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Gli autori hanno lavorato insieme a questo libro per diversi anni. Purtroppo, pochi giorni dopo
la chiusura del volume e l’avvio delle stampe, Luigi Bobbio è improvvisamente mancato. È a Luigi
che dedichiamo il manuale, perché gli siamo completamente debitori dell’idea iniziale,
dell’entusiasmo necessario ad affrontare l’impresa, del rigore e dello spirito critico con cui sono stati
scritti e riscritti i vari capitoli, delle conoscenze e dell’esperienza accumulate lungo una vita di
studio e di lavoro sul campo.
Gianfranco e Stefania
Luigi Bobbio
Gianfranco Pomatto
Stefania Ravazzi
Le politiche
pubbliche
Problemi, soluzioni, incertezze, conflitti
© 2017 Mondadori Education S.p.A., Milano
Tutti i diritti riservati
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Capitolo 6. La formulazione
1. La questione dell’incertezza
2. La razionalità onnicomprensiva
3. La razionalità limitata
4. L’incrementalismo
5. L’ambiguità e il modello «bidone della spazzatura»
6. Nei panni dei policy makers: situazioni diverse, processi diversi
Capitolo 8. L’attuazione
1. Che cos’è l’attuazione?
2. La complessità dell’azione congiunta
3. Gli interessi degli attori
4. Le strutture di implementazione
5. La discrezionalità dei burocrati
6. Nei panni dei policy makers: quali strategie di azione adottare?
Capitolo 9. La valutazione
1. Che cosa possiamo valutare
2. Valutare le prestazioni
3. Valutare gli effetti
4. Capire i meccanismi
5. Valutazione e policy making
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice analitico
Capitolo 1
Che cos’è una politica pubblica
1. Alla ricerca di una definizione: «ciò che fanno i governi»
2. Alla ricerca di una definizione: «la risposta a un problema collettivo»
3. Le politiche e la politica
4. Le politiche e le leggi
5. Le politiche come ipotesi
6. Le politiche come cicli
7. Perché occuparsi delle politiche pubbliche
8. Perché occuparsene in Italia
1. Pedaggio in città. A Singapore, Londra, Oslo, Milano e in altre metropoli, chi entra in
automobile nella città o nel suo centro storico deve pagare un pedaggio. Questa misura si
prefigge di migliorare la qualità dell’aria e ridurre la congestione.
2. Reddito minimo garantito. Alcuni paesi hanno introdotto da tempo il cosiddetto reddito
minimo garantito (chiamato anche reddito di cittadinanza): ai disoccupati e a coloro che
svolgono lavori saltuari e mal pagati, lo stato offre un contributo mensile che permetta loro di
raggiungere un livello minimo di reddito. Spesso i beneficiari devono impegnarsi a seguire
corsi di formazione o a partecipare a programmi finalizzati al reinserimento lavorativo.
3. Innovazione industriale. Per favorire la competitività delle imprese, Stati e Regioni hanno
introdotto incentivi per stimolare l’innovazione industriale, finanziando progetti di ricerca e
sviluppo promossi congiuntamente da imprese, università e centri di ricerca.
4. Riscaldamento globale. Da più di 20 anni tutti i governi del mondo si riuniscono
periodicamente per decidere come contrastare il riscaldamento del pianeta. Gli impegni presi
a livello internazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 devono essere messi
concretamente in pratica in ciascun paese, anche se non vige un sistema internazionale di
sanzioni per i paesi inadempienti.
5. Figlio unico. Per contrastare l’aumento della popolazione, la Cina aveva introdotto nel 1979
l’obbligo del figlio unico per tutte le famiglie. La misura ha prodotto, alla lunga, gravi
inconvenienti e 36 anni dopo è stata modificata: ora alle famiglie cinesi è consentito avere due
figli.
6. Fondi strutturali. In Europa esistono grandi disparità di tipo economico che è interesse
comune cercare di colmare. Circa un terzo del bilancio dell’Unione europea (UE) è costituito
da fondi (detti fondi strutturali) che sono impiegati per finanziare progetti a favore delle
regioni meno sviluppate dell’UE (per esempio quelle dei paesi dell’Est e, in Italia, alcune
regioni del Sud).
7. Terrorismo internazionale. Tutti gli stati europei sono alla ricerca di misure che possano
servire a contrastare e soprattutto prevenire il terrorismo internazionale di matrice islamista.
Si tratta di un obiettivo complicato, soprattutto perché è difficile ricostruire la catena di cause
e motivazioni che generano questi atti terroristici.
Queste sette notizie si riferiscono a interventi molto diversi tra di loro: ce ne sono alcuni
adottati (o proposti) su scala internazionale (esempi 4, 7), altri su scala europea (esempio 6),
nazionale (esempi 2, 3, 4, 5, 7), regionale (esempio 3, 4) o comunale (esempio 1). Queste misure,
inoltre, riguardano settori diversi. Per esempio, le misure contro il riscaldamento globale
interessano campi quali l’ambiente, i trasporti, l’energia, lo sviluppo economico; gli interventi per
contrastare e prevenire il terrorismo internazionale possono toccare campi quali l’integrazione
degli stranieri, i flussi di migranti, la sicurezza nazionale, gli scambi commerciali, i servizi
pubblici nelle città, ecc.
E tuttavia, malgrado tali differenze, questi sette casi hanno qualcosa in comune: si riferiscono
tutti a politiche pubbliche. Potremmo infatti parlare di «politica per la limitazione del traffico»
nell’esempio 1, di «politica per il reddito minimo» nell’esempio 2, di «politica per l’innovazione»
nell’esempio 3, di «politiche contro il riscaldamento globale» nell’esempio 4, ecc.
Che cos’è dunque una politica pubblica?
Esistono due famiglie di definizioni di politica pubblica. La prima famiglia pone l’accento sul
soggetto che le formula e le mette in atto: da questo punto di vista ciò che caratterizza le politiche
pubbliche è il fatto che si tratta di azioni o interventi decisi e realizzati da istituzioni pubbliche nel
quadro della loro azione di governo. Per esempio, una delle definizioni più brillanti e più
semplici è quella proposta dallo studioso americano Thomas Dye: «Le politiche pubbliche sono
ciò che i governi scelgono di fare o di non fare» (1976, p. 1).
La parola «governo» è qui usata (come avviene di solito in inglese) in senso ampio: non si
riferisce specificamente all’esecutivo, come avviene in italiano, ma all’insieme delle istituzioni che
contribuiscono a definire l’azione pubblica (gli organi esecutivi, le assemblee legislative, la
magistratura, la pubblica amministrazione, ecc.). Invece di dire «ciò che i governi fanno», noi
potremmo dire: «ciò che lo Stato fa», se vogliamo riferirci alle politiche dello stato nazionale,
oppure «ciò che l’Unione europea fa», «ciò che la Regione fa», «ciò che il Comune fa» se
vogliamo riferirci rispettivamente alle politiche europee, regionali o comunali. Quest’ultimo
accenno ci aiuta a capire perché Thomas Dye parla di «governi» al plurale: ogni singolo cittadino
americano è il destinatario di politiche pubbliche che sono decise o messe in atto da governi
diversi: da quello federale, da quello del suo Stato o del suo Comune. Lo stesso vale per ogni
cittadino europeo, che è contemporaneamente destinatario di politiche europee, nazionali,
regionali e comunali. Possiamo dire che ogni cittadino è governato da più governi, ciascuno dei
quali agisce entro il proprio territorio e entro la propria sfera di competenza.
Quando analizziamo le politiche pubbliche noi vediamo all’opera più istituzioni
contemporaneamente. Per esempio, nella lotta contro l’inquinamento dell’aria, che è uno dei
tanti temi controversi e di difficile soluzione, sono coinvolti sia l’Unione europea, sia gli Stati, le
Regioni e i Comuni. È il contributo di ognuno e il rapporto che ciascun livello di governo
intrattiene con gli altri che determina gli eventuali successi o fallimenti della politica. Ma anche
nel caso delle politiche pensionistiche, che sono solitamente di competenza esclusiva degli Stati,
le misure che vengono effettivamente praticate sulla platea dei beneficiari, sull’entità delle
pensioni, sull’età pensionabile, ecc., dipendono dalle scelte dei poteri esecutivi (in particolare i
ministeri competenti), dei parlamenti (in particolare dalle commissioni competenti), dalle
informazioni prodotte dagli enti previdenziali che raccolgono i contributi ed erogano le pensioni,
dalle sentenze delle corti costituzionali o di giustizia che interpretano e talvolta annullano
disposizioni di legge e modificano quindi i regimi pensionistici e, infine, dai vincoli sulla finanza
pubblica posti in sede europea. Possiamo quindi sintetizzare il pensiero di Dye affermando che le
politiche pubbliche sono per lo più intergovernative o multilivello, ossia sono il frutto di scelte
compiute da più istituzioni, spesso poste a livelli territoriali diversi.
Nella sua definizione, Thomas Dye aggiunge che per politica pubblica deve intendersi non
solo ciò che i governi fanno, ma anche ciò che non fanno. Anche l’inerzia è un fatto che genera
conseguenze. Se di fronte all’aumento dello smog in una città il governo comunale decide di
lasciar correre per non inimicarsi i negozianti o gli automobilisti, sperando che la situazione
migliori spontaneamente, ha compiuto comunque una scelta che avrà i suoi effetti. Del resto, ci
sono molti problemi scottanti che i governi preferiscono non affrontare o rinviare. Anche queste
scelte che consistono nel non scegliere produrranno qualche risultato sul problema originario:
potranno per esempio incancrenirlo o, viceversa, farlo dimenticare all’opinione pubblica. Molto
spesso si sentono dire frasi del tipo: «l’Italia non ha una politica di difesa del suolo dalle
alluvioni», oppure «l’Italia non ha una politica industriale». Con queste espressioni si intende
sottolineare polemicamente che il nostro paese non è attrezzato per far fronte alle alluvioni che si
verificano sempre più spesso, o che non ha adottato misure specifiche per stimolare e valorizzare
il settore industriale. Invece, anche queste non-azioni, questi interventi mancati, possono essere
considerati come politiche pubbliche a tutti gli effetti. Non diremo perciò che l’Italia non ha una
politica per la difesa del suolo, ma, se mai, che tale politica è sbagliata, confusa, funziona male.
Non diremo che l’Italia non ha una politica industriale, ma che tale politica procede caso per caso
senza un criterio definito o che si preferisce lasciar agire le dinamiche del mercato.
La definizione di Thomas Dye, e le molte altre che mettono l’accento sul governo in quanto
soggetto che fa (o non fa) determinate scelte, è molto importante, perché aiuta a vedere l’aspetto
dinamico delle istituzioni pubbliche. Normalmente, invece, noi ne vediamo soprattutto l’aspetto
statico. Se prendiamo in mano un manuale di diritto pubblico o di diritto costituzionale,
troviamo una descrizione molto precisa di come sono fatte le istituzioni pubbliche e dei poteri di
cui dispongono (potremmo dire «ciò che lo Stato è»). Troviamo per esempio una descrizione
dell’Unione europea, dello Stato italiano, delle Regioni e dei Comuni. Per ciascuna istituzione
sono indicati gli organi da cui è composta, le competenze di cui dispone, ossia i campi su cui può
intervenire, e gli atti giuridici che può compiere (leggi, decreti, regolamenti, deliberazioni, ecc.).
Tutto questo ci dice come sono fatte le istituzioni e di quali poteri dispongono, ma non ci dice
nulla su come agiscono effettivamente per far fronte all’emergere di problemi collettivi, per
esempio per favorire l’occupazione, per contrastare l’inquinamento, per gestire i flussi migratori
o per favorire l’accesso dei cittadini a internet.
Facciamo un paragone con il gioco del calcio. Un conto è conoscere le regole del gioco, le
caratteristiche tecniche dei singoli giocatori, nonché le strategie messe in atto dagli allenatori di
ciascuna squadra, un altro conto è prevedere il concreto svolgimento di una partita. In presenza
delle stesse caratteristiche di fondo, potranno essere giocate infinite partite diverse che potranno
concludersi con risultati opposti. Lo stesso accade con le istituzioni pubbliche. La loro
organizzazione e i loro poteri costituiscono, per così dire, l’hardware, ma le scelte che esse
compiono dipendono anche dal software (REGONINI 2001, p. 10) che esse usano, ossia dalle
conoscenze di cui dispongono, dal modo con cui definiscono i problemi, dalla loro capacità di
diagnosi, di ascolto e di negoziazione, dal loro approccio più o meno lungimirante, dal fatto che
siano riuscite o no ad apprendere dai precedenti insuccessi e così via. La definizione di Dye ha il
pregio di far luce proprio su questo aspetto. Detto in altri termini, studiando le politiche
pubbliche noi osserviamo le istituzioni in movimento, ossia come si attivano per far fronte,
poniamo, alla crisi di una banca che rischia di mandare in rovina centinaia di migliaia di
risparmiatori, alla presenza di amianto in edifici pubblici e privati, agli ingorghi che ogni
domenica sera si manifestano sulle strade del «rientro», agli squilibri del sistema pensionistico, o
alla persistenza della crisi economica. Osserviamo lo Stato in azione (JOBERT − MULLER 1987).
Possiamo dire che le politiche non sono nient’altro che l’azione pubblica (GAUDIN 2004).
Tuttavia, questa definizione ha un difetto. Se le politiche sono fatte dai governi, esse non sono
fatte solo dai governi. Molti altri soggetti (gruppi di pressione, associazioni, sindacati, movimenti,
esperti, media, blogger, singoli cittadini) contribuiscono – spesso con un ruolo determinante e in
conflitto tra di loro – alla formazione e all’attuazione delle politiche pubbliche. I governi sono
solo uno degli attori che si muovono all’interno di un gioco molto più variegato e complesso che
viene chiamato governance, in contrapposizione a government (ossia le istituzioni di governo),
come vedremo meglio nel Capitolo 2. Una buona definizione di politica pubblica non dovrebbe
dare per scontato che i governi (governments) abbiano necessariamente una posizione esclusiva.
Per risolvere questa difficoltà, possiamo cercare di rovesciare la prospettiva. Invece di definire
le politiche pubbliche in base al soggetto che le produce, possiamo definirle in base al loro oggetto,
ossia in che cosa consistono. È quello che fa la definizione proposta da Bruno Dente, che riprende
a sua volta l’impostazione di vari studiosi americani (ad esempio DUNN 2004):
una politica pubblica è l’insieme delle azioni […] in qualche modo correlate alla soluzione di un problema collettivo […]
che sia generalmente considerato di interesse pubblico (1990, p. 15, corsivo nostro).
Nel Capitolo 3 discuteremo di come nascono i problemi pubblici, come vengono formulati o
definiti, perché certi problemi vengono affrontati e altri non vengono presi in considerazione.
Qui basta ricordare che, secondo questa seconda famiglia di definizioni, ciò che caratterizza le
politiche pubbliche è il fatto di proporsi come soluzione a un problema che è percepito come
collettivo. Se riguardiamo gli esempi presentati all’inizio del capitolo, non è molto difficile
individuare i problemi a cui gli interventi pubblici cercano, di volta in volta, di rispondere:
l’inquinamento e la congestione del traffico nell’esempio 1, le difficoltà in cui si trovano le
persone prive di reddito nell’esempio 2, l’insufficiente capacità competitiva delle imprese
nell’esempio 3, e così via. In base a questa definizione, i confini di una politica pubblica non sono
dati da chi la «fa», che si tratti di istituzioni pubbliche, attori privati o entrambi, ma dal problema
di interesse pubblico che la politica cerca di affrontare. Se, per esempio, i famigliari di malati di
sclerosi laterale amiotrofica (SLA) si associano (com’è effettivamente successo in diversi paesi)
per raccogliere fondi a favore della ricerca su questa patologia e per chiedere maggiore assistenza
da parte dello Stato, è possibile tracciare i confini di una nuova politica pubblica che si propone
di affrontare quello specifico problema, ossia la condizione delle persone affette da una malattia
grave e particolarmente rara. Questa politica riuscirà effettivamente a funzionare se le istituzioni
pubbliche la faranno, anche parzialmente, propria, ma è l’iniziativa delle famiglie che ha
cominciato a farla vivere. In altre parole, possiamo dire che la politica in questione non è nata per
effetto di provvedimenti pubblici, ma esiste perché i soggetti esposti a tale problema lo hanno
rivendicato come un problema collettivo meritevole di essere affrontato attraverso misure di
intervento pubblico. In questo manuale, per indicare gli attori che «fanno» o contribuiscono a
«fare» le politiche pubbliche useremo l’espressione inglese policy makers che ha il vantaggio di
essere generica, ossia di non specificare la natura e la caratteristica di questi soggetti.
Se le politiche pubbliche possono essere definite come quelle iniziative che cercano di dare
una risposta a un problema collettivo, ciò non significa che esse siano sempre in grado di trovare
una soluzione pertinente. Anzi. Le politiche possono fallire, mancare completamente i propri
obiettivi o raggiungerli solo in parte. D’altronde, i grandi problemi ambientali, economici e
sociali – la povertà, le migrazioni, l’inquinamento, la disoccupazione, il riscaldamento globale, la
criminalità, il terrorismo internazionale, per citarne solo alcuni – non potranno mai essere del
tutto risolti. Come osservò Richard Nelson (1968) nel suo libro The Moon and the Ghetto,
abbiamo la tecnologia per andare sulla luna, ma non quella per eliminare le condizioni di
estremo disagio che si manifestano nei quartieri-ghetto. Dobbiamo provarci, naturalmente. Ma è
probabile che i risultati saranno, almeno in parte, insoddisfacenti.
Le due famiglie di definizioni guardano alle politiche pubbliche partendo da un punto di
osservazione diverso (il soggetto che le produce o il loro oggetto) e quindi attirano la nostra
attenzione su due aspetti diversi. Per certi versi, questi due tipi di definizioni sono
complementari, come risulta da un recente manuale scritto da vari studiosi europei, in cui le
politiche pubbliche sono definite come
una serie di decisioni o attività intenzionali e coerenti prese e messe in atto da diversi attori pubblici e, talvolta, privati […]
con l’obiettivo di risolvere in modo mirato un problema che è stato politicamente definito come di natura collettiva
(KNOEPFEL et al. 2011, p. 24, corsivo nostro).
◼ 3. Le politiche e la politica
La parola politica che abbiamo finora usato nel senso di politica pubblica ha, ovviamente,
anche altri significati. Osserviamo come essa viene usata nelle seguenti frasi:
È evidente che nelle prime tre frasi la parola «politica» indica quello che nei paragrafi
precedenti abbiamo definito come politica pubblica: la prima frase si riferisce alle azioni da
intraprendere per affrontare a livello europeo il problema dell’immigrazione; la seconda agli
interventi che si propongono di migliorare la situazione economica; la terza alle misure per
rendere più efficiente il sistema dei trasporti nell’area metropolitana napoletana. Nelle tre frasi
successive, la parola politica ha un significato diverso. Indica la sfera in cui si svolge la lotta per la
conquista del potere, in cui operano i partiti politici, si formano e si rompono le alleanze, si
combattono diverse visioni generali (ad esempio tra destra e sinistra, tra fautori dello stato e
fautori del mercato, tra laici e credenti), si svolgono le campagne elettorali, si compete per il
consenso degli elettori.
Il fatto che esista una sola parola («politica») per indicare due fenomeni diversi è un
problema che la lingua italiana condivide con molte altre lingue, per esempio con il francese, lo
spagnolo o il tedesco. L’inglese, invece, dispone di due parole diverse, derivanti entrambe dalla
parola greca pólis (città). Politics indica il mondo della politica, policy è il termine usato per
definire le politiche. La parola policy viene usata in inglese anche con altri significati, per esempio
come «linea di condotta» o «regola di comportamento»: è quello che succede quando un’impresa
dice: «questa è la nostra policy». Però, espressioni come public policy, social policy, environmental
policy si riferiscono senza ambiguità alle politiche pubbliche (sociali, ambientali). Se volessimo
tradurre in inglese le sei frasi, dovremmo quindi rendere la parola politica con policy nelle prime
tre e con politics nelle seconde tre.
Se è bene tener separati i due fenomeni (la politica e le politiche) per evitare qualsiasi
confusione, è anche vero che essi sono tra loro collegati. Ma in che modo? Se guardiamo
all’ordinamento costituzionale degli stati democratici, è del tutto evidente che le politiche
pubbliche si configurano come un prodotto della politica. Infatti, i partiti che vincono le elezioni
sono chiamati a governare e a mettere in atto le misure che hanno indicato nel loro programma
elettorale e che sono state implicitamente approvate dagli elettori. Le politiche pubbliche
costituiscono perciò l’effetto dei giochi che si svolgono nella sfera politica, degli orientamenti e
dei programmi dei partiti che risultano vincitori nella competizione elettorale e che assumono
perciò la guida del paese (o della Regione, del Comune, dell’UE). Le scelte di governo sono
compiute dai governi; la politica viene prima e le politiche vengono dopo; ne sono una
conseguenza. In questa prospettiva, la politica determina le politiche (figura 1).
Figura 1
La relazione tra politica e politiche secondo l’ordinamento costituzionale.
Questa è tuttavia soltanto una delle possibili relazioni tra la politica e le politiche. Avremo
modo di vedere (Capitolo 3, § 3) che sono state proposte teorie che mettono in discussione
questo assunto o addirittura lo capovolgono. L’analisi delle relazioni tra politica e politiche è uno
dei temi cruciali degli studi sulle politiche pubbliche.
◼ 4. Le politiche e le leggi
Qualche anno fa, al primo giorno di lezione, uno degli autori di questo libro chiese a
bruciapelo agli studenti: «Secondo voi, quando parliamo di politica ambientale, a che cosa ci
riferiamo?». Una studentessa rispose: «All’insieme delle leggi che riguardano l’ambiente». Aveva
ragione?
La risposta riflette l’approccio giuridico che è dominante in Italia e in altri paesi europei
soprattutto nelle amministrazioni pubbliche (non a caso quella studentessa era una funzionaria
della Provincia). In realtà, le politiche pubbliche non coincidono con le leggi. Le leggi sono
provvedimenti formali di portata generale adottati, secondo procedure ben definite, dai
parlamenti degli Stati (ci sono anche leggi fatte dall’Unione europea – si chiamano direttive o
regolamenti – e, in Italia, dalle Regioni) che contengono norme giuridiche, in cui vengono
stabiliti obblighi e divieti e vengono stanziati fondi pubblici. Ad esempio, nel caso della gestione
dei rifiuti la legge italiana (in realtà queste norme sono contenute in più leggi adottate in anni
diversi) stabilisce – tra l’altro – che le Regioni devono predisporre un piano per lo smaltimento
dei rifiuti, che i Comuni devono raggiungere una certa percentuale di raccolta differenziata e che
devono chiudere progressivamente le discariche. Ma all’interno di questo quadro giuridico
generale, possono essere compiuti interventi molto diversi, tant’è vero che alcuni Comuni
riescono a ridurre al minimo i rifiuti indifferenziati da bruciare o da collocare in discarica,
mentre altri pagano per mandare all’estero ingenti quantità di spazzatura. Infatti, una volta
stabilite le prescrizioni generali contenute nella legge, molte altre cose devono essere fatte: per
esempio l’assunzione di personale competente, l’acquisto dei macchinari, lo sviluppo di
campagne di informazione tra i cittadini, la creazione di aziende che si occupino di questi
interventi, ecc. Tutte queste cose (e altre ancora) richiedono l’adozione di altri provvedimenti,
più specifici, da parte per esempio del governo, della Regione, del sindaco, del consiglio
comunale, dei dirigenti del Comune, degli amministratori dell’azienda che gestisce i rifiuti. A
seconda di come verranno prese queste decisioni, potremo avere risultati molto diversi nella
gestione dei rifiuti.
Quando parliamo di politiche pubbliche, ci interessa esaminare tutto quello che viene
effettivamente fatto per affrontare il problema di partenza, non solo ciò che è stato stabilito dalle
leggi. Detto in altre parole, le politiche sono un processo, che inizia con la nascita del problema e
termina con la produzione di risultati (per poi ricominciare: in realtà si tratta di un processo a
ciclo continuo). La legge può costituire un ingrediente di questo processo, dal momento che a un
certo punto può essere necessario fissare in modo chiaro nuovi obblighi e divieti ed
eventualmente stanziare nuovi finanziamenti; ma per chi studia le politiche è altrettanto
importante conoscere quello che succede prima dell’approvazione di una legge, ossia la
definizione del problema, la discussione sulle possibili soluzioni, e quello che succede dopo, ossia
le decisioni e le azioni successive che vengono intraprese e i risultati che vengono raggiunti.
Occuparsi di una politica pubblica significa ricostruire tutto questo percorso, tenendo conto che
l’aspetto veramente importante è quello che si vede alla fine, ossia il cambiamento che è stato o
non è stato prodotto.
Possiamo affermare che una politica pubblica consiste in una misura o in una serie di misure
che appaiono appropriate per affrontare un problema collettivo. Le misure possono essere
costituite da ordini, divieti, incentivi, elargizione di contributi, campagne di persuasione,
erogazione diretta di servizi e molto altro ancora (le illustreremo diffusamente nel Capitolo 5).
Ogni politica si basa pertanto sulla seguente teoria causa-effetto:
se viene messa in atto la misura x al tempo t1, si verificherà l’effetto y al tempo t2
dove x è la soluzione che è stata individuata per far fronte a un certo problema e y è il
mutamento che dovrebbe risolvere o, per lo meno, attenuare il problema stesso (PRESSMAN –
WILDAVSKY 1973).
Per esempio, per riprendere i casi citati all’inizio del capitolo, se imponiamo un pedaggio a
chi entra in auto nel centro di una città, ci aspettiamo di ottenere una diminuzione
dell’inquinamento e della congestione; se viene garantito a tutti un reddito minimo, ci aspettiamo
che i disoccupati possano cercare un lavoro senza cadere nell’indigenza; se mettiamo
sistematicamente in contatto le imprese con università e centri di ricerca, esse saranno in grado
di introdurre innovazioni nei loro processi o nei loro prodotti e migliorerà la loro competitività;
se diminuiscono le emissioni di CO2 nel mondo, il riscaldamento del pianeta subirà una battuta
d’arresto, e così via.
Naturalmente, queste sono solo ipotesi. Potrebbero risultare sbagliate, sia perché gli effetti
ipotizzati possono non verificarsi o verificarsi solo in parte, sia perché accanto agli eventuali
effetti benefici possono verificarsi anche effetti imprevisti che peggiorano la situazione. Per
esempio, l’introduzione del pedaggio potrebbe migliorare il traffico nel centro di una città, ma
peggiorare l’inquinamento e la congestione nelle zone immediatamente esterne all’area proibita;
la disponibilità di un reddito minimo garantito potrebbe indurre i beneficiari ad accontentarsi di
vivere di assistenza, rinunciando alla ricerca di un lavoro, ecc. I problemi economici, sociali e
ambientali sono in genere complessi e non esistono ricette miracolose. Secondo un vecchio
aforisma: «Esiste sempre una soluzione semplice per un problema complesso, ma è quasi sempre
sbagliata».
Il principale meccanismo attraverso cui le politiche pubbliche cercano di far fronte ai
problemi collettivi consiste nel far sì che alcune categorie di persone modifichino il loro modo di
agire. Si tratta di coloro dal cui comportamento può dipendere la mitigazione o l’aggravamento
del problema e che spesso, ma non sempre, sono considerati responsabili dell’esistenza del
problema. Li definiamo come gruppi destinatari della politica o target groups: è a essi che le
misure si rivolgono. Per esempio, una politica pubblica può cercare di ottenere che i cittadini
usino meno l’automobile (e di più la bicicletta) perché migliori la qualità dell’aria in città; che i
tossicodipendenti accettino di disintossicarsi per ottenere la diminuzione del consumo di droghe
e la riduzione del mercato illegale; che i medici evitino di prescrivere esami non necessari per
migliorare il bilancio della sanità; che le imprese utilizzino sostanze meno inquinanti, anche se
più costose, per ridurre l’inquinamento; che i produttori di energia aumentino il ricorso a fonti
rinnovabili per combattere il riscaldamento globale; che gli evasori comincino a pagare le tasse
per poter diminuire le imposte a tutti gli altri cittadini; che i grandi operatori del web distruggano
parte dei dati che accumulano per garantire una maggiore privacy dei loro utenti, ecc. Insomma,
il miglioramento della situazione dipende dal fatto che alcuni gruppi cambino il loro modo di
agire.
Ci sono casi in cui i destinatari sono ben disposti a cambiare, perché la politica è congegnata
in modo da rendere più facili comportamenti che essi avrebbero comunque avuto interesse a
tenere. Per esempio, anni fa, per favorire lo sviluppo dell’industria automobilistica, lo Stato
italiano offrì ai proprietari di vecchie automobili incentivi per la rottamazione. Questo intervento
ebbe un grande successo perché molti proprietari non vedevano l’ora di cambiare la loro auto e
approfittarono subito delle condizioni vantaggiose offerte dallo Stato. Ma spesso non è così. Per
riprendere gli esempi di prima, far cambiare il comportamento agli automobilisti, ai
tossicodipendenti, ai medici, alle imprese, ai produttori di energia, agli evasori oppure a Google,
Amazon e Facebook può non essere per niente facile. È probabile che i destinatari della politica
cercheranno di impedire che le misure vengano adottate o resisteranno alla loro attuazione,
anche con ottime ragioni: per esempio per evitare costi, disagi o rischi aggiuntivi. Questo ci fa
capire che le politiche pubbliche, in quanto cercano di promuovere il cambiamento, tendono
spesso a incontrare grossi ostacoli da parte degli interessi costituiti.
Se il cambiamento del comportamento dei destinatari avviene in misura significativa, si può
supporre che ci sarà chi ne avrà un vantaggio, per esempio perché l’aria sarà più pulita, si ridurrà
il mercato della droga, diminuiranno gli sprechi nella sanità, sarà maggiormente tutelata la
privacy su internet, ecc. Designiamo questa categoria di soggetti come gruppo dei beneficiari.
La figura 2 illustra schematicamente queste relazioni presentando il triangolo delle politiche
pubbliche proposto da Peter Knoepfel et al. (2011). I policy makers che troviamo nel vertice in
alto del triangolo definiscono il problema pubblico da risolvere (lato destro del triangolo) e
individuano i soggetti che potrebbero essere avvantaggiati da una sua soluzione, ossia il gruppo
dei beneficiari (vertice in basso a destra). Per fare questo, intervengono sul gruppo dei destinatari
(vertice in basso a sinistra) con vari strumenti (ad esempio mediante divieti, incentivi,
disincentivi, ecc.) perché modifichino il loro comportamento.
Figura 2
Il triangolo delle politiche pubbliche.
Fonte: nostra rielaborazione da KNOEPFEL et al. 2011, p. 57.
A questo punto, si vede che la teoria causa-effetto presentata all’inizio di questo paragrafo
(«se si adotta la misura x si otterrà l’effetto y») è in realtà frutto di un’abbreviazione che opera
una sintesi di due ipotesi diverse:
In altre parole si suppone che la misura adottata sia in grado di indurre gli automobilisti ad
abbandonare l’auto, i tossicodipendenti a curarsi, i medici a prescrivere meno esami, Google a
distruggere i dati, ecc.
– L’ipotesi causale (base del triangolo):
In altre parole si suppone che se gli automobilisti lasciano l’auto a casa, l’aria migliorerà; se i
tossicodipendenti accettano di curarsi, il mercato della droga si restringerà; se i medici
rinunciano a prescrivere esami inutili, i conti della sanità miglioreranno; se Google distrugge
parte dei dati personali, la privacy dei loro utenti sarà maggiormente rispettata.
La formula all’inizio del paragrafo diventa allora:
se viene messa in atto la misura x, i destinatari modificheranno il loro comportamento, e se i destinatari modificheranno il
loro comportamento si verificherà il risultato y.
È inutile dire che entrambe le ipotesi possono essere poco fondate. Può infatti capitare che i
destinatari non modifichino in modo significativo il loro modo di agire e che, anche se tale
cambiamento avviene, esso non sia sufficiente a creare significativi benefici per il grande
pubblico.
Nello schema sono inseriti anche altri due tipi di attori oltre ai destinatari e ai beneficiari. Si
tratta di quegli attori che si configurano come terze parti: non sono direttamente destinatari della
politica pubblica né beneficiari, ma possono trarne – indirettamente – vantaggi e svantaggi.
Torniamo all’esempio di una politica che cerchi di indurre i pazienti a consumare meno
medicine (allo scopo di ridurre i costi del servizio sanitario). I destinatari sono i medici di base
che prescrivono le medicine. I beneficiari sono l’insieme di contribuenti, dal momento che se la
politica ha successo, si ridurranno le spese sanitarie. Ci possono essere però anche soggetti terzi
indirettamente coinvolti. Un soggetto terzo danneggiato può essere costituito dalle case
farmaceutiche che venderanno meno farmaci. Le erboristerie potrebbero, invece, essere un
soggetto terzo avvantaggiato, qualora aumentasse la domanda di medicamenti naturali. I pazienti
possono sentirsi come un soggetto avvantaggiato (perché limitare il consumo di medicine può
fare loro bene) o svantaggiato (perché non otterranno dal medico tutte le medicine che
desiderano).
L’analisi del triangolo delle politiche pubbliche ci mostra che il cambiamento è sottoposto a
svariate insidie. Da un lato, le ipotesi su cui si fondano possono essere in tutto o in parte
sbagliate; dall’altro, l’adozione di qualsiasi politica è accompagnata da conflitti di interesse, di
culture e stili di vita o di valori, tra chi trae vantaggi e chi subisce i costi, tra interessi particolari e
interessi generali, tra diverse visioni del mondo. Le politiche pubbliche sono quindi in genere
controverse nella loro formulazione e incerte nella loro efficacia.
Abbiamo detto che la politica pubblica è un processo («che parte da un problema e arriva a un
risultato»). Ora cerchiamo di capire meglio in che cosa consiste questo processo e attraverso
quale percorso si svolge. Lo schema della figura 3 mostra le sei fasi che le politiche pubbliche
attraversano nel loro ciclo di vita.
Figura 3
Il ciclo di vita delle politiche pubbliche.
Analisi delle politiche pubbliche (dall’inglese: public policy analysis) è la denominazione che
viene comunemente data alla disciplina che studia le politiche pubbliche (ma si possono trovare
altre etichette come policy studies, policy sciences). In realtà non si tratta proprio di una disciplina,
ma piuttosto di un campo di studi che attraversa varie discipline come la scienza politica, la
sociologia, l’economia, la teoria dell’organizzazione, la scienza dell’amministrazione, ecc. Questi
studi hanno preso avvio negli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e poi si
sono diffusi in tutto il mondo. Negli ultimi 40 anni hanno costituito uno dei campi di ricerca più
prolifici: si sono moltiplicati gli insegnamenti universitari, le riviste, le pubblicazioni, i master e i
siti specializzati.
Perché questo crescente interesse? Innanzitutto perché le politiche pubbliche sono diventate
sempre più pervasive. Ormai non c’è aspetto della vita collettiva (e anche individuale) che non sia
in qualche modo toccato da qualche intervento pubblico. Uno dei cambiamenti più spettacolari
avvenuto nell’ultimo secolo è stata la moltiplicazione delle politiche messe in atto dagli stati (e
poi anche dai governi sovranazionali come l’UE o subnazionali come le Regioni e i Comuni).
Questa espansione ha proceduto per tutto il Novecento, ma ha subito una potente accelerazione
nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale (1945-1975) – i cosiddetti «trenta gloriosi»
– quando l’intervento pubblico nell’economia divenne una delle principali strategie di politica
macroeconomica delle democrazie e quando il welfare state si ampliò e consolidò, con
l’introduzione delle pensioni pubbliche, della sanità pubblica e dell’assistenza sociale. Dalla
seconda metà degli anni Settanta, con l’avvento delle politiche neoliberali, introdotte prima in
Gran Bretagna e negli Usa e poi nel resto del mondo occidentale (e non solo), si aprì una fase di
critica al big government, che portò a un progressivo dimagrimento dello stato e al rafforzamento
del mercato. Tuttavia, l’intervento pubblico ha continuato a rimanere molto esteso. Nuovi
problemi pubblici, che prima non esistevano o non erano percepiti come tali, hanno richiesto
l’adozione di nuove politiche, come quelle relative ai problemi ambientali, ai problemi sollevati
dai flussi migratori, dalla crisi economica, dalla criminalità organizzata, per la tutela delle coppie
omosessuali, ecc. Più in generale «ormai ci si aspetta che i politici si assumano la responsabilità di
far fronte a quasi tutti gli aspetti della vita moderna» (FLINDERS 2012, p. 20).
C’è però un secondo motivo che spiega la diffusione degli studi sulle politiche. Si tratta della
preoccupazione per la loro fragilità. Malgrado l’esibizione di sicurezza con cui i politici e i gruppi
di interesse avanzano le loro proposte come se sapessero esattamente «che cosa va fatto», in realtà
l’efficacia delle politiche pubbliche è spesso incerta. Non è raro che esse manchino i loro obiettivi
o che producano esiti deludenti. Spesso devono misurarsi con problemi temibili, poco compresi o
mal definiti. Ci si può chiedere allora: è possibile migliorare le politiche pubbliche? È possibile
aiutare i policy makers a riflettere di più sui problemi e a trovare misure più pertinenti? Negli
Stati Uniti, gli studi sulle politiche pubbliche sorsero proprio con questa vocazione, quando in un
articolo del 1951 il politologo Harold Lasswell invitò gli scienziati sociali ad assumere una policy
orientation, ossia a indirizzare le loro ricerche al miglioramento degli interventi pubblici. Questo
aspetto – diciamo così di «impegno civile» – continua a essere molto importante soprattutto negli
Stati Uniti. Uno dei manuali più diffusi in quel paese comincia affermando:
L’analisi delle politiche pubbliche è una disciplina che consiste nel problem solving […] è un processo di indagine
multidisciplinare che ha lo scopo di creare, valutare criticamente e comunicare l’informazione che può essere utile per
comprendere e migliorare le politiche […] è un processo di indagine impostato per scoprire soluzioni a problemi pratici
(DUNN 2004, pp. 1 e 2, corsivo nostro).
In questa prospettiva, che possiamo chiamare prescrittiva, l’analista delle politiche pubbliche
si propone di aiutare i policy makers a mettere a fuoco i problemi e a formulare politiche utili,
efficaci e rispondenti ai bisogni dei cittadini. È il tipo di studi di orientamento pratico a cui si
dedicano think tanks (vedi Capitolo 2), centri studi di gruppi di interesse o di amministrazioni
pubbliche. Una seconda prospettiva di ricerca, descrittiva-interpretativa, più diffusa nel mondo
universitario, è invece orientata alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni in quanto tali:
ossia come e perché le politiche nascono e si evolvono, chi le produce e mediante quali processi.
Gli approcci e i metodi di analisi utilizzati per questa seconda prospettiva di ricerca sono trattati
nel Capitolo 11.
Anche le ricerche di tipo descrittivo-interpretativo possono avere ricadute di tipo prescrittivo,
ossia possono mettere in luce alcuni cambiamenti che potrebbero essere introdotti per migliorare
le politiche pubbliche. È quello che facciamo anche in questo manuale: tutti i principali capitoli,
che sono condotti sulla base di un’analisi di tipo descrittivo-interpretativo, si concludono con un
paragrafo intitolato «Nei panni dei policy makers» dove si presentano le ricadute sul piano
prescrittivo delle analisi appena svolte.
L’uso della parola «politica» per indicare una politica pubblica (una policy) si è affermata nella
lingua italiana abbastanza recentemente (diciamo: nel corso del Novecento). Oggi quest’uso è
ormai ben radicato nel linguaggio giornalistico, in quello politico e anche nei documenti ufficiali.
La parola «politiche» è entrata nella denominazione di due ministeri: il vecchio ministero del
lavoro e della previdenza sociale che ora si chiama «ministero del lavoro e delle politiche sociali» e
il vecchio ministero dell’agricoltura che ora si chiama «ministero delle politiche agricole,
alimentari e forestali». Se diciamo che in Europa «serve una politica d’immigrazione comune»1, la
maggior parte degli italiani capisce grosso modo che cosa vogliamo dire.
Tuttavia, il concetto di politica pubblica appare ancora lontano dall’essere completamente
acquisito nella pratica politica e amministrativa. Il primo problema è che in Italia la politica –
intesa come politics – ha un ruolo dominante: i conflitti e le alleanze tra i partiti, gli equilibri
politici, le elezioni e i sondaggi elettorali, le dichiarazioni e le controdichiarazioni dei politici, la
personalità dei leader tendono a occupare costantemente la scena e lasciare meno spazio alle
misure che vengono adottate per affrontare i problemi collettivi. Si fa fatica a cogliere la
specificità delle politiche pubbliche e si tende a vederle piuttosto come un’appendice o un
sottoprodotto della politica. I media italiani dedicano molto spazio alla politica e poco alle
politiche, ma anche quando parlano di politiche pubbliche, per esempio della riforma delle
pensioni o del mercato del lavoro, del riconoscimento delle coppie gay o delle misure per limitare
le polveri sottili nelle città, sono più interessati a mettere in luce i conflitti tra i partiti (ossia la
politics), piuttosto che esaminare nel merito come funzionano e quali effetti possono avere sui
problemi che affrontano (BOBBIO – RONCAROLO 2015). L’idea del primato della politica tende a
mettere in ombra le politiche.
C’è una seconda difficoltà. In Italia l’intervento pubblico è valutato prevalentemente
attraverso parametri diversi da quello della capacità di risolvere problemi di interesse pubblico.
Contano di più (REGONINI 2012):
− il parametro giuridico, secondo cui le azioni pubbliche sono valutate in base alla loro
conformità alle norme di legge;
− il parametro finanziario, secondo cui le azioni pubbliche sono valutate in base alla loro
capacità di controllare la spesa e di evitare sprechi;
− il parametro manageriale, secondo cui le azioni pubbliche sono valutate in base all’efficienza
e alla razionalità dell’organizzazione amministrativa.
1. Secondo la definizione di Bruno Dente, ciò che contraddistingue una politica pubblica è il fatto di:
a) essere adottata da un’autorità pubblica
b) affrontare un problema collettivo
c) essere discussa pubblicamente
d) perseguire una finalità politica
2. Nell’edizione italiana di Wikipedia alla voce politica pubblica si legge: «Una politica pubblica è un piano di azioni coordinate
che permette di guidare le decisioni e le azioni di una pluralità di attori, e di ottenere esiti razionali». Alla luce di quanto esposto
nel capitolo, questa definizione non va del tutto bene. Quale delle espressioni usate da Wikipedia non dovrebbe comparire nella
definizione di politica pubblica?
a) esiti razionali
b) azioni
c) pluralità di attori
d) decisioni
3. Nella corrispondente voce dell’edizione francese di Wikipedia, invece, si definiscono le politiche pubbliche come «interventi di
un’autorità investita di poteri pubblici e legittimata a governare su un settore specifico della società o del territorio». A quale delle
due famiglie di definizioni (indicate nei §§ 2 e 3) appartiene questa definizione?
4. L’edizione spagnola di Wikipedia dà la seguente definizione: «Le politiche pubbliche sono i progetti e le attività che uno stato
formula e attua attraverso un governo e un’amministrazione pubblica allo scopo di soddisfare i bisogni di una società». A quale
delle due famiglie di definizioni (indicate nei §§ 2 e 3) appartiene questa definizione?
5. Allo scopo di rilanciare l’edilizia, il governo dà ai proprietari di immobili la possibilità di dedurre dalle imposte le spese di
ristrutturazione dei loro edifici. In questa politica pubblica fanno parte del gruppo dei destinatari:
a) i proprietari di immobili
b) gli inquilini in affitto
c) le imprese di costruzioni
d) il fisco
7. Il governo decide di inasprire le pene per le industrie che diffondono nell’aria emissioni oltre i limiti consentiti allo scopo di
migliorare la qualità dell’aria. Qual è la sua ipotesi di intervento (distinta dall’ipotesi causale)?
a) l’inasprimento delle pene indurrà le imprese a migliorare le emissioni dei loro impianti
b) se le imprese miglioreranno le loro emissioni, la qualità dell’aria migliorerà
c) se la qualità dell’aria migliorerà, diminuiranno le patologie respiratorie
d) non esiste nessuna ipotesi di intervento
8. Nell’esempio n. 1 «Pedaggio in città» all’inizio del capitolo chi sono i destinatari, chi sono i beneficiari, chi sono le terze parti
avvantaggiate e le terze parti danneggiate? Qual è l’ipotesi di intervento? Qual è l’ipotesi causale?
10. Per ciascuna delle seguenti frasi indica se la parola «politica» è usata nel senso di «politics» o nel senso di «policy», mettendo
una x nella colonna appropriata:
politics policy
Serve una nuova politica dei trasporti che sia capace di mettere su rotaia il trasporto di quanti più
beni possibile
La priorità assoluta della politica economica sono le riforme strutturali, indispensabili per uscire
dalla stagnazione
Tra le regioni europee esistono forti disparità di reddito e di opportunità. Con la politica regionale
l’UE trasferisce risorse dalle regioni più ricche a quelle più povere allo scopo di modernizzare le aree
meno prospere e aiutarle a raggiungere il livello di benessere delle altre.
Capitolo 2
Gli attori
1. Un esempio: l’introduzione del pedaggio in città
2. Tipi di attori
3. I politici
4. I burocrati
5. I portatori di interesse (o stakeholders)
6. Gli esperti
7. I giornalisti
8. E i cittadini?
9. Le reti di attori
Questo capitolo è dedicato agli attori che a vario titolo e con diversi gradi di efficacia
prendono parte alla formulazione e all’attuazione delle politiche pubbliche. Cercheremo di capire
chi sono, come si comportano e quali relazioni stabiliscono tra di loro. Sono attori tutti coloro
che agiscono, ossia che dicono o fanno qualcosa per mettere a fuoco un problema o promuovere
una soluzione. A seconda della natura della questione sul tappeto e delle circostanze ambientali si
possono attivare attori di tipo diverso e il loro numero può essere più o meno elevato. In ogni
processo di policy making bisogna quindi esaminare empiricamente, caso per caso, chi ha svolto
un ruolo e in quale fase. Proprio per questo, abbiamo scelto di partire da un esempio
immaginario ma verosimile – l’introduzione del pedaggio in una città europea di grandi
dimensioni – in modo da mostrare chi può contribuire a fare nascere un intervento pubblico e a
dargli una specifica forma. L’esempio ci servirà per capire meglio come possono essere classificati
gli attori, allo scopo di esaminare alcuni tipi che ricorrono con maggiore frequenza.
Proseguiremo cercando di delineare i tratti essenziali delle logiche con cui agiscono e chiuderemo
il capitolo con l’analisi delle relazioni che essi possono intrattenere tra di loro.
Immaginiamo di essere in una città europea con oltre un milione di abitanti il giorno
successivo a quello in cui è stato formalmente adottato un provvedimento che introduce il
pedaggio per gli automobilisti che entrano in città. Sfogliando il quotidiano più diffuso ci
imbattiamo in una lunga intervista al responsabile dell’ambiente nell’esecutivo comunale (in
Italia: assessore).
L’assessore rivendica che il provvedimento approvato a maggioranza dal consiglio comunale
ricalca la proposta che egli aveva avanzato un anno prima, avvalendosi della collaborazione dei
tecnici del Comune competenti in materia di traffico e di viabilità. La decisione è stata adottata
dal consiglio comunale su proposta dell’organo esecutivo del Comune (in Italia: giunta
comunale).
Un ruolo, seppure sullo sfondo, va riconosciuto anche ai livelli di governo europeo e
nazionale, che avevano definito il quadro entro cui il Comune ha potuto prendere le sue
decisioni. Nel corso dell’intervista l’assessore spiega che l’istituzione del pedaggio mira a ridurre
la circolazione di automezzi privati e la concentrazione di polveri sottili nell’aria e che, per
quanto la legislazione europea e nazionale non obblighi i Comuni a introdurre una misura di
questo tipo, il provvedimento è pienamente coerente con quanto previsto da quelle norme. La
direttiva europea in materia, infatti, stabilisce valori soglia e obiettivi di riduzione dei principali
inquinanti. A sua volta la legge nazionale che recepisce la direttiva europea definisce le modalità
con cui i Comuni devono monitorare costantemente la qualità dell’aria e li invita a promuovere
interventi in grado di migliorarla, lasciandoli liberi di scegliere il tipo di intervento che ritengano
più adeguato.
Si può dunque dire che il pedaggio in città è stato il frutto di una lunga catena di azioni da
parte di una pluralità di istituzioni pubbliche. Questa risposta è tuttavia ancora incompleta. Il
processo che ha portato all’introduzione del pedaggio in città è stato più articolato e ha visto
l’intervento anche di altri attori.
Un’associazione ambientalista attiva in città ha avuto un ruolo importante nello smuovere le
acque. Da diversi anni, infatti, portava avanti una campagna di sensibilizzazione della
cittadinanza sulla pericolosità delle polveri sottili, combinando varie modalità di mobilitazione –
dai flash mob, alla raccolta di firme – con l’elaborazione di concrete proposte di intervento, grazie
alla collaborazione con esperti universitari.
Nel corso della consigliatura precedente, inoltre, l’associazione ambientalista aveva avviato
un’azione legale contro l’amministrazione comunale allora in carica, accusandola di gravi
inadempienze perché non aveva preso nessuna iniziativa per far rientrare i valori delle polveri
sottili al di sotto dei livelli di guardia. Il procedimento giudiziario si era concluso con una
sentenza di assoluzione del Comune, ma era durato oltre tre anni e aveva alimentato un acceso
dibattito.
Al dibattito avevano preso intensamente parte vari esperti, con posizioni molto diverse. Due
di essi, un epidemiologo e un ingegnere dei trasporti della locale università, avevano preso parte
alla discussione con interventi sulla carta stampata e in televisione. L’epidemiologo, per
sollecitare interventi drastici di riduzione del traffico privato, sottolineava come la pessima
qualità dell’aria fosse correlata all’aumento delle malattie respiratorie registrate negli ultimi anni
in città, in particolare sui bambini. A sua volta, l’ingegnere ribatteva che la limitazione del traffico
avrebbe peggiorato notevolmente la qualità della mobilità urbana.
La proposta originaria avanzata dall’assessore si è inserita dunque in un contesto in cui
l’opinione pubblica era già ampiamente allertata e divisa tra i sostenitori della limitazione del
traffico e i difensori dello status quo, come era, del resto, emerso da un sondaggio pubblicato da
un giornale. Gli ambientalisti hanno accolto la proposta del pedaggio con un certo favore, le
associazioni dei commercianti e vari comitati di residenti hanno dato vita a una campagna
contraria che ha avuto molto spazio sui media locali e che ha ricevuto il sostegno dei partiti di
opposizione. Il partito di maggioranza nel consiglio comunale, di cui faceva parte lo stesso
assessore all’ambiente, si è a sua volta spaccato fra sostenitori e critici al provvedimento.
Il consiglio comunale ha impiegato anni prima di arrivare a una decisione, prendendo in
considerazione varie ipotesi sull’estensione dell’area da sottoporre a pedaggio, sulla tariffa da
applicare e sulle possibili esenzioni, aprendo tavoli di lavoro con le associazioni di categoria, le
associazioni ambientaliste e i comitati di cittadini. Anche i tecnici del Comune hanno offerto il
loro contributo, facendo stime sul numero degli automobilisti che avrebbero pagato il pedaggio,
sui possibili introiti per il Comune, sugli scenari di diminuzione del traffico e sui costi di varie
opzioni di gestione del sistema. Risulta a questo punto evidente che la decisione assunta dal
consiglio comunale è in realtà frutto di un lungo processo di formulazione in cui attori di diversa
natura hanno svolto un ruolo di rilievo.
◼ 2. Tipi di attori
L’esempio del pedaggio ci mostra, innanzitutto, che esistono attori individuali (come i due
esperti) e attori collettivi (come l’associazione ambientalista). Gli attori che «fanno» le politiche
pubbliche sono, in prevalenza, costituiti da entità collettive (KNOEPFEL et. al. 2011), come per
esempio il Comune, un’associazione di categoria o l’Unione europea. Ciascuna di loro, però,
agisce esclusivamente mediante specifici individui: coloro che si presentano concretamente sulla
scena sono sempre persone, anche se possono rappresentare gruppi, organizzazioni o istituzioni,
in quanto, in base alle regole operanti in ciascuno di essi, sono autorizzati ad agire in nome loro.
Noi possiamo considerare il Comune, l’associazione ambientalista, un’impresa o il consiglio
regionale come attori, quando agiscono secondo obiettivi coerenti e non contraddittori. Se invece
tali entità collettive si presentano sulla scena con azioni contrastanti, dovremo piuttosto
considerare come attori le singole persone o i singoli gruppi che ne fanno parte. In tal caso,
invece di parlare di quello che ha fatto il Comune (in quanto istituzione collettiva), dovremo
piuttosto parlare, per esempio, di quello che ha fatto l’assessore x, il dirigente y o il consigliere z.
Invece di dire che il partito x ha promosso una certa riforma, potrebbe essere più realistico dire
che essa è il frutto dell’iniziativa del ministro y o dei parlamentari z1, z2 o z3.
Gli attori sono soggetti dotati di intenzionalità: hanno obbiettivi da perseguire e adottano
comportamenti che suppongono appropriati per raggiungere quegli obiettivi. Non è possibile,
quindi, considerare come attori quelle entità prive di intenzionalità, quali sono, per esempio,
l’opinione pubblica, l’elettorato o i mercati. Si tratta, infatti, di «puri e semplici aggregati di
individui, ciascuno dei quali agisce autonomamente e persegue esclusivamente i propri obiettivi,
anche quando questi possano, per vari motivi, coincidere» (DENTE 2011, p. 57). Nel linguaggio
giornalistico spesso queste entità sono trattate in modo personalizzato come se fossero soggetti
dotati di volontà propria. Gli si attribuiscono obiettivi, intenzioni e azioni conseguenti: si dice per
esempio che «i mercati hanno bocciato la politica economica del governo», quando invece si
dovrebbero usare espressioni impersonali del tipo: «sui mercati si sono verificate reazioni negative
alla politica economica del governo». Analogamente non si dovrebbe dire che «l’elettorato ha
scelto di confermare il governo» o che «l’opinione pubblica ha il diritto di sapere», perché
aggregati come l’elettorato e l’opinione pubblica non possono né scegliere né avere diritti.
Naturalmente ciò che accade nell’opinione pubblica, nell’elettorato e nei mercati può avere una
notevole influenza nel processo di formulazione delle politiche, ma si tratta di eventi che
modificano il contesto (come potrebbe avvenire per effetto del riscaldamento globale,
dell’aumento dei prezzi delle materie prime o della crescita dell’immigrazione), senza essere stati
voluti esplicitamente da nessuno, dal momento che essi sono piuttosto il frutto di una miriade di
azioni individuali, intraprese indipendentemente le une dalle altre. La loro influenza, come
vedremo meglio nel Capitolo 10, § 5, non può essere mai considerata del tutto deterministica. Gli
attori delle politiche pubbliche reagiscono a tali eventi con propri obiettivi e proprie strategie.
Non sono prigionieri dei mercati, dell’opinione pubblica o dell’elettorato anche se non possono
fare a meno di tener conto dei cambiamenti che essi producono.
Un’altra distinzione che emerge in modo evidente nell’esempio del pedaggio riguarda la
diversa scala territoriale su cui agiscono gli attori. Quasi tutte le politiche pubbliche sono il
risultato di azioni che vengono compiute, nello stesso tempo e sulle stesse questioni, su scala
europea, nazionale, regionale o locale, da parte di attori che osservano i problemi con uno
sguardo dotato di diversa ampiezza strategica, profondità e capacità di dettaglio. Gli attori che
agiscono sulle scale territoriali più ampie sono in grado di tener conto di aspetti che gli attori
locali non riescono a vedere, ma questi ultimi, a loro volta, riescono a cogliere dimensioni che
sfuggono ai primi. Come abbiamo osservato nel Capitolo 1, le politiche pubbliche sono per lo più
multilivello (HOOGHE − MARKS 2001; BACHE – FLINDERS 2005; BOBBIO 2005), ossia sono il frutto di
scelte compiute da attori posti a livelli territoriali diversi o, potremmo anche dire, consistono in
un continuo andirivieni dal generale al particolare e viceversa.
