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Carlo Scarpa, un architetto che ha avuto la capacità di
ottenere risonanza a livello mondiale nonostante esso
operò quasi esclusivamente in un contesto geografico
limitato nel corso della sua carriera. Al netto di un ridotto
numero di progetti realizzati in altre città italiane (Firenze,
Bologna, Palermo), la maggior parte della sua produzione
architettonica si concentra in Veneto e nelle aree circostanti.
Nato nel 1906 a Venezia, Scarpa studia all’Accademia di Belle
Arti di Venezia e inizia a collaborare con alcuni artigiani e
con alcuni vetrai di Murano. Nel 1926 ottiene l’abilitazione in
Disegno Architettonico e inizia a collaborare con Guido Cirilli
all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (all’epoca
chiamato Istituto Superiore di Architettura di Venezia), in
veste di assistente. Negli anni successivi, la sua carriera si
divide tra la realizzazione di arredi e di interni domestici
e la collaborazione con la vetreria di Paolo Venini, iniziata
nel 1932 e proseguita con la nomina di Scarpa a direttore
artistico.
La prima opera architettonica significativa del progettista
arriva nel 1935: si tratta di interventi su alcuni edifici
dell’Università Ca’ Foscari. Il progetto, che lo stesso Scarpa
riprenderà nel 1957 modificandolo ulteriormente, dimostra
la grande sensibilità dell’architetto per gli interventi in
edifici storici. Con una grande attenzione al rapporto tra i
nuovi materiali introdotti e quelli preesistenti nell’edificio
del Rettorato e dell’Aula degli Atti Accademici, dà avvio
a una serie di ragionamenti che saranno presenti in
numerosi progetti della sua carriera: per Scarpa, il progetto

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sul patrimonio costruito va affrontato con soluzioni che
mostrino il gesto contemporaneo ma che allo stesso
tempo siano perfettamente calibrate sulle caratteristiche
dell’esistente. Attraverso l’uso di giunti che mettono in
contrasto materiali diversi, incisioni ed elementi metallici
negli arredi fissi (che contrastano con la pietra e il mattone)
è in grado di arricchire il linguaggio preesistente dell’edificio
con una nuova poetica.
In seguito, Scarpa riceve l’incarico di rinnovare l’allestimento
delle Gallerie dell’Accademia a Venezia e, nello stesso periodo,
avvia una collaborazione con la Biennale progettando prima
l’allestimento della mostra di Paul Klee (1948) e in seguito
il Padiglione del Libro (1952) collocato nei Giardini, che
risente fortemente dell’influenza dell’architettura di Frank
Lloyd Wright. Il sodalizio con la Biennale prosegue negli anni
con altri progetti: il Giardino delle Sculture nel padiglione
centrale dei Giardini, caratterizzato da una ricerca formale
che mette in evidenza il rapporto tra il ruolo strutturale e
la sinuosità dei volumi in calcestruzzo che lo compongono;
successivamente, Scarpa progetta anche il Padiglione del
Venezuela della Biennale.
Non limitandosi unicamente alla collaborazione con la
più nota istituzione culturale veneziana, l’interesse per la
museografia e per gli allestimenti è costante nella produzione
scarpiana. Tra i progetti più importanti dell’architetto vi sono
infatti la Galleria Nazionale della Sicilia in Palazzo Abatellis
a Palermo (1953-1954), l’ampliamento della Gipsoteca
Canoviana a Possagno (1956-1957), la Fondazione Querini

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Stampalia (1961-1965) a Venezia e il restauro del museo
di Castelvecchio a Verona (1964). Questi progetti sono
accomunati da vari elementi che vengono declinati in
modo diverso a seconda delle caratteristiche degli ambienti
già presenti. Oltre alla già citata attenzione al rapporto tra
nuovo e antico, è possibile riscontrare anche l’approfondita
ricerca alla scala del dettaglio architettonica degli elementi
che compongono l’allestimento.
Per i numerosi interventi architettonici e interventi
museografici riceve riconoscimenti prestigiosi, come il
Premio Nazionale Olivetti per l’architettura e la Medaglia
d’Oro ai Benemeriti della Cultura e dell’Arte, il premio IN/ARCH
(1962) e la medaglia d’oro per la cultura e l’arte del Ministero
per la pubblica istruzione (1962). Riceve altri importanti
riconoscimenti come il premio della Presidenza della
Repubblica per l’architettura (1967), e le nomine a membro
del Royal British Institute of Design (1970), dell’Accademia
olimpica di Vicenza e dell’Accademia nazionale di San Luca
a Roma (1976). Nel 1972 diventa direttore dell’Istituto
Universitario di Architettura di Venezia.
Le sue opere vengono celebrate con mostre personali
presso le più grandi istituzioni del settore artistico culturale:
il MoMA di New York nel 1966, la Heinz Gallery di Londra,
l’Institut de l’Environnement a Parigi, ed infine a Barcellona
nel 1978, poco prima della prematura morte a Sendai nello
stesso anno.

L’architetto veneziano dedica molta della sua attività anche

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al restauro e alla realizzazione di nuovi progetti in antichi
contesti. Attraverso queste opere emerge la sua capacità
di elaborare progetti per opere antiche, interpretando
abilmente il contesto architettonico preesistente. Tra le
numerose realizzazioni relative all’urbanistica nei centri
storici e al paesaggio, sono da ricordare Villa Veritti a Udine,
il negozio Olivetti a Venezia, casa Gallo, e il Condominio
in Contra’ del Quartiere a Vicenza, la tomba a Bion a San
Vito d’Altivole, Villa Palazzetto a Monselice, la sede della
Banca Popolare di Verona e Villa Ottolenghi a Bardolino.

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Nel 1969 Onorina Brion, rimasta prematuramente vedova di Giuseppe
Brion, il fondatore di Brionvega, chiede a Carlo Scarpa di progettare una
tomba nel luogo natale del marito, San Vito di Altivole, nel Trevigiano,
ben conscia di aver scelto uno dei più grandi architetti del periodo.

