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CNEL Consiglio Nazionale dellEconomia e del Lavoro

Roma, 6. 05. 2010

WWELL Welfare, Work, Enterprise, Lifelong Learning; Dipartimento di Sociologia, Universit Cattolica del Sacro Cuore, Milano

SEMPER Seminario permanente sulle politiche sociali, formative e lempowerment del cittadino; Dipartimento DIeS, Universit La Sapienza, Roma

Percorsi locali di riforma del welfare e integrazione delle politiche sociali

Report di ricerca

Indice
1. INTRODUZIONE La riforma territoriale del welfare e lintegrazione delle politiche sociali in Italia: direttrici europee e specificit regionali di Andrea Ciarini e Rosangela Lodigiani 1.1. Le nuove parole del welfare: attivazione, rescaling, governance 1.2. Finalit e metodi della ricerca: i laboratori dellintegrazione 1.3. Il quadro di riferimento: la nuova assistenza sociale in Italia dopo le riforme degli anni Duemila Parte I Ricomporre il vaso infranto. Lesperienza milanese nello scenario lombardo 2. Il workfare lombardo, tra famiglia e sussidiariet di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva 2.1. Il quadro di riferimento 2.2. Larchitettura istituzionale e il sistema di governance del sistema di politiche sociali e socio-sanitarie 2.3. Le politiche per la famiglia, per i minori, per la conciliazione 2.4. Il sistema lombardo di istruzione, formazione, lavoro 2.5. Le politiche per il contrasto alla povert e per linclusione sociale dei soggetti svantaggiati 2.6. Alcuni spunti di riflessione: ricomporre il vaso infranto 3. Il modello Milano di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva 3.1. Premessa. I principi cardine del welfare milanese 3.2. Il processo di riorganizzazione dei servizi sociali: le principali linee guida 3.3. Il sistema della governance e i suoi nodi 3.4. Le aree di programmazione 3.4.1 Area Minori e Famiglia 3.4.3 Area Adulti in Difficolt 3.5 Il modello Milano 3.5.1. Gli elementi innovativi 3.5.2. Gli spazi per la ricerca-azione

Parte II Lesperienza aretina nello scenario toscano 4. Il Modello Toscana tra partecipazione e diritti di cittadinanza 4.1 La governance regionale del welfare. Il Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale. 4.2 Il ruolo e la partecipazione degli enti locali e dei soggetti del terzo settore nel processo di programmazione. 4.3 Un quadro generale del sistema dei servizi allinfanzia in Toscana 4.3.1 Il quadro della programmazione 4.3.2 La situazione attuale dellofferta e della copertura dei servizi 4.4 Assistenza socio-sanitaria e politiche per linfanzia. Due modelli alternativi? 4.5. Le politiche di conciliazione vita-lavoro 4.6 Il sistema regionale toscano per le politiche dellimpiego e le politiche attive del lavoro. 4.6.1 Le politiche attive del lavoro in favore delle donne nella regione Toscana 4.6.2 Limpatto della crisi sulla regolazione delle politiche. 5. Il sistema di governance delle politiche sociali e socio-sanitarie della Zona Aretina di Maria Concetta Ambra 5.1 La programmazione integrata e partecipata delle politiche socio-sanitarie. 5.1.1 La programmazione delle politiche sociali: il Piano Sociale di Zona 2002 5.1.2 I nuovi attori della programmazione partecipata e della gestione integrata delle politiche socio-sanitarie 5.1.3 La riforma del sistema di governance delle politiche socio-sanitarie: lintroduzione del Piano Integrato di Salute 2007 5.2 Verso un welfare comunitario 5.2.1 Le politiche di contrasto alla povert e per linclusione sociale dei soggetti deboli 5.2.2Le politiche di orientamento, formazione e lavoro 5.2.3 Le politiche per le famiglie, i minori e la conciliazione dei tempi di cura-vitalavoro 5.2.4 Il progetto Una persona di fiducia in famiglia: un esempio di integrazione tra le politiche 5. 3 Alcune riflessioni conclusive

Parte III Ripartire con un sistema di servizi alla persona Lesperienza di Lamezia Terme nello scenario calabrese 6. La Calabria. Resistenze al cambiamento e tentativi di innovazione del welfare locale di Caterina Cortese 6.1 Uno sguardo al passato 6.2. Il sistema di governance delle politiche di welfare 6.3. La programmazione sociale e il nuovo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali 6.3.1. Gli orientamenti di fondo del PSR e le Indicazioni operative 6.4. La programmazione in materia di lavoro e la bozza del Piano per lOccupazione 6.5. Osservazioni conclusive 7. Il sistema di governance nella programmazione sociale del Distretto lametino di Caterina Cortese Premessa 7.1. La programmazione delle politiche sociali (famiglia, minori, povert) 7.2. La progettazione nellofferta dei servizi socio-assistenziali 7.3. La programmazione delle politiche del lavoro e per le pari opportunit 7.4. Considerazioni conclusive

8. Conclusioni Le sfide della riforma territoriale del welfare e dellintegrazione tra le politiche di Rosangela Lodigiani e Andrea Ciarini 8.1 Linee di confronto tra Lombardia, Toscana e Calabria 8.2 Ragioni e pratiche della differenziazione regionale 8.3 Buone pratiche locali e innovazione istituzionale 8.4. I nodi da sciogliere, le strategie progettuali

1. Introduzione. La riforma territoriale del welfare e lintegrazione delle politiche sociali in Italia: direttrici europee e specificit regionali1

1. 1. Le nuove parole del welfare: attivazione, rescaling, governance I Paesi europei, Italia compresa, si sono trovati in questi anni ad affrontare importanti cicli di riforme del welfare, necessarie per affrontare sia una crisi di legittimazione culturale del welfare stesso come istituzione, sia vincoli di bilancio sempre pi pesanti e restrittivi, sia pi rilevante ancora i mutamenti della domanda sociale, lemergere di nuovi rischi e di nuovi bisogni. Nel quadro di tale disegno riformatore, accanto al sistema delle assicurazioni sociali (il cosiddetto welfare assicurativo-previdenziale) si assiste allo sviluppo di prestazioni sociali assistenziali, calibrate non solo sulla figura del lavoratore salariato (occupato stabilmente), ma pi in generale sul cittadino utente che usufruisce di servizi sul territorio secondo una logica di cittadinanza piuttosto che di collocazione professionale. Peraltro, se in precedenza la questione sociale consisteva nella mancanza di reddito e nellesclusione di una parte, ancorch minoritaria, di popolazione dal lavoro, in questi anni stata la stessa categoria di rischio sociale a modificarsi radicalmente (Rosanvallon, 1994; Castel, 1995). I suoi profili, infatti, non sono oggi direttamente riconducibili alla posizione lavorativa o alla sola mancanza di reddito, ma si caratterizzano per la compresenza di problematiche che attengono allinstabilit lavorativa, alle difficolt finanziarie, ai bisogni di cura, al sostegno alla famiglia, allintegrazione e allinclusione sociale dei soggetti vulnerabili (Ranci, 2001; Gori, 2001). Di qui, lesigenza di promuovere lintegrazione tra le diverse aree di policies, in particolare tra le politiche sociali, del lavoro, occupazionali, formative e fiscali, in un connubio tra misure attive e passive. Ma, lesigenza di integrare gli ambiti di intervento (gi nella fase di programmazione) pressante anche tra le stesse politiche sociali. La diffusione della vulnerabilit sociale e la trasformazione dei rischi e dei bisogni sociali, che si intrecciano allindividualizzazione dei corsi di vita, richiedono una destandardizzazione dei dispostivi di intervento e una capacit di azione sui diversi fronti problematici che determinano le situazioni di disagio. In questo contesto, dunque, al di l delle diversit ancora evidenti tra i welfare nazionali, il tratto comune pu essere rintracciato nellorientamento a rafforzare il comparto socio-assistenziale rispetto alla tradizionale centralit accordata ai programmi assicurativi-previdenziali (Esping-Andersen, 2002; Paci, 2004; Naldini, 2006; Colasanto, Lodigiani, 2008). Pur assorbendo ancora una parte ridotta della spesa sociale, se confrontata con gli schemi previdenziali e di sostegno al reddito, il sistema di servizi sociali siano essi di cura e assistenza per i minori, per gli anziani, di formazione e inclusione sociale stato destinatario di crescenti risorse economiche (Ascoli e Ranci, 2003). I dati statistici ci mostrano in questo senso un progressivo spostamento di risorse finanziarie verso tale sistema, il quale, dalla condizione di marginalit di epoca fordista (Anttonen A., Sipila J., 1996), assume oggi una nuova
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di Andrea Ciarini e Rosangela Lodigiani.

centralit nella riconfigurazione degli assetti di welfare, con importanti ricadute in ambito locale. Il mutamento descritto si riconnette ai pi generali obbiettivi che la Strategia Europea per lOccupazione ha posto alla base della sua implementazione, laddove la crescita della partecipazione complessiva al mercato del lavoro passa necessariamente dal rafforzamento di tutte quelle prestazioni, cash e soprattutto in kind, che possono favorire loccupabilit dei soggetti in cerca di occupazione o in via di ricollocazione professionale. Detto in altri termini, il tema dei servizi cruciale ai fini della rimozione di quelle barriere che ostacolano lingresso nel mercato del lavoro dei soggetti pi deboli, siano essi giovani drop-out, donne con figli a carico, disoccupati di lungo periodo, lavoratori over 45 espulsi dal mercato del lavoro, persone prive di qualifiche professionali, etc. Per tutto questo articolato insieme di soggetti, la partecipazione al lavoro viene a dipendere dalla possibilit non solo di godere di sostegni economici in grado di compensare la mancanza o la limitatezza del reddito, ma anche di fruire di efficienti servizi sociali (di cura, assistenza, conciliazione, formazione), capaci di rendere pi stabili le transizioni nel mercato del lavoro. In questa prospettiva, la riforma dei sistemi di welfare spesso letta in termini di attivazione, laddove lobiettivo quello di rovesciare la logica passivo-assicurativa tipica del modello industriale di welfare, per costruire un sistema di welfare attivo, orientato ad agire in modo preventivo rispetto ai bisogni, e promozionale rispetto alla capacit delle persone di assumere in autonomia la responsabilit del proprio benessere. Ne derivano politiche sociali attive finalizzate a cambiare le condizioni nelle quali gli individui sviluppano il loro potenziale, piuttosto che a intervenire nella situazione di bisogno in cui si trovano (Oecd, 2005). In questa accezione le riforme dovrebbero implicare una riduzione del peso delle politiche passive di sostegno del reddito e un incremento delle politiche di promozione del protagonismo del soggetto (le politiche attive). Altre versioni del concetto di attivazione sono in ogni modo presenti e non semplicemente tarate sullalternativa misure attive vs misure passive. Come mostra, peraltro, questa fase di grave recessione economia e di crisi occupazionale i due versanti non possono essere tenuti disgiunti, ma necessariamente vanno integrati. I dispostivi anti-crisi varati in questi mesi hanno chiaramente mostrato che affidarsi unilateralmente alle politiche attive o a quelle passive non riesce a rispondere ai bisogni di tutela dei soggetti, e del resto il mix tra i due versanti di dispositivi attivo e passivo ci che dovrebbe qualificare le politiche di attivazione (includendo il ricorso anche a politiche fiscali e il potenziamento della rete dei servizi). Ma ci sono altre implicazioni che la crisi in corso tende a disvelare. Se assumiamo la centralit dei servizi, siano questi relativi allinserimento lavorativo, alla cura e alla conciliazione, allassistenza sociale e che il loro sviluppo debba necessariamente fare leva su una integrazione non solo di politiche ma pi in generale di misure attive e passive, sono le funzioni del welfare che mutano di prospettiva. Sempre pi oggi al welfare e ai reticoli di attori che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni richiesto di essere veicoli di attivazione, ma non nel senso di scaricare sullindividuo i costi della sua protezione, bens in quello pi complesso, certamente, dellallargamento della possibilit di partecipazione e di padroneggiamento della propria situazione. La partecipazione la cifra distintiva di tale modello di welfare attivo. Essa si realizza a pi livelli e in pi direzioni, ovvero come: 1) partecipazione al mercato del lavoro; 2) partecipazione alla definizione del percorso di uscita dalla condizione di
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bisogno (per esempio nella costruzione attraverso incentivi, voucher, budget di spesa e altri dispositivi di una personale strategia di emancipazione; 3) partecipazione alla programmazione ed erogazione dei servizi. In questa accezione il welfare attivo implica che le persone possano prendere parte fattivamente in modo precipuo attraverso le rappresentanze della societ civile ai processi decisionali che danno corpo alle risposte ai bisogni, operando anche nella costruzione delle politiche sociali stesse, nel rapporto (diretto e indiretto) con lattore pubblico (Paci, 2005). Rispetto queste forme di partecipazione, quella relativa al lavoro certamente quella considerata elettiva, nella misura in cui si riconosce nelloccupazione il miglior dispositivo di protezione e benessere. In linea con questo approccio, le politiche del lavoro si declinano in termini di welfare to work, con la finalit di attivare i soggetti disoccupati o inattivi e reinserirli nel mercato del lavoro, liberandoli dalle maglie della dipendenza passiva. Secondo la versione workfarista di tali politiche, in rapida diffusione in Europa, laccesso alle provvidenze di welfare subordinata allattivazione lavorativa: chi si ritrova senza lavoro deve dimostrare di essere in cerca di occupazione e immediatamente disponibile ad accettare le proposte di formazione e riqualificazione professionale o di lavoro formulate dai servizi per limpiego, pena la perdita del beneficio o dellindennit di cui si titolari. Lazione del welfare state che muove lungo questa direttrice risulta dunque attivante su un duplice piano: nei confronti dei sistemi di protezione, in quanto ne riduce la parte di fruizione passiva, incrementando i benefit condizionati; nei confronti degli individui, agendo in chiave emancipatoria e preventiva, puntando a promuoverne le capacit di autoprotezione, lautonomia, la responsabilit, la cittadinanza attiva, la cui massima espressione appunto loccupazione (Barbier 2005; Ciarini, 2010). Non per caso, i pi importanti dispositivi di attivazione sono individuati nella formazione e nellapprendimento permanente, finalizzati allo sviluppo di occupabilit (employability) (Lodigiani 2008). Nellottica dellattivazione economica, la prospettiva del workfare sottende un processo di neoliberalizzazione delle politiche (Kazepov, 2009). Tuttavia linterpretazione di tale orientamento non univoco nei diversi paesi, e varia sia a seconda del ruolo attribuito al mercato e alla sua capacit regolativa e allocativa, sia in relazione al mix che si innesca con forme innovative di solidariet e coesione sociale che stanno alla base di un altro importante processo di innovazione del welfare: quello della sussidiarizzazione delle politiche. Esso implica il coinvolgimento della societ civile, oltre che nellattuazione e gestione di dispositivi e interventi, anche nella definizione delle stesse politiche, e richiama dinamiche di empowerment degli individui e delle comunit e procedure di democrazia partecipativa (ibidem). Lempowerment pu riguardare infatti tanto il singolo individuo quanto un gruppo di persone, una comunit, nella misura in cui stimola le capacit organizzative, favorisce il potenziamento delle autonomie e delle responsabilit locali. La precondizione dei processi di riforma del welfare sin qui indicati dunque certamente rintracciabile nel principio di sussidiariet, declinato sia in verticale che orizzontale. Esso si configura come fonte di legittimazione della partecipazione alle decisioni di governo da parte di soggetti diversi da quello pubblico. Il processo di sussidiarizzazione delle politiche sociali peraltro non disegna assetti regolativi univoci. Ci significa che tale processo si definisce in base al modo in cui si declina di volta in volta nei differenti contesti, rendendo particolarmente interessante scendere sul campo per indagare la realt empirica.
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La sussidiarizzazione delle politiche si alimenta della necessit di allargare il ventaglio delle prestazioni sociali sul territorio, stanti, da un lato, i vincoli di bilancio che rendono problematica lespansione costante dellintervento pubblico, dallaltro, le esigenze di vedere la produzione del welfare come una funzione diffusa, in chiave di welfare society. Ne deriva lallargamento delle reti di attori, pubblici e privati che sul territorio concorrono alla programmazione e gestione delle prestazioni. In questo modo, il passaggio dal government alla governance dei servizi sociali si configura come una ulteriore direttrice di riforma. Tale passaggio indica il mutamento dei processi decisionali e attuativi delle politiche oltrech degli attori che ne sono coinvolti che non sono pi unicamente quelli pubblici. Nellallargare ad attori privati for profit e no profit e nel coinvolgere diversi livelli istituzionali territoriali, la governance risulta essa stessa plurale e multilivello aprendo a forme di negoziazione non gerarchiche tra istituzioni e attori di livello locale, regionale, nazionale, transnazionale, rispetto ai quali lo Stato ricopre un ruolo pivot. Il coordinamento degli attori in campo appare infatti come il perno degli assetti emergenti dei sistemi di protezione sociale, laddove si delinea un insieme complesso di relazioni in cui si trovano a interagire le amministrazioni locali, le organizzazioni del privato di mercato e gli attori del terzo settore, le reti del volontariato, le famiglie, i sindacati, attraverso le loro articolazioni territoriali e dei servizi (Ascoli e Ranci, 2003; Pavolini, 2003; Evers A., Sache C., 2003; Ciarini, 2007). Dando sostanza a questa impostazione, lo Stato sociale attivo diviene uno degli attori di una welfare society, una societ protesa in modo corale a promuovere il benessere di tutti in ogni sua sfera (la politica, leconomica, il terzo settore, i mondi della vita quotidiana dove operano le famiglie e le reti informali di sostegno), l dove entrano in campo specifiche modalit e caratteristiche di azione, nonch specifici mezzi simbolici e valori guida (Colozzi, 2002). Certamente tutto questo non deve farci dimenticare il problema delle differenti dotazioni tra i territori nel tipo di capitale sociale, nella qualit e diffusione delle reti associative, delle imprese e degli attori economici, nonch nella capacit amministrativa degli enti locali. Da questo punto di vista quello verso la welfare society non un passaggio uniforme. Si possono dare piuttosto esiti aperti a diverse traduzioni, anche opposti. Da casi in cui il coinvolgimento delle societ locali, in tutte le loro componenti, produce innovazione, miglioramento dei servizi e apertura a istanze generali di partecipazione, a casi che invece rimangono ingabbiati nei circuiti del particolarismo e della distribuzione assistenziale delle risorse: il range di posizioni molto vario e non interpretabile secondo logiche precostituite (Ciarini, 2010). La svolta attivante del welfare state si accompagna quindi a un processo di riforma dellintero regime di protezione sociale e del modo in cui le diverse istituzioni che lo compongono, non solo locali, ma anche nazionali, se ne redistribuiscono la produzione, in una logica di pluralizzazione che va oltre la semplice ripartizione funzionale. Lintegrazione dei livelli amministrativi e dei diversi attori del welfare diviene dunque una priorit, spingendo al centro della riforma la base territoriale delle competenze e delle policies, in un rapporto integrato verso il basso (le reti della governance territoriale) e altres in senso verticale nei rapporti tra i livelli amministrativi, viziati spesso in Italia di sovrapposizioni e scarsa capacit di coordinamento. Resta il fatto che tale riorganizzazione su base territoriale delle competenze amministrative in materia di politiche sociali e occupazionali ha avviato un processo di rescaling che rimodula i rapporti tra i livelli europeo, nazionale, regionale, municipale, e tende a realizzarsi
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dunque in due direzioni: a) il decentramento di poteri verso i territori; b) il rimescolamento dei rapporti tra gli attori pubblici e privati coinvolti nei servizi (Kazepov e Carbone 2007). Si tratta di processi che portano a valorizzare regioni, distretti, territori, sino alle singole citt (definite anche come welfare city), e valorizzano il ruolo degli attori locali rispetto allo Stato. In tale prospettiva la dimensione urbana si configura come il luogo principe in cui si gioca la sfida della coesione sociale, e della capacit di gestire le tensioni derivanti dalla diffusione dei fenomeni di vulnerabilit sociale attraverso forme di coordinamento e co-partecipazione tra attori, avviando un processo di negoziazione che alla fine trasforma la natura stessa del bene pubblico che viene prodotto, in quanto diviene il frutto di unazione collettiva (Carbone 2005; Kazepov 2004). Il passaggio dal government alla governance delle politiche sempre a livello territoriale obbliga a ripensare i meccanismi, le logiche di governo e il ruolo delle diverse realt istituzionali coinvolte. Le pratiche che emergono danno vita soluzioni eterogenee di regolazione (per lo pi ispirate alla contrattualizzazione tra amministrazione pubblica e altri soggetti) che soppiantano il modello tradizionale di gerarchia pubblica. In questo scenario, anche il privato for profit si vede riconosciuto un ruolo crescente, pur se prevalentemente incastonato (embedded) in un quadro di regolazione pubblica (per esempio con la formazione dei cosiddetti quasi-mercati). Si pensi al contracting out, cio al convenzionamento, nel quale lo stato delega ai privati lerogazione dei servizi, li finanzia, li seleziona e regolamenta, definisce e controlla la loro prestazione, senza lasciare spazio alla libert di scelta dellutente, oppure allaccreditamento, nel quale lo Stato delega ai privati lerogazione dei servizi stabilendo per i criteri ai quali essi devono attenersi per poter essere selezionati e dunque aprendo tra di essi una vera e propria competizione di mercato, lasciando per alla fine ai cittadini la facolt di scegliere nella platea dei soggetti accreditati quelli ai quali rivolgersi (Pavolini, 2003). In altri termini, in risposta alla configurazione nuova assunta dai rischi e dai bisogni sociali, il welfare state ha aperto spazi sempre pi ampi di protagonismo ad altri attori, assumendo un ruolo di coordinamento degli attori in campo, configurando modalit innovative di rapporto tra i soggetti deputati a programmare, finanziare e produrre servizi e interventi sociali. 1.2. Finalit e metodi della ricerca: i laboratori dellintegrazione Alla luce di quanto affermato, chiaro che il tentativo di riportare a sistema linsieme delle esperienze di riforma che si sono andate consolidando localmente non passa necessariamente dal riaccentramento delle funzioni regolative, cosa di non facile realizzazione, n in qualche modo auspicabile, vista anche la debolezza del tessuto politico-amministrativo centrale. Piuttosto sul raggiungimento di comuni obbiettivi, verso cui fare convergere progressivamente le societ locali, che si pu aprire un processo di mutamento in grado di favorire quella rigenerazione delle istituzioni del welfare da pi parti auspicata. Si tratta di uno sviluppo che non nega le differenze negli approcci adottati dai singoli territori, ma che tende alla loro armonizzazione attraverso lo scambio di esperienze e linterazione tra gli attori, pubblici e privati, coinvolti nella programmazione e gestione dei nuovi servizi integrati di welfare. Un processo bottom9