Uno dei principali aspetti che emerge dall’esempio del pedaggio in città, riguarda la
compresenza – nel processo di formulazione della politica – di attori pubblici e attori privati.
Avevamo già accennato nel Capitolo 1 che le politiche pubbliche sono quasi sempre decise e
attuate da istituzioni pubbliche (Comuni, Regioni, Stato, Unione europea, agenzie pubbliche di
vario genere, ecc.), ma che spesso un ruolo molto importante è svolto da soggetti che
appartengono alla società civile (associazioni, gruppi organizzati, esperti indipendenti, giornali e
televisioni), i quali agiscono sollevando specifici problemi o premendo per far passare alcune
soluzioni. In passato si poteva ritenere che le politiche fossero prevalentemente opera delle
istituzioni di governo (potremmo dire del «government»), quindi dei politici nei parlamenti e
negli organi esecutivi e degli alti burocrati nelle strutture amministrative. Era in quegli ambiti che
i problemi venivano messi a fuoco e le politiche prendevano forma. Anche se gli attori sociali
potevano esercitare qualche forma di pressione o di influenza, la produzione di politiche
pubbliche rimaneva un’attività precipua del governo (inteso in senso ampio) ossia del
government, che era in grado di dirigere, indirizzare e governare dall’alto la società.
Da alcuni decenni si è diffusa, tra gli studiosi, l’idea che la situazione sia cambiata e che le
politiche pubbliche siano ormai il frutto di un processo di continua interazione tra attori politici
e sociali, tra settore pubblico e privato, tra «stato» e società civile. Le istituzioni rappresentative
non sono più in grado di guidare la società, come un deus ex machina, attraverso strumenti
gerarchici, ma sono parte di un sistema sociale (chiamato governance) in cui molti attori
contribuiscono alla formazione delle scelte pubbliche attraverso canali informali ma
relativamente stabili: tavoli di confronto, negoziati, contratti pubblico-privato, patti sociali,
scambi di vario genere (KOOIMAN 1993; RHODES 1997; RANIOLO 2007). Da un sistema
tendenzialmente gerarchico incentrato sulla forza dell’autorità e della legge, si sarebbe passati a
un sistema di tipo reticolare basato sull’intreccio tra attori politici, tecnici, pubblici, associativi e
privati: insomma dal government alla governance. Due sarebbero i fattori principali che hanno
provocato questo cambiamento:
– la crescente influenza degli attori privati (imprese, fondazioni, ONG, associazioni ecc.) resa
possibile dall’emergere degli orientamenti neoliberali che hanno valorizzato la cultura
imprenditoriale privata in contrapposizione alle logiche del settore pubblico;
– la crescente complessità dei problemi pubblici, che richiede la formulazione di politiche
integrate capaci di tener conto di punti di vista diversi e di attrarre risorse provenienti da
varie fonti (KLIJN 2008).
Sul concetto di governance e sui modi in cui si manifesta esiste ormai una letteratura
sconfinata in cui si confrontano posizioni diverse. Secondo alcuni siamo passati a una situazione
in cui la capacità di governo prescinde dal governo formale, ma dipende piuttosto dalle relazioni
di confronto o cooperazione tra l’insieme degli attori interessati: la governance avrebbe sostituito
il government; si tenderebbe a governare senza bisogno di un governo formale vero e proprio
(«governing without government») (RHODES 1996). Secondo altri non si tratta di una vera novità
dal momento che il governo formale è sempre stato condizionato dalle pressioni degli interessi
organizzati e non si è mai retto esclusivamente sulla forza dell’autorità (BELLIGNI 2004) o perché,
all’inverso, il potere decisionale delle istituzioni pubbliche rimane ancora oggi centrale, anche se
le modalità con cui esse interagiscono con gli attori privati sono più aperte e più trasparenti
(CAPANO et al. 2015).
Gli attori possono essere classificati, infine, sulla base delle logiche d’azione di cui sono
portatori, ossia sulla base delle modalità, degli obiettivi e dei comportamenti che tendono a
mettere in atto quando prendono parte a un processo di policy making. L’idea di fondo è «che sia
possibile, per semplificare la realtà e rendere più prevedibili i comportamenti, identificare un
numero limitato di modalità tipiche di azione, che corrispondono ad altrettante categorie o tipi
di attori» (DENTE 2011, p. 75). Ciò naturalmente non significa che tutti gli attori appartenenti a
una stessa categoria si comportino sempre allo stesso modo, ma che il loro comportamento
tende, con un’elevata probabilità, a presentare tratti comuni, costituiti principalmente dagli
obiettivi che perseguono e dal tipo di risorse su cui fanno leva.
Applicando questo criterio si possono distinguere quattro tipi principali di attori: i politici, i
burocrati, i portatori di interesse e gli esperti, a cui dedicheremo i prossimi paragrafi. Poiché i
media sono onnipresenti nel dibattito pubblico abbiamo anche aggiunto la categoria dei
giornalisti, per domandarci in quale misura e in quali circostanze essi possano essere considerati
come attori. La realtà naturalmente è più complessa, perché esistono attori che non
appartengono a una sola categoria, come ad esempio gli esperti che si candidano alle elezioni e
che quindi tendono a comportarsi anche come attori politici, oppure i politici che, terminato il
proprio mandato, vengono arruolati tra le file dei gruppi di interesse. Tuttavia, identificare i tipi
ideali consente di spiegare, almeno in parte, non solo chi fa le politiche, ma perché e in che modo
vi contribuisce.
◼ 3. I politici
Sono attori politici coloro che rivestono cariche pubbliche negli organi legislativi e di governo, a
livello locale, regionale, nazionale o sovranazionale. Alcuni di essi sono eletti dai cittadini e in tal
caso godono di una legittimazione democratica diretta: è il caso dei componenti del consiglio
comunale o del sindaco che abbiamo incontrato nell’esempio sul pedaggio, dei membri dei
parlamenti nazionali o del parlamento europeo. Altri attori politici godono di una legittimazione
democratica indiretta; non sono eletti direttamente dai cittadini, ma sono comunque espressione
della maggioranza che è emersa dalle elezioni e devono avere la fiducia e rendere conto del loro
operato a un organo elettivo: è ad esempio il caso dell’assessore all’ambiente del nostro esempio,
che è nominato dal sindaco e risponde del suo operato di fronte al consiglio comunale, o dei
ministri dei governi nazionali, che rispondono al parlamento. Possono essere considerati come
attori politici anche coloro che aspirano alle medesime cariche pubbliche, per esempio militando
attivamente in un partito o candidandosi alle elezioni; il ruolo di questi ultimi nella formulazione
delle politiche pubbliche è tuttavia spesso secondario.
Gli attori politici hanno orientamenti ideologici diversi o addirittura opposti (possono ad
esempio essere di destra o di sinistra, radicali o moderati, aperti ai processi di globalizzazione o
portatori di logiche sovraniste, ecc.), possono essere più o meno specializzati in specifici ambiti di
policy, possono essere inclini alla mediazione e al compromesso oppure più portati all’assertività,
al decisionismo e allo scontro. Sono tuttavia accomunati da un aspetto di fondo: devono fare i
conti con il consenso dei cittadini. La loro permanenza nella carriera politica dipende infatti dai
voti che riescono a ottenere direttamente o indirettamente. Essi tendono quindi a massimizzare il
consenso che i cittadini esprimono nei loro confronti o, quanto meno, a contenerne il dissenso nel
caso in cui promuovano politiche pubbliche che ritengono necessarie ma che sono, allo stesso
tempo, impopolari. Ne derivano alcune caratteristiche di fondo della loro logica d’azione: i
politici tendono a essere molto sensibili alle oscillazioni dell’opinione pubblica, danno molta
importanza alla comunicazione, cercano di ottenere la massima visibilità sui media, sono
soprattutto attenti alle conseguenze di breve periodo delle loro decisioni o, in altri termini, hanno
tendenzialmente un orizzonte temporale limitato, dal momento che il loro mandato è sempre
temporaneo ed è seguito da una nuova verifica elettorale.
Gran parte degli attori politici fa parte di un partito. I partiti sono infatti organizzazioni che
agiscono a cavallo tra la società civile e le istituzioni e concorrono alle elezioni ai vari livelli di
governo (locale, nazionale, sovranazionale). Essi svolgono, in linea di principio, una funzione
aggregativa, nel senso che combinano le domande provenienti dalla società, dando voce ad
alcune di esse, scartandone altre e proponendo programmi di governo. Nel corso degli ultimi
decenni i partiti si sono notevolmente indeboliti: hanno perso iscritti, la loro presenza nelle
istituzioni (il «party in office») è andata a discapito della loro organizzazione sul territorio (il
«party on the ground») (KATZ − MAIR 1994), si è assistito a un processo di fortissima
personalizzazione di leaders altamente mediatizzati che ha attenuato le strutture collettive di
elaborazione e direzione (CALISE 2000). Inoltre i partiti appaiono per lo più come formazioni
instabili che conoscono forti oscillazioni nel tempo. I partiti esistenti sono spesso sfidati da nuove
forze politiche che si affacciano sulla scena e cercano di spodestare le formazioni più consolidate.
Lo scenario dei partiti politici, in quasi tutti i paesi, è estremamente fluido (MAIR 2013; CALISE
2016).
I partiti politici si comportano come attori collettivi nella formulazione delle politiche
pubbliche? Tradizionalmente (e, in una certa misura, ancora oggi) i partiti sono portatori di
ideologie e di visioni del mondo; sulla base di esse formulano il proprio programma politico alle
elezioni; sostengono apertamente alcune proposte e ne contrastano altre. Può accadere, però, che
i partiti esprimano preferenze deboli e incerte su alcune politiche pubbliche e che i loro
programmi contengano proposte che poi non vengono sostenute con convinzione. La funzione
fondamentale che i partiti svolgono è, soprattutto, quella di selezionare la classe politica, ossia le
persone che vengono indirizzate agli incarichi pubblici. Essi decidono le candidature che
vengono presentate alle elezioni e hanno un ruolo decisivo nello scegliere i membri del potere
esecutivo (ministri, assessori) e gli amministratori di varie agenzie pubbliche. Il contenuto delle
scelte pubbliche è spesso rimesso all’iniziativa dei loro esponenti che agiscono nelle assemblee
elettive e negli organi di governo.
◼ 4. I burocrati
Gli attori burocratici o burocrati sono costituiti dai dirigenti e dai funzionari delle pubbliche
amministrazioni. Nel corso del Novecento, per effetto dell’espansione dei compiti dello stato, le
pubbliche amministrazioni sono fortemente cresciute e si sono diversificate (D’AMICO 2006).
Possiamo infatti annoverare tra di esse un’ampia varietà di apparati alle dipendenze degli organi
esecutivi in moltissimi ambiti: ministeri alle dipendenze dei governi federali e nazionali,
assessorati alle dipendenze di Regioni, Province, Comuni e, nel caso dell’Unione europea, le
direzioni generali di Bruxelles alle dipendenze della Commissione europea, aziende pubbliche
che erogano servizi (ad esempio le aziende sanitarie), agenzie funzionali che svolgono compiti
specializzati (ad esempio l’agenzia delle entrate, le camere di commercio, le università pubbliche).
Sono inoltre pubbliche amministrazioni anche le autorità indipendenti che hanno il compito di
promuovere la concorrenza nei mercati, di contrastare la corruzione negli appalti, di tutelare la
privacy, senza dipendere dal potere esecutivo. Le pubbliche amministrazioni hanno la funzione
di dare attuazione alle politiche pubbliche, ossia di mettere in pratica quello che è stato deciso a
livello politico. Sul ruolo che esse giocano nell’attuazione torneremo nel Capitolo 8, § 5. Tuttavia,
come emerge dall’esempio sul pedaggio, i dirigenti e i funzionari possono svolgere un ruolo
molto importante anche nella formulazione delle politiche. A essi i politici affidano il compito di
comparare ipotesi alternative, suggerire possibili soluzioni, stimare la fattibilità delle proposte e i
loro effetti. Sono i funzionari che redigono il testo delle deliberazioni che la giunta presenta al
consiglio comunale e il testo dei disegni di legge che vengono sottoposti al parlamento. Perché
questo avviene?
I burocrati di solito conoscono meglio dei politici lo specifico settore di intervento di cui si
occupano, perché generalmente svolgono le loro funzioni professionali nello stesso campo per
molti anni, mentre gli incarichi dei politici sono sempre temporanei. Secondo un celebre motto,
«i governi passano, l’amministrazione resta». Vi è cioè un’asimmetria di informazioni e
conoscenze tra burocrati e politici a favore dei primi. Grazie al possesso di informazioni e
conoscenze, i burocrati possono scoraggiare soluzioni che ritengono impraticabili o non
desiderabili (per loro) e possono contribuire a definire i problemi in modo da favorire l’adozione
di specifiche soluzioni.
Il ruolo svolto dai burocrati è stato studiato ampiamente e da prospettive disciplinari diverse.
Le interpretazioni sui moventi della loro azione – ossia sugli obiettivi che perseguono e sulla
logica che li guida – sono principalmente due. Una prima interpretazione, avanzata dagli studiosi
che si riconoscono nella scuola della scelta razionale o public choice, ritiene che i burocrati
facciano leva sull’asimmetria di cui godono nei confronti dei politici per spingerli ad adottare
decisioni in linea con le proprie preferenze egoistiche (NISKANEN 1971; DUNLEAVY 1991; GAILMAN
− PATTY 2012). Secondo questa prospettiva i burocrati inducono i politici a incrementare (o a
non ridurre) il budget a disposizione dell’unità in cui lavorano in modo da estendere (o non
veder ridotte) le proprie funzioni e quindi la propria capacità di influenza. La loro logica d’azione
consiste quindi, secondo questa interpretazione, nell’accrescere il proprio potere.
Una seconda interpretazione, avanzata dagli studiosi di sociologia organizzativa, ritiene che
ricondurre il comportamento dei burocrati a un calcolo razionale sia riduttivo. I burocrati,
semmai, come tutti i soggetti che fanno parte di un’organizzazione, sviluppano nel corso del
tempo un bagaglio consolidato di valori e modi di pensare – la cosiddetta cultura organizzativa –
oltre che di tipici modi di agire – le procedure e le routine – che costituiscono le loro bussole
(OLSEN 2005; PETERS 2010). Ciò significa che essi tenderanno a sostenere e facilitare le politiche
che percepiscono come affini alla propria cultura e in linea con le procedure e le routine
consolidate a cui ricorrono abitualmente, mentre tenderanno a fare resistenza nel caso opposto.
Essi spesso si presentano come i custodi ritualistici delle procedure legali: attenersi
scrupolosamente alla lettera delle disposizioni di legge, dei regolamenti e delle circolari è un
elementare principio di autodifesa e può diventare il fine esclusivo dei burocrati, anche se questo
porta spesso a conseguenze assurde e in genere a deviazioni, più o meno accentuate, dall’obiettivo
ultimo dell’agire amministrativo, ossia la risoluzione dei problemi pubblici.
Nell’ambito delle istituzioni pubbliche, un ruolo peculiare è svolto dai giudici. La loro
funzione fondamentale consiste nel risolvere i conflitti tra cittadini (o tra cittadini e istituzioni)
applicando la legge, come vedremo meglio nel Capitolo 7, § 6 e, in questo senso, essi
contribuiscono all’attuazione delle politiche pubbliche, ma non alla loro formulazione. Tuttavia,
l’azione giudiziaria può influenzare, in vario modo, il contenuto delle politiche. Innanzitutto, i
giudici contribuiscono, sia pure con modalità diverse a seconda dei paesi, a giudicare la
costituzionalità delle leggi. In Italia essi possono rinviare alla Corte costituzionale le disposizioni
di legge che appaiono in contrasto con la Costituzione e che possono così venire annullate.
Inoltre, nelle loro sentenze, i giudici danno specifiche interpretazioni delle norme di legge, che
per questa via possono assumere una portata più ristretta o più estesa di quello che era stato
inteso precedentemente. Quando si trovano di fronte a un fatto non ancora regolato dalla legge,
devono trovare una soluzione alla luce dei principi generali del diritto: molte scelte pubbliche su
temi nuovi sono state definite dai giudici attraverso le loro sentenze, prima che dai politici
attraverso le leggi, come è avvenuto nei primi decenni del nuovo secolo per la cosiddetta sharing
economy (l’economia basata sulla condivisione di beni o servizi fra utenti e fornitori), che in
assenza di scelte politiche esplicite viene regolata attraverso sentenze di tribunali chiamati a
dirimere controverse tra vecchi e nuovi attori del mercato.
Negli ultimi decenni, l’influenza dei giudici nelle scelte pubbliche si è ampliata a dismisura in
tutti i paesi a causa della crescente debolezza dei decisori politici, tanto è vero che diversi autori
parlano di «giudiziarizzazione della politica» (GUARNIERI − PEDERZOLI 2002), ossia di una
situazione in cui importanti scelte pubbliche (come, per restare alla recente esperienza italiana,
quelle che riguardano il sistema elettorale, l’accanimento terapeutico o la procreazione assistita)
sono compiute dai giudici secondo criteri di tipo legale (l’applicazione dei principi costituzionali
o dei principi generali dell’ordinamento giuridico), invece che dal parlamento secondo criteri di
tipo politico.
◼ 6. Gli esperti
◼ 7. I giornalisti
I giornalisti nei sistemi democratici svolgono la funzione cruciale di informare i cittadini sui
problemi pubblici, le possibili soluzioni, le alternative disponibili, sull’andamento dei processi
decisionali e sul dibattito tra gli attori del policy making. Lavorano nell’ambito dei media, ossia i
mezzi di comunicazione: carta stampata, radio-televisione, nuovi mezzi digitali. Il loro ruolo
tuttavia non è neutrale, di pura trasmissione dell’informazione tra i policy makers e l’opinione
pubblica; è semmai un complesso ruolo di filtro, che risponde a una peculiare logica d’azione e
che può avere ripercussioni sulla stessa formulazione delle politiche pubbliche.
I giornalisti tendono ad agire secondo una specifica logica – la media logic (ALTHEIDE – SNOW
1979) – che mira a massimizzare l’attenzione del pubblico. A questo fine i giornalisti tendono a
semplificare la comunicazione, a renderla veloce, a introdurre elementi di enfatizzazione,
spettacolarizzazione e personalizzazione delle notizie. La crescente commercializzazione dei
media accentua questa tendenza: la sopravvivenza di gran parte dei gruppi mediali è legata alla
loro capacità di ottenere consistenti introiti economici dal mercato della pubblicità. Ne deriva
un’attenzione privilegiata ai temi leggeri (soft news) o agli scandali, tanto che alcuni studiosi dei
media hanno segnalato una convergenza in atto a livello internazionale verso un modello di
giornalismo di infotainment, ossia di informazione-intrattenimento in cui i contenuti di merito
delle questioni trattate rischiano di andare in secondo piano rispetto agli elementi funzionali
all’intrattenimento (STREET 2001). Va tuttavia notato che il livello di commercializzazione dei
media non è uniforme nei diversi sistemi mediali nazionali e che, in ogni caso, la media logic può
essere concretamente declinata con una intensità e secondo modalità molto variabili. Ad esempio
la BBC, la società che gestisce il servizio pubblico radio-televisivo nel Regno Unito, si caratterizza
per un modello di giornalismo che, pur rivolgendosi a un vastissimo pubblico, è generalmente
considerato in grado di occuparsi in modo adeguato e competente delle questioni di rilevanza
pubblica (ESSER − PFETSCH, 2004).
I giornalisti possono influenzare la formulazione delle politiche pubbliche in vario modo.
Possono focalizzare l’attenzione in modo selettivo su un certo problema pubblico, suscitando
l’attenzione dei cittadini e inducendo gli attori politici a occuparsene. Possono dare più o meno
spazio a specifiche misure, connotarle in senso positivo o negativo, esprimere direttamente il
proprio favore o la propria contrarietà; e in questo modo possono facilitarne l’accettazione o il
rigetto nell’opinione pubblica, influenzando gli stessi attori politici.
Il grado di influenza che i media possono effettivamente esercitare sulla formulazione delle
politiche pubbliche rimane tuttavia oggetto di discussione tra gli studiosi. Secondo alcuni, infatti,
sarebbe notevole, mentre secondo altri sarebbe nel complesso poco rilevante o trascurabile
(SHANAHAN et al. 2008; VOLTMER – KOCH-BAUMGARTNER 2010; SOROKA et al. 2013). In definitiva
rimane aperta la questione se i giornalisti siano attori delle politiche pubbliche a pieno titolo o
invece solo megafoni di altri attori. Nel primo caso, i giornalisti svolgerebbero pienamente un
ruolo da protagonisti del policy making, riuscendo a condizionare l’agenda e le soluzioni. Nel
secondo caso, si limiterebbero ad amplificare la voce di altri attori, in particolare di quelli più
influenti (ma talvolta anche di quelli più deboli), rendendola percepibile e comprensibile al
grande pubblico. I due ruoli, in ogni caso, non sono necessariamente incompatibili. È possibile
che i giornalisti giochino, a seconda dei casi, l’uno o l’altro ruolo, o che, in qualche misura, li
giochino entrambi: che non siano cioè né attori completamente autonomi in grado di perseguire
coerentemente specifici obiettivi di policy, né semplici portavoce senza un’autonoma capacità di
indirizzo (NEVEU 2015).
◼ 8. E i cittadini?
I comuni cittadini hanno pochissime possibilità di far sentire la propria voce nel corso della
formulazione di una politica pubblica. Possono scrivere lettere ai giornali, mandare e-mail al
sindaco o al presidente del consiglio, intervenire sui blog, lanciare un tweet, ma è molto
improbabile che vengano ascoltati. Per sperare di avere qualche influenza, un cittadino deve
unirsi ad altri, per esempio promuovendo una petizione, aderendo a un gruppo di interesse o
formando un comitato. Esistono però alcuni casi in cui i cittadini comuni prendono direttamente
parte alla formulazione delle politiche: si tratta dei processi decisionali innovativi che si ispirano
ai principi della democrazia partecipativa e della democrazia deliberativa.
I processi partecipativi si propongono di creare specifiche situazioni in cui i cittadini possano
far sentire la loro voce e premere sugli amministratori pubblici, perché si occupino dei loro
bisogni. Si tratta di forme di partecipazione che hanno cominciato a diffondersi nel secondo
dopoguerra e che presuppongono una mobilitazione spontanea e militante. Negli anni Settanta
del Novecento, nei paesi anglosassoni e nei paesi nordici in particolare, cominciarono a
diffondersi pratiche di partecipazione più strutturata nel campo delle politiche urbanistiche (la
cosiddetta urbanistica partecipata).
Il primo tentativo di reale istituzionalizzazione della democrazia partecipativa è però oggi
comunemente attribuito alla città brasiliana di Porto Alegre, che alla fine degli anni Ottanta del
Novecento introdusse il bilancio partecipativo (Orçamento Participativo), un processo ciclico,
parallelo a quello istituzionale che ogni anno definisce gli impegni di spesa comunali, volto a
coinvolgere gli abitanti della città nella definizione di priorità di spesa per interventi pubblici
(ALLEGRETTI 2003). Da allora migliaia di esperienze e varianti di bilancio partecipativo sono state
sperimentate in tutto il mondo, non solo in molte città di piccole e medie dimensioni, ma anche
in metropoli come New York, Chicago, São Paulo, Montreal, Parigi, Madrid, Barcellona, Milano
e Roma (www.participatorybudgeting.org) (SINTOMER – ALLEGRETTI 2009).
I processi deliberativi si pongono un obiettivo parzialmente diverso: creare sedi di discussione
aperta e approfondita tra cittadini che hanno idee, punti di vista e interessi diversi o contrapposti,
allo scopo di elaborare soluzioni in modo costruttivo (vedi Capitolo 7, § 4 per un
approfondimento sul concetto di deliberazione). La teoria della democrazia deliberativa è
indubbiamente in parte legata a quella della democrazia partecipativa, ma si è progressivamente
distinta per un maggiore orientamento al confronto argomentato. Un processo deliberativo è in
genere molto strutturato: richiede un’accurata progettazione, in genere sotto la supervisione di
un «comitato di garanzia» che sia espressione dei vari interessi che gravitano intorno alla
questione a dibattito; prevede la condivisione pubblica di un insieme equilibrato di informazioni
e punti di vista sulla questione a dibattito, e lo svolgimento di discussioni paritarie e rispettose fra
cittadini comuni riuniti in arene di piccole dimensioni al fine di argomentare e trovare soluzioni
costruttive il più possibile condivise; fa ricorso a metodi di reclutamento dei partecipanti
alternativi allo spontaneismo delle esperienze partecipative, come forme di sorteggio e/o di
selezione mirata; coinvolge insieme ai cittadini anche esperti, gruppi di interesse e autorità
pubbliche allo scopo di far interagire saperi esperti e saperi profani; viene condotto con
l’assistenza di professionisti chiamati facilitatori, esperti nella conduzione di dinamiche di
gruppo, processi decisionali complessi e risoluzione alternativa dei conflitti. Appartengono a
questo genere le giurie di cittadini in cui un piccolo numero di cittadini estratti a sorte formula
raccomandazioni dopo aver ascoltato testimoni ed esperti e molti altri dispositivi analoghi
(sondaggi deliberativi, town meeting del XXI secolo, ecc.) (GASTIL − LEVINE 2005; FLORIDIA 2012).
Recentemente si stanno diffondendo esperienze di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte
pubbliche che possono essere definite ibride, cioè processi che combinano aspetti partecipativi e
aspetti deliberativi amalgamandoli o alternandoli. Appartiene a questo genere il dibattito
pubblico (débat public) su grandi opere (autostrade, elettrodotti, linee ferroviarie ad alta velocità,
inceneritori, rigassificatori, centrali elettriche, ecc.) introdotto in Francia negli anni Novanta del
Novecento e ora previsto anche dalla legge italiana. I progetti preliminari delle grandi opere sono
sottoposti alla discussione dei cittadini che, in un processo strutturato e trasparente, possono
formulare obiezioni e proporre modifiche. La maggior parte dei partecipanti è composto dalle
persone direttamente colpite dalla realizzazione delle opere contestate (si tratta di «terze parti
danneggiate» secondo lo schema di Knoepfel et al., vedi Capitolo 1) e il processo è articolato
alternando fasi partecipative aperte a tutti e meno strutturate a fasi deliberative più strutturate, il
tutto comunque rigorosamente condotto da facilitatori professionali super partes (MANSILLON
2006).
Sebbene in alcuni casi siano state introdotte specifiche leggi che prevedono l’attivazione
obbligatoria o l’incentivazione di questo tipo di processi (in particolare la legge sul débat public in
Francia e le leggi sulla partecipazione nelle Regioni italiane Toscana ed Emilia-Romagna), quasi
sempre si tratta di esperienze che vengono attivate su iniziativa di un’amministrazione pubblica,
senza che via sia alcun obbligo di legge, e costituiscono una specifica fase all’interno di un
processo decisionale più ampio. I risultati che producono hanno quindi un valore consultivo, al
pari delle proposte avanzate dagli altri attori della società civile o dai gruppi di interesse. Esse
possono servire per portare nell’arena pubblica il punto di vista di cittadini comuni. Nell’esempio
dell’istituzione del pedaggio in una grande città, il Comune avrebbe potuto chiedere a un gruppo
ristretto di cittadini, estratti a sorte fra coloro che abitano o lavorano in città, di pronunciarsi
sull’opportunità della misura e sulla sua concreta articolazione; oppure avrebbe potuto sottoporre
la sua proposta a un dibattito pubblico preventivo per permettere ai cittadini di ragionare su di
essa e di offrire al Comune argomenti per mantenere, sopprimere o modificare la misura. La
decisione finale sarebbe stata comunque di competenza del consiglio comunale, che avrebbe
potuto liberamente tener conto di quanto emerso dal processo partecipativo o deliberativo.
◼ 9. Le reti di attori
Torniamo ancora una volta all’esempio iniziale del pedaggio in città e proviamo a dare uno
sguardo d’insieme ai soggetti che sono emersi in quell’occasione. Quello che vediamo è una
pluralità di attori accomunati dall’attenzione per quella specifica posta in gioco (la regolazione
del traffico cittadino). Alcuni di essi sono molto influenti, altri meno; alcuni hanno un ruolo
istituzionale, altri fanno parte della società civile; alcuni puntano a ridurre il traffico
automobilistico, altri a mantenerlo; alcuni hanno relazioni dirette con tutti gli altri, altri soltanto
con qualcuno. Nell’insieme essi costituiscono una costellazione, un tessuto di relazioni o una rete
che gravita attorno a quella specifica posta in gioco.
Ogni problema pubblico è, per così dire, attorniato da un insieme di attori in relazione tra di
loro che si adoperano per far passare alcune misure, per modificarle, per tenerle in vita o per
sopprimerle. Questo insieme è spesso designato con l’espressione policy network (o rete di policy)
che indica, pertanto, l’assetto tra gli attori che gravitano attorno a uno specifico ambito di policy
(KENIS − SCHNEIDER 1991; KLIJN 1997). I policy networks sono entità informali, in quanto nascono
dalle relazioni che gli attori stabiliscono volontariamente tra di loro per trovare (o contrastare)
una soluzione a un problema pubblico. Sono settoriali, perché si costituiscono in relazione a un
campo di intervento, come per esempio la sanità, l’ambiente, il lavoro, l’agricoltura, o anche ad
ambiti più specifici come per esempio la regolazione dell’apprendistato, la gestione dei rifiuti, la
regolazione del traffico cittadino o le misure per contrastare il precariato, ecc. Inoltre, poiché le
politiche pubbliche attraversano contemporaneamente vari livelli di governo, vi sono policy
networks che agiscono prevalentemente a livello locale, regionale, nazionale o europeo, e altri che
agiscono contemporaneamente a diversi livelli di governo. I policy networks possono essere più o
meno ampi e più o meno coesi. Possono presentarsi come configurazioni stabili nel tempo
oppure come aggregati mutevoli e variabili.
All’interno di un policy network si manifestano frequentemente posizioni conflittuali, anzi
non è raro che gli attori della rete si dividano in due (o più) coalizioni schierate l’una contro
l’altra, come vedremo meglio nel Capitolo 10, § 3. Eppure ci sono alcuni aspetti che accomunano
gli attori che ne fanno parte: essi condividono una conoscenza non superficiale dei problemi,
dispongono di un linguaggio tecnico e giuridico comune, frequentano gli stessi siti web, si
incontrano in convegni o riunioni e sono pronti a fare fronte comune quando si tratta di
valorizzare quello specifico settore rispetto ad altri (per esempio per attrarre finanziamenti
europei o nazionali).
L’analisi dei policy networks, ossia degli attori che ne fanno parte e delle relazioni che
intrecciano, è molto importante perché ci dice chi governa, di fatto, e come in specifici ambiti di
policy. Fotografa, per così dire, quello specifico sistema di governance. Una buona parte degli
studi sulle politiche pubbliche è dedicata a rilevare empiricamente la struttura e le caratteristiche
di tali reticoli, allo scopo di stabilire l’esistenza di una relazione tra l’assetto delle reti e i risultati
che esse riescono a produrre. L’ipotesi è, in altre parole, che la fisionomia di tali networks ci possa
dire molto sulle caratteristiche delle politiche pubbliche che da essi scaturiscono. Vediamo due
esempi di ricerche di questo tipo.
Il primo esempio riguarda uno studio condotto sulla politica energetica svizzera nella
seconda metà degli anni Novanta del Novecento (KRIESI − JEGEN 2001). I ricercatori si erano
proposti, prima di tutto, di identificare gli individui che avevano maggiore voce in capitolo nelle
scelte nazionali in materia energetica. Utilizzando un metodo reputazionale, ossia basandosi sui
nomi citati nei giornali e sulle opinioni di una serie di testimoni privilegiati, individuarono così
un gruppo di 300 esponenti e al loro interno poi selezionarono un cerchio più ristretto formato
dalle 51 persone che erano state giudicate come le più influenti, ossia l’élite della politica
energetica svizzera (si trattava di parlamentari, alti burocrati e dirigenti industriali). I ricercatori
chiesero poi a tutti i 300 esponenti di indicare con quali altri individui fossero in «stretta
collaborazione». Sulla base di questi dati essi costruirono una rappresentazione visiva di questo
policy network (figura 1).
Figura 1
La politica energetica svizzera negli anni Novanta del Novecento: la struttura del cerchio interno (KRIESI – JEGEN
2001, p. 271). Le lettere accanto a ciascuna crocetta indicano l’appartenenza di quell’esponente a un gruppo: a)
ecologisti di sinistra; b) ecologisti di centro-destra; c) pro-sviluppo di destra; d) pro-sviluppo dell’industria elettrica.
Figura 3
Il network per l’innovazione metropolitana a Milano.
Fonte: DENTE et al. 2005, p. 43.
In entrambe le città il Comune ha una posizione centrale nella rete (quello di Milano è
presente in 22 casi su 30, quello di Torino in 28), ma si vede a occhio nudo che le due reti hanno
una forma diversa e questo dato è stato confermato da una serie di elaborazioni statistiche. Le reti
dei 30 casi milanesi sono tendenzialmente meno complesse: vi partecipano un numero minore di
attori e sono soprattutto meno presenti quelli appartenenti al settore pubblico (che sono collocati
nel lato sinistro del grafico). Le reti sono anche meno dense: gli attori hanno un minor numero di
relazioni tra di loro. Gli autori della ricerca hanno concluso che la differente complessità e
densità delle due reti ha influito sulla capacità innovativa delle due città. Infatti, in quel periodo la
città di Torino aveva mostrato una capacità di innovazione nettamente superiore a quella di
Milano, come risulta dalla tab. 1., elaborata nel corso dello stesso studio.
Tabella 1. La capacità innovativa delle due città (1993-2002).
Milano + + +++ +
Ciò significa che la capacità di introdurre innovazioni metropolitane è favorita sia dalla
complessità che dalla densità delle reti. La complessità favorisce l’innovazione perché la presenza
di più attori pubblici e privati e appartenenti a varie scale territoriali è in grado di far circolare
punti di vista diversi e quindi di fare emergere nuovi problemi e nuove soluzioni. A sua volta la
densità delle relazioni segnala un maggiore intreccio fra gli attori che permette più facilmente di
immaginare e realizzare percorsi innovativi.
Come si vede da questi due esempi: le ricerche sui policy networks sono quanto mai variegate,
sia per la metodologia d’indagine adottata, sia per le domande che i ricercatori si pongono. Esse
tendono comunque a sottolineare che esiste un nesso tra le caratteristiche della rete e il contenuto
delle politiche. Conoscere la struttura del network può aiutarci a predire il grado di conflitto o di
cooperazione che si realizzerà attorno a un problema pubblico (come è avvenuto per la ricerca
svizzera), o la capacità di una comunità di rispondere alla nuove sfide con risposte innovative
(come è avvenuto nel confronto tra Milano e Torino).
HO CAPITO? ESERCIZI DI AUTOVALUTAZIONE
1. Se affermiamo che la politica sanitaria nazionale è definita attraverso un policy network, intendiamo dire che le scelte in materia
di sanità sono formulate:
a) dal confronto (conflittuale, negoziale o cooperativo) tra i partiti politici
b) attraverso il dibattito tra gli esperti (medici, dirigenti del ministero della salute, alti burocrati)
c) sotto la pressione determinante dei gruppi di interesse (case farmaceutiche, organizzazioni rappresentative dei medici
ospedalieri e dei medici di famiglia, sindacati degli infermieri, ecc.)
d) attraverso processi di collaborazione e conflitto tra diverse categorie di attori: parlamentari, rappresentanti di partito, alti
burocrati, gruppi di interesse, esperti, ecc.
5. Possiamo dire che la riforma del trasporto pubblico regionale in Lombardia è affrontata da un policy network multilivello, in
quanto esso è formato da:
a) consiglieri, assessori e dirigenti regionali
b) ferrovie dello stato, ministero dei trasporti, Regione, Province, associazioni dei pendolari
c) sindaci dei Comuni capoluoghi di provincia
d) attori pubblici (come la Regione) e privati (come le società regionali che gestiscono treni o linee di autobus)
6. Nel 1992 due studiosi, James N. Rosenau e Ernst-Otto Czempiel, pubblicarono un libro sull’assetto delle relazioni intitolato
Governance without Government. Possiamo supporre che, con questa espressione, intendessero sostenere che:
a) esiste un governo internazionale (rappresentato dall’ONU), che però non riesce a governare le relazioni tra gli stati
b) esiste un governo internazionale (rappresentato dall’ONU), che riesce, in qualche modo, a governare le relazioni tra gli stati
c) non esiste un governo internazionale e quindi le relazioni tra gli stati sono caotiche
d) malgrado non esista un governo internazionale, le relazioni tra gli stati riescono a essere governate
11. Osservate con attenzione le figure 2 e 3. Nei due grafici sull’asse verticale è misurato:
a) il livello di governo
b) il numero di casi a cui i diversi attori hanno partecipato
c) il grado di appartenenza degli attori al settore pubblico o al settore privato
d) la maggiore o minore vicinanza dall’attore centrale (ossia il Comune)
Capitolo 3
Tipi di politiche
1. La tipologia di Lowi
2. La tipologia di Wilson
3. Politiche e politica
4. Nei panni dei policy makers: politiche «facili» e politiche «difficili»
Nel corso del suo studio su sessant’anni di governo nella città di New York (1898-1958),
Thedore Lowi fece una curiosa scoperta. Si accorse che nonostante l’alternarsi di sindaci con
un’impostazione politica molto diversa e – per certi versi – opposta, in certi settori
dell’amministrazione municipale venivano sempre nominati funzionari dello stesso tipo, come se
la gestione di ogni specifica politica comunale (ad esempio l’assistenza sociale o la prevenzione
degli incendi) richiedesse modalità proprie e ricorrenti (LOWI 1964a). La sua conclusione fu che il
sistema politico tende a strutturarsi in diverse arene del potere, con attori diversi e diversi modelli
di relazione fra loro, a seconda della natura dei problemi che esse trattano, o possiamo anche dire
a seconda del tipo di politica pubblica che è sul tappeto. In una prima versione del suo lavoro,
Lowi (1964b) individuò tre tipi di politiche – le politiche distributive, le politiche redistributive e
le politiche regolative – a cui corrispondevano altrettante arene del potere. In una versione
successiva, egli incluse poi anche un quarto tipo, le politiche costitutive (LOWI 1972).
In quest’ultima versione, i quattro tipi di politiche sono individuati sulla base di due
dimensioni: a) a seconda che la coercizione sia immediata o remota e b) a seconda che la politica
si applichi alla condotta individuale o a comportamenti collettivi, come si può vedere nella figura
1.
Figura 1
Tipi di politiche secondo Lowi.
Fonte: nostro adattamento da LOWI 1972, p. 300.
Le politiche distributive sono politiche che assegnano risorse (per esempio: contributi in
denaro, esenzioni fiscali) a favore di specifiche categorie di soggetti. Esse si applicano a individui
singoli (persone o imprese) che ne sono i beneficiari e non prevedono l’uso diretto della
coercizione: si tratta infatti di erogazioni di benefici che non contemplano ovviamente alcuna
sanzione (a meno di comportamenti truffaldini, ma in questi casi la coercizione è una possibilità
remota). Le politiche di questo tipo non sono particolarmente conflittuali perché distribuiscono
vantaggi a tutte le persone che appartengono alla categoria indicata. Proprio per questo motivo
sono politiche a cui si fa ampio ricorso: per esempio, l’attribuzione di sussidi per gli agricoltori di
un’area colpita dalla grandine o di contributi alle imprese per il rinnovamento tecnologico, le
detrazioni fiscali per la ristrutturazione di edifici, le borse di studio per gli studenti. Il numero
degli attori che concorrono alle definizione delle politiche distributive è relativamente esteso,
comprendendo tutti quei gruppi di interesse, anche di piccole dimensioni, che riescono a far
valere le proprie richieste presso il parlamento o il governo. Secondo Lowi, nel quadro del
sistema politico americano a livello federale, le politiche distributive sono gestite a livello
decentrato nelle commissioni parlamentari.
Le politiche regolative sono politiche che definiscono regole, obblighi e divieti. Si riferiscono
alla condotta individuale e prevedono l’uso della coercizione in caso di infrazione, mediante
l’applicazione di sanzioni. Il diritto penale, la fissazione di limiti di scarichi nelle acque per le
industrie, il codice della strada, l’istituzioni delle unioni civili o del matrimonio per le coppie gay,
l’introduzione del pedaggio in città sono politiche di questo tipo. Gli attori che intervengono nel
processo di formulazione dei provvedimenti sono soprattutto gruppi di interesse che
rappresentano intere categorie; le interazioni sono più conflittuali rispetto alle politiche
distributive. La loro approvazione è generalmente demandata al parlamento o alle assemblee
elettive locali, come il consiglio comunale nel caso del nostro esempio sul pedaggio.
Le politiche redistributive sono politiche che hanno lo scopo di riequilibrare le risorse
all’interno della società: sottraggono risorse a specifiche classi o gruppi sociali e le attribuiscono
ad altre classi o gruppi. Si tratta delle politiche «alla Robin Hood», perché tolgono a chi sta
meglio per dare a chi sta peggio (e talvolta, purtroppo, anche viceversa). Non si applicano a
singoli individui, ma a intere classi sociali; l’uso della coercizione è presente nei confronti dei
gruppi che sono costretti a pagare. Appartengono a questo tipo le tasse sui patrimoni per
finanziare programmi di carattere sociale per le fasce più povere o più deboli della popolazione;
la tassazione progressiva del reddito utilizzata per finanziare servizi offerti gratuitamente
all’intera popolazione, come l’istruzione o i servizi sanitari; le tasse universitarie differenziate in
base alla situazione economico-patrimoniale del nucleo famigliare degli studenti, al fine di
favorire l’accesso all’istruzione universitaria anche a chi non appartiene al ceto medio-alto; la
tassazione delle pensioni elevate per aumentare le pensioni sociali riconosciute agli anziani in
condizioni di povertà; le politiche regionali europee che finanziano specifiche aree in ritardo di
sviluppo con fondi messi a disposizione da tutti gli stati membri; e così via.
All’opposto delle politiche distributive, le politiche redistributive sono molto conflittuali,
perché è del tutto evidente quali sono i soggetti che subiscono i costi e coloro che ottengono
benefici. Solitamente sono gestite attraverso incontri al vertice tra il governo e i grandi gruppi di
interesse nazionali o, nel caso delle politiche europee, attraverso lunghe e complesse negoziazioni
tra gli stati membri nel consiglio europeo.
Le politiche costitutive definiscono le regole di fondo del sistema politico: come per esempio le
leggi elettorali, le norme di carattere costituzionale o quelle che istituiscono o trasformano nuovi
organismi pubblici con compiti amministrativi (ministeri, agenzie, enti pubblici, ecc.). Sono
politiche che attribuiscono poteri o funzioni (e quindi non prevedono la possibilità di sanzioni) e
non si applicano a singoli individui ma riguardano piuttosto l’azione collettiva.
Con questa tipologia, Lowi mette in luce il fatto che i governi hanno di fronte a sé quattro
grandi alternative per affrontare i problemi pubblici: possono distribuire, regolare, ridistribuire o
costituire (le regole del gioco). Questa classificazione è stata spesso criticata perché i quattro tipi
non sono così nettamente distinti e alternativi tra di loro: le politiche pubbliche che troviamo nella
realtà sono spesso composite e può essere difficile ricondurle con certezza a uno dei quattro tipi.
Ad esempio le politiche energetiche in molti paesi sono un misto di misure distributive – sussidi
e incentivi per contenere i costi di produzione dell’energia finanziati attraverso la fiscalità
generale o «spalmandoli» sulla bolletta di milioni di persone – e misure regolative – ad esempio
riguardanti le regole per la localizzazione degli impianti di produzione; lo specifico mix tra
distribuzione e regolazione inoltre può cambiare nel corso del tempo (PRONTERA 2008).
Ciò malgrado la proposta di Lowi ha il pregio di offrire un quadro semplice e potente delle
diverse modalità con cui il potere politico può operare. E infatti le sue categorie sono spesso
utilizzate anche al di fuori della comunità scientifica. Sono anche molto efficaci per mettere in
luce le trasformazioni che lo stato ha attraversato nel corso dei decenni. Mentre lo stato liberale
ottocentesco si basava soprattutto su politiche regolative, lo stato sociale (o welfare state)
novecentesco si è indirizzato prevalentemente su politiche redistributive (con lo sviluppo dei
servizi sociali, della sanità pubblica e della scuola) e distributive, mentre attualmente lo stato
neoliberale sta tornando a privilegiare le politiche regolative al fine di contenere l’espansione della
spesa pubblica.
Il contributo fondamentale di Lowi consiste, comunque, nell’idea che a ogni tipo di politica
pubblica corrisponda un’arena del potere, diversa e specifica, ossia che, passando da un tipo di
policy all’altro, mutano gli attori e mutano le loro relazioni reciproche. Ma prima di affrontare
questo punto, conviene esaminare la seconda tipologia.
◼ 2. La tipologia di Wilson
Un altro modo per analizzare il rapporto tra le politiche pubbliche e gli attori è quello
proposto da James Q. Wilson (1980) che individua anche lui, ma sulla base di dimensioni diverse,
quattro tipi di politiche che in parte si sovrappongono ai tipi individuati da Lowi e in parte no.
Wilson parte dal presupposto che ogni politica pubblica crea vantaggi (o benefici) e svantaggi (o
costi) per qualcuno: detto in altre parole c’è chi ci guadagna e chi ci perde. Sia i benefici che i costi
possono essere diffusi o concentrati. I benefici di una politica pubblica sono concentrati quando
vanno a vantaggio di specifiche categorie ben individuabili di cittadini (per esempio i contributi
erogati agli agricoltori o alle imprese); sono diffusi quando riguardano la collettività nel suo
complesso (per esempio gli interventi per migliorare la qualità dell’aria). A loro volta i costi sono
concentrati quando sono sostenuti solo da alcuni gruppi di cittadini chiaramente individuati (per
esempio l’obbligo per le imprese di diminuire le emissioni di CO2); sono diffusi quando sono a
carico dell’insieme di cittadini (per esempio attraverso le imposte).
La distinzione tra concentrazione e diffusione dei benefici e dei costi è importante perché
incide sull’intensità delle preferenze dei cittadini (vedi anche Capitolo 7, § 3). Se i costi sono
diffusi, si distribuiscono tra tutti i cittadini: a ciascuno di loro toccherà offrire un contributo di
entità minima e quindi la sua opposizione sarà debole o inesistente. Se invece i costi vengono
specificamente addossati a lui o alla sua categoria, la sua contrarietà sarà molto più intensa.
All’inverso, i cittadini premeranno con molta convinzione per ottenere specifici benefici per sé,
ma saranno meno interessati a benefici che si diluiscono tra tutti e che quindi il singolo individuo
faticherà a percepire.
I tipi di politiche che risultano dall’incrocio di queste dimensioni sono presentati nella figura
2.
Figura 2
La tipologia di Wilson.
Fonte: WILSON 1980, pp. 366-372.
◼ 3. Politiche e politica
Il punto chiave delle teorie di Lowi e di Wilson consiste nell’affermazione che a ogni tipo di
politica pubblica corrisponde una diversa struttura delle relazioni tra gli attori o, all’inverso, che il
comportamento degli attori dipende dalla policy concretamente in gioco. In questo modo i due
studiosi capovolgono la classica relazione tra la politica e le politiche che abbiamo visto nel primo
capitolo, ossia l’idea che le politiche (policy) siano un prodotto di ciò che avviene nella sfera
politica (politics) (Capitolo 1, § 3).
Lowi scrive infatti perentoriamente (e provocatoriamente) che «le politiche determinano la
politica» («policies determine politics») (Lowi 1972, p. 299) (figura 3). Con questa affermazione,
egli intende dire che gli attori che si attivano e le relazioni che si stabiliscono tra di loro (la
politics), dipendono dalla natura delle politiche in discussione o, potremmo dire, dalle
caratteristiche dell’oggetto del contendere (la policy): «le relazioni politiche – scrive Lowi – sono
determinate dal tipo di politica in gioco, di modo che per ogni tipo di politica (policy) è probabile
che ci sia uno specifico tipo di relazione politica (politics)» (LOWI 1964b, p. 688). La sfera politica
assume forme diverse a seconda delle politiche che si trova a affrontare.
Figura 3
La relazione tra politiche e politica secondo Lowi.
Gli anni in cui Lowi elaborò la sua interpretazione erano caratterizzati, negli Stati Uniti, da
un’intensa controversia tra elitisti e pluralisti: i primi ritenevano che le decisioni pubbliche
derivassero dall’interazione sistematica di pochi soggetti influenti (quelli che oggi chiameremmo
i «poteri forti»); i secondi ritenevano invece che le politiche pubbliche scaturissero
dall’interazione tra un alto numero di gruppi che sostenevano gli interessi e i punti di vista più
diversi e che quindi il potere non fosse concentrato nelle mani di pochi. Theodore Lowi si inserì
in modo originale in questo dibattito, suggerendo che entrambe le interpretazioni erano corrette
e non necessariamente in contraddizione tra di loro: infatti non esiste un’unica arena del potere
(un unico policy network, potremmo dire) che presiede sistematicamente alla formulazione di
tutte le politiche pubbliche, ma diverse arene o reti di attori, più o meno elitarie o pluraliste,
stabili o mutevoli, coese o frammentate, che variano in relazione al tipo di politica pubblica di cui
si occupano. In particolare, come già accennato, le politiche redistributive tendono a essere
trattate in arene elitarie, ristrette e relativamente coese, mentre le politiche regolative e quelle
distributive sono tendenzialmente gestite in arene pluraliste, più ampie e aperte, e più egualitarie
in termini di distribuzione delle risorse di influenza.
Anche se l’interpretazione di Lowi può apparire controintuitiva, in realtà l’idea che le
politiche tendano a strutturare le arene in cui operano gli attori politici, rimane al centro di gran
parte degli studi sulle politiche pubbliche. Prendiamo ad esempio il caso delle politiche
pensionistiche in Italia. Le riforme condotte a partire dagli anni Novanta del Novecento hanno
perseguito due obiettivi di fondo: il contenimento della spesa pensionistica pubblica e
l’attivazione di un sistema di previdenza privata complementare non obbligatoria allo scopo di
integrare il reddito dei futuri pensionati. Questi due obiettivi sono stati perseguiti attraverso una
sorta di sdoppiamento della politica previdenziale: da un lato sono state approvate misure
restrittive sull’età pensionabile (che è stata alzata) e sul calcolo della pensione (che è passato dal
più generoso metodo retributivo a quello contributivo); dall’altro lato è stato attivato un nuovo
sistema di pensioni integrative private su base volontaria allo scopo di compensare la riduzione
delle pensioni pubbliche. Come ha mostrato lo studio di Matteo Jessoula (2011), il tipo di misure
in discussione (policy) ha influenzato la composizione dei policy networks e i modelli di
interazione fra gli attori che li compongono (politics). Le due arene decisionali, distinte e
parallele, che hanno affrontato i due aspetti della politica previdenziale sono infatti risultate assai
diverse. Nel primo policy network, che si è occupato delle restrizioni alla spesa pubblica in ambito
pensionistico, gli attori chiave sono stati i classici soggetti del modello neocorporativo – governo,
sindacati e rappresentanti degli imprenditori – e il processo decisionale ha alternato fasi di
concertazione a fasi di conflitto. Nel secondo policy network, che si è occupato dell’introduzione
delle pensioni integrative, oltre agli attori già citati, sono comparsi anche rappresentati di banche,
assicurazioni e del mondo finanziario che hanno contribuito alla formulazione della misura di
policy e lo hanno fatto principalmente attraverso negoziati specifici e separati.
Sia il contributo di Lowi sia quello di Wilson, che si muove nel solco tracciato dal primo,
sono particolarmente utili agli stessi policy makers, perché li aiutano a capire, ricorrendo a poche
informazioni essenziali sulla natura della politica pubblica in discussione, quale arena si
troveranno di fronte: se possono aspettarsi una situazione conflittuale o cooperativa, una rete di
attori ampia o ristretta, e se le misure su cui stanno lavorando potranno essere approvate
agevolmente o se invece incontreranno seri ostacoli e richiederanno un impegno di particolare
intensità.
Dalla teoria di Lowi si può dedurre che le politiche che si possono fare più agevolmente sono
quelle distributive; all’opposto, le politiche di tipo redistributivo sono quelle che presentano i
maggiori ostacoli essendo generalmente associate a un elevato livello di conflitto tra gruppi
sociali, mentre gli altri due tipi di politiche possono presentare difficoltà variabili, più o meno
intense a seconda dei casi concreti. È probabile che un sistema politico debole sia particolarmente
propenso verso le politiche distributive, perché non scontentano nessuno e sono quindi
particolarmente attraenti per i politici; in questi casi è probabile che si generi una «deriva
distributiva», ossia la tendenza a affrontare i problemi collettivi mediante la distribuzione di
risorse, piuttosto che con altri mezzi. Viceversa le politiche redistributive richiedono una politica
forte in grado di reggere in arene fortemente conflittuali.
La teoria di Wilson, a sua volta, ci aiuta a focalizzare l’attenzione su alcune sfide che talvolta i
policy makers si trovano a dover affrontare: l’indifferenza e il free-riding dei cittadini nel caso di
politiche che presentano costi e benefici diffusi (come nel caso della raccolta differenziata dei
rifiuti); la forte capacità di mobilitazione dei soggetti svantaggiati nel caso di politiche con costi
concentrati e benefici diffusi o comunque scarsamente percepibili.
Un insieme di politiche che ricadono in questo gruppo, ossia casi in cui pochi sono chiamati
a pagare per tutti, è costituito dalla realizzazione di opere pubbliche che comportano gravi
impatti sul piano locale (come inceneritori, impianti per la produzione di energia, autostrade e
ferrovie) o dalla localizzazione di servizi ritenuti causa di insicurezza urbana, degrado e
deprezzamento dei valori immobiliari (centri di cura per malati psichiatrici o tossicodipendenti,
carceri, campi nomadi, moschee). In questi casi, a fronte di benefici diffusi per l’insieme della
collettività, gli interventi producono esternalità negative concentrate. Ne deriva generalmente un
aspro conflitto tra le autorità centrali e le comunità locali, che spesso determina lunghe impasse
decisionali, a meno di riuscire a diminuire i costi per le comunità coinvolte e a offrire loro
benefici concentrati (BRION 1991; GERRARD 1996; TAKAHASHI 1998; BOBBIO – ZEPPETELLA 1999;
BOBBIO 2011).
HO CAPITO? ESERCIZI DI AUTOVALUTAZIONE
1. Secondo Theodor Lowi, il minor grado di conflitto nell’arena politica si manifesta quando sono in discussione politiche
pubbliche di tipo:
a) distributivo
b) regolativo
c) redistributivo
d) costitutivo
2. L’affermazione di Theodore Lowi secondo cui «le politiche determinano la politica» significa che:
a) gli attori e le loro relazioni reciproche cambiano a seconda della natura delle scelte pubbliche che sono sul tappeto
b) le politiche pubbliche sono il risultato della negoziazione che si svolge tra i partiti politici
c) le politica e le politiche sono continuamente intrecciate tra di loro
d) le politiche dipendono dalla politica nel senso che esse vengono formulate dalla maggioranza che si forma attraverso le
elezioni
3. Per far fronte alle difficoltà in cui si trovano le coppie che decidono di fare un figlio, il governo ha deciso di corrispondere un
bonus bebé a tutte le famiglie dopo la nascita del figlio. Questa misura è di tipo:
a) distributivo
b) regolativo
c) redistributivo
d) costitutivo
4. In quale quadrante della matrice di Wilson ricade la misura indicata nell’esercizio precedente?
a) nel quadrante: costi concentrati e benefici concentrati
b) nel quadrante: costi concentrati e benefici diffusi
c) nel quadrante: costi diffusi e benefici diffusi
d) nel quadrante: costi diffusi e benefici concentrati
5. In parlamento è stato proposto di finanziare un aumento delle pensioni per gli anziani con più di 75 anni e in condizione di
indigenza con una imposta del 3% sui redditi eccedenti i 150.000 euro l’anno. Questa misura è di tipo:
a) distributivo
b) regolativo
c) redistributivo
d) costitutivo
8. «In questa città decidono tutto un paio di banchieri e di costruttori insieme al sindaco». Chi fa un’affermazione di questo
genere esprime una posizione di tipo:
a) elitista
b) pluralista
9. Una persona che esprime una posizione pluralista, che cosa potrebbe dire sulle decisioni che vengono prese nella sua città?