Scarpa avrebbe costruito non una semplice tomba ma una sorta di sublime
«cittadella del commiato», costituita da quattro edifici inframmezzati da
prati, canali e specchi d’acqua ricoperti di ninfee, che evocano i giardini
giapponesi e quelli islamici, e circondata da un basso recinto, a immagine
di quelli dei templi antichi, che separa, senza però isolarlo, il complesso
funerario dalla campagna circostante.L’architetto impiegò ben otto anni
per costruire il complesso, modificandolo più e più volte, e quando nel
1978 morì, il complesso non era ancora terminato; fu poi il figlio Tobia
a realizzare la tomba del padre, in un angolo appartato in cui anch’egli
volle essere sepolto.
Otto anni, dunque, molta pazienza da parte dei committenti, innumerevoli
modifiche strada facendo (nei quasi duemila disegni tracciati
dall’architetto per questo complesso, non figura l’opera finita) ma quello
che ne scaturì divenne un capolavoro ineguagliato dell’architettura del
XX secolo: un meraviglioso luogo dello spirito che da sempre richiama
in quella piatta pianura decine di migliaia di visitatori da tutto il mondo.
Nello specifico Carlo Scarpa decide di ampliare il lotto di 68 mq già
posseduto dalla famiglia, a 2200 mq segnando una svolta radicale nel
progetto. Grazie a questo salto di scala il luogo dove doveva collocarsi la
tomba di famiglia divenne l’entrata della nuova area.

Il cambio di programma imponeva di non pensare più ad un oggetto


architettonico a sé stante ma di studiare una nuova relazione tra l’area

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acquisita e la parte preesistente. Scarpa pensava di realizzare un settore
sopraelevato rispetto alla campagna circostante, per permettere al
visitatore di oltrepassare il muro di cinta con lo sguardo ed integrare in
questo modo le colline asolane al cimitero.

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Il progetto di Carlo Scarpa per la tomba della famiglia Brion si staglia nella
campagna trevigiana, ritagliando un recinto tra i campi coltivati. I lunghi
steli di mais nascondono il camposanto, mentre nelle stagioni dell’aratura
il recinto si manifesta anche sulle lunghe distanze assumendo l’aspetto
di un luogo murato. L’estensione dell’area sepolcrale permette a Scarpa
di abbandonare il modello progettuale della tomba monumentale e
lavorare su un sistema più articolato che vede i vuoti prevalere sui volumi.
Così, lo spazio cimiteriale è sentito come un santuario che celebra il
riconoscimento sociale della famiglia Brion.
Le estremità della configurazione a “L” sono segnate dagli spazi
celebrativi: all’estremità sud, il padiglione sull’acqua accoglie i luoghi del
ricordo privato della famiglia; all’estremità ovest, la cappella e l’orto dei
dodici cipressi accolgono le funzioni religiose e la dimensione spirituale
del ricordo. L’arcosolio, che protegge i sarcofagi dei coniugi Brion, viene
collocato in posizione baricentrica e orientato in modo da stabilire
continue relazioni spaziali con entrambi i bracci della configurazione.
Il giardino è strutturato su quote diverse, che rompono la rigidità
dell’impianto geometrico e segnano due percorsi processionali ben
distinti. Un “percorso basso”, scavato e fortemente orientato, collega i
luoghi della riflessione religiosa (“tempietto della meditazione”) e del
ricordo familiare (“edicola dei parenti”). Un “percorso alto”, sui campi
assolati, segna i luoghi della commemorazione laica dei coniugi Brion
(“arcosolio”) e del ricordo privato (“padiglione della meditazione»).

Il luogo si coglie quindi da due quote che permettono di misurare


l’impianto cimiteriale secondo diverse qualità spaziali, perché un
percorso è fatto di spazio e movimento.
Dal basso, le superfici dei prati quasi si annullano nella prospettiva tesa

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verso l’orizzonte. I percorsi sono sottili, orientati, segnati dalle ombre
lungo i bordi. Dall’alto, i campi si aprono in ampie superfici. I percorsi
sono assolati, liberi, non orientati, aperti sulle colline che si scorgono al
di sopra del recinto.
Nel contesto assolato del giardino, le sepolture segnano i pochi luoghi
protetti dalle ombre.
Tutt’intorno, la presenza costante dell’acqua sotto varie forme: dalla
calma delle vasche piatte, al silenzioso scorrere lungo sottili canali, al
leggero gorgoglio di piccole cascatelle.

IL LINGUAGGIO ARCHITETTONICO.
Il disegno diviene la scrittura di un linguaggio architettonico che procede
a figure, che si era formato nel rinascimento e che comprendeva pittura,
scultura e architettura. Il pensare per figure della visualità scarpiana si
colloca in una tradizione che supera il mestiere dell’artigiano ma resiste
alla matematizzazione dell’ingegnere.
Il percorso di scarpa conduceva alla scomposizione spaziale verso le
forme dell’astrattismo, per inventare punti di giunzione, per ricomporre.
Si parla di “distruzione della scatola” e di finestre d’angolo, che segnano
l’avvicinamento all’architettura di Wright. Scarpa assume questo spazio
eliminando gli angoli della stanza tradizionale, ma dota i piani così
dissociati di giunzioni molto articolate. La finestra d’angolo, inventata
dal movimento moderno, produce una stanza nella quale le fonti di luce
(le aperture vetrate) e i diffusori (le pareti che la riflettono) si trovano
perpendicolari.
Quando si capisce che la luce si può modulare componendo
opportunamente le fonti e i diffusori, diviene possibile perseguire una
qualità architettonica nuova. L’architetto nei suoi edifici usa come diffusori

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superfici colorate, l’acqua, le pareti bianche, combinati con varie fonti di
luce diretta , indiretta e artificiale. Disponendo ortogonalmente tra loro
la fonte di luce e i piani diffusori, come accade nelle finestre d’angolo,
le pareti divengono sistemi illuminanti. Diventano perciò comprensibili,
e ripetibili, quelle tecniche cui egli affida l’effetto di luminosità diffusa
che caratterizza lo spazio museale di Possagno. Gli effetti prodotti dalle
finestre d’angolo possono ricordare i sistemi compositivi presenti nelle
città venete, dove gli edifici non di rado presentano gli angoli aperti e
vetrati. Scarpa dunque traduce la finestra d’angolo della spazi identità
lità nuova (wrightiana) in un lessico veneto: la luce che esse producono
diviene luminosità cromatica, fatta di trasparenze, che rimanda ad
un’identità riconoscibile nelle opere figurative prodotte in questa
regione per tanti secoli. Egli sosteneva che il progetto procede per
chiarificazioni successive, riducendo progressivamente la complessità
delle configurazioni iniziali, dettate dal contenuto tipologico del
progetto. L’ultima architettura di Scarpa è una architettura impegnata a
riportare quella nuova spazialità che Wright aveva mutuato dalla cultura
giapponese nell’ambito del sistema classico. Scarpa faceva intendere
molto chiaramente quanto avrebbe apprezzato una critica attenta a
riconoscere le sue ascendenze e connessioni con l’architettura classica.