up e di benchmarking sulla falsariga di quello europeo, che punta a rinnovare il welfare a partire dalle esperienze maturate in ambito locale. A questo fine, la ricerca in oggetto si proposta di individuare sul territorio laboratori che si siano fatti carico di sperimentare nuove forme di integrazione tra aree di policy e tra attori del welfare. Per questo motivo, determinante stato il coinvolgimento delle amministrazioni su cui orientata lindagine (amministrazioni regionali e comunali), ma anche degli attori sociali che a diversi livelli sono partecipi della governance territoriale. Una tale impostazione risulta particolarmente utile nello studio delle trasformazioni del welfare italiano. A fronte una bassa dotazione di capacit amministrativa giocata sul centro del sistema politico, le riforme di questi anni ci mostrano per contro un crescente attivismo dei livelli sub-regionali e locali nella sperimentazione di modelli di intervento, politiche, pratiche di governance. In effetti, come mostra Bifulco (2008), questa una caratteristica che nel panorama europeo differenzia lItalia da altri contesti nazionali, dove la forza dellamministrazione centrale, anche nei processi di decentramento, accompagna lazione delle amministrazioni periferiche, per alcuni versi, come nel caso della Francia, limitandone lautonomia e la possibilit di sperimentare. In Italia il problema da rovesciare. Sono mancati o sono stati parziali i progetti di riordino nazionali, mentre al contempo sono stati spesso i livelli sub-nazionali a implementare propri piani, anche molto differenti tra loro. Sebbene tutto questo sia da ricondurre dai cambiamenti che hanno interessato lassetto istituzionale del paese, in particolare in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, quello del regionalismo crescente (sociale e sanitario in particolare) un problema se riferito alla crescente frammentazione territoriale e alla mancanza di forme di coordinamento. Ma al tempo stesso pu costituire una opportunit di rilancio e miglioramento delle politiche stesse, nella misura in cui porta a compimento progetti altrimenti difficilmente implementabili vista linerzia del centro politico-amministrativo. Se assumiamo questa ottica lo scambio di informazioni, di pratiche, tra le regioni e i territori un utile strumento di confronto, suscettibile di una risalita anche verso lalto, contribuendo a rigenerare lo stesso quadro nazionale. La scelta delle policies su cui concentrare lattenzione ha tenuto conto dellampio spettro di interventi che gli enti locali sono chiamati a implementare nei Piani sociali di Zona (PdZ), operando una selezione che consentisse di concentrasi su aree considerate di particolare rilevanza e criticit. Ci si cos concentrati sullo studio delle dinamiche di integrazione nel campo delle politiche per i minori, della conciliazione vita-lavoro e delle misure di contrasto alla povert e per linclusione sociale. Con riferimento proprio allinclusione sociale, stata prestata attenzione anche alle politiche formative finalizzate a favorire la piena cittadinanza di quanti si trovano in condizione di particolare svantaggio sociale (con azioni, quindi, non solo di tipo professionalizzante, ma di recupero di lacune formative, di empowerment personale, di orientamento, etc.). Nel complesso si tratta di policies seppure delimitate ad alcuni specifici ambiti fortemente legate tra di loro (anche se non sempre integrate) e i cui effetti risultano cruciali non solo ai fini della risposta ai bisogni di cura e assistenziali, ma anche nella promozione della partecipazione (femminile soprattutto) al mercato del lavoro e nel contrasto alla povert. Diverse indagini in merito (Istat, 2005, 2008), mostrano ormai da tempo come il fenomeno della povert riguardi in Italia soprattutto le famiglie numerose, le famiglie con figli minori, oltre che le famiglie con componenti in cerca di occupazione. Limpatto di questi processi senzaltro acuito dalla mancanza in Italia di
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una politica nazionale di contrasto alla povert, fatta di trasferimenti e di servizi. Ma anche dalla scarsa integrazione con cui a livello locale i vari interventi sociali vengono legati alla cura per i minori e alla promozione della conciliazione vita-lavoro per le donne. Possiamo dire in questo senso che se gli unici interventi specificamente dedicati al trattamento delle forme di povert tendono a rientrare nellambito delle dotazioni locali di welfare, il deficit di integrazione che spesso qui si rileva tende a indebolire ulteriormente limpatto dellofferta di protezione sociale. La ricerca si articolata nelle seguenti fasi: i) individuazione dei contesti di riferimento regionali caratterizzati da specifici modelli di welfare e che fossero collocati in diverse aree del paese in modo da poter contare su una qualche forma di rappresentativit nazionale, se cos la si pu chiamare. La scelta ricaduta su: Lombardia, Toscana e Calabria. Per ciascuna delle regioni coinvolte sono poi stati individuati i casi locali da analizzare sulla base della rilevanza dei processi di riforma attuati, con una particolare attenzione alle forme di integrazione delle politiche. A partire da queste premesse ci si focalizzati su Milano, Arezzo, Lamezia Terme; si tratta di realt locali con tutta evidenza altamente eterogenee, ma per ragioni diverse egualmente interessanti ai fini della ricerca; ii) analisi dei processi di governance territoriale dei servizi di welfare integrati. A questo livello, linteresse si focalizzato sui rapporti orizzontali che connettono i livelli decisionali pubblici con il piano degli attori sociali, associativi, privati di mercato, implicati a diversi livelli nella programmazione e gestione delle politiche sociali; iii) analisi delle policies prescelte (famiglia e minori, conciliazione, contrasto allesclusione, formazione e orientamento al lavoro) nel corso della quale si approfondito il funzionamento delle singole politiche individuate in funzione del tipo di assetti e relazioni che legano gli attori, pubblici e privati sociali, del welfare locale; iv) individuazione e analisi di buone pratiche di integrazione tra le politiche prescelte; v) lultima fase prevede la restituzione ai territori delle risultanze della ricerca, con la proposta di scambio delle buone pratiche studiate, e la possibilit di inserire e discutere attivamente tali risultanze dentro i laboratori territoriali individuati, al fine di rafforzare e condividere anche nel confronto tra i territori coinvolti, le pratiche di innovazione. Lindagine si svolta con un approccio metodologico di tipo qualitativo, e si avvalsa sia di una analisi di desk della normativa, della documentazione, della letteratura disponibile con riferimento alle regioni e ai territori locali prescelti, sia di una analisi di field, con interviste in profondit e raccolta dati realizzate direttamente sul campo. Al tal fine sono stati coinvolti e intervistati assessori, funzionari, responsabili amministrativi
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ed esponenti del terzo settore. A loro il nostro ringraziamento per la disponibilit a farci comprendere le complesse dinamiche di strutturazione del welfare a livello locale. 1. 3. Il quadro di riferimento: la nuova assistenza sociale in Italia dopo la riforme degli anni Duemila A partire dalle considerazioni sopra esposte, possiamo guardare pi da vicino il processo di riforma del welfare avviato nel nostro paese, osservando in modo specifico lambito delle politiche sociali. Al riguardo, il riferimento immediato alla Legge quadro per la realizzazione del Sistema integrato dei servizi sociali (L. 328/2000), che ha rappresentato per lItalia uno spartiacque nelle modalit di programmazione e gestione dei servizi sociali. Rispetto allo storico dualismo tra gli istituti assicurativi fondati sul lavoro salariato (vedi Esping-Andersen, 1990, 1999; Paci, 1989; Ferrera, 1996; Fargion, 1997; Saraceno, 1998) e residualit dellassistenza sociale, lasciata alle responsabilit di cura familiari e alle diverse iniziative associative mutualistiche, laiche e religiose, lapprovazione della 328/2000 ha segnato un significativo passo in avanti per il welfare italiano, non solo perch ha costituito il primo importante intervento di riordino generale del comparto assistenziale a distanza di circa un secolo dallultimo intervento normativo in materia (la legge Crispi del 1900), ma soprattutto per lavere posto alla sua base lobbiettivo (certamente ancora lontano dallessere raggiunto) dello sviluppo di un sistema diffuso di servizi integrati (socio-assistenziali, del lavoro, della formazione-lavoro) in grado di rispondere, in una logica di rete, alle problematiche poste dai nuovi bisogni sociali. Gli obbiettivi della legge sono diversi: superare la settorializzazione delle risposte di policy; favorire il decentramento e per questa via lo sviluppo dei servizi integrati, impedire la sovrapposizione di competenze, individuando nel livello municipaledistrettuale lambito di riferimento per lo sviluppo del welfare locale. Infine, non meno importante, promuovere processi partecipativi in grado di includere nella arene del decision making le tante realt associative, di terzo settore, gi operanti nellassistenza, a stretto contatto con i bisogni della domanda e per questo motivo ritenute in grado di esprimerne i bisogni nelle fasi di programmazione. Sebbene la legge riconosca formalmente il contributo del terzo settore in rappresentanza degli interessi dei cittadini, quello della partecipazione un processo che coinvolge tanti altri attori, tutti chiamati a interagire con le amministrazioni: le organizzazioni sindacali, le agenzie del privato, le fondazioni bancarie, il tutto allinterno di reti molto pi complesse rispetto al passato. Si pu dire che una delle logiche portanti della Legge quadro sia rappresentata dallintegrazione tra diversi strumenti di policies, prevedendo in particolare il raccordo tra le politiche sociali e quelle del lavoro, sanitarie, formative, ecc. Riguardo ai processi partecipativi, le indicazioni normative sono precise: lo Stato chiamato a definire dei livelli essenziali e uniformi di assistenza sociale (Liveas) e le linee di indirizzo generale, mentre le Regioni, insieme alle Province e ai Comuni, sono investite di competenze specifiche di programmazione nel rispetto del principio di sussidiariet verticale. Il passaggio che qui si delinea dal government alla governance nei termini in cui, come si prima ricordato ( 1.1.), si soliti descrivere il processo di decentramento sul territorio delle funzioni di policy rende conto di un mutamento dei criteri regolativi di un welfare in cui le articolazioni periferiche dellamministrazione
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non giocano pi un ruolo meramente esecutivo delle politiche decise dal centro, ma sono responsabilizzate esse stesse nella costruzione di reti di governo aperte allinterazione tra una platea pi ampia di attori pubblici e privati, tanto nella fase di programmazione, quanto in quella di gestione vera e propria. La legge, come detto, valorizza inoltre la partecipazione della societ civile in unottica di sussidiariet orizzontale allindividuazione dei bisogni espressi dalla collettivit e alla formulazione di risposte, per esempio attraverso la gestione di servizi. In particolare viene legittimata apertamente la partecipazione delle formazioni sociali ai processi di policy making, aprendo uno spazio anche allazione del mercato, secondo il principio della sussidiariet orizzontale che chiama alla programmazione congiunta del Piano sociale di zona gli enti pubblici e i soggetti privati (for profit e no profit) di uno stesso territorio. Per altro verso mette conto sottolineare che, almeno in linea di principio, proprio la legge 328/2000, mentre riconosce il ruolo del privato e del privato sociale dentro a un sistema di welfare mix, attribuisce piena responsabilit allamministrazione pubblica relativamente alla regolazione delle politiche e degli interventi implementati. Tale impostazione porta in primo piano due processi di grande rilievo, gi richiamati nel primo paragrafo: quello della contrattualizzazione e quello della governance multilivello. Essi, come molte ricerche hanno evidenziato, non vengono interpretati in modo univoco nei diversi contesti regionali. Va detto che tali disparit si fondano sia sui margini di applicazione che gli stessi principi possiedono, sia sulle criticit a cui andata contro limplementazione della Legge quadro. Queste ultime attengono in particolare ai finanziamenti dedicati allassistenza (ancora sottodimensionati rispetto alla reali esigenze dei territori), alla genericit degli indirizzi assunti dai livelli centrali del sistema politico-amministrativo, a una frammentazione istituzionale che, dal decentramento amministrativo fino alla riforma del Titolo V della Costituzione, ha indebolito il progetto riformatore originario, assegnando alle regioni la competenza esclusiva in materia di assistenza sociale (Gori, 2004). Di queste criticit leffetto pi visibile stato certamente la disomogeneit, da territorio a territorio, dei processi di riforma, con lesito di una crescente differenziazione dei modelli di welfare locali che difficilmente trova un termine di paragone con le esperienze di riforma messe in atto negli altri contesti nazionali (Paci, 2008; Colasanto, Lodigiani, 2008), nei quali la tenuta del quadro nazionale nonostante i processi decentramento risulta molto meno comprimibile. Ad accrescere il divario tra sistemi regionali di assistenza sociale la rilevanza assegnata dalla stessa Legge quadro agli enti locali, in particolare i Comuni, chiamati a definire i Piani di zona, aggregandosi su base territoriale secondo le indicazioni delle Regioni. Se la loro istituzione ha lo scopo di ridurre la frammentazione degli interventi sociali su base comunale di per s involontariamente favorita dallapplicazione del principio di sussidiariet verticale non annulla le disparit territoriali, in un contesto nazionale privo di riferimenti a standard comuni. A questi elementi va aggiunto il deficit di integrazione che ancora si riscontra nella pianificazione-gestione delle politiche, una dimensione cruciale ai fini dello sviluppo dei nuovi assetti di welfare e tuttavia ancora scarsamente avvertita dai policy maker locali, con il risultato di una sovrapposizione perdurante di funzioni, livelli istituzionali e interventi, a discapito dellefficacia e della qualit delle politiche stesse.

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Parte I

Ricomporre il vaso infranto. Lesperienza milanese nello scenario lombardo

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2. Il workfare lombardo, tra famiglia e sussidiariet2


2.1. Il quadro di riferimento regionale I principali studi e approfondimenti compiuti sul welfare lombardo sulla sua architettura istituzionale, sulle logiche sottostanti agli interventi legislativi in materia e sui principi che governano la distribuzione delle risorse finanziarie tra le diverse funzioni di protezione sociale ne hanno messo in luce le forti peculiarit entro il panorama nazionale (Brugnoli, Vittadini, 2008; Colasanto, Lodigiani, 2008; Gori, 2005). Invero, in uno scenario di continuit politico-amministrativa, garantito dalla presenza ininterrotta al governo locale della coalizione di centro-destra, la Regione Lombardia ha precorso i tempi della riforma del Titolo V della Costituzione giungendo, mediante unazione di riordino organica e articolata del sistema sociale e sociosanitario, a differenziarsi notevolmente per le modalit di applicazione del principio di sussidiariet. Gli obiettivi e le strategie attuative della riforma del welfare lombardo, per come si trovano declinati nei documenti ufficiali, sono chiaramente informati da due paradigmi teorici: luno di stampo antropologico; laltro di matrice economica. Sul primo versante, lelaborazione intellettuale che accompagna lintervento in materia di promozione del benessere propone una visione antropologica positiva (Brugnoli, Vittadini 2008; Donati, 2007), che afferma la piena dignit del soggetto sul piano personale e sociale e ne esalta il contributo che egli in grado di offrire alla riproduzione del tessuto sociale; parimenti riconosce il primato originale del civile (IReR, 2009) e considera, dunque, il welfare come plurale, valorizzando la soggettivit sociale di ogni attore (Stato, mercato, persona, famiglia, terzo e quarto settore). Sulla scorta di queste convinzioni, il principio di sussidiariet diventa la chiave di volta per una nuova concezione di stato e di mercato in cui la soddisfazione ai bisogni, individuali collettivi, derivi da risposte che provengono dal basso e che dunque siano espressione della tensione costruttiva e socializzante delluomo (Vittadini, 2007). Per quanto riguarda, poi, il secondo paradigma, il riferimento va alla teoria dei quasi-mercati (Le Grand, Bartlett, 1993). Si tratta di sistemi in cui lo Stato finanzia, ma non necessariamente eroga direttamente, i servizi, i quali vengono invece prodotti in un quadro di forte competizione tra una pluralit di soggetti che, per entrare in gioco, necessitano comunque di un accreditamento da parte dellattore pubblico. I fruitori dei servizi scelgono, pertanto, in un sistema di concorrenza, i cui paletti sono ad ogni modo fissati secondo dati indicatori di qualit, in base a un potere dacquisto che definito anche mediante i voucher, titoli di spesa finanziati dal pubblico. La preferenza per il quasi-mercato (o mercato sociale), motivata dalla fiducia nei meccanismi competitivi e nella libert di scelta (e anche, come sottolineato da uno dei nostri intervistati, da esigenze di tipo finanziario) si ritiene possa incidere positivamente sulla qualit dei servizi offerti e sullefficienza del welfare, intesa questultima come impiego ottimale delle risorse a disposizione. Non mancano al riguardo elementi di criticit che meritano di essere approfonditi, e che sono relativi, ad esempio, alla capacit di tutti i fruitori, compresi i soggetti pi svantaggiati, di agire la loro libert di scelta, nonch alla disponibilit di unofferta realmente eterogenea e plurale.
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Di Rosangela Lodigiani ed Egidio Riva.