10. In quale quadrante della matrice di Wilson ci colloca una misura che vieta alle industrie di scaricare nei fiumi sostanze nocive
entro un certo limite?
a) nel quadrante: costi diffusi e benefici diffusi
b) nel quadrante: costi diffusi e benefici concentrati
c) nel quadrante: costi concentrati e benefici concentrati
d) nel quadrante: costi concentrati e benefici diffusi
Capitolo 4
I problemi pubblici e l’agenda
1. Cosa sono i problemi pubblici
2. Alle radici dei processi di framing
3. Le conseguenze del framing
4. Agenda pubblica e agenda istituzionale
5. La teoria dei flussi multipli
6. Nei panni dei policy makers
Nel primo capitolo abbiamo detto che una politica pubblica si definisce a partire dal
problema (o dai problemi) che intende affrontare. In questo capitolo cercheremo di capire come
e perché una condizione sociale viene riconosciuta e definita come un problema degno di essere
affrontato attraverso una o più politiche pubbliche, in un determinato momento storico e in un
determinato contesto. Per esempio: come si definisce il problema della violenza contro le donne?
Il terrorismo è un problema intrinsecamente insolubile? Perché il problema della dipendenza da
stupefacenti è considerato da alcuni principalmente un problema di ordine pubblico e da altri
invece un problema di disagio sociale, e quali conseguenze comporta definirlo in un modo o
nell’altro? Partendo da domande di questo tipo, nelle prossime pagine approfondiremo ciò che
gli scienziati sociali hanno teorizzato e dimostrato sui processi di definizione dei problemi
pubblici, mettendo in luce le caratteristiche di una fase del ciclo di policy che è spesso
determinante.
Come stabiliamo che una condizione sociale è (o non è) un problema pubblico, ossia una
condizione che richiede di essere (o non essere) affrontata mediante una o più politiche
pubbliche?
Fino agli anni Sessanta del Novecento, l’orientamento più diffuso era che i problemi pubblici
fossero identificabili in maniera oggettiva, fossero cioè disfunzioni del sistema sociale rilevabili
attraverso un’attenta analisi dei fatti e una rigorosa misurazione dei fenomeni. Questa prospettiva
è stata etichettata sinteticamente con l’espressione approccio oggettivista (NEVEU 2015). Tale
approccio, nonostante sia stato e continui a essere difeso da studiosi e policy makers, è stato
ampiamente criticato a partire dagli anni Settanta del Novecento, quando ha cominciato a
diffondersi una concezione dei fenomeni sociali definita costruttivista o soggettivista (BLUMER
1971; HILGARTNER − BOSK 1988).
L’approccio costruttivista sostiene che le condizioni sociali e i problemi pubblici sono
«costruiti attraverso rivendicazioni e sequenze di eventi» (NEVEU 2015, p.34-35). Se i problemi
sono costruiti, i loro confini e le loro caratteristiche non sono oggettivamente rilevabili e
misurabili, ma diventano espressione dei soggetti che li costruiscono e dei contesti entro cui i
soggetti sono inseriti. In quest’ottica, possiamo dire che la definizione dei problemi ha natura
condizionale e quindi mutevole, nel tempo, nello spazio e fra i soggetti. Fino alla prima metà del
XX secolo l’omosessualità era considerata un problema di devianza sociale e persino severamente
punita, come ricordano le vicende dello scrittore Oscar Wilde e del matematico Alan Turing,
mentre oggi il problema è diventato quello di garantire agli omosessuali gli stessi diritti degli
eterosessuali. In molti paesi oggi l’adulterio non è nemmeno considerato un problema pubblico,
mentre in altri ha implicazioni penali e in alcuni è persino punito con la pena di morte. Secondo
alcuni, i kamikaze dello «Stato islamico» appartengono a «nuove generazioni estremiste»
indottrinate da una «vasta industria che produce teologi, leggi religiose, libri e politiche editoriali
e mediatiche aggressive»1, mentre secondo altri sono persone isolate ed emarginate, che si
avvicinano al terrorismo «non tramite le moschee e per motivi che spesso hanno poco a che fare
con la religione»2.
Secondo l’approccio costruttivista, nemmeno le misurazioni possono essere considerate del
tutto neutre e autoevidenti, poiché misurare un fenomeno significa prima di tutto scegliere fra
opzioni e visioni alternative. L’interpretazione dei fatti e la misurazione dei fenomeni avviene
infatti attraverso processi di categorizzazione, che necessariamente tracciano confini
selezionando ed escludendo, privilegiando alcuni aspetti e trascurandone altri (STONE 2002).
Facciamo due esempi.
Se il reddito minimo garantito nasce come risposta al problema della povertà, non esiste «la
povertà» in quanto fenomeno autoevidente né essa è univocamente misurabile. Esistono semmai
diversi modi per vederla e definirla, e questi modi sono frutto di scelte e considerazioni che in un
dato momento storico un certo numero di policy makers considera sensate e fattibili. In questo
caso, esistono almeno due possibili misurazioni della povertà: quella relativa, che misura la
povertà come scarto rispetto al reddito medio di una popolazione di riferimento, e quella
assoluta, che utilizza come soglia il valore monetario di un paniere di beni e servizi considerati
essenziali per vivere una vita dignitosa. Persone che sono definite povere in base a una
definizione non lo sono necessariamente in base all’altra, e quindi le due definizioni possono
presupporre platee diverse di potenziali beneficiari di misure di sostegno al reddito.
I limiti di finanza pubblica stabiliti dall’Unione europea per i paesi dell’area Euro (debito
pubblico non superiore al 60% del PIL, deficit annuo di bilancio non superiore al 3% del PIL)
sono spesso citati come misure oggettive del livello di solidità finanziaria dei paesi. In realtà non
lo sono, nel senso che queste soglie furono fissate (nel trattato di Maastricht del 1992 e
successivamente confermate) considerando le correnti condizioni dei paesi allora candidati
all’ingresso nell’area Euro, ed effettuando stime basate sugli andamenti passati dei due indicatori.
Il 60% corrispondeva al valore medio del rapporto debito pubblico/PIL dei paesi disposti a
realizzare l’unione monetaria europea all’inizio degli anni Novanta del Novecento, ma si sarebbe
potuto fissare una soglia diversa ricorrendo a un altro parametro. Il limite al deficit annuo di
bilancio venne pensato affinché i paesi maggiormente indebitati convergessero nel lungo periodo
verso il valore medio del 60%, allo scopo di facilitare il processo di integrazione monetaria.
Questa soglia del 3% venne fissata basandosi sul tasso medio di crescita del PIL reale dei paesi
europei del ventennio precedente, che fu però poi in gran parte disatteso dai dati di crescita reali
del PIL nei decenni successivi.
La concezione costruttivista ha in sostanza messo in luce che i fenomeni non sono
autoevidenti e univocamente misurabili e la loro definizione dipende da processi cognitivi che
sono soggettivi. Tali processi sono comunemente sintetizzati con il termine framing, che
possiamo tradurre con l’espressione inquadramento cognitivo. Possiamo dire che i frames sono le
storie che vengono costruite intorno a un problema pubblico e che toccano vari aspetti del
triangolo delle politiche che abbiamo visto nel capitolo 1: perché una condizione sociale è un
problema, chi ne beneficia e chi lo subisce, di chi è la colpa e perché, chi è tenuto a risolverlo
(figura 1) (SCHOEN – REIN 1994; STONE 2002; ZITTOUN 2014). Per esempio, il problema della droga
è interpretato da alcuni come problema sanitario, da altri come problema di sicurezza e da altri
ancora come problema di disagio psicologico e sociale. Questi diversi inquadramenti del
problema fanno ricorso a concezioni dei fenomeni sociali almeno in parte differenti e a
definizioni parzialmente diverse dei soggetti toccati dal problema, dei soggetti e delle istituzioni
titolate ad affrontarlo e dei potenziali beneficiari di misure di intervento pubblico.
Figura 1
Il processo di framing e il triangolo delle politiche pubbliche.
– l’unicità del fenomeno o della condizione sociale, data o dalla sua novità o dal carattere
continuamente mutevole, elementi che non consentono la costruzione di definizioni
relativamente chiare e stabili del problema pubblico;
– il carattere fortemente composito, dato dall’intreccio di numerose componenti, che impedisce
di trattarle separatamente, perché le soluzioni efficaci per una componente tendono a
peggiorarne un’altra (ARENTSEN et al. 2000).
Cosa spinge gli attori a definire e inquadrare un problema pubblico in un certo modo?
Intuitivamente, tendiamo a spiegare i processi di categorizzazione e interpretazione dei
problemi facendo riferimento prima di tutto agli interessi dei soggetti che operano questa
«costruzione» e gli studi sulle politiche pubbliche offrono numerose conferme al riguardo. Per
esempio, Aaron McCright e Riley Dunlap (2003, p. 351) hanno evidenziato come negli anni
Novanta del Novecento i think tanks finanziati dalle grandi aziende responsabili dell’emissione di
grandi quantitativi di sostanze inquinanti in atmosfera avessero investito notevoli risorse di vario
tipo per veicolare una definizione del problema del riscaldamento globale come «condizione
negativa non problematica» (ossia come una condizione ambientale che reca danni all’ecosistema
ma che non merita al momento gli sforzi necessari per un intervento pubblico efficace), per
evitare di esser costrette a investire risorse nell’ammodernamento tecnologico degli impianti. Gli
interessi hanno indubbiamente un ruolo rilevante nella costruzione sociale dei problemi pubblici
e sarebbe facile reperire esempi come quello citato in tutti i settori di politiche pubbliche.
Tuttavia, identificare tutti i fattori che determinano i processi di inquadramento cognitivo non è
così semplice come sembra e il dibattito resta aperto. Deborah Stone (2002, p. 211) sottolinea al
riguardo come limitarsi a considerare gli interessi implichi l’assunto che gli individui siano in
grado di comprendere e stabilire con precisione quali siano i propri interessi di fronte a una
questione pubblica, mentre in molti casi le persone non si accorgono di essere toccate da un
fenomeno (errore etichettato come «mancanza di consapevolezza»), o viceversa pensano di essere
afflitte da un problema che in realtà non le riguarda (errore etichettato come «falsa
consapevolezza»). D’altro canto, molte mobilitazioni collettive non si basano sulla rivendicazione
di interessi dei militanti, ma sulla costruzione di alternative di senso, ossia interpretazioni che si
scontrano con le rappresentazioni sociali diffuse e che sono prevalentemente orientate alla difesa
di interessi altrui o alla promozione di principi e valori difesi come universali (MELUCCI 1986). Se
gli interessi individuali o di gruppo non spiegano tutto, gli studiosi hanno evidenziato
l’importanza di altri due fattori, non solo perché possono indurre gli individui a prescindere dagli
interessi, ma perché influiscono sul modo stesso in cui gli attori li definiscono (PIZZORNO 1993;
CAMPBELL 2002).
Il primo è costituito dalle regole, le routines o le specifiche competenze professionali o
disciplinari entro cui gli attori pensano e agiscono. La sociologia delle organizzazioni ha da
tempo dimostrato come la definizione e interpretazione dei fenomeni discenda in parte anche
dalle regole e routines consolidate, che indirizzano i comportamenti degli attori e che vengono
gradualmente interiorizzate, influendo sul modo in cui essi guardano la realtà. In particolare, la
definizione di una situazione è spesso costruita da un attore sociale in coerenza con i principi
dell’organizzazione in cui opera e con l’esperienza soggettiva che possiede del fenomeno
(GOFFMAN 1974). In questo senso, è plausibile immaginare che il problema dell’inquinamento
atmosferico in città possa essere inquadrato in modo diverso a seconda che lo guardi un
ingegnere trasportista che lavora per l’agenzia del trasporto pubblico urbano, un fisico che lavora
per l’agenzia di protezione dell’ambiente, un funzionario comunale responsabile delle procedure
di infrazione nei confronti dell’Unione europea o un esponente di un’associazione ambientalista
che promuove una campagna di denuncia contro i danni alla salute indirettamente arrecati dalle
istituzioni pubbliche. Probabilmente, il primo definirà l’inquinamento atmosferico soprattutto
come un problema di flussi di traffico e utilizzerà dati e statistiche per mettere in luce come le
politiche di regolazione del traffico possano aiutare a ridurre i livelli di polveri sottili; il secondo
osserverà il medesimo problema come un fenomeno affetto soprattutto dalle dinamiche di
dispersione degli inquinanti, puntando l’attenzione sulla difficoltà ad agire su scala urbana data
l’estrema volatilità delle sostanze inquinanti, che possono provenire anche da territori distanti
decine di chilometri; il terzo verosimilmente leggerà la questione come un problema di procedure
da rispettare e sanzioni da pagare, focalizzando l’attenzione sulle misure che consentono di
arginare o limitare le sanzioni nel breve periodo; infine il quarto potrà interpretare la questione
come un problema di incompetenza o lassismo della classe politico-amministrativa, puntando
magari l’attenzione sull’esigenza di intervenire con misure straordinarie che tengano conto di
competenze esperte e trasversali esterne all’amministrazione.
Particolare enfasi è oggi posta sul ruolo delle idee che circolano in un certo periodo nelle
comunità di riferimento dei vari attori di policy. Il concetto di idea è sfuggente e di difficile
definizione, ma possiamo dire che nel linguaggio politologico non ci si riferisce genericamente a
ogni nozione o immagine che le persone hanno dei fenomeni sociali, bensì a sistemi di credenze
consolidate che si fondano su specifiche visioni del mondo, principi e valori di fondo e grandi
teorie causa-effetto. Tali sistemi di credenze possono essere scomposti in due principali strati, fra
loro coerenti e interconnessi (CAPANO 1995): a livello macro i fondamenti normativi e ontologici,
le cosiddette credenze di fondo (per esempio, la concezione dell’uomo come essere
fondamentalmente cooperativo); a livello meso le grandi teorie causali coerenti con le credenze di
fondo (per esempio, la credenza che, essendo l’uomo fondamentamente cooperativo, la
deregolamentazione favorisca lo sviluppo spontaneo di pratiche di scambio virtuose). Il livello
macro e il livello meso (le idee) influenzano direttamente (anche se non deterministicamente) il
livello micro, ossia il modo in cui gli attori inquadrano e definiscono i problemi.
Potenzialmente, tutti gli attori di policy contribuiscono in misura variabile al «potere politico
delle idee» (HALL 1989). Esistono però gruppi più o meno organizzati e formalizzati che operano
esplicitamente e più efficacemente come incubatori e diffusori di idee nella società e soprattutto
nelle arene di policy: sono gruppi di attori che vengono comunemente chiamati comunità
epistemiche (dal greco epistéme, conoscenza). Le comunità epistemiche sono gruppi
relativamente ristretti e particolarmente coesi, composti da esperti che producono conoscenza
rilevante ai fini delle politiche pubbliche, condividendo gli stessi schemi concettuali. Non si tratta
genericamente di esperti, ma di vere e proprie élite all’interno di tale categoria, ossia di esperti
che ricoprono ruoli di alto profilo (consiglieri speciali dell’esecutivo, esperti in istituzioni
tecniche o scientifiche prestigiose) e quindi in grado di mobilitare risorse ingenti di potere e
controllo (RADAELLI 1995). A livello internazionale, sono spesso etichettati come comunità
epistemiche i gruppi degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale
Europea o dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nei contesti nazionali, possiamo citare
consessi ristretti di esperti che operano in università con rapporti privilegiati con i governi, come
in Italia gli economisti di spicco dell’Università Bocconi di Milano o negli Stati Uniti i politologi
della Kennedy School of Government dell’Università di Harvard o in Francia i giuristi e gli
esperti ai vertici di alcune Grandes écoles, ossia gli istituti che formano gli alti funzionari
ministeriali.
Le comunità epistemiche sono particolarmente influenti nei processi di definizione dei
problemi pubblici, soprattutto in certi settori di policy, per la combinazione di tre principali
risorse:
– credenze solide, ossia relativamente stabili e resistenti di fronte a pressioni esterne dissonanti,
perché si sono consolidate e rafforzate nel tempo attraverso processi di condivisione e
riconoscimento reciproco dei membri (HAAS 1992);
– controllo della conoscenza, nel senso che possiedono un bagaglio consistente di conoscenza su
un certo tipo di fenomeni e sono quindi in grado di giustificare in modo convincente le
proprie interpretazioni di certi problemi di fronte agli altri attori dell’arena di policy che non
padroneggiano tale conoscenza allo stesso livello (HAAS 1992);
– posizioni strategiche, poiché sono in genere situati fra mondo della comunità scientifica,
mondo della burocrazia e mondo della politica, il che consente loro di diventare intermediari
della conoscenza (knowledge brokers), riuscendo a offrire formulazioni dei problemi che sono
in grado di attrarre contemporaneamente l’attenzione di esperti, burocrati e politici (GAINS –
STOKER 2011).
Se interessi, routines e idee sono alla base dei processi di inquadramento cognitivo, è
probabile che, a certe condizioni, una componente tenda a prevalere sulle altre. Quale
componente prevalga, quando e perché è però una questione tanto antica quanto ancora
controversa.
Comprendere come vengono definiti e inquadrati i problemi pubblici è importante non solo
perché consente di far luce su quella che abbiamo trattato come prima fase del ciclo delle
politiche, ma perché questa prima fase influenza in misura sostanziale quelle successive,
determinando aspetti significativi dell’arena decisionale, degli strumenti di policy e dei soggetti
beneficiari e destinatari di tali strumenti. In sostanza, l’inquadramento del problema pubblico è
rilevante perché rappresenta il primo momento in cui la politica pubblica apre alcune porte
chiudendone altre e in cui incontra dei bivi, superati i quali è spesso difficile tornare indietro.
Innanzitutto, il modo in cui un problema pubblico viene tematizzato influenza la probabilità
che esso attragga l’attenzione dell’opinione pubblica. Per esempio, analizzando il contesto
statunitense, Roger Cobb e Charles Elder (1972) sostennero che i problemi sociali che con
maggiore probabilità guadagnano visibilità e salienza pubblica sono quelli che vengono definiti in
modo divergente da gruppi in conflitto. Il conflitto sulla definizione del problema indurrebbe i
gruppi a cercare sostenitori fra coloro che sono sensibili a questioni in qualche modo vicine al
problema conteso, innescando così un processo di attivazione dell’opinione pubblica sul tema.
La letteratura psicologica sulla percezione del rischio ha dimostrato come i fenomeni che
comportano rischi associati a eventi involontari o imprevedibili siano in genere sovrastimati dagli
individui. Richiamando questa relazione, gli studi politologici sui cosiddetti eventi focalizzanti
(KINGDON 1984; BIRKLAND 1997; BIRKLAND – DEYOUNG 2012) hanno evidenziato come problemi
pubblici inquadrati come effetti di fenomeni inattesi e stravolgenti (disastri naturali, incidenti,
crisi) abbiano maggiori probabilità di essere considerati dall’opinione pubblica come «urgenti»,
ossia bisognosi di risposte immediate da parte delle istituzioni pubbliche (KNOEPFEL et al. 2011, p.
140).
Secondo alcuni studiosi, anche l’inquadramento di un problema che faccia uso di simboli forti
aumenta la probabilità che esso attragga l’attenzione dell’opinione pubblica. Cosa siano i simboli
forti è però materia di dibattito. Frank Baumgartner e Bryan Jones (1993) identificano come
simboli forti quelli intrinsecamente valutativi, cioè nettamente positivi (per esempio le idee di
progresso, crescita economica, salute) o nettamente negativi (per esempio il concetto di degrado
o di morte). Neveu (2015) li identifica invece nei simboli «prossimi», ossia quelli che attengono
alla sfera più intima ed emotiva delle persone.
La definizione del problema pubblico è inoltre un passo essenziale che influisce sul tipo attori
che prendono parte al processo decisionale. Baumgartner e Jones (1993), comparando l’effetto
della tematizzazione di una questione pubblica (per esempio, il tabacco e il suo utilizzo da parte
dell’industria americana delle sigarette) con simboli e immagini estremamente positivi o negativi,
arrivarono alla conclusione che l’inquadramento della questione da parte dei media in una
cornice positiva (per esempio, notizie sulla crescita di esportazioni del tabacco o sulle sigarette in
quanto simboli di ascesa sociale e seduzione) aveva innescato la creazione di un determinato
policy network (Capitolo 2, § 9). Dopo diversi anni, l’inquadramento del problema pubblico da
parte dei media cambiò radicalmente e il problema cominciò a essere raccontato in una cornice
fortemente negativa e critica (in gran parte attraverso notizie sul fumo come causa di tumori). Gli
autori dimostrarono con un’accurata analisi empirica che a questo mutamento di frame seguì in
breve tempo la rottura del vecchio policy network e la sua sostituzione con una nuova
configurazione di rete (attori e relazioni parzialmente differenti).
Come abbiamo già accennato, la definizione del problema pubblico incide sul tipo di
soluzioni che emergono nell’arena di policy (JOCHIM – MAY 2010). Prendiamo ad esempio le
politiche in ambito carcerario volte a ridurre il rischio di recidiva degli ex detenuti che escono dal
carcere e devono reinserirsi nel contesto sociale e lavorativo esterno. A seconda di come viene
definito il problema della tendenza alla recidiva da parte degli ex detenuti, i paesi e le singole
organizzazioni carcerarie intervengono con provvedimenti e interventi molto diversi. Per
esempio, nel Regno Unito e in Francia esistono politiche per ridurre il rischio di recidiva molto
diverse poiché alla base vi è una concezione differente del problema.
Nel Regno Unito sono stati introdotti in via sperimentale nel 2009 i cosiddetti Prison
Councils, ossia veri e propri consigli per l’auto-gestione di alcuni aspetti della vita carceraria,
composti da detenuti eletti e organizzati in gruppi simili a partiti (con tanto di piattaforme
programmatiche e campagne elettorali). L’introduzione di modalità democratiche di auto-
gestione nelle carceri è, secondo Schmidt (2013), direttamente collegabile a un’interpretazione
della recidiva e dei comportamenti devianti in genere principalmente come un problema di
carenza di senso di responsabilità nei confronti della comunità e di debole interiorizzazione delle
regole del vivere civile. Dopo una fase sperimentale avviata nel 2003, dal 2009 diverse carceri
francesi sono state dotate di strutture ad hoc in cui, ogni tre mesi circa, rispettando una serie di
regole stabilite dalle direzioni delle carceri e con il supporto di psicologi, i detenuti che devono
scontare pene medio-lunghe e non godono ancora di permessi possono trascorrere da qualche
ora a qualche giorno con le proprie famiglie (CRÉTENOT 2013). Questo tipo di misure parte da
una concezione della devianza e della recidiva almeno in parte diversa, ossia come un problema
di disagio sociale che va affrontato lavorando sulle relazioni affettive prima che sulle competenze
professionali o sulla socializzazione delle norme di convivenza civile.
Possiamo quindi sintetizzare richiamando Elmer Schattschneider (1957): definire un
problema significa di fatto «esercitare potere», perché significa in gran parte determinare non
solo quali sono i termini del contendere, ma anche chi è titolato a partecipare al processo
decisionale e quali strade si possono imboccare. Quando nelle discussioni pubbliche si sente
ripetere l’affermazione «il problema è un altro», quest’affermazione è spesso stigmatizzata dagli
interlocutori, in quanto interpretata come volontà di eludere la questione o come
comportamento strategico volto a esercitare controllo sull’arena e sul processo decisionale.
Sebbene i policy makers siano mossi anche da comportamenti strategici di questo tipo, contestare
l’impostazione prevalente o consolidata di un problema è un’operazione non solo legittima, ma
spesso anche doverosa. La disputa attorno alla definizione dei problemi è il sale della democrazia.
L’insieme delle condizioni sociali che l’opinione pubblica considera come problemi pubblici
viene comunemente chiamata agenda pubblica e viene distinta dalla cosiddetta agenda
istituzionale, costituita da tutti quei problemi su cui i policy makers si apprestano a discutere e a
decidere (COBB – ELDER 1972)3. In sostanza, la prima è formata dalle questioni al centro del
dibattito pubblico, la seconda è formata dai problemi per i quali i policy makers formulano
soluzioni e prendono decisioni. Dal momento che l’attenzione verso un problema è variabile,
agenda pubblica e agenda istituzionale mutano nel tempo (figura 2).
Figura 2
Andamento dell’agenda istituzionale del Congresso degli Stati Uniti sul problema dell’immigrazione (1946-2015).
Numero di udienze conoscitive dedicate al tema.
Fonte: Policy Agendas Project, http://www.policyagendas.org.
Fra agenda pubblica e agenda istituzionale vi è inoltre uno scarto sistematico, nel senso che in
genere coincidono solo in parte: solo alcuni problemi che stanno a cuore a cittadini e a gruppi
sociali sono effettivamente oggetto di discussione e decisione da parte dei policy makers e
viceversa.
Se l’agenda istituzionale differisce da quella pubblica, è importante capire se fra esse esista
qualche tipo di relazione. Per esempio, sono state date varie spiegazioni sul perché, fra Ottocento
e Novecento, le istituzioni pubbliche di diversi paesi europei abbiano cominciato a occuparsi di
come migliorare le condizioni economiche e sociali delle classi lavoratrici: fu perché i politici
dell’epoca si erano resi conto che l’industrializzazione, concentrando masse di poveri nelle città,
stava generando problemi di ordine pubblico, sanitari e igienici, o perché a un certo punto i
lavoratori sottopagati cominciarono a organizzarsi e a porre collettivamente (attraverso scioperi,
manifestazioni di protesta, negoziazioni con gli industriali attraverso i loro rappresentanti di
fabbrica, ecc.) istanze di maggior benessere e sicurezza sociale per loro stessi e le loro famiglie?
Detto in altri termini, il problema fu sollevato dapprima nell’agenda pubblica da parte dei
movimenti dei lavoratori, o nell’agenda istituzionale da parte dei policy makers?
Una lettura spesso presente nel dibattito intellettuale e politico si limita a tracciare un legame
unidirezionale quasi deterministico dall’agenda pubblica all’agenda istituzionale: le politiche
sociali come risposta alle istanze poste dal proletariato industriale, le libertà civili (per i neri, le
donne, le minoranze, ecc.) come diretta risposta alle mobilitazioni di protesta, le politiche
ambientali come risposta ai crescenti problemi di sostenibilità ambientale e depauperamento
delle risorse terrestri sollevati dai movimenti ambientalisti ecc. Pur senza disconoscere la validità
di questa interpretazione, già a partire dagli anni Settanta del Novecento Roger Cobb, Jennie-
Keith Ross e Marc Ross (1976) evidenziarono come questo modello (che essi chiamarono con
l’espressione outside initiation, ossia «iniziativa esterna») fosse solo uno dei possibili tipi di
relazione fra le due agende. L’attenzione verso determinati problemi pubblici nasce infatti spesso
autonomamente dentro i sistemi politici (inside initiation, o «iniziativa interna»), per poi
eventualmente promuovere la mobilitazione di un pubblico più vasto a sostegno di quelle
tematiche (mobilization model). Quella che Knoepfel et al. (2011, p. 151) hanno chiamato silent
corporatist action – che potremmo tradurre come azione corporativa in sordina – delinea un
modello ancora più ristretto ed elitario dell’iniziativa interna. Si tratta infatti di un modello di
iniziativa che vede la formazione dell’agenda istituzionale come esito di rapporti privilegiati e
non trasparenti fra pochi attori scarsamente permeabili alle sollecitazioni che provengono
dall’esterno del gruppo. È il caso, per esempio, dei problemi che vengono inseriti nelle agende
istituzionali per effetto di interazioni in sordina fra un gruppo di interesse e alcuni membri del
governo.
La relazione fra agenda pubblica e agenda istituzionale è influenzata da vari fattori e l’effettivo
modello di interazione fra esse resta una questione di analisi empirica. Tuttavia, oggi sappiamo
che i casi di iniziativa esterna sono in genere poco frequenti, tanto che l’espressione coniata da
Peter May (1991) – policies without publics – è divenuta oggi di uso comune nella comunità di
analisti delle politiche pubbliche.
Riprendendo un’espressione ormai nota in letteratura, possiamo dire che i problemi pubblici
si trovano a competere fra loro per guadagnarsi l’attenzione dell’opinione pubblica e soprattutto
dei policy makers (HILGARTNER – BOSK 1988). In che modo un problema pubblico riesce allora ad
avere effettivamente successo in questa competizione, ossia a divenire oggetto di un processo
decisionale catalizzando l’attenzione e gli sforzi dei policy makers e innescando così l’avvio di una
politica pubblica?
Attraverso un pionieristico lavoro di analisi svolto su alcuni settori di policy nel contesto
federale statunitense, John Kingdon (1984) ha tentando di rispondere a questo interrogativo ed è
giunto a formulare un’interessante teoria: la cosiddetta teoria dei flussi multipli (multiple streams
theory). Ispirato dai lavori di March e Olsen (Capitolo 6 § 5), Kingdon partì da tre fondamentali
intuizioni: 1) è difficile che un problema riesca a catalizzare l’attenzione dei policy makers se non
è già possibile metterlo in connessione con qualche tipo di soluzione; 2) il caso gioca spesso un
ruolo non marginale nei fenomeni sociali; 3) per rendere efficace l’azione individuale, più che la
forza delle intenzioni conta soprattutto saper sfruttare le occasioni che si presentano. La teoria
dei flussi multipli si basa infatti su una particolare combinazione fra casualità e intenzionalità.
Vediamo nel dettaglio queste due componenti.
L’elemento casuale risiede in quella che Kingdon chiama finestra di policy (policy window).
Una finestra di policy si «apre» quando tre «flussi» fra loro indipendenti convergono
fortuitamente: il flusso dei problemi (problem stream), il flusso delle politiche (policy stream) e il
flusso della politica (political stream).
Il flusso dei problemi è costituito da quelle condizioni sociali che temporaneamente
attraggono l’attenzione dei policy makers. Secondo Kingdon, questa attenzione temporanea viene
sollecitata da alcuni eventi o cambiamenti che alle orecchie degli attori di policy suonano come
«campanelli d’allarme». Si tratta in particolare di:
– eventi focalizzanti o critici, per esempio episodi come un attentato, un periodo di forte siccità,
uno scandalo, un disastro naturale;
– mutamenti repentini o consistenti degli indicatori che vengono controllati periodicamente dai
policy makers, come per esempio l’arresto del tasso di crescita del PIL, la crescita del tasso di
disoccupazione, un’elevato superamento del limite di concentrazione di una sostanza
inquinante in un fiume, l’aumento drastico degli incidenti sulle strade, ecc.;
– informazioni sul funzionamento e sugli effetti delle politiche esistenti («messaggi di
retroazione» o feedback messages), per esempio una rimostranza da parte di aziende nei
confronti dell’inefficacia e delle distorsioni prodotte dalla politica industriale del proprio
governo, una ricerca che mette in dubbio l’efficacia del reddito minimo come misura per
combattere la povertà, la pubblicazione degli esiti di una valutazione dell’efficacia dei corsi di
formazione professionale come misura per favorire il reinserimento degli ex-detenuti nel
mondo del lavoro, ecc.
Il flusso delle politiche (ma sarebbe meglio dire il flusso delle misure, delle soluzioni o delle
proposte) è costituito da quegli strumenti di intervento e quelle misure che, fra le possibili ipotesi
d’azione pubblica, sono in un certo periodo riconosciuti dagli attori di policy (in particolare dagli
specialisti che si occupano di un problema in modo sistematico e continuativo) come fattibili
(finanziariamente e tecnicamente) e accettabili (nel senso di legittimi ed eticamente consentiti).
Nel caso del riscaldamento globale, per esempio, del flusso delle politiche non fanno al momento
parte misure come la messa al bando dei veicoli a motore o degli allevamenti bovini, in quanto
considerate inaccettabili, né interventi per influire direttamente sui fenomeni atmosferici, perché
al momento tecnicamente infattibili. Il flusso delle politiche si sviluppa indipendentemente dal
flusso dei problemi. Ciò significa che esperti e specialisti lavorano in continuazione sollevando
molteplici proposte, anche se i problemi cui si rivolgono non sono entrati nel campo d’attenzione
dei policy makers.
Il flusso della politica è costituito da mutamenti che riguardano la sfera della politica intesa
come politics, ossia cambiamenti che riguardano l’assetto dei rapporti di potere fra attori politici
e sociali, per esempio l’avvento di un nuovo governo o la sostituzione di un ministro, l’uscita di
un gruppo parlamentare dalla maggioranza, il successo di un nuovo partito nella competizione
elettorale, un improvviso mutamento dell’opinione pubblica su una determinata questione
sociale, il riavvicinamento di sindacati prima divisi, ecc.
L’ingresso del problema nell’agenda può avvenire soltanto quando i tre flussi si incontrano,
ossia quando, al tempo stesso, un certo numero di attori di policy focalizzano l’attenzione su un
problema in reazione a un evento focalizzante o un mutamento di indicatori o messaggi di
retroazione (problem stream), esistono misure avvalorate dagli specialisti che si occupano
normalmente della questione (policy stream) e nel contesto politico avviene un cambiamento nei
rapporti di forza che rende più probabile la presa in considerazione di quel problema (political
stream). Se uno dei tre flussi manca all’appello, per esempio se il problema non è ancora maturo,
oppure se non esistono soluzioni considerate fattibili e accettabili, oppure ancora se il contesto
politico non è propizio, non si realizzano le condizioni per l’effettivo ingresso di un problema
pubblico nell’agenda istituzionale.
Poiché secondo Kingdon i tre flussi sono fra loro indipendenti, nel senso che si evolvono
seguendo proprie dinamiche, il loro incontro dipende in gran parte dal caso. Tuttavia, nel
determinare l’ingresso di un problema nell’agenda istituzionale non è sufficiente la convergenza
fortuita dei tre flussi. È infatti fondamentale anche l’azione mirata e consapevole di un
imprenditore di policy, ossia del patrocinatore di una specifica causa che agisce strategicamente,
aspettando con pazienza e perseveranza che arrivi il momento giusto. Per dirla con le parole di
Kingdon, l’imprenditore di policy è come un surfista che attende pazientemente che arrivi l’onda
giusta per poterla cavalcare. Nel momento in cui i tre flussi convergono e si apre quindi una
finestra di policy, l’imprenditore di policy è colui che riesce a sfruttare l’occasione accoppiando in
un momento politicamente propizio un problema che ha attirato l’attenzione dei policy makers (e
che a lui sta particolarlmente a cuore) a una soluzione fra quelle riconosciute come fattibili e
accettabili, mostrando quindi che il problema è rilevante, adatto al clima politico e affrontabile
con soluzioni disponibili. Spesso l’imprenditore di policy è un politico che vuole investire su una
certa politica pubblica e che ha una buona conoscenza dell’ambiente in cui la politica deve essere
adottata, ma può essere anche un alto funzionario, un esperto o il dirigente di un’associazione. La
figura 3 sintetizza visivamente il modello di Kingdon.
Figura 3
Il modello di Kingdon.
Secondo Kate Crowley (2013), il modello dei flussi multipli spiega il recente e inaspettato
ingresso del problema del cambiamento climatico e della riduzione dell’estrazione e
commercializzazione del carbone in Australia. Questo paese è stato per decenni uno dei maggiori
esportatori di carbone e la lobby dei produttori di combustibili fossili è un attore centrale in
diversi policy networks. Le politiche di contrasto al surriscaldamento terrestre erano state
caratterizzate solo da interventi timidi e poco incisivi e l’Australia era rimasta uno degli attori più
recalcitranti nei negoziati internazionali sugli accordi per la conversione alle energie rinnovabili.
Almeno dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, l’attenzione dell’opinione pubblica al
problema del cambiamento climatico era cresciuta, e il parlamento aveva lavorato e discusso su
varie ipotesi di intervento per ridurre le emissioni dell’industria fossile, organizzando audizioni
con esperti, organizzazioni industriali e associazioni ambientaliste: negli anni Novanta del
Novecento la commissione parlamentare sull’Industria lavorò a diverse ipotesi di tasse sul
carbone, nel 2004 venne istituita la National Emission Trading Taskforce, che avrebbe dovuto
elaborare ipotesi sulla fattibilità di un mercato fittizio delle emissioni regolamentato dallo stato
(policy stream). Tuttavia, l’assetto dei rapporti di potere fra governo e altri attori dell’arena di
policy, in particolare con la lobby del carbone, aveva continuato a impedire l’effettivo avvio di un
processo decisionale. A partire dal 2007, l’attenzione dei policy makers venne allertata dal
messaggio finale del cosiddetto «Rapporto Stern» sul cambiamento climatico, pubblicato nel
2006 dal governo britannico (problem stream). Il Rapporto dimostrava che quanto prima fossero
state intraprese azioni di riduzione delle emissioni, tanto meno costose esse sarebbero state. Il
partito laburista, allora all’opposizione, colse l’occasione per mettere al centro della campagna
elettorale la riduzione delle emissioni e la ratifica del Protocollo di Kyoto. L’economista Ross
Garnaut, in contatto con il partito laburista, pubblicò in quell’anno un working paper con
un’ipotesi di schema per la riduzione delle emissioni e cominciò ad agire da imprenditore di
policy, dalla posizione privilegiata di consigliere per le politiche contro il riscaldamento terrestre.
Nel 2007 il partito laburista vinse le elezioni e andò al governo con una larga maggioranza, ma i
rapporti di potere con la lobby del carbone non mutarono significativamente e per vicende
interne il governo si sciolse nel 2010. Alle elezioni il partito laburista non ottenne la maggioranza
assoluta dei seggi in parlamento e fu costretto a concordare un governo di minoranza con tre
parlamentari indipendenti e un esponente dei Verdi. Il necessario supporto politico di questi
parlamentari indipendenti per la tenuta del governo costrinse la prima ministra Gillard ad
accettare di rivedere la timida piattaforma sulle politiche di riduzione delle emissioni che aveva
promesso in campagna elettorale (political stream). Fu con la convergenza del flusso della politica
con gli altri due flussi che si aprì la finestra di policy, durante la quale l’economista Garnaut riuscì
a mettere all’ordine del giorno il proprio schema di riduzione delle emissioni. Nel 2011 il Clean
Energy Package, parzialmente ispirato allo schema di Garnaut, venne effettivamente approvato
dal parlamento e divenne legge nel luglio 2012.
La teoria dei flussi multipli ha stimolato la produzione di centinaia di lavori teorici e applicati
relativi a diversi settori di policy e a differenti contesti socio-politici, contribuendo non solo a
mettere alla prova la capacità euristica della teoria ma anche a perfezionarne alcuni elementi.
Alcuni studi, per esempio, hanno rilevato come in realtà le finestre di policy siano più frequenti e
prevedibili di quanto avesse teorizzato Kingdon (HOWLETT 1998), o come i flussi non possano
essere considerati del tutto indipendenti, data la frequente partecipazione di alcuni attori sia al
flusso dei problemi che a quello delle politiche (ROBINSON – ELLER 2010). Nella comunità
scientifica sono anche state avanzate alcune critiche, fra le quali la principale derubrica la teoria al
rango di metafora, poiché difficilmente testabile e falsificabile empiricamente (JONES et al. 2016).
Tuttavia, allo stato attuale della letteratura, la teoria dei flussi multipli continua a essere la più
solida e articolata spiegazione analitica della dinamica attraverso cui, nella competizione con
altri, un problema pubblico riesce a diventare effettivamente oggetto di un processo decisionale
(CAIRNEY – JONES 2016).
Nei paragrafi precedenti abbiamo affrontato le principali questioni che riguardano i problemi
e l’agenda da una prospettiva analitica, ora proveremo a dire qualcosa assumendo il punto di
vista pratico di chi voglia favorire l’accesso di un problema pubblico nelle agende pubblica e
istituzionale. Riguardo ai processi di categorizzazione e inquadramento cognitivo, la letteratura
fornisce alcuni spunti utili per i policy makers.
La presenza di definizioni diverse per il medesimo problema pubblico genera spesso conflitti,
che possono sfociare in situazioni di impasse. Come gestire questa pluralità di visioni e renderla
produttiva ai fini della formulazione di una politica pubblica? In letteratura vi sono oggi due
filoni di pensiero, che si sono strutturati e perfezionati nel corso degli ultimi decenni e che,
nonostante condividano l’obiettivo di fondo (stimolare nei policy makers processi di
apprendimento pragmatico), divergono in merito alla strategia per raggiungerlo. Si tratta di
approcci non necessariamente alternativi, ma indubbiamente molto diversi, nei presupposti
epistemologici e nell’impostazione pratica delle strategie d’azione.
Alcuni analisti pongono l’accento sull’importanza della cosiddetta evidence-based policy
analysis. In questa prospettiva, la dialettica fra definizioni diverse dei problemi deve spostarsi sul
terreno della conoscenza e puntare a costruire basi informative solide (PAWSON 2006; SANDERSON
2006; HEAD 2008; HULME – HULME 2012), che devono essere esplicite, ossia codificate, per ridurre
il rischio di distorsioni e manipolazioni, trasparenti, cioè chiare riguardo ai metodi usati per
codificarle, affinché sia possibile confutarle e falsificarle attraverso nuovi dati ed evidenze
empiriche, e replicabili, ossia comprensibili e utilizzabili in contesti differenti. Un esempio di
questo approccio è rappresentato dall’attività del Centro comune di ricerca (Joint Research
Centre)4 dell’Unione europea, costituito da sette istituti di ricerca pubblici localizzati in cinque
paesi (Belgio, Germania, Italia, Olanda e Spagna). Il Centro ha come esplicita finalità proprio
quella di fornire conoscenza empiricamente fondata, esplicita e trasparente a supporto delle
politiche dell’Unione europea, attraverso la pubblicazione di documenti scientifici, rapporti di
ricerca, conferenze e incontri pubblici divulgativi.
L’approccio cosiddetto deliberativo o argomentativo applicato alle politiche pubbliche pone
invece l’accento sulla necessità di integrare visioni e cornici cognitive differenti (FISCHER –
FORESTER 1993; FISCHER 2003; HULME – HULME 2012). In questa prospettiva, l’attenzione non è
tanto rivolta alla ricerca di fondamenti scientifici che consentano di produrre una base di
informazioni solida, con la quale inquadrare correttamente il problema. L’approccio deliberativo
punta piuttosto a far dialogare frames diversi facendo emergere i fondamenti logici e di principio
sottostanti e, a partire da questi, lavorare sulla costruzione di una definizione condivisa del
problema (SCHOEN – REIN 1994). Un esempio di questo approccio è rappresentato dall’attività
della Commissione nazionale per il dibattito pubblico (Commission Nationale du Débat Public),
istituita in Francia per organizzare dibattiti pubblici su progetti di costruzione di grandi opere
(Capitolo 2 § 8), per i quali è probabile l’insorgere di conflitti fra comunità locali e proponenti,
conflitti che in genere investono direttamente la definizione stessa dei problemi cui tali opere
dovrebbero rispondere. I dibattiti pubblici promossi e supervisionati dalla Commissione si
svolgono allo scopo di confrontare argomentazioni diverse sull’opportunità e le caratteristiche
delle opere oggetto di dibattito al fine di stimolare la costruzione di definizioni più condivise dei
problemi e la formulazione di progetti integrati che tengano conto di prospettive differenti.
Tenendo conto del modello di Kingdon, possiamo infine richiamare alcuni spunti
interessanti per gli attori di policy sulle strategie utili per favorire l’ingresso dei problemi pubblici
nelle agende istituzionali. Applicando la teoria al problema del riscaldamento globale, Sarah
Pralle (2009) ha per esempio identificato una lista di specifiche strategie politiche che attori e
imprenditori di policy dovrebbero adottare, agendo sui vari flussi per facilitare l’apertura di una
finestra di policy (che resta comunque in buona parte casuale). Rielaborando le raccomandazioni
che l’autrice ha rivolto alle organizzazioni ambientaliste, riportiamo una sintesi di alcune
strategie particolarmente interessanti e applicabili ad altri tipi di politiche:
Nella teoria di Kingdon, la figura dell’imprenditore di policy resta il fulcro intorno a cui ruota
l’effettivo avvio di una nuova politica pubblica. Nel capitolo precedente abbiamo parlato delle
risorse specifiche cui certi tipi di attori possono attingere in via preferenziale per via del ruolo che
ricoprono e del contesto organizzativo in cui sono inseriti. Naturalmente, un imprenditore di
policy ha a disposizione le risorse tipiche di cui dispone in virtù del proprio ruolo di esperto,
funzionario, politico, ecc., ma per aumentare l’efficacia della propria azione strategica all’apertura
di una finestra di policy deve verosimilmente combinare risorse diverse, per favorire la
legittimazione e il riconoscimento delle proprie idee. Sistematizzando la letteratura degli anni
Ottanta e Novanta del Novecento, Marco Giuliani (1998) ha messo in evidenza l’importanza di
combinare in particolare quattro tipi di risorse, a suo avviso essenziali per massimizzare
l’efficacia dell’azione di un imprenditore di policy:
– il tempo, necessario per poter rimanere a galla in attesa dell’onda giusta, cioè per presidiare
costantemente e pazientemente le arene decisionali aspettando il momento propizio;
– una carica formale di qualche rilevanza, perché questa «conferisce una riserva di
legittimazione» che può essere usata al momento opportuno (p. 370);
– legami di tipo personale utili per riattivare un capitale di fiducia indispensabile allo sviluppo
di comportamenti collaborativi nel policy network;
– l’accesso a informazioni e conoscenze specialistiche, per rafforzare le proprie capacità cognitive
e argomentative necessarie a portare avanti la propria causa.
Come conclude lo studioso (1998, p. 372): «tempo, margini istituzionali, contatti personali e
accesso alle conoscenze, da soli, non ‘fanno’ un policy entrepreneur, ma chiunque si proponesse di
essere catalizzatore di innovazione all’interno di uno specifico settore d’intervento senza
possedere almeno alcune di tali risorse, perderebbe ben presto il riconoscimento e la
legittimazione necessari».
1. Da tempo è in corso in Italia una discussione pubblica sulla necessità di riformare le regole per l’acquisizione della cittadinanza
italiana da parte di cittadini stranieri residenti, ma a causa delle profonde divergenze esistenti tra le forze politiche il parlamento
non ha ancora affrontato la questione. Possiamo quindi dire che questo tema:
a) è entrato nell’agenda pubblica ma non nell’agenda istituzionale
b) è entrato nell’agenda istituzionale ma non nell’agenda pubblica
c) è entrato sia nell’agenda pubblica che nell’agenda istituzionale
d) non è entrato né nell’agenda pubblica né nell’agenda istituzionale
2. Quali dei seguenti termini esprime meglio il significato di «finestra di policy» (policy window)?
a) opportunità
b) visione panoramica dei problemi
c) evento focalizzante
d) trasparenza
6. Quali delle seguenti relazioni tra politics e policy viene delineata dal modello di Kingdon?
a) le politiche (policies) sono interamente determinate dalla politica (politics)
b) le politiche (policies) sono determinate in parte dalla politica (politics) e in parte da altri fattori
c) la politica (politics) è determinata dalle politiche (policies)
d) tra la politica (politics) e le politiche (policies) non c’è alcuna relazione
7. L’imprenditore di policy è una persona che investe risorse (tempo, denaro, relazioni ecc.) per:
a) organizzare un nuovo partito e farlo vincere alle elezioni
b) suscitare un movimento di protesta (ad esempio contro la guerra o a favore dell’ambiente)
c) far passare una specifica idea nell’agenda istituzionale
d) mettere in piedi un’istituzione culturale che fa ricerca su un particolare settore di politica pubblica.
Capitolo 5
Gli strumenti
1. Regolazione
2. Gestione pubblica diretta
3. Incentivi e disincentivi
4. Nudge: la spinta gentile
5. Comunicazione
6. Strumenti procedurali
7. Lasciar fare
8. Nei panni dei policy makers: la cassetta degli attrezzi
Quali sono i mezzi che i policy makers possono mettere in campo per affrontare i problemi
collettivi? Quali armi possono usare per combattere, diciamo, la disoccupazione, l’inquinamento,
la corruzione o la povertà? Come ha scritto lo studioso britannico Christopher Hood,
il governo, come del resto l’uomo stesso, è un animale che fa uso di strumenti. Se desidera (poniamo) maggiore difesa,
istruzione, salute o anche un migliore controllo sulla proliferazione dei gatti randagi, deve trovare e impiegare strumenti
che siano in grado di produrre quegli effetti. Altrimenti le sue politiche o i suoi obiettivi non saranno altro che fantasie. È
attraverso l’uso di strumenti che il governo stabilisce un ponte tra un’aspirazione e la sua realizzazione (HOOD 1983, p. 8,
corsivo nostro).
Questo capitolo è dedicato agli strumenti che possono essere usati per formulare le politiche
pubbliche, ossia a quelle tecniche o a quegli insiemi di tecniche attraverso cui si cerca di
indirizzare il mutamento sociale al fine di risolvere, almeno in parte, un problema pubblico.
Come abbiamo visto nel Capitolo 1, si tratta per lo più di far sì che alcune categorie di persone (i
«destinatari» o «target groups») modifichino i loro comportamenti. Gli strumenti sono dispositivi
ritenuti in grado di attivare specifici meccanismi attraverso cui le persone sono indotte «a fare
cose che altrimenti non farebbero o di dar loro la possibilità di fare cose che altrimenti sarebbero
per loro impossibili» (SCHNEIDER − INGRAM 1990, p. 513). Sono i mattoni con cui vengono
costruite le politiche pubbliche.
Gli strumenti vengono comunemente distinti in base al tipo di risorsa che viene di volta in
volta mobilitata. Secondo la classificazione di Christopher Hood (1983), i problemi pubblici si
possono affrontare:
– con la regolazione, ossia mediante l’imposizione di obblighi o divieti e relative sanzioni, per
esempio per regolare il traffico, tutelare i lavoratori o per impedire l’uso di sostanze
inquinanti, e in questo caso si fa leva sulla risorsa autorità;
– con la gestione pubblica diretta, ossia mediante la produzione, da parte del settore pubblico, di
servizi come per esempio le scuole, gli ospedali o il trasporto locale, e in questo caso si fa leva
sulla risorsa organizzazione;
– con incentivi o disincentivi, ossia mediante l’attribuzione o la sottrazione di risorse finanziarie
a specifici gruppi di destinatari, per esempio offrendo contributi per attività meritevoli o
tassando attività che si vogliono scoraggiare, e in questo caso si fa leva sulla risorsa denaro;
– con campagne di informazione e di sensibilizzazione, per esempio contro il consumo di
tabacco o a favore delle misure di sicurezza alla guida, e in questo caso si fa leva sulla risorsa
comunicazione (ma Cristopher Hood usa il termine inconsueto nodalità, per indicare che il
governo si avvale della sua posizione di nodo centrale nelle reti di relazione per far passare i
propri messaggi).
La funzione delle due classificazioni è però diversa. La tipologia di Lowi (come quella di
Wilson) mira a distinguere il diverso impatto (individuale o collettivo, coercitivo o non
coercitivo) delle politiche sui destinatari, ossia chi ci guadagna e chi ci perde, allo scopo di
esaminare come vengono adottate, in quale arena e con quale grado di conflitto. La
classificazione degli strumenti (che presentiamo in questo capitolo) ha invece lo scopo di
esaminare attraverso quali meccanismi essi possono indurre i destinatari a cambiare i loro
comportamenti. La prima guarda alla formazione delle policies nelle arene politiche. La seconda
al loro effetto sui problemi.
I cinque tipi di strumenti possono essere ordinati sulla base del diverso grado di coercizione
(o uso della forza) che può essere esercitato sui cittadini. Possiamo dire che gli strumenti possono
essere più o meno intrusivi a seconda che si intromettano in modo più o meno marcato nella
sfera di autonomia dei destinatari (individui o imprese). Coercizione e intrusione sono massime
nel caso di obblighi e divieti, dove i trasgressori possono essere condannati a pagare una multa o
anche incarcerati, e sono minime nel caso delle campagne informative o di sensibilizzazione. Il
governo «può comandarci, può pagarci o farci pagare, o può cercare di persuaderci»
(BEMELMANS-VIDEC et al. 1998, p. 30) con conseguenze notevolmente diverse sull’autonomia
individuale: la messa al bando della produzione di sigarette è più costrittiva di una tassa sul
tabacco, che a sua volta è più costrittiva della segnalazione degli effetti nocivi del fumo sui
pacchetti di sigarette (ivi, p. 35).
Coercizione e intrusione sono pari a zero quando i governi decidono di non intervenire, ossia
di lasciar fare (al mercato, alle famiglie, al volontariato, alla natura). Anche il non fare – lo
abbiamo visto nel Capitolo 1 – può essere considerato come una politica pubblica nel senso che
implica comunque una scelta produttrice di conseguenze su un problema collettivo.
Gli strumenti rappresentano la «concretizzazione di una teoria» (LASCOUMES – LE GALÈS 2004,
p. 27); consistono nell’applicazione pratica di teorie causa-effetto del mutamento sociale, dello
sviluppo economico o del comportamento umano allo scopo di correggere gli aspetti negativi o
indesiderati. Possiamo combattere l’inquinamento se abbiamo qualche ipotesi sul diverso grado
di nocività delle sostanze usate dall’industria, possiamo cercare di migliorare la sicurezza delle
nostre città se abbiamo qualche ipotesi sui fattori che possano arginare gli atti predatori della
microcriminalità. Come vedremo tra poco, esistono teorie diverse e contrastanti su come si
determinano (e si possono correggere) le azioni umane. E tali teorie consiglieranno, di volta in
volta, l’impiego di strumenti diversi.
La strumentazione con cui vengono affrontati i problemi pubblici cambia a seconda del
periodo storico e delle concezioni politiche o economiche prevalenti. Lo stato di diritto
ottocentesco, lo stato sociale della seconda metà del secolo scorso, l’attuale stato neoliberale
hanno mostrato di preferire strumenti diversi, puntando di più − per esempio − sulla forza della
legge, sulla gestione diretta dei servizi, su incentivi o disincentivi o anche sul «lasciar fare»
(HOWLETT 2011). In questo capitolo presentiamo alcune famiglie di strumenti cercando di
mostrare a quali concezioni politiche corrispondono, qual è il loro grado di utilizzazione e qual è
la loro efficacia (o inefficacia), ossia a che cosa possono e non possono servire.
◼ 1. Regolazione
La fissazione di regole che stabiliscono obblighi e divieti e che prevedono sanzioni in caso di
inosservanza, ossia la regolazione, costituisce uno degli strumenti più antichi e tutt’oggi più
utilizzati dai policy makers. I nuovi problemi che si affacciano sulla scena sono spesso affrontati
mediante il ricorso a misure regolative: si cerca di combattere la corruzione estendendo o
definendo con più precisione i comportamenti considerati illeciti o aumentando le pene; si cerca
di difendere l’ambiente fissando limiti di emissione di sostanze inquinanti nell’aria e nelle acque e
punendo i trasgressori; si cerca di contrastare il fenomeno dell’immigrazione stabilendo regole
per l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio dello stato, ecc. La regolazione è
onnipresente: anche se i cittadini spesso non se ne rendono conto, la regolazione influisce «sui
prezzi e le caratteristiche dei prodotti e dei servizi che consumano, sulla qualità dell’acqua che
bevono o dell’aria che respirano» (HOWLETT 2011, p. 84) e su molto altro.
Come si intuisce dagli esempi citati, con la regolazione lo stato non agisce in proprio per
affrontare i problemi collettivi, ma lo fa (come del resto anche attraverso altri strumenti, ad
esempio gli incentivi) cercando di incanalare il comportamento di individui e imprese in una certa
direzione. Non produce direttamente beni e servizi, ma impone d’autorità determinati standard o
vincoli ai privati. Le istituzioni pubbliche usano, possiamo dire, il «bastone» (BEMELMANS-VIDEC
et al. 1998) per definire ciò che è lecito e ciò che è illecito e per punire i trasgressori. La
regolazione si realizza cioè mediante «l’emanazione di norme vincolanti che limitano o alterano il
comportamento di specifici destinatari» (HOWLETT 2011, p. 83): possono consistere in norme
primarie (come le direttive europee, le leggi del parlamento o le leggi regionali) o in norme
secondarie o derivate (come i regolamenti emanati dagli esecutivi, dai ministeri, da altre agenzie o
organizzazioni pubbliche, o dai comuni). Si tratta di quell’insieme di strumenti autoritativi che
gli inglesi definiscono con l’espressione «command and control», nel senso che il mutamento dei
comportamenti dei destinatari è affidato a comandi (o a divieti) e all’esistenza di attività di
controllo (da parte di ispettori, vigili urbani, agenti di polizia, carabinieri, giudici, ecc.), che
permettano di accertare le violazioni delle norme e di applicare concretamente le relative
sanzioni.
