche com- condare la sinuosità della forma, è indubbio che que-
plesse. La conseguenza di tale fenomeno è sicuramen- sta non appare legata ad alcuna necessità, funzionale o
te nella alterazione complessiva del processo compo- statica, sì da poter dire che, nella sua voluta gratuità
sitivo che tende sempre più a tradursi in applicazioni pieghi a sé la stessa funzione e finanche la struttura
di algoritmi computerizzati tali da rendere possibile la costruttiva: un edificio capace di creare un impatto
sostituzione dell’uomo con la macchina, quella della immediato già nella sola visione, assimilabile quindi
stessa creatività della mente con l’intelligenza artifi- ad un’opera d’arte scultorea dove alla complessità fi-
ciale. È lecito quindi chiedersi se tutto ciò metta in gurativa esterna corrisponde la semplicità organizzati-
crisi il tradizionale status dell’architetto o se, acquisita va interna che distanzia ancor di più il tradizionale
la conoscenza dei nuovi mezzi informatici, il progetti- rapporto fra interno ed esterno, quasi che l’intera ar-
sta ne risulti potenziato. chitettura possa risolversi essenzialmente nella sola
Il rapporto con la tecnologia è solitamente duplice. composizione delle forme esteriori.
Da un lato essa è vista quale pericolo, modo di annul- Un carattere significativo di questo tipo di architet-
lare i nostri consolidati parametri interpretativi del re- tura, conseguenza dell’attenzione alle forme esteriori,
ale, dall’altro invece suscita un forte fascino, grazie al è rappresentato dalla totale astrazione dal contesto. È
suo potenziare il pensiero e l’immaginazione, laddove possibile pensare che tali interventi abbiano una voca-
spesso tale fascino comporta, particolarmente nel zione al globale, estranei come sono al locale, tali da
campo della progettazione, l’erroneo confondere il potersi collocare in un qualsiasi ambiente. Gli stessi
buon uso della tecnica con la buona architettura, spes- materiali, spesso riflettenti, curvati e deformati con
so solo invece elaborazione performativa delle possi- tecniche sofisticate, lontani quindi dalle tradizioni co-
bilità rese dalle nuove scoperte tecnologiche. struttive dei luoghi, li rendono all’isolamento ed
Oltre ad essere utilizzati nel processo progettuale, all’astrazione, tali da non essere assimilabili a nessun
i nuovi mezzi informatici hanno dato risultati anche intorno, determinandoli quasi quali oggetti irreali. Lo
nell’ambito della sperimentazione di materiali da co- stesso museo MAXXI progettato da Zaha Hadid pur
struzione. L’aspetto costruttivo potrebbe essere cata- intervenendo in una città, Roma, che si caratterizza
logato come una naturale conseguenza del primo: essenzialmente per la sua storia, non si rapporta affat-
forme più complesse richiedono materiali con mag- to al contesto, non chiede ad esso alcun colloquio né
giori capacità performative in grado di a ssecondare le mostra alcun palese rifiuto, per essere una sorta di og-
geometrie computazionali. Ma sarebbe lecito anche il getto straniato proprio ad un mondo altro alla storia,
discorso inverso: le scoperte connesse alle capacità alieno alla presenza delle vecchie caserme ed
tecniche di alcuni materiali innovativi quali le leghe di all’intero quartiere .
titanio, l’alluminio, gli elementi lapidei sintetici, sti- Così è anche per l’Imperial War Museum a Man-
molano la creatività dei progettisti. Basti pensare alle chester progettato da Daniel Libeskind. La sua collo-
opere di Frank O. Ghery, alle architetture di Zaha Ha- cazione, in piena periferia della città, ha permesso
did, o di Peter Eisenman dove l'intero processo com- senza ombra di dubbio una libertà compositiva al pro-
positivo si inoltra in elaborazione di forme completa- gettista o, se si vuole, de-compositiva, dell’oggetto,
mente distaccate dai parametri convenzionali, attra- nella formulazione di volumi che nascono dalla fusio-
verso la deformazione e la ricomposizione morfologi- ne di tre grossi componenti rappresentativi dei tre luo-
ca mediante geometrie a più variabili. Ne risulta in al- ghi della guerra: acqua, terra e aria. I tre grandi oggetti
cuni casi quasi un abuso del gioco manipolativo che fa che s’intersecano sono completamente rivestiti da una
perdere di vista ogni regola rendendo difficile, se non struttura ondulata in alluminio ed il rivestimento me-
impossibile, la lettura dell’opera. In alcuni casi la scel- tallico lucido asse gna una lucentezza all’oggetto che
ta di forme e materiali non scaturisce necessariamente assorbe e riflette il contesto con il quale non interagi-
dalla ricerca di una ottimizzazione degli spazi quanto sce se non attraverso la luce. L’unico elemento di col-
da una pura inclinazione estetistica. Si pensi al Gug- legamento con l’ambiente circostante è quindi l’acqua
genheim Museum (Bilbao) completamente rivestito di quale parte integrante del progetto per la realizzazione
titanio o il Ghery Tower rivestito di acciaio inossida di alcuni spazi tematici legati direttamente al Museo.
Atteggiamenti compositivi simili sono riscontrabili ti, un edificio all’apparenza complesso nasconde una
anche in progetti di altri architetti come, ad esem- struttura semplice e solo le sovrastrutture esteriori
pio, nell’Ufa Cinema Center del gruppo Coop Him- sembrano voler rompere la tradizione figurativa
melb(l)au a Dresda. Qui è ancora la deformazione dei dell’architettura passata in un puro esercizio manieri-
volumi euclidei a divenire tema centrale: due corpi stico di facciata che perde ogni concetto di unitarietà
(un parallelepipedo e un cono) s’intersecano tra di lo- dell’oggetto architettonico.
ro. Il primo, in cemento armato e rivestito di pietra Ci troviamo quindi di fronte ad una questione rile-
ospita le sale per le proiezioni; il secondo, completa- vante nel senso che la costruzione materiale da cui sin
mente in acciaio e vetro, ospita i servizi e l’accesso da Semper si erano tratti i principi del mestiere sem-
alla struttura. La forte contrapposizione fra i differenti bra cedere il posto ad un altro genere di materia intesa
materiali da costruzione porta anche ad una contrap- come forma da plasmare. Ciò pone la necessità di in-
posizione tra il tema della leggerezza e quello della terogarsi sul senso stesso dell’essere architetti non es-
solidità che, nell’affiancamento deformato dei volumi, sendo più il progetto architettonico il luogo della sin-
genera un’intensa tensione stilistica con cui si tenta di tesi inventiva in cui connettere la relazione con il luo-
coinvolgere le più complesse e articolate interrelazioni go, i materiali, la statica, la forma, la funzione.
urbane. Nei progetti descritti, ed in molti progetti attuali,
Come ho prima accennato, tali prodotti architetto- infatti, tutti i parametri tradizionali del progetto sem-
nici generano spesso una grande attrazione visiva. I brano annullarsi per fare spazio alla forte volontà di
giochi di luce che attuano, le forme complesse e si- far prevalere un mero gioco formale che, proponendo
nuose, la posizione sia in luoghi completamente isolati oggetti estranei ad ogni sito, rende riconoscibile solo
o fortemente contestualizzati, rappresentano tutti ele- la griffe del progettista il quale lascia ad altri le in-
menti che spesso generano facili consensi di massa combenze della stessa realizzazione della forma a-
aderenti come sono al tono della nostra epoca caratte- strattamente creata.
rizzata dal costante bombardamento di immagini e Siamo alla possibile mutazione dell’architetto e
messaggi, innovazioni continue e spettacolarizzazioni. dell’architettura? Bisogna dimenticare Vitruvio?
In conseguenza, la necessità di determinare una tale
attrattività fa porre l’accento su un altro aspetto che
caratterizza le attuali tendenze progettuali, quello del-
la commercializzazione dell’architettura. È evidente
come, in diversi progettisti, appaia essere più impor-
tante di molti altri motivi, la capacità di realizzare in-
terventi architettonici in grado di attirare visitatori e
generare attenzione verso l’intera città in cui si calano,
pure ad essa estranei. Ai possibili benefici economici
però, corrispondono spesso gli alti costi della fase di
realizzazione. La maggior parte degli edifici-attrattori
raggiunge infatti spesso prezzi di costruzione esorbi-
tanti a causa delle forme complesse, della tipologia di
materiali necessari e della necessità di manodopera
specializzata per l’assemblaggio. Basti pensare che lo
stesso museo di MAXXI a Roma è costato circa 150
milioni di euro per circa 200.000 metri quadrati (il che
equivale a dire circa 7.500 euro al metro quadrato).
L’impatto economico non è assolutamente da sottova-
lutare, tanto più oggi, in fase di crisi economica, lad-
dove oltretutto, al contrario di quanto si pensa, una
buona architettura non è affatto quella di maggior co-
sto, dal momento che spesso, materiali più sofisticati
finiscono anche con l’essere maggiormente deperibili.
Frank Gehry, Zaha Hadid, il gruppo Coop Him-
melb(l)au, Daniel Libeskind, Peter Eisenman ed altri
ci offrono forme fluide che rompono le geometria re-
golari anche in contrapposizione contrapposizione al
Razionalismo modernista onde, così come già
l’avanguardia storica, rompere gli schemi della tradi-
zione. Spesso però la rottura è solo formale ma non
reale, legata cioè alla costruzione. In molti casi, infat-
LA CAPPELLA D I RONCHAMP E IL MONAS TERO DI AMORGOS .
Metafisica sensuale del Mediterraneo tra percezioni, materia, memoria e pensiero creativo.
Fabio Iannotta

La ricerca dell’identico e del diverso nello studio escursioni che dal 5 al 9 agosto i congressisti si con-
dei paesaggi che costituiscono il Mediterraneo porta a cessero durante il viaggio-congresso del IV CIAM ad
confrontarsi con l’identità stessa della complessità che Atene del 19334 , vengono gettati alcuni dei semi per
si manifesta nelle molteplici componenti di questo la nascita di una delle architetture più affascinanti e
‘luogo’. Un luogo che appare “ Mille cose insieme. controverse del XX secolo, la cappella di Notre-Dame
Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un du Ha ut, e in particolare quelli per la costruzione for-
mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma male della sua innovativa facciata Sud, esempio em-
una serie di civiltà accatastate le une sulle altre”1 e il blematico di contaminazione medi-terranea.
cui tema portante è rappresentato dallo ‘spostamento’ La capacità dell'essenza del Mediterraneo di mi-
e dall’‘incontro’ che a loro volta sono fonte di infinite grare da luogo a luogo, da tempo a tempo, usando
‘contaminazioni’: “ Viaggiare nel Mediterraneo signi- come mezzo di trasporto la memoria e il pensiero cre-
fica incontrare il mondo romano in Libano, la preisto- ativo dell'uomo è particolarmente visibile nelle analo-
ria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza gie formali che legano queste due architetture.
araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa La prima, è un monastero ortodosso risalente al XI
sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzio- secolo (1088) che deve il suo nome all’icona sacra in
Monastero di Chozoviotissa, vista dal mare
ni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Signi- esso custodita, l’immagine della Vergine di Chozovió-
fica incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fian- tissa - probabilmente proveniente dal monastero di
co dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua Hoziva nel villaggio di Hozovo in Palestina – e fonda-
falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale to per volontà dell’imperatore Alexios Komninos ad
di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è an- Amorgos, isola greca delle Cicladi; la seconda è la
cora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei cappella cattolica eretta in luogo lontano dal mare, a
fondi marini o le enormi petroliere. Significa immer- Ronchamp, presso Belfort in Francia tra il 1950 e il
gersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso 1955, manifesto dell’architettura moderna. Entrambe
tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città accomunate dall’essere dedicate alla Vergine Maria,
molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del entrambe meta di pellegrinaggio.
profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il Da lontano, dal mare (im.01), a un primo impatto,
mare”2 . il monastero di Chozoviótissa appare come incastona-
L’apparire del paesaggio mediterraneo sfugge ai to nella roccia, in una sorta di eroica solitudine nel suo
suoi stessi confini, in esso l’uomo è radicato alla realtà stagliarsi bianco contro il fondo scuro della parete che Cappella di Notre-Dame du Haut, vista dai binari ferroviari
e vincolato percettivamente alla materia ma al tempo lo sovrasta e lo circonda in un’armonia senza tempo, della tratta P arigi-Basilea.
stesso è proiettato in un mondo onirico ed evocativo sviluppata con un paesaggio naturale apparentemente
di altri luoghi, di altri tempi e di altre culture. In que- creato per accoglierlo. Lo stesso spirito eroico può
sto incontro di Spirito e Materia nasce la ‘meraviglia’, essere percepito osservando da lontano la cappella di
che porta alla pura ‘contemplazione’ delle forme che Ronchamp sulla sua collina (im.02), magari dalla stes-
rimandano a sensazioni e luoghi, reali o semplicemen- sa prospettiva da cui Le Corbusier vide il luogo per la
te immaginati, spesso amati ancor prima di essere vis- prima volta, cioè dai binari della ferrovia Parigi-
suti. Basilea, da cui vennero effettuati i primi schizzi, il 20
Proprio la meraviglia deve aver colto Le Corbusier maggio 1950 (im.03). La bianca massa spicca sul pae-
durante l’esplorazione effettuata con Siegfried e Caro- saggio circostante, perdendosi in esso.
la Gie dions dell’isola di Amorgos, la più remota delle In entrambi i casi la loro esistenza appare fisica-
Cicladi in Grecia, trovandosi di fronte l’impressio- mente sottolineata da una sottile linea, simile
nante architettura del Monastero di Panayia Chozovió- nell’andamento geometrico, del terreno su cui la loro
tissa3 . base appare poggiata (im.02-03): nel monastero è co-
In questo incontro avvenuto durante una delle tre stituita dal quasi invisibile percorso scalinato che si Cappella di Notre-Dame du Haut, Le Corbusier - primi
arrampica sul fianco del costone roccioso per rag- schizzi (20 maggio 1950) dal treno P arigi-Basilea.