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LA LUCE SECONDO SCARPA
Essendo costretto ad impiegare la luce artificiale, Scarpa non nasconde
una certa sfiducia, perché convinto che qualunque sarà il risultato
ottenuto, non potrà certo competere con la luce naturale. Vediamo
che per l’illuminazione elettrica predispone oggetti molto semplici,
apparecchi al neon o con lampade a incandescenza, con o senza diffusore
a seconda delle circostanze. Maggiore attenzione pone nello studio
per la collocazione degli apparecchi, che non vuole assumano troppa
importanza come oggetti in sé, né che interferiscano eccessivamente
con le opere, cioè non diventino anch’essi dei protagonisti.

VENEZIA E L’USO DELL’ACQUA


Carlo Scarpa da veneziano qual era è sempre stato affascinato dalla
mobile trasparenza dell’acqua, tanto da inserirla in tutti i suoi progetti
architettonici.
Per Scarpa l’acqua deve essere accolta all’interno degli edifici, che ne
accarezzano la dinamicità e custodiscono il suo continuo scorrere, quasi
che non vi possa essere altra difesa che il saper convivere con questa
inafferrabile e fluida realtà e lasciare che essa interferisca e sia parte
dell’architettura.
L’acqua così ricca di simboli, che accompagnano tutta la nostra vita è
fonte di sostentamento, purificazione e rinascita, ci tiene a galla, ma ci
può portare a fondo. Forse è questa sua ambiguità che Scarpa amava
perché essa riflette sì l’esterno, ma deformato.
Scarpa gioca con i materiali, coi cromatismi creati dalla luce sull’acqua
e crea dislivelli di terreno per interloquire meglio con questo elemento,
dinamico, vivificante e rilucente. Piccole canalette di acqua corrente si
affacciano su vasche quadrate, e percorrono il silenzioso giardino.

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L’amore per Venezia portò quest’artista a creare ovunque architetture
che partecipano armoniosamente con la luce e la mobilità dell’acqua.
Scarpa indifferente ai problemi della produzione industriale, rifiutò ogni
limitazione per privilegiare la novità e la qualità. L’amore per Venezia
portò quest’artista a creare ovunque architetture che partecipano
armoniosamente con la luce e la mobilità dell’acqua.
Scarpa indifferente ai problemi della produzione industriale, rifiutò ogni
limitazione per privilegiare la novità e la qualità.

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La tomba monumentale Brion è un complesso che non vuole
semplicemente commemorare una morte individuale o un singolo
evento di lutto. Bensì un viaggio tra percorsi sensoriali, dove architettura
e natura fanno da scenario sulla riflessione della condizione umana.
Un’architettura meditativa, con immagini che comunicano in una
stratificazione di significati profondi, continuamente richiamati dalla
simbologia. Un viaggio che non vuole mostrare la paura per la morte,
ma vuol far riflettere su di essa e sulla vita, sul transito tra le due. Il
simbolo dell’amore coniugale e della sua eternità, l’unica cosa che una
volta abbandonato il corpo fisico, rimane per sempre nello spirito. Un
itinerario semplice, comprensibile a tutti, individuale nella scelta di
percorrenza. Tra prato e acqua, l’opera si articola in una serie di manufatti,
geometricamente e percettivamente calibrati, dove la molteplicità
dei luoghi, frammenta fin dall’inizio il tema funerario, portandolo
progressivamente dalla sfera privata a quella pubblica. L’impossibilità di
un percorso lineare, l’assenza di una gerarchia e di una direzione univoca
prestabilita, costringe a dover ripercorrere lo stesso sentiero già percorso
in precedenza. Elementi differenti, che offrono diversi scorci, scandiscono
il passo di percorrenza del monumento e definiscono le direzioni che
si vogliono prendere. Uno schema ad “L” apparentemente ordinato
secondo principi geometrici ortogonali, ma con irregolarità e precise
scelte progettuali forzate a rompere l’ordine. Un esempio tra queste,
sono le differenti quote del giardino interno, che influenzano anch’esse
la scelta del cammino da peregrinare. Grazie ai differenti dislivelli interni
del terreno, inoltre, si possono cogliere al meglio le diverse qualità
spaziali del complesso.
Per iniziare il cammino, nel complesso vi sono due alternative, due
entrate. Una è attraverso “il propileo” alla fine del lungo l’asse del vecchio

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cimitero, l’altra con un cancello scorrevole in calcestruzzo che si apre sulla
strada esterna. Prediligendo il propileo, il cui prospetto è caratterizzato
dalla geometria delle riseghe parallele, orizzontali e verticali in cemento
armato, attraverso pochi gradini, si entra così in un secondo vano
rettangolare, dove ci si alza rispetto alla quota di livello del terreno. Sulla
parete di sfondo all’entrata del propileo, vi è una particolare apertura.
Due anelli intrecciati, marcati da mosaici vetrosi colorati che incorniciano
lo spazio. Uno blu (maschio) e uno rosa (donna), invertiti nella facciata
esterna della parete, i due anelli simboleggiano l’amore reciproco tra
i due coniugi, Onorina e Giuseppe Brion. Le pareti cieche del vano “in
cemento a vista, impresso dal legno non piallato delle casseforme, sono
riquadrate da campiture di intonaco scialbato a calce lucida”. A questo
punto, l’architetto costringe a prendere una strada per proseguire.
Svoltando a sinistra dei due anelli, perpendicolarmente all’ingresso, si
possono intravedere le tombe dei coniugi, e continuando sul percorso si
arriva “all’edicola dei parenti” della famiglia Brion e ad una zona con una
chiesetta, che ospita le funzioni religiose e la “dimensione spirituale del
ricordo”. Se invece si svolta a destra, si accede ad un padiglione sull’acqua,
il “padiglione della meditazione”, legato alla sfera più privata del ricordo
della famiglia.
Prediligendo il percorso verso sinistra, di primo impatto è un’area
circolare abbassata rispetto al giardino. Di grande effetto è la copertura
che protegge i due sarcofagi, una struttura ad arco ribassato, “l’arcosolio”,
evocante le sepolture degli antichi Cristiani, come lo stesso Scarpa
afferma. Nell’intradosso di questa sorta di “ponte” cementizio, “lamine
di bronzo, tessere musive d’oro e colori smaltati”, riecheggiano l’arte
veneziana/bizantina, ed enfatizzano i due avelli sottostanti. Le tombe
si protraggono l’una verso l’altra (simbolo dell’amore eterno) e sono