Rientrano in questo gruppo anche quelle regole che subordinano lo svolgimento di un’attività
alla concessione di un permesso o di un’autorizzazione: in questi casi chi vuole intraprendere una
certa attività, ad esempio aprire un negozio, gestire una compagnia di assicurazioni, guidare
un’automobile, costruire o ristrutturare una casa, deve chiedere il permesso alle istituzioni
pubbliche, che rilasceranno di volta in volta una licenza commerciale, un’autorizzazione, una
patente di guida o una licenza edilizia.
La perdurante fortuna degli strumenti regolativi deriva dal fatto che essi presentano alcuni
vantaggi particolarmente attraenti per i policy makers. Innanzitutto la regolazione veicola un
forte significato simbolico. Quando una legge vieta un determinato comportamento, definendolo
come illecito – sia esso il parcheggio in doppia fila, l’abbandono di rifiuti o la contraffazione di
oggetti griffati – si può ragionevolmente sperare che quel comportamento riceva uno stigma
sociale e che i cittadini siano perciò indotti ad astenersene anche a prescindere dalla minaccia di
sanzioni. Il meccanismo della riprovazione sociale tende a ridurre al minimo la necessità della
repressione.
Per questo motivo, la regolazione appare in genere come uno strumento che non comporta
aggravi per la spesa pubblica e che non mette quindi in pericolo gli equilibri di bilancio. Se il
meccanismo della riprovazione sociale e della soggezione all’autorità funzionano come previsto, i
divieti e gli obblighi costano effettivamente molto poco, perché lo stato non deve intervenire
direttamente finanziando e organizzando un apparato di controllo esteso e capillare.
Benché il ricorso alla regolazione sia frequentissimo, la sua efficacia non può essere sempre
data per scontata. Gli obblighi e i divieti sono stabiliti mediante la formulazione di norme di
carattere generale che devono essere poi applicate caso per caso. Da un lato, possono rivelarsi
troppo rigide e quindi finire per determinare effetti controproducenti quando vengono applicate
a casi anomali. Dall’altro, devono essere interpretate da coloro che le mettono in atto, i quali
possono contribuire (anche involontariamente) a piegarne il senso in una direzione diversa da
quella prevista inizialmente, come vedremo nel Capitolo 8. Può essere, inoltre, difficile scoprire i
comportamenti illeciti e in questi casi la minaccia della sanzione può avere uno scarso effetto
deterrente. Le regole troppo severe e quelle che presentano un basso livello di osservanza
finiscono per produrre l’effetto opposto di quello che si prefiggono, ossia per generare diffusi
fenomeni di illegalità.
Quando l’efficacia della regolazione è bassa, ossia quando le regole non vengono
interiorizzate dagli individui e non si innescano i meccanismi della soggezione e della
riprovazione sociale, i costi di controllo e di sanzione tendono a crescere, perché diventa
necessaria l’organizzazione e la gestione di complessi apparati investigativi e giudiziari.
Un’altra critica alla regolazione riguarda il rischio della cattura dei regolatori, ossia il fatto che
i grandi gruppi di interesse e le grandi imprese sono spesso in grado di premere con successo sul
parlamento, sui ministeri o sulle agenzie governative per strappare norme a loro favorevoli e in
tal caso la regolazione finisce per favorire i soggetti economicamente più forti a scapito di quelli
più deboli o per ridursi a poco più della legalizzazione di uno stato di fatto, che non modifica
realmente i comportamenti ma si limita a ufficializzarli. L’esposizione alle pressioni, lo vedremo
meglio nel Capitolo 7, § 5, è un punto debole dell’autorità.
Poiché la regolazione è uno strumento intrusivo, i soggetti regolati sono costretti a sopportare
costi più o meno pesanti, per esempio in termini di adempimenti formali (tenuta di registri,
certificazioni, presentazione di domande, comunicazioni a uffici pubblici, code agli sportelli, ecc.)
o di adeguamento (di macchinari, di sistemi di sicurezza, dell’organizzazione del lavoro, dei
contratti, ecc.) alle disposizioni di legge. Il problema è particolarmente gravoso per le imprese che
possono risultare penalizzate rispetto ai propri concorrenti che lavorano in paesi con minori
regolazioni.
I costi che vengono scaricati sui cittadini e sulle imprese sono veramente necessari per
conseguire l’interesse pubblico tutelato dalla regolazione? Per affrontare questo dilemma, a
partire dagli anni Ottanta del Novecento negli Stati Uniti, è stata introdotta l’Analisi di impatto
della regolazione (AIR, Regulatory Impact Assessment), una tecnica per valutare ex ante le
proposte di nuove leggi o regolamenti (RADAELLI 2001, RADAELLI – DUNLOP 2016). L’AIR consiste
in un’analisi costi-benefici (Capitolo 6, § 2) che mette a confronto i vantaggi che possono
derivare alla collettività dalle regole proposte e i costi che esse addossano ai cittadini, alle imprese,
o alle amministrazioni incaricate di controllare l’adempimento. Lo svolgimento dell’AIR
dovrebbe consentire di individuare strategie regolative che eliminino gli adempimenti burocratici
troppo pesanti o non strettamente necessari, e di promuovere pertanto interventi di
semplificazione. Lo svolgimento preventivo dell’AIR sui regolamenti è in seguito divenuto
obbligatorio in molti paesi, tra cui l’Italia.
A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, sotto l’egemonia del pensiero
neoliberale, alcuni governi cominciarono a intraprendere il cammino inverso, ossia quello della
deregolazione di alcuni settori economici: famoso fu il caso dell’Airlines Deregulation Act del
1978, con cui negli Stati Uniti vennero eliminati gran parte dei controlli del governo federale
sulle compagnie aeree allo scopo di dar libero corso alle logiche di mercato, aumentare la
concorrenza e abbassare i prezzi, in direzione quindi del «lasciar fare» (vedi § 7). Il processo di
deregolazione ha avuto alti e bassi; si sono verificati anche casi di parziale o totale ri-regolazione
di settori che in precedenza erano stati deregolati (per il caso delle linee aeree americane, vedi
BROWN – STEWART 1993).
◼ 3. Incentivi e disincentivi
– contributi a fondo perduto, ossia somme di denaro che vengono elargite a chi sceglie di
intraprendere una certa attività, per esempio: sovvenzioni alle compagnie teatrali, ai teatri
lirici o al cinema, allo scopo di mantenere vive le attività culturali; sussidi agli agricoltori che
si impegnano a ridurre o a aumentare determinate produzioni; contributi alle associazioni
che operano nel sociale; finanziamenti a progetti innovativi e alla ricerca; borse di studio agli
studenti meritevoli;
– prestiti agevolati (ossia prestiti con tassi di interesse inferiori a quelli di mercato) per esempio
alle imprese o agli agricoltori per finanziare l’acquisto di nuovi macchinari e per favorire così
la modernizzazione e la competitività della struttura produttiva; a soggetti in difficoltà per
avviare piccole attività economiche; agli studenti per finanziarsi gli studi;
– esenzioni fiscali, ossia la possibilità di detrarre dal reddito imponibile le somme spese, per
esempio, a favore dei proprietari che ristrutturano la loro casa (allo scopo di favorire lo
sviluppo dell’edilizia e ridurre l’evasione fiscale dei lavoratori autonomi), delle imprese che
investono in aree depresse o dei cittadini che effettuano donazioni a favore di attività sociali o
culturali.
Gli strumenti che si basano sull’autorità (ossia la regolazione) e quelli che si basano sulle
risorse finanziarie (ossia gli incentivi e i disincentivi) presuppongono che i destinatari siano attori
raziocinanti in grado di riflettere sulle proprie azioni e di valutare le loro conseguenze, e quindi si
astengano, per esempio, dal compiere un delitto perché il vantaggio che ne deriverebbe potrebbe
essere annullato dalla necessità di scontare una pena detentiva o decidano di assumere lavoratori
disabili perché il relativo costo aggiuntivo può essere compensato dagli incentivi offerti dallo
Stato.
La psicologia cognitiva, a partire dagli studi dei due psicologi israeliani Daniel Kahneman
(premio Nobel per l’economia nel 2002) e Amos Tversky, ha mostrato che gli esseri umani fanno
ragionamenti approfonditi di quel tipo soltanto in alcune circostanze – ossia quando si trovano
di fronte a decisioni difficili e complesse – ma normalmente, per le scelte di tutti giorni, si
limitano a ragionamenti veloci, semplici e approssimativi.
Quando dobbiamo prendere una decisione, noi tendiamo a usare due modi diversi per
acquisire e trattare le conoscenze su cui basiamo le nostre decisioni, ossia due sistemi cognitivi
diversi: il sistema riflessivo e il sistema automatico (KAHNEMAN 2011) (tabella 2). Il primo è lento,
richiede impegno e attenzione, è usato in modo consapevole, ma vi ricorriamo raramente (per
esempio, quando dobbiamo calcolare una moltiplicazione con numeri di tre cifre o quando
cerchiamo di organizzare un viaggio poco costoso che comporti coincidenze tra voli e treni e non
ci faccia arrivare a destinazione troppo tardi). Il sistema automatico è veloce, non comporta
alcuno sforzo e agisce senza che noi che ne accorgiamo; è quello che usiamo per le decisioni
meno impegnative che sono di gran lunga le più frequenti.
Tabella 2. Due sistemi cognitivi.
Incontrollato Controllato
Spontaneo Meditato
Associativo Deduttivo
Rapido Lento
Inconsapevole Consapevole
Queste acquisizioni della psicologia cognitiva sono state utilizzate da due studiosi americani,
Richard Thaler e Cass Sunstein (2008), per proporre una nuova famiglia di strumenti di policy
che mira a modificare i comportamenti dei destinatari, non basandosi sulla loro capacità di
ragionare ponderando i pro e i contro (mediante il sistema riflessivo), ma sulla loro tendenza a
reagire in modo veloce e in base a parametri elementari (mediante il sistema automatico). Tali
strumenti, che consistono nel pungolare lievemente i destinatari perché si muovano nella
direzione voluta, sono stati chiamati nudge. Letteralmente la parola nudge indica, in inglese, il
leggero colpo di gomito che si dà a qualcuno per richiamare la sua attenzione. In italiano è stato
tradotto con l’espressione spinta gentile.
Ecco alcuni possibili esempi di spinte gentili:
Come mostrano questi esempi, le spinte gentili agiscono sull’architettura della scelta:
dispongono le possibili opzioni in modo che una di esse possa essere scelta con maggiore
probabilità o configurano un particolare inquadramento (o frame) delle opzioni che induca i
destinatari a indirizzarsi su quella desiderata.
La proposta di Thaler e Sunstein ha avuto un notevole successo. Agli occhi dei politici la
spinta gentile è uno strumento molto allettante: grava relativamente poco sulla finanza pubblica
e, apparentemente, non è intrusiva, dal momento che consente di indirizzare il comportamento
dei destinatari senza che questi se ne accorgano. L’uso dei nudge è stato ampiamente
sperimentato dal governo federale americano (sotto la guida dello stesso Sunstein durante
l’amministrazione Obama), dal governo Cameron nel Regno Unito e da molti altri (JOHN 2016).
Malgrado il suo successo (o forse proprio a causa di esso), la proposta della spinta gentile è
andata incontro a molte critiche. Si è osservato che i nudge agiscono esclusivamente sui
comportamenti individuali e non sono in grado di affrontare i grandi problemi sociali di cui
questi comportamenti sono espressione (ad esempio, l’obesità non dipende soltanto dalle
abitudini alimentari dei singoli che possono essere modificate con le spinte gentili, ma anche da
fattori ambientali, sociali e biologici su cui i singoli non hanno alcuna influenza) (BALDWIN 2014);
che i cambiamenti indotti dalle spinte gentili sono di tipo automatico, non generano
apprendimento, né trasformazione da parte dei destinatari (GOODWIN 2012; MOLS et al. 2015) e
producono, perciò, effetti meno duraturi della persuasione basata su argomenti (JOHN et al.
2009); che il fatto di spingere cittadini, sia pure per il loro bene, ad adottare determinate scelte a
loro insaputa rappresenta una forma di manipolazione paternalistica eticamente discutibile che è
più intrusiva di quel che appare a prima vista (HAUSMAN – WELCH 2010). A quest’ultima
obiezione i fautori dei nudge controbattono che la spinta gentile modifica la presentazione (o
l’architettura) delle alternative, ma le lascia comunque disponibili ai destinatari, che possono, ad
esempio, cambiare l’impostazione di default o optare per le alternative meno accessibili. Si tratta
– essi sostengono – di paternalismo libertario, in quanto, pur indirizzando le azioni dei
destinatari, lascia intatta la loro libertà di scelta (SUNSTEIN 2014).
◼ 5. Comunicazione
◼ 6. Strumenti procedurali
Gli strumenti che abbiamo considerato finora, ossia la regolazione, la gestione pubblica
diretta, gli incentivi, le spinte gentili e la comunicazione sono strumenti sostantivi: mirano a
intervenire sul merito (sulla sostanza) dei problemi inducendo individui e imprese a comportarsi
in un certo modo. Molto spesso, però, i policy makers possono scegliere di non affrontare
direttamente i problemi, ma di farlo indirettamente intervenendo sul successivo processo di
definizione della politica pubblica, cercando per esempio di influire sul numero, le caratteristiche
degli attori che dovranno agire in questo campo, sulle loro interazioni, sulle procedure che
dovranno seguire. Fanno uso perciò di strumenti procedurali (anziché sostantivi): rinviano, in
tutto o in parte, la decisione sostanziale e la delegano a un percorso che essi stessi delineano
(HOWLETT 2011).
Questo modo di formulare le politiche pubbliche è molto frequente, perché può capitare che i
policy makers al momento di prendere una decisione non possiedano tutti gli elementi per
adottare una specifica misura (come vedremo meglio nel prossimo capitolo) e preferiscano
quindi disegnare un percorso in cui altri attori, dotati di maggiori informazioni o più a contatto
con i problemi, possano precisare il contenuto della politica. Spesso i policy makers si limitano a
usare alcuni strumenti sostantivi in termini generali (per esempio formulano alcune norme o
prevedono alcuni incentivi) e, nello stesso tempo, adottano strumenti procedurali per stabilire a
grandi linee il percorso successivo. È quello che fa, per esempio, l’Unione europea nei confronti
degli Stati membri o lo Stato italiano nei confronti delle Regioni e i Comuni: le politiche europee
e le politiche nazionali contengono alcune indicazioni di merito, ma soprattutto stabiliscono le
modalità con cui queste indicazioni saranno precisate rispettivamente dagli Stati membri, dalle
Regioni o dai Comuni o, eventualmente, anche da altri attori.
Esistono numerose famiglie di strumenti procedurali: qui ci limitiamo a indicarne alcune.
Innanzitutto si può agire sul numero e le caratteristiche degli attori. Quando negli Settanta-
Ottanta del Novecento apparve sulla scena la questione ambientale gli Stati cominciarono a
dotarsi di norme sostantive per affrontare i problemi emergenti, per esempio vietando l’uso di
certe sostanze o fissando limiti alle emissioni nell’aria, ma nello stesso tempo si preoccuparono di
istituire organizzazioni che avrebbero avuto il compito specifico di occuparsi dell’ambiente in
futuro, di promuovere studi, di effettuare controlli e formulare regole più dettagliate. Nel 1970
nacque così l’Environmental Protection Agency (EPA) negli Stati Uniti e nel 1986, sedici anni
dopo, il ministero dell’ambiente in Italia. Furono così immessi sulla scena nuovi attori destinati
ad assumere un peso decisivo nei policy networks all’interno dei quali si sarebbero definite le
politiche ambientali.
Si possono istituire nuovi attori, quindi, ma li si possono anche trasformare (per esempio
dotandoli di maggiori – o minori – risorse o poteri) o sopprimere. Un nuova politica può
consistere nel rafforzare, ad esempio mediante finanziamenti o accesso ai servizi, le associazioni
da cui ci si aspetta un ruolo positivo o nel frenare quelle lobby che rischiano di piegare
l’intervento pubblico a fini particolaristici. La scommessa è che, intervenendo sulle caratteristiche
degli attori (ossia usando uno strumento procedurale), sia possibile giungere, col tempo, a risultati
significativi sul piano sostantivo.
Un altro tipo di strumenti procedurali consiste nell’affidare la definizione della politica
pubblica al preventivo parere di esperti o di stakeholders che rappresentano diversi interessi o
punti di vista sulla questione sul tappeto. Ad esempio, quando lo Stato italiano promuove
iniziative a favore del patrimonio culturale (restauri di monumenti o di aree archeologiche, ecc.),
si limita a stabilire indicazioni di massima, ma poi dispone che i relativi progetti siano sottoposti
al parere preventivo del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali che riunisce archeologi, architetti
e storici dell’arte. Quando lo Stato italiano ha varato politiche per favorire lo sviluppo locale ha
affidato a processi di concertazione tra enti locali, imprese, sindacati, associazioni di categoria e
università la concreta definizione delle misure da adottare, zona per zona.Come abbiamo visto
nel Capitolo 2, § 8, fra gli strumenti che prevedono la concertazione con gli attori sociali vi sono
anche quelli che chiedono esplicitamente il coinvolgimento dei cittadini. Dopo la crisi finanziaria
ed economica, il parlamento islandese decise che era venuto il momento di aggiornare la
costituzione del 1944, ma invece di procedere esso stesso a riscrivere la costituzione, approvò nel
2010 una legge che stabiliva l’avvio di un processo di riforma costituzionale in due fasi: una
prima fase di coinvolgimento della popolazione con l’organizzazione di un Forum nazionale di
una giornata (un campione statisticamente rappresentativo di 950 cittadini estratti a sorte dalla
popolazione islandese), per individuare i principi chiave su cui avrebbe dovuto essere scritta la
nuova carta costituzionale, e una seconda fase di formulazione vera e propria, assegnata a
un’assemblea costituzionale di 25 delegati eletti a suffragio universale fra 522 candidati
indipendenti (parlamentari e politici di professione non poterono candidarsi) (LANDEMORE 2015;
BERGMAN 2016).
◼ 7. Lasciar fare
Il modo in assoluto meno costoso e meno intrusivo per affrontare un problema collettivo
consiste nel non affrontarlo affatto, nel lasciare le cose come stanno. Il non fare, lo abbiamo visto
nel Capitolo 1, è comunque una scelta tutt’altro che neutrale: produce anch’essa conseguenze che
possono essere osservate e valutate.
I policy makers possono imboccare la via dell’inerzia per diverse ragioni. Il non fare può
essere una scelta deliberata che viene presa per tenere fuori dall’agenda politica problemi
scottanti che preferiscono eludere, sperando che, col tempo, possano passare in secondo piano o
essere addirittura dimenticati. È ciò che notarono gli scienziati politici americani Peter Bachrach
e Morton Baratz (1962), osservando come la classe dirigente bianca a Baltimora, negli anni
Cinquanta del Novecento, fosse sistematicamente in grado di impedire che le richieste della
comunità nera fossero affrontate dall’amministrazione comunale. Essi conclusero che il potere
non consiste soltanto nel decidere, ma anche (e forse soprattutto) nel non decidere, ossia
nell’impedire che temi sgraditi vengano portati alla luce del sole. Le non decisioni di questo tipo
sono frequenti: basta pensare a quanti sono i temi, anche importanti, che non riescono ad
accedere all’agenda politica perché ci sono attori in grado di alzare barriere contro di essi.
L’inerzia può anche essere la conseguenza non voluta del conflitto tra due coalizioni
(Capitolo 10, § 3) che sostengono soluzioni opposte. Se esse non riescono o non vogliono
negoziare un accordo e se nessuna delle due riesce a prevalere sull’altra, la conseguenza sarà lo
stallo: non ci sarà nessun intervento pubblico, il problema non troverà alcuna risposta. È quello
che è successo per anni in Italia sul problema delle unioni gay e sul testamento biologico, negli
Stati Uniti sulla vendita delle armi o in Europa sulla distribuzione dei migranti tra gli Stati
membri.
La scelta di non decidere può essere determinata dalla mancanza di risorse, un ostacolo
frequente in tempi di ristrettezze dei bilanci pubblici. In questo caso la soluzione a un problema,
pure ritenuto importante e urgente, viene rinviata perché non si trovano i mezzi finanziari o
organizzativi per metterla in pratica. È quello che è successo in Italia per il reddito minimo di
cittadinanza, ritenuto da molti necessario ma difficile da realizzare perché, essendo molto
costoso, richiederebbe lo spostamento di risorse da altri impegni. Più in generale le politiche di
austerità hanno notevolmente ridotto la capacità di spesa dei Comuni che si trovano spesso nella
necessità di «non fare», nel senso di diminuire i servizi sociali o la manutenzione di strade e
edifici.
Il non intervento può costituire un esplicito indirizzo politico sostenuto da coloro che
diffidano dell’azione pubblica perché la considerano distorsiva rispetto agli equilibri che possono
essere raggiunti spontaneamente dal mercato, dalla società o dalla natura. È questa, in particolare,
la tesi del liberalismo economico, secondo cui il mercato è in grado di offrire spontaneamente un
equilibrio efficiente di allocazione delle risorse. D’altronde, l’espressione «lasciate fare» («laissez
faire») fu la bandiera con la quale i sostenitori del libero mercato si contrapposero fin dal
Settecento all’interventismo economico della monarchia assoluta francese. C’è inoltre chi diffida
dell’intervento pubblico in ambito sociale perché toglie spazio alle azioni solidaristiche messe in
atto spontaneamente dai corpi sociali intermedi (associazioni, volontariato, famiglie) in modo
caldo e personalizzato, mentre lo Stato tende ad agire in modo freddo e burocratico (è la tesi
sostenuta dalla dottrina sociale cattolica). C’è infine chi ritiene preferibile, in campo ambientale,
lasciar fare alla natura, come sostengono sia alcuni ecologisti, perché «nature knows best» e «ogni
cambiamento di un certo peso operato dall’uomo nel sistema naturale ha tutte le probabilità di
risultare dannoso per il sistema» (COMMONER 1972, pp. 37-41), sia i loro avversari quando negano
la gravità dei problemi ambientali (ad esempio il riscaldamento del pianeta) con l’argomento che
la natura, alla lunga, riuscirà a risolverli.
Quali che siano le ragioni per non agire – la volontà di non affrontare i problemi, lo stallo
generato dal conflitto, la mancanza di risorse, la diffidenza verso l’intervento pubblico – le
conseguenze dell’inazione pubblica sono sempre le stesse: il problema sarà affrontato, con altre
logiche e con altri effetti, dal mercato, dalle famiglie e dal volontariato o dalla natura. Queste
conseguenze sono considerate positive, come abbiamo appena visto, da coloro che confidano
negli equilibri spontanei e pensano che l’azione dello Stato non possa che avere effetti distorsivi.
Sono invece avversate da chi pensa che gli equilibri spontanei avvantaggino alcuni gruppi sociali
e ne penalizzino altri. Il mercato risolve automaticamente molti problemi, ma preclude l’accesso
ai servizi (per esempio, sanitari) a chi non può pagare. Le famiglie possono offrire un’assistenza
migliore (più calda, meno impersonale) ai parenti anziani non autosufficienti o a quelli disabili,
ma nello stesso tempo vengono gravate di un peso che spesso non riescono a reggere. La natura,
come ognuno sa, può essere matrigna.
Probabilmente non è vero, come abbiamo scritto all’inizio di questo paragrafo, che il «non
fare» è uno strumento non costoso e non intrusivo. Non è costoso per la finanza pubblica, ma
può scaricare costi su altri (per esempio sulle famiglie, sui volontari o sui gruppi sociali più
deboli) e può, proprio per questo, risultare, alla fine, altamente intrusivo. L’intervento pubblico
comporta rischi e inconvenienti, ma anche il «non intervento» tende a generarne a sua volta,
anche se di diverso tipo.
Possiamo concludere che gli strumenti disponibili sono numerosi e in continua evoluzione.
Quando emerge un problema, i policy makers possono scegliere se lasciar fare o intervenire.
Possono usare strumenti procedurali o sostantivi. Se scelgono questi ultimi, possono orientarsi
verso la regolazione, la gestione pubblica diretta, gli incentivi, le spinte gentili o l’informazione
pubblica (figura 1), e all’interno di ciascuna di queste famiglie possono individuare specifici
meccanismi. La cassetta degli attrezzi che hanno a disposizione «può essere utilizzata come una
tastiera in grado di produrre un gran numero di possibili combinazioni di strumenti» (HOOD
1983, p. 117).
Figura 1
La cassetta degli attrezzi dei policy makers.
4. In Italia erano riservati al monopolio pubblico e non sono stati liberalizzati negli ultimi decenni:
a) il sale
b) le trasmissioni radio-televisive
c) le carceri
d) la telefonia
6. Il significato del verbo inglese to nudge è espresso meglio dal verbo italiano:
a) informare
b) pungolare
c) incentivare
d) costringere
7. Quale, tra e seguenti misure che possono essere adottate per diminuire il consumo di tabacco, può essere considerata come una
«spinta gentile»?
a) proibire il fumo nei locali pubblici
b) diminuire il numero dei distributori automatici di sigarette
c) aumentare le tasse sul tabacco
d) stabilire il monopolio statale sulla produzione e distribuzione di sigarette.
8. Immagina come potrebbe essere combattuto il problema dell’obesità, soprattutto nei bambini e nei ragazzi, utilizzando misure
appartenenti alle cinque classi di strumenti indicati qui sotto.
Misure
Regolazione
Gestione diretta
Incentivi
Spinte gentili
Comunicazione
9. Dei cinque tipi di strumenti indicati nella tabella, quali sono i più costosi per la finanza pubblica? Quali sono più costosi per i
destinatari?
Regolazione
Gestione diretta
Incentivi
Spinte gentili
Comunicazione
10. Per ognuno dei sette esempi di politica pubblica proposti all’inizio del Capitolo 1, indica, sulla base della breve descrizione
contenuta nel testo, i tipi di strumenti che sono utilizzati (potrebbero essere più d’uno; non esiste una riposta univoca:
l’importante è motivare le proprie scelte).
Strumenti sostativi
Strumenti
procedurali Regolazione Gestione Incentivi Spinte Comunicazione
diretta gentili
1. Pedaggio in città
2. Reddito minimo
garantito
3. Innovazione
industriale
4. Riscaldamento
globale
5. Figlio unico
6. Fondi strutturali
7. Terrorismo
internazionale
Capitolo 6
La formulazione
1. La questione dell’incertezza
2. La razionalità onnicomprensiva
3. La razionalità limitata
4. L’incrementalismo
5. L’ambiguità e il «modello bidone della spazzatura»
6. Nei panni dei policy makers: situazioni diverse, processi diversi
Formulare una politica pubblica significa individuare la misura o l’insieme di misure che si
ritengono appropriate per affrontare un determinato problema collettivo, ossia: scegliere lo
strumento o gli strumenti da utilizzare (Capitolo 5); stabilire quali regole introdurre, quali
sanzioni, incentivi o tasse; quali servizi finanziare, quali organismi costituire o potenziare, su
quali temi impostare una campagna di comunicazione; quali criteri fissare per l’individuazione
dei destinatari, quali tappe prevedere per l’attuazione, ecc. A queste attività si dedicano i
rappresentanti dei cittadini nelle assemblee elettive (deputati, senatori, consiglieri regionali,
parlamentari europei, ecc.), gli uffici legislativi dei ministeri o degli assessorati regionali, gli uffici
della Commissione europea di Bruxelles, gli uffici studi delle associazioni di categoria, dei
sindacati e degli altri gruppi di interesse, le fondazioni che progettato e finanziano interventi
sociali, urbanistici o culturali, gli esperti (economisti, biologi, giuristi, ingegneri, sociologi, ecc.)
chiamati ad assistere l’uno o l’altro soggetto, e tutti coloro che, a vario titolo, cercano di proporre
soluzioni ai problemi collettivi. Le politiche pubbliche, come abbiamo visto nel Capitolo 2,
prendono forma all’interno di reti di attori, in cui ognuno di essi propone soluzioni e si confronta
o si scontra con quelle degli altri.
Chi si impegna nella formulazione di una politica pubblica deve orientarsi fra diversi possibili
rimedi alternativi, cercando di capire quali di essi possa funzionare meglio, dal suo punto di vista,
per affrontare il problema che ha di fronte. Deve, insomma, imboccare un processo di selezione,
in cui scarterà alcune soluzioni, per concentrarsi su altre che poi dovrà precisare, compiendo
ulteriori scelte. Come può essere condotto questo processo? Attraverso quali passaggi? Quale
attività di ricerca può essere svolta per mettere a fuoco le possibili alternative? In base a quali
criteri possono essere effettuate le scelte?
Per designare quest’attività di ricerca e di scelta viene spesso usata l’espressione policy design,
ovvero «progettazione di una politica pubblica». Come l’architetto progetta (o disegna) un
edificio, prendendo decisioni circa la sua dimensione, la sua forma, i suoi spazi interni, la
facciata, ecc., così i policy makers e i loro consiglieri progettano (o disegnano) una politica
pubblica, prendendo decisioni su strumenti, destinatari, regole, finanziamenti, meccanismi
attuativi e molto altro.
La progettazione architettonica è un’attività complessa e difficile; il policy design lo è
altrettanto, se non ancora di più, perché si scontra con due ostacoli che tendono a rendere
particolarmente arduo il processo di scelta. Il primo ostacolo è costituito dall’incertezza: coloro
che «progettano» le politiche pubbliche non possono essere mai del tutto sicuri che le misure che
propongono servano effettivamente a migliorare la situazione e non rischino di creare altri
problemi. Il secondo ostacolo è costituito dal conflitto: la formulazione di qualsiasi politica è
accompagnata da controversie e divergenze che possono riguardare valori (ad esempio tra
diverse concezioni del mondo) o interessi (ad esempio tra chi ci guadagna e chi ci perde). Benché
incertezza e conflitto siano continuamente intrecciati, questo capitolo sarà dedicato soprattutto a
esaminare in quali modi gli attori possono provare ad affrontare l’incertezza, il prossimo capitolo
si occuperà soprattutto dei possibili modi che si possono adottare per affrontare i conflitti.
◼ 1. La questione dell’incertezza
Quando si sceglie una misura non si può mai essere del tutto certi se funzionerà. L’ipotesi
causale che sta alla base di ogni politica pubblica (vedi Capitolo 1, § 5):
Se viene messa in atto la misura x al tempo t1, si verificherà l’effetto y al tempo t2
può rivelarsi sbagliata perché l’effetto y non si verifica, si verifica solo parzialmente, o perché
si generano effetti collaterali negativi che, inizialmente, non erano stati messi nel conto.
Intervenire sul futuro comporta sempre qualche incognita, soprattutto quando si agisce in un
contesto turbolento che cambia rapidamente e in modo poco prevedibile, come spesso avviene in
un mondo come il nostro, caratterizzato da continue innovazioni tecnologiche, conflitti sociali e
ambientali, e da varie forme di instabilità. In alcuni ambiti, l’incertezza può essere tenuta sotto
controllo poiché disponiamo di teorie causa-effetto o teorie del cambiamento abbastanza solide e
sperimentate e di un buon livello di conoscenze. Nel campo della fisica, per esempio, i modelli
sulla dispersione di sostanze inquinanti ci dicono, con buona approssimazione, che cosa
succederà se si interviene con un blocco del traffico in una città di un determinato territorio con
certe caratteristiche orografiche e climatiche. Nel campo della sanità, sappiamo per esperienza
(ormai secolare) che la vaccinazione a tappeto della popolazione può arrivare a debellare una
malattia infettiva e che si tratta pertanto di una misura di grandissima efficacia. Tuttavia, anche
in questi campi, qualche dubbio finisce prima o poi per affiorare: i fenomeni meteorologici, non
del tutto prevedibili, influiscono sulle dinamiche di dispersione degli inquinanti e i modelli di
simulazione presentano sempre margini variabili di errore. Malgrado l’evidente successo delle
campagne di vaccinazione, in tempi recenti sono stati sollevati sospetti (sia pure del tutto
ingiustificati) sugli effetti collaterali negativi che esse tenderebbero a produrre.
È inutile dire che nel caso dei problemi sociali più nuovi e scottanti è molto improbabile che
disponiamo di teorie causa-effetto solide e di informazioni complete e attendibili: non
conosciamo con sicurezza i rimedi che possano, per esempio, contenere o rallentare l’ondata
migratoria che proviene dall’Africa, aiutare l’economia dei paesi di vecchia industrializzazione a
competere con quella dei paesi emergenti, debellare la criminalità organizzata nei territori dov’è
insediata o ridurre sensibilmente le emissioni di CO2 in atmosfera.
L’esistenza dell’incertezza è spesso sottovalutata (o addirittura ignorata) nel dibattito
pubblico, dal momento che gli attori politici tendono a esibire una grande sicurezza sulla bontà
delle misure che propongono. Tuttavia, non va mai dimenticata la celebre affermazione proposta
dallo scienziato politico americano Hugh Heclo in uno studio pionieristico sulla comparazione
delle politiche sociali in Gran Bretagna e in Svezia:
La tradizione insegna che la politica riguarda il potere e il con itto […]. Ma questa è una visione miope […] La politica
non trae le sue fonti soltanto dal potere, ma anche dall’incertezza – uomini che s’interrogano collettivamente su che cosa
fare […]. I governi non esercitano solo il potere […], ma affrontano anche rompicapi [puzzles]. Il policy making è un
tentativo di risolvere rompicapi collettivi [collective puzzlement] per conto della società (HECLO 1974, pp. 304-5).
Se l’incertezza è inevitabile, che cosa si può fare per affrontarla? Esistono due strategie
opposte per compiere scelte in condizioni di incertezza. La prima consiste nel tentare di
eliminarla o, per lo meno, di ridurla il più possibile mediante la raccolta di informazioni affidabili
e complete, la ricerca di teorie pertinenti e solide, l’adozione di metodi corretti di analisi. Questa
strategia consiste nell’applicare i canoni della razionalità, o meglio della razionalità
onnicomprensiva, alla scelta pubblica. Ne parleremo nel §2.
Si può però sostenere che in molte situazioni è del tutto irrealistico pensare di eliminare
l’incertezza o di ridurla in modo significativo. Gli attori sono spesso costretti a operare al buio,
senza conoscere molti aspetti della questione e senza essere in grado di prevedere, se non in
modo approssimativo, le conseguenze delle loro azioni. In questi casi bisogna piuttosto imparare
a convivere con l’incertezza o ad aggirarla, ossia ad agire in modo sensato anche senza poter avere
alcuna certezza circa gli effetti delle proprie scelte. È questo il terreno su cui si sono mosse le
teorie critiche che presenteremo nei paragrafi successivi: la teoria della razionalità limitata (§ 3),
la teoria dell’incrementalismo (§ 4) e il modello «bidone della spazzatura» (§ 5).
◼ 2. La razionalità onnicomprensiva
Il policy maker può eliminare o ridurre l’incertezza se riesce a compiere una ricerca
sufficientemente completa e approfondita del problema, delle possibili soluzioni e dei loro effetti,
ossia se adotta una razionalità che possiamo definire onnicomprensiva (che «comprende tutto») o
sinottica (che «vede tutto»). Sono stati elaborati numerosi metodi per indirizzare i policy makers a
compiere le loro scelte in modo razional-comprensivo. Essi si basano su un processo scandito in
quattro fasi fondamentali: 1) la fissazione degli obiettivi, 2) l’esplorazione di tutte le possibili
soluzioni alternative che appaiano idonee al raggiungimento di quegli obiettivi, 3) la valutazione
delle conseguenze che ogni alternativa può comportare, esaminando vantaggi e inconvenienti di
ciascuna e, infine, 4) la scelta dell’alternativa migliore, ossia quella che massimizza il rapporto tra
vantaggi e svantaggi. Vediamole una per una.
Il primo passo dell’attore razional-comprensivo (o sinottico) è quello di stabilire i propri
obiettivi, ossia i risultati che ritiene di potere e dovere raggiungere. Se gli obiettivi non sono
chiaramente definiti prima dell’inizio del percorso di ricerca, sarà impossibile stabilire se
un’alternativa è migliore di un’altra. Per poter fissare gli obiettivi bisogna che l’attore abbia
analizzato e definito il problema e sia perciò in grado di immaginare quali risultati può essere in
grado di perseguire. È probabile che gli obiettivi siano più d’uno e che siano tra loro
contraddittori: per esempio, che si voglia ridurre l’inflazione senza peggiorare l’occupazione, o
assicurare cure gratuite per una nuova patologia senza incidere in modo eccessivo sulla spesa
sanitaria. In questo caso il soggetto deve stabilire le proprie priorità e la natura del trade-off (ossia
della compensazione) tra obiettivi contrapposti, vale a dire quanto è disposto a rinunciare in
relazione a un obiettivo pur di migliorare i risultati in relazione all’altro e viceversa.
Facciamo l’esempio di un sindaco che si trovi alle prese con una situazione di grave
inquinamento da polveri sottili o PM10 nella sua città durante i mesi invernali. L’Unione europea
stabilisce che il superamento dei limiti massimi previsti di PM10 non può avvenire per più di 35
giorni in un anno, ma in quella città a metà febbraio il limite è già stato superato 30 volte. Il
sindaco, una volta ascoltati i suoi consulenti e i principali stakeholders (commercianti,
automobilisti, ambientalisti, ecc.), potrebbe arrivare a formulare così il suo obiettivo: «ridurre il
livello delle polveri sottili al di sotto del limite massimo stabilito dalla legge per il resto dell’anno,
creando nello stesso tempo il minimo disagio per i cittadini, sia per quanto riguarda il
riscaldamento sia per quanto riguarda la mobilità, evitando di concentrare i costi del
provvedimento sui cittadini meno abbienti». Poiché questi obiettivi sono in parte fra loro
contraddittori, il sindaco dovrebbe perciò stabilire un ordine di priorità nella selezione delle
alternative praticabili, per esempio privilegiando in primo luogo la riduzione delle polveri, in
secondo luogo facendo attenzione a non pesare sui meno abbienti, in terza battuta cercando di
non recare eccessivi disagi alla mobilità dei cittadini e per ultimo al riscaldamento delle case e
degli uffici.
Una volta definiti gli obiettivi e il loro ordinamento gerarchico, il decisore razional-
comprensivo cercherà di esplorare tutte le possibili soluzioni alternative che appaiano idonee a
raggiungerli. È essenziale che l’esplorazione sia completa, ossia che nessuna possibilità venga
trascurata. È in questo modo che lo sguardo del decisore si fa sinottico, in quanto riesce ad
abbracciare l’insieme delle misure che potrebbero migliorare la situazione. Nel caso delle polveri
sottili, un sindaco che desideri comportarsi in modo razional-comprensivo prenderà in
considerazione tutti i possibili fattori che generano le polveri sottili (riscaldamento domestico,
veicoli a motore, ecc.); esaminerà tutte le misure che possono determinare le diminuzione delle
emissioni, per esempio gli strumenti regolativi (come il divieto di circolazione la domenica), i
disincentivi (ad esempio i pedaggi), o gli incentivi (ad esempio per favorire l’uso della bicicletta);
e considererà a quali target applicarle (ad esempio a tutte le automobili, solo ai diesel, solo alle
automobili Euro 3 o Euro 4, solo al riscaldamento domestico, ecc.). Insomma dovrà preparare
una lista di possibili pacchetti di misure che potrebbero servire a migliorare la qualità dell’aria.
Per esplorare le alternative in modo esauriente è spesso necessario chiedere l’aiuto di altri
soggetti che sono portatori di diversi interessi, valori o saperi specialistici. Una pratica sempre
più diffusa tra le amministrazioni pubbliche è quella di fissare gli obiettivi che si intendono
perseguire e poi di emanare un bando pubblico rivolto a specifiche categorie di attori (enti locali,
associazioni, organizzazioni non governative, università, ecc.) perché elaborino progetti idonei a
raggiungere quegli obiettivi. L’amministrazione che ha emanato il bando valuterà poi i progetti
(secondo le metodologie di cui al punto successivo) e finanzierà i migliori.
Una volta individuate le alternative (o i progetti), si tratta di valutare gli effetti che ciascuna di
esse è in grado di produrre con riferimento agli obiettivi inizialmente fissati. Ad esempio, nel
caso delle polveri sottili, si tratta di prevedere gli effetti che esse possono avere sul livello di
concentrazione nell’aria e, nello stesso tempo, sul disagio dei cittadini, in particolare di quelli
meno abbienti. L’attività di confronto tra le alternative viene chiamata valutazione ex ante, in
quanto si svolge nel momento della formulazione, ossia prima (in latino: ante) che la politica
pubblica sia stata varata; e si distingue dalla valutazione ex post che viene svolta dopo (in latino:
post) che la politica pubblica è stata attuata e a cui è dedicato il Capitolo 9. Per svolgere la
valutazione ex ante sono disponibili diverse metodologie.
L’analisi costi-benefici è una tecnica di valutazione ex ante che consiste nel prevedere e
quantificare, per ciascuna alternativa, i costi e i benefici che da essa possono derivare (ATKINSON
2015). Essa è usata soprattutto per valutare la convenienza di investimenti pubblici, come per
esempio dighe, strade, ospedali, linee ferroviarie, acquedotti, ecc., ma può essere applicata per
valutare ex ante qualsiasi politica pubblica, per esempio, come abbiamo visto nel Capitolo 5, § 1,
per confrontare i costi e i benefici delle misure regolative, secondo la tecnica dell’Analisi di
Impatto della Regolazione.
Prendiamo il caso di un piccolo intervento pubblico, come la costruzione di una passerella
ciclo-pedonale in un parco fluviale urbano (TONIN 2014):
– i costi sono dati dalle spese di costruzione della passerella e da quelle per la gestione (ad
esempio l’illuminazione notturna) e la manutenzione;
– i benefici sono dati dal risparmio di tempo e di carburante che i potenziali utenti avrebbero
dall’utilizzo della passerella, dal momento che potranno spostarsi a piedi o in bicicletta per
recarsi al lavoro o a scuola, invece di dover usare l’automobile o i mezzi pubblici.
– che sia possibile una netta separazione tra fini e mezzi (e quindi anche tra il ruolo dei politici
e quello dei tecnici) e che i primi possano essere interamente determinati prima della scelta
dei secondi;
– che il processo di scelta possa essere effettuato da un unico soggetto (individuale o collettivo)
o comunque da un’entità capace di esprimere preferenze ordinate e non contraddittorie;
– che siano disponibili teorie causa-effetto sufficientemente solide;
– che esistano risorse sufficienti per l’analisi (che spesso per sua natura è lunga, complessa e
costosa) e in particolare che esista abbastanza tempo per condurla al riparo da scadenze
troppo pressanti.
In assenza di queste condizioni il policy maker si affiderà ad altri metodi, che non si
propongono di sconfiggere l’incertezza, ma che cercano semplicemente di aggirarla o di
convivere con essa.
◼ 3. La razionalità limitata
La critica fondamentale che è stata mossa al metodo razional-comprensivo consiste nel fatto
che gli esseri umani sono dotati di razionalità limitata (bounded rationality) e quindi non sono in
grado di adottare una visione completa e sinottica, se non quando si trovano di fronte a problemi
particolarmente semplici. È questa la conclusione cui giunse lo studioso americano Herbert
Simon, premio Nobel nel 1978, analizzando le concrete modalità con cui vengono prese le
decisioni nelle organizzazioni (SIMON 1957, 1983). Egli ha osservato che nella vita reale le
decisioni sono prese da individui che incontrano limiti di tipo cognitivo, in particolare nella loro
capacità di attenzione e di elaborazione delle informazioni e nella loro memoria (soprattutto
quella di breve periodo), e che tali limiti tendono a diventare più rilevanti quando le persone si
trovano di fronte a problemi complessi che si affacciano in ambienti instabili o turbolenti,
quando hanno poco tempo per compiere la loro scelta e non possono disporre di informazioni
complete e attendibili.
In queste condizioni, chi formula una politica pubblica non può pretendere di esaminare
tutte le alternative possibili, ma deve limitarsi a considerarne solo alcune, quelle che gli sono più
familiari, che sono più facilmente identificabili o disponibili. Non è in grado di confrontare
simultaneamente i pregi e i difetti di ciascuna allo scopo di individuare la migliore, ma procede a
considerarle una per una in sequenza, ponendo termine alla sua ricerca quando si imbatte in
un’alternativa che appaia soddisfacente rispetto alle proprie esigenze. Non pretende di ottenere il
massimo, ossia di ottimizzare, ma si accontenta di qualcosa che appaia good enough (abbastanza
buono) rispetto alle sue aspettative. Secondo l’esempio proposto da March e Simon (1958, p.
141), un conto è cercare nel pagliaio l’ago più sottile, un conto è cercare un ago che sia
abbastanza sottile da poterlo usare per cucire: nel primo caso si devono estrarre tutti gli aghi dal
pagliaio e confrontarli; nel secondo caso la ricerca può interrompersi quando viene trovato un
ago che appaia adatto. Nell’esempio delle polveri sottili, proposto nel paragrafo precedente, il
sindaco non prenderà in considerazione tutte le misure che, astrattamente, potrebbero apparire
adatte a ridurre l’inquinamento dell’aria, ma si accontenterà della prima che gli parrà
soddisfacente tra quelle che gli sono più familiari, per esempio perché sono state già adottate in
passato in quella città o perché sono di uso frequente in città simili. Il soggetto dotato di
razionalità limitata si rende conto che potrebbero esistere soluzioni migliori di quella che ha
scelto, ma preferisce fermarsi a quel punto, piuttosto che proseguire in una ricerca che potrebbe
rivelarsi lunga, costosa e forse infruttuosa.
La teoria della razionalità limitata mostra che gli esseri umani sono per lo più costretti a
procedere al buio, almeno su qualche aspetto rilevante; a basare le loro scelte su rappresentazioni
drasticamente semplificate della realtà; a concentrare la loro attenzione su alcuni aspetti,
trascurandone molti altri; a scegliere la prima soluzione che appare soddisfacente, anche se ne
possono esistere altre di gran lunga migliori. Tuttavia, le loro scelte non sono sempre e
necessariamente disastrose. Gli studi di psicologia cognitiva, che si sono mossi lungo questa linea
di ricerca, hanno messo in luce le euristiche (o scorciatoie), ossia «le strategie che le persone usano
per far fronte ai limiti delle loro architetture cognitive» (JONES – THOMAS 2013, p. 277). Tra di
esse: la disponibilità (si prendono in considerazione soluzioni familiari e pronte per l’uso),
l’ancoraggio (ci si affida alla prima informazione che viene offerta e che diventa l’ancora a cui si
appoggia tutta la ricerca di soluzioni), la rappresentatività (si scelgono rimedi già utilizzati per
problemi simili) (RUMIATI 1990).
Un fenomeno molto frequente (e molto studiato) è, per esempio, quello del policy transfer, o
trasferimento di politiche pubbliche da un paese all’altro (DOLOWITZ – MARSH 2000; SCHNEIDER
2013). Quando si trovano di fronte a un problema inedito, di solito i policy makers non si
mettono alla ricerca della soluzione più idonea, ma tendono piuttosto ad affidarsi a quelle misure
che sono già state sperimentate altrove, imitando per esempio il «modello danese» in materia di
mercato del lavoro o il «modello tedesco» in materia di energie rinnovabili. Le politiche
pubbliche tendono così a transitare per imitazione da un contesto all’altro in quanto si tratta di
«pacchetti» pronti per l’uso e quindi facilmente disponibili. Molti organismi internazionali
hanno predisposto cataloghi di buone pratiche (best practices), che possono essere importate
agevolmente in contesti diversi da quelli in cui sono state prodotte.
Determinate euristiche possono essere incorporate nelle procedure o nelle routines praticate
dalle organizzazioni o far parte del patrimonio di alcune professioni (medici, ingegneri, avvocati,
ecc.) (LANZARA 1993). Possiamo anche dire che gli attori sono portatori di diverse razionalità o
logiche d’azione, ossia di specifiche strutture concettuali attraverso cui leggono la realtà e
compiono le loro scelte. Nel Capitolo 2 abbiamo classificato gli attori che «fanno» le politiche
pubbliche proprio sulla base delle logiche d’azione di cui sono portatori.
Il modello della razionalità limitata può indurre gli attori a compiere errori. Di fronte a
problemi nuovi, essi tendono ad attivare costrutti concettuali predeterminati che possono
rivelarsi poco adatti ad affrontare la situazione, possono trascurare aspetti essenziali o applicare
teorie improprie. Gran parte degli studi di psicologia cognitiva è indirizzata ad analizzare e
classificare gli errori più frequenti che gli attori commettono, quando si trovano alle prese con
problemi per loro inconsueti. Possono, per esempio, «insistere in modo rigido sull’uso di vecchie
soluzioni, indipendentemente dalla loro effettiva applicabilità nella questione corrente» (JONES –
THOMAS 2013, p. 278). Per tornare al caso del policy transfer, può capitare che un governo adotti
una misura messa in atto con successo in un altro paese senza ottenere risultati significativi,
poiché non è detto che le medesime ricette producano gli stessi effetti in contesti diversi (COLETTI
2013). Ma riconoscere la possibilità dell’errore è il primo passo per superarlo. Gli attori possono
sbagliare, ma possono anche apprendere, ossia modificare le loro routines in relazione ai nuovi
problemi in cui s’imbattono e alle conseguenze delle loro scelte sbagliate.
◼ 4. L’incrementalismo
Negli stessi anni in cui Simon stava elaborando la sua teoria della razionalità limitata, uno
scienziato politico americano, Charles Lindblom, pubblicò su un’autorevole rivista accademica
dedicata all’amministrazione pubblica un articolo dal titolo stravagante e provocatorio, The
Science of «Muddling Trough» (LINDBLOM 1959), in cui univa la parola «scienza» a un’espressione
del linguaggio famigliare che significa, grosso modo, «sfangarsela», «arrangiarsi», «cavarsela».
Egli osservava che mentre i manuali di management pubblico prescrivono un approccio
onnicomprensivo o sinottico, i policy makers concretamente impegnati nel mondo reale tendono
piuttosto a muddle through, ossia a cavarsela alla meno peggio con un atteggiamento pragmatico.
Per prima cosa, osserva Lindblom, a differenza delle prescrizioni del modello razional-
comprensivo, gli attori non sono in grado di scegliere i mezzi sulla base di obiettivi dati, ma
tendono piuttosto ad adattare i fini a seconda dei mezzi disponibili. Aspirano a ridurre o
eliminare gli aspetti negativi della situazione attuale, piuttosto che perseguire ciò che è
astrattamente desiderabile. Fini e mezzi non sono separati, ma vi è un continuo processo di
adattamento degli uni agli altri. Ciò implica anche che non è possibile distinguere in modo netto
tra i compiti dei politici e quelli dei tecnici e che una certa sovrapposizione è inevitabile.
Se il problema dei policy makers è quello di trovare rimedi rispetto alla situazione presente,
essi tenderanno a giudicare la bontà di una soluzione in base alle differenze che le nuove proposte
introducono rispetto allo status quo. Più piccole sono tali differenze più agevole sarà il giudizio.
Essi prendono quindi in considerazione soltanto quelle alternative che si propongono di
introdurre cambiamenti di piccola portata e che sono, quindi, più facili da comprendere e da
valutare.
Il punto chiave della teoria di Lindblom consiste nella constatazione che questo processo di
analisi e valutazione delle alternative non è mai svolto da un unico attore. Viviamo in una società
pluralistica in cui le scelte pubbliche sono il frutto dell’interazione tra attori diversi. Nel caso delle
politiche sul traffico urbano, secondo un esempio che abbiamo più volte riproposto in questo
manuale, è probabile che sindaco, assessori comunali, rappresentanti dei commercianti, degli
automobilisti, dei ciclisti o dei medici di famiglia, gruppi ecologisti, agenzie pubbliche che si
occupano di sanità e di ambiente, ecc., modifichino le proprie analisi della situazione e
riformulino le proprie proposte attraverso le interazioni con gli altri. Tra gli attori si svolge cioè
un processo di adattamento reciproco, che Lindblom chiama mutuo aggiustamento partigiano: gli
attori, che sono definiti «partigiani» perché ciascuno di loro costituisce una parte dell’insieme e
ha un suo punto di vista particolare, discutono tra di loro, negoziano e si influenzano
reciprocamente. La scelta dipenderà dall’accordo tra coloro (tutti o una buona parte) che hanno
qualche influenza o interesse sulla posta in gioco. Un criterio di giudizio di tipo interattivo o
politico (ossia l’accordo) sostituisce un criterio di tipo tecnico. Il modello di Lindblom è una
proposta anti-tecnocratica.
Queste sono le caratteristiche fondamentali del modello incrementale proposto da Charles
Lindblom. Esso configura le decisioni pubbliche come il risultato di un mutuo aggiustamento tra
attori partigiani, ciascuno dei quali conduce un’analisi semplificata e parziale del problema,
trascura aspetti importanti, rinuncia a una visione globale, si concentra esclusivamente sulle
variazioni marginali introdotte dalle soluzioni proposte. Le decisioni sono costituite da piccole
variazioni (o piccoli incrementi) rispetto alla situazione esistente, perché sono le uniche che gli
attori possono effettivamente valutare e su cui possono accordarsi. Di norma si procede
attraverso piccoli passi.
Malgrado la sua evidente imperfezione, il metodo incrementale è ritenuto preferibile al
metodo razional-comprensivo, perché riduce la possibilità di errori, in cui facilmente può cadere
il decisore sinottico, o consente, per lo meno, di porvi rimedio attraverso un processo continuo di
correzione delle politiche. Qui la razionalità non è garantita a priori dal calcolo, ma scaturisce a
posteriori dall’interazione sociale. La democrazia non è solo un sistema garantista, ma è anche un
meccanismo intelligente, poiché «la frammentazione del policy making e la conseguente
interazione politica tra molti partecipanti non sono solo metodi per limitare il potere […], ma, in
molte circostanze, sono anche metodi per aumentare il livello dell’informazione e della
razionalità necessarie alla decisioni» (LINDBLOM 1979, p. 524). Gli aspetti trascurati da un attore
saranno fatti valere da un altro. L’intelligenza della democrazia (LINDBLOM 1965) consiste proprio
nel fatto che non esiste un’unica mente centrale in grado di «vedere tutto». Al contrario, i sistemi
basati sul coordinamento centrale sinottico (Lindblom aveva allora in mente i regimi comunisti)
sono particolarmente vulnerabili perché, con la pretesa di governare tutto mediante calcoli
razionali, tendono a compiere tragici errori.
Nessuno dubita che il modello incrementale si presti bene a descrivere ciò che avviene
quotidianamente nelle scelte pubbliche: le grandi riforme – come vedremo nel Capitolo 10 –
sono rare, mentre la maggior parte delle decisioni sono costituite da cambiamenti incrementali.
Ma esso ambisce a presentarsi anche come un modello prescrittivo, ossia come un metodo da
seguire per effettuare «buone decisioni». Su questo aspetto sono state sollevate numerose
obiezioni.
Innanzitutto tale proposta è parsa a molti come una pericolosa rinuncia alla razionalità nella
politica o, per lo meno, a un impegno consapevole e raziocinante (DRYZEK 1983). Ma, in realtà, la
proposta incrementalista propone pur sempre un metodo, sia pure imperfetto e parziale, per
affrontare consapevolmente i problemi pubblici. Esso tiene conto del fatto che nessun attore può
disporre di tutte le conoscenze necessarie e che quindi non può prescindere dalle analisi e dalle
proposte formulate dagli altri attori.
Si è inoltre sostenuto che il metodo incrementale favorisca l’inerzia e la conservazione (DROR
1967), dal momento che produce esclusivamente piccole decisioni che differiscono di poco dalla
situazione esistente e non ammette i «grandi mutamenti» che spesso sono, invece, necessari e
desiderabili. Esso «sembra sfidare le nobili aspirazioni all’uso dell’intervento pubblico per la
giustizia sociale, la protezione dell’ambiente e altri grandi scopi» (WEISS – WOODHOUSE 1992, p.