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In sintesi, gli assi principali lungo i quali questa tipicit del modello lombardo si va declinando sono (Pesenti, 2008): 1) la trasformazione del metodo organizzativo, cui si associata la risoluzione della dicotomia pubblico/privato; 2) il superamento della programmazione verticistica cui seguita, per contro, laffermazione di una programmazione decentrata sul territorio; 3) ladozione di nuovi strumenti. Volendo per giungere a una lettura pi puntuale e sistematica del welfare lombardo e del suo sistema di governance, vale la pena riprendere quelli che paiono esserne i principi guida; principi che sono con evidenza connessi a quanto appena affermato e che la letteratura specialistica individua ne: la libert di scelta, che a partire dal riconoscimento della centralit della persona nel sistema di welfare si concretizza nella facolt riconosciuta ai cittadini di decidere: che cosa ricevere, ossia la tipologia di prestazioni di cui fruire; da chi ricevere assistenza tra gli erogatori dei servizi, senza pi rivolgersi necessariamente a quello indicato dallente pubblico, ma potendo invece optare per uno dei soggetti accreditati; ii) il pluralismo dellofferta, raggiunto mediante la presenza di pi erogatori che competono in un sistema di quasi-mercato; iii) la valorizzazione delle diverse formazioni sociali, mediante limplementazione dei principi di sussidiariet orizzontale e verticale. Prima di approfondire le modalit in cui i dispositivi legislativi regionali traducono nella pratica questi principi vale la pena soffermarsi, seppure brevemente, sulla descrizione del quadro socio-economico e di vulnerabilit che emerge a livello locale, cos da comprendere lo scenario di risorse e di bisogno sul quale prende forma la programmazione regionale in materia di politiche sociali e socio-sanitarie. In proposito, ricordate a premessa la forza e la solidit del tessuto produttivo e occupazionale lombardo che tutte le analisi comparative mettono in luce, le indagini Istat (2009) e quelle dellOsservatorio Regionale sullEsclusione Sociale (2009) rivelano altres che lincidenza della povert assoluta nella Regione su valori contenuti e pi bassi di quelli osservati nella media nazionale, a riprova di un benessere tendenzialmente diffuso. In questo scenario, come daltro canto si riscontra nel resto del paese, le disparit pi profonde colpiscono le famiglie con figli minori, specie se numerose, e gli immigrati. Se per ci si sofferma sulla percezione soggettiva il quadro cambia. Prende infatti forma quella che viene interpretata come unarea di potenziale vulnerabilit: linsieme di coloro che pur non essendo oggettivamente poveri si sentono tali, secondo le aspettative e le esigenze individuali; unarea che, stando alle rilevazioni interessa una quota rilevante della popolazione lombarda (circa un quarto del totale). Per quanto concerne, infine, lo scenario demografico, i dati segnalano soprattutto un progressivo aumento della popolazione residente, che si spiega a motivo della consistenza dei flussi migratori e dellevolversi dei processi di invecchiamento della popolazione, con laumento significativo della quota di anziani e, prima ancora, dei grandi anziani. i)

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2.2. Larchitettura istituzionale e il sistema di governance del sistema di politiche sociali e socio-sanitarie Con lapprovazione della legge regionale 12 marzo 2008, n. 3, avente per oggetto il Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario giunto a compimento il processo di riordino e riforma del sistema di welfare lombardo avviato negli anni precedenti. Di questo percorso ispirato dai principi costituzionali, dallo Statuto Regionale e dalla legge 328/2000 sono parte integrante, in quanto tappe intermedie, alcuni provvedimenti legislativi, che si combinano con numerosi altri documenti programmatici e di indirizzo3: la l.r. 31/1997 Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attivit dei servizi sociali; la l.r. 23/1999 Politiche Regionali per la Famiglia; la l.r. 1/2000 Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia; la l.r. 1/2003 Riordino della disciplina delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza operanti in Lombardia; la l.r. 1/2008 Testo unico delle leggi in materia di volontariato, cooperazione sociale, associazionismo e societ di mutuo soccorso. Pur senza entrare ora nel merito dei singoli atti legislativi, possibile osservare come i sopracitati principi guida della riforma abbiano inciso profondamente sui ruoli e sul sistema di relazioni tra gli attori coinvolti nelle mansioni di governo, gestione, produzione ed erogazione degli interventi sociali e socio-sanitari, definendo cos loriginalit del modello lombardo. Questo si caratterizza, innanzitutto, come integrato, proprio a motivo dellintegrazione dellattivit sanitaria e di quella assistenziale, e in quanto plurale, se vero che la sua azione si sostanzia con il concorso di enti pubblici, enti non profit e i soggetti privati, secondo le specifiche loro peculiarit, nella loro piena parit dei diritti e dei doveri. poi un sistema misto, con offerte miste pubblico/privato, in cui la competizione per lofferta dei servizi in ogni caso regolata dallintervento dellattore pubblico in qualit di garante. Da ultimo devoluto (Ranci Ortigosa, Lo Schiavo, 2005), in quanto il suo carattere sussidiario insiste, contemporaneamente, sulla dimensione verticale e su quella orizzontale, riconoscendo agli attori che partecipano al sistema di protezione sociale competenze e ruoli specifici. Proprio in merito a questultimo punto, il disegno di riforma definisce un impianto di governance multilivello (Pesenti, 2008). Le funzioni di legislazione e di programmazione, di indirizzo, di coordinamento, di controllo e di supporto rimangono in capo alla Regione che, pertanto, conserva e rafforza il proprio ruolo politicoistituzionale e di regolazione del sistema: essa determina, infatti, il Piano socio-sanitario regionale triennale, con finalit di indirizzo generale del welfare locale, e quindi definisce le regole di governo del modello di intervento in quanto a finanziamento e distribuzione delle risorse, criteri di autorizzazione, accreditamento, qualit dei servizi, etc. La Regione stessa recede, tuttavia, dalle funzioni di coordinamento e di controllo, ora affidate alle Aziende Sanitarie Locali. Queste, a loro volta, a seguito dellavvenuta separazione con i presidi ospedalieri divenuti nel frattempo Aziende ospedaliere cessano di essere enti erogatori di prestazioni sanitarie e socio-assistenziali e assumono, invece, le funzioni di programmazione, acquisto e controllo; il che significa che si
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Per la sua rilevanza ricordiamo, tra gli altri, il Piano Socio Sanitario Regionale, di validit triennale.

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pongono quali enti strumentali della Regione e svolgono attivit di vigilanza e controllo come lautorizzazione e laccreditamento degli enti erogatori e la verifica della qualit delle prestazioni offerte. Le Asl ricoprono, inoltre, un importante ruolo di collegamento strategico tra la Regione e le amministrazioni comunali: sono infatti chiamate ad articolare e gestire sul territorio la programmazione sociale, le regole, le risorse regionali. Per la precisione, secondo quanto viene affermato negli atti normativi regionali sui Piani di Zona in merito ai rapporti tra i diversi attori sociali, le Asl verificano il merito e lattuazione dei Piani di Zona, arrivando quindi a svolgere la funzione di soggetto validatore (Avanzini, 2005) del principale strumento della programmazione decentrata. Possono inoltre collaborare con i Comuni fornendo informazioni per la redazione dei Piani di Zona e, infine, svolgere un ruolo di raccordo e sintesi con la Regione. Secondo le medesime linee guida, i Comuni di uno stesso distretto territoriale, che possono associarsi per dare vita a un unico Piano di Zona, decidono il grado di integrazione delle politiche sul territorio, mentre invece le Province non sono contemplate tra i soggetti coinvolti nella stesura e definizione dei Piani di Zona. Va ricordato, inoltre, che nel sistema di governance della programmazione zonale prevista: la presenza di un organo politico che stabilisca le direttrici degli interventi lAssemblea dei sindaci e di un organismo tecnico che ne presieda lattuazione lUfficio di Piano; la costituzione di un Tavolo di Rappresentanza del Terzo settore quale luogo di confronto e consultazione. Di fatto il ruolo centrale assegnato alle Asl, cos specifico del caso lombardo, porta, a parere di alcuni osservatori, a relegare in secondo piano gli enti locali. La funzione di acquisto delle prestazioni sempre pi affidata direttamente agli utenti. Nella logica dellaffermazione di un sistema di quasi-mercato dei servizi quello che forse il tratto pi peculiare del modello lombardo si infatti adottato il metodo della sperimentazione e successiva messa a regime dei titoli sociali. Questi si dividono in buoni e voucher socio-assistenziali; sono in capo ai Comuni e alle Asl e rappresentano uno strumento inedito, alternativo o integrativo, dei servizi tradizionali. Il buono un trasferimento monetario che viene erogato a titolo di rimborso delle spese sostenute per la fruizione di un servizio. Il voucher invece un titolo di acquisto riconosciuto direttamente al beneficiario, mediante il quale possibile acquistare pacchetti di prestazioni sociali erogate da parte di agenzie o personale professionalmente specializzati e allo scopo accreditati. La Regione ha spinto con decisione gli enti locali alladozione di buoni e voucher. Invero, nella prima tornata dei Piani di Zona, quindi per il triennio 2001-2003, era stato previsto di destinare il 70% delle risorse derivanti dal Fondo Nazionale per le Politiche Sociali proprio ai titoli sociali, riservando la quota rimanente alla razionalizzazione e al potenziamento dei servizi. La quota del 70% stata successivamente ridotta al 50% del totale delle risorse per i Piani di Zona nel periodo 2006-2008 ma una tale direttiva stabilisce, comunque, un forte orientamento alla programmazione zonale. Lintroduzione dei titoli esprime, infatti, la crescente responsabilizzazione dei soggetti nella definizione di risposte ai propri bisogni e la volont di assicurare la fruibilit delle strutture, dei servizi e delle prestazioni, secondo modalit che garantiscano la libert e la dignit della persona, nel rispetto della specificit dei bisogni e del diritto di libera scelta dellutente. Una libera scelta che rende attivo il soggetto (e, come vedremo a breve anche le famiglie), con un capovolgimento di prospettiva rispetto al tradizionale welfare assistenziale, nel quale vi la preordinazione delle risposte rispetto ai bisogni. Una libera scelta che, come ricordato nellintroduzione, si traduce a pi livelli: libert di scegliere da chi ricevere
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assistenza, di decidere la tipologia di prestazioni di cui fruire (per es. monetarie o servizi, intervento domiciliare o residenziale), di concorrere alla produzione del benessere tramite lauto-assolvimento dei bisogni o la compartecipazione alle forme di organizzazione della societ civile (Gori, 2005). In questo schema, alla societ civile, al mondo dellassociazionismo, della cooperazione sociale e del volontariato viene formalmente riconosciuta rilevanza primaria nelle attivit di progettazione sociale nellambito di una prospettiva di coprogrammazione che ha trovato conferma con listituzione nel 2002 del Tavolo permanente del Terzo settore e nelle fasi di predisposizione e successiva adozione dei Piani di Zona. In questi termini, il terzo settore diviene a pieno titolo un nuovo attore del welfare locale; ne viene riconosciuta la soggettivit. Non solo organo strumentale, operativo, erogatore ma anche soggetto promotore delle politiche sociali. Il tutto nellottica di un progressivo passaggio da un modello di welfare state a uno di welfare community (Vittadini, 2002) in cui gli organi istituzionali sappiano mobilitare e valorizzare le energie della societ civile. La valorizzazione dei soggetti della societ civile si trova in alcuni provvedimenti che insistono sulla promozione della sussidiariet orizzontale. Tra di essi vale la pena ricordare: la l.r. 1/2008 Testo unico delle leggi in materia di volontariato, cooperazione sociale, associazionismo e societ di mutuo soccorso; la l.r. 1/2003, di riordino delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, che intende superare i vincoli allo sviluppo di questo ambito e dunque mettere in risalto il ruolo delle stesse Ipab nellerogazione di servizi sociali; la l.r. 22/2001 Azioni di sostegno e valorizzazione della funzione sociale ed educativa svolta dalle parrocchie mediante gli oratori; la l.r. 28/1996 Promozione, riconoscimento e sviluppo dellassociazionismo. Di questo gruppo di interventi fa parte, innanzitutto, la l.r. 23/1999 Politiche Regionali per la famiglia. 2.3. Le politiche per la famiglia, per i minori, per la conciliazione La legge regionale 6 dicembre 1999, n. 23, nel riconoscere esplicitamente la famiglia quale soggetto sociale politicamente rilevante, definisce strumenti e strategie di promozione, di solidariet e di auto-organizzazione che le consentano di trovare risposta ai propri bisogni. Lopzione adottata quella di lasciare che sia la famiglia stessa a decidere se soddisfare detti bisogni al proprio interno, attraverso la produzione di servizi di natura sociale, educativa o assistenziale per s o per la rete parentale e relazionale, oppure rivolgersi allesterno, a soggetti pubblici o accreditati. Lintervento legislativo si fonda, in effetti, sul riconoscimento della capacit della famiglia di essere un produttore di welfare per i propri membri e per la collettivit, un luogo di solidariet attiva le cui risorse, nellottica della sussidiariet orizzontale, vanno sviluppate in quanto fulcro primario dellintervento sociale. La l.r. 3/2008 da questo punto di vista ancor pi puntale, riconoscendo formalmente la famiglia come unit di offerta: non solo protagonista delle sue scelte in merito a come rispondere ai propri bisogni (a chi affidare la cura dei bambini, dei malati, degli anziani, etc.), ma fornitrice di servizi per i propri membri deboli o fragili. Da ci consegue il superamento del concetto di famiglia come destinataria delle prestazioni e dei servizi, in favore di un suo
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coinvolgimento attivo nella produzione degli stessi. Nelle intenzioni del legislatore regionale questo non implica, tuttavia, che sulla famiglia debba gravare interamente il peso di situazioni difficili da sostenere non solo per il carico di stress, ma a volte anche per la mancanza delle competenze necessarie per affrontare la situazione, o per la carenza di risorse economiche. Gli interventi previsti dalla normativa sono, infatti, sostanzialmente di due tipi: 1) i buoni e i voucher sociali, titoli sociali mediante i quali si riconosce e sostiene limpegno diretto dei familiari o degli appartenenti alle reti di solidariet nel prestare assistenza continuativa a un proprio congiunto in condizione di fragilit; 2) un sistema di servizi che non sia sostitutivo della famiglia ma a essa sussidiario, cio capace di intrecciarsi con le attivit di assistenza informali, per renderle pi efficaci e stabili nel tempo; questo evitando sia i fenomeni di logoramento che portano alla scelta dellistituzionalizzazione della persona non autosufficiente, sia la delega totale senza controlli esterni, sia di considerare il soggetto beneficiario atomisticamente, cio avulso da un contesto sociale pi ampio (contesto che va per sostenuto). Oltre agli obiettivi di riparazione (Merlini, Filippini, 2005) entro cui si collocano i titoli sociali, che intendono rimuovere le difficolt famigliari dovute a condizioni di svantaggio la Regione si propone, mediante appunto la legislazione sulla famiglia, di promuovere lassociazionismo familiare, ovvero di sostenere la creazione e promuovere reti di solidariet e di mutuo aiuto, anche sotto forma di banche del tempo, che consentano alle famiglie di svolgere le proprie funzioni primarie e che quindi rappresentino modalit di empowerment, delle famiglie stesse e della collettivit. Lassociazionismo familiare viene peraltro formalmente riconosciuto come ulteriore attore del welfare mediante lattivazione del Registro regionale delle Associazioni di Solidariet familiare e della Consulta Regionale delle Associazioni familiari. Ad ogni buon conto, la legge in esame si caratterizza anzitutto in quanto rivolta non solo a nuclei problematici, ma pi in generale a tutte le famiglie (Rossi, 2000). Individua, in tale ottica, una serie di interventi, di sostegno e prevenzione, che supportino la famiglia in tutte le fasi del suo ciclo di vita. Prevede, in particolare, strumenti indirizzati alla fase di formazione (contributi per lacquisto della prima casa da parte di giovani coppie e il prestito sullonore), come pure alla famiglia con figli piccoli, della quale si contemplano anche le esigenze di conciliazione. Con riguardo specifico a questultimo tema, nel testo di legge si fa riferimento esplicito alla promozione di progetti, definiti come innovativi: nellambito dei servizi educativi per la prima infanzia: potenziamento della capacit ricettiva degli asili nido, anche mediante la loro organizzazione presso aziende pubbliche o private; la sperimentazione di forme di auto-organizzazione familiare come i c.d. nidi famiglia; la fornitura di supporto per limplementazione di attivit educative e ricreative; la predisposizione di elenchi di persone qualificate per laccudimento a domicilio dei bambini; in favore di adolescenti e minori quali le azioni a contrasto della dispersione scolastica e lattivazione di progetti e spazi di tipo aggregativo. Infine, a testimonianza del forte intreccio che la legge 23 prevede tra tutti gli ambiti di politica che la nostra ricerca ha preso in esame, non vanno dimenticati gli interventi formativi finalizzati al reinserimento lavorativo delle donne in condizioni di svantaggio.
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Con il recepimento della legge 328/2000, tutti gli interventi e i servizi sociali, e quindi anche quelli in favore dei minori e delle famiglie, sono inquadrati entro alcuni indirizzi generali e quindi demandati ai Comuni e alle loro scelte autonome. Il quadro delle competenze in materia di politiche per i minori viene precisato nella l.r. 14 dicembre 2004, n. 34 (Politiche regionali per i minori), in cui il tema della tutela del minore, anche straniero, e del suo benessere complessivo si integra con il sostegno alle famiglie con minori per i compiti educativi e di cura e con la promozione delle politiche di conciliazione. Nel testo si afferma che la Regione (art.2): svolge attivit di indirizzo politico e di programmazione. In specie promuove politiche intersettoriali per minori, favorisce la programmazione concertata e partecipata a livello zonale, riconosce le forme di coordinamento territoriale dei servizi e degli interventi. Gli enti locali (art.4): realizzano e gestiscono i servizi sociali; erogano i titoli sociali per la fruizione dei servizi, determinandone altres i requisiti di accesso; definiscono e promuovono gli interventi sociali garantendo leffettiva partecipazione dei soggetti del terzo settore nella programmazione zonale, nonch nella realizzazione e nella gestione degli interventi e dei servizi. Si specifica, inoltre, che i Comuni esercitano tali funzioni in forma associata a livello di ambito territoriale e che le Province concorrono alla programmazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali: rilevando il fabbisogno formativo del personale impiegato in ambito sociale e socio-sanitario e quindi programmando lintervento formativo; promuovendo la conoscenza e lapplicazione del principio di sussidiariet; attivando, nel caso, Osservatori sui Minori con funzioni di analisi e monitoraggio su scala locale. La legge regionale prevede, altres, listituzione di un Comitato regionale di coordinamento per lattuazione delle politiche intersettoriali destinate ai minori che, composto dalle direzioni generali che attuano interventi in ambito minorile, offre un parere tecnico preventivo sulla programmazione, sulle proposte di legge e sui provvedimenti amministrativi. Ugualmente, contempla listituzione di un Osservatorio regionale sui minori con il compito di analizzare, monitorare e interpretare i fenomeni inerenti alla realt minorile e quindi offrire al legislatore regionale le necessarie basi conoscitive per formulare delle scelte strategiche. Sui temi della conciliazione, come visto gi affrontati nellambito dellintervento legislativo sulle famiglie e sui minori, si esprime pi specificamente la l.r. 28 settembre 2006, n. 22, in particolare allart.22 Parit di genere e conciliazione tra tempi di lavoro e di cura, dove si afferma che la Regione sostiene azioni di sistema a favore dellinserimento e della continuit occupazionale delle donne e promuove, anche mediante il ricorso a voucher o altri incentivi economici, una serie di azioni e servizi tra cui: servizi domiciliari, asili aziendali e altro; piani aziendali e territoriali per la ridefinizione degli orari di lavoro e dei tempi dei territori e delle citt; misure in favore di soggetti, specie donne, che rientrano nel mercato del lavoro dopo periodi di assenza prolungata; azioni positive per la fruizione dei congedi parentali; azioni di orientamento e informazione per favorire lutilizzo degli incentivi ex art. 9 L.53/2000; azioni positive per la riduzione delle disparit di genere.

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In particolare, visto lobiettivo della nostra indagine, risulta di interesse approfondire lo strumento dei c.d. Voucher per servizi conciliativi, introdotto in via sperimentale dalla Regione per consentire la partecipazione a percorsi di riqualificazione professionale. Il voucher in parola, di importo pari a un massimo di 250 euro ed erogabile per un massimo di dieci mesi, corrisposto ai soggetti che beneficiano della Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali in presenza di alcuni requisiti quali: i) la presenza di almeno due figli a carico; ii) appartenenza a un nucleo familiare monogenitore con almeno un figlio a carico; iii) appartenenza a un nucleo familiare con entrambi i genitori in cassa integrazione in deroga e almeno un figlio a carico; iii) appartenenza a un nucleo familiare con un convivente non autosufficiente. Da ultimo, stando ai dati relativi agli stanziamenti finanziari, si osserva che in tema di conciliazione le ultime legislature hanno insistito primariamente sulla realizzazione, la ristrutturazione, lampliamento di asili nido (si veda, ad esempio, la DGR. 16 settembre 2009, n.8/10164) e, con lobiettivo di differenziare e qualificare lofferta, sulla sperimentazione di servizi simili come i nidi e micronidi aziendali, i nidi famiglia, gli spazi gioco. Altri finanziamenti hanno poi incentivato, mediante il c.d. Bando Famiglia, la creazione di reti di solidariet interfamiliare e di forme di autoorganizzazione e aiuto solidale, nonch lo sviluppo dellassociazionismo familiare; oppure, attraverso il c.d. Bando Fare rete e dare tutela e sostegno alla maternit, i progetti a carattere sperimentale presentati, in accordo con quanto stabilito dalla legge regionale, da soggetti del terzo settore in favore dellassistenza alle famiglie in difficolt sociale, psicologica, assistenziale, sanitaria.