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costituite da blocchi bipartiti di marmo del Belgio chiaro e scuro, ricoperte
da palissandro, per non evidenziare l’eccessiva freddezza della pietra,
mentre i nomi dei coniugi in ebano e avorio. L’arcosolio è in posizione
baricentrica e orientato in modo da “stabilire continue relazioni spaziali
con i bracci della configurazione” del complesso. Infatti, è possibile
vedere sia il padiglione o persino la chiesa da questa posizione.
Distaccata da un largo tappeto erboso, ma anch’essa pur sempre
visibile dalle tombe dei coniugi, vi è “l’edicola dei parenti”. L’edicola,
contenente le tombe dei familiari è schermata da una copertura a falde
asimmetricamente convergenti, con un’apertura in alto per far penetrare
una lama di luce. All’interno dell’edicola, invece, vi sono “teli di intonaco
nero” fissati da borchie di bronzo. Seguendo i percorsi (non lineari) che si
fanno strada tra i vari dislivelli del terreno, si può arrivare alla chiesetta. Un
tempietto, una cappella, destinata alle cerimonie funebri della famiglia e
del paese. Un cubo in calcestruzzo che si dà forma ruotando di 45 gradi
rispetto all’asse di percorso, circondato da vasche d’acqua e canali idraulici,
con una copertura a tronco di piramide (non visibile dall’esterno) che
“rievoca antiche e lontane architetture”. Vi si può accedere da una porta-
pannello con riquadri di gesso bianco lucidati e rimarcati da un’intelaiatura
metallica. Un varco, un cerchio quasi completo (omega), incornicia gli
interni della cappella, mostrando uno spazio sapientemente illuminato.
Dall’alto dell’abside, cade la luce proveniente dalla cupola piramidale in
legno di pero, su un altare di ottone marino (quasi a collegare la chiesa
direttamente con il cielo, con Dio). Delle aperture verticali dall’infisso
invisibile, che vanno fino al soffitto, e dal retro del tempietto (dove
vi sono i giardini dei sacerdoti e il prato dei cipressi), si può avere la
sensazione che il tempietto sia immerso nell’acqua. Con il suo “silenzioso
scorrere dei sottili canali e il leggero gorgoglio delle cascatelle”, l’acqua

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è udibile dall’interno attraverso delle finestrature dietro l’altare. Luce e
acqua, in complemento con la tecnica rappresentativa della dentellatura,
che ricorre in tutto il complesso, confondono interno ed esterno, aria,
materia ed acqua, connettendo architettura e natura. Tornando indietro
all’entrata e cambiando il senso di percorrenza nella direzione opposta
alle tombe, una pesante porta in calcestruzzo mobile su rulli metallici
invita ad un percorso lastricato cementizio che man mano si restringe,
fino ad arrivare ad una porta di cristallo. Il meccanismo di questa porta,
durante l’apertura affonda nell’acqua sottostante. La “via liberata” giunge
ad un’oasi meditativa, l’isoletta con il padiglione meditativo. La copertura
del padiglione è una doppia scatola, in legno di larice e stecche massicce
di ebano e compensato dorato negli interni. Un “padiglione effimero”,
fragile, che sembra sospeso, data la sottigliezza dei montanti metallici dal
profilo spezzato. Alzandosi in piedi al suo interno è difficoltoso vedere
attorno, se non da particolari forature fatte da Scarpa, per evidenziare
maggiormente l’idea di riflessione. Da qui è inoltre possibile, vedere il
contesto circostante, data l’impossibilità di comunicazione per via del
muro in calcestruzzo (inclinato verso l’interno di 60 gradi) che recinge
l’intera area. Sulla vasca che circonda il padiglione, dal fondo non visibile,
galleggiano delle ninfee, che sfumano il prato del giardino dall’acqua,
e una croce rappresentante un labirinto. Il simbolo del labirinto è
metafora di un viaggio oltre il limite, verso una dimensione ancora da
esplorare. Un’architettura completa, senza trasformazioni successive, se
non tramite la conservazione o il restauro. Un luogo dove il tempo, luci
e ombre interagiscono con il contesto. Una testimonianza dove “la forma
espressa, diventa poesia”, grazie ad un architetto che “seppe dare valori
al dettaglio della composizione architettonica” e dei materiali con cui
essa è generata (Carlo Capovilla).

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L’opera è progettata e realizzata fra il 1970 e il 1978, anno in cui Carlo
Scarpa viene a mancare, e terminata poi sui suoi disegni, su commissione
di Onorina Tomasin Brion per il marito Giuseppe Brion.
Inizialmente la famiglia aveva acquistato un lotto di 68 mq adiacenti
al cimitero di Altivole, poi fu aggiunto un “corridoio” di 25 metri per
dividere lo spazio da quello del cimitero del paese. Alla fine la superficie a
disposizione diventò di 2400 mq e questo diede modo a Scarpa di ideare
un progetto molto più articolato.
La tomba Brion, luogo simbolo dell’amore coniugale, fu fin da subito
percepita come un luogo di pace e meditazione, silenzio e bellezza
aperto a tutti.
Presso il memoriale Brion è sepolto lo stesso Carlo Scarpa, insieme alla
moglie Nini Lazzari, in un punto discreto di congiunzione tra la sua
monumentale creazione e il vecchio cimitero del paese.
Nel 2018 Ennio Brion, figlio di Giuseppe e Onorina, ha commissionato il
restauro del memoriale all’architetto Guido Pietropoli, allievo di Scarpa
che aveva seguito i lavori di realizzazione dell’opera. I lavori sono durati
tre anni e si è trattato di un restauro di tipo conservativo.
Nel 2022 la tomba Brion è stata donata al FAI da Ennio Brion e sua sorella
Donatella, assumendo il nome di Memoriale Brion e diventando oggi il
70° bene del FAI.