1
giungerlo faticosamente; nella cappella è individuabi-
F. Braudel, Il Mediterraneo. lo spazio e la storia - gli uomini e la
tradizione, Milano, CDE, 1990, p. 7.
le nel profilo della collina sulla quale si staglia, come
2
F. Braudel, op. cit, 1990, pp. 7-8.
3
H. D. Fernández, The Giedions, Le Corbusier and Sculpture, 9
4
June 2006, Retrieved April 28, 2010, from http://www.henry- P . Di Biagi, The Ciam towards Athens: habitable space and
moore.org/hmi-journal/homepage/view-by-conference/carola- functional city, October 25 2005, Retrieved May 11, 2007, from
giedion-welcker/the-giedions-le-corbusier-and-sculpture/page-1 http://www.planum.net/archive/charter.htm
è evidenziato fin dai primi disegni dell’architetto.
Da vicino, l'intimo legame tra le due opere è visibi-
le nell’aspetto, nella struttura e nei particolari dalle
loro pareti orientate a Sud (im 04-05), che espongono
le loro superfici allo stesso taglio di luce. In entrambi i
casi sono proprio queste che accolgono Pellegrini e
che determinano il primo impatto emotivo, la prima
costruzione percettiva che si compie nel loro incontro
e che prevale nel ricordo di queste architetture. Del
resto nel percorso creativo che ha dato origine alla
cappella francese, la prima immagine generata fu pro-
prio da questa particolare prospettiva, come ricorda il
canonico Ledeur presente al fianco di Le Corbusier al
primo sopralluogo: “ ritrovo di colpo la sua reazione
immediata luogo: il primo tratto di matita che ha dise-
gnato, il muro Sud che fa così! (T racciando con un
gesto una linea curva)…”5 .
Poco tempo dopo in occasione del secondo sopral-
luogo (9 giugno 1950), sarà determinata l'immagine
definitiva di questa facciata che si manterrà essen-
zialmente invariata in tutte le fasi di modifiche suc-
cessive che porteranno al completamento dell'opera.
L'immagine emotiva costruita nelle forme della cap-
pella è dunque l’immagine di un ricordo di molti anni
prima, sfumato, ma certamente ancora vivo.
Cappella di Notre-Dame du Haut, parete Sud.
Da un punto di vista strettamente formale l'analo-
gia tra le due opere risulta evidente sia attraverso uno
sguardo d’insieme che in diversi specifici particolari.
L’andamento plastico della facciata Sud della Cap-
pella di Ronchamp, è costituito da un muro di forma
complessa che parte da sud-ovest piano e inclinato per
poi modificare progressivamente la sua geometria di-
ventando curvilineo e ad asse verticale nella parte sud-
est, ponendosi in quest’ultimo tratto in una posizione
avanzata e aumentando progressivamente anche la sua
altezza; ancora nella parte sud-ovest si staglia una tor-
re anch’essa avanzata che conclude in quel tratto il
prospetto che dunque appare risolto con due limiti
verticali (im.04).
La parete così definita rievoca l'andamento plastico
del monastero in cui l’andamento orizzontale della
superficie muraria viene spazialmente definito tra con-
trafforti emergenti costituiti da potenti forme slanciate
a forte carattere verticale (im.05).
Ancora nella cappella francese, nel tratto di faccia-
ta in cui l'altezza è minore, si ha l’ingombro della co-
pertura che si protende anch'essa oltre il limite costitu-
ito dalla parete, effetto reso emotivamente drammati-
co dalla differenza cromatica tra questa, scura, in ce-
mento nudo, e la parete sottostante, vestita di bianco
(im.06). La stessa regola formale si riconosce nel rap-
porto tra la scura massa della parete rocciosa nelle
sfumature di grigio rossastro e ocra e la luminosa
bianca parete del monastero che sovrasta comprimen-

Monastero di Chozoviotissa, parete Sud.


5
D. P auly, Die Kappelle von Ronchamp/La Cappella di Ron-
champ, Berlin: Birkhäuser, 1997.
done la materia (im.07). In alcuni particolari si riscontrano ulteriori corri-
Proprio l’impiego predominante di un bianco ab- spondenze, è il caso delle campane il cui sistema di
bagliante nel rivestimento delle pareti, ottenuto con il sostegno e le proporzioni presenti nel Monastero ven-
latte di calce, permette alle due opere di evocarsi a gono riproposte, da Le Corbusier, lontano dalla cap-
vicenda e di entrare in collegamento con molti altri pella, in chiave moderna, affidando all'acciaio quello
luoghi del mediterraneo; delle sue proprietà Le Cor- che ad Amorgos è il compito della pietra (im.10-11).
busier dirà “ il volume delle cose vi appare in modo T uttavia, il particolare maggiormente significativo
netto; il colore delle cose vi è categorico. Il bianco di nel gioco delle rievocazioni è probabilmente quello
calce è assoluto, tutto vi risalta, vi si scrive assoluta- meno evidente: nel sistema di vetrate della parete Sud
mente, nero su bianco: è franco e leale”6 . infatti, dove si avvicendano vetri bianchi e colorati su
Un'ulteriore analogia è identificabile anche nella cui sono dipinte immagini semplici come uccelli, fo-
citata inclinazione del tratto di facciata della cappella glie, stelle, nuvole, la luna, che si alternano a frasi e
che propone al suo cospetto una prospettiva simile a parole di lode alla Vergine, è presente su una di esse
quella che si è costretti ad avere presso il fronte del la parola “ la mer”: ‘il mare’, apparentemente fuori
monastero, data la sua vicinanza al percorso d’accesso contesto, anch’essa dipinta, ma che ha il compito fon-
che lo fiancheggia, inevitabile necessità per un’archi- damentale di effettuare un richiamo simbolico e pro-
tettura aggrappata alla roccia. durre l'immagine di quel mare, a cui la cappella è in-
La similitudine più evidente tra le due opere, il ve- timamente legata, la cui presenza in quei luoghi
ro e proprio carattere distintivo, è costituita dalle in- dell'entroterra francese è negata alla vista (im.12-14).
numerevoli aperture tutte squadrate ma di forme e
grandezze differenti che costellano le superfici bian-
che di entrambe le facciate, disponendosi in un modo
che sembra dovere al caso la sua regola (im.08-09).
Il confronto proposto tra soli due aspetti di due ar-
chitetture differenti (le loro pareti sud) appare mag-
giormente fondato se si considera la particolarità del
monastero di Amorgos, cioè quella di essere definito
nei suoi confini solo da un limite tracciato dall'uomo,
quello appunto della parete Sud, le restanti delimita-
zioni infatti sono costituite unicamente dalla roccia di
colore grigio rossastro e ocra della parete naturale a
cui esso si appoggia e che in quel punto crea un an-
fratto naturale che ne determina il suo volume. A que-
sto specifico aspetto, nella cappella di Ronchamp si
replica da un punto di vista compositivo attraverso
l'impiego di uno spessore elevato, ingiustificato
nell'impiego della tecnica del cemento armato che co- Cappella di Notre-Dame du Haut, rapporto tra la massa di copertura e quella della parete Sud.
stituisce la sua struttura e assolutamente illusorio per-
ché ottenuto con due sottilissime membrane in cemen-
to che si appoggiano delicatamente alla reale struttura,
ma di opportuno impiego nell'intento della rievoca-
zione di un parete di muratura (im.12-13), sola contro
la forza della natura: “Il guscio è stato posato su muri
stupidamente ma utilmente grossi, dentro ai quali ab-
biamo però racchiuso pali di cemento armato”7 ; con
esso si crea l’effetto di una massiccia muraglia che
sostiene visivamente il peso della copertura con
l’aiuto degli elementi verticali, quali ‘contrafforti vi-
sivi’. A ciò si aggiunge che nell’angolo Sud-Est la
composizione della parete cambia assumendo l’aspet-
to di un foglio, riducendo il suo spessore e distaccan-
dosi dal resto della struttura muraria, evocando con
ulteriore forza la singolarità del muro del monastero
greco.

6
M. Besset, Qui était Le Corbusier?, Ginevra, Skira, 1968, p. 17. Monastero di Chozoviotissa, rapporto tra la massa rocciosa e quella della parete Sud.
7
Le Corbusier, Ronchamp - les carnets de la recherche patiente,
Milano, Edizioni Comunità, 1957, p .95.
Nella proposta di questa nuova chiave di lettura,
per lo studio del prospetto Sud della cappella di Ron-
champ, costituita dal confronto col fronte del mona-
stero di Chozoviótissa, si è tralasciata l'indicazione
degli altri innumerevoli riferimenti formali, mediter-
ranei e non, che non riguardano tale tematica nello
specifico ma che hanno costituito la base per la co-
struzione della poetica di altri aspetti di tale architettu-
ra, la cui discussione è ampiamente trattata in lettera-
tura.
La migrazione di forme appena descritta, si attua
attraverso la cattura dell'essenza del luogo e il tentati-
vo di rievocarla in luoghi lontani, attraverso un proce-
dimento olistico teso non ad una mera trascrizione
della bellezza, ma ad una comprensione della sua ar-
monia, cioè delle leggi formali che ne regolano
l’esistenza. Cappella di Notre-Dame du Haut, parete Sud, ritmo aperture della facciata .
In tale processo la materia, scoperta dalle perce-
zioni, viene astratta, memorizzata e rielaborata attra-
verso un'incessante ricorso alla ‘contemplazione’ delle
immagini che si susseguono nella mente, con anda-
menti non lineari, fino ad essere restituita alla concre-
tezza dell’opera realizzata. Le Corbusier descriverà
così il suo percorso creativo: “ quando mi viene affida-
to un compito, ho l'abitudine di metterlo dentro alla
mia memoria, cioè di non concedermi nessuno schizzo
per mesi. La mente umana è fatta in modo tale da pos-
sedere una certa indipendenza: è una scatola nella
quale si possono versare alla rinfusa gli elementi di un
problema. Allora si lascia galleggiare, cuocere, fer-
mentare. Poi un giorno, per iniziativa spontanea
dell'essere interiore, scatta l'idea; si prende una matita,
un carboncino, delle matite colorate (il colore è la Monastero di Chozoviotissa, parete Sud, ritmo aperture della facciata.
chiave del procedimento) e si partorisce sulla carta:
esce l'idea...”8 . da un susseguirsi di immagini, ancorché concettuali,
T ale ricerca e creazione dell'identità dei luoghi che devono il loro significato e la loro intensità ai sen-
presenta innumerevoli analogie con la ricerca dell'i- si che le hanno prodotte. Dunque anche nella ‘con-
dentità dell'essere umano. Quest’ultima, infatti, sia templazione dell’essere’ si determina uno stato nel
quella oggettiva che quella soggettiva, ha come obiet- quale “ il pensiero si media, possiamo dire, con la fisi-
tivo la conoscenza dell'essere stesso nella sua totalità, cità, e le sensazioni diventano pensiero nella misura
dunque dei suoi significati ma anche del contesto nel stessa in cui il pensiero si fa sensibile”9 , determinando
quale è immerso e a cui si riferisce, un contesto che, percorsi di conoscenza definibili ‘metafisico-sen-
suali’. In essi la contemplazione estetica stessa risulta Monastero di Chozoviotissa, sistema di campane
assoluto o relativo, si può considerare dunque a bitato.
L’uomo infatti abita le forme a cui si rapporta, siano un atto fondamentale, parte integrante e ineludibile del
esse fisiche o metafisiche, definibili ‘luoghi dell'esse- processo metafisico che porta alla conoscenza dell'es-
re’. senza delle cose.
Partendo dal contesto più ampio possibile, cioè Superata la semplice percezione fisica, fase passiva
‘l'essere nell’assoluto’, si osserva che in tutti i possibi- della conoscenza, la contemplazione estetica che si
li percorsi compiuti per arrivare alla sua essenza me- attua durante processi di conoscenza creativa, permet-
diante successive astrazioni, è presente un pensiero te di valutare, quindi di misurare gli elementi conside-
che, pur aspirando ad agire in maniera metafisica, ri- rati nel tentativo di cogliere la “ giusta misura”10 , nei
sente del nostro essere fisico che ha insegnato concetti tanto quanto nelle forme.
all’immaginazione a rapportarsi alla materia. La qualità del progetto di architettura è dunque la
Del resto, anche il pensiero puro risulta composto
9
R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, vol. I, natura e storia. Na-
poli, Giannini editore, 1973, p. 161.
.8 Le Corbusier, Textes et dessins pour Ronchamp, o. O: Forces 10
U. Galimberti, Psiche e techne, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. Cappella di Notre-Dame du Haut, sistema di campane.
Vives, o.p., 1965. 54-56.
qualità della sua rappresentazione, la qualità del segno I risultati di questa ricerca sono stati presentati al 21° Biennial
è la qualità della sua misura, infatti, ogni segno che Congress of IAEA - International Association of Empirical Ae-
sthetics - "AESTHETICS and DESIGN" Agosto 25-28, 2010,
viene tracciato, attraverso un’azione elementare, in (Dresden University of Technology, DRESDEN, Germany), con la
qualunque forma esso si manifesti, si trova sospeso tra relazione - selezionata mediante peer review in procedura anoni-
il regno di Dike e quello di Hybris, tra l’armonia e la ma - dal titolo: "Sensual metaphysics. The harmony of forms in
sproporzione, un luogo di ricerca nel quale viene so- Mediterranean design, between perception, matter, memory and
creative thought".
spinto verso questi due estremi da tutti quegli aspetti
materiali e immateriali che compongono in maniera
concreta il progetto di architettura teso alla ricerca del
ridottissimo dominio della proporzione armonica vero
obiettivo finale. Un’armonia da considerare perfetto
equilibrio delle parti basata su di un’estetica che tiene
conto e misura le molteplici dimensioni del reale.
In particolare nei casi armonici di architetture e
manufatti, ideati e abitati nel contesto considerato, si
riflette l’essenza del Mediterraneo, per cui le loro
forme si costituiscono come luoghi formati da molte-
plici realtà. Monastero di Chozoviotissa,,lato interno della pare-
Per essi, una parete di Architettura diventa molto te Sud, vista sul mare.
più di un limite, di una superficie, è un luogo dove
abitano segni, è una proiezione, una trascrizione
dell'essenza che l'ha prodotta in un dato istante, è una
forma d’essere che si sovrappone all'essere che l'h a
generata e che colpisce con un impressione reale chi
con essa si confronta.