267). In realtà gli incrementalisti non negano la possibilità di grandi riforme, ma ritengono che
tali «svolte» non possano essere indirizzate da alcun metodo. Quando i mutamenti sono di
grande portata, è difficile che i soggetti possiedano gli strumenti conoscitivi adeguati per
prevedere le conseguenze e quindi per operare scelte oculate. Si tratta comunque di eventi
eccezionali. Il pane quotidiano delle democrazie è costituito da scelte incrementali che
modificano in misura limitata lo status quo ed è soltanto in questi casi che ha senso proporre un
esercizio di analisi. D’altra parte, «una veloce sequenza di piccoli cambiamenti può portare a una
drastica modificazione dello status quo più rapidamente di quanto possano fare grandi
cambiamenti poco frequenti» (LINDBLOM 1979, p. 520). E, infatti, le politiche pubbliche «non
vengono mai decise una volta per tutte, ma vengono definite e ridefinite senza sosta» (LINDBLOM
1959, p. 86). Proprio perché i passi sono piccoli è facile correggere il tiro in caso di errore.
Il metodo incrementale può apparire come socialmente iniquo: se, infatti, la scelta è affidata
all’interazione tra attori partigiani, è inevitabile che finiscano per prevalere gli interessi dei gruppi
più forti e organizzati (FORESTER 1984, p. 28). Il mutuo aggiustamento partigiano può essere
giustificato, quale metodo decisionale, qualora si ritenga, come fa Lindblom, che «ogni interesse
ha il suo cane da guardia» (1959, p. 85), ossia che il sistema pluralistico garantisca a tutti gli
interessi una rappresentanza eguale nelle arene decisionali. Ovviamente così non è: alcuni
interessi sono protetti da feroci mastini, altri da innocui chihuahua. E in genere sono proprio gli
interessi che riguardano la generalità dei cittadini (come quelli dei malati) a soccombere di fronte
agli interessi più concentrati (come quelli delle case farmaceutiche). Gli incrementalisti obiettano
però che tali squilibri dipendono dalla distribuzione diseguale delle risorse nella società, che
genera un effetto distorsivo qualsiasi sia il metodo decisionale adottato. Anzi, il ricorso a una
forte autorità centrale può rivelarsi controproducente, perché essa può essere facilmente catturata
dagli interessi più potenti, mentre il mutuo aggiustamento partigiano consente almeno un
confronto tra i diversi interessi (sia pure nei limiti della forza effettiva di ciascuno).
◼ 5. L’ambiguità e il modello «bidone della spazzatura»
I policy makers non devono solo fare i conti con l’incertezza. Talvolta si trovano a dover agire
in situazioni molto più confuse, oscure, ambigue. Mentre l’incertezza può essere ridotta, almeno
in linea di principio, attraverso l’informazione, l’ambiguità è destinata a rimanere tale anche se si
acquisiscono nuove conoscenze, perché la situazione è complessivamente poco decifrabile: gli
attori fanno fatica a capire che cosa succede, non sanno esattamente che cosa vogliono, tendono a
essere dominati dagli eventi. I processi decisionali che si sviluppano in tali ambiti sono stati
studiati dallo scienziato politico americano James March e dal suo collega norvegese Johan Olsen,
che hanno proposto uno specifico modello decisionale, denominato – provocatoriamente –
modello «bidone della spazzatura» (garbage can model). L’ambiguità è, secondo loro, tipica delle
«anarchie organizzate» (COHEN et al. 1972), ossia di organizzazioni poco strutturate, ma essa può
comparire, almeno in parte o in certi periodi di tempo, in ogni tipo di organizzazione. Le arene in
cui si «fanno» le politiche pubbliche sono di solito ambienti di questo tipo, dove gli aspetti di
ambiguità, che esaminiamo qui di seguito, sono ampiamente presenti.
Nelle «anarchie organizzate» l’ambiguità è generata, spesso simultaneamente, da diversi
fattori. Innanzitutto le preferenze degli attori sono vaghe, instabili e contraddittorie. Detto in altri
termini, gli attori non sanno bene che cosa vogliono e tendono a cambiare idea nel corso del
tempo. Le loro preferenze prendono forma soltanto man mano che essi s’inoltrano nel corso
dell’azione. È appena il caso di notare che ci troviamo in una situazione diametralmente
antitetica da quella ipotizzata nel modello razional-comprensivo. Lì si partiva dall’ipotesi che le
preferenze degli attori fossero ben definite prima dell’avvio del processo: la prima mossa
consisteva infatti nel fissare chiaramente i fini; soltanto in seguito si poteva avviare la ricerca dei
mezzi. Qui invece i fini appaiono come una variabile dipendente del processo. Il processo
decisionale si configura come luogo di scoperta e di apprendimento.
In secondo luogo, in tali situazioni, la partecipazione è fluida e incostante: gli attori entrano ed
escono dalla scena, a seconda di come la loro attenzione (che è una risorsa scarsa) si distribuisce
tra i vari problemi, impegni, occasioni di scelta che stanno loro di fronte. Né la loro attenzione è
necessariamente determinata dall’interesse per il merito della questione: si può partecipare per
abitudine, per curiosità o semplicemente per il piacere di «esserci» (MARCH − OLSEN 1976).
Un ulteriore elemento di ambiguità consiste nel fatto che gli attori non sono in grado di
trattare ordinatamente un problema per volta. Più problemi, in concorrenza tra di loro, premono
contemporaneamente sulla medesima occasione di scelta; si contendono l’assegnazione a
determinati momenti decisionali e giacciono in lista d’attesa per periodi di tempo più o meno
lunghi. Alcuni problemi finiscono per essere dimenticati, altri vengono continuamente spostati
da una sede all’altra. L’ordine, in gran parte casuale, attraverso cui i problemi si affacciano sulla
scena condiziona sensibilmente la scelta finale.
Inoltre, un processo decisionale non è necessariamente un processo di ricerca che muove da
un problema per scoprire o costruire la soluzione pertinente (come il modello razional-
comprensivo suppone). Spesso avviene il contrario: le soluzioni preesistono al problema stesso e
contribuiscono a dargli forma. La disponibilità di una soluzione (di una nuova tecnologia, di una
nuova proposta, ecc.) può far mettere a fuoco un problema che prima non esisteva o non veniva
avvertito. Per esempio, si capisce di aver bisogno di controllare le strade di una città, perché si
rendono disponibili le telecamere. Le PM10 diventano un indicatore fondamentale
dell’inquinamento atmosferico, perché esistono le centraline che possono rilevarle. Ci sono attori
che sollevano problemi e altri che sono portatori di soluzioni, per esempio di innovazioni
tecnologiche o organizzative: il processo decisionale appare così come un ambito in cui i
problemi vanno alla ricerca di soluzioni e le soluzioni vanno alla ricerca di problemi. Scegliere
significa accoppiare i problemi e le soluzioni che si affacciano sulla scena indipendentemente gli
uni dalle altre. Per esempio, in una città ci possono essere molti edifici industriali in disuso − i
problemi − che cercano una soluzione, ossia l’assegnazione di una funzione. Nello stesso tempo ci
possono essere molte funzioni (un museo dell’industria, una scuola tecnica, un centro
congressuale, un centro espositivo) che vanno alla ricerca di un’area dismessa in cui collocarsi.
Infine, gli attori possono rivolgersi a diverse sedi decisionali (o occasioni di scelta): possono
per esempio portare il problema o la soluzione che sta loro a cuore a una riunione del consiglio
comunale, di una commissione, di un quartiere, di un’agenzia pubblica. Possono anche sottoporli
a una sezione di partito o a una ong. Le diverse sedi non sono ovviamente interscambiabili, ma
cominciare dall’una o dall’altra può non essere indifferente.
Nelle anarchie organizzate dominate dall’ambiguità, ogni occasione di scelta appare così come
un bidone della spazzatura in cui i partecipanti buttano alla rinfusa problemi e soluzioni. La
scelta finale dipende quindi dall’incontro tra quattro flussi (streams), gli attori, i problemi, le
soluzioni e le occasioni di scelta, e, più precisamente, dall’ordine più o meno casuale con cui
vengono in contatto tra di loro o dalla loro simultanea disponibilità.
Le scelte che escono dal «bidone della spazzatura» appaiono determinate da circostanze
fortemente casuali come l’ordine in cui vengono inseriti problemi e soluzioni, il grado di
attenzione dei partecipanti, il contenuti di altri «bidoni» (figura 1). La coincidenza temporale è il
criterio fondamentale che regola le scelte. Queste ultime possono essere alquanto improprie. È
possibile che si risolva un problema con una soluzione che ha poco a che vedere con esso, ma che
è l’unica a essersi presentata nel momento in cui il problema era stato messo in evidenza. Per
tornare all’esempio precedente, un’area dismessa e una funzione che vengono a maturare nello
stesso momento hanno molte probabilità di venire, solo per questo, accoppiate.
Figura 1
Una rappresentazione schematica del modello «bidone della spazzatura». Gli attori (A) buttano alla rinfusa problemi
(P) e soluzioni (S) nelle occasioni di scelta (O), che sono rappresentate come bidoni della spazzatura.
Le decisioni vengono prese quando P e S si trovano casualmente vicini nello stesso bidone (cerchi tratteggiati).
Proprio nel rapporto con i fattori di ordine temporale, si verifica la più netta inversione
rispetto al paradigma classico della decisione. Nel modello razional-comprensivo si suppone: a)
che il decisore abbia sempre a disposizione abbastanza tempo per svolgere un’analisi
sufficientemente completa delle alternative e b) che il tempo disponibile venga effettivamente
utilizzato per risolvere il problema dato. Ma nessuna delle due ipotesi è sufficientemente
realistica: l’esperienza mostra che molte scelte vengono compiute in condizioni di emergenza
(ossia quando c’è poco tempo) e che molte altre decisioni non vengono affatto prese, anche
quando il tempo non manca. Il modello «bidone della spazzatura» dà conto di questo aspetto,
suggerendo che le scelte dipendono soprattutto dalle coincidenze temporali.
Si potrebbe pensare che una situazione di questo genere lasci poco spazio a indicazioni di tipo
prescrittivo. Ma non è così. In un processo a «bidone della spazzatura» gli eventi sono, in qualche
misura, manipolabili, anche se gli esiti non saranno strettamente connessi alle intenzioni esplicite
degli attori, dal momento che «le scelte spesso semplicemente accadono, senza una chiara
connessione con ciò che i partecipanti vogliono» (BENDOR et al. 2001, p. 171). Tuttavia, come
afferma James March, «l’ambiguità degli obiettivi, così come i limiti della razionalità, non sono
necessariamente un difetto da correggere nelle decisioni umane, ma sono spesso una forma di
intelligenza che la tecnologia della scelta deve affinare, piuttosto che ignorare» (MARCH 1978, p.
598). Il modello non esclude che gli attori possano esercitare una qualche influenza sul processo,
quando ne comprendano le modalità e ne accettino l’ambiguità, per esempio, cogliendo le
occasioni che si presentano o manovrando sulle scadenze temporali o sulle occasioni di scelta.
Riprendendo l’esempio delle polveri sottili, gli ambientalisti possono approfittare del clima di
emergenza provocato dall’assenza di piogge per mettere sul tavolo una soluzione che sta loro a
cuore. I commercianti, che vogliono evitare qualsiasi limitazione del traffico, possono cercare di
prendere tempo, sperando che l’emergenza passi (per esempio grazie al mutamento delle
condizioni atmosferiche) e che il problema possa essere dimenticato. A sua volta il sindaco che si
sente in dovere di «fare qualcosa», ma non vuole soluzioni drastiche, può prendere al volo la
misura, piuttosto blanda, delle «domeniche a piedi», che si aggira da tempo sulla scena e che può
essere facilmente accoppiata al problema «inquinamento» (anche se forse non serve a molto).
Il modello «bidone della spazzatura» è stato ampliamente utilizzato per studiare la
formulazione delle politiche pubbliche (ZAHARIADIS 2016). L’applicazione più nota consiste nella
teoria dei flussi multipli di John Kingdon (vedi Capitolo 4, § 5), che riprende, con qualche
variazione, le caratteristiche fondamentali del modello «garbage can», ossia la coincidenza casuale
tra flussi indipendenti. Secondo la recente analisi di due studiosi, i caratteri di anarchia e casualità
tendono a essere sempre più frequenti nei processi di policy making, per diversi motivi: perché
crescono i problemi intrattabili che i governi non riescono a comprendere pienamente e a cui
non sanno trovare risposte; perché la fine delle ideologie rende i politici privi di bussola di fronte
a molte nuove questioni e, infine, perché i policy makers sono costretti ad agire entro vincoli
temporali molto stretti a causa della continua pressione esercitata dai media, dai social networks e
dalle scadenze elettorali (ZOHLNHÖFER – RÜB 2016, p. 3).
Queste teorie hanno una vocazione prescrittiva, più o meno accentuata, ossia suggeriscono ai
policy makers come dovrebbero agire per individuare le misure da adottare. Ci si può allora
chiedere quale modello andrebbe privilegiato o con quali criteri andrebbe scelto: i policy makers
dovrebbero comportarsi come attori razional-comprensivi, dovrebbero ammettere di avere una
razionalità limitata e basarsi su scorciatoie e routines, dovrebbero riconoscere di essere attori
parziali e di dover quindi «aggiustarsi» con altri attori parziali o dovrebbero limitarsi alle poche
mosse che l’ambiguità della situazione consente loro? Se avessimo rivolto questa domanda agli
studiosi di 50-100 anni fa, la risposta sarebbe stata probabilmente quella di impegnarsi a seguire,
senza esitazioni, l’approccio sinottico: la ricerca dei mezzi più adatti a raggiungere i fini indicati a
livello politico avrebbe dovuto essere compiuta da esperti su basi tecnico-scientifiche allo scopo
di ottenere risposte razionali ai problemi pubblici. La medesima domanda riceverebbe oggi una
risposta diversa. Benché la fiducia nella possibilità di un governo razionale non sia del tutto
sfumata, la maggior parte degli studiosi risponderebbe che non esiste un’unica via maestra (one
best way), ma che diversi percorsi possono essere appropriati a seconda della situazione in cui i
policy makers si trovano ad agire.
Un modo particolarmente illuminante per distinguere le situazioni in cui i policy makers
possono imbattersi è costituito dalla matrice proposta dallo studioso americano di
organizzazioni, James Thompson (1967), e frequentemente ripresa da numerosi autori nei
decenni successivi. La matrice individua quattro situazioni diverse in base alla certezza o
all’incertezza (un aspetto chiave di questo capitolo) dei fini e dei mezzi. I fini sono certi quando si
sa dove si vuole andare, ossia quando gli obiettivi sono chiaramente definiti e gli attori
condividono l’ordine delle priorità. Sono viceversa incerti quando c’è conflitto sulla loro
definizione e/o sull’ordine delle priorità e quindi non esiste un obiettivo sul quale chiaramente
puntare. A loro volta i mezzi sono certi quando «si sa come fare», ossia si conoscono le relazioni
causa-effetto che possono generare il risultato voluto. Sono incerti quando «non si sa come fare»,
ossia non si ha alcuna sicurezza sull’esistenza di strumenti efficaci, per esempio perché esistono
opinioni controverse tra gli specialisti. Le quattro situazioni che ne derivano sono presentate
nella figura 2.
Figura 2
La matrice di Thompson.
Fonte: nostra elaborazione da THOMPSON 1967, p. 134.
3. Per ciascuna delle seguenti attività indicare se si tratta di valutazioni ex ante o ex post:
ex ante ex post
Somministrare un test agli alunni di una scuola elementare per accertare la loro conoscenza
dell’inglese
Calcolare il numero di lavoratori assunti dalle imprese che hanno usufruito di un contributo regionale
Calcolare i flussi di traffico che potrebbero alimentare una nuova autostrada in progettazione
Elaborare un piano finanziario per mostrare la sostenibilità del nuovo centro mutimediale proposto
dal sindaco
5. Un istituto che amministra le case popolari ha ricevuto 30 domande per un alloggio. Se l’alloggio è assegnato in base a: numero
di figli, reddito ISEE e numero di anni di residenza nel comune, il metodo di valutazione adottato consiste in:
a) un’analisi costi-benefici
b) un’analisi multicriteri
c) entrambe
d) nessuna delle due
9. La seguente frase: «La pluralità dei decisori può rimediare alle omissioni o agli altri errori che nelle decisioni complesse sono
inevitabili» appare appropriata all’interno dell’approccio:
a) razional-comprensivo
b) a razionalità limitata
c) incrementale
d) «bidone della spazzatura»
10. Un decisore sceglie la prima alternativa che corrisponde grosso modo alle proprie aspettative anche se sa che potrebbero
essercene altre migliori. Questo criterio di scelta può essere definito:
a) massimizzante
b) soddisfacente
c) incrementale
d) casuale
12. Il modello dei flussi multipli di John Kingdon (vedi Capitolo 4) costituisce un’applicazione, con qualche variazione, del:
a) modello razional-comprensivo
b) modello a razionalità limitata
c) modello incrementale
d) modello bidone della spazzatura
13. Un consiglio regionale deve delimitare le zone a rischio idrogeologico comprese nel suo territorio regionale, ma non possiede
tutte le informazioni per svolgere questo compito. Sceglie quindi di delimitare tali aree con le (poche) informazioni in suo
possesso e poi trasmette il documento ai Comuni e alle associazioni interessate perché facciano le loro osservazioni, con lo scopo
di arrivare, poco a poco, a una delimitazione condivisa di tali zone. Il metodo seguito può essere definito:
a) razional-comprensivo
b) a razionalità limitata e incrementale
c) casuale
d) non corrisponde ad alcun modello
Capitolo 7
Decidere in condizioni di conflitto
1. La lotta
2. Il voto
3. La negoziazione
4. La deliberazione
5. L’autorità politica
6. L’autorità terza
7. Il sorteggio
8. La gara
9. Nei panni dei policy makers: procedure a confronto
Nel capitolo precedente abbiamo visto come prende forma il contenuto delle politiche e quali
approcci vengono usati dagli attori per far fronte all’incertezza, sia cercando di sconfiggerla, sia
accontentandosi di aggirarla o di convivere con essa quando si trovano in situazioni confuse e
ambigue. È, però, molto probabile che, così facendo, diversi attori giungano a conclusioni
contrastanti. La formulazione delle politiche è normalmente accompagnata da conflitti, ossia da
situazioni in cui gli attori sostengono proposte che, almeno in prima battuta, risultano
incompatibili. Esistono conflitti di interesse tra chi può guadagnarci e chi rischia di rimetterci, per
esempio tra i destinatari e i beneficiari di una politica pubblica o tra le terze parti avvantaggiate e
quelle danneggiate dall’intervento (vedi: triangolo delle politiche pubbliche, Capitolo 1, § 5).
Esistono conflitti di valori che riguardano le convinzioni e le idee degli attori (per esempio su
questioni etiche o di giustizia sociale). Per arrivare a prendere una decisione gli attori devono
affrontare il conflitto cercando di risolverlo o superarlo.
Lo si è visto nell’esempio del pedaggio in città riportato all’inizio del Capitolo 2. Di fronte al
problema dell’inquinamento, gli attori avevano elaborato soluzioni contrastanti: gli ambientalisti
avevano una posizione diversa da quella dei commercianti e anche gli esperti avevano espresso
opinioni contrapposte. Alla fine, comunque, si è arrivati a una decisione che ha introdotto il
pedaggio e ha stabilito le regole per la sua gestione. C’erano più voci discordanti, ma si è arrivati a
un’unica scelta collettiva. Come si può approdare a una scelta collettiva in presenza di attori in
conflitto?
Questo capitolo è dedicato all’analisi di quelle modalità o di quelle procedure che consentono
di oltrepassare il conflitto e, quindi, di trasformare in una decisione il confronto-scontro tra attori
diversi. Le possiamo chiamare procedure per decidere. Abbiamo già accennato a qualcuna di esse
nel capitolo precedente (ad esempio, il «mutuo aggiustamento partigiano» proposto dagli
incrementalisti, o l’«approccio politico» che compare nel 2o quadrante della matrice di
Thompson). Ora dobbiamo però esaminarle in modo più completo e approfondito.
Gli attori possono cercare di gestire i conflitti attraverso varie procedure che danno luogo a
risultati diversi. Non esiste un’unica strada per arrivare a una decisione collettiva. Quali e quante
sono? Lo scienziato politico britannico Brian Barry (1965, p. 84) ne ha individuate sette: 1) la
lotta (combat); 2) la negoziazione (bargaining); 3) la deliberazione (discussion on merits); 4) il
voto (voting); 5) il sorteggio (chance); 6) la gara (contest); 7) l’autorità (authoritative
determination). A ben vedere, queste sette procedure possono essere suddivise in tre grandi
gruppi (figura 1):
a) Le procedure orizzontali sono praticate da attori che si trovano – almeno formalmente – sullo
stesso piano e che riescono così a gestire e a risolvere da soli i loro conflitti, senza ricorrere a
interventi esterni. Appartengono a questo tipo la lotta, il voto, la negoziazione e la
deliberazione.
b) Le procedure verticali comportano, viceversa, un intervento dall’alto (o dall’esterno) che
chiude il conflitto indipendentemente dagli attori in esso coinvolti. Appartengono a questo
tipo le procedure basate sull’autorità, che conviene distinguere (a differenza di quello che fa
Barry) a seconda che l’intervento dall’alto sia effettuato da un’auto-rità politica o da
un’autorità terza.
c) Le procedure basate su automatismi operano in modo meccanico: il conflitto è risolto
applicando una sequenza prestabilita di meccanismi o, potremmo anche dire, un algoritmo.
In questo caso, la soluzione è individuata in base a un processo non discrezionale, senza un
intervento esplicito e consapevole da parte di qualche attore. Poiché il loro uso è poco
frequente nelle scelte pubbliche, ci limiteremo a un cenno rapido, ma avvertiamo che il loro
studio è di grande interesse, perché l’impiego di queste procedure tenderà probabilmente a
espandersi in futuro, dal momento che esse offrono la promessa (o l’illusione) di sottrarre la
decisione alla discrezionalità umana (e politica). Appartengono a questo gruppo la gara e il
sorteggio.
Figura 1
Classificazione delle procedure per decidere.
Fonte: nostra elaborazione sulla base di BARRY 1965.
◼ 1. La lotta
Quando un conflitto si affaccia sulla scena è molto probabile che la prima reazione di ciascun
attore sia quella di ingaggiare una lotta contro i propri avversari. In questo modo gli attori in
conflitto mobilitano le loro risorse per indurre la controparte a cedere alle loro richieste. La lotta
consiste in comportamenti ostili (non necessariamente violenti) volti a mettere in difficoltà
l’avversario, per esempio denunciandolo pubblicamente, danneggiandolo e facendogli perdere
consenso. Nello stesso tempo, chi è impegnato nella lotta cercherà di dare la massima visibilità
pubblica alle proprie posizioni, di allargare la propria base di consenso, di stringere alleanze. Si
lotta per vincere, ossia per ottenere tutto quello che si chiede senza piegarsi a compromessi. La
lotta, nelle intenzioni dei contendenti, è un gioco a somma zero, in cui una parte vince e l’altra
perde. La scelta collettiva che scaturisce dalla lotta consiste nel trionfo del punto di vista della
parte vincente.
Il ricorso alla lotta è molto frequente. Quasi tutti i conflitti tendono a essere affrontati,
almeno nella fase iniziale, attraverso uno scontro diretto in cui ciascuna parte cerca di prevalere
sull’altra. È il caso, per esempio, dei conflitti di lavoro o sindacali, in cui si contrappongono
lavoratori e datori di lavoro, dei conflitti ambientali o territoriali in cui gruppi ambientalisti o
comitati di cittadini combattono contro l’inquinamento o contro l’istallazione di infrastrutture
che hanno un forte impatto sul territorio (inceneritori, discariche, autostrade, elettrodotti, linee
ad alta velocità, ecc.), dei conflitti sociali sostenuti da gruppi svantaggiati che rivendicano, per
esempio, l’accesso alla casa o ai servizi sociali, o cercano di opporsi agli sfratti, dei conflitti etici
che contrappongono i difensori dei valori tradizionali ai sostenitori del loro superamento in
questioni come l’eutanasia, la procreazione assistita o la famiglia, dei conflitti etnici che
oppongono gruppi appartenenti a diverse culture o religioni, ecc.
Le caratteristiche e le dinamiche della lotta sono state analizzate soprattutto dagli studiosi dei
movimenti sociali, perché questi ultimi tendono a mettere sistematicamente in atto la politica
dello scontro (contentious politics) (TILLY − TARROW 2007). Il sociologo americano Charles Tilly
(2006) ha studiato i diversi repertori di azione che i movimenti utilizzano per condurre le loro
battaglie. Per esempio gli scioperi e il picchettaggio, le manifestazioni, la raccolta di firme, le
campagne di protesta, il volantinaggio, le occupazioni (di università, edifici, parchi pubblici), le
lotte di strada, gli scontri con la polizia. I repertori variano nel tempo, per esempio i sit-in erano
tipici dei movimenti studenteschi degli anni Sessanta del Novecento; il flash-mob ha cominciato a
essere praticato recentemente. Altrettanto recente è la pratica di arrampicarsi su gru, ciminiere o
torri da parte di operai per dare visibilità alla loro battaglia per il mantenimento del posto di
lavoro.
La lotta può presentare aspetti positivi sia per gli attori che la praticano, sia per la società nel
suo insieme. Mediante il ricorso alla lotta, i movimenti collettivi hanno la possibilità di affermare
con forza le proprie posizioni, senza doverle annacquare in compromessi, e possono battersi a
viso aperto per realizzarle. È un modo limpido e netto per sostenere idee, diritti, interessi
collettivi. Inoltre, l’impegno comune nella battaglia tende a rafforzare l’identità e la coesione
all’interno dei gruppi in lotta.
Le lotte possono, inoltre, avere effetti positivi per la società nel suo insieme. Spesso
costituiscono il passaggio obbligato per poter promuovere nuove politiche e affermare nuovi
diritti, vincendo resistenze fortissime. Senza le lotte dei lavoratori, dei neri americani o dei
movimenti LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender), tanto per fare alcuni esempi, alcuni
diritti, che oggi consideriamo fondamentali, difficilmente sarebbero stati riconosciuti.
La lotta può presentare però anche un’altra faccia. Nella lotta si tendono a creare due campi
contrapposti: o si sta da una parte o si sta dall’altra. Le posizioni che si trovano nel mezzo o quelle
che vedono il problema sotto altri punti di vista tendono a essere schiacciate dalla
contrapposizione principale e fanno fatica a divenire visibili. Si assiste alla polarizzazione delle
forze in campo e alla semplificazione dell’oggetto del contendere. Spesso le parti sono indotte a
ingaggiare forme di lotta sempre più dure, producendo un’escalation o una radicalizzazione dello
scontro (ARIELLI – SCOTTI 2003). In questi casi, il conflitto non fa alcun passo avanti; diventa
endemico, determinando situazioni di lotta per la lotta, già descritte dal sociologo tedesco Georg
Simmel all’inizio del Novecento ([1903] 1998), che «diventano indipendenti dalle loro cause
iniziali e rischiano di proseguire anche dopo che quelle cause sono divenute irrilevanti o sono
state dimenticate» (DEUTSCH 1973, p. 351).
Può, inoltre, succedere che nessun contendente riesca a vincere (e nessuno sia costretto a
cedere) e che si determini una situazione di stallo. In questo caso, è possibile che i contendenti
ricorrano ad altre procedure per affrontare il loro conflitto, per esempio al voto, alla
negoziazione, all’autorità politica, o al giudice. In questi casi, molto frequenti, la lotta non è che
una forma di pressione che viene esercitata per giocare su altri tavoli; è solo un primo passo nel
processo che porta alla scelta collettiva.
◼ 2. Il voto
Gli attori possono cercare di risolvere il loro conflitto mediante un’altra procedura di tipo
orizzontale, ossia ricorrendo al voto: due o più proposte alternative sono messe in votazione,
quella che ottiene la maggioranza dei voti vince.
Per poter risolvere il conflitto tramite il voto sono necessarie due condizioni. Innanzitutto,
bisogna poter individuare una specifica platea di persone, che abbiano diritto di esprimersi su
una determinata proposta e le cui preferenze possano essere contate. Tale platea può consistere
nella totalità dei cittadini, quando la questione viene sottoposta a referendum. Più spesso la platea
è formata da un insieme molto più ristretto di rappresentanti a cui è attributo un potere
decisionale, per esempio un comitato, un’assemblea, un consiglio. Tipici organi in cui si vota
sono le assemblee elettive: il consiglio comunale, il consiglio regionale, il parlamento. In secondo
luogo, è necessario che siano già state definite le proposte su cui votare. La votazione arriva al
momento finale del processo decisionale.
Il voto di maggioranza è spesso considerato la procedura fondamentale di cui si servono le
democrazie per risolvere i conflitti (NOVAK – ELSTER 2014). Ha una doppia virtù: rispecchia i
valori democratici fondamentali di libertà e uguaglianza e, nello stesso tempo, è semplice e pratica
(N. BOBBIO 1999). Sul piano dei valori, il voto è espressione di libertà dal momento che dà a
ciascun votante (specie se il voto è segreto) il diritto di scegliere la sua opzione preferita senza
alcun condizionamento, e realizza pienamente l’uguaglianza dal momento che ogni voto conta
allo stesso modo (secondo il principio «una testa, un voto»), indipendentemente dalla diversa
condizione di ricchezza, potere o status sociale di chi vota. Il voto è l’unica procedura decisionale
(accanto al sorteggio) in cui si realizza la completa uguaglianza dei partecipanti.
Il voto di maggioranza è, inoltre, una procedura particolarmente semplice e pratica, in quanto
consente di risolvere il conflitto in modo chiaro e in breve tempo. Bastano pochi minuti (o pochi
giorni nel caso del referendum) per verificare se una certa proposta ha la maggioranza dei voti. È
sufficiente che i votanti si esprimano, mediante alzata di mano, premendo un pulsante, o
depositando una scheda nell’urna, e che i voti, così espressi, vengano contati (o, come si dice in
linguaggio tecnico, scrutinati). Subito dopo il voto, quella specifica disputa ha termine: si è
formata una maggioranza a favore (o contro) una proposta, la decisione è stata presa in un senso
o nell’altro. Il caso, per il momento, è chiuso (anche se sarà possibile riaprire la questione in un
prossimo futuro).
Malgrado queste indubbie virtù (libertà, uguaglianza ed efficacia pratica), il voto presenta
alcuni inconvenienti, che sono stati ampiamente analizzati da filosofi, economisti e scienziati
politici e, in certi casi, può produrre persino risultati poco equi e poco efficaci.
Il principio di eguaglianza, secondo cui tutti i voti hanno lo stesso valore, può determinare
risultati discutibili, quando le preferenze dei votanti hanno diversa intensità o quando esistono
forti squilibri nelle informazioni a loro disposizione.
È abbastanza frequente che, tra coloro che si esprimono a favore di una proposta, vi siano
persone a cui quell’opzione sta molto a cuore e altre a cui è quasi indifferente, in altre parole le
loro preferenze hanno diversa forza o intensità, come aveva già teorizzato un secolo fa
l’economista neoclassico Vilfredo Pareto (1906). Eppure, ogni voto conta allo stesso modo, a
prescindere dal fatto che sia espresso da una persona molto o poco convinta. Quando esiste un
problema che riguarda una piccola minoranza di cittadini (per esempio i familiari di bambini
disabili, gli abitanti di un paese con particolari problemi geologici o i praticanti di uno sport poco
diffuso) è possibile che la loro proposta – che essi considerano importantissima – sia sconfitta da
una votazione in cui la maggioranza dei votanti è fondamentalmente indifferente alla questione.
Il voto, inoltre, non tiene conto del diverso grado di informazione e consapevolezza dei
votanti. Il voto di una persona informata e consapevole della posta in gioco e delle implicazioni
legate alle diverse alternative vale quanto il voto di una persona disinformata o con
un’informazione parziale. In altre parole, il voto presuppone che le basi informative dei votanti
siano omogenee, ma ovviamente questo non avviene praticamente mai. È lecito, per esempio,
domandarsi quanti cittadini britannici fossero davvero consapevoli di cosa avrebbe comportato
far uscire la Gran Bretagna dall’Unione europea, quando furono chiamati alle urne il 23 giugno
2016.
La conseguenza principale di questi due tipi di asimmetrie è che l’esito del voto risulta dal
conteggio di preferenze che non sono sullo stesso piano, perché diversamente intense, informate
e consapevoli, e questo indebolisce la legittimità di questa procedura. Si tratta, inoltre, di
inconvenienti insuperabili: non è possibile misurare l’intensità delle preferenze per pesare
diversamente i voti, né è auspicabile che i votanti siano sottoposti a un esame preventivo per
accertare il loro grado di informazione.
Il voto, inoltre, non è sempre efficace, ossia non riesce sempre a definire con nettezza
l’opzione vincente. Il primo studioso a notare questo problema fu un matematico e politico
francese, il marchese di Condorcet che, in un libro pubblicato nel 1785, mise in luce il paradosso
che ha preso il suo nome. Se il voto avviene su due sole opzioni, osservò Condorcet, una vince e
l’altra perde, ma se le opzioni – come spesso avviene – sono più di due, è possibile che nessuna di
loro emerga come maggioritaria in termini assoluti e che l’esito dipenda invece dall’ordine in cui
vengono messe al voto coppie di opzioni alternative.
Facciamo un esempio (tratto, con adattamenti, da Dunn 2004). Supponiamo che in
parlamento si debba prendere una decisione strategica su quali fonti di energia privilegiare negli
investimenti pubblici del prossimo quinquennio e che le alternative siano tre: a) combustibili
fossili, che per comodità chiameremo P (come Petrolio); b) fonti rinnovabili, che per comodità
chiameremo S (come Solare); c) energia nucleare (N). In parlamento ci sono tre gruppi, più o
meno di pari entità, che sono in conflitto tra di loro perché hanno preferenze diverse, come
indicato nella tabella 1.
Tabella 1. Illustrazione del paradosso di Condorcet. Le preferenze di tre attori per tre alternative.
Il gruppo dei Verdi punta sul Solare, ma preferisce il Petrolio al Nucleare, perché lo ritiene
meno pericoloso. Il gruppo dei Bianchi vuole promuovere prima di tutto il Nucleare e preferisce
il Solare al Petrolio, perché considera quest’ultimo come una fonte antiquata e in via di
superamento. Il gruppo dei Neri preferisce invece continuare a sviluppare il Petrolio, che è una
tecnologia nota e affidabile, e diffida del Solare che rappresenta un salto nel buio.
Se le tre alternative sono messe in votazione tutte assieme, è probabile che la più votata riceva
meno del 50 per cento dei voti e che, alla fine, gli insoddisfatti siano la maggioranza. Se sono
messe in votazione a coppie, il risultato può cambiare a seconda dell’ordine con cui si svolgono le
votazioni. E infatti:
– se la scelta è tra Solare e Petrolio: vince il Solare (lo votano i Verdi e i Bianchi);
– se la scelta è tra Petrolio e Nucleare: vince il Petrolio (lo votano i Verdi e i Neri);
– se la scelta è tra Nucleare e Solare: vince il Nucleare (lo votano i Bianchi e i Neri).
Non esiste un’alternativa che vinca nettamente sulle altre due. A seconda di come si svolgono
le votazioni avremo maggioranze che cambiano, ossia maggioranze cicliche. Ciò significa anche
che un politico abile può cercare di manipolare l’agenda parlamentare per far mettere all’ordine
del giorno il tipo di votazione che gli è più favorevole. Il paradosso consiste nel fatto che
l’ordinamento delle alternative che scaturisce nelle tre votazioni non è transitivo, il che comporta
una contraddizione logica. Infatti, se il Solare vince sul Petrolio (prima votazione) e il Petrolio
vince sul Nucleare (seconda votazione), il Solare – per la proprietà transitiva – dovrebbe vincere
sul Nucleare, e invece accade il contrario (terza votazione).
Si potrebbe obiettare che l’esempio è stato costruito ad arte e che nella realtà è raro che si
verifichino situazioni di questo tipo. È vero invece il contrario. Se i votanti sono numerosi e se
non sono schierati su due posizioni coerenti e contrapposte, le maggioranze saranno
necessariamente instabili o cicliche. È questa la conclusione cui è pervenuto il premio Nobel per
l’economia Kenneth Arrow (1951) con la formulazione del teorema dell’impossibilità, secondo
cui, quando i votanti hanno tre o più alternative a disposizione, non esiste nessun sistema di voto
che permetta di risalire dall’ordine di preferenze dei votanti a un ordine di preferenze collettivo
che sia completo e transitivo, e rispetti alcune condizioni elementari. Insomma, il voto di
maggioranza è uno strumento meno solido di quello che potrebbe apparire a prima vista.
Esistono altri problemi. Il voto non riflette sempre le «vere» preferenze dei votanti sulle
alternative messe in votazione. Spesso si vota in modo strategico (e non sincero) per ottenere
vantaggi del tutto indipendenti dal proprio giudizio sul merito della proposta. Per esempio, in
parlamento può capitare che i deputati del partito A votino a favore della proposta formulata dal
partito B (che non condividono, ma che non li disturba troppo), perché si aspettano che in un
prossimo futuro i deputati del partito B voteranno a favore di una loro proposta a cui tengono
moltissimo. Questo fenomeno che viene chiamato scambio di voti (in inglese: logrolling, «far
rotolare i tronchi») sfrutta la diversa intensità delle preferenze dei votanti ed è nella realtà molto
frequente.
Infine, il voto è un gioco a somma zero. Ciò significa che chi viene a trovarsi in maggioranza
(anche per un solo voto) ottiene il pieno accoglimento della sua proposta, mentre chi viene a
trovarsi in minoranza è costretto a subire. Un esito così netto produce forti divisioni, con il
risultato che chi perde è tentato di rovesciare la situazione alla prima occasione. Spesso gli attori
coinvolti nella formulazione delle politiche, soprattutto se avversi al rischio, preferiscono evitare
di «passare ai voti», quando il risultato appare poco prevedibile, e tendono ad accettare la
votazione di maggioranza solo come «ultima spiaggia», quando tutte le altre modalità si sono
rivelate incapaci di produrre una soluzione che possa chiudere il conflitto.
◼ 3. La negoziazione
Oggetto della trattativa è come «dividersi la torta» (formata da quei 40.000 €) e per questo tale
negoziazione è chiamata distributiva. È da notare che le parti non conoscono l’entità della torta,
perché ciascuna di esse tende a nascondere all’altra il suo prezzo di riserva, ossia il limite fino a
cui è disposta a spingersi. L’abilità del negoziatore consiste nel riuscire a capire quanto è grande
la zona di possibile accordo. L’accordo finale potrà essere più vantaggioso per il compratore o per
il venditore, ma si situerà comunque all’interno di questo spazio. Possiamo dire che la
negoziazione distributiva è un gioco a somma positiva fissa (nel nostro esempio tale somma fissa
è di 40.000 €): ciò che una parte guadagna è perduto dall’altra e viceversa. Pertanto, la trattativa si
svolge tendenzialmente in un clima competitivo. Nei policy networks la negoziazione distributiva
è onnipresente: si negozia sull’entità di uno stanziamento, sui requisiti per l’accesso a un
contributo, sulla configurazione di un fatto come reato, sull’entità della pena e su molto altro
ancora.
Alcuni studiosi, a partire dalle intuizioni pionieristiche dell’esperta americana di
management Mary Parker Follett (1925), hanno osservato che la negoziazione può anche
consistere nella ricerca di soluzioni ricche o complesse che possano soddisfare le esigenze di tutte
le parti coinvolte, generando vantaggi reciproci (mutual gains). Questo specifico tipo di
negoziazione è stato particolarmente studiato dal Negotiation Project condotto all’Università di
Harvard (RAIFFA 1981), divulgato nel manuale di grande successo internazionale Getting to Yes di
Fisher e Ury (1981) e nei lavori di Lawrence Susskind (1987, 1999). Nella negoziazione integrativa
l’accordo finale non è un compromesso, ma una soluzione originale che tiene conto degli interessi
di tutte le parti e riesce a «integrarli».
Secondo Fisher e Ury (1981), la negoziazione integrativa si sviluppa quando le parti non si
limitano a confrontarsi sulla base delle loro posizioni, che sono per definizione contrapposte, ma
riescono a guardare quello che c’è dietro, ossia a prendere in considerazione i reciproci interessi,
che sono ovviamente diversi ma non necessariamente incompatibili e che possono essere
«accomodati» in un accordo che riesca a combinare vari aspetti, in modo creativo (SCLAVI –
SUSSKIND 2011). L’arte del negoziato consiste, quindi, nel «gestire le differenze» (FORESTER 2009).
Attraverso la negoziazione si riesce a creare valore o, possiamo anche dire, a «allargare la torta».
La negoziazione integrativa si presenta come un gioco win-win, ossia un gioco in cui tutti
ottengono qualcosa senza dover rinunciare a qualcos’altro (tabella 2).
Tabella 2. Caratteristiche della negoziazione distributiva e della negoziazione integrativa.
Accordi di tipo integrativo e non basati su compromessi non sono rari nella formulazione
delle politiche pubbliche. Per esempio, negli anni Ottanta del Novecento la più importante
industria chimica italiana, la Montedison, era stata accusata, dagli ambientalisti e dagli operatori
turistici della riviera romagnola, di inquinare l’Adriatico con lo scarico a mare dei fanghi di
risulta delle sue lavorazioni nella zona di Porto Marghera. Il conflitto fu aspro e il processo
negoziale fra le parti si trascinò per alcuni anni. Da un lato, gli ambientalisti e la Regione Emilia
Romagna premevano per la chiusura di quelle lavorazioni in modo da far cessare gli scarichi a
mare. Dall’altro, la Montedison e i sindacati si opponevano a questa soluzione. A un certo punto,
sembrò che fosse possibile risolvere la contesa mediante il conferimento dei fanghi in discarica,
ma contro questa soluzione ci fu l’opposizione netta da parte della Regione Veneto, sollecitata
dalle comunità locali. Le posizioni erano frontalmente contrapposte, ma gli interessi in realtà non
erano così incompatibili. Alla fine, dopo anni di discussioni e di polemiche, si fece strada una
serie di soluzioni che riuscirono a soddisfare, in qualche modo, gli interessi di tutte le parti
coinvolte. L’impresa si impegnò con le controparti a trovare una soluzione tecnica per il riciclo di
vari tipi di fanghi e per il loro utilizzo nella produzione di cemento e nei riempimenti stradali. In
questo modo gli scarichi a mare cessarono (come volevano gli ambientalisti e la Regione Emilia-
Romagna) e l’impresa poté mantenere in vita buona parte delle sue produzioni (come chiedevano
anche i sindacati) (FARERI 2009).
Sull’onda delle teorie della negoziazione integrativa, negli Stati Uniti e in Canada si è
sviluppata l’Alternative Dispute Resolution – ADR (risoluzione alternativa delle controversie),
ossia la tendenza a non trattare più i conflitti tramite il ricorso al giudice o all’autorità, ma
mediante le negoziazione diretta tra le parti coinvolte (MARICONDA 2008): per esempio, nel
campo dei problemi pubblici, tra aziende che inquinano e residenti che subiscono
l’inquinamento o tra i diversi attori che usano le acque di un fiume (industrie, pescatori,
agricoltori, società di canottaggio, ecc.).
Aprire un negoziato e condurlo in porto può essere molto difficile quando i rapporti tra le
parti sono deteriorati e non esiste alcuna fiducia reciproca, come avviene normalmente dopo
lunghi periodi di conflitto aperto. In questi casi può essere necessario l’intervento di un
mediatore, ossia di un soggetto neutrale accettato da tutte le parti, che le aiuti a superare le
diffidenze e a trovare una soluzione creativa e win-win. Il mediatore non decide al posto delle
parti (non si comporta come un’autorità), ma funge da catalizzatore, mostrando a ciascuna di
esse i vantaggi che potrebbe ottenere attraverso un accordo (ARIELLI – SCOTTO 2003). La figura del
mediatore è normalmente presente nei negoziati internazionali che si svolgono in seguito a
conflitti armati e si sta diffondendo anche nei conflitti sociali e ambientali.
Il principale punto di forza della negoziazione consiste nel fatto che è un gioco a somma
positiva: se si giunge all’accordo, tutte le parti ottengono qualche miglioramento rispetto alla
situazione di partenza. Se non ottenessero nulla di significativo, non sottoscriverebbero l’accordo
e la negoziazione fallirebbe. Naturalmente, è possibile che l’accordo sia più vantaggioso per una
parte che per l’altra, ma – a differenza di quanto avviene nel caso della lotta e del voto – non ci
sono vincitori e perdenti netti. Proprio per questo, si può ritenere che i risultati della
negoziazione siano stabili nel tempo (SUSSKIND – CRUIKSHANK 1987). Poiché la decisione finale
consiste in un accordo, a cui tutte le parti hanno dato il loro consenso, nessuna di loro dovrebbe
avere interesse a metterlo in discussione.
E gli inconvenienti? Innanzitutto, la negoziazione è un processo che può risultare lungo,
faticoso e incerto. Comporta alti costi di transazione, a causa delle risorse umane impiegate per
incontri di lavoro, discussioni, raccolta di informazioni, redazione di bozze e documenti,
trattative, scambi di telefonate e di e-mail. Prima di arrivare a un accordo possono passare mesi o
anni. Inoltre è possibile che, malgrado tutti questi sforzi, le trattative si rompano e il negoziato
fallisca, determinando un grave spreco delle risorse impiegate fino a quel momento. Al
confronto, il voto è una procedura molto più rapida ed efficiente.
Un secondo inconveniente della negoziazione consiste nel fatto che l’accordo riflette il
diverso potere contrattuale delle parti. Nella negoziazione ottengono risultati migliori le parti più
forti, ossia quelle che sono in grado di esercitare: opzioni esterne, ossia possono disporre di
soluzioni alternative al di fuori del negoziato («se non accetti questo accordo, me ne vado…», «o
prendere o lasciare») (FISHER – URY 1981), oppure opzioni interne, ossia possono fare promesse o
minacce credibili («se accetti questo accordo, avrai…», «se non accetti questo accordo, te ne
pentirai…») (ELSTER 1989a). In presenza di forti squilibri, il negoziato rischia di essere una forma
mascherata di imposizione.
Infine, un difetto che spesso si attribuisce alla negoziazione è quello di indurre le parti a
rinunciare alla proprie posizioni per approdare a discutibili accomodamenti che lasciano
insoddisfatti e amareggiati. Per alcuni attori, infatti, alla fine è meglio perdere lottando che
accettare compromessi: negoziare è un po’ tradire. Altri obiettano che in una società pluralista e
complessa non si può andare avanti senza venire a patti con gli altri. Certo è che il confine tra un
buon accordo e un mediocre compromesso è molto difficile da stabilire.
◼ 4. La deliberazione
Gli attori in conflitto possono attivare un’altra procedura orizzontale, quella della
deliberazione (dall’inglese deliberation, discussione fondata su argomenti), che consiste nel
discutere le proprie e le altrui posizioni esplicitando le ragioni che le sostengono. Chi si impegna
nella deliberazione cerca di persuadere gli altri della bontà della propria posizione, ma si espone,
a sua volta, alla possibilità di essere persuaso dagli argomenti proposti dagli altri partecipanti. La
deliberazione si basa su tre pilastri fondamentali:
– esiste un accesso pieno, libero e paritario alle informazioni che costituiscono un patrimonio
comune;
– i partecipanti giustificano le loro posizioni con argomenti che possano essere accettabili per
gli altri partecipanti: anche quando essi sono motivati da interessi particolaristici, se vogliono
persuadere gli altri, devono riuscire a convincerli che le loro proposte sono di interesse
comune. In altre parole, la deliberazione induce a una forma di ipocrisia che ha una funzione
civilizzatrice (ELSTER 1998);
– i partecipanti si confrontano con i loro interlocutori, prendono sul serio i loro argomenti e, se
non ne sono convinti, rispondono nel merito proponendo contro-argomenti.
– la virtù cognitiva: la deliberazione produrrebbe decisioni migliori, rispetto alle altre procedure,
perché consentirebbe di ride nire i problemi e inventare soluzioni innovative, che sarebbero
altrimenti inaccessibili;
– la virtù di governo: la deliberazione rafforzerebbe la legittimità delle decisioni e quindi anche
la loro stabilità, perché i partecipanti, esaminando a fondo i pro e i contro delle soluzioni,
«riconoscono di aver contribuito al risultato finale e di averlo influenzato, anche se si trovano
in disaccordo con esso» (BOHMAN 1996, p. 33);
– la virtù civica: la deliberazione indurrebbe i cittadini all’ascolto, alla tolleranza, al confronto e
alla fiducia reciproca e quindi formerebbe cittadini migliori, più attivi sulle questioni
politiche, più responsabili e più capaci di ragionare sulle scelte pubbliche.
Non sono mancati gli studiosi che hanno messo in luce i limiti della deliberazione. In primo
luogo, nella deliberazione tenderebbero a essere favoriti gli attori che hanno maggiori capacità
argomentative e che dispongono di maggiori informazioni. Secondo alcuni critici la
deliberazione è un’attività adatta alle persone istruite delle classi medio-alte, ma rischia di tagliare
fuori la maggioranza della popolazione. Quando le asimmetrie su questi aspetti sono ampie, si
possono determinare fenomeni di manipolazione (gli attori più forti nascondono o alterano
informazioni rilevanti e inducono in errore gli altri partecipanti) o di conformismo (gli attori più
deboli si adeguano, senza condividerle, alle opinioni che ritengono maggioritarie). Da questo
punto di vista è preferibile ricorrere alla votazione che almeno si basa sul principio «una testa, un
voto» (SANDERS 1997).
Inoltre, la deliberazione può funzionare se si svolge tra individui liberi di riflettere sugli
argomenti proposti dai loro interlocutori e di cambiare idea, di fronte a ragioni convincenti. Ma
ci sono numerosi attori che non si trovano in questa condizione. I rappresentanti dei gruppi di
interesse e i membri di un partito, per esempio, devono rispondere delle loro scelte e sono tenuti
a sostenere con fermezza le posizioni della loro organizzazione, altrimenti corrono il rischio di
essere sconfessati. Il loro compito è quello di riuscire a far passare le posizioni del loro gruppo,
ossia di vincere, e non quello di dare vita a un’indagine costruttiva con i loro avversari. Nel più
ampio studio finora condotto sulla deliberazione nei dibattiti parlamentari, Jürg Steiner e
collaboratori (2004) hanno mostrato che i deputati, pur facendo ampio uso di argomenti per
giustificare le loro proposte, appaiono chiusi sulle loro posizioni iniziali e poco propensi a
recepire gli argomenti degli altri.
◼ 5. L’autorità politica
◼ 6. L’autorità terza
Gli attori in conflitto possono permettere che qualcuno decida al loro posto per un altro
motivo, ossia perché quest’ultimo si trova in una posizione terza (o neutrale) rispetto ai
contendenti e perché egli è in grado di assicurare che la sua decisione si baserà esclusivamente su
un corpo predefinito di regole.
Esistono numerose figure di autorità terza a cui le parti possono affidare la risoluzione del
loro conflitto. Possono innanzitutto rivolgersi a una persona scelta di comune accordo (un
arbitro), impegnandosi ad accettare qualsiasi decisione emerga dall’arbitrato (si tratta di un
fenomeno frequente nei conflitti tra gli Stati, ma anche nelle cause tra grandi aziende). Possono
inoltre rivolgersi a un giudice già formalmente istituito. Anzi, il ricorso a un soggetto terzo è il
principale rimedio offerto dalle istituzioni per la risoluzione delle controversie. Ogni istituzione
ha propri giudici: esistono giudici internazionali, europei, statali, sportivi, ecclesiastici e le
associazioni hanno spesso i loro probiviri, ecc.
Il ricorso all’autorità giudiziaria ha l’effetto di depoliticizzare (e di raffreddare) il conflitto.
Non contano più i rapporti di forza (come nella lotta o nel voto) o l’opportunità politica (come
quando la decisione è presa dall’autorità politica), ma soltanto la conformità a norme prestabilite.
Il ricorso all’autorità terza ha il pregio di risolvere il conflitto con criteri imparziali e in modo
netto, ma nello stesso tempo è una procedura che comporta alti costi di transazione: i processi
sono lunghi e costosi e spesso la sentenza arriva troppo tardi rispetto al problema originario. Il
processo davanti al giudice (a qualsiasi giudice) è di regola un gioco a somma zero perché si
conclude stabilendo che una parte ha ragione e l’altra torto: le cause si possono vincere e si
possono perdere.
Può, inoltre, capitare che la decisione finale (la sentenza) non riguardi i veri motivi della
controversia, ma prenda in considerazione aspetti puramente formali o procedurali. Per esempio,
se un gruppo di cittadini è preoccupato per le possibili emissioni nocive di un inceneritore che
l’amministrazione comunale ha autorizzato, può far ricorso al giudice (in questo caso: al giudice
amministrativo), sostenendo che l’amministrazione non ha rispettato le procedure previste dalla
legge per l’autorizzazione al progetto. Il giudice si pronuncerà su questo specifico aspetto, ma il
problema vero del contrasto, ossia se le emissioni dell’inceneritore sono nocive e se (e in che
modo) possono essere mitigate, sarà eluso: se il giudice darà ragione all’amministrazione,
l’inceneritore sarà costruito anche se comporta danni per la salute; se il giudice darà ragione ai
cittadini, l’inceneritore non si farà, ma il problema della gestione dei rifiuti rimarrà irrisolto. Per
questo, dagli USA si è diffusa una corrente di opinione che ritiene preferibile far precedere il
giudizio da un processo negoziale o deliberativo tra le parti, secondo i principi dell’Alternative
Dispute Resolution (§ 3), per permettere di affrontare il vero problema e di trovare una soluzione
costruttiva che possa essere conveniente per tutti i contendenti (SUSSKIND – CRUIKSHANK 1987).
◼ 7. Il sorteggio
Mediante il sorteggio, la scelta è affidata al caso (al lancio della moneta o dei dadi,
all’estrazione di una pallina dall’urna, alla scelta della pagliuzza più corta, a una funzione random,
ecc.). Questa procedura può funzionare solo quando le alternative sono già state definite e
selezionate, ossia nella fase conclusiva del processo decisionale (come nel caso del voto).
Attualmente il sorteggio ha, nelle scelte pubbliche, un impiego molto limitato. In Italia, per
esempio, si sorteggiano i giudici popolari delle Corti di assise e i membri delle commissioni che
decidono sugli appalti o, talvolta, sui concorsi.
Sull’uso del sorteggio esiste una diffidenza diffusa, perché può sembrare irrazionale affidarsi
al caso invece che a una scelta meditata, ma ci sono alcune circostanze in cui può essere
ragionevole scegliere in modo non razionale e in cui, pertanto, il sorteggio è preferibile alle altre
procedure decisionali (ELSTER 1989b; DOWLEN 2009; SINTOMER 2009).
La prima circostanza si verifica quando la valutazione delle alternative si presenta come
un’attività costosa e incerta, perché esse sono troppo simili tra di loro o perché è difficile mettere
a fuoco le differenze che contano. Si rischia di spendere una quantità enorme di energie senza
avere alcuna ragionevole certezza di scegliere l’alternativa veramente migliore. In tali casi, il
sorteggio risulta una soluzione rapida e ragionevole. In molte città degli USA, per esempio, si
sorteggia l’assegnazione delle case popolari tra tutti i richiedenti che possiedono determinati
requisiti; a Norcia e ad Amatrice, dopo il terremoto del 2016, è stata sorteggiata l’assegnazione
delle prime casette prefabbricate tra tutti gli abitanti rimasti senza tetto, perché – in entrambi i
casi – sarebbe stato difficile e infruttuoso stabilire chi di loro avesse maggiori meriti o maggiore
bisogno.
La seconda circostanza si verifica quando esiste il rischio che nella scelta possano prevalere
cattive ragioni (STONE 2009). In questi casi, per garantire una decisione imparziale, il sorteggio
costituisce una soluzione appropriata, perché è meglio decidere sulla base di nessuna ragione che
sulla base di una ragione cattiva. La fortuna cieca è preferibile al decisore astuto che ci vede fin
troppo bene. Esistono vari esempi dell’uso del sorteggio al fine di garantire imparzialità: per
esempio, per la posizione delle liste nelle schede elettorali, per i commissari dei concorsi
universitari, per la formazione delle classi in alcune scuole, ecc.