2.4. Le politiche di istruzione, formazione, lavoro Lapproccio di programmazione, gestione ed erogazione dellintervento in materia sociale e socio-sanitaria sin qui descritto stato esteso anche ad altri campi. Tra di essi, la formazione, listruzione, il lavoro che, a seguito delle riforme attuate a livello regionale, sono divenuti un unico ambito integrato. Questo approccio si regge, sotto laspetto normativo, su due pilastri (Albonetti, Violini, 2008): la l.r. 6 agosto 2007, n. 19, che reca Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia e la l.r. 22/2006 su Il mercato del lavoro in Lombardia. Il primo pilastro interviene a ridefinire i confini del sistema formativo, che nel testo di legge viene ora definito in termini integrati come linsieme dei percorsi funzionali allassolvimento del diritto-dovere allistruzione e alla formazione e allobbligo di istruzione, nonch allinserimento e alla permanenza attiva nel mondo del lavoro, ma anche alla crescita delle conoscenze e delle competenze lungo tutto larco della vita (art.1). chiaro, in questi termini, che il sistema dellistruzione e della formazione professionale si pone come obiettivo quello di accompagnare il soggetto anche nel mercato del lavoro, dotandolo, mediante la formazione continua e permanente, di un bagaglio di competenze, quanto pi possibile ricco e aggiornato; soprattutto, mettendolo nelle condizioni che favoriscano la sua libert di scelta, nel rispetto del principio della centralit della persona (art.2). Per rendere effettivi questi principi, che sono poi quelli su cui insiste lintero sistema di welfare locale, la Regione interviene al fine di rimuovere gli impedimenti di ordine economico che limitano laccesso e la libera scelta dei percorsi educativi nonch la presenza nel sistema educativo stesso. Posta la parit
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dei soggetti accreditati che erogano i servizi, essa pu dunque attribuire buoni e contributi alle famiglie per favorire la frequenza dei figli alle istituzioni scolastiche e formative del sistema regionale (art.8). Il riferimento corre, dunque, ai buoni scuola gi introdotti con la l.r. 1/2000 a sostegno della libert di scelta in campo educativo delle famiglie e in particolare a copertura, parziale o totale, delle spese effettivamente sostenute per la frequenza dei figli a scuole statali o non statali, paritarie, legalmente riconosciute e parificate; ma anche ai buoni formativi, introdotti dalla medesima legge regionale, per poter fruire di interventi di formazione professionale e formazione continua presso strutture accreditate scelte direttamente dai soggetti interessati. Il secondo pilastro costituito dalla legge regionale di riforma del mercato del lavoro, il cui nucleo rappresentato dalla riorganizzazione delle competenze e dei ruoli degli attori coinvolti in unottica sussidiaria. Alla Regione (art.2) assegnato il compito di programmazione e disciplina del mercato del lavoro, il monitoraggio, il controllo e la valutazione delle attivit inerenti le politiche del lavoro e quelle integrate dellistruzione e della formazione professionale, il coordinamento dei diversi attori locali. Per tali ragioni, la legge istituisce organismi tecnici quali lAgenzia regionale per listruzione, la formazione, il lavoro (Arifl); di monitoraggio e analisi come lOsservatorio per il mercato del lavoro e richiama la figura di un Valutatore indipendente. Alle Province (art.4) competono, invece, le funzioni di programmazione territoriale e, in via esclusiva, lesercizio di alcune funzioni di tipo amministrativo, tra le quali lattivazione delle procedure per lerogazione dei benefici relativi allo stato di disoccupazione. Le Province coinvolgono, in questi compiti, le parti sociali allinterno delle Commissioni provinciali per il lavoro e la formazione, veri e propri organismi di concertazione territoriale. Tra gli organi istituzionali vi sono poi da ricordare il Comitato istituzionale di coordinamento, organismo di partenariato e di collaborazione istituzionale, il cui obiettivo di garantire lintegrazione dei servizi per il lavoro, delle politiche attive, dellistruzione e della formazione; la Commissione regionale per le politiche del lavoro e della formazione, che ha funzioni di proposta, progettazione, valutazione, verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche. Dellinsieme dei soggetti che compongono il sistema di sostegno al lavoro fanno parte, infine, gli operatori pubblici e privati, accreditati o autorizzati (art.13). Essi erogano servizi di sostegno al lavoro per i soggetti in cerca di occupazione e, pi in generale, concorrono allattuazione delle politiche del lavoro. Per restringere lanalisi ai temi oggetto di indagine, ovvero la formazione e lorientamento al lavoro, la legge sancisce il diritto alla formazione continua e permanente, come garanzia delloccupabilit e della capacit di reddito del soggetto, e interviene in tale direzione attraverso politiche integrate, dellorientamento al lavoro e [del]la formazione professionale. A tutela dellesercizio del diritto alla formazione, la Regione si adopera per assicurare la libert di scelta nella costruzione dei percorsi formativi. Ancora una volta, questo significa primariamente lampliamento dellofferta e il miglioramento dei suoi livelli qualitativi in un regime di quasi-mercato in cui il pubblico svolge il ruolo di regolatore, attraverso il meccanismo dellaccreditamento, e i soggetti scelgono mediante il sistema dei titoli sociali. Il modello dei buoni e dei voucher ha trovato una sistematizzazione nel c.d. Sistema Dote4 (Delibera n. VIII/8864 del 14 gennaio 2009). Esso si sviluppa lungo tre linee o tipologie di intervento.
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Lo stanziamento per il Sistema dote di 333 milioni di euro per il 2009.

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Vi in primo luogo la Dote Scuola5, che accompagna il percorso educativo dei ragazzi dai 6 ai 18 anni ed quindi riconosciuta agli studenti delle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado e a chi frequenta i percorsi triennali di formazione professionale. Si caratterizza per diverse componenti, differenziate anche in quanto ai requisiti di accesso (la residenza o il domicilio nella regione, la frequenza a istituzioni educative, determinati parametri reddituali): il Buono Scuola, come detto, introdotto a garanzia della libert di scelta educativa; lintegrazione al Buono scuola, pensato come sostegno aggiuntivo per le famiglie numerose; il contributo per la disabilit, destinato alla formazione personalizzata dei soggetti portatori di handicap; il sostegno al reddito, a garanzia della permanenza nel sistema educativo istruzione statale o formazione professionale regionale dei soggetti meno abbienti; la componente Merito, un premio per i risultati scolastici conseguiti; dote scuola per listruzione e la formazione professionale, a copertura delle spese di frequenza degli iscritti ai corsi regionali. Secondo perno del sistema la Dote Formazione6, un insieme di risorse volte a favorire loccupabilit delle persone e linnalzamento del livello di competenze lungo tutto larco della vita. La dote, il cui valore pu arrivare a un massimo di 5.000 , permette, in particolare, di usufruire di uno o pi servizi formativi (corsi di specializzazione e di formazione permanente) erogati da operatori accreditati dalla Regione, per una durata massima di 24 mesi complessivi. La scelta dei servizi formativi avviene entro un Piano di Intervento Personalizzato (PIP), definito in raccordo con loperatore accreditato e scelto dalla persona medesima. Per accedere alla dote, sono necessari requisiti anagrafici (la residenza o il domicilio in Lombardia; unet inferiore ai 64 anni alla data dinvio della domanda), occupazionali (essere disoccupati o inoccupati), formativi (il possesso di un attestato di competenza di III livello europeo, conseguito con il completamento del quarto anno di Istruzione e Formazione Professionale; di un diploma di scuola secondaria superiore; di una laurea o di un titolo superiore). Infine, c la Dote Lavoro7, il cui obiettivo quello di favorire linserimento o il reinserimento lavorativo, la riqualificazione professionale anche mediante lerogazione di un sostegno economico a chi ha perso il lavoro. Invero, insieme alla Dote Lavoro i disoccupati che non percepiscono indennit di disoccupazione o di mobilit possono richiedere, fino a esaurimento delle risorse disponibili, lindennit di partecipazione; questa non pu superare il valore dei servizi richiesti con la Dote ed pari a un massimo di 300 euro mensili per ogni mese di fruizione dei servizi, per un numero massimo di 10 mesi. La Dote Lavoro si rivolge ai soggetti residenti o domiciliati in Lombardia di et inferiore ai 64 anni, che abbiano assolto lobbligo di Istruzione e Formazione
La Dote Scuola definita, oltre che dalla gi citata l.r. 19/2006, dalla delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; dal Decreto n. 974 del 5 febbraio 2009; dal Decreto n.8003 del 31 luglio 2009. 6 I riferimenti normativi per la Dote Formazione sono i seguenti: delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; decreto 3299 del 3/4/09; Decreto n. 3300 del 3/4/09; decreto n. 3303 del 3/4/09. 7 La Dote Lavoro disciplinata dalla delibera n. VIII/ 8864 del 14 gennaio 2009; dal decreto 3299 del 3/4/09; dal decreto n. 3300 del 3/4/09; dal decreto n. 3303 del 3/4/09.
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Professionale alla data di invio della domanda e che siano inoccupati o disoccupati, iscritti nelle liste di mobilit, sospesi dal lavoro in Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Permette di fruire di servizi di politica attiva e di percorsi formativi, scelti entro lOfferta dei Servizi formativi e dei servizi al Lavoro. Pi nello specifico i fruitori della Dote possono definire, presso un centro accreditato per i servizi al lavoro, un percorso individuale (PIP) che preveda un supporto nellindividuazione dei fabbisogni individuali, dei percorsi formativi disponibili, delle opportunit di inserimento. possibile scegliere tra i seguenti servizi di politica attiva: un colloquio di accoglienza di I livello, erogato a titolo gratuito e articolato nella verifica dei requisiti, in un colloquio di orientamento, nella fornitura di informazioni sui servizi disponibili, nella presa in carico da parte delloperatore del servizio; un colloquio individuale di II livello, ovvero in un esame approfondito delle caratteristiche e dei bisogni del soggetto e nella redazione di un curriculum vitae; bilancio delle competenze; tutoring e counselling orientativo ai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro (strumenti di ricerca, aggiornamento del proprio curriculum vitae, preparazione al colloquio di selezione, etc.); scouting aziendale e ricerca attiva del lavoro; monitoraggio, coordinamento, gestione del piano di intervento personalizzato; consulenza e supporto verso lautoimprenditorialit.

I servizi di politica attiva possono essere integrati con uno o pi corsi formativi e con il servizio di tutoring e accompagnamento allo stage, nel caso in cui esso sia previsto, al termine del percorso daula. Il sistema della Dote Lavoro si caratterizza per altre componenti, tra cui quelle rivolte specificamente a soggetti deboli, disabili, categorie prioritarie, a rischio di svantaggio o emarginazione. La pi importante per la Dote Lavoro Ammortizzatori Sociali che, definita in base a un accordo con il Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali dellAprile 2009 e a unintesa con le Parti Sociali, prevede lestensione del sistema degli ammortizzatori sociali ai datori di lavoro che non possono ricorrere alla Cassa Integrazione e alle categorie di lavoratori subordinati a tempo indeterminato o determinato, inclusi interinali e apprendisti, finora senza tutele. Questi lavoratori, secondo i termini dellaccordo, potranno usufruire di ammortizzatori sociali in deroga accompagnati dalla Dote Lavoro in esame, ovvero di servizi personalizzati volti al reinserimento lavorativo e allincremento delle competenze professionali. Dote Lavoro e ammortizzatori sociali, in un sistema di integrazione tra politiche attive e passive, sono inscindibili, poich chi rinuncia ai servizi offerti dalla Dote perde anche i benefici economici. Il soggetto tenuto ad accettare la dote aderendo a una proposta che gli venga formulata in base allaccordo sindacale che stato sottoscritto per potere accedere alla Cassa integrazione in deroga, ovvero in base ad eventuali accordi sindacali territoriali e/o settoriali. Nel caso in cui gli accordi non lo prevedano, sono comunque stabilite altre modalit di adesione. Il dispositivo della Dote applicato alla formazione al lavoro si prefigge di sollecitare la domanda formativa individuale, con lobiettivo di costruire una risposta efficace, puntuale e il pi possibile su misura, capace di sostenere i soggetti soprattutto nei momenti di difficolt e transizione lungo il loro corso di vita. In questo senso, tale
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dispositivo ricalca come detto limpostazione del sistema socio-sanitario lombardo, adottando un approccio demand side, che parte cio dal bisogno espresso dal destinatario finale per costruire lofferta. Si tratta certamente di un dispositivo innovativo e importante. Non solo esalta la libert di scelta del soggetto e stimola la partecipazione alla formazione, ma rende anche visibile allutente finale il costo di investimento pubblico della formazione stessa: un aspetto certo positivo che pu rafforzare la responsabilit individuale al riguardo. La sua messa a regime non per scevra da elementi di criticit, sia per il sistema formativo (e la possibilit di costruire progettare lofferta a fronte di una domanda fluttuante; ci che rende fluttuanti di conseguenza anche le risorse), sia per gli stessi potenziali utenti che hanno come evidente diversa capacit di riconoscere ed esprimere il loro bisogno formativo, nonch di sfruttare a loro vantaggio il dispositivo stesso. Limpatto di questo orientamento demand side (che si ispira a una concezione del welfare di tipo asset-based) anche con riferimento alla formazione non pu certo ancora essere valutato pienamente, e tuttavia appare chiaro gi sin dora che il suo successo dipende fortemente da alcune precondizioni che sono in buona parte da sviluppare o quantomeno da rafforzare: tra le altre, una rete stabile tra enti formativi che consenta loro di riconoscersi in interessi comuni; modalit strutturate di presa in carico e accompagnamento dei soggetti nei processi di scelta (con lobiettivo anche di qualificare tale scelta); servizi di certificazione delle competenze. 2.5. Le politiche per il contrasto alla povert e per linclusione sociale dei soggetti svantaggiati Se prendiamo a riferimento la spesa regionale per gli interventi di politica sociale e socio-sanitarie nelle sue diverse componenti di finanziamento e la sua allocazione tra le diverse funzioni (ultimi dati riferiti al 2003), notiamo che larea specifica dellemarginazione (dipendenze, povert, carcere) e dellimmigrazione certamente un ambito di intervento residuale (Gambino, 2005). Per questa tipologia di destinatari, le politiche regionali prevedono servizi e interventi di assistenza socio-sanitaria e quindi progetti di inserimento o reinserimento. Come lo stesso sistema della Dote mette in luce, e come gi appariva nel commento che abbiamo proposto sulla l.r. 23/1999, il principale canale attraverso cui combattere il rischio di povert e di esclusione sociale , secondo il legislatore regionale, loccupazione. Di questo orientamento si trova traccia esplicita nel Piano Socio-Sanitario Regionale 20072009, ossia nel documento di indirizzo pi recente. In esso si stabilisce che i programmi di inclusione sociale dovranno prevedere azioni di reinserimento sociale, abitativo e lavorativo mediante lindividuazione di modalit di intervento sistemiche e lo sviluppo di un sistema integrato di interventi finalizzati a contrastare i processi di esclusione sociale, le situazioni di nuove povert e di abbandono sociale, ancorando i progetti nellottica del rispetto della dignit umana e del raggiungimento di obiettivi centrati sulla persona. La logica che il legislatore regionale fa propria considera la gestione non pi una questione di compensazione di svantaggi ma prevalentemente di prevenzione del rischio mediante laffermazione di standard di normalit. In questottica, tra gli obiettivi che vengono considerati prioritari, vi sono, in particolare, la sperimentazione: i) di modalit di intervento integrative e/o migliorative dellofferta al fine di garantire una maggiore fruibilit del sistema dei servizi anche attraverso la
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realizzazione di strategie collaborative tra pi attori e processi; ii) di iniziative di reinserimento e reintegrazione sociale di formazione professionale, lavorative per promuovere lautonomia delle persone. Ugualmente, anche per quanto concerne gli stranieri, il piano insiste sulla promozione della regolarit della stabilit del soggiorno, il che significa principalmente, secondo quanto stabilito dalla normativa nazionale, la stabilit della condizione lavorativa. Il legame tra inclusione, autonomia individuale e occupazione risulta forse ancora pi evidente nel Programma Operativo Regionale 2007-2013 che, come espressamente affermato al suo interno, incentrato sul conseguimento degli obiettivi di crescita sanciti nella Strategia di Lisbona e, in specie, sul rafforzamento delle competitivit delleconomia regionale e della coesione sociale. Se limitiamo lanalisi alle misure previste lungo lasse Inclusione Sociale, notiamo in primo luogo come lattenzione ricada sugli immigrati, i disabili e le persone in condizioni di svantaggio sociale, considerate come le fasce di popolazione pi esposte al rischio di esclusione. Il Por 2000-2006 aveva insistito in primis su interventi a carattere formativo e quindi su percorsi innovativi di integrazione e forme di sostegno. La nuova programmazione, nellauspicare il consolidamento dei sistemi di governo delle politiche in materia, sembra invece puntare in modo pi deciso sullinserimento nel mercato del lavoro. A tal proposito richiama, ad esempio, nelliniziale analisi di contesto, le esperienze positive condotte in tema di collocamento dei soggetti disabili (L. 68/99) e quindi indica la scelta di procedere nella medesima direzione, vale a dire verso il perfezionamento delle dinamiche di incontro tra domanda e offerta. Laddove, poi, si vanno a precisare nel dettaglio la strategia e le priorit di intervento, lobiettivo prioritario lungo lasse inclusione sociale viene indicato nel miglioramento delle possibilit di accesso e di permanenza nel mercato del lavoro da parte delle categorie deboli, da conseguirsi accrescendo la sicurezza e la stabilit del lavoro e riducendo i fattori di precariet e di esclusione. In merito agli strumenti e agli interventi da implementare, viene precisato che essi saranno promossi attraverso il consolidamento del modello a scelta individuale e valorizzando la forma progettuale e organizzativa di integrazione pubblico privato e tra operatori della filiera orientamento-istruzione-formazione previste dalla legge regionale di riforma del mercato del lavoro. In termini di risorse, lintervento nellarea inclusione sociale pesa per circa il 10% sul bilancio finanziario del POR 2007-2013. In chiusura, va sottolineato che in materia di povert ed esclusione sociale non vi , a livello regionale, una legge quadro. Piuttosto, vista la multidimensionalit delle questioni, si rimanda ai provvedimenti legislativi inerenti le diverse aree di bisogno. 2.6. Alcuni spunti di riflessione: ricomporre il vaso infranto Quanto sinora discusso in merito ai presupposti culturali, agli orientamenti politici e alle scelte legislative che hanno indirizzato il processo di riforma del welfare locale getta senza dubbio luce sulla specificit e sulla rilevanza dei cambiamenti introdotti in Lombardia in ambito sociale e socio-sanitario. Limpianto di programmazione, gestione, erogazione delle politiche che ha progressivamente preso forma costituisce, in effetti, unesperienza unica nel panorama nazionale, sia per il portato di innovazione a esso abbinato, sia per la complessit delle trasformazioni avviate.
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Volendo riprendere quanto si argomentato nelle pagine precedenti e si cercato altres di riassumere in veste grafica in chiusura, il welfare regionale si contraddistingue almeno per due aspetti. In primo luogo per il rinnovato modello di governance, costruito a partire dallaffermazione del principio di sussidiariet, verticale e orizzontale (Griglia 1), sostenuto ai sensi della normativa nazionale, ma al tempo stesso rafforzato tramite le leggi regionali. Trasversalmente alle aree di politica, la legislazione regionale ha infatti sancito in modo puntuale la ripartizione delle funzioni tra i diversi livelli e attori del sistema di welfare. Nello specifico: la Regione ha mantenuto in capo a s i compiti e le responsabilit di indirizzo, programmazione, coordinamento e, mediante propri enti strumentali, di controllo e verifica; Province e Comuni concorrono, secondo competenze specifiche e in ambiti distinti, alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi stabiliti in sede regionale; nellottica della valorizzazione delle molteplici formazioni sociali attive sul territorio, il terzo settore nelle sue molteplici espressioni stato chiamato a compartecipare ai processi di programmazione delle politiche, a livello regionale e locale. In tale prospettiva, si sono previste apposite modalit di promozione della societ civile e delle sue forme associative, nonch tavoli di rappresentanza del terzo settore ai diversi livelli e nei diversi contesti istituzionali. In secondo luogo, per gli strumenti e le modalit adottati per dare seguito al bisogno sociale e socio-sanitario. In effetti, con lo scopo di stimolare e valorizzare le soluzioni che si originano dal basso e dunque sostenere la trasformazione diretta dellofferta a seguito della variazione della domanda ovvero della trasformazione dei bisogni si operato per favorire la competizione di pi soggetti erogatori in un sistema di quasimercato, in cui il pubblico interviene tanto a tutela della qualit del servizio quanto obiettivo esplicito di tutte le politiche a garanzia della libert individuale di scelta. Di qui la spinta in direzione di un maggiore pluralismo dellofferta, di prestazioni e servizi e di soggetti erogatori degli stessi, e della diffusione dei titoli sociali; del voucher innanzitutto, e il sistema della Dote poi, strumenti pensato per attivare il soggetto nella definizione delle risposte alla propria condizione di bisogno e, al contempo, per riprogettare la logica del welfare stesso, capovolgendo, come detto, il rapporto tra risposte e bisogni. La profonda trasformazione istituzionale di cui abbiamo dato conto si completata, come indicano le leggi regionali prese in esame, soltanto di recente; questo significa che gli effetti e i risultati del percorso di riforma si manifesteranno in modo compiuto negli anni a venire ed dunque imprudente avventurarsi in valutazioni a carattere definitivo. Ci detto, pare in ogni caso opportuno iniziare a investigare quelli che sembrano essere alcuni nodi chiave del sistema; nodi che concernono limpatto prodotto sia sui soggetti che costituiscono la rete del welfare locale sia sugli utenti dei servizi e che riguardano, principalmente, le fasi di progettazione e di gestione delle politiche. Nel fare questo la nostra riflessione poggia, oltre che sulla letteratura disponibile, sulle valutazioni e le considerazioni che abbiamo raccolto in questa prima fase della ricerca, in specie a seguito delle interviste compiute a diversi attori istituzionali operanti a livello regionale e ad alcuni soggetti del terzo settore.
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In merito alla prima fase, la progettazione, una questione fondamentale sicuramente il grado di effettivo coinvolgimento degli enti locali e dei soggetti del terzo settore. Al di l di quanto stabilito in via normativa, vi infatti la sensazione che la Regione eserciti un ruolo decisionale e deliberativo forte, quasi esclusivo, secondo alcuni osservatori ponendosi quasi a un livello superiore e comunque limitando di fatto il contributo degli enti locali e del terzo settore alla ratifica delle scelte politico-programmatiche compiute. Del resto, lattore istituzionale a governare in larga misura la composizione dei tavoli di confronto. Nella costruzione di questo rapporto, virtualmente sussidiario, tra gli attori del welfare, non va dimenticato che hanno un peso indubbio le difficolt dei soggetti del terzo settore a costruire tra di loro connessioni solide e articolate e a ricomporre la loro eterogeneit di fondo in forme significative di rappresentanza, come pure la carenza di molti Comuni in termini di risorse conoscitive e competenze specifiche sulle materie sociali e socio-sanitarie. Lo stesso sembra valere anche a livello comunale o distrettuale dove, secondo un orientamento che pare piuttosto diffuso, gli enti locali tendono a declinare la sussidiariet prevalentemente sotto forma di coinvolgimento degli attori sociali nella validazione delle decisioni prese e nellerogazione delle prestazioni e dei servizi pi che nella programmazione degli stessi. Ad ogni buon conto, le interviste condotte rivelano che, proprio a questo livello, si scorgono chiare tracce di una collaborazione tra attore pubblico e terzo settore anche per quanto concerne la definizione delle modalit di risposta al bisogno. Si tratta di una collaborazione che avviene per soprattutto in via informale, non istituzionalizzata, primariamente tra i funzionari e i tecnici degli enti locali e gli operatori del terzo settore e i cui risultati vengono ricomposti e restituiti agli organi politici sotto forma di proposte progettuali da parte degli stessi ruoli tecnici. Sul versante gestionale, le principali questioni aperte hanno a che vedere tanto con gli erogatori delle prestazioni (e quindi con gli operatori) quanto con gli utenti dei servizi. Come Magatti (2008) ha fatto notare di recente, la traduzione operativa del principio della libert di scelta, cos ampiamente enfatizzato dalla legislazione regionale, si misura in verit sia con le reali capacit e dotazioni degli individui, sia con la consistenza dellofferta. Precondizioni indispensabili per lesercizio della libert di scelta sono allora la presenza di pi erogatori di un medesimo servizio, situazione che richiede rilievo non secondario laggiustamento delle logiche, delle modalit progettuali, dellofferta fornita da molti enti abituati a operare in regime di monopolio; ma soprattutto la possibilit che i soggetti, specie quelli pi vulnerabili ed esposti, siano in grado di interpretare la facolt che loro assegnata non come un onere aggiuntivo ma come una risorsa. Questo in un quadro in cui lutente si trova tendenzialmente in una condizione di asimmetria informativa rispetto al servizio di cui necessita oppure, a motivo del modo in cui progettato il sistema dei voucher, si trova a sperimentare difficolt nel cambiamento dellerogatore del servizio stesso qualora insoddisfatto; senza contare che lo stesso dispositivo dei voucher implica una catalogazione a priori dei servizi che rischia di non intercettare pienamente la domanda, precostituendo pacchetti standard costruiti su un profilo tipologico di utente, pi che sulla singola persona. Da ultimo, per quanto attiene lintegrazione delle politiche oggetto di approfondimento, come mostra quanto riportato nelle Griglie 2 e 3, sia in termini di competenze istituzionali che di strumenti di programmazione, ad un primo sguardo pare di notare una certa cesura tra gli ambiti sociale e socio-sanitario e quello socio-economico. In verit, quella che sembra una separazione per aree funzionali piuttosto marcata (a livello
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regionale), trova tuttavia ricomposizione laddove le azioni di politica sono pensate a contrasto dellesclusione sociale, con questultima condizione intesa originariamente a sinonimo di grave emarginazione e ora, a seguito dellattuale fase congiunturale, anche di disoccupazione. Daltro canto, riprendendo quanto gi discusso nelle pagine precedenti, nellimpianto del welfare lombardo il lavoro retribuito viene considerato la migliore protezione contro la povert e lesclusione sociale nonch, pi in generale, il principale strumento di attivazione e acquisizione di una condizione di autonomia individuale. In questo senso si pu dire che lapproccio lombardo al welfare affine al modello workfarista e asset-based. Lintegrazione delle politiche nella prospettiva del reinserimento socio-occupazionale appare peraltro, in tempi segnati, anche in regioni quali la Lombardia, dalla ordinariet dellesposizione al rischio di una parte consistente della popolazione, una scelta imprescindibile. Questo perch la vulnerabilit in parola una situazione causata dalla fragilit del soggetto su pi versanti labitazione, lo stato di salute, il lavoro, il capitale umano e, soprattutto, la rete di relazioni in cui inserito e dunque invita di per s, come ci stato suggerito in sede di intervista, a superare lidea che le politiche siano settoriali e quindi vadano progettate in risposta a profili tipologici, a categorie definite di bisogno; piuttosto richiede una risposta effettivamente personalizzata, vale a dire costruita secondo le esigenze, le risorse e le condizioni reali del beneficiario. Ma questo richiede un intervento complesso, che sappia ricomporre quanto frantumatosi nel confronto con le c.d. nuove povert e, prima ancora questa sembra essere la logica sottesa allintervento del welfare regionale , prevenire possibili rotture nelle biografie individuali. Qui sta un ulteriore nodo del sistema: la necessit di ricomporre le politiche sin dalla fase di progettazione significa dotare gli operatori, e pi in generale il territorio, di competenze e strumenti in grado di rispondere alla complessit crescente dei bisogni, di opportunit reali di confronto e raccordo. Ci almeno se la logica di intervento intende essere capovolta e si vuole passare dalla compensazione alla ricomposizione e alla prevenzione. Altrimenti, come stato sottolineato in sede di intervista, unintegrazione delle politiche che parta dal basso rischia di essere come il tentativo di incollare un vaso rotto: il risultato un vaso aggiustato, che resta fragile, mentre occorrerebbe riprogettarlo da capo. Anche in questo la Lombardia pare essere un laboratorio davvero interessante e certamente sede di elaborazione di buone pratiche. In questa prospettiva, come confermato da numerosi testimoni privilegiati (delle istituzioni e del mondo del terzo settore) da noi intervistati, la scelta di scegliere la citt di Milano come case study locale appare particolarmente felice ancorch molto impegnativa, data la sua complessit. Felice perch vivace sotto il profilo della innovazione istituzionale, della partecipazione degli enti no profit e della societ civile. Basti pensare, solo per lanciare un tema che sar oggetto di indagine, alla riflessione aperta a Milano sulla necessit di sperimentare strumenti di prossimit quali il segretariato sociale, ovvero lo sportello unico. Impegnativa perch, in forza del suo ruolo di capoluogo regionale, e dunque del suo peso politico, ma anche in virt del suo essere capitale economica, snodo di una rete transnazionale, meta privilegiata di immigrazione, e molto altro ancora, rappresenta una realt per certi aspetti unica e atipica dentro al contesto lombardo, pur nella continuit politica che lega il governo della Regione e quello del Comune.