Se dunque consideriamo le superfici fisiche come
finestre che aprono su ‘paesaggi’ simbolici, possiamo
far riferimento all’idea di Rosario Assunto11 , sul rap-
porto tra il paesaggio e l’estetica. In particolare l’a-
spetto metafisico del paesaggio e i suoi forti legami
con la fisicità dello stesso, emergono con evidenza
quando riconsidera secondo un'altra prospettiva la
concezione apparentemente idealistica, espressa dal
filosofo-esteta Henri Frederic Amiel, secondo cui ‘il Cappella di Notre-Dame du Haut, lato inteno della
parete Sud.
paesaggio è uno stato d’animo’12 . Per il filosofo italia-
no infatti lo ‘sguardo di Amiel’ 13 esprime la ‘fruizione
estetica del paesaggio’, per cui la contemplazione del-
la natura è legata intimamente con il pensare e con il
sentire morale, e in particolar modo con le sensazioni
percepite e con le azioni compiute attraverso il nostro
corpo, il nostro essere fisico.
Dunque processo definibile come ‘metafisica sen-
suale’ come modo sottinteso nell’esperire uno spazio,
anzi un ‘metaspazio’14 , ‘racchiuso’ nelle superfici ma
al tempo stesso ‘aperto’, per il quale ben si adatta la
definizione di paesaggio data da Assunto, nella quale
si riconosce che tale luogo formato da molteplici real-
tà “non rappresenta l’infinito (simbolicamente o illu-
sionisticamente), ma si apre all’infinito, (…) costi-
tuendosi come presenza, e non rappresentazione,
dell’infinito nel finito”15 .

11
R. Assunto, op .cit., 1973.
12
H. F. Amiel, Fragments d'un journal intime, P aris, ed. B.
Bouvier, 1949..
13
Amiel, H. F. op. cit., diario del giorno 31 Ottobre 1852, 1949.
14
R. Assunto, op .cit., pp. 1-24. Cappella di Notre-Dame du Haut, vetrata della parete
15
R. Assunto, op .cit., p. 10.
Sud con "vista sul mare”.
ALVARO S IZA E LIS BONA. UNA RIS CRITTURA D ELL’ES IS TENTE
Rosario Di Petta

Un recente viaggio a Lisbona mi ha offerto la spazialità fluida e la cura minuziosa dei dettagli ci
straordinaria possibilità della scoperta di un luogo regalano ambienti sapientemente riconfigurati.
dal sapore antico, ma attraversato, al contempo, da Si tratta evidentemente di un uso corretto della
segnali eloquenti di modernità. Patria mitica di tecnica edilizia, intesa qui come semplice ausilio per
Fernando Pessoa, l'essenza di questa città è la corretta rielaborazione di un brano di città colpito
pienamente percepibile proprio attraverso i versi del da un evento calamitoso. Sempre più frequente-
grande poeta ad essa dedicati: “ Non ci sono per me mente invece, come ci fa notare Emanuele Severino,
fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il “nella tecnica del nostro tempo, la volontà che le
sole”. Una essenza molteplice quella di Pessoa, in cose divengano altro procede di fatto come se il
cui riescono a convivere tante persone fuse in un divenir altro delle cose non avesse alcun limite. Ma
solo essere, in una sorta di gioco delle maschere che il limite esista o meno non solo non è qualcosa
pirandelliane teso a dare possibili risposte all'inspie- di accidentale per la comprensione dell’essenza
gabilità dell'esistenza umana. della tecnica, ma non è nemmeno qualcosa di
Il susseguirsi dei colori della capitale portoghese, indifferente all’operatività tecnologica… La cono-
dal mare alle case e agli azulejos, dalla gioia alla scenza di quel limite non determina la semplice
malinconia, si spiega con la varietà degli elementi riflessione epistemologica o filosofica sull’essenza
naturali che riescono qui a convivere in un miraco- della tecnica: determina l’agire concreto e specifico
loso equilibrio. I suoi sette colli la trasformano di della tecnica”.1
fatto in un alternarsi di discese e salite ripidissime da La conoscenza di tale limite è proprio ciò che
cui si scorge in maniera spettacolare da molteplici sembra guidare come un faro l'operazione compiuta
punti di osservazione privilegiata il fiume Tago che da Siza a Lisbona, nel riuscito tentativo di riscrivere
si immerge nell'Oceano Atlantico. T ali colline si all'interno del tessuto storico stratificato, avva-
innalzano dalla Baixa, ovvero la città bassa che ini- lendosi della moderna tecnologia del cemento
zia proprio in riva al fiume con l'enorme spazio armato, senza per questo stravolgere le geometrie
squa drato della piazza del Commercio. Tra città identitarie che hanno realizzato nel corso del tempo
bassa e città collinare - ovvero tra Baixa e Bairro determinate sequenze spaziali, dove l'alternarsi di
alto - si trova il Chiado, uno dei quartieri più tradi- pieni e vuoti, le trame compositive che regolano le
zionali e caratteristici di Lisbona, da sempre cuore facciate ed i traguardi visivi che definiscono le stes-
culturale della capitale portoghese. E' qui che nel se architetture, rappresentano pur sempre quella sce-
1988 si sviluppa un grande incendio che ne altera na fissa in cui da secoli si svolgono le vicende
gravemente la fisionomia, cancellando di fatto di- umane della popolazione locale. Il senso comples-
ciotto edifici racchiusi in tre isolati ed un'ampia sivo dell'intervento nel cuore dell’antica capitale si
superficie urbana. L'amministrazione comunale de- può del resto cogliere pienamente nelle stesse parole
cide quindi di incaricare Alvaro Siza Vieira della dell’architetto portoghese: “ Mi è stato chiesto di uti-
redazione di un nuovo piano particolareggiato, lizzare quanto era sopravvissuto delle facciate. Il
preceduto in ogni caso da una lunga opera di boni- centro di Lisbona, la Baixa, può essere visto come
fica delle strutture danneggiate e di consolidamento un gigantesco prefabbricato. Poiché al Chiado sono
del terreno. andati distrutti diciotto edifici, qualcuno voleva
Il progetto redatto dal maestro portoghese si sostituirli con costruzioni moderne. Ma la modernità
fonda sull'assunto essenziale che l'ampia area della è già molto diffusa a Lisbona, e non c'era alcun
Baixa Pombalina è un esempio di progetto globale bisogno di riaffermarla al Chiado. Fondamen-
fondato su una maglia settecentesca di enorme talmente, lo stesso non è mai lo stesso. Non è stato
rigore, basata su un sistema realizzativo che prevede possibile ricreare gli spazi esattamente come erano
la costruzione di una gabbia strutturale in legno prima degli incendi. L'eclettismo derivante dal natu-
verde, in maniera tale da utilizzare materiali pesanti rale lavoro del tempo non poteva essere riprodotto,
solo all'esterno. Seguendo tale logica Siza si limita a ma le facciate ne conservavano alcune tracce”.2 Il
sostituire i telai strutturali di legno con pilastri e suo tocco resta così leggero e discreto, ma lascia e-
travi in cemento armato, riuscendo in tal modo a mergere in modo eloquente la bellezza reinventata di
mantenere inalterati i prospetti originali, in una
sofisticata operazione di riscrittura dell'esistente che
1
non lascia scorgere il proprio linguaggio compo- E. Severino, Tecnica e architettura, Raffaello Cortina Edito-
sitivo, se non all'interno degli edifici, dove la sua re, Milano, 2003, p.60.
2
P . Jodidio, Alvaro Siza, Taschen, Colonia, 1999, pp. 31-32.
questi spazi che una orografia particolarissima riesce realizzazione di una grande apertura ad arco che
a rendere davvero unici, nel loro succedersi in una ‘ingoia’ i passeggeri al culmine della ripida salita di
varietà di sequenze altimetriche che accolgono sulla Rua do Crucifixo in uno spazio interno dal sapore
superficie della bianca pavimentazione e sugli quasi surreale, illuminato da una luce dal colore
azulejos che rivestono le pareti degli edifici una luce violaceo e da una suggestiva proiezione di immagini
intensa che sembra moltiplicarsi a dismisura, che accompagnano la discesa mobile verso il sotto-
rendendo quasi rarefatta la materia di cui le stesse suolo. Le tre aperture del piano superiore sono dei
superfici si compongono. semplici vuoti, illuminati dalla stessa luce viola, che
Per dirla con le parole di Vittorio Gregotti, al restituiscono l’illusione percettiva di una maggiore
Chiado si realizza “ la possibilità di un'architettura profondità, lasciando presagire ampi spazi che ad
che si ponga il problema di pensare non al di fuori una lettura più attenta si riveleranno inesistenti. Le
ma al di là della globalizzazione. Per fare questo piastrelle di ceramica smaltata di color bianco rive-
è...non solo necessario muovere da una critica alle stono le ampie superfici voltate interne, conferendo
attuali forme di rappresentazioni e alla loro legitti- così grande luminosità ed un senso di maggiore
mità ma anche ritenere possibile, senza passare vastità agli stessi spazi. Le aree di attesa dei treni
esclusivamente attraverso il pensiero utopico, un'in- realizzano poi una interessante introspezione con gli
terpretazione alternativa agli attuali termini dell'in- ambienti che si trovano al piano superiore, grazie
carico sociale, che guardi più a lungo alla durata ar- alla continua possibilità di affaccio su detta area. Il
chitettonica. Architetti come Alvaro Siza ... dimo- tutto all’insegna di un lingua ggio sobrio, quasi invi-
strano che è possibile restituire creativamente le sibile, ma i cui dettagli rendono inconfondibile (è
cose a se stesse.”3 sufficiente, del resto, osservare la preziosa essen-
Quel che emerge più di ogni altra cosa dalle zialità del design dei corrimano da lui progettati).
architetture messe in scena da Siza a Lisbona è pro- Come nota acutamente Kenneth Frampton, “ que-
babilmente una capacità innata di giungere all’es- sta ipersensibilità verso la trasformazione di una
senziale, senza tentare facili scorciatoie, ma piut- realtà, fluida eppure specifica, conferisce all’opera
tosto dissimulando abilmente una complessità pro- di Siza una complessità e un radicamento maggio-
fonda che solo ad uno sguardo attento può essere re… Le sue architetture sono risposte precise alle
colta pienamente. Gli spazi del maestro portoghese caratteristiche urbane, territoriali e marine… Altri
si fondono così in modo mirabile con quelli del fattori importanti sono l’attenzione all’uso dei ma-
Chiado, tanto che passeggiando per la Rua Nova do teriali locali, l’artigianato e l’indefinibile luce del
Almada non si coglie alcun segno del suo intervento, luogo”.5 Proprio la luce rappresenta la chiave di
se non all'interno delle strutture. Un intelligente atto lettura per comprendere questa capitale antica e
di subordinazione del progettista dinanzi all'imma- modernissima al contempo; una luce che sembra
gine urbana di un brano di città dalla forte conno- possedere uno spessore oceanico che riecheggia in
tazione identitaria, che richiedeva soltanto una sa- modo ineguagliabile sugli arabeschi delle sue archi-
piente rielaborazione di quanto già esistente. A tetture manueline. Una luce che nella parte bassa
chiarire un tale atteggiamento sono le stesse parole della città si espande in un continuo riflesso di toni
di Siza: “ Avrei considerato una violenza l'intro- pastello, e che sui colli appare continuamente riem-
duzione di qualche decina di architetture diverse pirsi di ombre.
all'interno di un tessuto così fortemente connotato. E’ tutto questo che la sensibilità compositiva di
Ho ricomposto una parte di un organismo com- Alvaro Siza riesce a tradurre in un progetto di riqua-
plesso... Alcuni hanno parlato di pastiche e am- lificazione urbana di grande intensità e spessore
biguità perché il progetto manterrebbe solo la parte concettuale, perché votato ad un concreto tentativo
esteriore delle preesistenze, non sono d'accordo, qui di rivitalizzazione del cuore antico della città, piutto-
si tratta di interpretare il concetto costruttivo ori- sto che ad un arido atto autocelebrativo della propria
ginale della Baixa”.4 scrittura architettonica.
Il gesto sapiente dell’architetto portoghese emer- In un panorama architettonico internazionale che
ge in modo ancor più esplicito nel progetto della sembra procedere sempre più verso la visibilità
stazione della metropolitana Baixa-Chiado, snodo mediatica, a discapito della comprensione e risolu-
essenziale nella città di Lisbona che funge anche da zione delle complesse problematiche connesse alla
collegamento tra il Bairro alto e la parte bassa della specificità dei luoghi in cui si è chiamati ad inter-
città, con la realizzazione di un ingresso ottenuto in venire, il prezioso lavoro realizzato da Siza nel cuo-
modo splendidamente scenografico dallo svuota- re dell’antica capitale portoghese riporta alla mente
mento del piano terra di un edificio esistente, con la le riflessioni di Paul Ricoeur, contenute in un saggio

3 V. Gregotti, L’ architettura del realismo critico, Laterza, Ro-


ma-Bari, 2004, p. 12. 5 K. Frampton, Storia dell’ architettura moderna, Zanichelli,
4 Conversazione con Alvaro Siza in Costruire n. 123, 1993. Bologna, 1982, p. 376.
del 1961 dal titolo emblematico Universal Civil-
ization and National Cultures, preso come spunto
dallo stesso Frampton per identificare con il termine
di Regionalismo critico “ quelle scuole regionali la
cui principale aspirazione è di rispecchiare e trattare
gli specifici elementi costitutivi sui quali esse si
fondano”.6 T ali scuole appaiono in definitiva le
uniche capaci di generare forme vitali di culture
regionali pur assumendo influenze esterne, rifug-
gendo decisamente dagli esiti troppo spesso infausti
della globalizzazione.
Gli spazi felicemente reinventati da Siza a Lisbo-
na possono ascriversi sicuramente a tale orienta-
mento progettuale, proprio perché nati da una inces-
sante riflessione e rielaborazione dei propri elementi
specifici su cui appaiono continuamente rifondarsi,
attraversati al contempo dal gesto sapiente di chi sa
declinare la propria scrittura all’interno del grande
registro del tempo che ha costruito la città.