La terza circostanza ricorre quando si vuole affermare con forza l’uguaglianza delle
alternative. È questa la ragione per cui nell’antica Atene le principali cariche pubbliche venivano
assegnate mediante sorteggio tra tutti i cittadini che si dichiaravano disponibili. In questo modo,
qualsiasi cittadino aveva la medesima probabilità di ricoprire una funzione pubblica e così si
realizzava un principio fondamentale della democrazia (CARSON – MARTIN 1999).
È interessante notare che negli ultimi decenni si è ricominciato a ricorre al sorteggio negli
esperimenti di democrazia deliberativa. Allo scopo di far partecipare cittadini qualsiasi alla
discussione sulle scelte pubbliche, talvolta si creano mini-pubblici formati da un numero ristretto
di cittadini estratti a sorte, gli si offre un’informazione equilibrata, gli si permette di interrogare
esperti e testimoni e alla fine si chiede loro di elaborare una raccomandazione. A questi principi
si ispirano alcuni dei dispositivi deliberativi che abbiamo citato nel Capitolo 2, § 8 (GRÖNLUND et
al. 2014).
◼ 8. La gara
Mediante la gara le alternative sono messe in competizione tra di loro in modo che,
attraverso le loro concrete prestazioni, sia possibile stabilire – senza margine di ambiguità – qual
è la migliore. Come il sorteggio, anche la gara è una procedura a somma zero (una o più
alternative vincono e le altre perdono), ma in questo caso il vincitore emerge da un processo
competitivo. La gara (a differenza della lotta) è svolta secondo regole definite.
La gara implica solitamente la presenza di un giudice di gara (un’autorità terza), che controlli
la regolarità della competizione e stabilisca le sanzioni in caso di infrazione. Se prendiamo come
riferimento le competizioni sportive, notiamo subito una differenza: ci sono gare in cui il
vincitore può essere designato in modo oggettivo attraverso specifici strumenti (ad esempio, il
cronometro e il fotofinish nelle gare di corsa) e quindi il giudice di gara si limita a controllare la
regolarità della competizione; ci sono, invece, gare (come i tuffi o la ginnastica artistica) dove si
chiede ai giudici una valutazione, ovviamente di carattere più discrezionale. Si ricorre alla
procedura della gara, nel settore pubblico, essenzialmente in due circostanze: nei concorsi
pubblici e nella scelta del contraente per i lavori pubblici (le gare d’appalto) e per altre funzioni
(ad esempio forniture). In questi tipi di competizione, la graduatoria finale è affidata alla
valutazione discrezionale dei giudici di gara (come nei tuffi e nella ginnastica) e quindi il ruolo
dell’autorità terza è molto importante e delicato.
Nella gara, se tutto si svolge regolarmente, «vince il migliore». In altre parole, la decisione
viene presa esclusivamente in base al merito. Questo è il pregio fondamentale della gara, ma non
è facile mettere in campo le condizioni che rendono possibile questo esito e, in particolare:
Abbiamo visto che le vie per affrontare i conflitti e per arrivare a una decisione collettiva sono
numerose, hanno caratteristiche diverse e possono condurre a esiti divergenti: a parità di
condizioni, può variare il contenuto della decisione a seconda della procedura che si utilizza. La
tabella 3 mostra alcune di queste differenze. La seconda colonna fa vedere quanto siano varie le
attività che gli attori mettono in campo in ciascun caso: si va dall’antagonismo, all’uso di
argomenti, alla contrattazione, alla pressione sull’autorità, alla competizione, all’uso di
sottigliezze giuridiche, alla semplice espressione di un voto o, nel caso del sorteggio, alla completa
inerzia. Altrettanto vari sono i criteri di scelta che vengono adottati e che sono riassunti nella
terza colonna. È ben diverso se a decidere sono i rapporti di forza, il formarsi di un maggioranza
attorno a una proposta, un accordo tra i soggetti coinvolti, un confronto argomentato, la volontà
di un’autorità politica o la sentenza un giudice. O se la scelta è rimessa al caso o all’abilità di
ciascun partecipante.
Tabella 3. Procedure per decidere: un confronto.
Alcune procedure consistono in giochi a somma zero, in cui ci sono vincitori e perdenti; altre
in giochi a somma positiva, in cui tutti i partecipanti si trovano alla fine in una posizione migliore
rispetto a quella iniziale. Possiamo definire le prime come procedure competitive o agonistiche e le
seconde come procedure cooperative.
La figura 3 mostra la classificazione delle procedure in relazione ai due tipi. Non abbiamo
classificato l’autorità politica perché essa può fare entrambe le cose: produrre soluzioni che vanno
a esclusivo vantaggio di un gruppo di attori e ne penalizzano altri, oppure soluzioni vantaggiose
per tutti.
Figura 3
Procedure competitive e cooperative.
Quale procedura scegliere per affrontare un conflitto o una controversia? Questo è il dilemma
che si ripropone continuamente nei policy networks: è meglio negoziare o votare? È meglio lottare
o discutere con l’avversario? È meglio adire alle vie giudiziarie o affidarsi alla decisione
dell’autorità politica? Perché non chiudere subito la partita con un sorteggio? Gli attori non sono
sempre liberi di scegliere; molto dipende dalle circostanze in cui si trovano e dai vincoli
istituzionali esistenti. Tuttavia, esiste sempre qualche margine di manovra. Gli attori che sono
interessati a mantenere le relazioni con i loro avversari, a trovare soluzioni articolate e complesse
e che hanno tempo a loro disposizione tenderanno, per quanto possibile, a imboccare la strada
della negoziazione o della deliberazione. Le procedure competitive saranno, invece, preferite
dagli attori che hanno un’alta propensione al rischio, che amano «o tutto o niente», che
desiderano soluzioni nette o che hanno poco tempo. A loro volta i giochi competitivi non sono
tutti uguali: gli attori che ritengono di essere in maggioranza propenderanno per il voto, mentre i
piccoli gruppi di minoranza preferiranno impegnarsi nella lotta (come si vede nella scritta sul
muro della figura 4), perché permette di dare visibilità alle loro posizioni che, in caso di una
votazione, risulterebbero sommerse.
Figura 4
Una scritta su un muro in via Pietro Micca a Torino.
In realtà la scelta non è sempre così drastica («o lotta o voto», «o negoziato o ricorso al
giudice», ecc.) perché di solito sono possibili diverse combinazioni di procedure. Anzi, siccome
nessuna procedura è perfetta e ciascuna ha le proprie virtù e i propri difetti, è difficile che nelle
decisioni reali ci si affidi a una sola procedura. Quasi sempre se ne utilizza più d’una in sequenza
(una dopo l’altra) o in commistione (una accanto all’altro). Sequenze molto frequenti sono:
– lotta + negoziazione: si ingaggia la lotta ma poi si va a trattare con il proprio avversario (come
avviene continuamente nelle vertenze sindacali);
– deliberazione + voto: è quello che succede talvolta in parlamento, dove si passa ai voti solo
dopo aver discusso la questione nel merito all’interno delle commissioni parlamentari;
– autorità politica + lotta: è quello che succede quando l’autorità prende una decisione che
provoca la reazione di alcuni gruppi sociali che provano poi a rimettere tutto in discussione,
come avviene per esempio nei conflitti territoriali.
1. Che cosa sommiamo quando diciamo che un gioco è a somma zero o positiva?
a) i giocatori
b) le somme spese durante il gioco
c) le vincite e le perdite di ciascun giocatore
d) le loro puntate
3. Se io, consigliere regionale, sono contrario alla nuova autostrada, ma voto egualmente a favore perché penso che i sostenitori
dell’autostrada mi restituiranno il favore appoggiando un progetto che mi sta molto a cuore, si è realizzato (una sola risposta è
sbagliata):
a) un caso di logrolling
b) un caso di maggioranza ciclica
c) un caso di voto strategico
d) uno scambio di voti
5. La negoziazione distributiva si chiama così perché i giocatori si distribuiscono una «torta» che è formata:
a) dal totale delle richieste delle parti
b) dalla differenza tra i prezzi di riserva delle parti
c) dalle differenza tra le richieste delle parti
d) dal totale dei prezzi di riserva delle parti
7. Il governo emana un decreto con cui dispone che gli allevatori paghino entro un mese le multe sulle quote latte. Gli allevatori
manifestano per chiedere un rinvio dei pagamenti di un anno e una riduzione delle multe del 50%. Dopo un incontro di due ore
con il presidente del consiglio si accordano per un rinvio di sei mesi e una riduzione delle multe del 30%. Dopo qualche giorno il
governo modifica nello stesso senso il precedente decreto. La procedura che ha permesso di giungere alla decisione può essere
definita come:
a) voto di maggioranza
b) negoziazione distributiva
c) negoziazione integrativa
d) autorità terza
8. Se diciamo che mediante il voto si sommano «preferenze esogene» intendiamo dire che:
a) i votanti non hanno sempre le idee chiare
b) il voto si limita a registrare preferenze che si sono formate precedentemente
c) il voto può portare a un ordinamento di preferenze non transitive
d) i votanti non sempre riflettono prima di votare
9. Se diciamo che nella deliberazione le preferenze sono «endogene» intendiamo dire che:
a) i partecipanti ridefiniscono le loro opinioni nel corso della discussione
b) i partecipanti arrivano alla discussione con idee molto chiare
c) i partecipanti arrivano alla discussione con idee confuse
d) i partecipanti non sono disposti a cambiare idea
Una volta che un provvedimento è stato approvato mediante un atto formale, per esempio
mediante una legge, un decreto, una delibera, ecc., si apre una fase – spesso lunga e complessa –
in cui le prescrizioni contenute in quell’atto formale devono essere messe in pratica. Si apre cioè il
processo di attuazione o, possiamo anche dire, di implementazione (dall’inglese implementation).
Molto spesso da parte dei media, dell’opinione pubblica o degli stessi politici l’attuazione è
considerata come un processo quasi automatico: l’approvazione di una nuova legge viene salutata
come un evento risolutivo, dando per scontato che la sua attuazione avverrà senza intoppi, come
se si trattasse di mettere insieme i pezzi di una macchina già completamente progettata e di
premere il pulsante di accensione. In realtà le cose non stanno così: l’attuazione di una politica
pubblica è infatti un processo tutt’altro che automatico, che combina in forme mutevoli e spesso
non prevedibili componenti tecniche – risorse, regole, strumenti di intervento – con componenti
sociali – attori, culture organizzative, relazioni (VINO 2014). I contorni, la portata e, a volte, gli
stessi obiettivi di una politica continuano a precisarsi anche e soprattutto durante l’attuazione.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, si è sviluppato un vero e proprio ramo di studi
dedicato all’attuazione delle politiche pubbliche che cerca di rispondere a due domande distinte,
ma tra loro connesse: 1) che cosa succede veramente durante l’attuazione delle politiche e quali
sono le difficoltà che si incontrano? (piano descrittivo); 2) come fare per affrontare e risolvere
queste difficoltà? (piano prescrittivo), (VAN METER − VAN HORN 1975; MAZMANIAN − SABATIER
1983; HILL − HUPE 2002; WINTER 2003). Il capitolo si propone di affrontare queste domande.
Proviamo a rispondere a questa domanda vedendo più da vicino l’attuazione di tre diverse
politiche: la riqualificazione di un’area urbana degradata, un piano per l’occupazione giovanile,
l’introduzione del divieto di fumare nei locali pubblici. Per ciascuna di esse, ricostruiamo i
principali passaggi della fase di attuazione e i principali attori che agiscono in essi.
La politica di riqualificazione di aree urbane degradate ha goduto di un consistente
cofinanziamento da parte dell’Unione europea, attraverso i cosiddetti «fondi strutturali», in
particolare attraverso il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR) e il Fondo Sociale
Europeo (FSE). Tuttavia, prima che un singolo intervento di riqualificazione sia realizzato, il
percorso di attuazione deve superare vari passaggi. Innanzitutto, è necessario che a livello
nazionale venga approvato un Programma Operativo Nazionale (PON) che precisi gli obiettivi
definiti a livello europeo e metta eventualmente a disposizione ulteriori risorse. È poi necessario
che ciascuna Regione elabori un proprio Programma Operativo Regionale (POR) coerente con
quello nazionale ed europeo, che definisca nel dettaglio i requisiti che le città devono possedere
per poter accedere ai finanziamenti, le procedure che devono seguire per fare domanda e i criteri
di valutazione che gli uffici regionali applicano per selezionare i progetti da finanziare. In seguito,
ogni Regione emette dei bandi, a cui, entro un termine definito, i Comuni interessati e in
possesso dei requisiti devono rispondere con un progetto di massima, in genere concordato con
una partnership locale fra enti pubblici e organizzazioni private (per esempio coinvolgendo
soggetti come la Provincia, la Camera di commercio, le associazioni di categoria, ecc.). I progetti
preliminari devono poi essere valutati da parte di funzionari regionali, al fine di individuare
quelli finanziabili. A questo punto, i Comuni che hanno superato la valutazione devono elaborare
il progetto definitivo dei lavori e ottenere tutte le autorizzazioni necessarie per svolgerli. Esaurita
questa fase, le opere progettate e autorizzate vanno inserite in una gara d’appalto al fine di
individuare le imprese che le realizzeranno materialmente. Infine, i Comuni dovranno assicurarsi
che le opere vengano effettivamente realizzate secondo i capitolati concordati con le imprese.
L’attuazione di un piano europeo per l’occupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non
siano impegnati in un’attività lavorativa né in un percorso formativo si articola in diverse fasi. Il
ministero del lavoro deve elaborare un piano nazionale di attuazione che aggiunga ulteriori
risorse oltre a quelle stanziate a livello europeo, ripartisca i fondi complessivamente disponibili
tra le Regioni, individui il mix delle azioni da svolgere a favore dei beneficiari: attività di
orientamento e formazione, tirocini, sostegno alla mobilità professionale all’interno dei paesi
dell’Unione europea e all’avvio di attività professionali in proprio, inserimento lavorativo con
contratti di apprendistato. Ciascuna Regione deve poi elaborare un piano attuativo che precisi
ulteriormente le caratteristiche di queste azioni, tenendo conto della struttura produttiva del
proprio territorio. Non disponendo in proprio di tutto il personale necessario, le Regioni devono,
inoltre, emettere dei bandi per individuare i soggetti che erogheranno concretamente i servizi ai
beneficiari: centri per l’impiego pubblici e soggetti privati accreditati (ad esempio cooperative
sociali, agenzie private del lavoro, agenzie formative, ecc.). A loro volta questi soggetti devono
rispondere ai bandi, illustrando nel dettaglio come intendono operare e con quali risorse umane.
Ciascuna Regione deve valutare le domande ricevute, in modo da selezionare i soggetti a cui dare
l’incarico. Solo a questo punto le azioni per promuovere l’occupazione dei giovani possono
prendere avvio.
Una volta che il parlamento nazionale approva una legge che vieta il fumo in tutti i locali
pubblici privi di adeguato ricircolo dell’aria, molti interventi devono essere compiuti per rendere
quel divieto effettivamente operante. È infatti innanzitutto necessario che il ministero della sanità
emani un regolamento attuativo che precisi nel dettaglio le caratteristiche tecniche degli impianti
di ventilazione e ricambio dell’aria, che devono essere installati nelle aree chiuse riservate ai
fumatori. È inoltre necessario che il ministero, in accordo con le Regioni e con le forze
dell’ordine, definisca regole e procedure per l’accertamento delle infrazioni e per l’attribuzione
delle relative sanzioni. A questo punto, tocca ai singoli esercenti applicare il divieto nei propri
locali e decidere se realizzare o meno gli interventi necessari per creare una parte riservata ai
fumatori. Le associazioni di categoria svolgono un ruolo importante nel divulgare le nuove regole
presso i propri associati, mentre gli organi della polizia locale lo svolgono nelle azioni di controllo
sul terreno.
Le tre politiche che abbiamo utilizzato come esempi affrontano problemi differenti (il
degrado delle aree urbane, la disoccupazione dei giovani, la salute dei cittadini), ricorrendo a
misure altrettanto diverse tra loro (il finanziamento di opere infrastrutturali; un insieme di
servizi di politica attiva del lavoro; regole, divieti e sanzioni), ma la loro attuazione presenta
caratteristiche comuni.
Innanzitutto, come abbiamo già detto nel Capitolo 1, nella formulazione e nell’attuazione di
una politica pubblica tendono a intervenire vari livelli di governo: il livello europeo, nazionale,
regionale e locale nel primo esempio; il livello europeo, nazionale e regionale nel secondo; il
livello nazionale, regionale e locale nel terzo.
In secondo luogo, in ciascuno dei tre esempi come nella maggior parte delle politiche
pubbliche, gli attori del processo di attuazione compongono una rete di soggetti appartenenti a
diverse organizzazioni, pubbliche e private, che devono collaborare per la buona riuscita della
politica. Oltre agli enti pubblici (istituzioni europee, ministeri, Regioni, enti locali) possiamo
trovare soggetti del terzo settore (cooperative sociali e agenzie formative nel caso del piano per
l’occupazione giovanile), aziende private (le imprese costruttrici che realizzano le opere di
riqualificazione urbanistica, le agenzie private del lavoro nel caso del piano per l’occupazione),
associazioni (le associazioni di categoria nel primo e nel terzo esempio), gli stessi destinatari (i
giovani disoccupati che devono impegnarsi nel percorso finalizzato a trovare un’occupazione, gli
esercenti che devono applicare regole nei loro locali, i fumatori che devono accettare di non
fumare più nei caffè e nei ristoranti).
Non è raro che durante l’attuazione di una politica pubblica si accumulino ritardi, emergano
fasi di stallo e che, a distanza di anni, i risultati conseguiti siano modesti o addirittura inesistenti.
È quanto successe in un programma di sviluppo economico per la città di Oakland nella baia
di San Francisco (California), promosso a metà degli anni Sessanta del Novecento
dall’amministrazione del presidente Lyndon Johnson e studiato da Jeffrey Pressman e Aaron
Wildavsky (1973). Questo studio ha una grande importanza, perché la loro analisi ha dato origine
a un filone di ricerche focalizzate sull’attuazione. In conclusione del loro lavoro, i due autori
affermano: «noi considereremo il nostro sforzo un successo se un numero maggiore di persone
comincerà a capire che l’attuazione, anche nelle migliori circostanze, è straordinariamente
difficile. Essi dovrebbero semmai essere fortemente sorpresi quando qualcosa di buono realmente
succede» (PRESSMAN − WILDAVSKY 1973, p. XXI). Vediamo su che basi giustificano le loro
conclusioni.
Il programma venne lanciato dal governo federale nel 1966 e la sua attuazione fu affidata
all’agenzia federale, l’Economic Development Administration (EDA), preposta alla gestione dei
progetti di sviluppo. L’obiettivo era creare nuovi posti di lavoro per disoccupati di lungo periodo
attraverso il trasferimento da parte del governo federale di circa 23 milioni di dollari per la
realizzazione di opere infrastrutturali. Le due opere più rilevanti consistevano in un nuovo
capannone e un nuovo terminal marittimo nell’area portuale della città. Dopo alcuni anni,
tuttavia, solo 3 milioni di dollari erano stati effettivamente spesi e solo poche decine di
disoccupati erano stati assunti grazie a questo programma.
Gli autori sostengono che l’intervento non era fallito per mancanza di risorse economiche
(che anzi erano abbondanti e non erano state spese) o per l’opposizione esplicita di qualche attore
rilevante. Il motivo va ricercato nella natura stessa dei processi di attuazione delle politiche
pubbliche. L’attuazione di una politica infatti consiste in una catena molto lunga di azioni tra
loro interconnesse. Alcune di queste azioni sono effettivamente semplici e non presentano
particolari problemi. Altre azioni, invece, dipendono da autorizzazioni, permessi, accordi che
coinvolgono uno o più attori che non hanno preso parte alla formulazione della politica. È come
se ognuno di questi attori avesse in mano una leva in grado di far andare avanti il processo di
attuazione o di bloccarlo. Siccome le azioni sono interconnesse, il blocco di una di esse, anche
temporaneo, influisce su un numero consistente di altre azioni, finendo per aumentare
esponenzialmente i ritardi complessivi o deviare dagli obiettivi originari dei policy makers,
aumentando la probabilità che il progetto fallisca.
Nel caso di Oakland, questi problemi emersero in particolar modo durante la progettazione
delle opere infrastrutturali. La progettazione del nuovo capannone subì infatti sin da subito
notevoli ritardi perché i progettisti del porto erano impegnati in altri progetti e non avevano
tempo di occuparsene. Quando il progetto venne effettivamente abbozzato, a bocciarlo furono le
società di assicurazione che, una volta realizzato, avrebbero dovuto garantirlo contro gli incendi,
perché lo ritenevano troppo vulnerabile. Il progetto dovette essere ampiamente rivisto e si
accumulò un grande ritardo che finì per pregiudicarne la realizzazione. Anche la progettazione
del nuovo terminal marittimo seguì un percorso accidentato. Il progetto elaborato dai tecnici del
porto venne innanzitutto criticato da una agenzia pubblica competente in materia ambientale in
merito ai materiali previsti per la sua costruzione e alla sua stessa stabilità strutturale. Il progetto
venne poi contestato anche dall’esercito a causa delle interferenze del terminal con la limitrofa
stazione dell’aviazione militare. Dopo lunghe esitazioni, l’autorità portuale decise allora di
abbandonare il progetto e di provare a destinare le stesse risorse alla realizzazione di un ristorante
turistico. Ovviamente la progettazione dovette ripartire da zero e non riuscì a concludersi nei
termini previsti.
Secondo Pressman e Wildavsky, dunque, la principale difficoltà dell’attuazione di una politica
pubblica riguarda la complessità dell’azione congiunta: la difficoltà, cioè, di coordinare e orientare
le azioni frammentate dei molti attori coinvolti in modo tale da conseguire gli obiettivi della
politica.
◼ 4. Le strutture di implementazione
All’inizio degli anni Ottanta del Novecento Benny Hjern e David Porter, due giovani studiosi
con un background nella sociologia organizzativa, avanzarono un contributo originale. Studiando
le politiche della formazione continua per i lavoratori in Germania e Svezia, si trovarono di
fronte a una stupefacente varietà di organizzazioni e di attori coinvolti nell’attuazione (Comuni e
Contee, agenzie formative o specializzate nel welfare, istituti scolastici, sindacati e associazioni di
categoria, imprese, camere di commercio) e a un mix di esiti positivi e di situazioni
problematiche. Da un lato, infatti, osservarono come questo insieme variegato di attori era spesso
in grado di produrre buoni risultati: molti lavoratori frequentavano i corsi, acquisivano un titolo
di studio e alla fine riuscivano a ottenere un lavoro migliore. Dall’altro lato, individuarono anche
molti problemi e insuccessi, come nel caso di corsi di formazione considerati indispensabili dagli
attori locali di un territorio, che tuttavia non riuscivano a essere finanziati, o nel caso di imprese
che estendevano la loro attività ma non trovavano sul territorio lavoratori adeguatamente formati
da assumere, nonostante avessero annunciato con molto anticipo le loro intenzioni. Per
comprendere e spiegare adeguatamente sia i successi sia gli insuccessi dell’attuazione, evitando di
concentrare l’attenzione solo sui secondi, Hjern e Porter suggerirono che non è sufficiente
analizzare gli interessi e le azioni di ciascun attore, evidenziando i punti del processo in cui si sia
inceppata la concatenazione tra le loro azioni o sia emerso conflitto. È anche necessario studiare
le caratteristiche della rete a cui gli attori impegnati nell’attuazione danno vita, che essi
denominano struttura di implementazione. Seguendo questa prospettiva, la chiave di volta dei
processi di attuazione consiste nella coesistenza di due diverse logiche di azione.
Le reti che si mettono in moto per dare attuazione a una politica pubblica, ossia le strutture di
implementazione, sono formate – anche negli esempi che abbiamo visto nei paragrafi precedenti
– da attori appartenenti a più organizzazioni, per esempio a un ministero, a un Comune, a
un’agenzia pubblica, a un’associazione privata, ecc. Si verifica perciò la situazione messa in luce
nella figura 1: ciascuna delle organizzazioni impegnate nella realizzazione di un programma
pubblico (indicate sull’asse orizzontale del grafico) è contemporaneamente impegnata in più
programmi (indicati sull’asse verticale) e ciascun programma è attuato con il contributo di più
organizzazioni. Pertanto, ciascun individuo (i pallini nella figura) ha una doppia appartenenza: fa
parte della struttura gerarchica della propria organizzazione, ma anche della struttura di
implementazione del programma su cui sta lavorando. La doppia appartenenza si associa a due
logiche di azione che sono diverse: la logica dell’organizzazione e la logica del programma. Per
esempio, il funzionario comunale che, in uno dei casi presentati nel § 1, si trova a cooperare con
altri soggetti (per esempio, rappresentanti della Regione, delle soprintendenze, della Camera di
commercio e di associazioni del volontariato) per la realizzazione di un progetto di
riqualificazione urbana, deve nello stesso tempo rappresentare le esigenze del suo Comune
(seguendo la logica della sua organizzazione) e portare a compimento uno specifico progetto
(seguendo cioè la logica di quel programma). La logica dell’organizzazione è infatti espressione
dell’organizzazione di appartenenza: è coerente con i suoi valori consolidati, persegue i suoi
obiettivi e interessi prioritari, risponde alla sua struttura gerarchica interna. La logica del
programma è invece espressione del programma: è coerente con i suoi valori, mette al centro ciò
che è cruciale per la sua buona riuscita, sviluppando rapporti tendenzialmente paritari e
informali all’interno della rete.
Figura 1
Le strutture di implementazione.
Fonte: HJERN − PORTER 1981, p. 216.
Spesso i policy makers fanno grande affidamento su questa strategia, ritenendola utile a
eliminare alla radice le incertezze dell’attuazione. In realtà, essa si rivela efficace per quei
problemi pubblici che possono essere trattati mediante procedure altamente standardizzate e che
si possono, quindi, svolgere secondo processi quasi meccanici, in cui autonomia di valutazione e
flessibilità di giudizio dei funzionari non sarebbero comunque in grado di portare significativi
benefici all’attuazione (INGRAM 1990; MATLAND 1995). È il caso di quei provvedimenti di natura
distributiva o redistributiva che assegnano o tolgono risorse economiche ai soggetti che
presentano determinati requisiti: un aumento della pensione agli anziani senza altre fonti di
reddito, una riduzione delle aliquote della tassazione sul reddito, l’aumento dell’età pensionabile,
ecc. In tutti questi casi, l’identificazione dei soggetti che hanno diritto ai benefici o devono
sostenere dei costi può ragionevolmente essere demandata all’applicazione di un algoritmo
basato su parametri misurabili (la situazione patrimoniale, il livello di reddito, l’età anagrafica e
contributiva).
Una seconda strategia, per molti versi opposta alla prima, assume che l’attuazione sia un
processo interattivo, in cui la politica continua a riformularsi (BARRETT − FUDGE 1981), e che
quindi si debba volutamente lasciare agli attuatori il potere di contribuire al design stesso della
politica pubblica durante la fase di attuazione. Come sottolineano Giandomenico Majone e
Aaron Wildavsky (1978), molti vincoli si scoprono soltanto durante l’attuazione e le condizioni
di fattibilità di un intervento cambiano continuamente nel tempo. Anziché dunque illudersi di
poter orientare dall’alto ogni singolo passo dell’attuazione, secondo i due autori, è meglio
formulare politiche a maglia larga. Questa strategia si può concretizzare ricorrendo ai programmi
di scopo (LUHMANN 2005).
I programmi di scopo identificano gli obiettivi da raggiungere, stabilendo alcune regole di
fondo, e poi lasciano gli attuatori liberi di scegliere in autonomia i mezzi da utilizzare. L’esempio
che abbiamo visto nel Capitolo 2, riguardante l’istituzione del pedaggio per il traffico privato in
una città, rientra in questa categoria: a livello europeo e nazionale, sono stabiliti obiettivi in
termini di riduzione della concentrazione di inquinanti nelle aree urbane e le città sono libere di
scegliere lo strumento che preferiscono per ridurre l’inquinamento (nel nostro esempio è stato
introdotto un pedaggio sulla circolazione dei veicoli, ma il Comune avrebbe potuto adottare altre
misure). In questa modalità di attuazione, la libertà d’azione riconosciuta agli attuatori è
considerata un’importante leva per l’apprendimento, perché l’attuazione dei programmi di scopo
consente di elaborare, in territori diversi, strategie alternative di azione. Queste differenze,
anziché essere considerate un problema, rappresentano il materiale su cui effettuare la
valutazione (vedi Capitolo 9) per capire che cosa abbia funzionato meglio e perché, in modo da
poter promuovere la conoscenza e la diffusione delle pratiche migliori.
Detto in altri termini, mentre i programmi condizionali tentano di prevedere le dinamiche
dell’attuazione e di compiere valutazioni ex ante circa le strategie per aumentare l’efficacia di una
politica pubblica (vedi Capitolo 6), i programmi di scopo si affidano alla sperimentazione e alla
valutazione ex post della politica (vedi Capitolo 9), sulla base di comparazioni fra esperienze
diverse. L’adozione di questo approccio è, dunque, particolarmente adatto per l’attuazione di
politiche che non possono essere standardizzate e richiedono un’elevata capacità di adattamento
al contesto (MATLAND 1995).
Una terza strategia combina una certa discrezionalità e autonomia progettuale nella fase di
attuazione con una costante azione di regia del processo da parte di figure dedicate (DENTE 2011).
Questa strategia, anche definita «prospettiva del network management» (KICHERT − KLJIN −
KOEPPNIAN 1997), parte dal presupposto che le politiche pubbliche siano generalmente attuate
attraverso strutture di implementazione composte da attori che dovrebbero cooperare tra di loro.
Tuttavia, siccome sono all’opera diversi interessi e logiche d’azione, molto spesso la cooperazione
tra gli attori non si stabilisce spontaneamente, ma richiede un aiuto attivo.
Sin dalla fase di formulazione della politica è dunque fondamentale, secondo questa strategia,
prevedere il ricorso, in sede di attuazione, a una specifica figura, il network manager o «manager
di processo» o regista, che abbia l’obiettivo di seguire passo a passo l’attuazione rafforzando la
logica del programma. Per fare questo deve svolgere una estesa funzione di ascolto degli attori
impegnati nell’attuazione, cercando, al tempo stesso, di motivarli a raggiungere gli obiettivi
comuni; favorire l’individuazione dei problemi operativi che si presentano lungo il percorso e le
possibili soluzioni, coinvolgendo le organizzazioni competenti; cercare di prevenire l’emergere di
conflitti e di arginare le forme di tacita resistenza, impegnandosi a mediare tra gli attori quando
necessario (KLIJN − KOPPENJAN 2000). Si tratta dunque di una funzione poliedrica, che a seconda
dei momenti coordina, stimola, richiama, facilita, media. Può essere svolta sia da professionisti
privati sia da funzionari pubblici, purché investiti della necessaria autorità, dotati della
indispensabile autonomia rispetto a tutti gli attori impegnati nell’attuazione e delle adeguate
competenze sia di tipo tecnico sul merito della politica oggetto di attuazione, sia di tipo
relazionale (ad esempio: saper ascoltare in modo attivo [SCLAVI 2003], saper stimolare la
creatività, saper promuovere un clima adeguato nelle interazioni, ecc.) (FORESTER 1989).
Impegnarsi nella regia dei processi attuativi è considerata da diversi analisti una strategia
intelligente, in particolare in tutte quelle politiche che promuovono interventi complessi e che
richiedono l’intervento e la cooperazione di molti attori con rilevanti margini di discrezionalità
(KOONTZ − NEWIG 2014). Ritornando al caso di Oakland studiato da Pressman e Wilsasky,
possiamo ad esempio immaginare che la presenza di un manager di processo avrebbe potuto
ridurre i problemi che hanno portato al fallimento della politica. Avrebbe ad esempio potuto far
emergere le divergenze che erano rimaste lungamente sottotraccia tra il porto e l’EDA (l’agenzia
federale con il compito di dirigere l’attuazione) e promuovere esplicitamente la ricerca di
soluzioni condivise; avrebbe potuto impegnarsi a raccordare la progettazione delle opere del
porto con i vari soggetti responsabili di pareri e autorizzazioni vincolanti (come l’agenzia
pubblica in tema di ambiente e le assicurazioni in tema di rischio di incendi), chiedendo ad
esempio di anticipare pareri informali in modo da evitare di portare avanti scelte progettuali
destinate a essere bocciate.
HO CAPITO? ESERCIZI DI AUTOVALUTAZIONE
2. Quale dei seguenti funzionari pubblici non può essere considerato un «burocrate di strada»?
a) il vigile urbano
b) l’infermiere
c) il dirigente del settore viabilità di un Comune
d) l’assistente sociale
3. L’attuazione a livello regionale di una politica che dispone interventi a favore dell’infanzia viene svolta congiuntamente da
funzionari regionali, provinciali e comunali, da rappresentanti delle aziende sanitarie locali, del provveditorato agli studi e del
tribunale dei minori. Tale insieme di persone può essere definito come:
a) una struttura di implementazione
b) una struttura burocratica
c) una struttura gerarchica
d) un’organizzazione
5. Una Regione desidera rivitalizzare gli esercizi commerciali che si trovano nei centri storici. A questo scopo stanzia un fondo e
invita i Comuni a presentare progetti che mirino a raggiungere quell’obiettivo, impegnandosi a finanziare i progetti migliori.
Questo programma può essere definito come:
a) un programma condizionale
b) un programma di scopo
6. Quando una politica pubblica è caratterizzata da molta incertezza sugli esiti che può produrre:
a) è preferibile progettare l’attuazione nel dettaglio
b) è preferibile lasciare ampia autonomia agli attuatori
c) le due precedenti strategie si equivalgono
d) è opportuno rinviare qualsiasi decisione
9. Una legge impone a tutti i Comuni l’obbligo di raggiungere il 60% di raccolta differenziata dei rifiuti entro una certa data,
lasciandoli liberi di scegliere le misure da adottare. Si tratta di:
a) un programma condizionale
b) un programma di scopo
10. Una legge stabilisce che a tutti i disoccupati che si trovano in certe condizioni deve essere concesso un sussidio. Si tratta di:
a) un programma condizionale
b) un programma di scopo
Capitolo 9
La valutazione
1. Che cosa possiamo valutare
2. Valutare le prestazioni
3. Valutare gli effetti
4. Capire i meccanismi
5. Valutazione e policy making
Una volta che una politica pubblica è stata attuata, si tratta di capire se ha funzionato e
perché: che cosa è successo nella fase attuativa, quali risultati sono stati ottenuti e quali sono i
motivi che spiegano tali esiti. Poiché, come abbiamo ripetuto ormai molte volte, l’efficacia delle
politiche pubbliche non può mai essere data per scontata, è importante sottoporre a valutazione
ciò che è stato fatto e i risultati che sono stati generati, allo scopo di correggere, eventualmente, la
formulazione della politica stessa o lo svolgimento dei processi attuativi. La valutazione serve per
apprendere; per innescare il processo di retroazione (o feedback) (Capitolo 1, § 6).
Stiamo qui evidentemente parlando della valutazione ex post, ossia della valutazione che
interviene dopo che una politica pubblica è stata attuata. Essa va tenuta distinta dalla valutazione
ex ante che si svolge per confrontare, in sede di formulazione, diverse alternative al fine di
scegliere quella che appare più promettente (Capitolo 6, § 2). La valutazione ex ante cerca di
prevedere ciò che potrebbe succedere in seguito all’attuazione di una misura; la valutazione ex
post si propone di verificare ciò che è veramente successo. I due tipi di valutazione si servono di
metodi di indagine del tutto diversi.
Per valutare ex post le politiche si può ricorrere a tre principali approcci che rispondono a
peculiari obiettivi conoscitivi: la valutazione può infatti riguardare le prestazioni delle
organizzazioni che sono impegnate nell’attuazione delle politiche, gli effetti delle politiche sui
problemi pubblici, i meccanismi che sono in grado di spiegare l’efficacia o la mancata efficacia
delle politiche (VEDUNG 2006). Questi diversi tipi di valutazione, pur molto distanti tra di loro,
per l’oggetto della loro analisi e per le tecniche di cui si servono, hanno in comune tre importanti
caratteristiche: 1) consistono in attività di ricerca che adottano le tecniche, quantitative o
qualitative, sviluppate dalle scienze sociali; 2) hanno come obiettivo produrre giudizi
circostanziati su specifiche misure, programmi o interventi pubblici; 3) hanno l’ambizione di
determinare ricadute pratiche sulla realtà (STAME 1998; MARTINI − SISTI 2009).
Nel caso del corso di formazione, un primo outcome alla conclusione del corso è costituito da
ciò che i partecipanti hanno imparato; un secondo outcome, a distanza di qualche mese dalla
conclusione del corso, può consistere nel fatto che i disoccupati hanno trovato un’occupazione
temporanea grazie alla professionalità acquisita con il corso di formazione; più avanti ancora nel
tempo, gli stessi soggetti potrebbero aver trovato un’occupazione stabile. Nel caso degli incentivi
per le aziende che rinnovano i macchinari, un primo outcome che si può verificare subito dopo
l’installazione di nuovi macchinari in una impresa è la riduzione delle emissioni inquinanti di
quella stessa impresa; se un numero consistente di aziende di un territorio nell’arco di un certo
periodo di tempo aderisce al programma rinnovando i suoi macchinari, le concentrazioni medie
degli inquinanti presenti nell’aria di quel territorio si ridurranno in termini significativi; a
distanza di diversi anni, infine, si potrebbe verificare nella popolazione di quel territorio una
riduzione delle patologie respiratorie legate all’inquinamento atmosferico. Nel caso della
riduzione del limite di velocità sulle grandi vie di comunicazione, un primo outcome può
consistere nella riduzione della velocità di scorrimento nelle strade sottoposte al controllo degli
impianti fissi; un secondo outcome che si può verificare a distanza di qualche tempo è la
riduzione degli incidenti mortali in questi tratti di strada; se col passare del tempo gli
automobilisti prendono l’abitudine di guidare in modo più prudente, è possibile che gli incidenti
diminuiscano su tutti i tipi di strada.
Come si può dedurre dagli esempi, gli outcomes più lontani nel tempo sono spesso quelli che
hanno un maggiore impatto sul problema originario e sono quindi i più interessanti per capire se
la politica ha avuto successo. Tuttavia, più ci si allontana dal momento dell’attuazione, più il
rapporto tra gli outputs che escono dai processi di attuazione e gli effetti che si verificano nella
società diventa più labile e indeterminato, esattamente come succede ai cerchi concentrici causati
da un sasso gettato in uno stagno: più i cerchi si allontano dal punto di impatto, più diventano
deboli e svaniscono (EASTON 1965). Affronteremo nel dettaglio questo nodo nel paragrafo 3.
Per ciascuna politica pubblica la valutazione può infine cercare di identificare e descrivere
quali sono i meccanismi che sono in grado di innescare gli effetti. I meccanismi sono costituiti
dalla specifica catena causale di azioni ed eventi che collega gli inputs agli outputs e gli outputs agli
outcomes. Sono dunque il motore dei momenti di trasformazione (PAWSON − TILLEY 1997). Ce ne
occupiamo nel paragrafo 4.
◼ 2. Valutare le prestazioni
Nel Capitolo 5 abbiamo visto che le politiche pubbliche possono ricorrere a vari tipi di
strumenti, la cui attuazione vede impegnate una o più organizzazioni pubbliche o private. Un
primo tipo di valutazione concentra la sua attenzione sulle prestazioni di queste organizzazioni,
cercando di applicare al campo delle politiche procedure valutative simili a quelle che vengono
svolte nelle imprese private che producono beni o servizi. Questa forma di valutazione è
generalmente denominata valutazione della performance e si propone di mettere sotto controllo
l’operato delle organizzazioni, al fine di capire se stanno lavorando in modo adeguato, quali
errori stanno commettendo e su quali aspetti possono migliorare la propria azione (PALUMBO
2001; PETERS 2015).
Strutturare un sistema di valutazione della performance comporta tre passaggi fondamentali.
È innanzitutto necessario ricostruire in che modo l’organizzazione debba operare per affrontare
uno specifico problema pubblico. È poi necessario stabilire come misurare le prestazioni
dell’organizzazione in relazione a ciò che era previsto, ossia elaborare degli indicatori: gli
indicatori sono numeri che «indicano» o rappresentano un fenomeno, come ad esempio la
capacità dell’organizzazione di utilizzare gli inputs in modo efficiente o di produrre gli outputs
secondo quantità e qualità adeguate; il problema spesso difficile da affrontare consiste
nell’individuare gli indicatori giusti, che siano cioè veramente in grado di offrire una
rappresentazione affidabile del fenomeno indagato. È infine necessario individuare adeguati
termini di paragone: la misurazione di una prestazione in sé non è generalmente sufficiente per
capire se quella prestazione è buona o cattiva (AZZONE − DENTE 1999; HATRY 1999).
Vediamo un esempio di valutazione della performance che è stata effettuata sui servizi
socioassistenziali erogati da Comuni italiani di medie dimensioni (VALOTTI et al. 2006). La
valutazione ha coinvolto una trentina di Comuni tra i 30.000 e i 100.000 abitanti che presentano
collocazioni geografiche e caratteristiche socio-economiche ampiamente differenziate, in modo
da essere rappresentativi dell’insieme dei Comuni italiani di queste dimensioni. Il primo passo è
consistito nel ricostruire la politica di assistenza sociale dei Comuni e circoscrivere l’attenzione a
quattro servizi: gli asili nido, il servizio di inserimento di minori in comunità alloggio, i centri
diurni per disabili, l’assistenza domiciliare per anziani. Per ciascuno di questi servizi è stato poi
identificato un numero circoscritto di indicatori di performance. La tabella 1 riporta sei indicatori
che abbiamo scelto a titolo di esempio tra quelli riguardanti l’assistenza domiciliare per gli
anziani. I primi due indicatori offrono una misura dell’efficienza dei Comuni nell’erogare i
servizi, calcolando la quantità di inputs impiegati per ogni unità di output: nel primo caso, l’unità
di output è costituita dalla risposta (positiva o negativa) alla domanda di assistenza domiciliare
presentata al Comune e gli inputs sono misurati con il numero medio di giorni di lavoro
necessari al Comune per analizzare la domanda e decidere se accettarla o respingerla; nel secondo
caso, l’unità di output è costituita da un’ora di assistenza domiciliare erogata e gli inputs sono
misurati con la spesa complessivamente sostenuta dal Comune per erogarla. Questi indicatori
aiutano dunque a capire se il Comune è in grado di rispondere rapidamente alle richieste di
assistenza e a tenere sotto controllo la spesa. Altri due indicatori riguardano la quantità di
outputs, aiutano cioè a capire se la quantità di servizi erogati è adeguata alle esigenze della
popolazione. Il primo indicatore misura la quota di domande di assistenza effettivamente accolte
sul totale di quelle presentate; il secondo indicatore misura le ore di assistenza erogate in media
per ciascun anziano assistito. È probabile che i due indicatori abbiano un andamento inverso:
un’elevata quota di domande accettate potrebbe accompagnarsi a una quantità media di
assistenza per ciascun beneficiario molto bassa o viceversa. Gli ultimi due indicatori riguardano
la qualità del servizio, per come percepita dagli utenti. Il primo verifica se il Comune ha realizzato
o meno indagini di questo tipo, rivolgendo un questionario agli assistiti in cui esprimere la
propria soddisfazione lungo una scala graduata sulle caratteristiche visibili del servizio (ad
esempio la puntualità e la gentilezza degli operatori). Il secondo riporta la quota media di utenti
che hanno assegnato giudizi positivi o molto positivi alle caratteristiche del servizio indagate.
Tabella 1. Gli indicatori per il servizio di assistenza domiciliare per gli anziani.
Il punto di vista degli utenti, delle loro famiglie o di chi se ne occupa quotidianamente può
essere esplorato con maggiore profondità anche ricorrendo a metodi di carattere qualitativo. Si
può ad esempio ricorrere alle interviste, in modo da far emergere in termini dettagliati percezioni
e opinioni da parte di chi usufruisce di servizi o interventi pubblici; si può utilizzare la tecnica del
focus group, in cui un gruppo eterogeneo di persone (utenti, famiglie, operatori sociali, ecc.) è
coinvolto in una discussione strutturata che ha per oggetto l’intervento da valutare; il valutatore
può ricorrere all’osservazione partecipante del processo attuativo, sulla base di uno specifico
protocollo di osservazione focalizzato sugli aspetti cruciali da tenere sotto controllo. Si tratta di
metodi che richiedono un notevole investimento di tempo e di energie, ma possono arricchire
notevolmente le informazioni derivanti dagli indicatori di performance.
È ad esempio questo l’approccio che l’agenzia nazionale norvegese incaricata di valutare la
performance dei servizi pubblici ha applicato ai servizi di assistenza domiciliare per anziani e agli
interventi contro le barriere architettoniche per i portatori di handicap negli edifici e negli spazi
pubblici. Nel caso dei servizi domiciliari, i valutatori hanno intervistato gli anziani assistiti a
domicilio; quando non era possibile intervistarli a causa delle loro condizioni di salute, le
interviste sono state rivolte alle persone che vivevano con loro, in modo da evidenziare tutti gli
aspetti del servizio che presentavano limiti, difficoltà o inadeguatezze. Nel caso degli interventi
contro le barriere architettoniche, i valutatori hanno organizzato diversi focus groups
coinvolgendo persone con differenti tipi di disabilità in modo da identificare la varietà degli
ostacoli architettonici che possono incontrare. È poi seguita un’attività di osservazione
partecipante in un certo numero di edifici e spazi pubblici in diverse città a cui hanno preso parte
i valutatori e alcuni rappresentanti delle associazioni dei disabili: questa attività di osservazione
sul campo ha permesso di descrivere in modo molto dettagliato ed efficace i disagi creati dalle
diverse barriere (ARTHUR et al. 2012).
Gli indicatori di performance, anche quando arricchiti con ricerche di carattere qualitativo,
non sono di per sé in grado di esprimere una valutazione sull’operato dell’organizzazione a cui si
riferiscono. Per capire se i valori degli indicatori sono buoni o cattivi è necessario confrontarli
con un adeguato termine di paragone. Un primo possibile termine di paragone è costituito dai
valori registrati dagli stessi indicatori in altre organizzazioni simili che erogano beni e servizi
analoghi. È l’approccio che è stato scelto nel caso della valutazione della performance dei servizi
sociali dei Comuni italiani che abbiamo citato. La comparazione ha fatto emergere che esistono
gruppi differenti di Comuni: alcuni di essi presentano performances superiori alla media su tutti
gli aspetti valutati; altri sono più bravi sul versante dell’efficienza ma presentano performances
inferiori sugli indicatori di outputs; altri ancora sono caratterizzati da una maggiore qualità dei
servizi ma da una minore efficienza (TEDESCHI et al. 2006).
Un secondo modo per costruire un termine di paragone consiste nel considerare l’andamento
degli indicatori dell’organizzazione valutata lungo un consistente periodo di tempo. Si tratta cioè di
ricorrere a un confronto intertemporale, in modo da verificare se sono stati fatti passi avanti o
indietro. Prendiamo ad esempio il caso delle borse di studio universitarie che le Regioni italiane
erogano agli studenti con limitate possibilità economiche. La figura 2 riporta l’andamento del
grado di copertura delle borse di studio tra il 2009 e il 2014, ossia la quota di studenti che ha
effettivamente ottenuto la borsa sul totale degli studenti che hanno fatto domanda presentando i
requisiti richiesti (ANVUR 2016). Come si può notare dal grafico, questi dati indicano che vi è una
grande differenza nella performance tra le Regioni meridionali e le altre Regioni e che nel corso
del quinquennio il grado di copertura non è migliorato in nessun ambito territoriale, ma ha
semmai seguito un andamento altalenante, con un brusco peggioramento all’inizio del periodo e
un parziale recupero nella fase successiva.
Figura 2
Grado di copertura delle borse di studio universitarie in Italia tra il 2009 e il 2014.
Fonte: ANVUR 2016.
Un terzo tipo di termine di paragone è costituito dagli standard, ossia da valori di riferimento
stabiliti a priori per ciascun indicatore di performance. I criteri con cui stabilire i valori degli
standard sono diversi (AZZONE − DENTE 1999). Si può ricorrere alla logica dell’obiettivo minimo,
ossia stabilire una soglia utile solo a individuare le prestazioni particolarmente anomale o
scadenti: nel caso del grado di copertura delle borse di studio, potrebbe ad esempio essere il 60%.
Si può, all’opposto, individuare una soglia sfidante, che costituisca un obiettivo da raggiungere: in
questo caso, la soglia potrebbe essere il 100%. Naturalmente si possono individuare anche soglie
intermedie e combinare diversi tipi di standard: ad esempio fissare come soglia minima l’80% e
assegnare a tutte le Regioni l’obiettivo di incrementare del 2% all’anno il loro grado di copertura
fino al raggiungimento del 100%. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, fissare gli
obiettivi da raggiungere e lasciare autonomia agli attuatori su quali mezzi utilizzare per
raggiungere gli obiettivi è la strategia adottata dai programmi di scopo (Capitolo 8, § 6).
La valutazione della performance ha diversi inconvenienti. Gli indicatori non sono sempre
affidabili e i motivi possono essere molteplici. Alcune volte la raccolta dei dati è parziale,
incompleta o gravata da errori procedurali. Altre volte buone performances misurate dagli
indicatori nascondono pratiche manipolative da parte degli attori che operano all’interno di
un’organizzazione: se ad esempio venisse fissato come indicatore di performance degli ospedali il
tasso di sopravvivenza alle operazioni, gli ospedali avrebbero tutto l’interesse a non operare i
pazienti più gravi. Altre volte ancora, gli indicatori derivano da domande rivolte agli utenti che
sovrastimano le loro capacità cognitive: un paziente può certamente esprimere un giudizio
fondato sulla capacità di ascolto e di comunicazione di un medico, ma è decisamente più
discutibile che sia in grado di valutare adeguatamente la sua competenza professionale o
l’adeguatezza delle sue prescrizioni (HATRY 1999; MARTINI − SISTI 2002; PETERS 2015). Vi è poi il
rischio che le organizzazioni impegnate nella valutazione della performance raccolgano
sistematicamente una gran quantità di dati in modo da elaborare numerosi indicatori, ma
dedichino poi scarsa attenzione alla loro interpretazione e al loro utilizzo concreto. In questi casi,
la valutazione della performance si trasforma in una sorta di adempimento formale che ha
un’influenza molto limitata, se non nulla, sulla qualità del lavoro svolto dall’organizzazione e che
semmai rischia di appesantirne inutilmente le procedure (WHOLEY 1986; BOGAN 1994; KEEHLEY et
al. 1997). Infine, va tenuto presente ciò che la valutazione della performance non può fare: non è
in grado di stabilire se e in che misura la politica valutata è stata in grado di migliorare la
situazione del problema pubblico a cui si riferisce. Spesso le amministrazioni utilizzano, oltre a
indicatori che riguardano gli inputs e gli outputs come negli esempi che abbiamo visto, anche
indicatori che riguardano gli outcomes. Ad esempio negli Stati Uniti le agenzie che erogano
servizi di orientamento e formazione a persone in cerca di occupazione sono valutate sulla base
di due indicatori di outcome: la percentuale di disoccupati che a distanza di tredici settimane
dalla conclusione dell’intervento dell’agenzia hanno ottenuto un lavoro e il livello della
retribuzione che ottengono. A ogni agenzia, tenendo conto del contesto in cui opera, è assegnato
uno standard minimo per ciascuno dei due indicatori (DICKINSON 1988). Questa modalità di
valutazione si basa sulla seguente assunzione: i servizi delle agenzie per il lavoro sono in grado di
favorire la ricerca dell’occupazione e il raggiungimento di un certo livello di reddito e nel
perseguire questi risultati conta la concreta capacità di svolgere correttamente il proprio lavoro
da parte delle agenzie. Gli indicatori, tuttavia, non sono di per sé in grado di dimostrare questa
assunzione: per dimostrarla o confutarla è necessario ricorrere a un altro tipo di valutazione, che
trattiamo nel prossimo paragrafo.
Supponiamo che il 50% dei disoccupati che ha preso parte a un programma di formazione
trovi occupazione nei successivi tre mesi, che in seguito all’erogazione di incentivi alle imprese
per la sostituzione dei macchinari obsoleti si verifichi una riduzione del 20% delle particelle
inquinanti nell’aria e che, in seguito alla riduzione del limite di velocità e all’installazione degli
impianti fissi di controllo, il numero di incidenti mortali si riduca del 10%. Questi tre valori
(+50% di occupati, -20% di inquinanti nell’aria, -10% di vittime sulla strada) sono indicatori di
outcome che dimostrano che i problemi pubblici si sono attenuati, ma che non ci permettono di
capire a cosa dobbiamo imputare questi miglioramenti. Non ci dicono cioè se questi
cambiamenti sono merito delle politiche o derivano dall’evoluzione o dinamica spontanea dei
problemi pubblici.
I problemi pubblici come la disoccupazione, l’inquinamento e la mortalità sulla strada
possono modificarsi non solo per effetto delle politiche, ma anche secondo una dinamica
spontanea causata da variabili intervenienti, ossia da tutti quei fattori in grado di influenzare
l’evoluzione dei problemi pubblici in modo indipendente dalle politiche. Nei nostri tre esempi, i
miglioramenti potrebbero derivare in parte o esclusivamente da fattori di questo tipo. I
disoccupati potrebbero aver trovato occupazione perché sono mutate le condizioni generali
dell’economia e si è verificato un aumento della domanda di lavoro in modo del tutto
indipendente dal corso di formazione. La riduzione delle particelle inquinanti potrebbe derivare
dal cambiamento delle condizioni atmosferiche (ad esempio un aumento delle giornate di
pioggia e vento che abbattono a terra e disperdono le polveri) o dal miglioramento di altre fonti
di inquinamento (ad esempio, l’ammodernamento degli impianti di riscaldamento delle
abitazioni private) e non per il rinnovamento degli impianti delle imprese. La riduzione dei morti
sulla strada potrebbe derivare dalla riduzione dei veicoli circolanti a causa della crisi economica o
da un consistente aumento del prezzo del carburante e non per la diminuzione dei limiti di
velocità. Per capire se e in che misura una politica sia stata effettivamente in grado di risolvere un
problema pubblico, al netto del contributo di altri fattori, è necessario condurre un particolare
tipo di valutazione che è generalmente denominato valutazione degli effetti o valutazione di
impatto (HOLLAND 1986).
La valutazione degli effetti consiste nel verificare se i risultati riscontrati sono da imputare
all’intervento pubblico e, pertanto, se sono diversi da quelli che si sarebbero comunque prodotti
se la politica non fosse stata messa in atto. Occorre quindi stimare la situazione controfattuale,
ossia ciò che sarebbe accaduto in assenza di quell’intervento. Si tratta ovviamente di una
situazione ipotetica, che concretamente non si è verificata, ma che è possibile approssimare
attraverso specifici metodi quantitativi che utilizzano dati osservabili. Questi metodi focalizzano
l’attenzione su specifiche variabili (denominate variabili-risultato), che misurano il fenomeno su
cui la politica pubblica intende intervenire (il tasso di occupazione, il tasso di inquinamento
dell’aria, il tasso di mortalità sulla strada nei nostri tre esempi), e stimano qual è l’effetto prodotto
su di essi dalla politica valutata, al netto delle influenze di tutte le altre variabili intervenienti
(come l’andamento generale dell’economia, i cambiamenti climatici o il prezzo del carburante).
Il metodo più affidabile per realizzare una valutazione degli effetti è il metodo sperimentale. Si
basa sulla comparazione tra due gruppi di persone che sono costruiti ad hoc prima dell’avvio
della politica pubblica, a cui soggetti aventi caratteristiche identiche sono assegnati casualmente:
il primo gruppo, denominato gruppo sperimentale, viene sottoposto all’intervento, mentre il
secondo, denominato gruppo di controllo, ne viene escluso. I due gruppi sono equivalenti perché
non esistono tra di essi differenze di partenza: ciò che succede al gruppo di controllo costituisce
una buona approssimazione della situazione controfattuale, ossia di ciò che succederebbe al
gruppo sperimentale se non venisse sottoposto all’intervento. Le differenze che si osservano tra i
due gruppi, a una certa distanza di tempo dall’attuazione della politica, costituiscono dunque
l’effetto netto, ossia l’effetto esclusivamente determinato dalla politica stessa.