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Griglia 1: larchitettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro
Fasi di policy Minori Programmazione Rapporti istituzionali Ambiti di policy Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Governance orizzontale Tipicit del modello Gestione Fonti di finanziamento

Sussidiariet verticale: La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento, controllo e verifica Province e Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi (in via univoca alle Province spetta la programmazione delle politiche del lavoro sulla base degli indirizzi regionali) Sussidiariet orizzontale: programmazione partecipata a livello zonale mediante i Piani di Zona Mercato sociale regolato o quasi-mercato: accreditamento degli erogatori, secondo principi stabiliti a livello regionale Fondo nazionale politiche sociali Fondo Sociale regionale Fondo socio-sanitario Fondo Sociale Europeo 2007/2013 L. 53/2000 L. 53/2000 L. 236/1993 L. 388/2000 Pacchetti anticrisi 2009

Strumenti di erogazione

Servizi e strutture Titoli sociali: buoni e voucher sociali

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Griglia 2 Gli strumenti di programmazione e i livelli di competenza


Minori Strumenti di programmazione Ambiti di policy Conciliazione Inclusione l.r. 13/03 Promozione allaccesso al lavoro delle persone disabili e svantaggiate" Formazione e lavoro l.r. 19/07 Norme sul Sistema Educativo di Istruzione e Formazione della Regione l.r. 22/06 Il Mercato del Lavoro in Lombardia

l.r. 23/99 Politiche Regionali per la Famiglia

l.r. 34/2004 Politiche Regionali per i Minori l.r. 28/04 Politiche Regionali per LAmministrazione e il Coordinamento dei Tempi delle Citt l.r. 22/2006 Il Mercato del Lavoro in Lombardia l.r. 3/08 Governo della Rete degli Interventi e dei Servizi alla Persona in Ambito Sociale e Socio-Sanitario POR ob.2 FSE 2007-2013 Piano Socio-Sanitario (2007-2009) Linee dindirizzo per la programmazione dei Piani di Zona Dipartimento Famiglia e Solidariet Sociale

Piano di azione regionale per il lavoro Dipartimento Istruzione, Formazione e Lavoro

Livello istituzionale di competenza

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Griglia 3 Il network degli attori coinvolti


Attori coinvolti Minori Pubblico anche in qualit di ente promotore, capofila, coordinatore Ambiti di policy Conciliazione Inclusione Enti locali Asl Osservatorio Regionale sui Minori Commissione Regionale pari opportunit Consiglieri/e regionali e provinciali di parit Asl Osservatorio Regionale sullEsclusione Sociale Osservatorio Regionale per lIntegrazione e la Multietnicit Osservatorio regionale dipendenza Agenzia Regionale per listruzione, formazione e lavoro Osservatorio Regionale sul mercato del lavoro Commissioni regionale e provinciali per le politiche del lavoro e della formazione Centri formazione professionale Formazione e lavoro

Centri per limpiego Centro Risorse Regionale per lintegrazione delle donne nella vita economica e sociale Organizzazioni sindacali e datoriali Parti sociali Privato sociale Enti, associazioni, fondazioni, cooperative sociali di vario genere Comunit per minori Servizi scolastici ed educativi accreditati Imprese Associazionismo e volontariato Operatori accreditati per servizi istruzione e formazione professionale, servizi al lavoro, servizi alla formazione

Privato Societ Civile

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3. Il modello Milano8

3.1. Premessa. I principi cardine del welfare milanese Ricostruire il quadro del sistema di welfare di una metropoli complessa come Milano impresa ardua, quandanche lattenzione si focalizzi solo sul Comune. La connotazione di Milano come nodo di una rete di connessioni transnazionali; il suo essere attraversata da flussi materiali e simbolici, di risorse e di persone, che si svincolano dallo spazio per seguire logiche funzionali e fanno della mobilit la norma della vita urbana; la necessit realizzare di una mediazione continua tra dimensione locale e scenario globale mediazione su cui si gioca la possibilit di continuare a creare socialit, a costruire integrazione e coesione sociale sono tutti aspetti che rendono vivida limmagine di Milano come citt infinita (Bonomi, 2008; Magatti et al. 2005). Unimmagine utilizzata spesso per dare conto di questa sua estroflessione verso lesterno, dellimpossibilit di definirne confini certi, non tanto da un punto di vista amministrativo (sebbene anche gli stessi confini amministrativi, come sempre accade nelle citt metropolitane, seguano criteri discutibili in relazione al continuo sviluppo della morfologia urbana) quanto sotto il profilo economico, sociale, culturale, comunicativo, identitario. Unestroflessione che rende arduo discriminare tra insider e outsider; tra le moltitudini di city users, non residenti, che quotidianamente vivono e rendono pulsante cuore cittadino, e coloro che, al contrario, vivono esperienze di lavoro e relazionali che si snodano ben oltre la loro residenza milanese o ancora quegli immigrati soggiornanti ma non residenti, magari inseriti nelleconomia locale ma senza pieno accesso alla cittadinanza sociale. Da questo punto di vista il problema certo quello della mobilit e dei flussi che attraversano la citt, che portano in primo piano la dimensione funzionale del territorio al posto di quella integrativa (Magatti, 2007), ma anche quello della definizione dellappartenenza alla comunit locale, e per converso della strutturazione a volte implicita di processi di esclusione, rispetto ai quali le politiche locali devono tenere alta la guardia. La portata di questultima affermazione si comprende laddove ci si addentri nellanalisi delle politiche sociali del Comune, che individuano nei paradigmi della welfare community e nella community care rispettivamente il modello e la filosofia del sistema di welfare locale, e dove la capacit di attivare la cittadinanza (tutta) e di garantire un approccio universalistico divengono requisiti ineludibili. Avendo sullo sfondo questa premessa, proviamo a capire meglio come effettivamente si sostanziano tali due paradigmi nella realt di Milano, ben sapendo che si tratta di paradigmi invalsi ogniqualvolta si mette a tema la specificit del welfare territoriale, partecipato e attivo (cfr. capitolo introduttivo), ma che di fatto si precisano in ogni contesto secondo le scelte politiche operate. I documenti di programmazione comunali, su tutti il Piano di Zona, offrono una chiara definizione di quali siano i capisaldi normativi e valoriali del sistema di welfare comunale (e dunque dei due termini appena richiamati); a essi ci riferiremo in via elettiva sia in questa premessa, sia nel prosieguo, laddove quanto emerso dalla lettura
di Rosangela Lodigiani ( 3.1) ed Egidio Riva ( 3.2, 3.3, 3.4); gli autori insieme hanno redatto il paragrafo conclusivo (3.5).
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critica dei documenti si integrer con la letteratura disponibile e con le risultanze dellindagine che abbiamo effettuato sul campo. A partire dallindagine condotta emergono con chiarezza alcuni punti cardine del welfare municipale. Essi sono: I) la continuit politica e strategica in cui si muove il Comune rispetto al quadro di riferimento fornito a livello regionale; continuit sostenuta anche dalla omogeneit del colore politico tra della giunta regionale e quella comunale; II) la specificit del modello di welfare locale, in ragione sia dellarticolazione data agli assessorati, alle scelte di accorpamento dei settori, di cui discuteremo; sia della leadership forte esercitata dallAssessorato (e dallAssessore stesso) alla Famiglia, Scuola, e Politiche sociali; sia dalla vitalit della societ civile cittadina, intessuta di associazionismo, volontariato, cooperazione sociale, nonch dalla consuetudine della cittadinanza, in forme variamente organizzate, a partecipare alla produzione del welfare locale, ancor prima che gli strumenti legislativi precisassero il quadro normativo in cui ci si sarebbe potuto realizzare e rafforzare ulteriormente; sia non ultimo alla dimensione mono-comunale del Piano di Zona, che consente di avere una visione integrata del territorio e di sottrarsi a dispendiose negoziazioni tipiche dei documenti di programmazione predisposti da pi comuni di piccole dimensioni in forma associata; III) la contiguit con i principi del welfare attivo; contiguit che, come precisato nel Piano di zona 2009-2011, induce, da un lato, a passare da politiche di protezione a politiche di attivazione e partecipazione e da modelli di government a forme di governance; dallaltro lato enfatizza la promozione dellautonomia della persona e della vita indipendente. Ci comporta un riposizionamento dellente pubblico, che ridimensiona il suo ruolo di gestore e rafforza quello di regia, regolazione, monitoraggio e controllo di un sistema di welfare in cui si integrano pubblico e privato; IV) una propensione alla sperimentazione e allinnovazione nel campo della progettazione delle politiche e della realizzazione di servizi, anche con il supporto della societ civile, il raccordo con le universit milanesi, lapporto delle Fondazioni private (come la Fondazione Cariplo); Ci detto, i principi che si situano alla base della programmazione delle politiche sociali socio-sanitarie, possono essere sintetizzati come segue, lasciando ai paragrafi successivi il compito di entrare nel merito: 1. un modello di governance fondato sulla sussidiariet orizzontale, sociale, secondo il paradigma della community care. Il che implica valorizzare, ai sensi della normativa nazionale e regionale, la piena espressione delle capacit progettuali dei soggetti pubblici e privati, in particolare appartenenti al terzo settore, sostenendo la cittadinanza attiva. Ma ci implica anche nella visione che precipuamente regionale e municipale riconoscere la centralit della persona e segnatamente della famiglia, come soggetti primari della costruzione societaria complessiva. Pi precisamente la famiglia viene vista come attore protagonista del welfare locale, e come tale viene incoraggiata e sostenuta; 2. un sistema di servizi flessibile ed eterogeneo; un modello di prestazioni che punta alla personalizzazione ai fini di uneffettiva presa in carico della persona; la
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centralit della libert di scelta dei cittadini rispetto alle unit dofferta che compongono rete sociale e sociosanitaria. 3. la prossimit come metodo, ovvero lo sforzo di raggiungere le persone che nel contesto cittadino sono in situazione di disagio tale da non riuscire a (o non sapere come e a chi) chiedere aiuto. In questa cornice si situano il progetto dei Custodi sociali e del Segretariato sociale o porta sociale unica; 4. lintegrazione tra le politiche sociali e quelle educative, individuando in questo raccordo un motore di un autentico sviluppo e di coesione sociale, che punta sulla qualit del capitale umano e sociale della citt; 5. pi in generale la ricerca di una maggiore integrazione delle politiche di welfare, nella consapevolezza acuita dalla fase di crisi che la complessit delle situazioni di bisogno, disagio, vulnerabilit esigono risposte esse stesse complesse. Tale integrazione si rende altres necessaria considerando la trasversalit di tali situazioni rispetto alla popolazione, che richiedono politiche non mirate su specifici target di persone. Questultimo punto ci consente di proporre una riflessione importante in sede di premessa. La crisi economica e occupazionale che sta travagliando Milano, come il resto del nostro paese e oltre, rende tangibile quanto il fenomeno della vulnerabilit interessi fasce sempre pi ampie di popolazione, che si possono trovare inserite in circuiti di mobilit discendente e impoverimento in modo imprevisto e repentino. Ci che pi colpisce, e con cui le politiche di welfare locale di si devono misurare in questo frangente, che a ricadere in queste spirali discendenti possono essere anche i soggetti tradizionalmente pi protetti, come i lavoratori adulti, o persone che affrontano scelte quotidiane senza che vi siano adeguati sistemi di protezione. Da questo punto di vista, importante sottolineare che come ben illustrato da Saraceno (2003) , mentre si discute molto degli effetti negativi della dipendenza dal welfare, il cui antidoto starebbe nellattivazione non abbastanza si riflette sui fenomeni di indebolimento delle risorse e delle capacit, derivanti dalladesione a stili di vita e comportamenti normali, responsabili: per esempio, accettare un lavoro qualsiasi perch d reddito e sicurezza, anche se non offre prospettive di qualificazione o acquisizione di competenze; investire, se donne, prioritariamente nel lavoro famigliare e di cura; avere un figlio in pi, sposarsi e avere figli molto giovani; indebitarsi per comprare un alloggio. Avendo a mente queste premesse, ci addentriamo ora nelle politiche del welfare municipale milanese, prestando attenzione ad alcune specifiche aree di policy: famiglia e minori, conciliazione lavorativa, povert ed esclusione sociale, formazione e orientamento al lavoro. 3.2 Il processo di riorganizzazione dei servizi sociali: le principali linee guida Il sistema di offerta dei servizi sociali, socio-sanitari ed educativi a Milano si venuto strutturando secondo logiche programmatorie e organizzative mirate a creare integrazione e sinergie crescenti tra differenti aree di politica e intervento; questo, come ricordato nella premessa, nella prospettiva della valorizzazione della famiglia quale soggetto attivo nella rete dei servizi e in attuazione del principio di sussidiariet orizzontale, dunque mediante interventi congiunti e intese tra pubblico e privato. in particolare nellambito dellassessorato ai servizi sociali che questo processo di
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integrazione ha preso forma, anche dal punto di vista prettamente istituzionale. Invero, nel 2006 con lavvento della giunta Moratti, si assistito, per la prima volta nella storia dellamministrazione locale, allunificazione delle politiche e degli interventi educativi e sociali in capo ad un unico assessorato ora denominato Famiglia, Scuola, Politiche sociali con competenze specifiche nella definizione, promozione e sviluppo di politiche, attivit, iniziative in tema di: sostegno alle famiglie e alle madri, anche in tema di conciliazione tra vita familiare e lavoro; disagio sociale, emarginazione, dipendenze; servizi e sostegno in favore degli anziani; attivit educative, didattiche e pedagogiche; sostegno alle vittime di violenza fisica e psicologica; integrazione e inserimento degli immigrati regolari; pari opportunit. Antecedentemente a questo accorpamento, il settore dei servizi sociali e quello delleducazione rappresentavano gli ambiti pi importanti della macchina amministrativa, in termini di mezzi e risorse a disposizione, e si caratterizzavano altres per forti peculiarit funzionali e operative. Se quindi, da un lato, lunificazione delle deleghe assessorili, oltre a consentire unindubbia razionalizzazione del personale impiegato e delle risorse stanziate, rappresenta in s un passo fondamentale verso lintegrazione di alcune importanti aree di policy, dallaltro lato, questo stesso percorso di integrazione, proprio in virt di specificit organizzative e gestionali sedimentatesi nel tempo nei diversi settori, si fa talvolta difficoltoso. Ma di questo punto specifico avremo comunque modo di tornare a discutere pi avanti (cfr. 3.5). Ora invece, per restare al nucleo del processo di riorganizzazione funzionale e istituzionale, va detto che esso si propone di superare la logica di intervento settoriale, mediante il coordinamento di pi aree di politica e servizi, e di favorire inoltre un approccio socio-educativo integrato, inteso come la strategia vincente per affrontare il bisogno, specie larea delle cosiddette nuove povert. Si ritiene, infatti, che ogni bisogno assistenziale abita, oggi ancor pi, le ragioni e le regioni del bisogno esistenziale e chiede, dunque, un riconoscimento (non solo appagamento), relazioni (e non solo prestazioni), attesa (e non solo pretesa); leducativo che si coniuga, o meglio si innerva, nel e col sociale restituisce dignit alla persona, alla famiglia, alla comunit, nellineludibile intreccio, per una virtuosa reciprocit, tra diritti e doveri (Piano di Zona 2009-2011, p. 112); il che spiega la centralit assegnata alla coniugazione di competenze e risposte sociali e pedagogiche nella formulazione delle politiche e delle azioni concrete. Al centro di questo rinnovato intervento dei servizi sociali vi , come accennato, la famiglia, nella sua duplice dimensione e funzione di collettore dei bisogni e destinatario dei servizi, per un verso, ma anche, per un altro verso, di soggetto sociale in grado di produrre, in interazione con il sistema dei servizi e le reti associative territoriali, le risposte occorrenti al superamento delleventuale disagio. In questottica, come dichiarato formalmente nel Piano di Zona 2009-2011, obiettivo dellazione amministrativa quello di dare vita a servizi incentrati direttamente sulla famiglia ed espressamente dedicati ai nuclei familiari, superando in questo modo una interpretazione settoriale delle politiche di welfare che, si ritiene, ha invece rischiato di sottovalutare la dimensione familiare dei bisogni e delle risposte. Ci presuppone il
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passaggio da una risposta di tipo assistenziale, formulata in chiave di riparazione, a un intervento preventivo e promozionale mirato, in una visione pro-attiva, ad accompagnare, per quanto possibile, gli individui e le famiglie verso il conseguimento di una condizione di vita autonoma. Oltre al cambiamento nellassetto istituzionale, nellambito dei servizi sociali sono riscontrabili modifiche di rilievo anche in proposito al metodo adottato. In particolare, nel tentativo di portare alla luce aree grigie, nascoste, di bisogno, e di incrementare laccesso spontaneo ai servizi, si intrapresa la via dellintervento di prossimit vale a dire di una maggiore presenza, vicinanza e accessibilit degli operatori e dei servizi sociali sul territorio , nel tentativo di intercettare anticipatamente il bisogno e fornire risposte pi rapide ed efficaci. In proposito, merita di essere segnalato lintervento di prossimit realizzato attraverso il servizio di Custodia e Portierato Sociale. Si tratta di un servizio che prevede, in particolare nei quartieri ad alta concentrazione di edilizia residenziale pubblica, la presenza di operatori sociali che, in collaborazione con i servizi sociali territoriali del Comune: raccolgono le segnalazioni di bisogno; informano, orientano, accompagnano i cittadini e le famiglie, specie i soggetti e i nuclei pi esposti, allaccesso e utilizzo dei servizi, pubblici e privati, disponibili sul territorio; attivano un monitoraggio complessivo della situazione socio-sanitaria degli stessi quartieri della citt. Sulla stessa linea di valorizzazione della prossimit come risposta alla fragilit e alla solitudine che ad essa spesso si combina, si pone anche il Segretariato Sociale, su cui ci soffermeremo, in ragione delle caratteristiche di innovativit del servizio, pi avanti nel rapporto (cfr. 3.5). 3.3 Il sistema della governance e i suoi nodi La struttura istituzionale e culturale del welfare locale si fonda sul principio della sussidiariet, in accordo con quanto stabilito dalla gi citata l.r. 3/2008 sul Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario. Come viene pi volte richiamato nei documenti di programmazione sociale, socioeducativa e socio-sanitaria del Comune, lattuazione di un tale riferimento normativo e valoriale significa per lente locale adottare limpostazione e la prassi tipica della welfare community, ossia di un sistema nel quale il privato, il terzo e quarto settore condividano con lente locale la programmazione e gestione dei servizi, ponendosi in questo modo quale componente essenziale della risposta al bisogno sociale. Per la precisione, si afferma che, mentre per un verso, al Comune spetta, a garanzia e tutela del bene comune, il compito di stabilire le priorit, definire lassetto e lorganizzazione di interventi e servizi e provvedere al loro finanziamento, per un altro verso, la progettazione e la programmazione sono da intendersi piuttosto come il risultato della condivisione di proposte che salgono dal territorio e che sono stabilite in modo congiunto tra i diversi attori del pubblico, del privato e del privato sociale. In questa cornice generale il Piano di Zona chiarisce linterpretazione che il Comune di Milano d del principio della sussidiariet, in specie laddove si rimanda, come anticipato nella premessa (3.1), a un riposizionamento strategico dellente pubblico, che ridimensionando il ruolo di gestione, rafforzi quello di regia, di regolazione, di monitoraggio e controllo del sistema di welfare pubblico e privato (Piano di Zona 2009-2011, p. 6). La sussidiariet orizzontale, anche e principalmente in termini prospettici, viene dunque declinata nei termini di una valorizzazione delle risorse del
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territorio nella fase gestionale; valorizzazione che, resa possibile grazie al ricorso crescente allo strumento dellaccreditamento9 secondo standard di qualit stabiliti dal Comune, significa, anzitutto, il riconoscimento delle competenze e responsabilit specifiche dei diversi soggetti che compongono il welfare locale. E tuttavia, proprio questa lettura rappresenta un primo nodo cruciale del meccanismo della governance del sistema. Dallanalisi documentale e dalle interviste condotte ai rappresentanti dellente locale si colto, infatti, che lamministrazione cittadina sembra intendere la sussidiariet come distinzione tra la gestione dei servizi, dove il terzo settore ha pi la caratteristica del fornitore, e il governo generale del sistema10. Questa lettura, che in definitiva riflette nella prassi la tendenza (o la volont) a tenere separato il ruolo politico, di indirizzo generale, da quello di progettazione e gestione degli interventi e delle azioni specifiche, viene percepita, da parte degli attori del terzo che abbiamo incontrato, come una limitazione del proprio ruolo alla mera fase operativa, in veste di erogatori e realizzatori diretti di servizi e, di conseguenza, come una contrazione del contributo che essi potrebbero invece apportare nella fase di progettazione e decisione dinsieme. Tale questione richiama il secondo nodo fondamentale del sistema di governance: capire quale sia il reale spazio positivo e propositivo a disposizione delle diverse formazioni sociali, dove esso si collochi e in quali modalit possa essere da queste abitato. A tal riguardo, gli attori sociali che abbiamo interpellato rimarcano lesistenza di un duplice canale mediante cui fare emergere e portare allattenzione dellamministrazione comunale le istanze e i bisogni del territorio: uno di natura politica, formale e istituzionalizzato; laltro a caratterizzazione informale, costruito sulla rete tecnico-amministrativa che collega lente locale con i soggetti del terzo settore. Del primo canale fanno parte gli organismi di governance definiti in via istituzionale. In specie: lOrgano di partecipazione attiva della Comunit, costituito da una serie di realt associative di secondo livello e chiamato a contribuire alla definizione degli obiettivi e dei contenuti delle politiche sociali; i Tavoli Tecnico Tematici, costituiti dai rappresentanti di associazioni designate dellente locale in base allesperienza qualificata e continuativa, con funzione di analisi e progettazione tecnica in risposta ai bisogni sociali inerenti le aree minori, disabili, salute mentale, adulti in difficolt e anziani.