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Dal febbraio 2018 al giugno 2021, la Tomba Brion è protagonista di una
serie di interventi di profondo restauro conservativo e scientifico, basato
sulla documentazione d’archivio, commissionati da Ennio Brion e curati
dall’architetto Guido Pietropoli, collaboratore di Carlo Scarpa nella
costruzione del Memoriale.
Un luogo aperto a tutti, che fa della sacralità, della pace e dell’armonia i
suoi elementi distintivi, e la cui architettura enigmatica comunica la sua
potenza non tanto al primo sguardo, quanto nel momento in cui la si
percorre.
Il progetto ideato da Pietropoli non va a modificare in alcun modo
l’oggetto, il quale si è trasmesso nel tempo in ottime condizioni se non
per quelle parti composte principalmente da materiali deperibili come
legno e metallo. L’attenzione quindi si è concentrata sul mantenere
un’architettura riferendosi minuziosamente al suo aspetto originario,
e per questa fase la consultazione degli archivi dei disegni originali ha
consentito di intervenire sulle parti ammalorate con più consapevolezza.
Nell’opera sono state coinvolte maestranze e artigiani che avevano già
lavorato alla Tomba quando l’architetto Scarpa era ancora in vita .
La minuziosa consultazione dello Studio Pietropoli (Guido e Martino
Pietropoli), riguardo gli archivi dei disegni originali ha inoltre messo in
luce come gli approcci preliminari di Scarpa abbiano riguardato solo le
sepolture dei coniugi Brion e non tutta l’area di 2.500 mq. Un’indagine che
ha ripercorso tutte le fasi dall’ideazione preliminare alla progettazione
esecutiva fino al cantiere, e ha consentito di intervenire solo sulle parti
ammalorate, con soluzioni tali da preservare il manufatto senza intaccare
appunto la composizione materica originaria.
Gli interventi attuati, che hanno sopperito alle saltuarie manutenzioni
degli anni passati e a interventi inadeguati, hanno riguardato

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principalmente: il cassone in larice del padiglione sull’acqua e le sue
componenti metalliche; i manufatti in calcestruzzo armato (circa 600
mq), i cui ferri d’armatura si trovavano a pochi millimetri dalla superficie
esterna o erano addirittura affioranti; gli intonaci di calce sulle pareti in
cemento; i mosaici e la cupola lignea della chiesetta.

Il programma di lavoro ha riguardato: per prime le parti in legno e


metallo; poi gli interventi sulle opere in cemento armato preceduti da
un anno di test e campionature sul muro a levante, le cui superfici sono
state trattate con biocidi ecologici a base di origano, data la presenza
di colture biologiche attorno all’area del cimitero, e micro sabbiature
con gusci di noce per conservare l’impronta delle casseforme; infine
i lavori sulle aree verdi (il prato, le essenze arboree, i fiori ecc.) che nel
tempo si sono abbassate di 15 cm rispetto al livello originario a causa del
dilavamento del terreno negli strati di ghiaione sottostanti.
Le parti in metallo sono state oggetto di interventi puntuali: contorni in
trafilato di Muntz Metal (profili d’uscita del corridoio dei propilei, doppio
profilo dei due anelli incrociati ecc.), cerniere sostituite con cuscinetti
reggispinta in acciaio inox, pezzi speciali in fusione del padiglione
sull’acqua. Le carpenterie non a vista sono state sostituite con metalli non
ossidabili, mentre le altre parti sono state smontate, ripulite o trattate
con nuove dorature come l’incavo dei terminali inferiori e superiori delle
teste in Muntz Metal dei 4+4 spezzoni delle colonne del padiglione
sull’acqua. Quest’ultimo è il manufatto che ha subito l’intervento più
complesso e radicale, sia in ragione dell’offuscamento della texture delle
facciate (doghe verticali e orizzontali di larice intervallate da stecche in
ebano massiccio) per lo strato di vernice marrone, sia per la marcescenza
di numerose tavole per l’acqua stagnante nell’incastro inferiore.

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La falegnameria ha poi provveduto allo smontaggio del cassone in legno
di larice (circa 600 pezzi), dei velari in compensato marino color verde e
del trasporto nel laboratorio per la pulitura, il recupero e/o la sostituzione
parziale delle doghe con altre in larice russo previo trattamento contro
gli insetti in camera di ammoniaca. Un anno e mezzo di lavoro per la
ricostruzione del cassone che ora, grazie all’ossidazione naturale, è
ritornato alla colorazione grigio argento.
Alla fine di questa prima fase di lavori è iniziato il restauro puntuale delle
parti in cemento che, in ragione delle modanature a scaletta (modulo di
5,5 cm + multipli), presentavano affioramenti delle armature dovuti al
loro posizionamento all’interno delle piccole sagome che non offrivano
la possibilità di un ricoprimento adeguato. Nonostante le attenzioni
messe in atto, le opere in cemento armato dovranno essere sottoposte
a frequenti interventi scadenzati nel tempo per impedire il riformarsi
delle ossidazioni. Una tecnica alternativa che poteva essere eseguita
consisteva in un intervento di coating, ma ciò avrebbe vanificato la
valorizzazione della tessitura delle casseforme in legno, come voluto da
Scarpa, e le successive cure dei restauratori, che hanno provveduto alla
pulitura delle incrostazioni chimiche/biologiche con micro sabbiature di
finissimi inerti vegetali ricavati da gusci di noce tritati.
Infine si è proceduti con il restauro dei mosaici (sandwich con retro
in foglia d’oro o in pasta di colore) con opportuna sostituzione delle
tessere; il reintegro delle parti ammalorate della cupola gradonata in
legno di pero ed ebano della chiesa tramite smontaggio e rimontaggio;
il rifacimento delle dorature delle parti in cemento (oro zecchino su bolo
armeno sugli spigoli verticali, le croci, le parti decorative ecc.) che erano
state erroneamente “rinnovate” con vernici alla nitro; la pulitura degli
intonaci a calce su supporto in cemento con additivi naturali o il loro

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rifacimento su sottofondo in cocciopesto in quanto soggetti al gradiente
di temperatura tra le due facce opposte.
Il tutto è stato eseguito nel pieno rispetto per le tecniche costruttive
adottate tradizionalmente nel Veneto, nonché per le soluzioni
architettoniche e materiche tramandate da Scarpa.