6 K. Frampton, op. cit., p. 371.


LE PERFORMANC ES DEL PIANO
Alberto Cuomo

Sviluppatosi a partire dagli anni ottanta negli Sta- nello stesso Regno Unito. Matematico, docente
ti Uniti, il new urbanism ha conosciuto nuova fortu- nell’Università del T exas di San Antonio, Salingaros
na nel dibattito sulla pianificazione con i recenti è stato in tale veste collaboratore di Christopher A-
scritti di Nikos Salingaros cui ha fatto eco in Italia, lexander maturando una significativa esperienza in
dopo la calda accoglienza dell’urbanista greco- campo urbanistico che lo ha condotto a ricoprire in-
australiano nelle facoltà di Architettura, il workshop, carichi di docenza anche nelle discipline della piani-
organizzato a Roma nell’aprile 2010 dall’ammini- ficazione in giro per il mondo, a Deft, in Olanda, o
strazione comunale sui “ Nuovi modelli di trasfor- nel Messico, o negli stessi States. Chi ha memoria
mazione urbana” che, tra le diverse presenze incon- delle proposte urbanistiche dell’Alexander ricorda
grue, ha visto la partecipazione di due suoi esponen- come queste si fondassero sulle connessioni incro-
ti, Lèon Krier e Pether Calthorpe. Come è noto il ciate tra le diverse funzioni urbane interpretate attra-
new urbanism è un movimento neotradizionalista verso la matematica combinatoria dei grafi, e Salin-
che fa leva su una visione fosca del futuro, con apo- garos non fa che estendere gli elementi da combina-
calittici quadri circa il deterioramento dell’ambiente re, mediante l’uso del calcolatore, ad altri, nuovi, va-
ed il sovraffollamento delle metropoli i quali rende- lori, riferibili all’ecologia ed alla sostenibilità. Men-
rebbero necessario il ritorno ad organizzazioni urba- tre per l’Alexander le connessioni combinatorie del-
ne circoscritte, con una edilizia di piccola dimensio- le funzioni si componevano secondo una struttura ad
ne fondata sulla sostenibilità e sull’uso di materiali albero rovesciato per il Salingaros dei Principles of
locali. E’ probabile il suo rinnovato successo sia do- Urban Structure1 esse si organizzano per livelli di
vuto anche alla attuale crisi economica che, nella in- nodi in cui ciascun nodo-funzione è legato a sotto-
controllabilità dei fenomeni finanziari a scala globa- nodi in interconnessioni la cui architettura logica,
le, induce a considerare l’eventualità del rimpatrio, informatica, li veda gerarchizzati sotto forma di
nelle attività produttive, negli scambi, nel sociale e, client e server e tuttavia equivalenti o paritari, Peer
quindi, nelle forme dell’abitare, verso la dimensione to Peer, dove ciascuno funge sia da client che da
locale. Di qui, dalla previsione di scenari da “ Fuga server, tali da generare luoghi a funzioni miste in
da New York”, con l’abbandono delle megalopoli una “rete” complessa. Di qui la necessità di contene-
nella impossibilità delle relazioni umane e sociali, il re la quantità dei nodi al fine di controllare la com-
decadimento dei grattacieli e delle architetture di plessità delle connessioni che nei grandi insiemi ur-
grande dimensione, non più utili nel loro dispendio bani sarebbero tanto moltiplicate da pervenire al ca-
energetico, l’idea di costruire quartieri con destina- os. In Antiarchitettura e demolizione, tradotto qual-
zioni d’uso multiple, così come nella città storica, o, che anno fa in Italia2 , Salingaros propone la tesi se-
per dirla con Krier, “matura”, del tutto pedonali, sia condo cui non solo il funzionalismo urbanistico
rivolti a determinare vere e proprie nuove città di quanto tutta l’architettura moderna, rivolta ad offrire
fondazione, sia innestati in aree dismesse de gradate. disegni per le grandi conformazioni urbane, sarebbe
Nella critica all’urbanistica funzionalista, che pro- tra i responsabili degli attuali scompensi territoriali
muoveva zonizzazioni territoriali ed intere città spe- che condurrebbero alla perdita del sacro (dalla radi-
cializzate, il new urbanism rivolge altresì i suoi strali ce indoeuropea sak-, legato, avvinto, a un dio, ma
al caos multifunzionale delle megalopoli, proponen- anche ad un corpo comunitario, sociale) come ricer-
do il sovrapporsi delle funzioni in una scala control- ca del senso e, quindi, alla fine dell’umanità.
lata che contempli, anche, sia la tutela dei valori sto- L’architettura odierna delle cosiddette archistar riu-
rici delle città, sia oculati criteri di sostenibilità ri- nite nel decostruttivismo architettonico, propria alla
volti a preservare le fonti naturali del bios, secondo megalopoli in quanto propositrice di costruzioni di
principi che trovano esito in Europa nella Carta grande scala – vedi la Bigness esaltata da Koolhaas
d’Atene del 2003, accolta anche nelle risoluzioni – e persino di interi organismi urbani in immensi,
della Comunità Europea. Se, tuttavia, i generici unitari, volumi (macrostrutture che, pure sostenibili,
principi del new urbanism sono stati fatti propri dal- come nel progetto di Masdar City nel Dubai, di
la cultura urbanistica europea, sia la sua metodolo- Norman Foster, riunendo in un solo complesso
gia che gli esiti applicativi appaiono del tutto inadat-
ti, oltre che poveri, malgrado le più sofisticate ver- 1
N. Salingaros, Principles of urban structure, Grdners Books,
sioni offerte da Salingaros, nel nostro continente e, Eastbourne, 2010
2
particolarmente, in Italia, in cui la tradizione urbana N. Salingaros, Antiarchitettura e demolizione. La fine
appare molto più significativa che negli Stati Uniti e dell’architettura modernista, trad.it. di D. Vannetiello e G. Puc-
ci Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007
50000 abitanti, nella previsione di giungere a quotidiana del tutto pedonale (T DN), vengono ride-
400000, si renderebbero quali luoghi di isolamento finiti i collegamenti tra i diversi nuclei ed i servizi di
privi di vera socialità), sarebbe pertanto, in continui- scala maggiore posti al confine tra più nuclei, me-
tà con il modernismo, rivolta a distruggere i sistemi diante una gerarchia di collegamenti pubblici e di
connettivi storici della città tradizionale con le stesse strade che utilizzano i tronchi esistenti o nuovi assi
relazioni tra gli uomini cui dispongono e, quindi, appositamente creati, sino a connettere l’insieme
l’umanità tutta, dal momento che tali sistemi, e la metropolitano, costituito dai diversi poli urbani, alle
relazionalità da cui sono sottesi, sarebbero propri maglie viarie di grande scala e quindi ai territori cir-
all’umano. Sebbene tale architettura ricorra all’uso costanti (TOD), in modo da limitare l’espansione.
dell’elettronica nella progettazione di edifici e luo- Intervenendo nelle metropoli il new urbanism in-
ghi urbani, Salingaros ne denuncia la cattiva utiliz- veste la grande scala territoriale aspirando a trasfor-
zazione tesa a polverizzare, ed in definitiva a di- mare l’esteso sviluppo suburbano in un regolato in-
struggere, la forma architettonica, quella della città e sieme di aree a carattere urbano. La sua attenzione
della vita sociale che vi si svolge, sì da ritenerne op- verso gli spazi inutilizzati gli edifici dismessi o inte-
portuna, nella proposta di un ritorno alle piccole di- re zone residue nello sviluppo territoriale, da riquali-
mensioni urbane, la demolizione. Invero, oltre le ac- ficare o da reinterpretare, sembra così incontrare
cettabili critiche al decostruttismo architettonico ed l’interesse europeo verso il cosiddetto “terzo pae-
alle macrostrutture in cui condensare l’urbano, le di- saggio” teorizzato da Gilles Clément, una sorta di
scutibili teorie del new urbanism, che, criticando il “terzo stato” della geografia che comprende tutti
funzionalismo, si fonda ancora essenzialmente sulla quei luoghi, ampi o piccoli, consapevolmente o ne-
organizzazione delle funzioni, trovano riscontro in gligentemente abbandonati, nei quali opera una na-
controversi esiti urbanistici. Così, ad esempio, già tura incolta che li trasforma in campi di biodiversità,
nel primo esperimento neourbanista, la progettazio- del tutto necessari alla vita dell’uomo3 . Solitamente,
ne di Sesaide in Florida, il realizzato villaggio in le- essendo Clèment un botanico, ovvero un progettista
gno colorato di stile coloniale appare tanto finto, una del verde, il “terzo paesaggio” viene inteso in una
sorta di scenografia, da essere quasi alieno alla vita, accezione naturalistica, mentre, includendo nella
per essere usato come set nel film “The T ruman biodiversità lo stesso uomo, esso investe anche il co-
Show” che narra, appunto, della vita-fiction del pro- struito in una visione non solo ambientalista quanto
tagonista. O a Celebration, la città voluta dalla Walt antropologica. Ed infatti Gilles Clèment scrive:
Disney World tra Orlando e T ampa, con 16000 ca- “Propongo di chiamare T erzo paesaggio l’insieme di
sette Via col vento dove, malgrado sia stata imposta tutti i territori sottratti all'azione umana. È un terreno
una distanza massima tra le abitazioni di 9 metri, di rifugio per la diversità, altrimenti cacciata al di
l’ampiezza dell’abitato, pure di poco superiore a fuori degli spazi dominati dall'uomo. II Terzo Pae-
quella di una piccola cittadina, ha mandato in fran- saggio è perciò la somma del ‘residuo’ - sia rurale
tumi il progetto di pedonalizzazione riconducendo sia urbano - e dell’ ‘incolto': comprende il ciglio del-
gli abitanti all’uso della deprecata automobile e di le strade e dei campi, i margini delle aree industriali
tutti i vizi propri alla città diffusa. Un esperimento in e delle città, le torbiere.... E si estende fino ad ab-
parte replicato a Parigi, dalla stessa Disney Co., con bracciare le ‘riserve’, quelle aree in cui la diversità
il Disney Resort ed in giro per il mondo, nei Caraibi, biologica è particolarmente forte … Il T erzo pae-
con il villaggio Orchid Bay, o in Svezia, a Jakriborg, saggio è un luogo di indecisione per le amministra-
dove allo stile “nuovo antico” degli e difici corri- zioni e per l’utilizzo programmato da parte della so-
sponde la morta vita dei cittadini. Malgrado i falli- cietà. Gli esseri viventi che lo occupano però - pian-
menti, il new urbanism, il quale, ripromettendosi di te, animali, uomini - vi prendono delle decisioni a-
contrastare l’espansione della metropoli e, con essa, gendo in tutta libertà e ne impiegano spazio e risorse
il cosiddetto sprawl, finisce invece con l’incremen- rispondendo all’urgenza del proprio bisogno. Sono
tare, sia pure per nuclei abitativi di modeste dimen- sempre, credo, urgenze dettate dalla biologia, niente
sioni, l’ampliarsi di “ suburbia”, perviene a risultati affatto prevedibili. Ecco perché voglio insistere sulla
più interessanti nella riqualificazione delle città con- necessità di ‘prevedere’ uno spazio dell’indecisione
solidate attraverso il Traditional Neighborhood De- - cioè dei frammenti di Terzo paesaggio - in seno
velopment (T DN, quartiere a sviluppo tradizionale) alle aree urbane o rurali affidate all’umano governo:
ed il T ransit-Oriented-Development (TOD, sviluppo voglio mettere in primo piano la necessità di gover-
del traffico orientato) teorizzati da Peter Calthorpe
ed utilizzati a Detroit, ad Ottawa, a Calgary. Suddi- 3
G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio, a cura di F. De
videndo infatti le grandi città per nuclei autosuffi-
P ieri, Qudlibet, Macerata 2005. La nozione di “ terzo paesaggio”
cienti, con negozi, uffici pubblici, unità sanitarie e rinvia al “ terzo stato” teorizzato nel corso della rivoluzione
scolastiche, a distanze interne massime di 600 metri, francese dall’ abate Emmanuel Joseph Sieyès, che, comprenden-
in modo da rendere l’accesso ai servizi della vita do “ tutto ciò che è stato fuori dall’ ordinamento politico”, veniva
considerato come la vera anima della società.
narne politicamente l’esistenza”. Con un evidente l’espansione edilizia connessa alla definizione di
riferimento alle dottrine orientali, ma anche alla filo- spazi per servizi (standard).
sofia di Gilles Deleuze, Clèment propone una conti- Invero, in molti paesi dell’occidente si assiste,
nuità tra l’uomo e gli altri esseri fondata sulla “ me- già negli anni sessanta, a tentativi pianificatori che,
raviglia” dell’imprevisto, quello stesso “ stupore” di facendo leva sull’intervento pubblico nell’edilizia
fronte alle cose del mondo che animò il pensiero dei residenziale, condurranno, nel decennio successivo,
greci, ritrovandola negli indecisi luoghi dell’indeci- ad un nuovo assetto della disciplina intesa luogo di
sione che propone di lasciare tali all’interno della previsione di più equilibrati rapporti tra le funzioni
programmazione degli spazi di vita. Una ipotesi che nello sviluppo territoriale ovvero di rivendicazione
non investe solo i contenuti della pianificazione, di un uso sociale del suolo.