Il metodo sperimentale è utilizzato abitualmente per verificare l’efficacia dei nuovi farmaci. I
pazienti che presentano la stessa patologia a uno stesso livello di gravità e accettano di prendere
parte alla sperimentazione vengono divisi casualmente in due gruppi: il gruppo sperimentale a
cui viene somministrato il farmaco e il gruppo di controllo a cui viene somministrato un placebo.
Solo se la sperimentazione ha esito positivo, ossia se i pazienti del gruppo sperimentale
presentano, dopo un determinato periodo di tempo, significativi miglioramenti della loro
condizione di salute rispetto ai pazienti del gruppo di controllo, il nuovo farmaco può essere
utilizzato su vasta scala. Questo stesso metodo può essere applicato anche alle politiche
pubbliche.
Vediamo un esempio che riguarda un programma di contrasto della dispersione scolastica
sperimentato in California negli anni Novanta del Novecento. Si trattava di un programma pilota
che intendeva testare l’efficacia di un servizio di tutoraggio a sostegno degli studenti
particolarmente in difficoltà. Prima dell’avvio del servizio, vennero individuati 94 studenti con
prestazioni scolastiche molto negative e dunque con rischio di dispersione molto elevato;
attraverso una estrazione casuale, 46 di essi vennero assegnati al gruppo sperimentale e
usufruirono del servizio di tutoraggio; gli altri 48 non ne usufruirono, costituendo il gruppo di
controllo utile a capire ciò che sarebbe successo agli studenti a elevato rischio di dispersione
senza il servizio di tutoraggio. La tabella 2 riporta gli esiti della sperimentazione. Il servizio di
tutoraggio dimostrò di essere in grado di generare alcuni cambiamenti: a distanza di due anni
dalla sua conclusione, la quota di studenti che risultavano frequentare regolarmente la scuola era
più elevata del 15% nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo; il 19% in più di
studenti nel gruppo sperimentale risultò inoltre non aver accumulato ritardi nel percorso
scolastico (LARSON − RUMBERGER 1995).
Tabella 2. Gli esiti della valutazione degli effetti del programma contro la dispersione scolastica in California.
Il metodo sperimentale può essere utilizzato solo su politiche pubbliche non universaliste,
ossia su quelle che non si rivolgono a tutti e le cui prestazioni non costituiscono un diritto. Esso
suscita, comunque, forti riserve di carattere etico anche quando è utilizzabile, perché esclude
casualmente alcuni cittadini dai potenziali benefici di un intervento pubblico. Per questi motivi,
spesso si ricorre a un’altra famiglia di metodi, denominati metodi non sperimentali (o quasi
sperimentali) (SHADISH et al. 2002). I metodi che fanno parte di questa categoria sono diversi e
presentano peculiari modalità con cui stimare gli effetti (MOHR 1995; SHADISH et al. 2002;
WINSHIP − MORGAN 2007; MARTINI − TRIVELLATO 2011). Vediamo tre metodi tra quelli più
utilizzati che ricorrono a diverse strategie di indagine.
Un primo metodo è quello che si avvicina maggiormente al metodo sperimentale. Si basa,
infatti, sulla comparazione tra due gruppi di soggetti che manifestano, all’origine, caratteri
identici, esattamente come avviene nel metodo sperimentale. La differenza consiste nel fatto che
il gruppo di controllo non viene costituito prima dell’inizio dell’intervento attraverso
un’assegnazione casuale, ma viene selezionato ex post, individuando alcuni soggetti che non sono
stati sottoposti all’intervento pur avendo le stesse caratteristiche dei soggetti «trattati».
Esattamente come nella valutazione sperimentale, gli effetti consistono nella differenza che si
registra tra il gruppo dei soggetti sottoposti all’intervento (il «gruppo dei trattati») e il gruppo di
controllo. A titolo di esempio, vediamo come questo metodo venne applicato in un’analisi
riguardante gli effetti di un servizio promosso dalla Provincia di Torino nel 2007-2008 per aiutare
i lavoratori precari nella ricerca di un lavoro stabile (BATTILORO − MO COSTABELLA 2011).
L’accesso al servizio era riservato ai lavoratori precari che presentavano la propria candidatura e
che possedevano determinati requisiti di reddito e di esperienza lavorativa. La valutazione degli
effetti venne condotta confrontando un gruppo di lavoratori precari che avevano usufruito del
servizio con altri lavoratori precari con le stesse caratteristiche, ma che non avevano presentato
domanda. La tabella 3 riporta gli esiti dello studio: il servizio risultò avere ricadute positive per
lavoratori precari con bassi livelli di istruzione, sia in termini di regolarità del lavoro sia in
termini di probabilità di trovare un lavoro stabile entro un anno, mentre gli effetti risultarono
trascurabili o persino debolmente negativi per lavoratori precari con un buon livello di
istruzione.
Tabella 3. Stima degli effetti dei servizi di supporto alla ricerca di un lavoro stabile nella provincia di Torino.
Un secondo metodo viene utilizzato quando non è possibile individuare ex post un gruppo di
controllo che abbia esattamente le stesse caratteristiche del gruppo dei soggetti «trattati», ma
bisogna accontentarsi di un gruppo di controllo che, pur essendo simile, presenta alcune
differenze iniziali. In questo caso, si assume che le differenze iniziali tra i gruppi rimangano
stabili nel tempo e l’effetto della politica corrisponda alla differenza tra le variazioni che la
variabile-risultato ha subito nei due gruppi in un periodo compreso tra un tempo t0 precedente
all’avvio dell’intervento e un tempo t1 successivo alla sua attuazione. Vediamo come questo
metodo venne utilizzato per stimare gli effetti sull’occupazione derivante dall’aumento del salario
minimo deciso nel 1989 dallo stato del New Jersey negli Stati Uniti. Si decise di prendere in
considerazione la variazione dell’occupazione in due gruppi di fast-food. Il gruppo dei «trattati»
fu costituito da 331 fast-food nell’area metropolitana del New Jersey in cui erano entrati in vigore
i nuovi livelli salariali; il gruppo di controllo fu costituito da 79 fast-food nell’area metropolitana
del confinante stato della Pennsylvania in cui il salario minimo era rimasto invariato. I due
gruppi erano molto simili: ne facevano parte in entrambi i casi ristoranti dello stesso tipo,
collocati in aree vicine e con condizioni socio-economiche analoghe. Come evidenzia la tabella 4,
tuttavia, c’erano differenze iniziali che interessavano la variabile-risultato: i fast-food del New
Jersey avevano mediamente 20,44 dipendenti, mentre i fast-food della Pennsylvania erano un po’
più grandi, avendo mediamente 23,33 dipendenti. Per stimare l’effetto netto bisogna considerare
le variazioni che i valori iniziali della variabile-risultato subirono in entrambi gli Stati. Al tempo
t1, collocato successivamente all’aumento del salario minimo nel New Jersey, il numero medio di
dipendenti dei fast-food del New Jersey risultò essere aumentato di 0,59 unità. Nello stesso
periodo nei fast-food della Pennsylvania, che rappresentano la situazione controfattuale ossia ciò
che sarebbe successo anche nei fast-food del New Jersey in assenza di quell’intervento, il numero
medio di dipendenti risultò invece essere diminuito di 2,16 unità. L’effetto dell’introduzione del
salario minimo è dato dalla differenza tra queste due variazioni, ossia da un incremento
dell’occupazione media per fast-food pari a 2,75 unità. Lo studio smentisce, dunque, la tesi
sostenuta dagli economisti neoclassici secondo cui un aumento del salario minimo porta a un
aumento generalizzato della disoccupazione, perché ha invece aumentato l’occupazione nei fast-
food, forse perché ha indotto più persone a cercare lavoro.
Un terzo metodo viene utilizzato quando non è possibile individuare un gruppo di controllo
ex post distinto dal gruppo dei trattati. In questo caso la situazione controfattuale può essere
stimata proiettando in avanti l’andamento della variabile-risultato che si era manifestato in
passato, quando la politica non era in vigore. A titolo di esempio, vediamo come questo metodo
venne applicato in un’analisi riguardante gli effetti di un altro provvedimento adottato dalla
Provincia di Torino nel 2007-2008 per favorire la stabilizzazione dei contratti di lavoro che
consisteva in incentivi economici a favore delle imprese che assumessero in modo stabile
lavoratori precari. La figura 3 illustra gli esiti dell’indagine. La linea tratteggiata evidenzia il
numero delle trasformazioni di contratti precari in contratti stabili effettivamente avvenute nella
Provincia nell’arco di cinque anni. I tre periodi T1, T2 e T3 segnalati nel grafico corrispondono ai
periodi in cui vennero erogati gli incentivi alle imprese. La linea continua indica invece il numero
di stabilizzazioni che si sarebbe realizzato, se si fosse mantenuto l’andamento avvenuto in passato
quando non esistevano gli incentivi. Essa rappresenta la realtà controfattuale e la sua sostanziale
corrispondenza con l’andamento reale (linea tratteggiata) anche nei tre periodi in cui le imprese
hanno usufruito degli incentivi ci fa capire che il loro effetto è stato pressoché nullo. Le imprese
che hanno ottenuto gli incentivi hanno cioè stabilizzato solo i lavoratori che avrebbero
stabilizzato anche in loro assenza.
Figura 3
Stima degli effetti degli incentivi per la stabilizzazione dei lavoratori precari. Due curve a confronto.
Fonte: BATTILORO − MO COSTABELLA 2011.
Tabella 4. Stima degli effetti dell’aumento del reddito minimo sull’occupazione nello stato del New Jersey.
Anche la valutazione degli effetti presenta diversi limiti, sia quando si applica il metodo
sperimentale sia quando si ricorre ai metodi non sperimentali.
Innanzitutto, la valutazione degli effetti può essere utilmente applicata solo per un
sottoinsieme di politiche che consistono in interventi chiaramente identificabili e circoscritti, tali
da poter essere assimilabili, ricorrendo alla metafora medica, a un unico trattamento. Quando
invece una politica consiste in un pacchetto di interventi eterogenei e al tempo stesso
interconnessi, la valutazione degli effetti non è indicata perché non sarebbe possibile capire a che
cosa esattamente attribuire l’effetto che viene stimato. Per capire meglio questo punto,
ricorriamo a un esempio proposto da Alberto Martini e Ugo Trivellato (2011): una politica di
aiuti alle imprese che consista in un mix di incentivi per l’assunzione di lavoratori e di incentivi
per l’investimento in nuove tecnologie. Supponiamo che gli effetti di questa politica
sull’occupazione risultino pari a zero. Questo risultato, in realtà, non sarebbe particolarmente
utile perché sarebbe molto difficile da interpretare. Si potrebbe ad esempio concludere che gli
aiuti alle imprese non servono ad aumentare l’occupazione; allo stesso tempo, si potrebbe
ipotizzare che l’effetto nullo sull’occupazione derivi dalla combinazione di due effetti opposti che
si annullano: un incremento dell’occupazione determinato dagli incentivi per l’assunzione,
compensato da una diminuzione dell’occupazione causata dagli incentivi per gli investimenti in
nuova tecnologia che, quanto meno sul breve periodo, diminuiscono il lavoro umano.
La selezione delle variabili-risultato su cui concentrare l’attenzione e la selezione dei gruppi
da confrontare comportano scelte che possono semplificare eccessivamente la realtà e non tenere
conto di differenze rilevanti tra i gruppi (ROSSI et al. 2003). Ray Pawson e Nick Tilley (1997), ad
esempio, criticarono la valutazione degli effetti di un programma canadese finalizzato al
reinserimento sociale dei detenuti (PORPORINO − ROBINSON 1995), sostenendo che fosse molto
difficile costruire due gruppi con soggetti che avessero le medesime motivazioni di adesione al
programma. Alcuni avrebbero potuto essere fortemente motivati a cambiare vita, altri avrebbero
potuto considerare il programma come un’opportunità per ottenere più velocemente la libertà
condizionata e queste differenze, difficilmente misurabili, avrebbero potuto distorcere gli esiti
della valutazione.
Talvolta vi è un alto tasso di abbandono tra i soggetti che usufruiscono di un intervento prima
che si concluda; inoltre, i soggetti che non usufruiscono della politica valutata e che sono
utilizzati come termine di paragone possono in realtà beneficiare di altri interventi simili che
sfuggono alla conoscenza dei valutatori.
Infine, come suggeriscono gli studi sull’attuazione delle politiche che abbiamo visto nel
precedente capitolo, le misure di policy possono essere attuate secondo modalità differenti in
territori diversi; queste differenze possono incidere sugli effetti delle politiche, ma sono
difficilmente misurabili. Ad esempio il servizio della Provincia di Torino per l’aiuto alla ricerca di
un lavoro stabile potrebbe non essere stato attuato secondo modalità perfettamente omogenee in
territori diversi della stessa Provincia. Gli operatori impiegati in questi servizi sono infatti dei
burocrati di strada che, come abbiamo visto, sono dotati di una consistente discrezionalità e
autonomia d’azione nei contesti in cui agiscono. In alcuni casi, ad esempio, gli operatori dei
servizi per il lavoro potrebbero aver stabilito intense relazioni di fiducia con le aziende del
territorio, rendendo in questo modo più semplice per i lavoratori entrare in contatto con le
aziende. In altri casi, potrebbero aver adottato uno stile più impersonale e distaccato, lasciando ai
lavoratori l’iniziativa di stabilire un rapporto con le aziende.
In ogni caso, nel corso del tempo, le tecniche utilizzate per la valutazione degli effetti si sono
progressivamente affinate e sofisticate, rendendo gli esiti sempre più affidabili (MARTINI −
TRIVELLATO 2011).
◼ 4. Capire i meccanismi
La valutazione degli effetti che abbiamo affrontato nel precedente paragrafo è in grado di
dimostrare se e in che misura una politica pubblica è stata efficace nell’affrontare un problema
sociale, ma non è in grado di spiegare come e perché. Per capirlo è necessario ricorrere a un terzo
tipo di valutazione, generalmente denominata valutazione di processo, che focalizza l’attenzione
sui processi di trasformazione degli inputs in outputs e degli outputs in outcomes, allo scopo di
capire quali sono i meccanismi che si attivano nei diversi contesti (PAWSON − TILLEY 1997; WEISS
1997; WERNER 2004).
Questo tipo di valutazione si articola generalmente in tre fasi: la prima è finalizzata a
individuare i meccanismi ipotizzati dalla teoria causa-effetto su cui si basa l’intervento da
sottoporre a verifica; la seconda fase consiste nella realizzazione dello studio empirico; la terza fase
mira a interpretare i dati raccolti sul campo.
Come abbiamo visto nel Capitolo 1, ciascuna politica pubblica si basa su di una teoria causa-
effetto che presuppone che una certa misura x al tempo t1 sia in grado di produrre un effetto y al
tempo t2 attraverso l’innescarsi di specifici meccanismi.
Il primo passo per avviare una valutazione di processo consiste, dunque, nell’identificare
quali sono gli effetti desiderati della politica e quali sono i meccanismi di cui si attende
l’attivazione per produrre questi effetti. Per raggiungere questo obiettivo è generalmente
necessario condurre una specifica attività di ricerca preliminare. Nella realtà, infatti, molto spesso
le teorie causa-effetto su cui si basano le politiche pubbliche sono implicite e non sono auto-
evidenti. Per farle emergere è dunque necessario ricorrere a varie modalità di indagine: la
consultazione dei documenti ufficiali che sono serviti per arrivare alla formulazione della politica,
il ricorso a precedenti studi sullo stesso tema, la realizzazione di interviste agli attori che hanno
partecipato alla progettazione e all’attuazione della politica, in modo da ricostruire la logica su cui
si basa l’intervento (PAWSON − TILLEY 1997; BIOLCATI RINALDI 2006; FRECHTLING 2008).
Prendiamo ad esempio il caso della valutazione riguardante una politica australiana
finalizzata a ridurre i furti in casa che consiste in una campagna con cui si invitano i cittadini a
marcare con il proprio nome gli oggetti che possiedono. Perché si dovrebbe supporre che questo
intervento possa ridurre i furti? Nella prima fase del suo lavoro, la valutatrice rispose a questa
domanda identificando quattro possibili meccanismi che si dovrebbero attivare in combinazione
tra loro: 1) la marcatura con il nome del proprietario rende più difficile per i ladri smerciare la
refurtiva, in quanto essa rende evidente che si tratta di merce rubata; 2) la marcatura rende più
facile dimostrare in tribunale il possesso delle merci rubate da parte dei ladri; 3) la marcatura
facilita la restituzione ai legittimi proprietari delle merci rubate recuperate dalla polizia; 4) le
maggiori difficoltà nell’utilizzo della merce rubata e i maggiori rischi di essere sanzionati in caso
di furto agiscono come un efficace deterrente per i potenziali ladri, riducendo dunque i furti
(LAYCOCK 1992).
Per individuare i meccanismi causali è necessario studiare in modo molto dettagliato quanto
avviene durante l’attuazione di una politica pubblica e successivamente a essa, in un periodo
delimitato ma non eccessivamente breve (di solito è necessario almeno qualche mese). La
caratteristica fondamentale di questo tipo di valutazione consiste infatti nel mettere sotto la lente
di ingrandimento l’intervento pubblico oggetto di valutazione, il contesto in cui esso va a inserirsi
e le reciproche influenze che si stabiliscono tra l’intervento e il contesto.
Questi studi ricostruiscono l’intervento per come effettivamente è stato attuato nel modo più
fedele e ricco di particolari possibile, ponendo grande attenzione alle modalità con cui è stato
adattato nei contesti locali e alle varianti che ha subito in corso d’opera grazie all’azione degli
attuatori o per opera di altri fattori esterni. Uno spazio rilevante è dedicato agli attori. È infatti
cruciale identificare tutti gli attori che svolgono un ruolo influente e capire quali sono gli obiettivi
che perseguono, le logiche di azione che li guidano, i comportamenti che adottano, le relazioni
che stabiliscono (SCHEIRER − GRIFFITH 1990; PAWSON − TILLEY 1997; VINO 2014).
Le tecniche più ampiamente utilizzate per studiare in profondità i casi sono alcune di quelle
che abbiamo già citato parlando della valutazione della performance: interviste, focus groups,
osservazione partecipante. Trattandosi di un approccio che mira ad andare molto in profondità,
richiede un impegno intenso e concentrato e quindi può essere applicato solo su un numero
limitato di casi.
Un primo modo per delimitare il campo di studio consiste nel realizzare la valutazione su
singole esperienze pilota prima che esse vengano attuate su larga scala. La valutazione della
politica di marcatura degli oggetti per prevenirne il furto venne ad esempio condotta su di una
esperienza pilota realizzata in due piccoli Comuni del South Galles in Australia. Queste due
comunità vennero esplicitamente scelte perché presentavano caratteristiche ideali per favorire
l’efficacia del programma e il suo studio a livello micro. Erano infatti due centri molto piccoli
collocati in un’ampia area desertica: la limitata dimensione dell’area urbana rendeva più semplice
coinvolgere i cittadini nel programma e verificarne la loro effettiva adesione; il relativo
isolamento delle due comunità rendeva inoltre meno agevole e immediato smerciare all’esterno i
beni rubati, posto che la marcatura degli oggetti avrebbe dovuto rendere arduo il suo smercio
all’interno delle comunità in virtù delle consistenti relazioni di prossimità che legavano i loro
componenti. La logica sottostante allo studio è dunque quella di analizzare una politica pubblica
in un contesto ottimale: se i meccanismi desiderati non si innescano in questo caso, non
potranno verosimilmente farlo altrove, dove le condizioni di contesto sono meno favorevoli
(LAYCOCK 1992).
Un secondo modo per circoscrivere l’attività di valutazione quando essa riguarda politiche
attuate su larga scala consiste nel sottoporre ad analisi solo un numero limitato di casi tra quelli
disponibili, attraverso una scelta ragionata. Un possibile criterio con cui scegliere i casi è la
somiglianza del contesto. Ad esempio la valutazione di un programma innovativo che coinvolge i
residenti nella gestione degli spazi comuni e nella manutenzione degli edifici di edilizia pubblica
nel Regno Unito venne condotta su due aree urbane entrambe in Inghilterra e con condizioni
socio-economiche analoghe (FOSTER − HOPE 1993). Si può tuttavia ricorrere anche ad altri criteri:
talvolta può essere utile prendere in considerazione zone molto diverse, proprio per capire
meglio come incide il contesto. Oppure la valutazione può riguardare un singolo caso
considerato particolarmente critico o, ancora, uno stesso caso ripetuto nel tempo, per studiare
l’evoluzione temporale dei meccanismi (YIN 2014).
I dati raccolti durante l’analisi empirica – descrizioni, opinioni e percezioni degli attori,
descrizioni e ipotesi interpretative derivanti da attività di osservazione diretta del valutatore, dati
quantitativi e ogni altra informazione raccolta sul campo o da documenti pertinenti – sono
utilizzati al fine di produrre una spiegazione plausibile e sufficientemente fondata su quali sono i
meccanismi che si sono attivati negli specifici contesti studiati.
La valutazione di processo ha cioè come esito l’identificazione di ciò che Pawson e Tilley
(1997) denominano combinazioni contesto-meccanismo-effetto: spiegano cioè quali meccanismi si
sono attivati, determinando quali effetti e in quali circostanze. Queste combinazioni di
meccanismi possono in primo luogo riguardare la trasformazione degli inputs negli outputs,
identificando e spiegando i problemi che hanno riguardato il processo di attuazione, così come
gli adattamenti che sono stati adottati e le soluzioni originali che sono state elaborate in corso
d’opera da parte degli attuatori. Possono in secondo luogo riguardare il passaggio dagli outputs
agli outcomes. In questo caso, l’obiettivo fondamentale è contribuire alla costruzione e al
perfezionamento delle teorie causa-effetto su cui si basano le politiche pubbliche, nella
consapevolezza che si tratta di teorie di «medio raggio»: teorie, cioè, che non si possono mai
considerare valide in assoluto o definitive, ma che semmai vengono sviluppate man mano che si
accumulano le evidenze empiriche, attraverso continue correzioni e integrazioni.
Per capire meglio il contributo conoscitivo che la valutazione di processo può apportare
vediamo, a titolo di esempio, i principali risultati prodotti dagli studi sulle due politiche che
abbiamo già citato nel corso del paragrafo.
Lo studio riguardante la marcatura degli oggetti per ridurre i furti, condotto in due piccole
comunità isolate tali da costituire un contesto ottimale, concluse che il programma era stato
parzialmente efficace, ma per un meccanismo diverso da quelli supposti inizialmente, che
derivava dal comportamento adottato nei media durante l’attuazione del programma. A
differenza di quanto atteso, infatti, i media non risultarono in grado di diffondere un’adeguata
conoscenza del programma. Pur avendo dedicato a esso un’ampia copertura, gran parte della loro
campagna di comunicazione aveva infatti enfatizzato l’adesione in massa dei cittadini a un
programma contro i furti, senza tuttavia spiegare in modo chiaro in cosa consistesse. I potenziali
ladri non potevano così essere stati pienamente informati in merito alla marcatura degli oggetti e,
dunque, non potevano aver ridotto la loro attività perché si erano resi conto che era diventato più
rischioso commettere un furto e più difficile smerciare la refurtiva. Essi avevano ridotto i furti per
un motivo diverso: erano stati influenzati da una generica percezione di maggior rischio a causa
della non meglio precisata mobilitazione dei cittadini divulgata dai media. Si trattava tuttavia solo
di un effetto temporaneo e ciclico, che cioè svaniva man mano che l’attenzione mediatica
sfumava e si ripresentava quando i media tornavano intensamente sul tema (LAYCOCK 1992).
Lo studio sul programma innovativo di gestione dell’edilizia pubblica nel Regno Unito
condusse a correggere la teoria causa-effetto su cui si basava, mostrando che il suo effettivo
funzionamento dipende dal contesto in cui è attuata. La teoria causa-effetto originale supponeva
che il diretto coinvolgimento dei residenti avrebbe indotto lo stabilirsi di maggiori relazioni di
cooperazione a livello locale, che, a loro volta, avrebbero comportato un maggiore controllo
sociale sul territorio e dunque la riduzione degli atti di vandalismo e di microcriminalità. Lo
studio suggerì che questo meccanismo si attivava solo in quelle aree in cui una consistente quota
di residenti era composta da famiglie con figli e aveva un carattere di stabilità nel tempo;
all’opposto, nelle aree in cui la popolazione era prevalentemente composta da un mix di anziani e
di giovani con forte turnover, il meccanismo non si attivava e gli effetti positivi non si
producevano (FOSTER − HOPE 1993).
I limiti della valutazione di processo sono molteplici. La scelta dei casi da sottoporre allo
studio è molto delicata e si corre sempre il rischio di concentrare l’attenzione su casi poco
significativi, con la possibilità di non riuscire a dare un contributo affidabile allo sviluppo delle
teorie causa-effetto. Se ad esempio lo studio del programma per la gestione dell’edilizia popolare
che abbiamo citato avesse riguardato solo un’area prevalentemente abitata da famiglie con figli,
avrebbe semplicemente confermato le ipotesi iniziali sui meccanismi della teoria causa-effetto,
senza aggiungere nulla di nuovo. All’opposto, se avesse riguardato solo aree abitate
prevalentemente da anziani e giovani di passaggio, avrebbe prodotto conclusioni che mettevano
in discussione la teoria, ma su basi deboli.
Vi sono poi altri due principali limiti di questo tipo di valutazione. Pur richiedendo un
notevole investimento di tempo per svolgere attività di ricerca a diretto contatto con la realtà
oggetto di valutazione, la complessità che caratterizza i contesti sociali può indurre a non andare
molto oltre a una dettagliata descrizione di specifici casi. All’opposto, vi è il rischio che le
interpretazioni dei dati sviluppate dal valutatore siano eccessivamente soggettive. Del resto, una
parte consistente dei dati empirici su cui queste interpretazioni si fondano derivano
generalmente dalle percezioni soggettive degli attori e il valutatore è chiamato a esercitare una
notevole capacità critica, in modo da non aderire a narrazioni poco fondate.
Si tratta di limiti che caratterizzano l’insieme della ricerca sociale di carattere qualitativo che,
se non possono essere scongiurati del tutto, possono tuttavia essere arginati da valutatori
preparati e consapevoli (CARDANO 2012).
Nella comunità scientifica e professionale dei valutatori è da anni in corso un dibattito sui
limiti e le potenzialità della valutazione degli effetti e della valutazione di processo che ha alla
radice diversi orientamenti epistemici e disciplinari.
Le differenze tra i due tipi di valutazione sono notevoli. La valutazione degli effetti è condotta
da valutatori esperti nelle tecniche statistiche e le politiche valutate sono necessariamente
semplificate in modo tale da poter applicare tali tecniche. La valutazione di processo è invece
condotta da valutatori esperti nelle indagini di carattere sociologico che si immergono nella
complessità, interagendo con gli attori e tenendo conto delle loro percezioni. Nel primo caso,
come abbiamo visto, l’obiettivo è produrre una stima quantitativa statisticamente significativa
degli effetti che la politica ha prodotto. Nel secondo caso, l’obiettivo consiste nel ricostruire il
processo di attuazione di una politica e indagare la verosimiglianza della teoria soggiacente la
politica, raccogliendo evidenze empiriche che siano in grado di testimoniare l’innescarsi dei
meccanismi che la teoria presuppone o l’attivarsi di altri meccanismi.
Tra i sostenitori dei due approcci non è così raro incontrare chi non riconosce alcuna validità
o utilità all’approccio alternativo. Allo stesso tempo, molti studiosi e professionisti della
valutazione ritengono che i due approcci siano complementari e possano essere utilmente
integrati, tenendo conto delle capacità euristiche e dei limiti conoscitivi di ciascuno (WOLLMAN
2007). Gli autori di questo manuale aderiscono a questa seconda prospettiva.
Gli albori della valutazione delle politiche pubbliche si rintracciano negli Stati Uniti negli
anni Sessanta del Novecento, in concomitanza con l’avvio dei programmi contro la povertà
dell’amministrazione Johnson. La crescente enfasi che a partire dagli anni Ottanta è stata posta
dai governi sulla necessità di contenere la spesa pubblica e migliorare l’efficienza della pubblica
amministrazione ha contribuito alla sua diffusione a livello internazionale. I paesi anglosassoni
sono certamente il contesto in cui la valutazione si è sviluppata più velocemente e si è radicata
maggiormente nella società, dando vita a un corposo tessuto di istituzioni pubbliche, centri di
ricerca privati e professionisti specializzati in questo compito. Ma anche in altre parti del mondo,
seppure con velocità e intensità diverse, la pratica della valutazione si è progressivamente fatta
strada. In Europa ha ad esempio giocato un ruolo importante la decisione della Commissione
europea di sottoporre a valutazione i programmi di intervento finanziati con i fondi strutturali in
tutti i paesi interessati.
Pur con le differenze che si legano alle peculiarità nazionali, si può dire che attualmente la
valutazione delle prestazioni è il tipo di valutazione più diffusa e capillare; la valutazione degli
effetti vanta una consistente tradizione negli Stati Uniti e ha avuto un significativo sviluppo anche
in contesti politici e amministrativi molto diversi dalla tradizione anglosassone, affermandosi
come una sorta di gold standard della valutazione a livello internazionale; la valutazione di
processo ha una storia più recente e uno sviluppo più limitato, ma a partire dagli anni Novanta
del Novecento ha avuto una crescente diffusione anche grazie all’acceso dibattito che l’ha
riguardata, in comparazione o contrapposizione con la valutazione degli effetti (WOLLMAN 2007).
Sulla base di questa esperienza ormai consistente, è possibile individuare quattro principali
funzioni che la valutazione delle politiche può svolgere.
La prima funzione consiste nel dar conto dell’uso delle risorse pubbliche agli attori che
prendono parte al policy making e alla stessa opinione pubblica (LIPPI 2007). Si tratta dell’uso
prevalente che le amministrazioni pubbliche fanno della valutazione, ricorrendo a estese batterie
di indicatori di performance. Questo uso degli indicatori aumenta la trasparenza dell’operato dei
soggetti attuatori delle politiche e, tuttavia, non sempre aiuta a capire ciò che funziona, ciò che non
funziona e perché e, pertanto, rischia di avere un impatto molto limitato sul policy making.
La seconda funzione che può essere svolta dalla valutazione consiste nell’alimentare il
dibattito sulle politiche che prende corpo nella sfera pubblica. Tutti i tipi di valutazione che
abbiamo visto in questo capitolo possono offrire un contributo in tal senso ed è l’uso prevalente
che gli attori impegnati nella formulazione delle politiche fanno della valutazione (LEVITON –
HUGHES 1981). Questo utilizzo può in una certa misura alzare il livello della discussione di merito
sulle politiche, ma il rischio è che l’apprendimento a cui dà vita sia selettivo e utilizzato in termini
prevalentemente strategici dagli attori per promuovere e difendere le opzioni di policy preferite e
attaccare quelle osteggiate, per motivi del tutto indipendenti dagli esiti della valutazione.
La terza funzione che la valutazione può svolgere consiste nel contribuire a migliorare
l’attuazione delle politiche. Senza mettere in discussione la formulazione di un intervento
pubblico, le acquisizioni che derivano dalla valutazione delle prestazioni e dalla valutazione di
processo possono costituire degli utili stimoli per introdurre cambiamenti incrementali finalizzati
ad esempio a innalzare la qualità dei servizi erogati su specifici aspetti, a migliorare l’efficienza, a
rafforzare il coordinamento tra i diversi attori, ecc. Questa funzione della valutazione si connette
strettamente alla prospettiva del network management o regia del processo di attuazione che
abbiamo affrontato nel corso del precedente capitolo (KICHERT et al. 1997; DENTE 2011).
La quarta funzione è quella più ambiziosa. La valutazione degli effetti e la valutazione di
processo producono conoscenze su quali politiche sono efficaci e perché. È quindi naturale
pensare che queste conoscenze siano utilizzate dai policy makers durante la fase di formulazione,
per correggere o sostituire le politiche meno efficaci (STAKE 1975). Come vedremo nel dettaglio
nel corso del prossimo capitolo, il cambiamento delle politiche pubbliche è in realtà un processo
molto complesso, può avere diversi gradi di intensità e può seguire percorsi alternativi. Le
acquisizioni che derivano dalla valutazione possono essere alla base di cambiamenti di carattere
incrementale delle politiche, ossia di cambiamenti che non ne mettono in discussione la struttura
di fondo. I cambiamenti drastici e radicali che talvolta interessano le politiche non sono
generalmente determinati dagli esiti della valutazione, per quanto l’accumulazione delle
conoscenze, a cui la valutazione contribuisce, può offrire un contributo anche in questa
direzione, mettendo in luce quelle anomalie e quelle disfunzioni che sono alla base dei
mutamenti di paradigma (Capitolo 10).
HO CAPITO? ESERCIZI DI AUTOVALUTAZIONE
2. Il parlamento approva una legge sul recupero dei tossicodipendenti, in cui prevede l’erogazione di finanziamenti per progetti di
recupero presentati da soggetti privati o no profit. Dopo qualche anno, il governo decide di procedere alla valutazione della
performance delle organizzazioni impegnate nell’attuazione. Costituisce un indicatore di efficienza (inputs/output):
a) la spesa media per ciascun tossicodipendente assistito
b) il numero di tossicodipendenti a cui sono stati rivolti i progetti di recupero
c) la quota di tossicodipendenti che, in seguito alla conclusione di un progetto di recupero, si dichiarano soddisfatti
dell’esperienza
d) il numero di tossicodipendenti che, dopo due anni, risultano disintossicati e non sono ricaduti nella droga
5. Nella valutazione degli effetti condotta con il metodo sperimentale, il gruppo di controllo è costituito:
a) da un gruppo di esperti che vigila sulla correttezza della procedura di valutazione
b) dall’insieme delle persone che sono oggetto dell’intervento
c) da un qualsiasi insieme di persone che non sono oggetto dell’intervento
d) da un insieme di persone selezionate in modo tale da presentare le stesse caratteristiche delle persone che sono oggetto
dell’intervento, ma che ne vengono escluse
6. La valutazione di processo:
a) si propone di studiare il processo di formulazione di una politica
b) ha come obiettivo spiegare quali sono i meccanismi che determinano gli effetti
c) può essere realizzata su vasta scala
d) ha come obiettivo stimare gli effetti delle politiche
7. La valutazione degli effetti di un servizio di supporto alla ricerca del lavoro per disoccupati dimostra che solo i disoccupati con
un basso titolo di studio hanno avuto effettivi benefici nella ricerca dell’occupazione, mentre invece nel caso dei disoccupati con
un elevato titolo di studio l’effetto è addirittura negativo. Quali possono essere i meccanismi da sottoporre a verifica attraverso
una valutazione di processo, che spiegano questi esiti?
8. In seguito alla valutazione condotta su una politica regionale di aiuto alle imprese, la Regione decide di modificare parzialmente
la formulazione della politica accogliendo le raccomandazioni formulate dai valutatori. In questo modo si realizza un processo di:
a) attuazione
b) controllo
c) impatto
d) cambiamento incrementale
9. Un ministro dichiara: «Sei mesi dopo la nostra riforma del mercato del lavoro il numero di occupati a tempo indeterminato è
aumentato dell’8%. Quindi la nostra riforma ha avuto successo». Quale errore logico ha compiuto il ministro?
10. Un esponente dell’opposizione nel consiglio comunale dichiara: «Dopo tre domeniche a piedi consecutive il miglioramento
delle polveri sottili è stato minimo. Quindi la misura voluta dal sindaco è stata inefficace». Quale errore logico ha compiuto
l’esponente dell’opposizione?
Capitolo 10
Come cambiano le politiche
1. Tipi di mutamento
2. La teoria del rimbalzo elastico
3. Il modello delle coalizioni di sostegno
4. La teoria delle traiettorie cumulative
5. I tre modelli a confronto
Le politiche pubbliche non sono solo, come abbiamo detto nel primo capitolo, processi a ciclo
continuo che più o meno caoticamente o linearmente intrecciano analisi dei problemi,
elaborazione di soluzioni, implementazione di corsi d’azione pubblica e correzione degli elementi
inefficaci. Richiamando un’efficace metafora di Giliberto Capano (2013), le politiche sono per
certi versi anche dei puzzle in continua evoluzione, i cui tasselli sono frequentemente
rimaneggiati. Detto in parole più semplici: le politiche mutano.
A ben vedere, il tema del cambiamento ha implicitamente accompagnato tutti i capitoli del
nostro libro. Possiamo infatti dire che gran parte delle teorie richiamate nelle pagine precedenti
ha a che fare anche con il cambiamento. Per esempio, gli studiosi che hanno analizzato il policy
network (Capitolo 2) della politica sanitaria americana negli ultimi decenni hanno anche cercato
di spiegare come è cambiata la rete di attori e come si sono ridefinite le relazioni fra essi in
occasione delle varie riforme, mancate o riuscite (JACOBS – SKOCPOL 2010; TOTH 2011). Diversi
scienziati sociali hanno applicato le teorie sul framing o la teoria di Kingdon sui flussi multipli
(Capitolo 4) per spiegare non solo come il problema del surriscaldamento globale è entrato
nell’agenda di varie istituzioni pubbliche, ma anche come e perché l’inquadramento e la
definizione di tale problema sono cambiati nel corso degli ultimi decenni (SMITH – LEISEROWITZ
2014; SEVERSON – COLEMAN 2015). Vari modelli decisionali (Capitolo 6) sono spesso usati per
spiegare non solo perché è stata formulata una certa misura o si è presa una determinata
decisione, ma anche perché un determinato strumento di policy è stato modificato. Gli approcci e
le tecniche di valutazione delle politiche pubbliche (Capitolo 9) sono spesso confrontati e discussi
in relazione alla loro capacità di stimolare l’apprendimento dei policy makers al fine di apportare
cambiamenti e correttivi che aumentino l’efficacia e il buon funzionamento delle politiche
pubbliche.
Se il tema del mutamento attraversa l’intero manuale, questo capitolo è specificamente
dedicato ai mutamenti che riguardano la sostanza di una politica pubblica, ossia gli strumenti
adottati, il design complessivo e persino i presupposti generali su cui si basa.
◼ 1. Tipi di mutamento
Caratteristica Oggetto
Mutamento di secondo Rilevante ma coerente con la teoria Gli strumenti i gruppi beneficiari e/o
grado dominante che sorregge la policy destinatari
Fra i tre tipi di mutamento che abbiamo descritto, il mutamento incrementale è quello più
comune e per questo viene anche chiamato «normale». Alla luce di quanto detto nei capitoli
precedenti, dovrebbe in effetti essere ormai chiaro che nel ciclo di policy le politiche incontrano
vari ostacoli e a ogni passaggio le spinte al mutamento incontrano «frizioni» opposte in grado di
rallentarle o persino bloccarle (BAUMGARTNER et al. 2009). In primo luogo, come abbiamo visto
nel Capitolo 4, l’attenzione dei policy makers è limitata e le proposte di mutamento di una
politica pubblica devono competere con quelle che riguardano numerosissimi altri interventi,
quindi la probabilità che un cambiamento entri nell’agenda è relativamente bassa. In secondo
luogo, come abbiamo visto nel Capitolo 6, sappiamo che i policy makers, alla pari di tutti gli altri
attori, sono dotati di razionalità limitata e agiscono guidati da un mix di interessi e routines che si
sono consolidati nel tempo e che sono difficili da scalfire, quindi adottano più o meno
consapevolmente varie strategie di resistenza. Come abbiamo spiegato nel Capitolo 5, la gamma
degli strumenti di policy realmente disponibili, in un dato momento e in un certo contesto, è
anche limitata da fattori più o meno contingenti che non sono controllabili dai policy makers
(condizioni socio-economiche, vincoli istituzionali e procedurali, vincoli di natura culturale e
dotazione di risorse). Inoltre, come è emerso in tutti i capitoli precedenti, i processi di policy-
making sono in genere processi collettivi, in cui gli attori hanno orientamenti divergenti e spesso
in aperto conflitto e in cui le interazioni producono tensioni, compromessi, stalli decisionali,
ridefinizioni, deviazioni di percorso (Capitolo 7).
Se le politiche normalmente mutano in modo incrementale o al più sperimentano mutamenti
di II grado, è talvolta possibile identificare cambiamenti di III grado o anche paradigmatici. Il
modello degli equilibri punteggiati (punctuated equilibria model) descrive la dinamica dei
mutamenti come lunghe fasi di relativa stasi «punteggiate» da mutamenti radicali (figura 1). Si
ispira a una teoria elaborata qualche decennio fa nell’ambito della biologia e poi mutuata e
adattata da numerose altre discipline, fra le quali le scienze dell’apprendimento, la sociologia,
l’economia e infine l’analisi delle politiche pubbliche (PRINDLE 2012). Negli anni Settanta del
Novecento, i paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould avevano sfidato l’allora dominante
teoria darwiniana formulando un modello alternativo, secondo cui l’evoluzione delle specie
procederebbe per lunghi periodi attraverso innovazioni che non modificano le specie, ma sarebbe
anche intervallata da periodi di grande mutamento (GOULD 2002). La prospettiva degli equilibri
punteggiati applicata all’analisi delle politiche pubbliche suggerisce che, nel breve periodo, è
possibile identificare solo piccoli aggiustamenti incrementali nelle politiche pubbliche (le
politiche restano cioè in «equilibrio»), ma nel lungo periodo possono emergere mutamenti
significativi (le «puntuazioni») (BAUMGARTNER – JONES 1993).
Negli ultimi decenni, tre principali questioni hanno animato il dibattito sui grandi
mutamenti, ossia sui mutamenti di III grado o paradigmatici: attraverso quale dinamica si
sviluppano cambiamenti di tale portata, quali soggetti sono i principali protagonisti del
mutamento e quale tipo di apprendimento si verifica in questi casi? In relazione a queste
domande, tre principali prospettive esplicative si sono affermate nel corso dei decenni: la teoria
del rimbalzo elastico, la teoria delle coalizioni di sostegno e la teoria delle traiettorie cumulative.
Ricostruiamo a grandi linee ciascuna di esse.
Figura 1
Il modello degli equilibri punteggiati.
Alcuni studiosi sostengono, più o meno esplicitamente, che la dinamica dei grandi
mutamenti nelle politiche pubbliche funzioni all’incirca allo stesso modo in cui avvengono i
terremoti (BAUMGARTNER et al. 2009), ossia attraverso quella che in sismologia viene denominata
teoria del rimbalzo elastico. Secondo questa teoria, le rocce sono sottoposte periodicamente a
forze compressive. Durante questi periodi, i cosiddetti sforzi tettonici spingono in direzioni
diverse e per un certo periodo le rocce si comportano da corpi elastici, deformandosi
impercettibilmente senza spostarsi (la cosiddetta stick-slip dynamics). Se però le tensioni e le
frizioni generate dalle continue pressioni divergenti si accumulano, a un certo punto superano
quello che viene chiamato carico di rottura, cioè la capacità di resistenza, una soglia oltre la quale
le rocce non riescono più a reagire alle frizioni con piccole deformazioni. A questo punto, le
rocce si spezzano o, se siamo in presenza di una faglia, si spostano in blocchi in modo
improvviso, liberando istantaneamente l’energia accumulata e producendo le vibrazioni che sono
tipiche dei terremoti. Il filosofo Thomas Kuhn (1962) e il politologo Peter Hall (1993), sebbene
non abbiano mai richiamato esplicitamente la teoria sismologica, furono i primi ad avanzare
spiegazioni dei mutamenti paradigmatici nella scienza (il primo) e nelle politiche pubbliche (il
secondo) basate su un modello simile a quello sviluppato dai sismologi (figura 2).
Figura 2
Il modello del rimbalzo elastico.
Secondo Kuhn, Hall e successivamente anche secondo altri studiosi (OLIVER – PEMBERTON
2004; KERN 2014), una dinamica simile a quella della deformazione delle rocce sottoposte a
frizioni è il primo passo di un processo di mutamento di III grado. La dinamica della
deformazione si verifica nei paradigmi scientifici (Kuhn) e nei paradigmi di policy (Hall) quando
varie anomalie, ossia fenomeni che non sono pienamente spiegabili con le categorie
interpretative e le teorie causa-effetto della visione consolidata, sfidano la politica pubblica (o la
teoria scientifica) sottoponendola a sollecitazioni inattese. Nel modello di Hall, i fenomeni
anomali sono periodi critici capaci di sfidare i fondamenti generali che giustificano una politica
pubblica: per esempio, la combinazione tra inflazione crescente e stagnazione economica
verificatasi nella prima metà degli anni Settanta del Novecento, che sfidò il paradigma keynesiano
allora dominante nella politica economica di molti paesi occidentali (HALL 1993); oppure, la
dispersione di nuvole di materiale radioattivo in numerosi paesi europei e d’oltre Oceano per
effetto della catastrofe verificatasi nel 1986 nella centrale nucleare di Černobyl’, in Ucraina (allora
facente parte dell’Unione Sovietica), che mise in crisi la concezione allora dominante della
tecnologica nucleare come fonte di energia sicura, pulita e a basso costo (NOHRSTEDT 2008).
Quando queste anomalie si verificano, la comunità epistemica di riferimento (Capitolo 4) e i suoi
interlocutori ufficiali (i rappresentanti e i funzionari delle istituzioni pubbliche) tentano di
spiegarle adattando e modellando la teoria o la visione consolidata, in modo da rendere
l’interpretazione della realtà coerente con essa (come un elastico che si allunga e si allarga per
tenere insieme oggetti che altrimenti sfuggirebbero).
L’accumulo delle prime anomalie induce i policy makers a sperimentare vari mutamenti di I
grado e, in alcuni casi, persino mutamenti di II grado. Se le modifiche negli strumenti di policy
riescono a convincere gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica (in parte veicolata dai mass
media) che il paradigma è ancora in grado di reggere e di generare soluzioni soddisfacenti,
sebbene al prezzo di significative forzature, allora il processo si arresta e la politica pubblica resta
in equilibrio, almeno temporaneamente.
Se però questi mutamenti di livello inferiore non sono seguiti da una generale percezione di
miglioramento o vengono interpretati come fallimenti, le anomalie si accumulano portando
ulteriori frizioni. A un certo punto (qui subentra la metafora del carico di rottura o potremmo
dire della soglia di resistenza), i fondamenti generali che sostengono la politica pubblica non sono
più in grado di spiegare le anomalie che si sono accumulate e comincia un rapido processo di
discredito della comunità epistemica cui è attribuita la paternità o la difesa della visione
dominante. Quando si instaura un paradigma, la comunità epistemica depositaria di questa
autorità non diviene solo oggetto di deferenza da parte di politici, funzionari e opinione pubblica,
ma alcuni suoi esponenti entrano a tutti gli effetti nelle istituzioni, occupando posizioni di potere
nei ministeri, nelle agenzie pubbliche specializzate, negli staff dei capi di governo. Nella fase di
accumulo delle anomalie e delle sperimentazioni fallimentari, tanto la visione consolidata quanto
i soggetti depositari della conoscenza a esso legata perdono credibilità e coerenza di fronte a
politici, funzionari e opinione pubblica. In questa fase, che avviene in modo relativamente
rapido, il dibattito critico nella sfera pubblica cresce al pari dell’emersione di soggetti portatori di
teorie e visioni alternative, che siano in grado di offrire non solo una spiegazione differente dei
fenomeni, ma anche ricette di policy che promettono di modificare radicalmente lo status quo.
In reazione alla forte perdita di legittimità e capacità euristica delle teorie che supportano la
politica pubblica in essere, i politici con ruoli di rappresentanza o ruoli esecutivi, soprattutto in
procinto di competizioni elettorali, spostano velocemente l’autorità epistemica in capo ai nuovi
soggetti emergenti (in genere riuniti in centri di ricerca, enti di consulenza, think tanks,
istituzioni internazionali, ecc.), sia idealmente, accordando loro credito e dichiarando
pubblicamente il proprio sostegno ai gruppi promotori delle nuove idee emergenti, sia
fisicamente, sostituendo esperti e tecnici legati alla vecchia visione con sostenitori della nuova
teoria, che in breve tempo diventano le nuove comunità epistemiche di riferimento (HALL 1993).
A guisa di esempio, riportiamo sinteticamente il caso analizzato da Hall (1993), che ricostruì
la sequenza di eventi e azioni politiche attraverso cui il governo britannico modificò la propria
politica economica a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, passando da
un insieme di misure incentrate sulla dottrina economica keynesiana a una politica economica
marcatamente neoclassica. In questo caso, si trattò di un vero e proprio mutamento di
paradigma, poiché la dottrina keynesiana era rimasta egemone e indiscussa tra la maggior parte
degli economisti e negli ambienti politici dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta. Durante
questi decenni, la politica economica del Regno Unito aveva subito vari mutamenti di I grado,
principalmente attraverso aggiustamenti di bilancio. A partire dalla crisi petrolifera del 1974,
però, una seria anomalia sfidò il paradigma keynesiano: la stagflazione, ossia una crescita del
tasso di inflazione unita alla diminuzione del tasso di crescita del PIL e all’aumento del tasso di
disoccupazione. Secondo l’interpretazione allora dominante del pensiero keynesiano, un elevato
tasso di inflazione avrebbe dovuto essere associato con un tasso di crescita del PIL in aumento e
un tasso di disoccupazione calante. L’adozione di alcune misure e correttivi non consentì di
sbloccare la situazione critica, e anzi diede origine a una serie di erronee previsioni sul tasso di
inflazione programmato e ad alcuni effetti perversi (fra gli altri, secondo la ricostruzione di Hall,
l’aumento delle imposte sulle attività economiche influì negativamente sulla produzione e la
svalutazione della sterlina per stimolare le importazioni diede origine a una improvvisa corsa agli
sportelli da parte dei risparmiatori). Una parte dei policy makers e dell’opinione pubblica
cominciò così a dubitare del paradigma keynesiano e delle politiche espansive che venivano
adottate in suo nome. In reazione a questo calo di credibilità, il governo intervenne con alcuni
mutamenti di II grado coerenti con il paradigma keynesiano, in particolare con politiche del
reddito volte ad aumentare il potere d’acquisto dei consumatori e quindi a incidere sulla
domanda di beni e servizi. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione continuò ad aumentare e
con esso le proteste dei sindacati e contemporaneamente le pressioni di vari esponenti e
rappresentanti del mondo degli affari, che chiedevano una maggiore deregolamentazione del
mercato e la riduzione della spesa pubblica. Fu allora, secondo Hall, che l’autorità della comunità
epistemica di scuola keynesiana si sgretolò in breve tempo. Fra il 1975 e il 1979 nacquero diversi
centri di ricerca e istituti di consulenza che si definivano apertamente guidati da economisti
neoclassici, in esplicita opposizione all’intervento dello Stato nell’economia e alla piena
occupazione come obiettivo primario delle politiche economiche. Nei quotidiani e nelle riviste
specializzate, crebbero gli editoriali critici verso le politiche keynesiane, mentre i commentatori
economici di scuola neoclassica aumentarono la loro presenza nelle trasmissioni televisive. Nel
1977, nonostante la maggior parte degli economisti inglesi fosse ancora convinta della validità del
paradigma keynesiano, l’allora primo ministro laburista Callaghan spostò rapidamente l’autorità
epistemica dal ministro del tesoro, che era di scuola keynesiana, ai dirigenti della Banca
d’Inghilterra, già orientati verso il paradigma neoclassico. Nello stesso anno, diversi funzionari ed
esperti del ministero del tesoro furono trasferiti. Nel 1979, le elezioni politiche furono vinte dal
partito conservatore, apertamente schierato a favore del paradigma neoclassico, e Margaret
Thatcher divenne prima ministra, restando in carica per ben tre mandati, fino al 1990.
Possiamo avanzare due considerazioni sulla teoria del rimbalzo elastico. La prima è che non è
un modello deterministico, perché ogni fase del processo di mutamento pone solo le basi per
quella successiva, non la determina automaticamente: se le anomalie ricondotte entro il
paradigma dominante si riducono, la fase di sperimentazione può non innescarsi o
interrompersi; se la fase di sperimentazione non genera fallimenti eclatanti o questi non vengono
percepiti come tali (qui i media giocano indubbiamente un ruolo importante), la fase di
delegittimazione della comunità epistemica di riferimento e lo slittamento dell’autorità verso un
altro gruppo possono non verificarsi. La seconda considerazione riguarda i ruoli attribuiti alle
comunità epistemiche e alle autorità politiche: mentre le prime sembrano svolgere un ruolo
chiave nella fase di stabilità e dominio del paradigma, la seconde paiono le vere protagoniste della
fase di mutamento, l’ago della bilancia nella scelta di quale paradigma e quale comunità
epistemica possa influire ufficialmente sulle scelte politiche.
◼ 3. Il modello delle coalizioni di sostegno
Figura 3
Le sequenze di mutamento secondo il modello delle coalizioni di sostegno.
Una sequenza comincia con la crescita di importanza di una coalizione minoritaria, che può
avvenire per varie ragioni: perché ha aumentato la propria dotazione di risorse di mobilitazione,
per esempio trovando alleati in una comunità epistemica minoritaria ma prestigiosa e rispettata,
oppure perché è riuscita ad aumentare la propria visibilità e risonanza pubblica sui mass media.
La fase di crescita induce in genere gli attori portatori di una visione minoritaria a tentare di
destabilizzare la coalizione dominante, sfruttando le sue tensioni e frizioni interne (WILSFORD
1994; DUDLEY −RICHARDSON 1996). In questa fase, tuttavia, la principale strategia consiste
nell’attendere che si verifichi una perturbazione esterna simile all’evento focalizzante teorizzato
da Kingdon (Capitolo 4): un mutamento significativo delle condizioni socio-economiche che
interessano la politica pubblica in questione, dell’opinione pubblica, degli assetti di potere
istituzionali, o infine di altre politiche pubbliche strettamente connesse a quella oggetto di
interesse. Se l’evento si verifica, gli esponenti della coalizione minoritaria in crescita cercano di
sfruttare la situazione impegnandosi nella costruzione di coalizioni di convenienza, coinvolgendo
e mobilitando altri attori politici e sociali attraverso negoziazioni su poste in gioco che offrono
reciproche convenienze. Anche in questa fase, la coalizione minoritaria mette in campo varie
tattiche di erosione delle risorse di consenso e di credibilità detenute dalla coalizione dominante,
in particolare nelle arene politiche e istituzionali. Se la costruzione di coalizioni di convenienza
aumenta in misura significativa la forza della coalizione minoritaria in ascesa, vari attori della
coalizione dominante – verosimilmente quelli con credenze meno intense o più moderate
(ROGERS 1988) – modificano le proprie credenze di policy e passano tra le fila della nuova
coalizione. In questo modo, la coalizione dominante progressivamente si sgretola e viene in breve
tempo sostituita dalla nuova coalizione. In questa fase, il dominio della nuova coalizione,
parzialmente integrata da esponenti della vecchia, dà così vita a un nuovo monopolio di policy e
la politica pubblica muta in un lasso di tempo relativamente breve.
Un grande mutamento può essere generato anche da una sequenza di eventi e azioni
parzialmente diversa. In alcuni casi, infatti, secondo questi studiosi, la fase di crescita di una
coalizione minoritaria, favorita da una perturbazione esterna, può innescare un processo di
escalation del conflitto. Questa fase del conflitto è caratterizzata da quello che è comunemente
etichettato come «dialogo fra sordi», ossia un dibattito in cui due visioni vengono contrapposte
radicalmente senza che nessuna coalizione presti attenzione agli argomenti e alle ragioni della
controparte (SABATIER 1988). Il dialogo fra sordi produce nelle arene istituzionali (parlamento e
governo) uno stallo decisionale accompagnato da fortissime tensioni, per cui nessuna parte è
disposta ad abbandonare il terreno di battaglia e a lasciare campo libero alla coalizione avversaria.
È a questo punto che in porzioni consistenti della coalizione dominante, ma anche in quella
minoritaria che la sfida, subentra la convinzione che «la continuazione di una situazione di stallo
sia inaccettabile» (SABATIER 1998, p. 119). Quando questa percezione si diffonde, le coalizioni
reagiscono spontaneamente avviando una fase di negoziazione che si sviluppa come un vero e
proprio processo di negoziazione integrativa (Capitolo 7), alla ricerca di una soluzione a somma
positiva che avvantaggi tutte le parti in conflitto. In questa fase, svolgono un ruolo di primo
piano i cosiddetti policy brokers, mediatori interessati – per varie ragioni di carriera personale e/o
di principio – a far raggiungere un accordo che soddisfi le parti in conflitto. L’assetto di potere
che produce un grande mutamento nella politica pubblica non è, dunque, la sostituzione della
vecchia coalizione con quella sfidante (come nella sequenza precedente), ma un assetto
caratterizzato dalla condivisione del potere fra le coalizioni: la nuova coalizione dominante è
espressione delle coalizioni che hanno avuto un ruolo determinante nell’escalation del conflitto e
nel raggiungimento dell’accordo finale.