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IL MUSEO SCARPIANO
La chiave che apre la porta dello spazio del museo è dunque proprio il
dinamismo, la componente prima dell’architettura, che dovrà contenere
al suo interno l’opera d’arte e farla vivere.
Tutti i lavori esposti da Scarpa godono di questa componente dinamica,
trasmessa proprio dal mondo in cui sono presentati. La sistemazione
angolata rispetto alla geometria della stanza crea un forte dinamismo
spaziale oltre che presentarsi meglio all’illuminazione da una finestra; lo
stesso modo che spesso si riscontra in Scarpa di presentare le opere non
solamente esponendole, ma porgendole, è anch’esso un elegante modo
di avvicinare l’opera stessa allo spettatore, quasi precedendo il moto
di quest’ultimo, quindi un modo che suggerisce un movimento, che al
posto della fissità presuppone il manufatto artistico attivo nello spazio.
Alla stessa conclusione ci porta il constatare l’uso abbondante di aste
di metallo ruotanti: l’opera d’arte si può muovere davvero, innestata al
perno può essere guidata a cercare la condizione più adatta ad essere
vista, a trovare il modo più adatto per essere intesa dalla persona che la
sta esaminando.
Nella sua apparente esuberanza ed estrosità, Scarpa era in fondo un
riservato, un controllato che non amava mai abbandonarsi. Genialissimo
artigiano capace di far fremere, di far palpitare sensualmente la carne dei
materiali che egli usava. Rinunciando ad imporsi all’osservatore in maniera
troppo eloquente o enfatica, e, all’opposto, evitando di presentarsi come
freddo cimelio, l’opera d’arte si mostra con naturalezza, ma anche con
forza ed eleganza, accompagnata da un registro sensibilmente adeguato
di materie e colori, magari esposta ai volubili toni della luce del sole.

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IL MUSEO DI CASTELVECCHIO
Carlo Scarpa operò in numerosi interventi nel corso della sua carriera. Tra
i più celebri risulta quello a Castelvecchio a Verona, e quello avvenuto
alla Gipsoteca Canoviana Possagno.
Per quanto riguarda il primo caso, svolto nel pieno del secondo
dopoguerra, in corrispondenza con il dibattito sui temi della ricostruzione
dei centri storici a seguito del secondo conflitto mondiale, del rapporto
tra antico e moderno, del restauro di edifici monumentali e della loro
destinazione museale.
In questo contesto, dopo una serie di interventi sul castello dovuti alla
distruzione subita durante il conflitto, è Carlo Scarpa ad intervenire, a
seguito del cambio di direzione al vertice dei musei veronesi e con il
conseguente arrivo di Licisco Magagnato, riesce ad emergere e prendere
l’incarico di intervento. Grazie al forte mutamento di indirizzo culturale
del cambio di gestione: si avvia un ambizioso programma di riassetto
della rete museale, con il riordino critico delle collezioni e, al tempo
stesso, il restauro delle principali sedi museali.
L’intervento di Scarpa a Castelvecchio si colloca in un momento centrale
della carriera dell’architetto veneziano. Inizia nel 1958 quando l’architetto
mette a punto un metodo di lavoro che risulta esemplare. Partendo dal
riconoscimento delle aggiunte arbitrarie, provvede ad alcune necessarie
demolizioni per mettere in evidenza le parti originali mediante particolari
accorgimenti come finestre aperte nel pavimento o tagli che consentono
la lettura delle successive stratificazioni del monumento. A ciò si affianca
il concepimento di un unitario percorso museale, talora felicemente
interrotto da escursioni verso l’esterno, e completato da un sistema
allestitivo essenziale e rigoroso che mette le opere in connessione visiva
tra loro raggiungendo il suo punto saliente nell’esposizione della statua

55
equestre di Cangrande I della Scala.
Inediti risultano gli accostamenti di materiali antichi, come la pietra e il
legno avvicinati a quelli moderni come il calcestruzzo lasciato a vista o
talora trattato con tecniche tradizionali come la bocciardatura, oppure la
rivisitazione di antiche tecniche, come il trattamento a stucco colorato di
alcune superfici, interpretato in chiave moderna.
In linea con le convinzioni teoriche affermatesi nel dopoguerra, è
calibrato caso per caso, soprattutto alla luce delle numerose scoperte
archeologiche che si susseguirono. Scarpa, come un archeologo, sceglie
cosa demolire e cosa salvare perché l’edificio possa essere letto nella sua
vera essenza storica.
Infatti, proprio nel tentativo di mettere a nudo le strutture originarie del
castello deve distruggere le stratificazioni che vi si sono progressivamente
addossate.
Elimina qualunque traccia del precedente restauro in quanto riteneva che
ne avesse snaturato le forme originarie. Al contempo, i nuovi materiali da
costruzione sono perforati perché rivelino agevolmente la sottostante
superficie storica.
Tra le opere del maestro veneziano, probabilmente Castelvecchio è quella
indagata più a fondo, sia per il valore intrinseco del castello medievale,
sia per il limpido restauro, che lo ha arricchito di un notevole valore
architettonico.