l’idea cioè di proteggere le isole di paesaggio relitto, Negli USA, sin dal primo dopoguerra, i governi
urbano o naturale, intoccate, in termini quindi molto democratici, sebbene contraddetti da quelli repub-
diversi dal new urbanism, il quale ne propone il riu- blicani, tentano di proporre incentivi alla edilizia re-
so finalizzato a creare nuove dimensioni urbane, sidenziale sociale onde determinare un possibile
quanto la stessa metodologia del pianificare, nella controllo del mercato. Con l’Housing Act del 1949,
necessità di prevedere nei Piani sempre il non- del 1954, del 1961, ovvero con la disposizione di
pianificato, lo spazio dell’imprevedibile, anche qui fondi pubblici per abitazioni popolari da offrire ai
in termini del tutto alieni al new urbanism che inve- ceti poveri, si tenta anche di dare vita ad operazioni
ce si propone di pianificare la complessità. di rinnovo urbano, sia nelle grandi metropoli in cui
E la pianificazione territoriale, quale luogo di una ancora si riconoscono assetti di tipo urbano come
previsione esaustiva, è stata sottoposta a critica, pro- New York, Boston, Philadelphia, sia nelle realtà su-
prio in Italia, sin dalla sua origine. Se si segue la di- burbane, nel tentativo di conquistare aree da sottrar-
stinzione posta da Campos Venuti tra le generazioni re alla speculazione privata in cui costituire nuclei
di Piani nel nostro paese, che ascrive alla prima i comunitari integrati. Ma l’Urban Renewal, data an-
“Piani di ordinamento urbano”, alla seconda quelli che la limitazione dei fondi a disposizione, finisce
di “ espansione urbana” ed alla terza i “Piani della con il costituirsi, in entrambi i casi, solo quale cata-
trasformazione urbana”4 , sia pure riferiti alla scala lizzatore per una edilizia più ricca che, in fine, sosti-
comunale, può ritenersi, considerando come per lo tuisce i quartieri popolari. Del resto, se è vero che,
stesso autore quelli di prima generazione siano dopo i governi di Kennedy e Johnson, con l’avvento
“ strumenti ancora generici, dettati dal desiderio di di Nixon nel 1968 vengono decurtati del 40% i fondi
porre una qualunque regola al caos della prima cre- del Model Cities Program è altresì vero che il soste-
scita cittadina...concepiti più o meno esplicitamente gno ai ceti poveri, negli USA, è stato sempre residu-
a favore del regime immobiliare”, che anche nel no- ale e limitato alle classi incapaci di provvedere a se
stro paese, sia in riferimento alla evoluzione degli stesse, tale quindi da non determinare, in campo edi-
studi sulla città in campo internazionale5 che alle lizio, un possibile controllo dello sviluppo urbano,
conquiste politiche sulla questione della casa, la di- tanto più che i finanziamenti pubblici sono affidati
sciplina urbanistica, quale tentativo di controllo del- ai costruttori privati i quali, in assenza di fondi per la
lo sviluppo urbano in termini sociali e non solo ri- manutenzione, nel decadimento dei quartieri popola-
volto allo sfruttamento speculativo dei suoli, sia sor- ri, attuano le possibili sostituzioni nelle aree divenu-
ta in effetti con il Piani di seconda generazione, suc- te più appetibili, trasferendo altrove gli abitanti6 .
cessivi alla legge 765 del 1967 ovvero al Decreto Il fallimento della politica per la residenza socia-
1444 del 1968, i quali iniziano a dettare regole per le in USA rivolta al controllo dello sviluppo urbano
si determina anche in Europa sebbene qui le misure
4
intraprese siano diverse. In Inghilterra, dopo il forte
Cfr . G. Ca mpos Venuti, La terza generazione dell’urbanistica,
sviluppo dei centri urbani maggiori avvenuto nel
Franco Angeli, Milano 1987. Cfr. anche V. Erba, Le generazioni
dei piani urbanistici, in « Territorio» Fascicolo 41, 2007. dopoguerra, si tenta di attuare una politica di decen-
5
La fine degli anni sessanta vede, anche nei paesi privi di tradi- tramento secondo un doppio binario in un concetto
zione urbana, a causa della forte espansione metropolitana che si urbanistico di scala regionale, se non nazionale. Da
era tentato di contenere con P iani tradizionali, a carattere archi- un lato si da avvio alla costruzione delle New Town,
tettonico, una nuova interpretazione della città come sistema di
funzioni, cui si applicano i metodi della pianificazione territoria-
previste dopo la guerra quali città satelliti di grandi
le di grande scala orientata da scelte economiche. A ciò corri- aree metropolitane, tra i 20000 ed i 60000 abitanti,
spondono le teorie sulla formazione “ complessa” del P iano, co- con presenze industriali, e, dall’altro, si attuano di-
me è nel testo, del 1964, di Cristopher Alexander, tradotto in segni di riorganizzazione territoriale con l’incen-
Italia nel 1967 con il titolo Note sulla sintesi della forma, trad.
tivazione dello sviluppo dei centri minori (Town
it. di S. Los, Il saggiatore, Milano, che introduce nella pianifica-
zione urbana l’ analisi dei sistemi mentre la fine del decennio Development Acts), onde contenere gli esodi me-
vede l’uscita del testo di J. Brian McLoughlin, Urban and Re-
6
gional Planning: a Systems Approach, P raeger, New York, Cfr . H. Wolman, The Politics of Federal Housing, Dodd Mead
1969 in cui pure è illustrato l’ approccio sistemico del P iano. & Co., New York 1971, p. 40 e segg
diante politiche di sostegno alle comunità locali ov- conomica e popolare per singoli ed autonomi quar-
vero con la previsione di intere città nuove diffuse tieri i quali, posti oltre i margini delle città, ne inne-
(New Cities). Anche nel caso inglese tuttavia, mal- scano processi disordinati di crescita, si fa strada,
grado alle più sofisticate teorie sociologico-urbani- con la presidenza di Adriano Olivetti all’Istituto Na-
stiche si accompagni un più deciso intervento pub- zionale di Urbanistica, l’idea di introdurre nelle stes-
blico, è dato assistere sia all’insuccesso delle città se città in cui sviluppare l’industrializzazione, se-
nuove, spesso monofunzionali, sebbene in circuiti condo i dettami tra Howard, Geddes, Mumford e la
polifunzionali, sia a quello del tentativo di controllo politica del New Deal, i caratteri della campagna,
del mercato rivolto a contenere l’espansione, dal l’uso agricolo del suolo, nella sperimentazione so-
momento che l’edilizia sociale diviene di fatto il vo- ciologica della formazione di nuove “comunità”. Il
lano per una nuova domanda di residenzialità che progetto radicale, intellettualistico, sebbene diffuso
incrementa la rendita fondiaria favorendo la crescita con toni efficientistico-tecnocratici, però non ha
urbana7 . Allo stesso modo in Francia dopo la realiz- successo, avendo tuttavia il merito di proporre un
zazione dei Grands Ensambles del dopoguerra, mi- altro punto di vista sullo sviluppo della città sino alla
surati agglomerati residenziali realizzati per ovviare definizione, nel 1960, del “ Codice dell’Urbanistica”
alla carenza di alloggi contenendo la domanda verso avanzato dall’INU. E’ di qui infatti che la proposta
i centri urbani particolarmente nella regione parigi- di un nuovo modo di pensare alle trasformazioni ter-
na, è agli inizi degli anni sessanta che, con i governi ritoriali mediante processi di piano e di programma-
Pompidou, viene posta maggiore attenzione allo svi- zione economica si incontra con la politica, non solo
luppo territoriale mediante l’istituzione della Délé- promossa dai partiti di opposizione. E’ noto infatti
gation à l'aménagement du territoire et à l'action come nel 1962 sia stato un ministro democristiano,
régionale (DATAR), attivata nel 1963 nel ministero l’onorevole Fiorentino Sullo, a porre, con un dise-
specifico affidato a Maurice Schumann, che agisce gno di legge, la questione del “ regime dei suoli”, i-
di concerto con Commissariat général du Plan, atti- potizzando l’esproprio delle aree residenziali con la
vo sin dal dopoguerra e, quindi, con i piani quin- cessione del solo “ diritto di superficie”, mediante
quennali del Ministero delle Finanze. Naturalmente asta pubblica, ai privati. Naturalmente le forti pres-
l’esempio più significativo è a Parigi, dove si da av- sioni degli imprenditori determinarono in Parlamen-
vio alla riqualificazione del centro, anche con discu- to il decadere del disegno di legge, mentre tuttavia
tibili interventi di sostituzione edilizia in aree stori- andava crescendo una nuova coscienza politica circa
che significative, e, contemporaneamente, alla sua la necessità di interpretare il territorio non solo at-
decompressione attraverso la definizione di linee ra- traverso gli interessi privati in campo edilizio, tale
dianti di collegamento ai territori circostanti nei qua- da porre anche, con la “ carta di Gubbio” del 1962, la
li prevedere nuovi interventi residenziali sorretti, a salvaguardia del patrimonio storico ancora soggetto,
differenza dei Grands Ensambles da strutture pro- come nel periodo fascista, a demolizioni e sventra-
duttive e servizi. Sull’esempio della capitale, che si menti. Alla fine del decennio vedono quindi luce la
avvale di specifici finanziamenti, si definiscono legge 765 ed il Decreto 1444 che, pur rinviando lo
nuovi istituti regionali e locali cui affidare la pianifi- sviluppo della città alla armonizzazione di funzioni
cazione degli interventi territoriali i quali, nel rap- diverse non la sottraggono alle “ mani” degli specu-
porto tra residenza ed attività produttiva, investono latori. Sarà pertanto solo con le lotte operaie, gli
l’area vasta. Accade pertanto, non solo per la scala scioperi indirizzati a rivendicare il diritto alla casa,
delle operazioni urbanistiche, improntate in definiti- che, agli inizi degli anni settanta, si giungerà, con la
va alla grandeur, che i consistenti investimenti pub- definizione della legge 865/71, a considerare l’e-
blici, attirando sia gli interessi della grande impresa sproprio dei suoli per la realizzazione dell’edilizia
sia quelli degli istituti bancari, finiscono con il sot- residenziale economica e popolare che, nell’inter-
trarre il progetto delle trasformazioni territoriali al pretazione del comune di Bologna, sarà utilizzato
controllo delle comunità insediate8 . anche nei comparti edificati del centro storico per
In Italia, dopo le politiche della ricostruzione ed residenze pubbliche. E’ già quindi negli anni settan-
il “Piano Fanfani” del ’49, che finanzia l’edilizia e- ta che, accanto alla presa d’atto dei limiti della nuo-
va legislazione urbanistica messi in luce dalle lotte
7
La pubblicistica sulla sperimentazione urbanistica in Inghilter-
operaie, oltre la critica del funzionalismo modernista
ra, dalle esperienze di decentramento, promosse già dall’Hou- e dello zooning che ispirano i Piani di “ seconda ge-
sing Act del 1921, o dalle successive teorie di Abercrombie, alle nerazione”, incapaci di determinare, nella suddivi-
New Cities è notevole. Una analisi recente che giunge sino agli sione di aree funzionali specializzate, un “ effetto cit-
anni settanta è in A. Alexander, Britain’s New Towns: Garden
tà”, si sviluppa quella verso un tipo di pianificazione
Cities to Sustainable Communities, Routledge, London 2009.
8
Sull’ urbanistica francese confrontata con l’ esperienza anglo- che, rivolta principalmente a tutelare la rendita ed i
sassone è stato qui molto utile il saggio di Michèle Breuillard, diritti della proprietà dei suoli, appare orientata da
Aménagement et urbanisme en France et en Grande-Bretagne, un forte carattere ideologico nelle previsioni di me-
L’ Harmattan, P aris 2007.
dio-lungo periodo, non adeguato ad un reale control- Se all’inizio degli anni settanta, non solo in cam-
lo delle trasformazioni urbane. Se appare significati- po urbanistico, era sembrato fondamentale nel no-
va la nuova attenzione verso i Centri Storici posta stro paese, al fine di riorganizzare il suo assetto e la
dalla legislazione, che conduce all’individuazione di sua economia, evolutisi in diverse direzioni in un so-
aree soggette a salvaguardia, l’espansione urbana, stanziale laissez faire, redigere piani per un più or-
malgrado il decadere dell’industria, prosegue la sua dinato futuro – la stessa istituzione delle regioni a-
marcia di occupazione del territorio, nella terziariz- vrebbe dovuto promuovere nuovi equilibri nell’uso
zazione dei centri maggiori che induce una sempre delle risorse statali e locali – alla fine del decennio
più alta domanda di città. Inizia qui, anche, rispetto appare del tutto evidente, nell’inanità di controllare
alla difficoltà di contenere, o solo razionalizzare, lo in termini decisi il sempre più fluido divenire delle
sviluppo urbano, il tentativo della cultura del piano cose, come di fatto il Piano, in ogni campo, politico,
di contrastare la speculazione edilizia mediante il economico, urbanistico, viva solo una vuota mitolo-
contenimento insediativo e la tutela, non solo delle gia. Mentre quindi gli urbanisti tentano di aprire i
aree storiche, quanto anche di quelle ambientalmen- Piani all’evenire introducendo l’idea di una pianifi-
te e paesaggisticamente significative. Studiosi e pia- cazione in progress, quella di un “Piano-progetto”,
nificatori, quali Benevolo, Astengo, Campos Venuti, da svolgere con il controllo dei cittadini, nella cultu-
perorano l’idea di una disciplina fondata sul “ dovere ra architettonica e, generalmente, tra gli intellettuali,
sociale” offrendo prevalenza ai diritti collettivi, si fa sempre più decisa la consapevolezza circa il ca-
pubblici, invece che ai diritti proprietari, privati. Un rattere ideologico, di falsa coscienza, del Piano qua-
esempio in tal senso, rivolto a segnare anche la crisi le strumento previsionale del futuro, proiezione ver-
del modello di pianificazione introdotto solo dieci so il nuovo, nella ipotesi di affidare al ceto popolare,
anni prima, è il Piano Regolatore di Pavia, del 1976, ed ai suoi rappresentanti che avevano conquistato
redatto da Astengo e Campos Venuti, detto anche maggiore presenza nelle istituzioni pubbliche, il go-
“Piano delle cinque salvaguardie” il quale, fondato verno delle trasformazioni territoriali mediante
su un precedente Piano dei Servizi con l’aumento a strumenti attuativi intesi a verificare l’uso sociale
26,5 mq ad abitante per gli standard di attrezzature, del suolo.