Facciamo un esempio di mutamento di policy spiegato con il primo tipo di sequenza. Nella
seconda metà degli anni Settanta del Novecento, la politica energetica svedese subì un drastico
cambiamento, interrompendo gli investimenti nel settore nucleare e riorientando il proprio mix
energetico verso lo sfruttamento di fonti rinnovabili (NOHRSTEDT 2005). Due principali coalizioni
di sostegno erano presenti: la coalizione pro-nucleare, composta dal Partito Socialdemocratico, il
Partito Conservatore, il Partito Liberale e varie organizzazioni e imprese legate all’industria
nucleare, e la coalizione anti-nucleare, composta dal Partito di Centro, il Partito Comunista e
varie organizzazioni impegnate nel movimento di opposizione al nucleare. Nella prima metà
degli anni Settanta, la coalizione pro-nucleare era dominante e all’interno del piano energetico
nazionale era stata avviata la costruzione di quattro nuove centrali nucleari, oltre alle otto già
funzionanti. La coalizione minoritaria cominciò nella metà del decennio a usare strategie per
screditare la coalizione dominante e indebolire il paradigma dell’energia nucleare come fonte
sicura e sostenibile. Il 28 marzo del 1979, nel pieno dibattito fra le due coalizioni, un evento aprì
una finestra di opportunità che la coalizione di minoranza sfruttò per destabilizzare la coalizione
rivale: un reattore della centrale nucleare situata nell’isola di Three Miles, in Pennsylvania (USA),
collassò provocando fuoriuscite di gas radioattivo nell’ambiente. L’incidente provocò un
repentino spostamento dell’opinione pubblica contro il nucleare e un forte calo di sostegno al
Partito Socialdemocratico. Il parlamento decise allora di indire un referendum consultivo su tre
ipotesi di programmi nazionali di investimento sul nucleare, che si tenne nel marzo del 1980.
L’esito fu in gran parte a favore dell’espansione degli investimenti nel settore nucleare,
smentendo i sondaggi dell’anno precedente, ma l’incidente nell’isola americana aveva già
innescato una sequenza reattiva che portò in breve tempo allo sgretolamento della coalizione
dominante e alla sua sostituzione con la coalizione minoritaria. L’immagine che i mass media
offrirono dell’incidente fu molto pessimistica e la coalizione minoritaria si impegnò nella
costruzione di coalizioni di convenienza con attori che fino ad allora non avevano preso parte
esplicitamente al dibattito. In particolare, varie organizzazioni che gravitavano nell’orbita del
Partito Socialdemocratico cominciarono a sostenere pubblicamente l’interruzione del
programma nucleare: gruppi del movimento femminista, l’organizzazione dei Giovani Socialisti,
l’organizzazione dei Democratici Cristiano-Sociali e alcune riviste socialiste. Il Partito
Socialdemocratico si schierò fermamente per la prosecuzione del programma di espansione
nucleare, ma dopo le elezioni dell’ottobre 1979 il Partito di Centro si alleò con il Partito
Conservatore e con quello Liberale sancendo politicamente la sostituzione della vecchia
coalizione con una nuova coalizione contraria al programma di espansione nucleare, costituita
dalla nuova alleanza fra i partiti di centro-destra, dal movimento antinucleare e da varie
organizzazioni legate agli ambienti socialdemocratici, che si erano mobilitate dopo l’incidente
americano (NOHRSTEDT 2005).
Alcuni studiosi hanno sottolineato che focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla natura
del cambiamento, incrementale o radicale, finisce per semplificare eccessivamente la realtà. In
effetti, dire che le politiche in genere subiscono mutamenti incrementali non esclude l’ipotesi che,
alla fine, sia proprio la somma di tali mutamenti a modificare radicalmente l’impianto originario
della politica pubblica, riuscendo in alcuni casi a svuotarne persino il paradigma di riferimento
(HOWLETT – CASHORE 2007). Diverse analisi empiriche hanno infatti dimostrato che anche la
direzione dei singoli mutamenti è importante e può alla lunga determinare mutamenti di grande
portata (COLEMAN – SKOGSTAD – ATKINSON 1996; MALPASS 2011). La direzione dei cambiamenti
incrementali impressi alla politica pubblica va intesa in due diverse accezioni: in termini assoluti
e in termini relativi. La traiettoria cumulativa assoluta consiste nell’accumulo di riforme
incrementali nella stessa direzione, a fronte di un problema pubblico relativamente stabile (figura
4). La traiettoria cumulativa relativa consiste invece nell’accumulo di riforme incrementali che
lasciano sostanzialmente invariata la politica pubblica, a fronte però di un mutamento radicale
del problema pubblico cui deve rispondere. In questo secondo caso, la politica pubblica non muta
cumulativamente in termini assoluti, ma in termini relativi rispetto ai mutamenti che subisce il
problema pubblico. Nella letteratura, questo secondo tipo di traiettoria cumulativa viene
chiamato policy drift, ossia una situazione in cui la politica pubblica va alla deriva (drift, deriva).
Facciamo due esempi di mutamento radicale provocato da una traiettoria cumulativa assoluta e
da un processo di policy drift.
Figura 4
La traiettoria cumulativa assoluta.
Consideriamo l’evoluzione dei sistemi pensionistici. Fino agli anni Ottanta del Novecento, i
sistemi pensionistici in Europa erano in gran parte sistemi «monopilastro», erano cioè fondati
quasi esclusivamente su schemi previdenziali pubblici obbligatori, molto costosi in termini di
spesa pubblica ma anche orientati a garantire a categorie molto ampie di popolazione un certo
livello di benessere economico al termine dell’attività lavorativa. A partire dagli anni Novanta del
Novecento, alcuni paesi hanno gradualmente riformato il sistema monopilastro attraverso
misure di tipo incrementale, sottrattive, riducendo lentamente la generosità e l’estensione delle
pensioni pubbliche, e regolative, con l’introduzione graduale di due pilastri previdenziali privati
non obbligatori (gli schemi previdenziali su base occupazionale e soprattutto gli schemi
previdenziali individuali, basati su fondi pensione offerti dagli operatori finanziari) (JESSOULA
2009). Attualmente, nei paesi che inizialmente prevedevano solo il sistema monopilastro e che
hanno introdotto queste riforme, il pilastro pubblico obbligatorio resta ancora dominante e la
funzione previdenziale dello Stato è tutt’oggi un fondamento generale solido e indiscutibile
(possiamo dire un paradigma), ma se per decenni la spesa pubblica per le pensioni venisse
sistematicamente erosa a favore di schemi privati su base individuale, questo produrrebbe alla
fine un vero e proprio mutamento paradigmatico.
Come ricordano Daniel Béland, Philip Rocco e Alex Waddan (2016), il sistema di welfare
creato in Gran Bretagna nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento prevedeva una
serie di misure di protezione sociale, fondate su un modello di famiglia incentrato sull’uomo
lavoratore e la donna casalinga (male bread winner family). Quando quel modello di famiglia
cominciò a cambiare, abbastanza rapidamente, con l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro,
il sistema di welfare britannico venne riformato solo attraverso piccoli aggiustamenti e
mantenuto, almeno fino alla fine degli anni Settanta, sostanzialmente stabile. Secondo gli autori,
la capacità della politica sociale britannica di sostenere il cittadino di fronte a rischi socio-
economici si ridusse progressivamente e mutò di fatto anche i suoi presupposti generali, non
perché il sistema di welfare fosse stato radicalmente modificato attraverso provvedimenti
sostanziali (lo sarà solo a partire dai governi Thatcher), ma proprio perché, restando
relativamente invariato, non fu capace di adattarsi al nuovo contesto, che avrebbe invece
richiesto mutamenti più o meno incrementali in direzione di strumenti di sostegno pubblico alle
funzioni di cura (a bambini, anziani, ecc.) fino ad allora svolte prevalentemente dalle donne.
Comparando i tre modelli appena descritti, possiamo dire che condividono due assunti di
fondo.
Il primo assunto è che i grandi mutamenti sono generati da sequenze, ossia catene di eventi in
cui ogni passo pone le condizioni affinché si verifichi quello successivo. Il secondo assunto è che
il ruolo degli attori è rilevante, ossia sono in gran parte le loro azioni e reazioni – a loro volta
indotte da motivazioni o strategie più o meno razionali – a spiegare le sequenze di eventi. In
quest’ottica, dinamiche sociali come modernizzazione, industrializzazione, globalizzazione,
mutamenti demografici, ecc., e fattori contingenti e imprevedibili, come eventi focalizzanti o
crisi, non sono le cause dirette degli eventi, bensì le condizioni che favoriscono o ostacolano
l’azione degli attori e l’innesco di specifici meccanismi. Per esempio, secondo numerose ricerche
sul trasferimento di politiche da un contesto politico a un altro (il policy transfer che abbiamo
visto nel Capitolo 6), la prossimità fisica o culturale con comunità politiche che hanno adottato o
modificato una politica pubblica in una certa direzione influisce sulle politiche dei paesi «vicini»,
che tendono a seguire le orme di chi li ha preceduti. Tuttavia, la vicinanza rappresenta un fattore
che aumenta la probabilità dell’emulazione, ma il trasferimento della politica pubblica dipende
concretamente dalle sequenze di azioni e reazioni che i policy makers innescano in diversi
contesti (SHIPAN – VOLDEN 2008; MARSH – SHARMAN 2009; SHIPAN – VOLDEN 2012).
Pur condividendo questi due assunti, le tre teorie offrono spiegazioni parzialmente diverse
della dinamica dei grandi mutamenti, in particolare in relazione ai protagonisti del cambiamento
e al tipo di apprendimento che suggeriscono.
Riguardo ai protagonisti, il modello del rimbalzo elastico tende a spiegare la fase critica di
indebolimento di una visione consolidata principalmente con l’incapacità dei suoi sostenitori
(potremmo dire della coalizione dominante) di rendere conto delle anomalie e di mettere in atto
dei correttivi credibili ed efficaci, mentre attribuisce il policy change prevalentemente a una scelta
da parte delle autorità politico-istituzionali di virare verso un’alleanza alternativa con una
comunità epistemica diversa, che sia in grado di offrire non solo una differente visione, ma anche
un pacchetto di misure volte a stravolgere lo status quo. Il modello delle coalizioni di sostegno
tende, invece, a spiegare la fase critica con la capacità di una coalizione alternativa a quella
dominante di «espandere il conflitto» (SCHATTSCHNEIDER 1960), mentre attribuisce il policy
change prevalentemente alla presa di coscienza da parte della coalizione dominante
dell’inevitabilità del mutamento, lasciando il campo alla coalizione avversaria o dando origine,
grazie all’azione di mediatori, a un accordo tra le coalizioni. Nel modello delle traiettorie
cumulative, poiché il mutamento emerge solo nel lungo periodo come frutto del sedimentarsi di
piccole riforme o di mancate riforme, i ruoli sono determinati di volta in volta dai processi
decisionali che si instaurano nell’arena di policy e nessuna categoria di attori risulta ricoprire un
ruolo sistematicamente più rilevante né nelle fasi di crisi né in quelle decisive di passaggio a una
politica pubblica nuova.
L’apprendimento nei processi di policy making è un fenomeno di difficile indagine empirica
ed è infatti spesso solo teorizzato o desunto indirettamente da altre dinamiche. Possiamo qui
richiamare due diverse tipologie di «apprendimento orientato alle politiche». La prima distingue
fra apprendimento endogeno o domestico (RADAELLI 2004), innescato da processi di retroazione
circa l’efficacia degli strumenti di policy in essere e la validità delle teorie che li giustificano, e
apprendimento esogeno, cioè indotto dal confronto fra la politica in essere e le politiche adottate
in altri contesti per affrontare il medesimo problema. In questo secondo caso, si usano spesso
espressioni come lesson drawing (ROSE 1993) o learning from abroad (DOLOWITZ – MARSH 2000).
La seconda tipologia distingue fra apprendimento basato sull’evidenza empirica o evidence-based,
generato dalla comprensione empiricamente fondata dei fattori di successo o fallimento di una
politica pubblica (SANDERSON 2002), e apprendimento che potremmo chiamare rivoluzionario,
cioè risultato di una battaglia delle idee e della conseguente presa di consapevolezza circa la loro
validità e credibilità (BÉLAND – WADDAN 2012; WHITE 2012). Quale tipo di apprendimento
suggeriscono i tre diversi modelli di policy change? Nel modello del rimbalzo elastico, durante
l’accumulo delle anomalie e la sperimentazione di cambiamenti di I e II grado, l’apprendimento è
ancora interno alla visione dominante ed è quindi più probabile che sia basato sulla raccolta e
interpretazione di evidenze empiriche circa la validità delle teorie consolidate e degli strumenti di
policy in essere nel contesto domestico. Se le sperimentazioni vengono percepite come fallimenti,
il modello pare suggerire l’innesco, in un secondo momento, di un tipo di apprendimento più
dirompente, che porta a disconoscere lo schema cognitivo consolidato e ad abbracciarne uno
alternativo radicalmente diverso (dunque una sorta di battaglia fra le idee dalla quale una esce
vincitrice). Nel modello delle coalizioni di sostegno, nonostante la competizione fra coalizioni
spinga gli attori a muoversi strategicamente su un terreno di lotta fra idee e visioni contrapposte,
l’apprendimento resta tendenzialmente selettivo e volto a confermare le proprie credenze di
policy, quindi verosimilmente limitato ad aspetti secondari della politica pubblica e
prevalentemente basato su evidenze empiriche. Il modello delle traiettorie cumulative suggerisce,
infine, processi di apprendimento prevalentemente orientati a correggere le incongruenze della
politica in essere attraverso piccoli aggiustamenti per prova ed errore, dunque anch’esso
attraverso indagini evidence-based.
HO CAPITO? ESERCIZI DI AUTOVALUTAZIONE
1. Il sindaco di una grande città decide di modificare il percorso dell’autobus 34 in modo da farlo transitare attraverso un
quartiere ancora non servito da mezzi pubblici. Tale misura può essere definita come:
a) un cambiamento di I grado
b) un cambiamento di II grado
c) un cambiamento di III grado
d) nessuno dei tre
2. Prova a indicare a quale categoria di cambiamento possono essere attribuite alcune innovazioni elencate qui sotto (nota: non
esiste sempre una risposta univoca; lo studente farà una scelta e cercherà di sostenerla con argomenti).
7. Quando la teoria geologica del rimbalzo elastico è usata per spiegare i cambiamenti di III grado delle politiche pubbliche, che
cosa prende il posto delle pressioni telluriche che si accumulano nel sottosuolo?
a) movimenti di protesta volti a destabilizzare il potere della coalizione dominante
b) giudizi negativi nell’opinione pubblica circa la possibilità di produrre cambiamenti significativi in una politica consolidata
c) fatti che appaiono in contrasto con le teorie causa-effetto che sostengono la politica consolidata
d) politici alla ricerca di nuove soluzioni
8. Qual è la principale anomalia che, nella ricostruzione di Peter Hall, indusse i politici britannici ad abbandonare il paradigma
keynesiano?
a) l’inflazione
b) la stagnazione
c) la stagflazione
d) la disoccupazione
10. Supponiamo che in un paese si passi da una situazione di totale tolleranza al consumo di tabacco a una di diffusa intolleranza
grazie a piccoli provvedimenti che in una trentina d’anni hanno modificato gradualmente il quadro: p.es. dal divieto di fumo nei
cinema, al divieto di fumo nei bar e nei ristoranti, alle campagne antifumo, fino all’inserimento di avvertimenti minacciosi e poi
di immagini preoccupanti sui pacchetti di sigarette. Il mutamento di paradigma che si è verificato può essere spiegato meglio:
a) dalla teoria del rimbalzo elastico
b) dalla teoria delle coalizioni di sostegno
c) dalla teoria delle traiettorie cumulative
d) da nessuna delle tre
11. Il movimento per l’acqua pubblica che in Italia ha promosso il referendum del 2011 può essere considerato come una
coalizione di sostegno. Indica a quale categoria possono essere attribuite alcune loro credenze indicate nella tabella:
Deep core beliefs Policy core beliefs Secondary policy
beliefs
Nel corso di questo libro abbiamo cercato di presentare i concetti e le teorie fondamentali che
sono stati elaborati dalla comunità scientifica nel corso dei decenni. In quest’ultimo capitolo
proveremo a passare dal «cosa» al «come», ossia ad analizzare come vengono prodotti quei
concetti e quelle teorie da parte degli studiosi, spostando lo sguardo, per così dire, dietro le
quinte. Il capitolo richiama alcuni contenuti e alcuni concetti del Capitolo 9, ma lo fa con un
obiettivo differente: quello di mostrare quali approcci e quali metodi di analisi vengono usati
dagli analisti per descrivere e spiegare le dinamiche delle politiche pubbliche che abbiamo
presentato nel corso dei capitoli.
Come tutte le indagini scientifiche, anche le analisi nel campo delle politiche pubbliche
partono da specifiche domande di ricerca, ossia da interrogativi cui gli scienziati intendono
rispondere raccogliendo evidenze empiriche. Per esempio: 1) Quali caratteristiche presenta il
policy network che si occupa delle politiche pensionistiche? 2) Quanto contribuiscono il livello di
ricchezza di un paese e la presenza di forti gruppi di interesse a spiegare l’introduzione di
politiche fortemente redistributive come la sanità pubblica finanziata dalla fiscalità generale? 3)
Attraverso quali processi e dinamiche le politiche pubbliche in certi momenti cambiano
radicalmente?
Possiamo distinguere queste domande di ricerca a seconda dell’obiettivo che sottendono. La
prima domanda ha come intento principale quello di descrivere le caratteristiche di una politica
pubblica. Le altre due domande hanno lo scopo, più ambizioso, di spiegare perché una politica ha
assunto determinate caratteristiche, pertanto mirano a individuare i fattori che le hanno generate.
Ma lo fanno in modo diverso: la seconda domanda sollecita a stimare quanto influiscono certe
condizioni ambientali (di tipo sociale, politico, culturale, ecc.) sulle dinamiche o gli esiti dei
processi di formulazione e attuazione delle politiche pubbliche; la terza domanda punta invece a
individuare i meccanismi causali che si attivano nel corso del processo stesso. Possiamo, cioè,
distinguere tra due tipi di possibili spiegazioni: la prima fa leva su condizioni esogene, ossia sulle
condizioni generate al di fuori del processo di policy e indipendentemente da esso (la congiuntura
economica, il risultato delle elezioni, le oscillazioni del mercato, la cultura locale prevalente, ecc.)
e che esercitano un’influenza indiretta; l’altra spiegazione si riferisce invece ai meccanismi
endogeni, ossia a quei fattori che agiscono, in modo più diretto, all’interno del processo (un
accordo tra attori in conflitto, un diverso modo di definire il problema nel policy network, la
formazione di una coalizione di sostegno, l’apprendimento da parte di alcuni attori, ecc.).
Queste tre diverse attività di ricerca (descrivere, spiegare facendo ricorso a condizioni
ambientali, spiegare facendo ricorso a meccanismi che incidono direttamente sui processi) sono
fra loro complementari, nel senso che dovrebbero essere integrate per comprendere appieno le
politiche pubbliche, ma i metodi utilizzati sono diversi e gli analisti finiscono per privilegiare
nelle loro ricerche una prospettiva rispetto alle altre. Terremo quindi le tre prospettive di analisi
separate e cercheremo di rendere conto non tanto delle singole tecniche, quanto della diversa
logica che caratterizza i tre approcci e i loro metodi, evidenziando infine i punti di debolezza e le
strategie che si possono adottare per rimediarvi, almeno in parte.
◼ 1. Descrivere le politiche
Maggiore è il numero di Comuni vicini che Proporzione di comuni del campione nello
hanno adottato uno dei due programmi, stesso Stato che hanno adottato i
maggiore è la probabilità che un Comune li
Le reti informali adotti programmi
Tabella 2. Un esempio di tavola della verità relativa alle condizioni associate all’adozione o non adozione di leggi che
riconoscono lo status delle coppie omosessuali
Fonte: nostra rielaborazione da Lee Badgett 2009.
Nel corso del manuale abbiamo citato varie ricerche empiriche che hanno «fatto scuola»: fra
le altre, lo studio di John Kingdon sull’ingresso dei problemi pubblici nelle agende istituzionali
(Capitolo 4), gli studi di Aaron Wildavsky e di Eugene Bardach sull’attuazione (Capitolo 8),
l’analisi di Peter Hall sull’avvento delle politiche monetariste nel Regno Unito (Capitolo 10).
Queste indagini non avevano come obiettivo quello di stimare l’importanza di certe condizioni di
contesto nel determinare, rispettivamente, l’ingresso di un problema nell’agenda istituzionale,
l’attuazione di una politica pubblica o un grande mutamento nel policy design, ma di identificare i
fattori e i meccanismi endogeni ai processi di policy making che spieghino come certi problemi
entrano nelle agende istituzionali e altri no, perché una politica pubblica va alla deriva o cambia
drasticamente. Questa prospettiva, pur non negando l’importanza delle condizioni esogene, è
radicalmente diversa da quella precedente, perché parte dal presupposto che i processi di policy
making o certe loro fasi o componenti si spieghino anche in virtù di ciò che si attiva nel corso
degli stessi processi (MAYNTZ 2004; PAWSON 2006; ELSTER 2007; HEDSTRÖM – YLIKOSKI 2010;
COLLIER 2011; BLATTER – HAVERLAND 2012). Questo tipo di indagini si concentra quindi sul ruolo
degli attori, sulle loro scelte, sul modo in cui affrontano i conflitti, sulle dinamiche dei policy
networks, ecc.
Questa prospettiva implica uno sforzo limitato di operazionalizzazione delle variabili, ma un
grande impiego di risorse per la raccolta e interpretazione delle informazioni sul fenomeno che si
sta studiando. Questo tipo di indagini richiede infatti un lungo lavoro di ricostruzione dei
processi e un paziente sforzo di interpretazione e sintesi che si fonda sull’argomentazione logica e
l’integrazione sapiente delle informazioni raccolte. Come sostengono Blatter e Haverland (2012,
p. 110), in questo caso il lavoro di indagine assomiglia a quello di un «detective o un avvocato»
che deve convincere una giuria della propria interpretazione. In particolare, lo studioso tenta di
ricostruire empiricamente gli elementi salienti della vicenda che consentono di stabilire un nesso
causale fra gli accadimenti (eventi e azioni) che si verificano nel corso del processo, attraverso la
disamina di documenti, l’osservazione partecipante e le interviste in profondità o i focus groups
con i cosiddetti «testimoni privilegiati», ossia coloro che hanno preso parte alla vicenda o che
hanno avuto occasione di osservarla da vicino. Questo lungo lavoro di raccolta e interpretazione
delle informazioni costringe generalmente il ricercatore a limitare l’indagine empirica a uno o
pochi casi di studio.
L’analisi si svolge attraverso tre principali fasi (HOWLETT – RAYNER 2006; BENNETT 2010). In
genere si parte con un intento esplorativo e si procede con un approccio incrementale, volto
soprattutto a perfezionare e approfondire intuizioni iniziali più che a testare precise ipotesi
causali. La prima tappa consiste quindi nel ricostruire, in uno o più casi di studio, l’andamento
della vicenda, ossia la sequenza di azioni ed eventi che da una situazione iniziale ha generato il
risultato che si vuole spiegare. In questa fase, l’obiettivo non è di rendere conto nel dettaglio di
ogni aspetto del processo, ma di identificare e descrivere accuratamente quelli che, secondo la
ricostruzione del ricercatore, paiono i passaggi chiave o i momenti critici. La seconda fase richiede
un lavoro di approfondimento sui meccanismi che consentono di spiegare la concatenazione di
tali passaggi e momenti critici. Qui l’analista va alla ricerca di indizi salienti e motivazioni degli
attori che siano in grado di dimostrare che gli anelli della catena non sono solo temporalmente
concatenati, ma legati almeno in parte da specifici meccanismi, dimostrando così l’effettiva
esistenza di legami causa-effetto all’interno del processo. L’ultima tappa, la più complicata,
consiste nella costruzione di una «spiegazione analitica» (GEORGE – BENNETT 2005), ossia un
ragionamento sui risultati della ricerca volto a far emergere nuove ipotesi teoriche o a confermare
o confutare una teoria consolidata. In quest’ultima fase, lo studioso situa il proprio contributo
all’interno di una teoria consolidata o del dibattito aperto sul tema, argomentando come i
risultati della sua analisi, seppur non generalizzabili perché ricavati su uno o pochi casi e non
sottoposti a test logici o statistici, contribuiscano ad aggiungere un tassello allo stato attuale della
conoscenza su un determinato fenomeno. Esempi di analisi di questo tipo che hanno prodotto
nuove ipotesi teoriche sono lo studio di Lowi sulle arene di policy (Capitolo 3), l’indagine di
Kingdon sulle dinamiche di ingresso dei problemi pubblici nelle agende istituzionali (Capitolo 4),
l’indagine di March e Olsen sui processi decisionali nelle organizzazioni (Capitolo 6), lo studio di
Hall sul mutamento paradigmatico della politica economica britannica (Capitolo 10). Esempi di
indagini che hanno contribuito a confutare o perfezionare teorie consolidate sono le ricerche
sull’agenda setting che hanno cercato di applicare il modello di Kingdon (Capitolo 4), lo studio di
Pressman e Wildavsky e quello di Bardach sull’attuazione (Capitolo 8), le ricerche sulle coalizioni
di sostegno condotte da vari allievi di Sabatier e Jenkins-Smith (Capitolo 10). Per comprendere
meglio la distinzione tra le tre fasi di indagine empirica e interpretazione delle informazioni,
vediamo un esempio concreto.
Una studiosa americana, Nina Tannenwald (1999; 2007), ha cercato di spiegare il non-uso
delle armi nucleari nei conflitti armati dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La studiosa
partiva dall’insoddisfazione nei confronti della consolidata teoria della deterrenza, secondo la
quale nessun governo nazionale ha interesse ad attaccare con armi nucleari perché ciò
produrrebbe una reazione analoga da parte del paese attaccato, provocando una terribile spirale.
Per scoprire se la teoria della deterrenza potesse essere confutata o indebolita o almeno integrata,
Tannenwald ha analizzato i processi decisionali e le dinamiche sociali che precedettero gli
interventi armati degli Stati Uniti nelle tre principali guerre successive al bombardamento di
Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945: la guerra che lacerò la penisola coreana fra il 1950 e
il 1953, durante la quale gli Stati Uniti, insieme ad altri paesi, intervennero a difesa della Corea
del Sud; la guerra tra Vietnam del Nord e del Sud, nella quale gli Stati Uniti, sebbene già attivi dal
1950, inviarono i primi reparti da combattimento nel 1965 e si ritirarono definitivamente
sconfitti nel 1975; la prima guerra del Golfo, scoppiata nel gennaio del 1991 dopo che l’Iraq aveva
invaso il Kuwait e terminata dopo poco più di un mese con il ritiro delle truppe irachene dal
Kuwait. Analizzando i discorsi degli attori di policy statunitensi sui mass media, ricostruendo le
decisioni ufficiali dei presidenti americani, visionando i rapporti ufficiali del personale militare e
dell’amministrazione federale, indagando fra le lettere e i diari di personalità coinvolte nei fatti e
conducendo interviste, la studiosa ha ricostruito le catene di eventi che avevano indotto gli Stati
Uniti ad attaccare in tutte le guerre evitando l’uso di armi nucleari.
Secondo la ricostruzione della studiosa, dopo i bombardamenti atomici contro il Giappone,
negli Stati Uniti e in molti altri paesi democratici l’opinione pubblica fu pervasa da un
sentimento di orrore verso le armi nucleari, alimentato anche dalle campagne di protesta e di
sensibilizzazione promosse dai movimenti pacifisti non solo sul potenziale distruttivo ma anche
sui danni causati dall’uso delle armi nucleari alle generazioni successive. Questo sentimento
profondamente negativo diede origine in breve tempo a una concezione ampiamente diffusa
dell’uso di armi nucleari come un atto profondamente ingiusto, ossia inaccettabile sotto il profilo
etico e morale. In altre parole, a prescindere dalla loro relativa dirompenza rispetto ad armi non
nucleari, l’uso di armi nucleari divenne un vero e proprio tabù, la cui trasgressione avrebbe
comportato prima di tutto una fortissima riprovazione sociale.
Ricostruendo i nessi causali fra i passaggi chiave dei processi decisionali che precedettero le
tre guerre, Tannenwald ha poi dimostrato che il tabù influì sulle scelte dei governi statunitensi
attraverso due diversi meccanismi. In un primo periodo, fra il 1945 e il 1962, la società civile
interna (i movimenti pacifisti) e la comunità internazionale (in particolare i corpi diplomatici
delle Nazioni Unite, l’Unione Sovietica e i paesi del Terzo mondo) esercitarono una forte
pressione sul sistema politico americano. Prima della guerra in Corea e durante il suo
svolgimento, il tabù riuscì, insieme ad altri avvenimenti contingenti, a rallentare il processo
decisionale e infine a evitare il ricorso ad armi nucleari. Tuttavia, il tabù influì soprattutto come
una forza restrittiva esterna, che i vertici militari e dell’amministrazione, fautori invece di una
normalizzazione dell’uso delle armi nucleari nei conflitti armati, cercarono ripetutamente di
screditare, indebolire e contrastare. Nelle parole della studiosa, in questa fase storica il tabù ebbe
un effetto principalmente regolativo sui policy makers, cioè influì sui loro comportamenti come
forza costrittiva che andava a collidere con le loro credenze di fondo e con i loro interessi.
Durante la guerra del Vietnam, invece, non solo il tabù dell’uso delle armi nucleari venne
istituzionalizzato nei trattati internazionali, ma progressivamente interiorizzato dai policy makers
statunitensi, in particolare dai vertici governativi. Alcuni passaggi chiave della politica americana
dell’epoca sono stati considerati da Tannenwald indizi decisivi a riprova di questo cambiamento,
fra i quali le discussioni della Commissione esecutiva del National Security Council per la
gestione della crisi dei missili di Cuba nell’ottobre del 1962, dalle quali emerse chiaramente
l’interiorizzazione del tabù da parte di diversi membri, e l’occultamento di alcune analisi costi-
benefici sull’uso di armi nucleari in Vietnam condotte su richiesta di alcuni vertici militari, che
furono accusati di condotta irresponsabile e immorale. In questa fase, dunque, il tabù ebbe un
effetto principalmente costitutivo sui policy makers, cioè influì direttamente sulla loro definizione
e categorizzazione delle armi in termini di legittimità e moralità, diventando una forza in certa
misura indotta dalla coscienza più che dal ragionamento razionale, che avrebbe invece richiesto
una comparazione con armi non nucleari utilizzate in quel periodo, alcune delle quali
effettivamente non meno terrificanti in termini di potenziale distruttivo. Alcuni episodi e
numerose dichiarazioni nei mesi precedenti e durante la prima guerra del Golfo dimostrarono
infine come il tabù sull’uso delle armi nucleari fosse stato ormai interiorizzato anche da una parte
dei corpi militari, la categoria più restia ad applicare principi etici all’uso delle armi, diventando
persino simbolo del livello di civilizzazione di un paese.
La spiegazione analitica offerta dalla studiosa non ha in verità falsificato la teoria della
deterrenza e dall’analisi di questi tre processi decisionali non è possibile inferire alcunché su altri
processi decisionali nel campo della politica estera americana o di altri paesi, ma ha
indubbiamente messo in luce la rilevanza teorica della componente etica come fattore
determinante di certe scelte e spiegato attraverso quali meccanismi un tabù può esplicarsi
influenzando il comportamento dei policy makers. Ha cioè contribuito a perfezionare, integrare,
rendere più complessa la teoria consolidata sul non-uso delle armi nucleari nei conflitti armati
con una nuova ipotesi esplicativa, aprendo un terreno di indagine per la verifica di questa ipotesi
complementare a quella della deterrenza.
In alcuni capitoli del manuale, abbiamo provato a guardare a teorie e a concetti con uno
sguardo pragmatico, ossia dalla prospettiva di coloro che materialmente agiscono nei processi di
policy making o che ambiscono a influenzarli. Proveremo anche qui ad adottare un punto di vista
pragmatico, quello di uno studente o di un giovane ricercatore che intenda cimentarsi con
un’indagine empirica nel campo delle politiche pubbliche. Abbiamo già detto che, per la scarsità
di risorse e per la distanza fra i metodi di analisi, si tende ad applicare rigorosamente un solo
approccio (la descrizione di un fenomeno, l’analisi delle condizioni esogene al policy making o dei
fattori e meccanismi endogeni), trascurando gli altri. Questa scelta di campo comporta pregi e
difetti che è bene tenere a mente per evitare errori in fase di interpretazione dei risultati.
Le analisi descrittive sono molto diffuse, sia negli studi di caso sia negli studi comparati. Ogni
fase di indagine e ogni approccio alla descrizione che abbiamo sinteticamente richiamato nelle
pagine precedenti presenta ovviamente specifici rischi, ma generalizzando possiamo dire che la
principale difficoltà delle analisi descrittive sta nel trovare il giusto punto di equilibrio fra due
errori opposti: l’errore di «sovradeterminazione» e l’errore di «sottodeterminazione» (LANZALACO
– PRONTERA 2012, p. 23). L’errore di sovradeterminazione deriva da un eccesso di dettaglio nella
descrizione del caso o del fenomeno oggetto di analisi ed è uno degli errori più comuni fra coloro
che si cimentano per la prima volta con un’analisi descrittiva. Si tende cioè a offrire una lista di
provvedimenti, leggi, regolamenti, documenti o interventi priva di una cornice interpretativa che
metta in evidenza i tratti essenziali della politica pubblica, le sue principali caratteristiche e le
implicazioni che esse comportano. L’errore di sottodeterminazione, in verità più raro, almeno tra
i principianti, consiste al contrario in un’eccessiva modellizzazione in fase di costruzione della
raffigurazione finale, che non consente di entrare nel merito dei risultati dell’indagine e di
comprendere le reali connessioni fra la raffigurazione e i dati empirici utilizzati. Entrambi gli
errori rendono l’oggetto di analisi difficile da comprendere, snaturando così l’analisi descrittiva
della sua principale funzione.
Come fare per evitare queste degenerazioni? La strategia più semplice e immediata è quella di
ricorrere a categorie interpretative già esistenti in letteratura (per esempio, descrivere la politica
sanitaria di alcuni paesi applicando la tipologia di Wilson o identificando gli strumenti di policy
prevalenti). Una strategia più complessa consiste nella costruzione di classificazioni o tipologie
(ossia classificazioni multidimensionali) nuove, che richiede però un attento lavoro di analisi per
garantire che le classificazioni siano omogenee (tutti i casi devono essere classificati rispetto alle
stesse proprietà), ortogonali (le dimensioni della classificazione non devono essere correlate fra
loro) ed esclusive (ogni caso classificato deve appartenere a una sola classe) (LANZALACO −
PRONTERA 2012).
Le analisi che stimano l’influenza delle condizioni ambientali hanno diversi pregi. Innanzi
tutto, producono spiegazioni parsimoniose, che offrono una visione snella e chiara dei fenomeni
attraverso quantificazioni numeriche o deduzioni logiche. Tuttavia, presentano anche diversi
inconvenienti. In primo luogo, dovendo raccogliere dati su un numero di unità d’analisi molto
elevato, il ricercatore è solitamente costretto a semplificare drasticamente la realtà in fase di
operazionalizzazione delle variabili. La principale conseguenza di queste semplificazioni è
l’utilizzo degli stessi indicatori per misurare condizioni completamente diverse e di indicatori
diversi per misurare le medesime condizioni (GILARDI 2016), con il risultato di fornire
spiegazioni poco credibili (SAYER 2000; FISCHER 2003). Per esempio, nel loro studio sulle politiche
regolative contro il fumo nelle città statunitensi, Charles Shipan e Craig Volden (2008) hanno
utilizzato la quota di governi locali limitrofi che avevano già adottato provvedimenti contro il
fumo, non come indicatore della presenza di relazioni sociali informali fra i governi locali di uno
stesso stato (l’interpretazione di Borges Sugiyama), ma come indicatore di processi di
apprendimento autonomo dei policy makers, basandosi sull’idea che essi «apprendono» il
successo di una politica pubblica se osservano che essa è stata adottata in molti altri contesti (con
i quali dunque non necessariamente sono attive relazioni formali o informali). Lee Badgett ha
misurato la tolleranza verso l’omosessualità facendo riferimento a opinioni espresse dagli
individui in alcuni sondaggi, ma sappiamo che, soprattutto su questioni di questo tipo, molte
persone tendono a fare dichiarazioni che non rispecchiano i propri reali convincimenti (in
questo caso molti intervistati avrebbero potuto rispondere in maniera politicamente corretta,
mascherando atteggiamenti in realtà poco tolleranti verso gay e lesbiche). Cosa sarebbe successo
alla matrice della verità se la studiosa avesse misurato la tolleranza verso l’omosessualità
attraverso quesiti come «saresti disposto ad affidare tuo/a figlio/a a una baby-sitter lesbica?» o
«manderesti tuo/a figlio/a in una scuola se sapessi che molti insegnanti sono gay o lesbiche?».
In secondo luogo, queste analisi sono necessariamente «chiuse», nel senso che variabili,
indicatori e ipotesi causali devono essere definiti con precisione prima della raccolta dei dati e
non possono essere formulati o modificati durante l’analisi. La fase iniziale di formulazione delle
ipotesi è quindi determinante e molto delicata, poiché, se si trascura un fattore rilevante,
l’indagine può produrre risultati poco attendibili.
Infine, questo tipo di indagini, soprattutto nel campo delle politiche pubbliche, presenta in
realtà problemi di campionamento che possono indebolire la capacità di generalizzare i risultati.
Nell’inferenza statistica i campioni, per essere considerati rappresentativi delle popolazioni da cui
sono estratti, dovrebbero essere molto numerosi: per popolazioni che vanno da qualche migliaio
di unità a diverse centinaia di migliaia sono necessari campioni che variano da circa 400 unità, se
si accetta un errore massimo di campionamento del 5%, a oltre 6000 unità, per un errore
massimo di campionamento dell’1% (CORBETTA et al. 2001; CASELLA – BERGER 2002). Nel campo
delle politiche pubbliche però spesso non vi sono le condizioni che consentono di soddisfare le
esigenze di significatività proprie dell’inferenza statistica: le dimensioni degli universi di
riferimento sono talvolta sconosciute e la reperibilità dei dati è complicata o di fatto impossibile
per alcuni tipi di variabili. Le città considerate da Borges Sugiyama non sono rappresentative
dell’universo dei comuni brasiliani. Nella QCA, l’applicazione dell’inferenza logica basata sugli
attributi di necessità e sufficienza richiederebbe di considerare tutte le variabili possibili rilevate
su tutto l’universo di riferimento, ma questo non è sempre possibile, per l’irreperibilità dei dati su
alcuni casi e per la difficoltà di identificare tutte le condizioni di contesto che possono influire sul
policy making. I paesi inclusi nella ricerca sul riconoscimento dei matrimoni gay non coincidono
né con l’universo dei paesi né con l’universo delle democrazie, e le condizioni considerate sono
solo alcune di quelle plausibili. La studiosa avrebbe per esempio potuto includere anche
condizioni come la presenza di forti organizzazioni religiose e il numero di partiti in parlamento.
Come fare per evitare l’eccesso di semplificazione, l’eccessiva rigidità del disegno della ricerca
e i problemi di campionamento e di selezione delle variabili? Sebbene la rigidità del disegno della
ricerca sia di fatto ineludibile in questo tipo di indagini, il modo migliore per attenuare il
problema è di dedicare tempo e cura nell’identificazione e operazionalizzazione delle variabili,
partendo da un’attenta disamina dei diversi indicatori utilizzati da altre indagini. La strategia più
sensata per evitare eccessi di semplificazione consiste nell’operazionalizzare le variabili attraverso
indicatori «solidi», ossia indicatori che costituiscono chiaramente la manifestazione empirica del
concetto o fenomeno che si vuole misurare, o che sono universalmente riconosciuti come tali
dalla letteratura di riferimento. Per riprendere uno dei due esempi, la percentuale di governi
locali limitrofi che hanno già introdotto un determinato programma non è un indicatore
inequivocabile della presenza di relazioni informali fra i comuni, variabile che andrebbe piuttosto
misurata attraverso interviste ai policy makers locali, ma è semplicemente un chiaro indicatore di
«prossimità fisica». Per quanto riguarda i problemi di campionamento, è bene non esagerare la
portata di questo limite. I risultati degli studi su campioni non rappresentativi, anche se non
consentono di inferire relazioni causa-effetto sull’universo dei casi o di stabilire in modo
definitivo tutte le condizioni necessarie e sufficienti, possono essere comunque utili per
formulare ipotesi che potranno successivamente essere sottoposte a ulteriori verifiche.
Le analisi dei fattori endogeni consentono di far luce sui nessi causali complessi che legano
condizioni di partenza, eventi e azioni umane individuali o collettive, più o meno intenzionali, ed
esiti. Spesso queste analisi non producono però vere e proprie spiegazioni «analitiche» dei
processi causali, ma solo spiegazioni «situazionali», valide cioè per specifici casi, in specifici
contesti e in determinati momenti storici, difficilmente utilizzabili per perfezionare o confutare
teorie esistenti. Per migliorare la capacità di astrazione, alcuni metodologi della ricerca hanno
proposto di strutturare la costruzione di spiegazioni analitiche applicando ai processi la
medesima logica della QCA, ricercando cioè passaggi chiave necessari e/o sufficienti a spiegare la
catena di eventi (BENNETT 2010; COLLIER 2011). Tuttavia, anche l’identificazione di azioni o eventi
necessari e/o sufficienti per il verificarsi di quelli temporalmente successivi è estremamente
difficile, e sono infatti rarissime le indagini di processo che riescono ad applicare tale protocollo
(neanche gli studi importanti che abbiamo citato nel corso del manuale presentano un tale livello
di analisi causale). Sayer (2000), adottando un approccio più realista, suggerisce di limitarsi a
tentare di distinguere i passaggi e i meccanismi che sono evidentemente più comuni, e quindi
potenzialmente ricorrenti anche in altri casi analoghi, da quelli che paiono invece meramente
contingenti. A questo scopo, Busetti e Dente (2017) propongono di cercare nella letteratura
meccanismi analoghi a quelli che spiegano il caso o i casi oggetto della propria analisi,
utilizzandoli per suffragare il carattere non meramente contingente della propria interpretazione.
Come limitare la deriva situazionale di questo tipo di analisi? In presenza di risorse di tempo
e personale straordinarie, sarebbe naturalmente auspicabile lavorare in profondità su un numero
di casi che consenta una copertura relativamente ampia del fenomeno oggetto di studio (per
esempio, con l’aiuto di altri ricercatori, Tannenwald avrebbe potuto selezionare alcuni processi
decisionali di tutti i paesi in possesso di armi atomiche). In assenza di risorse supplementari, la
strategia più consolidata consiste nel selezionare casi di studio che aumentano la rilevanza della
propria spiegazione analitica. Un’opzione è quella di concentrarsi su casi «unici» e quindi
rilevanti di per sé (per esempio il policy making dell’Unione europea, istituzione sovranazionale
unica al mondo) o in quanto prima manifestazione di un fenomeno potenzialmente in
espansione (per esempio l’introduzione di una politica radicalmente nuova nel panorama
internazionale). Un’altra opzione consiste nel lavorare su casi «esemplari» o su casi «devianti»,
cioè casi che rispecchiano perfettamente o si discostano nettamente dagli idealtipi presenti nella
letteratura teorica (YIN 2014). Nel Capitolo 8 abbiamo parlato del manager di processo o regista,
ossia di quella figura interna o esterna all’amministrazione che dovrebbe seguire passo a passo
l’attuazione di una politica pubblica, rafforzando la logica del programma. Un’indagine su un
caso esemplare potrebbe analizzare l’attuazione di una o più politiche pubbliche guidate e
accompagnate da un soggetto con le caratteristiche chiave del manager di processo, allo scopo di
testare la validità delle ipotesi teoriche sul suo operato e sulla sua efficacia. Le indagini sui casi
devianti sono per esempio le analisi recenti che hanno analizzato le caratteristiche e il policy
making dei modelli di welfare di alcuni paesi dell’Est Europa, che si presentano chiaramente
come modelli ibridi, non classificabili nelle tipologie classiche dei modelli di welfare elaborate
negli anni Novanta.
Naturalmente, nessuna di queste strategie è risolutiva ma ciascuna di essere può aiutare il
ricercatore almeno ad affrontare il proprio lavoro di ricerca con la consapevolezza dei limiti della
ricerca sociale, e a commentare lucidamente la portata delle proprie scoperte.
1. Prendi in considerazione una politica qualsiasi e prova a formulare tre domande di ricerca che danno luogo alle tre diverse
strategie di ricerca:
a) descrivere le politiche:
2. Nello studio sull’innovazione metropolitana a Milano e Torino, che abbiamo presentato nel Capitolo 2, § 9, la variabile
indipendente è costituita da:
a) il colore politico della giunta comunale
b) la stabilità del governo municipale
c) la presenza di attività facenti capo al terziario superiore
d) la complessità e la densità dei policy networks
4. Quali dei seguenti verbi non ha alcun rapporto con il significato del verbo inferire?
a) dedurre
b) desumere
c) confrontare
d) trarre
6. Il grafico che rappresenta il policy network della politica energetica svizzera che abbiamo presentato nel Capitolo 2, § 9 offre una
descrizione:
a) logico-scientifica
b) interpretativo-narrativa
7. In base ai dati presentati nella tabella 2, perché in un paese si arrivi all’approvazione di una legge che riconosce le unioni gay, la
«tolleranza verso l’omossessualità» appare come una condizione:
a) necessaria ma non sufficiente
b) sufficiente ma non necessaria
c) necessaria e sufficiente
d) né necessaria né sufficiente
8. Pressman e Wildavsky, nel loro studio sull’attuazione di una politica di sviluppo a Oackland (Capitolo 9), individuano nella
«complessità dell’azione congiunta» il fattore principale del fallimento dell’attuazione. Tale risultato è emerso da un’analisi basata
su:
a) l’inferenza statistica
b) la QCA
c) la ricostruzione del processo
d) la descrizione logico-scientifica
9. Dallo studio di Nina Tannenwald si può concludere che il mancato ricorso all’uso delle armi nucleari da parte degli Stati Uniti
dopo il 1945 dipende:
a) non dalla deterrenza, ma dall’affermarsi di un tabù
b) non solo dalla deterrenza, ma anche dall’affermarsi di un tabù
c) dall’affermarsi di un tabù, ma non dalla deterrenza
d) né dalla deterrenza, né dall’affermarsi di un tabù
10. Per rimediare al problema dell’eccessiva semplificazione nelle indagini che stimano l’influenza delle condizioni ambientali, è
utile:
a) aumentare il numero di unità di analisi
b) introdurre tecniche di inferenza logica
c) utilizzare software statistici affidabili e già utilizzati in altre indagini simili
d) andare alla ricerca di indicatori «solidi»
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Indice dei nomi
Alford, J., 58
Allegretti, G., 35
Altheide, D., 33
Arentsen, M.J., 58
Arielli, E., 120, 127
Arrow, K.J., 123
Arthur, A., 162
Atkinson, G., 100
Atkinson, M., 194
Attinà, F., 147
Azzone, G., 160, 163
Bache, I., 24
Bachrach, P., 90
Baldwin, R., 86
Baratz, M.S., 90
Bardach, E., 87, 93, 146, 147, 149, 152, 209, 212
Barrett, S.M., 153
Barry, B., 118
Battiloro, V., 167, 168, 170
Baumgartner, F.R., 62, 183-185
Béland, D., 195, 197
Belligni, S., 25
Bemelmans-Videc, M.-L., 77, 78, 82
Bendor, J., 110
Bennett, A., 211, 212, 217
Berger, R.L., 216
Bergman, E., 90
Berry, J.M., 30
Binderkrantz, A.S., 31
Biolcati Rinaldi, F., 172
Birkland, T.A., 62
Blatter, J., 211
Blumer, H., 56
Bobbio, L., 17, 24, 53, 101
Bobbio, N., 121
Bogan, C., 164
Bohman, J., 130
Borges Sugiyama, N., 205, 207, 215, 216
Bosk, C.L., 56, 66
Brion, D.J., 53
Brown, A.E., 80
Bruner, J., 202
Bucchi, M., 33
Busetti, S., 217
Cahore, B. 194
Cairney, P., 70
Calise, M., 27
Callaghan, J., 188
Campbell, J.L., 60
Capano, G., 26, 60, 180
Card, D., 169
Cardano, M., 175
Carson, L., 134
Casella, G., 216
Cerase, F.P., 150
Cobb, R.W., 62, 64, 66, 73n
Cohen, M.D., 107
Coleman, E.A., 180
Coleman, W.D., 194
Coletti, P., 104
Collier, D., 211, 217
Commoner, B., 91
Condorcet, J.A.N., marchese di, 122
Corbetta, P., 216
Crétenot, M., 63
Crowley, K., 68
Cruikshank, J.L., 127, 133
Czempiel, E.O., 43
D’Amico, R., 28
Daoud, K., 73n
Dente, B., 5, 19, 24, 26, 30, 31, 39-42, 154, 160, 163, 177, 217
Descartes, R., 132
Deutsch, M., 120
DeYoung, S.E., 62
Dickinson, K., 164
Diletti, M., 32
di Martino, A., 93
Dolowitz, D.P., 103, 197
Dowlen, O., 134
Dror, Y., 106
Dryzek, J.S., 106, 129
Dudley, G., 192
Dunlap, R.E., 59
Dunleavy, P., 29
Dunlop, A., 80
Dunn, W.N., 5, 16, 122
Dye, T., 2-4
Gailman, S., 29
Gains, F., 61
Gamper, C.D., 101
Garnaut, R., 69, 70
Gastil, J., 36, 130
Gaudin, J.-P., 4
George, A.L., 212
Gerrard, M.B., 53
Gilardi, F., 215
Gillard, J.E., 70
Giuliani, M., 72
Goffman, E., 60
Goodwin, T., 86
Gould, S.J., 184
Graziano, L., 30, 132
Griffith, J., 172
Grönlund, K., 134
Guarnieri, C., 30
Guéhenno, J.-M., 73n
Gunn, L., 152
Haas, P.M., 61
Habermas, J., 129
Hajer, M., 190, 203
Hall, P.A., 61, 181, 183, 185-188, 199, 211, 212
Hargrove, E.C., 152
Hatry, H., 160, 164
Hausman, D.M., 86
Haverland, M., 211
Hayes, M., 112
Head, B.W., 58, 71
Heclo, H., 98
Hedström, P., 211
Heidenreich, M., 88
Hilgartner, S., 56, 66
Hill, M., 141
Hjern, B., 147-149
Hogwood, B.W., 152
Holland, P., 165
Holzinger, K., 138
Hope, T., 173, 174
Hood, C., 75, 76, 87, 92, 93
Hooghe, L., 24
Howlett, M., 70, 77, 78, 88, 194, 211
Hudson, J., 208
Hughes, E.F.X., 176
Hulme, M., 71
Hulme, R., 71
Hupe, P., 141
Landemore, H., 90
Lanzalaco, L., 202, 204, 214, 215
Lanzara, G.F., 104
La Palombara, J., 132
Larson, K.A., 166
Lascoumes, P., 77, 93
La Spina, A., 81, 83
Lasswell, H.D., 16
Laws, D., 190
Laycock, G., 172-174
Lee Badgett, M.V., 208, 210, 215
Le Galès, P., 77, 93
Leiserowitz, A., 180
Levine, P., 36, 130
Leviton, L.C., 176
Lewanski, R., 130
Lindblom, C.E., 104-107, 116
Lippi, A., 176
Lipsky, M., 150-152
Lowi, T.J., 46-52, 54, 76, 212
Luhmann, N., 153
Mair, P., 27
Majone, G., 81, 83, 153
Malpass, P., 194
Mansbridge, J., 138
Mansillon, Y., 36
March, J.G., 66, 103, 107, 108, 110, 212
Margetts, H., 87
Mariconda, C., 127
Marks, G., 24
Marsh, D., 103, 196, 197
Martin, B., 134
Martini, A., 157, 164, 167, 169, 171
Matland, R.E., 153, 154
Mattina, L., 30
May, P.J., 63, 66
Mayntz, R., 211
Mazmanian, D.A., 141, 152
McCright, A.M., 59
McQueen, K., 188
Melucci, A., 60
Merlone, U., 125
Mo Costabella, L., 167, 168, 170
Mohr, L.B., 167
Mols, F., 86
Morgan, S., 167
Muller, P., 4
Takahashi, L., 53
Tannenwald, N., 212, 213, 217, 219
Tarrow, S., 119
Tedeschi, M.T., 162
Thaler, R., 85, 86
Thatcher, M., 188, 195
Thomas, H.F., 103, 104
Thompson, J.D., 112, 113, 118
Tilley, N., 160, 170-173
Tilly, C., 119
Tonin, S., 100
Toth, F., 180
Trivellato, M., 167, 169, 171
Turcanu, C., 101
Turing, A., 56
Tversky, A., 84, 86
Adozione, 13-14
Advocacy Coalitions, v. Coalizioni di sostegno
Agenda, 12, 42, 68, 90, 123, 180, 183, 203, 212
istituzionale, 64-66, 211
pubblica, 64-66
Alternative Dispute Resolution, 127, 133
Ambiguità, 107-111, 114
Analisi
costi-benefici, 80, 100
descrittiva, 16, 202-204
delle politiche pubbliche, 15
di impatto della regolazione, 79-80
interpretativo-narrativa, 203
multicriteri, 101
prescrittiva, 16
Apprendimento, 14, 71, 86, 101, 154, 176, 180, 184, 196-197, 215
Arene del potere, 46, 48, 51, 52
Aste sui diritti, 83-84
Attori, 5-6, 14, 21-44
e aggregati non intenzionali, 23-24
individuali e collettivi, 23
pubblici e privati, 24-25
terzi avvantaggiati e terzi danneggiati, 12
Attuazione, 13-14, 141-156
da parte dei burocrati, 28
da parte dei giudici, 29
Autorità, 76, 78, 79, 107,118
epistemica, 187-188
indipendenti, 28
politica, 131-132, 136-138
terza, 132-133, 136
Beneficiari, 3, 9, 10-12, 46, 49, 56, 57, 117, 142, 143, 152, 161, 181-183
Burocrati, 28-30, 149
di strada, 150-152, 171
logiche d’azione, 28-29
E-government, 87
Elitismo, 51
Equilibri punteggiati, 183-184
Esperti, 32-33, 35, 61, 67, 89, 102, 112, 175
Euristiche, 103
Eventi focalizzanti, 62, 67, 72, 192, 196
Feedback, v. Retroazione
Finestra di policy, 67-68, 70, 72
Flussi multipli (teoria dei), 66-70, 72, 110, 180
Focus group, 161-162, 172, 211,
Formulazione, 12-13, 96-116
ruolo di diversi attori, 21, 28, 32-35
Frames, 57-59, 70-72, 86-87
Free riding, 50, 52
Hard Law, 87
Negoziazione
distributiva, 124-125
integrativa, 126, 127, 191-92
Non decisioni, 3, 90
Nudge, 84-87
Razionalità
e intelligenza, 114
limitata, 102-104, 111-114
onnicomprensiva o sinottica, 99-102, 106, 112,114
Regista, 154-155, 218
Regolazione, 78-80, 93
ritorno alla, 83
Reti di attori, v. Policy networks
Retroazione, 13-14, 67, 157, 196
Rimbalzo elastico, 185-188
Valutazione, 14, 18
della performance, 160-164, 176
degli effetti, 164-171, 176
ex ante, 100
ex post, 157-177
Variabili
dipendenti, 108, 204-207
indipendenti, 204-207
intervenienti, 165
risultato, 165-170
Voto, 120-124, 138
Vouchers, 84