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LA GIPSOTECA CANOVIANA
Altro intervento rilevante di Carlo Scarpa consiste nell’ampliamento della
Gipsoteca Canoviana, avvenuta tra il 1955 e il 1957 a Possagno, a Treviso.
Lo scopo del progetto era quello di completare l’immenso patrimonio
canoviano, comprendendo alcuni gessi monumentali che sono tutt’oggi
fruibili all’interno del Museo, come Ercole e Lica e Teseo in lotta con il
centauro.
Scarpa riuscì a creare una struttura che si armonizza con la basilica
ottocentesca già esistente e con il paesaggio circostante. Disegnò un’aula
a pianta quadrata destinata, solo originariamente, ad ospitare il grande
modello del Teseo. Qui vi aggiunse poi un corpo più basso e trapezoidale
con un lato parallelo a quello della basilica, costruendo un vero e proprio
cannocchiale ottico puntato sul gruppo de Le Grazie collocate in fondo
alla sala.
Il punto chiave del suo progetto è però l’attenzione al dato naturale del
paesaggio circostante.
La luce naturale e l’intelligente posizionamento di vetrate angolari coniuga
la coreografia di corpi alle verdeggianti colline evocando all’osservatore
un’immagine di perfezione. Un’ulteriore particolarità dell’Ala Scarpiana
è la presenza di uno specchio d’acqua ai piedi de Le Grazie. La luce qui
riflessa modula le forme con infinite variazioni e i tre corpi sembrano
muoversi ad ogni istante del giorno, riflettendo e creando ombre che si
infrangono sullo spazio aperto.
Il problema più difficile da superare per Scarpa era proprio la creazione
di una struttura che si collocasse armonicamente rispetto l’ambiente e a
ridosso dell’aula basilicale preesistente. Obiettivo del progetto doveva
essere quello di trovare lo spazio per l’esposizione del grande gesso che
arrivava da Venezia, Teseo vincitore del Centauro, valorizzare tutto il

61
patrimonio canoviano giacente nel deposito e predisporre un’opportuna
esposizione dei bozzetti in gesso e terracotta.
Scarpa era convinto che fosse necessario disporre le opere secondo il senso
“dell’intuizione compositiva di certi elementi”. La profonda sensibilità
museografica dell’architetto si confrontava con la tecnica del progettista
che riuscì a mettere in atto una scenografica rappresentazione nel disporre
quegli assoluti capolavori d’arte coreograficamente e distribuendoli su
livelli sfalsati, collocati all’interno di un involucro architettonico.

GIPSOTECA CANOVIANA, L’INTERVENTO DI AMPLIAMENTO


Sfruttando in parte l’ingombro di preesistenze che sorgevano in
quell’area e l’andamento del terreno e di una strada vicinale, Scarpa
accosta all’ampio volume statico e compatto della “basilica” del XIX secolo
una piccola dinamica costruzione ‘cubista’. Essa si attesta su un corpo
parallelepipedo rialzato a base quadrata, forse destinato in un primo
momento ad ospitare il ‘Teseo’, che risalta a distanza la torretta contenente
lo studio di Canova. Agli spigoli del prisma, due coppie di lucernari:
parallelepipedi rientranti a ovest e cubi sporgenti a est. Tra questo blocco
e l’edificio di Francesco Lazzari (Basilica) si snoda la nuova galleria, una
sorta di cannocchiale puntato sulle ‘Tre Grazie’ verso cui discendono,
assecondando le quote dell’area, tre piani digradanti accompagnati da
un abbassamento del soffitto, sottolineato da tre finestre ad asola con
vetri verticali smerigliati, in corrispondenza del più sensibile passaggio
di livello. Scarpa, con un procedimento che gli è abituale, seleziona le
vedute e sceglie in questo caso di escludere alla vista di tessuto urbano
degradato, focalizzandola invece su l’idilliaco paesaggio pedemontano
che pone come sfondo, a inquadrare il gesso della più nota creazione
canoviana. Il tetto accompagna il digradare dei piani, che scendono

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moltiplicando i punti di vista e disponendo le sculture in situazioni tali
da mettere in luce il contrasto fra il candore astratto dei gessi e l’animato
realismo del corpo femminile disteso o eretto.
L’acuità visiva e tattile offerta come un dono dall’architetto al visitatore
fa sì che si possa in quel punto apprezzare come un valore anche la
differenza di patina dei blocchi di calcare interni e di quelli esterni, lavorati
dagli agenti atmosferici. Il muro di pietra dorata è traforato in più punti
all’altezza dell’occhio da piccoli riquadri vetrati, che fanno penetrare
la luce e uscire lo sguardo sul fianco bugnato della parallela gipsoteca
di cent’anni prima. Nella “calle”, la pavimentazione a ciottoli bianchi e
neri riprende il disegno di quelle nell’atrio della casa e nel piazzale del
tempio. All’interno di questo gioiello minuto e solenne, complessissimo
e semplice, le opere d’arte – appartenenti tutte a un unico artista e
ricollegabili a poche tipologie – possono avere una disposizione meno
individualizzata che in altri musei scarpiani.

GIPSOTECA CANOVIANA, IL TEMA DELLA LUCE


La luce, innanzitutto, è la protagonista assoluta dell’Ala Scarpa, in grado
di produrre una lettura a tutto tondo dei gessi di Canova: il modello
de Le Grazie, Amore e Psiche stanti, le danzatrici, le figure distese e
soprattutto tutti quei bozzetti in terracotta inseriti nelle bacheche di
nuova progettazione e finalmente valorizzati grazie alla riscoperta
operata dalla critica. Ne risulta un museo ‘vivente’ dove il protagonismo
è dichiaratamente affidato alla luce che riesce a imprimere anche il
visitatore che ha a sua disposizione uno spazio in cui agire muovendosi
all’interno di un palcoscenico costruito per piani, superfici, materiali e
soprattutto attraversato da tanta luce che si espande e modifica la scena
ogni istante del giorno e della notte.

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La modellazione di uno spazio luminoso articolato e variabile, motiva
le aperture dell’involucro edilizio, che Scarpa progetta ritagliando gli
angoli delle stanze in modo da formare dei triedri trasparenti. Queste
aperture riducono l’effetto di abbagliamento che deriva dal contrasto,
presente nelle normali finestre al centro della parete, fra la luce del foro
e l’ombra del muro che lo circonda. In questa situazione la fonte di luce
trova sempre un piano diffusore perpendicolare, perciò nelle migliori
condizioni per mettere in luce lo spazio. Il taglio di queste finestre
produce uno straordinario risultato architettonico.
Vero filo conduttore del pensiero architettonico è la decisione, allora
assai ardita, di non cercare di staccare le sculture, perlopiù gessi bianchi,
su pareti scure ma di immergerle in uno spazio interamente bianco, le
cui superfici vengono rifinite in modo da trarre il massimo profitto della
luce naturale, proveniente soprattutto, ma non esclusivamente, dall’alto.