rispetto ai 18 mq. previsti dalla legislazione, dispone Nel 1979 esce in Francia il piccolo volume di
il contenimento della crescita e dei margini della cit- Francois Lyotard su La condition postmoderne, con
tà nella sua trasformazione conservativa, il vincolo a il quale lo studioso francese, anticipando di un de-
verde di importanti ambiti tali da rendere più vivibili cennio la caduta del muro di Berlino, dichiara con-
i diversi luoghi centrali e periferici, con la costitu- cluse le grandi narrazioni ideologiche, i grands ré-
zione del Parco della Vernavola e del Parco T icino, cits, che, dall’ottocento, avevano indicato alla mo-
la salvaguardia, oltre che del Centro Storico, del ter- dernità le linee del progresso e dell’avvenire. Con la
ritorio agricolo produttivo, anche interno al perime- modernità l’uomo, in occidente, aveva costruito con
tro urbano, e del patrimonio edilizio industriale, ar- diversi racconti, scientifici, politici, sociologici, gli
cheologico o attivo, nella individuazione dei Comi- ideali mondi venturi cui pervenire piegando la sto-
tati di Quartiere quali attori nel processo di attuazio- ria. Con il suo libro Lyotard dichiara conclusa non
ne dello strumento urbanistico. Il Piano di Pavia, solo la maniera di orientare l’agire in vista di defini-
forse più di altri coevi, oltre i contenuti innovativi da te visioni del mondo, quanto la stessa progressività
riconoscere nell’ampliamento della quantità dei suo- della storia. Il moderno si era costituito in progetti
li per le funzioni pubbliche e per le aree verdi, che, rivolti ad una meta finale, interpretavano il
nell’attenzione all’ambiente ed agli aspetti del pae- tempo secondo una successione lineare di momenti
saggio, nella sovrapposizione delle funzioni, con la conseguenti ed il reale secondo linguaggi che trova-
definizione di aree industriali non specializzate, tale vano in quella meta la loro legittimazione. Alla fine
da superare le tradizionali zonizzazioni, segna, nel degli anni settanta a Lyotard il tempo, la storia, oltre
richiamo ad una attuazione regolata dall’intervento ogni progressività, appaiono del tutto disorientati,
dei cittadini, i Comitati di Quartiere, non solo la così come appare caduta ogni credibilità dei rècits,
consapevolezza circa le difficoltà della gestione del quelli riguardanti l’emancipazione dei cittadini, il
Piano (si ricordi che Astengo era stato assessore alla realizzarsi dello spirito o della società senza classi,
pianificazione a T orino nel 1966-67 e Campos Ve- che avevano avuto un potere di legittimazione dei
nuti assessore all’urbanistica di Bologna dal 1960 al discorsi. Di qui la nuova condizione “postmoderna”
1966 e, pertanto, entrambi esperti nell’Amministrare caratterizzata dalla deriva di ogni ragione e dal tra-
l’urbanistica), quanto la coscienza della crisi di ogni monto della storia cui sono perduti i suoi fini pro-
disegno rivolto a predeterminare in termini forti il gressivi9 .
futuro assetto territoriale e, in definitiva, il futuro
organizzarsi della vita degli uomini.
9
J. F. Lyotard, La condition postmoderne, Les édition de mi-
nuit, P aris 1979
Anche in Italia, dove il testo di Lyotard riceve previsto, dove l’enfasi sul pro- ne determina il suo
molta attenzione, l’anno dopo, Gianni Vattimo, con porsi oltre ogni vincolo: “ il progetto nel suo lancio
il saggio su Le avventure della differenza, che anti- al Nuovo si concepisce come ab-solutus, sradicato
cipa il volume a più voci curato con Pier Aldo Ro- da ogni luogo con la tradizione, immanente critica di
vatti Il pensiero debole, del 1983, oppone alla ragio- ogni ‘proprio’, e perciò libero – libero nel duplice
ne dialettica, ovvero all’idea della storia come itine- senso: nel senso di essenzialmente sciolto da ogni
rario progressivo del confronto tra soggetto ed og- vincolo o religio con il passato e nel senso pro-
getto verso il realizzarsi della ragione, dell’assoluto, duttivo e costruttivo della libertà di disporre di ogni
una ragione ermeneutica, rivolta ad interpretare il luogo, di averlo a disposizione, analizzabile secondo
mondo non alla luce di una visione e di una meta to- i propri valutati”. In tal senso il progetto, preditti-
talizzanti, quanto nella sua molteplicità, nel suo es- vo/produttivo, che nella libertà chiede le cose nella
sere luogo della “ differenza”. Assumendo da Hei- sua disponibilità, appare essere luogo proprio alla
degger la critica alla metafisica la quale intesa, allo tecnica contemporanea nei caratteri rivelati dall’ana-
stesso modo dell’ideologia, a definire univocamente, lisi di Martin Heidegger. In esso cioè, nel termine
nel segno di categorie unificanti, l’essere, rivela il tedesco in cui risuona anche il significato di pro-
suo portato di violenza, Vattimo identifica il pensa- gresso, fortschitt, sembrerebbe porsi l’idea di una
re, e la stessa esistenza, come an-denken, come ri- esclusiva attenzione alla meta, al fine, nella autono-
pensare, ri-memorare. La metafisica è oblio mia da ogni presupposto, laddove, al contrario, da
dell’essere perché lo offre in definizioni concluse un lato, concentrato sul proprio télos, questo stesso
che conducendolo all’ente di fatto ne dimenticano ne diviene presupposto fondante e, dall’altro, postu-
l’indicibilità. Pensiero autentico è quindi, invece, lando il divenire, nell’intenderlo come pro-gresso,
rimemorare, che non significa ri-cor-dare, l’essere, interpreta gli eventi solo come “frattempi” privi in
quanto ricordare la sua immemorabilità, l’impos- sè di valore nella catena che li dispone verso il fine
sibilità di ricondurlo nelle definizioni dell’uomo. Di previsto. La contraddizione del progetto quale For-
qui la caduta di ogni pensiero “forte” che tenti di de- tschritt quindi è nel fatto che in esso “ massima aper-
limitare l’essere, come di ogni soggettività “forte” tura-al e massima chiusura-del sono dette ad un
suo interprete e, attraversando il Nietzsche a partire tempo ed in un unico modo”, nel senso che il suo
dalla seconda inattuale, l’idea della storia non come tono anticipante “vuole costantemente che il diveni-
progressività quanto come ritorno del medesimo, del re sia…e insieme togliere-liquidare il divenire, scon-
continuo coesistere di oblio e memoria dove non c’è tarne l’imprevedibilità, linealizzarlo o comunque
“ superamento” di un’epoca rispetto ad un’altra, amministrarne-governarne ogni eccezione”. Non si
quanto solo un orizzonte di rovine, quelle della me- può non sottolineare come l’analisi di Cacciari, oltre
tafisica, cui si rivolge, producendo attraverso le pro- a riferirsi al “progetto” moderno, ovvero a modelli
prie interpretazioni altra storia, il pensiero rimemo- epistemologici fondati su logiche previsionali di tipo
rativo10 . deterministico, si rivolga, nell’avvento del compu-
L’influenza di Lyotard e di Vattimo anche sulla ter, alle aspirazioni progettanti della ingegneria dei
pianificazione urbanistica, ovvero sulla opportunità sistemi e di ogni metodo “ grammatologico” che as-
di abbandonare un’ottica finalistica che assuma il suma il divenire nella molteplice combinatorietà di
territorio alla luce di una visione unitaria, o sul mo- possibili grámmi, ovvero ai tentativi di prevedere
do di concepire la città, non quale insieme gerarchi- nel percorso dal progetto al prodotto l’irruzione del
co di luoghi ed epoche, quanto tutta intera patrimo- caso onde predeterminarlo nelle elaborazioni com-
nio collettivo in cui si documenta, oltre il centro sto- binatorie, in un accrescersi della contraddizione tra
rico, in tutti i suoi segni, la vita che l’ha attraversata, apertura al divenire e volontà alla sua sterilizzazio-
appare palese. Ed è Massimo Cacciari, nel 1981, ad ne, in cui riconoscere il senso ideologico, di una non
interrogarsi sulla nozione di “progetto” riferita, non autentica adesione all’accadere, di ogni progettare-
solo o non tanto all’architettura o all’urbanistica, pianificare11 .
quanto ad ogni aspirazione previsionale sul futuro. E’ da rilevare come il Cacciari, in una interpreta-
Per Cacciari, nel senso dell’etimo, il “progetto”, zione differente di Heidegger, rispetto a quella del
proiectus, da pro-, innanzi, verso, e iacere, gettare, è Vattimo, mostri il diverso senso che assume nel filo-
inteso quale azione anticipatrice di proiezione nel sofo tedesco il progetto come Ent-wurf, invece che
futuro – “ così voglio che sia” – pre-vedente, connes- Fort-schritt, dove l’ent-, analogo al de- latino, più
sa e finalizzata, intenzionalmente, alla produzione, che porre l’enfasi su una progressività rivolta ad un
al pro-ducere, termine cui è strettamente legato, del fine (fort, pro) richiami l’orizzonte da cui si viene
Nuovo. Esso cioè non è semplice ideazione, quanto via, il via-da, lo strappo da esso, mostrando il pro-
allestimento dei mezzi opportuni per realizzare il getto (ent-wurf = de-getto) quale condizione propria
10 11
G. Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano M. Cacciari, Progetto, in «Laboratorio politico», n. 2, anno I,
1980, v. gli ultimi due capitoli della Sezione Quarta. Torino, Marzo-Aprile 1981.
alla gettatezza dell’esser-ci, dell’uomo, chiamato, sibili concetti di appartenenza, di identità e di condi-
oltre la sua aspirazione ad una meta, a venir via da visione sociale di un habitat. Malgrado la domanda
quanto lo determina: “ l’Entwurf heideggeriano non di città sia ancora crescente, secondo Bernardo Sec-
ha nulla a che fare con il piano ‘tecnico scientifico’, chi, l’urbanistica deve tentare di ottimizzare e rende-
con la dimensione anticipante ‘predittivo-produttiva’ re coerenti gli assetti territoriali presenti onde sfug-
del progetto, con la sua inevitabile aura progressiva: gire ulteriori squilibri. Lo spazio che negli anni ot-
esso costituisce il modo dell’Esserci in quanto getta- tanta si apre alla realtà a venire è, infatti, già costrui-
to. Nell’Entwurf l’Esserci è colto in quanto costitu- to, per cui il tema che si pone al Piano è di dare sen-
tivamente progettante ‘la possibilità in quanto possi- so al futuro sulla base però dello sfondo preesistente,
bilità’. L’Esserci è progetto (Entwurf) – il progetto con le sue stratigrafie di vita e di storia, attraverso
appartiene alla sua determinazione ontologica…è continue modificazioni della città, del territorio, dei
come se lo strappo appartenesse costitutivamente diversi ambienti del vivere, sì che l’atto primo di
all’Esserci e non insorgesse come scelta, decisione. qualsivoglia progetto urbanistico sia nello studio e
In questo Entwurf si diviene ciò che si è; l’ent- con- nella conoscenza dei luoghi su cui intervenire e su
duce via, seduce, per ricondurre alla radice…” 12 . cui ritagliare nuove prospettive13 . Le assonanze con
E’ anche attraverso queste elaborazioni che, nel il pensiero di Lyotard sulla fine di ogni sviluppo
mutato orizzonte economico e sociale del paese, la progressivo, o di Vattimo, circa la necessità di co-
pianificazione territoriale si inoltra verso nuovi o- struire il futuro attraverso la reinterpretazione della
biettivi e nuove metodologie. All’inizio degli anni storia presa nel suo insieme senza momenti e luoghi
ottanta, infatti, nella crisi industriale, si attiva il pro- privilegiati, o di Cacciari a proposito della nozione
cesso di terziarizzazione delle città con una nuova di progetto come Ent-wurf, modo di strapparsi dallo
domanda di residenzialità che la cultura urbanistica sfondo preesistente delle cose più che assoluto slan-
tende a contrastare nell’invito alla riqualificazione cio nel futuro, appaiono evidenti. Ed è lungo tali in-
dell’esistente e dei centri urbani diffusi ed alla uti- dicazioni che il Piano, smentendo in parte il proprio
lizzazione dell’edilizia economica e popolare anche concetto previsionale, di volontà del nuovo, si pro-
convenzionata che la legislazione (865/71, 457/78) pone invece di “ cucire e legare” i frammenti dei tan-
aveva incoraggiato. Con la legge 10/77 sui Piani Po- ti discorsi imbastiti nel passato, anche recente, sulla
liennali di Attuazione viene anche introdotta una città e sul territorio, onde ritrovare a questi ancora
possibile metodologia pianificatoria rivolta ad ope- possibili trame, nuovi racconti, da vivere14 . Non so-
rare non per sezioni previsionali concluse quanto per lo. Dal momento che il Piano si pone il compito di
programmazioni continue dei processi di trasforma- riconsiderare la storia comune che ha conformato i
zione urbanistica. La dismissione delle industrie, i- luoghi, appare altresì necessaria una nuova gover-
noltre, pone la questione della reinterpretazione del nance, lungo le indicazioni già poste negli anni set-
patrimonio urbano anche non antico, in cui ricono- tanta, che elegga le comunità insediate quali veri re-
scere altresì la storia dei luoghi, per cui si determina, ferenti delle trasformazioni territoriali, così come è
in generale, la necessità di ricercare assetti territoria- ormai nella coscienza dell’urbanistica internaziona-
li meno legati all’espansione insediativa e maggior- le15 . Considerando quindi che l’intervento urbano e
mente tesi a proporre una nuova qualità urbana ed territoriale, sebbene dilungato nel tempo, si fonda
ambientale attraverso il riuso e la riconversione del comunque su progetti concreti di “ modificazione”
patrimonio già costruito. Da un lato le grandi quanti- degli assetti esistenti, tali da poter essere anche sot-
tà edilizie prodotte fanno affiorare l’esigenza della toposti alla valutazione dei cittadini, l’urbanista co-
riduzione del consumo del suolo, dall’altro emerge nosce una nuova sintonia con l’architetto offrendo,
sia l’opportunità di utilizzare le aree interstiziali in- invece che zonizzazioni e quantità, come in passato,
terne alle città, sia di riconfigurare, mediante il “ re- precisati disegni di volumetrie e spazi rivolti a rein-
cupero” introdotto dalla legge 457/78, le zone edifi- terpretare i luoghi della vita collettiva. E’ indicativo
cate prive di valori urbani. Ed è entro queste coordi- in tal senso che Campos Venuti chiami a collaborare
nate che si parla, secondo la definizione di Campos
13
Venuti, di Piani di “terza generazione”, di Piani cioè Si è qui sintetizzato la più complessa analisi di Bernardo Sec-
i quali, seguendo le analisi di Bernardo Secchi, chi sulla “ modificazione” cui la rivista « Casabella» dedica il
numero doppio 498/99 del Gennaio-febbraio 1984.
prendono atto della condizione di frammentazione 14
Bernardo Secchi, Cucire e legare, « Casabella», n° 490, Aprile
del contesto urbano e metropolitano, determinata 1983, p. 26. Le idee urbanistiche intese in un progetto rivolto al
dalle diverse evoluzioni dell’espansione, per tentare recupero dell’ esistente e dell’ ambiente sono raccolte da Secchi
di ricomporre mediante la “modificazione” nel volume Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, orino 1997.