In merito allaccreditamento, basti in questa sede ricordare che sul finire del 2008 il Comune di Milano, al fine di garantire la libera scelta da parte dei cittadini nella scelta e nellutilizzo dei servizi e delle prestazioni e di sostenere al contempo la qualit dellofferta, ha costituito, in via sperimentale, un elenco unico dei soggetti accreditati per lerogazione di: i) servizi/interventi socio-educativi personalizzati per minori/adolescenti e loro famiglie; ii) servizi/interventi socio-assistenziali personalizzati per anziani; iii) servizi/interventi socio-assistenziali e socio-educativi personalizzati per disabili e loro nuclei famigliari. Elenco che, poich a carattere sperimentale, avr durata fino al termine del 2010. 10 A ulteriore precisazione utile riportare uno stralcio successivo dellintervista in questione, grazie al quale possibile mettere pi a fuoco il senso delle parole riportate. Lo stesso intervistato, che ricordiamo un responsabile comunale, ha poi aggiunto: Laver usato la parola fornitori ha generato una reazione forte da parte del terzo settore. Noi non siamo fornitori, siamo cogestori!. Da parte mia ho detto: Capisco il voler decidere, ma decidete nel concreto, perch siete voi che portate avanti lintervento. () Rispetto a quanto accadeva in precedenza adesso mi sembra ci sia una logica pi aperta, molto pi attenta e forse anche pi responsabile nei confronti di quelle che sono le titolarit e le responsabilit in ambito operativo.

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Il grado di istituzionalizzazione non sembra tuttavia assicurare il coinvolgimento auspicato da parte del terzo settore, ovvero la possibilit di concorrere effettivamente alla definizione e traduzione in pratica di strategie politiche complessive. Questo per ragioni legate, secondo i pareri raccolti, principalmente ai criteri di convocazione e alle modalit di partecipazione ai tavoli e agli organismi di rappresentanza. Va sottolineato, ad ogni buon conto, che la maggiore compartecipazione alla fase di progettazione, come pure il rinnovato protagonismo in materia di indirizzo del sistema di welfare aspetti certamente incoraggiati dal ruolo assegnato, entro il paradigma regionale e municipale, alla societ civile nelle sue diverse forme risultano altres disturbati, quantomeno in parte, dalla pluralit ed eterogeneit del terzo settore stesso. Invero, se la diversificazione e articolazione interna rappresentano, da una parte, un indubbio elemento di ricchezza per il territorio, dallaltra parte, nella misura in cui sono espressione di frammentazione degli interessi e delle esperienze, finiscono per costituire un freno allattuazione della sussidiariet. Pi in particolare, laddove non si trovano modalit e forme di ricomposizione di riferimenti valoriali e tradizioni certamente differenti, il terzo settore fatica inevitabilmente a dotarsi di una propria rappresentanza unitaria, diminuendo in questo modo il proprio peso politico, nonch la propria capacit di voice. Peraltro, di questo universo articolato fanno parte una pluralit di attori che sono contrassegnati da un diverso grado di strutturazione e da forti disparit circa il patrimonio di risorse (economiche, umane, di competenze) a disposizione. Ci comporta che in molti, appunto per questioni di natura organizzativa e strutturale, fatichino ad avere una propria rappresentanza nelle sedi istituzionali di governo delle politiche sociali, con il rischio che si perdano alcune letture dei bisogni del territorio e che, pertanto, la visione complessiva restituita al tavolo e allinterlocutore politico sia soltanto parziale. Detto questo, la governance del sistema delle politiche sociali, educative e sociosanitarie si sviluppa anche al di fuori dei tavoli istituzionali, nello scambio quotidiano di informazioni e proposte che si registra, a livello di personale tecnico e specialistico, tra componenti del terzo settore ed ente locale. Molti degli intervistati hanno infatti affermato che, pi che nelle sedi istituzionali, la programmazione parte effettivamente dal basso, senza tuttavia un preciso mandato o un riconoscimento di tipo formale: prende forma a partire dallinterlocuzione tra gli operatori del terzo settore e i referenti delle diverse aree di programmazione del Comune e, per tramite di questi ultimi, arriva allattenzione del livello politico. Come viene fatto rilevare si tratta, per, di una modalit che si sviluppa su singoli progetti e interventi ed dunque limitata nella propria portata. In aggiunta, poich, a carattere informale e individuale, risultato della sedimentazione di un rapporto diretto di conoscenza e di fiducia reciproca fondato sul riconoscimento delle rispettive competenze, per sua natura virtualmente provvisoria e volatile. Questo perch, specie nel caso di un mutamento nella struttura amministrativa e dunque di un ricambio delle figure di riferimento in capo allente locale, il processo va ricostruito tendenzialmente ex-novo. Eventualit che, va sottolineato, stata citata in pi di unintervista. 3.4 Le aree di programmazione 3.4.1 Area Minori e Famiglia
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Come parte della riorganizzazione istituzionale di cui si discusso in precedenza ( 3.2), nellarea di programmazione inerente i bisogni e le politiche delle famiglie stato avviato un importante processo di coordinamento delle attivit tra tre differenti Direzioni di Settore Politiche della Famiglia, Minori e Giovani, Infanzia con lo scopo di attuare azioni di sistema, in cui siano coinvolte tutte le risorse attivabili sul territorio, e a carattere trasversale, di modo tale da ridurre la segmentazione delle azioni e delle prestazioni offerte. Ciascuno di questi ambiti stato poi interessato da dinamiche e progetti peculiari. A tal riguardo, vale la pena di sottolineare, innanzitutto, linsieme degli interventi e dei mutamenti che hanno riguardato il Settore Politiche della Famiglia. Due, in particolare, sono le trasformazioni avvenute al suo interno. La prima data dal riassetto dei servizi sociali comunali. Il Servizio Sociale della Famiglia, presente in 18 sedi sul territorio e strutturato in 9 equipe di zona, divenuto il punto di riferimento per la famiglia, lunit di base per laccesso a tutte le diverse unit di offerta. Storicamente costruito, stando ai pareri raccolti in sede di indagine, in modo tale da rispondere alle sollecitazioni derivanti da provvedimenti dellautorit giudiziaria e quindi con una grossa capacit di intervento sociale di carattere professionale, ma per contro dotato di una limitata incisivit sul versante della prevenzione e della promozione delle attivit, il Servizio Sociale della Famiglia stato riorganizzato su due versanti. Da una parte nel solco di un cambiamento di prospettiva riguardo alle politiche sociali, nel passaggio da una visione puramente distributiva a una attiva, volta a favorire azioni di prevenzione, accompagnamento, supporto, responsabilizzazione e non solo interventi di ricomposizione di fratture gi prodottesi nel sistema familiare. Dallaltra parte, il processo di ristrutturazione si fondato sulladozione del prima citato paradigma socio-educativo integrato; il che ha comportato linserimento, in ciascuna delle sedi territoriali del servizio, di personale educativo con funzioni paritetiche nel processo di analisi e valutazione della situazione e nella definizione e conduzione della progettualit. Come risultato del nuovo assetto dato al Servizio, si registrato secondo i dati forniti dal Bilancio Sociale 2008 del Comune di Milano un deciso incremento delle richieste spontanee da parte dellutenza rispetto a quelle conseguenti a un mandato da parte della magistratura e, verosimilmente in accordo con la logica di promozione e di sostegno delle risorse presenti allinterno del nucleo familiare, una riduzione dellistituzionalizzazione o dellinserimento in comunit dei minori. In merito a questultimo punto non mancano, tuttavia, le voci critiche che sottolineano come il minore ricorso alle strutture comunitarie sia invece legato principalmente a questioni di tipo economico, ovvero alla volont dellente locale di contenere i costi a fronte di una disponibilit minore di risorse per le politiche sociali. La seconda linea guida costituta dalla revisione del sistema delle unit di offerta, mediante lapproccio e la logica dellaccreditamento (l.r. 3/2008). Come viene evidenziato nel Piano di Zona le unit di offerta del Servizio Sociale della Famiglia sono state riordinate in quattro categorie, a seconda che presentino prevalentemente carattere: preventivo e di sostegno (es. interventi economici, socio-educativi individuali per minori, adolescenti e loro famiglie, etc.); progettuale e promozionale; sostitutivo (comunit educative e familiari, etc.); specialistico. Di queste, in linea con la riqualificazione dellintervento in ottica preventiva e socio-pedagogica, sembrano aver acquistato rilevanza crescente le unit a prevalente carattere di sostegno, a discapito soprattutto delle azioni di stampo ripartivo e sostitutivo. Entro larea Minori e Famiglia ricade anche il sistema dei servizi educativi per linfanzia, che risponde ai bisogni delle famiglie con bambini in et prescolare,
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soprattutto, alle esigenze di custodia e di accudimento dei nuclei familiari con figli di et compresa tra zero e tre anni, la fascia lasciata tradizionalmente scoperta dal welfare italiano. Anche in questo ambito, come vedremo di qui a poco, si assistito prevalentemente alla riqualificazione, al potenziamento, alla diversificazione dei servizi presenti sul territorio. Relativamente allanno scolastico 2009/2010 lofferta si compone di: per la fascia 0-3 anni: 242 nidi di infanzia (106 comunali, 21 comunali in appalto, 115 convenzionati), 35 micronidi comunali in appalto, un Centro Prima Infanzia, 23 Sezioni Primavera, 10 Tempi per le famiglie; per la fascia 3-6 anni: 170 Scuole dellinfanzia comunali. A questi vanno poi aggiunti due Spazi Gioco, rivolti alle famiglie con figli in et 0-12 anni e pensati come ambiti in cui bambini e adulti (genitori, nonni, accompagnatori o baby-sitter) possono accedere scegliendo liberamente le modalit, gli spazi e i tempi di gioco oppure le attivit di laboratorio da eseguire11. Gi da questo primo elenco possibile cogliere alcune delle specificit dei servizi comunali allinfanzia, in primo luogo la differenziazione e articolazione interna. Nel corso degli anni, in effetti, lamministrazione cittadina ha agito su pi fronti: da un lato ha potenziato i servizi pi tradizionali quali i nidi e le scuole dellinfanzia aumentandone, anche grazie al meccanismo del convenzionamento, la capienza e la presenza sul territorio e adeguandone tariffe, orari e calendario di apertura; dallaltro lato ha favorito la sperimentazione e successiva introduzione di interventi innovativi a carattere complementare e integrativo. Tutto ci ha consentito di diversificare progressivamente la tipologia dellofferta e dunque di rispondere con maggiore flessibilit alle necessit educative, ma anche organizzative ed economiche delle famiglie con figli, cogliendone leterogeneit crescente rispetto alle problematiche socio-educative e di conciliazione dei tempi familiari e lavorativi. Vale la pena di analizzare pi nel dettaglio la riorganizzazione avvenuta nel sistema dei servizi, riprendendo le caratteristiche di ciascuna unit dofferta. I nidi di infanzia, servizi educativi a sostegno dello sviluppo psico-fisico del bambino e a sostegno della genitorialit, secondo i dati del bilancio di previsione 2010 del Comune, tra lanno educativo 2007/2008 e quello 2009/2010, hanno visto incrementare il numero dei posti disponibili di circa 1.200 unit, da 7.706 a 8.904 (+15,5%), sia mediante lapertura di nuovi nidi e micronidi a gestione diretta da parte del Comune di Milano, sia grazie allaumento dei posti offerti dalle strutture private in convenzione (da 710 iscrizioni in 92 nidi privati in convenzione nellanno educativo 2006/2007 a 1.191 bambini iscritti in 115 strutture nel 2008/2009). Come risultato, nel Gennaio 2010 le liste dattesa comunali sono state eliminate, in questo modo rispondendo alle tensioni registrate nel biennio precedente: invero, i dati presentati nel Bilancio Sociale 2008 indicano, nel dettaglio, che nellanno scolastico 2007/2008 lofferta comunale era di 8.502 posti a fronte di 8.919 domande presentate; nellanno scolastico seguente, si erano registrate 10.371 domande di iscrizione per 9.015 posti disponibili. Dal punto di vista economico, le famiglie dei bambini che frequentano i nidi dinfanzia pagano una retta mensile di frequenza che, determinata sulla base del valore I.S.E.E., al massimo pari a
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I dati relativi alle iscrizioni indicano che nel 2009/2010 la frequenza a questa tipologia di servizio interessa 616 bambini (473 nel 2007/2008).