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Nella campagna veneta, a poca distanza da Asolo, si trova il piccolo
cimitero di San Vito di Altivole. Il complesso segue le forme tradizionali
dei piccoli cimiteri di paese: pianta rettangolare contenente diverse
tombe di famiglia, loculi singoli e tumulazioni a terra.
Tutto il perimetro è segnato da un muro intonacato e l’estesa area rurale
che lo circonda garantisce un luogo di pace e serenità a chi dedica del
tempo per visitare i propri cari.
Questa è la situazione che l’architetto, Carlo Scarpa, incontra nel 1969
quando iniziano i lavori per la tomba monumentale dei coniugi Brion.
Come abbiamo già descritto l’intervento consiste in un ampliamento
della parte esistente e Scarpa decide di avvolgere il vecchio cimitero nei
suoi due lati a nord-est con un’opera totalmente diversa.
Il progettista però non vuole che le due parti siano completamente
distanti e diversificate crea infatti un collegamento fra il nuovo e il
preesistente: inserisce un passaggio all’interno del vecchio cimitero e
costruisce una cappella per le celebrazioni pubbliche, dando quindi al
cimitero una funzione pubblica nuova.
Il nuovo complesso ha una forma totalmente diversa dall’esistente,
sicuramente per estensione, si tratta di 2000 m2, ma anche per
monumentalità.
A prima vista vediamo chiaramente la differenza di forma e materia del
muro di cinta, l’esistente rigido, simmetrico e intonacato che si oppone
al cemento armato a vista inclinato della nuova zona.
Le zone dedicate al riposo dei defunti sono pensate in modo diverso da
una qualsiasi tomba di famiglia, i parenti non vengono accolti in un’unica
camera ma i coniugi sono uniti e distanti dai familiari.
Possiamo riassumere quindi che Scarpa realizza un ampliamento di un
complesso esistente ma non cerca in nessun modo di omologare la

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nuova costruzione al tradizionale cimitero, realizza anzi un’opera diversa
e volutamente opposta.
Il secolo precedente aveva visto il nascere di diversi dibattiti sulle
teorie del restauro e della conservazione dei monumenti, in questo
caso il progettista avrebbe potuto lavorare in diversi modi ed è nostro
interesse paragonare l’intervento analizzato con il pensiero di uno dei
più importanti teorici in materia del XIX secolo.
Camillo Boito fu un architetto lombardo di cui ricordiamo particolarmente
il contributo di trattatista e storico; possiamo anche trovarlo nella
redazione del voto conclusivo del 3°Congresso degli Ingegneri e Architetti
Italiani tenutosi a Roma nel 1883.
Nel Congresso lo storico introduce il concetto della distinguibilità tra
parti storiche e aggiunte contemporanee, “Si potrebbe a questo nostro
dialogo piantare in testa per epigrafe una sentenza cinese: Vergogna
ingannare i contemporanei; vergogna anche maggiore ingannare i
posteri” questa è una delle frasi che appare in Nuova Antologia e sembra
delineare il pensiero dell’architetto in merito agli ampliamenti su parti
esistenti.
In realtà possiamo notare che nella parte pratica il comportamento
assunto è differente, come ad esempio l’aggiunta dello scalone laterale
nell’edificio gotico di Palazzo Cavalli-Franchetti a Venezia.
Nel 1865 anche Boito viene incaricato della realizzazione di un cimitero
monumentale ma non possiamo utilizzarlo come paragone, essendo
questa una nuova costruzione e, quindi, non potendo sapere come
avrebbe lavorato nel caso in cui ci fossero state delle preesistenze.
Non abbiamo scritti che parlano chiaramente del pensiero dello
storico riguardo gli ampliamenti ma possiamo immaginare che la netta
differenziazione di materia e forma utilizzata da Scarpa sarebbe stata

71
approvata dal noto trattatista.
La storia del cimitero di San Vito non finisce qui però, nel 2018 viene
commissionato il restauro del complesso monumentale di Scarpa, voluto
da Ennio Brion e realizzato da Guido Pietropoli, allievo e collaboratore di
Carlo Scarpa.
Lo Studio Pietropoli si è basato su una minuziosa consultazione degli
archivi dei disegni originali e solo successivamente agli interventi di
ripristino e consolidamento.
Come già spiegato gli interventi hanno riguardato principalmente il
padiglione sull’acqua, i manufatti in cemento, i mosaici e la cupola lignea
della chiesetta.
In totale tre anni di lavori con il seguente programma: per prime le parti
in legno e metallo; poi gli interventi sulle opere in cemento armato
preceduti da un anno di test e campionature, come da accordi con la
Soprintendenza, le cui superfici sono state trattate con biocidi ecologici a
base di origano, data la presenza di colture biologiche attorno all’area del
cimitero, e micro sabbiature con gusci di noce per conservare l’impronta
delle casseforme.
Nel complesso parliamo quindi di un restauro conservativo che concentra i
suoi interventi nella conservazione dell’impatto estetico del monumento,
non vengono fatti lavori strutturali e non abbiamo aggiunte.
Vediamo quindi proprio in questo restauro le filosofie di Boito applicate,
il monumento necessita di riparazione e manutenzione prima di un vero
e proprio restauro ma, cosa più importante, è la conoscenza scientifica
del luogo e del complesso su cui si va a lavorare che determina la buona
riuscita dell’intervento. Sono stati gli studi di Pietropoli e il rispetto per
le tecniche costruttive tradizionalmente adottate nel Veneto che hanno
permesso all’opera di mantenere vivo il legame tra essa e il suo progettista.

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https://ilgiornaledellarchitettura.com/2021/09/15/tomba-brion-restauro-di-
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gipsoteca-canoviana/

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