15
“ La governance urbana implica l’ arricchimento della demo-
dell’esistente, oltre ogni nuova crescita edilizia, pos-
crazia rappresentativa attraverso nuove procedure deliberative e
consultive … In altri termini è una prospettiva molto ambiziosa,
12
Ibidem. Cacciari legge nel suo saggio Essere e Tempo di Mar- che necessita di più saperi, più esperienze e più democrazia”, in
tin Heidegger, trad. it. di P . Chiodi, che si soffer ma in particola- François Ascher, I nuovi principi dell’urbanistica (2001), trad.
re sul progettare dell’ uomo al paragrafo 31. it. Pironti, Napoli 2006, p. 96.
nel nuovo Piano di Bologna (1985) l’architetto Por- la Dora ed il progetto “Torino città delle acque” a
toghesi, e che Secchi, progettista innovativo del Pia- fronte della più rapida costruzione di residenze, per
no di Siena (1987-90), intervenga nel disegno di oltre il 60% dei nuovi interventi, oltretutto non indi-
quello di T orino (1995) redatto da Vittorio Gregotti, rizzate alle migliaia di famiglie ancora sprovviste di
il quale si avvale nel proprio team anche del contri- alloggio popolare.
buto del filosofo Gianni Vattimo. Rivolgendo la L’esempio di Torino rileva come la complessità
propria attenzione alla morfologia delle città e dei temi posti dalla riqualificazione delle città impo-
dell’ambiente, con i nuovi Piani l’urbanistica abban- ne, sul piano economico, il ricorso ad ampie risorse
dona la propria vocazione a definire in maniera ge- che coinvolgano settori finanziari in passato non ri-
neralizzata l’intero assetto territoriale per regolare in volti all’intervento immobiliare, i quali sfuggono il
termini differenziati i vari ambiti urbani, anche at- confronto democratico per stravolgere, con l’ausilo
traverso il rilievo dei diversi settori, infrastrutturale, della attuabilità degli strumenti urbanistici, le tradi-
ambientale e insediativo, la cui ridefinizione è inter- zionali conformazioni delle città. Sebbene quanto
pretata come “ strategica” nella “trasformazione” accade a Torino trovi conferma in altre città impor-
(non espansione) futura. In altri casi, proprio tanti, come Milano, dove le varianti attuative del
nell’aspirazione a trasformare il concreto assetto fi- vecchio PRG, risalente al 1980, ovvero i Piani Inte-
sico dei luoghi di vita, nel senso di una maggiore grati di Intervento introducono, in aree semiurbane
qualità funzionale ed estetica e fuori da ogni previ- caratterizzate da contenitori dismessi, nuova edilizia
sionalità, i piani, più che disegnare i possibili scenari residenziale non destinata ai ceti popolari, è il Piano
urbanistici, si affidano a normative stringenti che di- di una piccola città, Salerno, a poter essere conside-
sciplinino i possibili interventi, tali da offrire veri e rato il vero incubatore delle maggiori degenerazioni
propri progetti, come è nel caso dei “ progetti norma” urbanistiche indotte dalla pianificazione attuativa,
di Siena. A ciò si aggiunge il ricorso alla tecnica pe- quello cioè che meglio espone le miserie dei Piani di
requativa che, mediante la definizione di comparti “terza generazione”. Firmato da Oriol Bohigas, ispi-
edificatori costituiti da suoli anche distanti, attraver- ratore della riqualificazione di Barcellona olimpica,
so il consenso a nuove costruzioni, offre l’oppor- il Piano Urbanistico Comunale di Salerno (1992-
tunità di recuperare gli standard dei servizi nelle a- 2005) accoglie infatti tutti i principi dei piani di
ree urbanizzate sprovviste. “terza generazione” nella redazione delle AAPU, di
Malgrado la bontà degli intenti, la volontà di de- fatto Piani Particolareggiati o PUA (Piani Urbanisti-
terminare concrete definizioni territoriali di riquali- ci Attuativi) (un vezzo recente degli urbanisti è quel-
ficazione dell’esistente da sottoporre al consenso dei lo di offrire un nome nuovo a vecchie strumentazio-
cittadini, anche i Piani di “terza generazione”, sin ni di piano), in una rigorosa restituzione volumetri-
dal loro avvio, conoscono applicazioni perverse. Co- ca, quali veri e propri masterplan composti prima
sì, mentre i Piani di Settore di Bologna o i Progetti- del PUC. Ed anzi, il Piano generale viene disegnato,
Norma di Siena vedono con difficoltà la loro realiz- con le tradizionali zonizzazioni, in ragione dei pro-
zazione, sia per carenze finanziarie che per il com- getti attuativi predefiniti, secondo disegni trasforma-
plesso coinvolgimento di interessi eterogenei pub- tivi, quindi, più che su possibili previsioni. Non so-
blici e privati, nel Piano di Torino appare del tutto lo, ma, sventolando slogan come “ costruire nel co-
discutibile l’interpretazione della riqualificazione struito” o “ monumentalizzare la città compatta”, le
delle aree industriali dismesse in termini di specula- AAPU coinvolgono parti già urbanizzate da riquali-
zione residenziale. Il tema, posto sin dal dopoguerra, ficare evitando, secondo il progettista, future espan-
di collegare il sud ed il nord della città con la coper- sioni, previste su pochi suoli agricoli, al contorno
tura della linea ferroviaria (Spina), utile anche ad in- della città, introdotti, attraverso il ricorso alla pere-
tercettare le vecchie aree industriali da reinterpretare quazione, in comparti con aree più interne al recinto
in termini urbani, viene infatti attuato a prezzo di un urbano, onde determinare qui gli standards di cui
alto indice di solaio residenziale (0,7 del suolo), ol- sono sprovviste. Affidato al Censis lo studio circa lo
tretutto in assenza di domanda. Sarà infatti solo con sviluppo economico e demografico della città che,
l’intervento pubblico per la realizzazione delle di- attraverso dati palesemente errati, quali ad esempio
spendiose Olimpiadi invernali che il Piano conosce- il rilievo di una presenza di 156000 abitanti a fronte
rà il suo avvio e l’abbattimento, con il consenso del- dei 136000 accertati dall’Istat, giunge a prevedere
la Soprintendenza, di pregevoli testimonianze del nel 2009 circa 180000 abitanti, il Piano, attraverso le
passato industriale della città, onde lasciar posto a concrete volumetrie disegnate nelle AAPU, pro-
notevoli cubature, intercalate, qua e là, da una cimi- gramma ben 1.137.000 mq di nuovo solaio lordo re-
niera, un altoforno, che non offrono affatto il senso sidenziale, ovvero circa 40.000 nuovi vani, per con-
della “ ri-memorazione” cui pure voleva ispirarsi. A durre la città a 176000 abitanti. Se si tiene conto che
ciò corrisponde il rinvio della realizzazione dei ser- Salerno conosce sin dal 1970 un progressivo decre-
vizi pubblici più significativi, tra i quali il Parco del- mento del numero degli abitanti, confermato nel de-
cennio 2001-2011, può annotarsi come il tema della in poco più di quattro chilometri di costa sono stati
riqualificazione urbana proposto da Bohigas sia sta- ipotizzati cinque porti di cui quattro realizzati, men-
to solo il grimaldello per giustificare ed incentivare, tre gran parte del sottosuolo di piazze e slarghi è sta-
all’interno della città consolidata, nelle aree ancora to offerto a parcheggi sotterranei – a Società immo-
libere e destinate a standard, il ricorso all’edilizia biliari a responsabilità limitata e piccoli capitali co-
residenziale privata. Naturalmente, ad indorare la stituite ad hoc (la società che costruisce il “ crescent”
pillola delle nuove cubature all’interno ed al contor- è la “ crescent srl” con poche migliaia di euro di ca-
no della città, pari a circa un terzo di quelle esistenti, pitale) che si avvalgono del finanziamento bancario
in un “ sacco” che, nelle sue proporzioni, fa impalli- il quale, come spiega Luca Martinelli in un suo sag-
dire quello delle colline napoletane realizzato nella gio, sebbene ingente, viene inserito nei bilanci degli
fase di transizione della Legge-ponte, descritto da istituti di credito nella parte attiva, invece che passi-
Percy Allum16 e dal film di Rosi Le mani sulla città, va, trattato cioè come investimento, in modo da ot-
sono stati coinvolte dal sindaco salernitano diversi tenere valutazioni positive dalla Consob e dalle a-
progettisti dello starsystem internazionale che, come genzie di rating17 , laddove la disposizione realizzati-
nel caso di Bofill e di Chipperfield, hanno riciclato va dei progetti finisce con l’eludere anche quel con-
progetti già redatti in altre città, più ampie, con vo- trollo democratico dei cittadini sollecitato dagli ur-
lumi fuori scala, come è per il “crescent” di Santa banisti.
T eresa, copia di quello di Stoccolma e Montpellier, Con il Piano Comunale di Salerno si compie il
sviluppato secondo una lunghezza semicircolare di fallimento di quella urbanistica intesa quale servizio
circa 300 metri, pari alla metà del lungomare citta- sociale, tanto più che, con la “fine della città”18 , la
dino, ed una altezza di 32 metri, tale da oscurare il pianificazione, nel confronto con l’area vasta, vede
Centro Storico, interrompendone la tradizionale re- sfuggire ulteriormente i territori dai tentativi di con-
lazione con il mare riportata nell’iconografia sin dal trollo assegnati alle norme ed alla vigilanza dei cit-
Medioevo. Ed è proprio il “crescent” ad essere il tadini. Il naufragio dell’urbanistica attuativa corri-
banco di prova di un nuovo modo di invogliare i ca- sponde in un certo senso a quello dell’idea postmo-
pitali privati all’investimento, con un suolo di pro- derna della storia come rimemorazione ovvero della
prietà del Demanio Marittimo, che, sebbene incedi- realtà quale oggetto di interpretazioni e, in definiti-
bile, richiesto dal sindaco in un acquisto per “ fini va, all’insuccesso di quanti avevano salutato come
pubblici” (la realizzazione dell’edificabilità di cui al liberatorio l’annuncio della fine dei grands récits,
Piano inteso di interesse collettivo), è stato rivendu- delle grandi narrazioni ideologiche. Se infatti in
to ai costruttori quasi al medesimo prezzo di base termini generali l’attività ermeneutica tra le defini-
d’asta, onde realizzare l’enorme volumetria. Ed è zioni storiche non mantiene la promessa della possi-
seguendo tale criterio, quindi, che, per altri spazi bilità di una continua ri-creatività dei giochi sociali,
pubblici interni alla città e molto appetibili, di pro- della cultura o della politica, l’assunzione dell’intera
prietà comunale,viene disposta la vendita ai privati città quale luogo da reinterpretare, “ modificare”, in
affinché, realizzando edifici residenziali, possano ragione dei desideri dei cittadini, a sua volta sconta
porre in essere la sbandierata “riqualificazione urba- la sconfitta, nel riciclaggio dell’intero territorio ur-
na”, con servizi in realtà già presenti (nel caso del bano, come è nei Piani di Torino e Salerno, a fini
“ crescent” il suolo, che nel vecchio PRG era utiliz- speculativi. Da un lato la fantasmagoria dei valori
zato come “ zona F” con parcheggi, è stato destinato auspicata dal postmoderno quale manifestazione di
a piazza pedonale ed il parcheggio è stato interrato, libertà sembra tradursi in mera mascherata atta a na-
con un intervento finanziato dalla UE e da fondi scondere più concreti valori economici, a propria
pubblici comunali e non a carico dei privati). Per al- volta giocati nelle finzioni finanziarie, tali da elude-
tro verso la cosiddetta equità urbanistica affidata ai re ogni identificazione, dall’altro è la stessa materia-
dispositivi perquativi, nei difficili rapporti insorti tra lità della costruzione che, ponendosi quale garanzia
i proprietari delle aree, è stata bypassata scompo- finanziaria, tramuta l’intera città e l’intero territorio
nendo i comparti onde realizzare la sola edilizia re- in luogo di esclusive valutazioni economiche, prive
sidenziale nella monetizzazione degli standard. Il di considerazioni sull’abitare, rivestite dal posticcio
caso Salerno, a differenza di quanto accaduto a T o- delle architetture delle archistar. In questo quadro si
rino, dove sono intervenuti anche grandi investimen- fa luce la critica al postmoderno ed al primato
ti pubblici, mostra come il disegno urbano proposto
17
da un Piano di “terza generazione” e dai suoi indi- L. Martinelli, Le conseguenze del cemento, Altraeconomia,
rizzi attuativi, possa essere portato a compimento Milano 2011, p. 23 e segg.