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465 euro. La quota contributiva stabilita per la frequenza alle strutture privati in convenzione stabilita secondo le medesime condizioni. Il Tempo per le Famiglie e il Centro Prima infanzia previsti dalla D.G. R. 11 febbraio 2005, n. 7/20588 quali agenzie di supporto alla condivisione, allo scambio, al confronto reciproco tra genitori e bambini sono servizi a partecipazione libera in quanto a frequenza oraria e giornaliera e sono riservati alle famiglie con bambini di et inferiore ai tre anni che non frequentano il nido dinfanzia. Pi nello specifico: i 10 Tempi per le famiglie presenti sul territorio cittadino, aperti da luned a venerd dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 18, grazie alla presenza di personale educativo specializzato, offrono ai bambini e agli adulti accompagnatori attivit di supporto e accoglienza, occasioni di confronto e condivisione di esperienze. Tra il 2007/2008 e il 2009/2010 la frequenza al servizio aumentata da 648 a 771 utenti (+18,9%); il Centro Prima Infanzia, accoglie fino a 30 bambini nella fascia mattutina e 30 nel pomeriggio, per un massimo di quattro ore al giorno. Si tratta di uno spazio in cui sono previste attivit di vario genere (laboratoriali, ludico-ricreative, motorie, etc.) finalizzate alla crescita dei bambini e alla promozione della loro relazione con i pari e con gli adulti accompagnatori. La frequenza al servizio, pari a 39 utenti nel 2007/2008 ha raggiunto la capienza massima (60) nel 2009/2010. Le Sezioni Primavera avviate in via sperimentale nellanno 2007/2008 quali servizi socio-educativi e didattici destinati a bambini di et compresa tra i 24 e i 36 mesi, e dunque integrativi e alternativi al nido dinfanzia sono aumentate da 18 a 23 (pi 5 ulteriori aperture previste nel 2010) tra il 2007 e il 2010, con un incremento della capienza di 118 posti (+37,5%). Assicurano, al pari dei nidi dinfanzia, un orario di apertura flessibile, strutturato secondo un orario base, che possibile estendere mediante un eventuale prolungamento. Il contributo di frequenza richiesto alle famiglie dei bambini frequentati stabilito, sempre secondo il parametro I.S.E.E., nella quota del 50% della retta di un nido dinfanzia comunale. Nellinsieme dei servizi educativi per la prima infanzia sempre stando ai dati del bilancio di previsione, i posti riservati dallamministrazione comunale ai bambini tra 0 e 3 anni di et nellanno educativo 2009/2010 risultano quindi essere 10.168, in crescita del 16,8% rispetto agli 8.708 disponibili nellanno 2007/2008. Sulla base di quanto indicato dai funzionari del Comune di Milano, le unit dofferta per la prima infanzia coprono il fabbisogno cittadino per una quota pari a un terzo del totale della popolazione, in questo rispondendo agli obiettivi definiti in sede europea. Si tratta di un valore a fine 2008 pari al 33,9% secondo i dati presentati dalla Giunta Regionale decisamente superiore alla media regionale e nazionale. Questo primato certamente lesito della caratterizzazione educativa data da tempo a questa tipologia di servizio a livello municipale; caratterizzazione educativa che dunque porta a intendere gli asili nido come strutture anzitutto volte a rispondere alle problematiche pedagogiche e a garantire i diritti dellinfanzia e quindi (o se si vuole al contempo) offrire supporto alle famiglie a doppia carriera. Di questo approccio, sul quale si costruisce la tipicit lesperienza di Milano anche rispetto al quadro regionale, avremo comunque modo di tornare in sede di conclusioni (3.5.2).
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Per quanto concerne poi lofferta comunale per la fascia 3-6 anni, il numero delle Scuole dellInfanzia passato da 846 a 851 sezioni ordinarie, con un incremento della frequenza pari a circa un punto percentuale (da 21.769 a 22.011 bambini). Cos come possibile per certi versi intuire dalla disamina delle diverse unit di offerta, un altro elemento distintivo dei servizi comunali allinfanzia la relazione con le famiglie e gli adulti di riferimento e il loro coinvolgimento diretto, tanto nella formulazione e condivisione delle scelte socio-educative quanto nella partecipazione alle attivit proposte. Emerge inoltre una chiara integrazione tra lesperienza educativa dei nidi e quella delle scuole dellinfanzia, testimoniata peraltro dallesperienza delle Sezioni Primavera; invero, situate entro scuole dellinfanzia o in asili nido comunali, queste ultime garantiscono ai bambini frequentanti percorsi di socializzazione e apprendimento caratterizzati da un apposito e adeguato raccordo pedagogico con le annualit successive. Oltre a questo vi poi da ricordare che tanto i nidi quanto le scuole dellinfanzia comunali, ulteriore peculiarit del sistema socio-educativo cittadino, prevedono lestensione della durata dellanno educativo al 31 Luglio mediante le cosiddette Sezioni Estive, un servizio volto ad assicurare limpiego di personale comunale e dunque la continuit delle attivit pedagogiche e didattiche anche nel periodo estivo, con la medesima articolazione oraria offerta durante il resto dellanno. Si tratta di un risultato importante, per nulla scontato al quale la direzione competente ha lavorato con convinzione, che risponde alle mutate esigenze delle famiglie rispetto allaccudimento dei figli (tra laltro accresciuto in questa fase di crisi). Liscrizione alle sezioni estive di nido dinfanzia comporta il pagamento della quota gi applicata durante il corso dellanno scolastico, mentre per le scuole dinfanzia previsto un contributo di frequenza di entit variabile secondo modalit definite. Vi un ultimo progetto di interesse che ricade sempre nellarea di programmazione in questione ed opportuno menzionare: il Bonus Beb. Esso prevede la corresponsione di un contributo di 500 euro mensili alle madri lavoratrici, a tempo pieno o parziale, che decidono di dedicarsi esclusivamente alla cura dei figli nei primi mesi di vita. Per la precisione, il contributo riconosciuto alle famiglie in cui le madri fruiscono di almeno sei mesi di congedo parentale nel primo anno di vita del figlio, a condizione che il figlio stesso non sia stato ammesso o non frequenti un nido di infanzia e che la situazione economica equivalente familiare (I.S.E.E.) non sia superiore a 18 mila euro. Dal Settembre 2007 il Bonus Beb, istituito nella convinzione secondo cui nella vita di un bambino determinante la qualit e la quantit delle relazioni che si stabiliscono con la mamma durante i primi anni, stato richiesto da 1.631 madri ed erogato in 1.437 casi, per uno stanziamento complessivo pari a poco pi di 4 milioni di euro. Da ultimo, dei servizi e delle attivit che ricadono nellarea Minori e Giovani, viste le finalit del nostro studio, utile citare in aggiunta al sopra citato processo di deistituzionalizzazione dei minori grazie al ricorso a servizi e iniziative pi orientati al sostegno e alla valorizzazione delle risorse sociali quali laffido e lassistenza domiciliare gli interventi per il supporto e lintegrazione (linguistica, scolastica, occupazionale, sociale) dei giovani e minori stranieri; le iniziative per laffermazione del diritto allo studio come strumento di prevenzione del disagio; attivit integrative allorario scolastico (servizi pre e post-scuola); il Progetto Estate (Centri estivi da giugno ad agosto per bambini di 6-11 anni; campus settimanali per bambini di 5-14 anni; sostegno alle iniziative degli oratori milanesi) e le case vacanza, pensati come servizi socio-educativi e di custodia per giovani e minori durante il periodo estivo e
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dunque complementari ai servizi messi a disposizione dal Comune durante lanno scolastico. 3.4.3 Area Adulti in Difficolt Creato solo nel 2002, questo Settore ha una storia recente, e questo fattore tra le motivazioni indicate a spiegazione della sua impostazione da subito lontana da un approccio di tipo assistenzialistico. La filosofia di fondo che lo contraddistingue infatti quella del welfare attivo: trattandosi di una utenza in et lavorativa, lobiettivo finale dare la possibilit alle persone seguite di riacquisire una piena autonomia e solo laddove ci non sia possibile, accompagnarle verso forme assistenziali o previdenziali che consentano loro comunque una soddisfacente qualit della vita (Piano di Zona 2009-11, p. 90). Entro larea di programmazione denominata Adulti in difficolt ricadono interventi di servizio sociale a supporto delle situazioni di svantaggio che interessano i soggetti, di nazionalit italiana e senza figli a carico, di et compresa tra i 18 e i 60 anni e che sono interessati da problemi quali emarginazione sociale e povert, detenzione ed exdetenzione, dipendenze, mancanza di una fissa dimora, Hiv/Aids, violenza e tratta. Operando prevalentemente nellottica del sostegno alla ricostruzione dei progetti di vita autonoma, i Servizi per Adulti in difficolt, impiegano, strumenti e misure di tipo economico e di supporto sociale ed educativo che, soltanto in parte a carattere assistenziale, si pongono lobiettivo ultimo di attivare le persone lungo il tragitto di integrazione abitativa, sociale e lavorativa. Nei casi pi problematici e complessi, laddove non sia possibile mirare al conseguimento dellautonomia, i soggetti vengono sostenuti mediante misure socio-assistenziali o previdenziali, in specie sussidi economici e buoni sociali, appena tali da garantire un livello minimo di benessere. Secondo quanto raccolto in sede di rilevazione, i problemi principali che interessano i soggetti che si rivolgono ai servizi in questione sono inerenti a: il disagio economico, causato dalla perdita del lavoro, da una condizione di malattia, da alcolismo o tossicodipendenza, da un periodo di detenzione o di provvedimenti alternativi alla carcerazione; il bisogno di un alloggio, in prevalenza per ragioni legate allo sfratto e alloccupazione abusiva, ma anche per i senza fissa dimora; la necessit di un sostegno di tipo psico-sociale. La tipologia degli interventi e degli strumenti che vengono realizzati ed erogati si differenzia pertanto tra: attivit di segretariato sociale, vale a dire un servizio di accoglienza, presa in carico e consulenza in merito alle problematiche di volta in volta emerse; interventi di supporto psicologico e di accompagnamento educativo, ovvero di accompagnamento alla realizzazione di un progetto di conseguimento dellautonomia; sussidi economici e buoni sociali per lacquisto di servizi di tipo sanitario e socio-assistenziale; borse di studio per le famiglie con reddito insufficiente, per il sostegno dei percorsi scolastici di scuola secondaria di secondo grado;
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inserimento in comunit di seconda accoglienza, in cui previsto un intervento educativo complementare, o in strutture di terza accoglienza, in attesa di una risoluzione autonoma della situazione di difficolt. Compito degli assistenti sociali territoriali impiegati nel Servizio in parola quello di impiegare e combinare questi strumenti, costruendo con i soggetti destinatari dellintervento un progetto finalizzato al conseguimento dellindipendenza economica e sociale. Ci significa che, se di norma gli utenti accedono al servizio avanzando richieste di tipo economico, queste stesse richieste vengono trasformate nella costruzione di un percorso complessivo finalizzato alla ricostruzione dei legami o della rete di sostegno familiare e, pi in generale, a intervenire sulle cause che hanno portato alla condizione di disagio e bisogno. Nel fare questo, come detto, trattandosi di adulti in et lavorativa, viene prevista, come parte del piano personalizzato di accompagnamento, la possibilit di un inserimento lavorativo. Gli assistenti sociali e il personale educativo si servono, per questo scopo, del Centro Mediazione al Lavoro del Comune di Milano (Celav). Istituito nel 2001, il Celav, si occupa delle azioni in favore dei soggetti che, appartenenti alle fasce deboli oppure interessati da disagio personale, familiare, sociale, faticano a inserirsi autonomamente nel mercato del lavoro. Il percorso di inserimento, formulato da una figura educativa in veste di tutor in accordo con il soggetto destinatario, di norma prevede, anzitutto, attivit di consulenza e una fase di orientamento, individuale o di gruppo, al lavoro; a esse segue un eventuale periodo di formazione specifica, per maturare o affinare le competenze professionali, e quindi un periodo di tirocinio formativo e di orientamento (ex L.192/97 e D.M. 142/98) di durata massima pari a un anno, durante il quale viene corrisposta una borsa lavoro. In proposito, utile ricordare che nel 2009 sono state erogate circa 1.300 borse lavoro, rispetto alle circa 600 del 2007, e che di queste, 338 sono esitate in assunzioni a tempo determinato o indeterminato (231 nel 2007). Dalle interviste condotte emerso che, specie negli ultimi due anni, accedono al Celav soggetti che, pur non essendo inseriti in una categoria di svantaggio sociale cos definita secondo la normativa europea, faticano a trovare un lavoro dopo un periodo di disoccupazione o inattivit di lunga durata; nella gran parte dei casi si tratta di over 45enni. In aggiunta, sembra riscontrarsi un aumento delle situazioni border-line nelle fasce giovanili, specie tra gli immigrati di seconda generazione, e un aumento dei casi di disagio psichico, in parte non ancora certificati. In proposito, i dati di cui disponiamo rivelano che nel 2009 a fronte di poco pi di 4 mila persone rivoltesi allo sportello informativo e di accoglienza attivo presso il Celav (nel 2007 erano poco meno di 3 mila), circa i tre quarti costituita da soggetti non identificabili secondo una particolare forma di disagio sociale, mentre i rimanenti sono segnalati e inviati direttamente dai servizi sociali comunali. Per il primo gruppo di soggetti, liter prevede che venga avviata, laddove lo si ritenga necessario e dopo una valutazione del grado di autonomia individuale nella ricerca del lavoro, una consulenza di tipo informativo e orientativo. In questo vi pieno accordo con le direttive regionali, secondo le quali (cfr. cap. 2) il principale canale attraverso cui combattere il rischio di povert e di esclusione sociale loccupazione. Infine, come accennato in precedenza, vi sono poi tipologie di adulti per i quali costruire un percorso di inserimento al lavoro risulta alquanto arduo. Per questi il lavoro diventa molto spesso una leva impiegata dalle figure socio-educative per intervenire,
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congiuntamente con altri servizi, sullinsieme delle questioni relative al disagio personale; il tutto nella consapevolezza, bene espressa dalle parole di un intervistato, che il lavoro non la soluzione di tutti i problemi e che anzi molto spesso linserimento lavorativo forzato crea maggior disagio, perch i fallimenti sono ancor pi difficili da recuperare. 3.5 Il modello Milano 3.5.1 Gli elementi innovativi Nella realt milanese si colgono indiscutibili elementi di innovativit in ordine alla programmazione, al coordinamento e alla gestione delle politiche e degli interventi sociali. Si tratta di servizi e iniziative specifiche, oppure di intuizioni e idee progettuali frutto della rilevazione e della gestione quotidiana del bisogno; ma anche di singoli attori che si pongono quali catalizzatori del cambiamento delle politiche sociali. Di questi elementi andiamo a discutere nelle pagine che seguono, soffermandoci innanzitutto su un servizio nel quale si condensano buona parte delle peculiarit normative, funzionali, organizzative del sistema di welfare locale: il Segretariato Sociale. Indicato dalla l.r. 3/2008 come porta di accesso unificata ai servizi del territorio, ma gi in parte anticipato nella programmazione precedente del Comune di Milano, il Segretariato Sociale stato avviato in via sperimentale in una zona di decentramento sul finire del 2009 come servizio essenziale in grado di: i) informare i cittadini in merito ai diritti, alle prestazioni e alle modalit di accesso ai servizi territoriali; ii) offrire consulenza sulle risorse sociali disponibili nel territorio; iii) accompagnare lutenza nella fruizione dei servizi, inviandola, laddove vi siano problematiche specifiche e complesse che necessitano di una continuit assistenziale, a servizi specialistici a carattere sociale e socio-sanitario. Dal punto di vista funzionale e operativo si compone di unequipe pluridisciplinare, di cui fanno parte un operatore amministrativo, un assistente sociale, un educatore professionale. Atteso che al personale amministrativo spettano compiti di accoglienza e orientamento generico, le funzioni centrali sono in capo alle altre due figure: allassistente sociale, che si occupa di analizzare il problema, verificare le risposte disponibili, concordare con lutente le possibili soluzioni e, da ultimo, verificare a posteriori gli esiti dellintervento e offrirne una valutazione complessiva; alleducatore professionale, il cui ruolo quello di garantire: una risposta competente, puntuale, di stampo pedagogico e dunque in chiave preventiva alle richieste e ai diversi bisogni sociali che non necessitano di un intervento di secondo livello; lesercizio di una scelta consapevole in merito alla fruizione dei servizi territoriali. Il punto importante non solo in s linserimento la figura delleducatore, quanto lidea di offrire una prima accoglienza gi qualificata che sia dunque capace di leggere la complessit delle situazioni di bisogno, non limitandosi a una mera registrazione dellaccesso e smistamento verso servizi specifici. In merito, ci pare importante
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sottolineare, come del resto evidenziato da alcuni interlocutori in sede di intervista, che uno dei nodi relativi allimplementazione di questo servizio riguarda la capacit effettiva che avr di capitalizzare le esperienze dei soggetti del terzo settore che sul territorio da tempo sono un punto di ascolto, lettura del bisogno e indirizzo ai servizi competenti: le parrocchie, i centri di ascolto della Caritas (in questa fase tra laltro in prima linea con lattivazione delliniziativa Fondo Famiglia Lavoro pensata, voluta e sostenuta dallarcivescovo di Milano, Card. Tettamanzi), i patronati, e via dicendo. Ci per valorizzare le risorse del territorio nellottica della sussidiariet orizzontale che si vuole distintiva del sistema. Costruito secondo questo schema, il Segretariato Sociale rivela la tipicit dellimpianto di welfare comunale. Esso si va infatti sempre pi strutturando lungo tre direttrici che sono: la riforma del sistema di primo accesso ai servizi; la trasversalit dellintervento, tanto in termini di integrazione delle politiche quanto di target di riferimento delle stesse; lapproccio a valenza sociale e pedagogica. In effetti, proprio mediante la sperimentazione del Segretariato Sociale (che nei piani del Comune di Milano dovrebbe entrare a sistema entro la fine del 2010) si rende evidente il passaggio a un modello in cui, in punti di accesso unico ai servizi del territorio: sia garantito, tanto per i soggetti e le famiglie pi fragili ed esposte quanto per chi presenta storie biografiche pi ordinarie, un primo livello di accesso al welfare che non si tramuti necessariamente in una presa in carico da parte dei servizi; vengano formulate politiche e risposte coordinate, non pi a partire dallappartenenza a una categoria sociale specifica (famiglia, adulti, anziani), piuttosto a seconda del bisogno emergente e della complessit dello stesso12; siano riconosciute lautonomia nellaccesso alle risorse e la libert di scelta, facendo per in modo che la possibilit di esercitare la stessa libert di scelta, ovvero di usare in modo appropriato i servizi, nonch i titoli sociali (voucher) di prossima introduzione, sia opportunamente accompagnata e supportata. Il percorso di riforma in parola che secondo i pareri raccolti sconta, nella fase attuale, la particolarit di un welfare comunale che si costruito nel tempo secondo unimpostazione a canne dorgano, ossia secondo comparti e professionalit distinti e tra di loro fortemente separati procede anche lungo altri sentieri. Invero, sembrano esservi una pluralit di riflessioni e progetti aperti in proposito al tema dellintegrazione tra le politiche e a quello del ripensamento della risposta al bisogno sociale in base a target di azione precostituiti. La crisi in atto, in modo particolare, ha delineato uno scenario socio-economico in cui il termine inclusione sociale ha assunto dimensioni abnormi. Come conseguenza, a livello locale si sta procedendo sempre pi verso la decostruzione delle tradizionali categorie di classificazione del bisogno (anziani, disabili, immigrati, donne, over 50), in favore della definizione di unarea allargata in cui sono compresi i soggetti esposti al rischio di espulsione dal mercato del lavoro. Proprio a questa fascia, che presenta
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In proposito, dalle interviste emerso che lincremento dellaccesso spontaneo ai servizi ha gettato luce su di un bisogno sempre pi diffuso, per certi versi una patologia tipica della societ contemporanea: il disagio psichico e le problematiche relazionali riguardanti la famiglia. Bisogno che, nel momento in cui tocca non soltanto le dinamiche di coppia, ma riguarda anche i bambini e gli adolescenti e il rapporto tra la famiglia e i diversi mondi vitali, quello scolastico in primis, mostra limportanza di un approccio, quello socio-educativo appunto, che sappia ricostruire i legami e le relazioni, a cominciare dalla definizione di un linguaggio comune.