18
Massimo Cacciari nel saggio La città, P azzini, Villa Veruc-
con soli investimenti privati, mediante la vendita dei
chio 2004, mette in luce come la attuale dimensione megalopoli-
beni cittadini, suolo, sottosuolo, mare – si pensi che tana in cui la città si perde non sia che il compiersi dell’ urbs
augescens, già disposta a superare i confini, ogni confine sino a
16
P . Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, quella che, per Leonatrdo Benevolo è La fine della città, Later-
Torino 1975. za, Roma-Bari 2011.
dell’interpretare per la riconsiderazione della “ real- dell’acqua di bagnare o la morte di Cesare, che sono
tà” ovvero di quei nodi fondanti, “inemendabili” di immutabili anche nel mutare del sapere, possedendo
riconoscimento collettivo. Ed è ancora un filosofo, prerogative reali non solo gli oggetti della natura,
Maurizio Ferraris (ma di newrealists vecchi e nuovi quanto, anche, quelli del campo sociale dove si iden-
ve ne sono molti in giro per il mondo: Umberto Eco, tificano le relazioni tra gli uomini. Riprendendo la
Markus Gabriel, Peter Bojanic, Paul Boghossian) prima tesi di Marx su Feuerbach, Ferraris afferma
che, sintetizzando le proprie precedenti riflessioni infatti la stessa realtà sociale come realtà oggettiva
critiche sulla filosofia ermeneutica in un testo del che, soggetta ad interpretazioni, necessita di testi-
2011, propone di riconsiderare il “reale” sfuggente monianze documentali, scritture, testi, rivolti a cir-
ad ogni definizione/interpretazione. Il pensiero de- costanziarne i valori, le convenzioni, sì da potersi
bole, l’ermeneutica, aveva sostenuto che la realtà anche dire, accettando ed alterando la tesi di Derrida
non è mai accessibile in quanto tale ma sempre nelle che “ niente di sociale esiste fuori del testo”. Ciò non
forme delle nostre definizioni, i nostri sensi ed i no- induce, naturalmente, ad accettare la concezione po-
stri pensieri. Per Ferraris questo modo di pensare de- stmoderna, alla Bauman, della liquidità dei rapporti
riva dal confondere lo statuto ontologico dei reali sociali, tanto più che la “fantasmagoria” delle inter-
con quello epistemologico, l’essere della cosa con le pretazioni dei valori, quelli anche economici, che
diverse conoscenze che si hanno di lei cui non si of- muovono il nostro mondo, si è scontrata con più pe-
fre, le quali, è vero, si configurano come interpreta- santi determinazioni contribuendo alle crisi attuali,
zioni, definizioni linguistiche, variabili nel tempo e quanto, confutando anche Searle e l’idea che il so-
relative, ma solo perché vi è uno statuto inespresso, ciale sia mosso da una intrinseca intenzionalità col-
oggettivo, uno “ zoccolo duro” della cosa stessa che lettiva, alla necessità di regole oggettive, “ ogget-
le contraddice determinando altre possibili defini- ti=atti iscritti”, documentali, o solo contrattuali tra le
zioni. In una parola la “ realtà” della cosa, una sorta diverse volontà, che inducano a riconoscere la realtà
di struttura indicibile tuttavia interna ad ogni dicibi- dei fatti sociali rispetto ai quali operare anche possi-
lità. Secondo l’autore il postmoderno, in cui sono bili critiche, decostruzioni e ricostruzioni, che siano
coinvolti Foucault, Derrida, Deleuze, Lyotard, Vat- stringenti però sulla vita concreta e non meri giochi
timo, Bauman, sino a risalire a Nietzsche e Heideg- testuali atti a coprire più profondi, e “ reali” interessi
ger, ponendo l’accento sulle interpretazioni, attra- in gioco.19
verso “ l’ironizzazione”, la presa di distanza, la vir- Cassate via tutte le idee sulla “ liquidità” del no-
golettatura, dalla e della realtà con ogni sua seria stro mondo contemporaneo le quali, secondo Ferra-
considerazione (Husserl, Heidegger, Deleuze, Vat- ris, mostrando l’inafferrabilità delle cose, non fanno
timo) e la “ desublimazione” intesa nella promessa di che accettare la ragione del più forte, anche in cam-
una emencipazione mediante la liberazione del desi- po urbanistico viene oggi posta l’esigenza di deter-
derio (Foucault, Deleuze), avrebbe condotto alla minare le realtà territoriali secondo dati di identifi-
“ deoggettivazione”, a ritenere cioè inesistente ogni cazione oggettiva. Se quindi da un lato torna di mo-
realtà “ là fuori” e, quindi, privi di oggettività e di da Salingaros ed il new urbanism, ferocemente criti-
progressività, del tutto paritetici, i giudizi sulle cose, co dell’interpretazionismo di Derrida e propositore
Copernico come Tolomeo, Pasteur come Esculapio, di concrete relazioni funzionali territoriali attraverso
Galileo come l’Inquisizione, le cattedrali romaniche l’ingegneria dei sistemi, nella cultura urbanistica ita-
come i quartieri popolari degli anni settanta, in una liana si fa strada la necessità di individuare i reali
presunta democratizzazione delle epoche e dei lin- elementi identitari di città e territori, tali da articola-
guaggi quale ba gaglio di definizioni da ricreare libe- re intorno ad essi piani “ strutturali-strategici”, che
ramente. Ed invece al disorientamento che deriva già si definiscono di “ quarta generazione”, il cui ca-
dal porre il tramonto della storia, il venir meno di rattere strutturale è nel rilievo dei reali dati territo-
ogni progressività, fa riscontro il crollo della lusinga riali, naturali e culturali, per così dire “ inemendabi-
di liberare l’uomo nella sua creatività, di liberarlo li”, su c ui impostare le strategie di carattere politico
altresì da ogni potere da disperdere nel succedersi circa gli obiettivi da raggiungere. Ottimizzando le
delle “favole”, laddove l’attuale nostro smarrimento esperienze dei Piani di terza generazione, da un lato,
trova corrispondenza nell’assoggettamento a poteri secondo i modi della pianificazione tradizionale, si
più forti sebbene più sfuggenti ed evanescenti, i qua- pongono previsioni o, meglio, obiettivi di rigenera-
li si avvalgono proprio della continua ricreatività zione e riconfigurazione dei territori, e, dall’altro, si
delle definizioni in cui ci irretiscono, modulata an- definiscono le strategie concrete, politiche, nel coin-
che dai nuovi mezzi di comunicazione, riproduttori volgimento delle diverse parti sociali interessate,
di “ interpretazioni” oltre ogni verità. L’indipendenza onde realizzare gli obiettivi. Spesso, come nel caso
del reale dai nostri schemi concettuali, posta dai rea- di T orino, i due Piani sono distinti, ma la tendenza è
listi, invece, ne riconosce la “ inemendabilità”, nel
19
senso che vi sono cose e fatti, come la prerogativa Il saggio di Maurizio Ferraris è Manifesto del nuovo realismo,
Laterza, Roma-Bari 2012.
di determinare insieme fini specifici e, almeno, mo-
dalità attraverso cui delineare le strategie rivolte a
conseguirli. Vale a dire che, come è nella accettata
nomenclatura e prassi urbanistica, si intendono come
strutturali quelle componenti territoriali, o urbane,
che, per il loro grado di identificazione di un territo-
rio, non solo dal punto di vista fisico, ma anche sto-
rico ed estetico-percettivo, funzionali (la rete delle
diverse comunicazioni ad esempio, o quella energe-
tica, ecc.) appaiono indispensabili alla comunità in-
sediata e non modificabili, tali da travalicare spesso
il livello comunale, mentre la pianificazione strate-
gica non è intesa, secondo l’uso comune del termine,
quale progetto di lungo periodo, quanto come ap-
prontamento di modalità operative rivolte a pro-
grammare interventi nelle aree individuate dallo
stesso “ documento” strutturale, luogo di convergen-
za di diversi soggetti sociali, come trasformabili. E’
indubbio, pertanto, come tale nuova declinazione del
Piano vada oltre i confini della singola città e, quin-
di, del comune, per investire altri soggetti pubblici e
privati, ponendo come centrali nella pianificazione
sia i cosiddetti “ beni comuni”, relativi alla qualità
ambientale, sia le funzioni fondamentali della vita
collettiva, la cui salvaguardia è oggi posta sempre
più nell’attenzione dei cittadini. Paradossalmente,
alla domanda di città sempre più ampia, viene a ca-
dere, almeno nella prospettiva degli urbanisti, ogni
visione urbanocentrica, affinchè l’urbano sia diffuso
e, nell’urbano, siano presenti quei caratteri ecologi-
ci-ambientali che sinora non lo hanno caratterizzato.
Appare quindi in gioco un nuovo modo di pensare
agli insediamenti umani dove il costruito sia solo
parte di un sistema regolato anche su altre compo-
nenti pure necessarie, “ strutturali”, alla vita sociale,
in una interpretazione, per così dire, metabolica del
territorio, il quale si automodifica in ragione delle
necessità vitali che si pongono all’interno di un qua-
dro di sostenibilità complessiva, come è per le Smart
Cities, non a caso anticipate proprio da un urbanista,
Corrado Beguinot, il quale, già nel 1985, ha svilup-
pato ricerche sulla cosiddetta “ città cablata” con os-
servatori in varie città del mondo. Ed è forse qui, per
l’urbanistica che voglia ancora porsi quale scienza
rivolta agli interessi collettivi, la sua nuova frontiera.
tire dai monumenti che costituiscono la sua Madrid Lebbeus Woods, viene costretto a intraprendere un
contemporanea, uno per tutti il recente ampliamento percorso che lo condurrà a degli interrogativi etici.
del Museo del Prado, passando attraverso la costella- Quale comportamento dobbiamo tenere di fronte alla
zione di architetture civili che ha diffuso in ogni città visione della distruzione della civiltà? Quali ragioni ci
della nuova Spagna, fino alla realizzazione di biblio- portano a cancellare le ferite della storia che la città
teche, musei, cattedrali, banche, auditorium, aeroporti porta con orgoglio nella sua memoria? Possiamo dav-
in ogni parte del mondo, da Stoccolma a Los Angeles, vero fingere che tutto ciò non sia mai avvenuto?
da Houston a San Sebastian. Questa selezione di scritti
palesa un’attitudine teorica costantemente intrecciata
con la pratica concreta del progetto: un’attenzione par-
ticolare è rivolta alle virate che la cultura architettoni-
ca ha effettuato negli anni recenti, con una precisa vo-
lontà di individuarne gli indirizzi e di vagliarli criti-
camente, fino a formulare proposte alternative per una
Dario Gentili, architettura intesa come vocazione alla durata. Pochi
Italian Theory, architetti hanno saputo vivere nel presente: molti si
Il Mulino, Bologna, 2012 sono rifugiati in nostalgici passati o in fantasiosi futu-
ri. Nel caso di Moneo lo sguardo colto dell'architetto
Con l’espressione “Italian Theory”, il dibattito filoso- progettista permette di leggere l'attualità e di dare una
fico internazionale accomuna diversi filosofi italiani risposta concreta ai temi che la complessità contempo-
contemporanei e diverse tradizioni in qualche modo ranea presenta.
riconducibili al pensiero italiano, che - come già acca-
duto in passato, in epoche di crisi - vanno conquistan-
do un’attenzione e un credito sempre crescenti. Da-
F. Espuelas,
ll’operaismo alla biopolitica, dagli anni Sessanta fino
a oggi: i paradigmi filosofico-politici e l’arco di tempo Madre Materia
cui fa riferimento la “Italian Theory” hanno come mo- Marinotti, Milano, 2012
tivi conduttori i conflitti, le lotte, le polemiche, le rot-
ture. L’eredità gramsciana, il ritorno a Marx, la crisi “Vuoto e materia formano la polarità di base
degli anni Settanta, la diversificata galassia degli anni dell’architettura”: con queste parole iniziava il prece-
dente libro di Fernando Espuelas, che sul “Vuoto”
Ottanta - in cui si affacciano tuttavia modelli altri di
come ambito specifico della disciplina architettonica
pensiero e di politica, come quelli del pensiero debole
si esprimeva. Ora, a otto anni di distanza da quel for-
e del pensiero della differenza sessuale; e a seguire,
tunato libro, l’attenzione di Espuelas si sposta invece
fino ai giorni nostri. Da Della Volpe a Tronti, a Negri,
sulla seconda metà di quella dicotomia, la “Materia”,
a Cacciari, Marramao, Esposito, Agamben, il volume
indagata qui nella sua essenza primaria, prima cioè
si propone di ripercorrere un itinerario storico, politico
che venga trasformata dall’uomo in materiale da co-
e filosofico inteso a rintracciare, pur tra differenze an-
che radicali e nella innegabile complessità del conte- L. Woods, struzione. Il titolo stesso del nuovo lavoro di Fernando
sto, quella continuità che la formula Italian Theory in Guerra e architettura Espuelas è eloquente nell’evocare il rapporto ancestra-
sé presume e racchiude. Deleyva, Monza, 2012 le dell’uomo, prima ancora che dell’architetto, con la
materia: Madre Materia. Dalla materia, e in architettu-
Sarajevo, anni ’90. L’ultimo lacerante conflitto che è ra soprattutto, nasce ogni cosa; madre materia come
esploso nel cuore dell'Europa è al centro del testo di Madre Terra. Dice l’autore: «La necessità di occuparsi
Lebbeus Woods, "Guerra e Architettura". La città di della materia in una società dominata dall’immagine
Sarajevo, posta sotto assedio dalle forze serbo-bosnia- può sembrare una forma di resistenza. Questa mia in-
che, divisa dal conflitto etnico, presidiata dai caschi dagine risponde all’esigenza di ristabilire una sorta di
blu dell’ONU, perde la propria identità di città euro- giustizia nel sempre vivo dualismo tra immagine e fi-
pea, in grado di armonizzare la convivenza tra la cul- sicità, tra forma e materia. Il testo che qui si presenta
tura musulmana e quella cristiana. Edito per la prima oscilla tra filosofia e architettura, tentando di quando
volta nell'anno 1993 nella serie "Pamphlet Architectu- in quando di fonderle con gli impagabili apporti del-
re" dalla casa editrice newyorkese Princeton Architec- l’arte».
tural Press, il testo era accompagnato da una traduzio-
ne in croato: "Guerra e Architettura" di Lebbeus Wo-
ods è infatti dedicato apertamente ai cittadini di Sara-
jevo, a quelle stesse persone che, in quei drammatici
giorni in cui il testo veniva pubblicato, erano costrette
ad assistere e a resistere all’assedio della propria città.
R. Moneo
L’altra modernità. Attratto dall’indagine dell’intimo rapporto che lega
Marinotti, Milano, 2012 architettura e violenza, Lebbeus Woods ci consegna
Maestro riconosciuto dell’architettura spagnola, do- una testimonianza puntuale e commovente dell’effetto
cente ad Harvard, Madrid e Barcellona, Bafael Moneo dei bombardamenti su Sarajevo, attraverso un viaggio
è anche il professore operante che ha saputo edificare affascinante tra le macerie della città. Il lettore, cattu-
la sua teoria con la costruzione di grandi opere. A par- rato dalla narrazione icastica e dalla vis polemica di

Potrebbero piacerti anche