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configurazioni sociali inedite, dedicato uno dei principali progetti istituzionali in via di realizzazione a Milano: la Fondazione Welfare Ambrosiano. Come sottolinea il nome, essa una fondazione di tipo economico. I soci promotori sono la Provincia di Milano, la Camera di Commercio, i sindacati confederali; il Comune svolge il ruolo di ente capofila e ad esso sono affidate segnatamente allAssessorato Famiglia, Scuola, Politiche sociali le attivit di indirizzo e controllo. Come obiettivo, la Fondazione ha quello di promuovere iniziative a sostegno dei lavoratori in condizioni di disagio o a rischio di esclusione e di favorirne lemancipazione sociale ed economica facendo leva su risposte integrate e dinsieme, nonch su modalit innovative di finanziamento (il microcredito). Rappresenta, dunque, lespressione concreta della capacit degli attori istituzionali di fare sistema; una capacit che, connaturata al tessuto sociale milanese, per di pi favorita dalla presenza di altri elementi catalizzatori dellevoluzione del welfare locale. Tra questi la Fondazione Cariplo, che negli anni si posta quale soggetto attivo e attivatore dello sviluppo della societ locale, garantendo il supporto per lelaborazione di progetti nellambito del sociale, caratterizzati da originalit e innovativit e per di pi mirati il caso di un progetto specifico finanziato nellambito del bando inclusione sociale 2009 a costruire modelli di progettazione e metodologie condivise tra ente locale e terzo settore. Lo spacchettamento dei target di cui sopra ad ogni modo un processo sul quale sono da tempo in corso alcune valutazioni, specie da parte delle aree di programmazione che la nostra analisi ha messo al centro. Sono da citare, in particolare, alcune ipotesi di intervento formulate dal settore adulti in difficolt e sulle quali varr la pena di tornare ad indagare, considerata la rilevanza strategica che sembrano avere. Esse riguardano lintegrazione delle azioni specificamente rivolte al contrasto allesclusione sociale, come tali incentrate sui soli adulti ( 3.4.2), con quelle inerenti i minori e gli stranieri. Pi nello specifico, il tentativo in atto , da un lato, quello di sostituire progressivamente lo strumento del prosieguo amministrativo, normalmente predisposto dal Tribunale a copertura della fase di transizione alla maggiore et, e considerato per sua natura rigido, con altri strumenti e interventi, quali quelli in favore dellautonomia abitativa e sociale, i quali consentano invece di modulare con maggiore flessibilit lintervento sui bisogni individuali e, soprattutto, assicurino la continuit e la prosecuzione degli interventi rivolti ai minori (nellambito scolastico, formativo, di inserimento lavorativo), anche successivamente al compimento della maggiore et. Da un altro lato, oggetto di attenzione specifica larea degli stranieri, di cui si cerca di aumentare il grado di connessione rispetto al settore politiche della famiglia e minori e giovani; questo perch lintegrazione degli stranieri non pi un fenomeno di emergenza che richiede una risposta specifica ma una questione complessa e strutturale che necessita, come tale, di una maggiore integrazione tra gli interventi dei servizi. 3.5.2 Gli spazi per la ricerca-azione Linsieme di quanto sinora discusso mostra, senza tema di smentita, come a Milano il cantiere dellinnovazione e della sperimentazione sociale sia aperto e funzioni a pieno ritmo. In questa cornice ci sia concesso, in chiusura, suggerire alcune piste lungo la quale i lavori potrebbero ulteriormente procedere; e lo facciamo dopo aver constatato linteresse da parte dellamministrazione locale a un confronto su tale terreno. Ebbene, se vero che allinterno del progetto di ridisegno del welfare milanese (e lombardo) di
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cui abbiamo dato conto nella nostra indagine vi la volont di superare unimpostazione assistenzialistica e garantire, per contro, a ciascuno le risorse necessarie per costruire da s risposte individualizzate che rispettino la dignit e la libert della persona e la centralit della famiglia, quello della conciliazione una prima area di politica su cui riflettere, un ottimo banco di prova su cui misurare la tenuta dei progetti di riforma del welfare. Come le interviste condotte hanno mostrato e come i dati riportati nelle pagine precedenti hanno confermato, a Milano nellintegrazione tra servizi sociali, sociosanitari ed educativi sembra innestarsi un cambiamento culturale importante, che porta a vedere i servizi anche per la primissima infanzia come una opportunit educativa/formativa e dunque un diritto anzitutto per i bambini e solo secondariamente (o se vogliamo contemporaneamente) come un tassello fondamentale del sistema di conciliazione lavorativa e di supporto alle funzioni di cura della famiglia. Posto in questa prospettiva, lo sviluppo di servizi che garantiscano in tale senso una copertura universalistica dellutenza (e non solo della domanda), grazie allaumento progressivo della capienza e alla forte diversificazione che stata attuata tra i servizi, diviene una questione di cittadinanza per i pi piccoli. Il che non significa affermare che il ruolo educativo della famiglia debba essere relegato in secondo piano (e anzi, il Bonus Beb lo valorizza, riconoscendo la crucialit del rapporto madre-figlio specie nei primi mesi di vita), ma che in una societ sempre pi organizzata su coppie a doppia carriera (almeno fino a prima della crisi!) la scelta delle famiglie di esternalizzare la cura dei bimbi per alcune ore nel corso della giornata non deve essere posta come trade-off tra desiderio/necessit della madre di lavorare (perch di solito la questione si legge solo al femminile) e il benessere del bambino. Certo, questo impone di garantire la qualit dei servizi e pertanto, allorizzonte, compaiono almeno due questioni: 1) i servizi educativi possono supportare famiglie con un capitale culturale e sociale non elevato a offrire opportunit ai loro figli, riducendo le disuguaglianze che si strutturano fin da quando si molto piccoli e in questo senso si muove la riflessione sulla ricalibratura del welfare a partire dai bambini e dalle famiglie (Ferrera, 2007); dallaltra parte diventa cruciale la questione dellaccesso a un sistema di strutture che devono tutte garantire uno standard qualitativo comune per evitare al contrario di introdurre altre forme di disuguaglianza. Sulla scorta di questa riflessione, la problematica della conciliazione merita dunque di essere rivisitata in una luce nuova, nella consapevolezza che lequilibrio di tempo, di energie, esistenziale tra ruoli diversi non misura soltanto il benessere e lautorealizzazione della donna, ma sempre pi la qualit della vita, latamente intesa, dellintero nucleo familiare e, potremmo aggiungere, la qualit della vita sociale. Il vero passo avanti dunque contribuire ad affrancare la conciliazione dalla sua tradizionale caratterizzazione al femminile e arrivare a connotarla come vero e proprio problema della societ, di cui tutti sono pertanto chiamati a farsi carico (Riva, Zanfrini 2010). Il che a ben vedere significa avviare una riflessione pi ampia sulla configurazione dei rapporti tra vita e lavoro nella nostra societ, sul significato attribuito al primo sia a livello esistenziale che sociale. Ma affinch passi in avanti di questo genere si verifichino occorre che si aprano nuovi cantieri, nuove intese, nuove sperimentazioni. Rimane infatti da superare una contrapposizione stridente tra politiche sociali e politiche del lavoro; tra interventi delle aziende e interventi dello stato sociale. Ad oggi, infatti, il vero nodo della conciliazione sembra essere una fin troppo netta divisione dei compiti tra attori sociali ed economici, secondo criteri e finalit che difficilmente giungono a ricomposizione (Riva 2009). Per
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contro, se si riconosce che i soggetti cui spetta regolare e risolvere gli intricati processi sociali che stanno alla base della difficile conciliabilit di lavoro e vita familiare sono le imprese e gli enti locali, congiuntamente e non separatamente, e che dunque il confronto, il dialogo, lintegrazione delle misure e delle politiche sono premesse indispensabili per un efficace intervento in materia, si arriva a ripensare la conciliazione in termini di capacitazione dei soggetti (Riva, 2010). Ovvero come un sistema di politiche che, progettato allunisono dalle istituzioni di governo locale e dalle imprese, non offra soluzioni preconfezionate e quindi vincolanti ai bisogni individuali e familiari, ma garantisca a ciascuno le risorse necessarie per costruire in piena autonomia risposte che siano, piuttosto, espressione di ci cui pi si attribuisce valore nella propria vita. Anche perch, come alcune ricerche condotte proprio nel milanese sembrano suggerire, le donne come pure molti uomini non vogliono essere costretti a scegliere tra famiglia e lavoro ma sembrano scegliere tutto, desiderare in misura crescente la possibilit di costruirsi dei percorsi biografici su misura, in cui includere, a seconda della fase del corso di vita, esperienze diverse (AA.VV. 2009). Ma un sistema di politiche di questo genere, realmente in grado di affrontare i suddetti nodi della conciliazione lavorativa, richiede un patto sinora inedito tra istituzioni politiche e amministrative, imprese, famiglie. A tal proposito, la prima sfida/proposta che ci sentiamo di rilanciare e portare allattenzione degli amministratori locali, e che varrebbe la pena di costruire/considerare nel prossimo futuro, la possibilit che, pur in uno scenario di congiuntura negativa, sia Milano per prima a siglare questo patto, dando seguito ulteriore al processo di riorganizzazione dei servizi socio-educativi per la prima infanzia e per la famiglia, pi in generale del welfare locale, aumentandone, sotto laspetto quali/quantitativo, la tenuta e la capacit di rispondere alle molteplici richieste e bisogni. Soprattutto, modificando le premesse su cui lo stesso welfare costruito; ovvero facendo in modo che individui e famiglie siano effettivamente dotati delle opportunit di esprimere delle opzioni di valore nei propri corsi di vita. Da ultimo, sempre nellottica di continuare il percorso analitico e conoscitivo avviato, affiancando alla fase di ricerca sul campo un intervento concreto nellambito delle esperienze di riforma dei sistemi di welfare locali, varrebbe altres la pena tenere monitorati due interessanti progetti che abbiamo individuato, entrambi, di fatto, ancora in fase costitutiva o comunque di avvio: la Fondazione Welfare Ambrosiano e il servizio di Segretariato Sociale. Questo perch, oltre a rappresentare delle indubbie peculiarit della realt milanese, esse costituiscono interessanti laboratori di sperimentazioni, da cui estrarre pratiche innovative da portare poi eventualmente a sistema.

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Parte II

Lesperienza aretina nello scenario toscano

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4. Il modello Toscana tra partecipazione e diritti di cittadinanza13 4.1 La governance regionale del welfare. Il Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale.

La presenza politiche sociali integrate e fondate nelle premesse sullo sviluppo di diritti di cittadinanza un elemento caratteristico del sistema di welfare toscano. Da decenni, gi a partire dagli Settanta in questa regione linvestimento nelle politiche sociali parte di un disegno pi complessivo che mira a delineare i contorni di un modello di societ aperto e inclusivo. Le ampie attribuzioni di responsabilit in campo alle amministrazioni locali e il ruolo forte esercitato dalla regione nel coordinare i processi di riforma evidenziano la preferenza per soluzioni di cittadinanza a tutela dei diritti dei cittadini (Pavolini, 2004; Campedelli, Carrozza, Rossi, 2009) attraverso servizi e prestazioni diretti alle persone e alle famiglie, ai minori, ai giovani, ai disabili, agli anziani e agli immigrati. Una caratteristica fondante del modello il ricco tessuto sociale che si costruito nel tempo, con un terzo settore fortemente sviluppato, ancorch guidato e orientato dalle logiche di responsabilit pubblica. Rispetto ad altri modelli sperimentati in altre regioni, siamo di fronte a un sistema di sussidiariet orizzontale presidiato dallattore pubblico, meno incline a lasciare spazi di manovra autonoma allorganizzazione spontaneistica dei soggetti associativi. I processi partecipativi, le forme di co-progettazione, cos come le diverse partnership tra pubblico e privato, da questo punto di vista, non corrispondono a vere e proprie cessioni di sovranit dal pubblico verso la societ civile che si auto-organizza, ma richiamano una distinzione di ruoli fondante tra prerogative pubbliche e spazi di intermediazione associativa e privata. Nel 2005, con la Legge Regionale 41/2005 la Toscana ridisegna il sistema socioassistenziale recependo le indicazioni contenute nella nuova normativa nazionale, ma secondo principi e soluzioni che gi erano stati definiti dalla precedente legislazione regionale con la Legge 72/1997 (Vivaldi e Stradella, 2009). Gi con questultima alcuni principi assunti dalla 328 venivano esplicitati a modello di riferimento per la programmazione e gestione degli interventi sociali. Tra questi possiamo ricordare la chiara definizione delle rispettive responsabilit tra regione (ripartizione delle risorse, coordinamento e verifica del Piano regionale, implementazione del sistema informativo), provincie (concorso nellattuazione dei Piani zonali di assistenza, implementazione dellOsservatorio sociale) e comuni, ai viene delegata la responsabilit della materia assistenziale. Vi da dire inoltre che gi prima della 328 la Toscana individua nei Piani di zona lo strumento fondamentale di programmazione e di concertazione tra tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, alla costruzione della governance territoriale, comprese le Asl, a partire dalle quali favorire lo sviluppo delle prestazioni socio-sanitarie. Come si pu vedere il tema dellintegrazione (in particolare quella socio-sanitaria) poggia in Toscana su una esperienza di collaborazione interistituzionale gi abbastanza solida, prima ancora che questo problema entrasse nellagenda delle riforme nazionali. Da qui si possono comprendere meglio le
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Di Andrea Ciarini e Elisa Mariano

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successive evoluzioni. Con la Legge 41 e soprattutto con lavvio della sperimentazione delle Societ della Salute (introdotte con il Piano sanitario regionale 2002-2004 e avviate sperimentazione con il successivo Piano 2005-2007) il sistema sociale e sanitario regionale va oltre lidea di integrazione, assumendo il concetto di salute entro quello pi ampio di benessere. Non si tratta di una innovazione solo terminologica. Allinterno del concetto di benessere rientrano prestazioni che esulano dal campo strettamente sociale o sanitario, fondendo insieme elementi di realt organizzative assai poco comunicanti in passato, da una parte il sistema ospedaliero, autoreferenziale, centrato esclusivamente sulle strutture interne e scarsamente collegato con il territorio, tanto meno con i servizi sociali territoriali. Dallaltra lassistenza, lasciata agli enti locali, dotata di minori finanziamenti (anche per non essere inserita nei grandi flussi di finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale) e scarsamente attrezzata a favorire reali innovazioni nellorganizzazione dellofferta. E alla rottura di questa logica che i piani di riordino della regione Toscana hanno puntato, individuando nella Societ della salute (un consorzio partecipato da Asl e comuni della zona distretto) lambito territoriale nallinterno del quale costruire e sviluppare la presa in carico globale della salute (nel senso benessere). La pi recente programmazione della Regione Toscana in materia sociale ha rilanciato la sfida della trasformazione del sistema di servizi e prestazioni sociali ponendo al centro la realizzazione dei diritti di cittadinanza attraverso la sostanziale e universale inclusione nel sistema di tutti i cittadini. Ma qual stato il criterio guida nella costruzione del sistema integrato sociosanitario? La regione Toscana ha inteso lintegrazione non come un successivo e obbligato momento di necessaria collaborazione tra settori diversi con responsabilit gestionali e politiche distinte, ma come una vera e propria fusione istituzionale in grado di avviare una programmazione unica, e quindi fortemente integrata, ed una gestione delle risorse corrispondente. In particolare, sempre rimanendo nellambito sociosanitario stata dapprima stimolata la coincidenza tra ambiti sociali e distretti sanitari fino allopzione zone distretto sociosanitario integrate, che hanno introdotto e condotto alla programmazione unitaria dei servizi alla persona.

4.2 Il ruolo e la partecipazione degli enti locali e dei soggetti del terzo settore nel processo di programmazione. Nellambito della governance la Regione ha ritagliato per s un ruolo strategico di notevole importanza, che consiste nellimpostare e guidare la direzione delle politiche che gli enti locali dovranno, per competenza, perseguire. Infatti la funzione programmatoria e lazione di sostegno della Regione al sistema dei servizi non configurano un suo ruolo come mero ente erogatore. La motivazione principale alla base di questa scelta consiste, come ben descritto nel PISR, nella considerazione che: Le politiche regionali non possono essere il semplice aggregato dei molti volti e delle tante voci della realt toscana. Esse devono integrarsi con il territorio per esprimere una visione che sia pi ampia della somma dei singoli punti di vista (PISR 2007/2010) e questo il compito pi generale che la Regione assume. Nello specifico gli obbiettivi, i progetti e le linee di azione contenute nel PISR sono perlopi tradotti dalla stessa Regione in opzioni strategiche funzionali al fine della
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realizzazione e possono essere attuati dai soggetti locali, che in tal senso sono certamente individuabili (e cos definiti allinterno del PISR) come attori delle scelte regionali. Non solo questo, per, a confermare il ruolo forte e marcato della Regione nellambito della governance verticale. Ad esempio, per quanto riguarda i progetti e le linee dazione scaturiti dal territorio (al livello delle autonomie territoriali) in forma di proposte, la Regione esplicitamente si riserva di condividerle e supportarle solo se coerenti con le strategie regionali, cio rispetto a linee programmatiche e proposte progettuali (pur legittime rispetto alle competenze dellente locale) ritenute non coerenti con le scelte programmatiche regionali la Regione Toscana pu scegliere di non incentivare tali interventi. Questo approccio strategico della Regione Toscana richiama la centralit dellintervento pubblico, rispetto ad altre concezioni ed opzioni possibili di attuazione della governance che vedono lente Regione ritagliarsi unicamente un ruolo di coordinamento e finanziamento dei servizi. Al fine di delineare complessivamente il modello della governance delle politiche sociali in Toscana importante, per, sottolineare come questa impostazione sia compensata dal fatto che il disegno regionale e le sue opzioni di programmazione integrata vengono costruiti con le istituzioni del territorio, quale che sia la responsabilit operativa specifica di queste ultime e, come vedremo pi avanti, con una corposa platea di attori sociali attraverso pratiche strutturate di ascolto, negoziazione e concertazione delle politiche e delle loro traduzioni progettuali. Per meglio comprendere le implicazioni di tale disegno organizzativo opportuno delineare le direttrici prescelte dalla Regione Toscana nellultimo decennio per strutturare e qualificare il sistema dei servizi alla persona. In questa direzione gli sforzi perseguiti sono due: superare la logica assistenzialista delle politiche sociali e dei servizi partendo dalla centralit della persona e andare oltre la settorialit delle politiche per garantire una risposta globale e unitaria ai bisogni dei cittadini. Per questo motivo il sistema toscano di welfare si distingue nettamente in Italia per aver riformulato la logica dei diritti sociali sulla base della cittadinanza ed in senso universalistico. Il caso toscano evidenzia un grado di innovativit nelle riforme difficilmente riscontrabile in altre realt regionali. Gli interventi pi recenti come lintroduzione della programmazione integrata di sociale e sanitario attraverso ladozione di un piano unico sia a livello regionale (PISR) che a livello locale (PIS) e quindi la costituzione delle Societ della Salute, la sperimentazione dei livelli di base di cittadinanza sociale, ladozione delle Carte di cittadinanza, lintroduzione dello schema regionale della carta dei servizi hanno fortemente caratterizzato il sistema di protezione sociale immaginato dalla regione in senso universalistico. In questo contesto ha svolto un ruolo cruciale il forte rilievo dato agli strumenti ed alle sedi della partecipazione degli attori istituzionali e sociali nellottica della valorizzazione della partecipazione sociale e comunitaria, ma soprattutto con lintento di coinvolgere le persone destinatarie degli interventi nei processi di definizione e programmazione dei servizi. Lattivazione e lempowerment del cittadino, nel caso Toscano, sono quindi due chiavi interpretative utili per definire il modello che va delineandosi. Lintento perseguito stato quello di raggiungere nella programmazione la pi ampia rappresentazione degli interessi dei cittadini e di condividere con loro le scelte relativamente alle modalit di risposta al bisogno. Per questo la Regione ha adottato strumenti di concertazione e confronto con le parti sociali ed ha attivato la pi ampia
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partecipazione delle associazioni degli utenti, dei consumatori e dei soggetti del terzo settore, durante il percorso di sperimentazione delle Societ della Salute. Il processo di programmazione ha visto presenti, ciascuno per il ruolo previsto dalla normativa, tutti i soggetti istituzionali e le rappresentanze associative della societ civile. La programmazione (nello specifico il PISR) si cos configurato come il risultato di un processo partecipato sia nella dimensione locale che sul piano regionale. Gli enti locali hanno nel tempo via via assunto compiti importanti e contribuito visibilmente ad una rapida crescita qualitativa della programmazione locale. A livello locale oggi il PIS (piano integrato di salute) ad incarnare di fatto lintegrazione tra sociale e sanitario. I compiti affidati ai PIS riguardano infatti : la definizione del profilo epidemiologico della comunit di riferimento con particolare riguardo alle condizioni delle persone caratterizzate da una debolezza di vario tipo: socio-economica, culturale, derivante da particolari stili di vita, ovvero che si concretizza in difficolt nellaccesso ai servizi. In questo senso stabilendo per le comunit di riferimento gli obiettivi di salute e di benessere e i relativi standard quantitativi e qualitativi, nonch le azioni concrete per raggiungerli e le risorse disponibili. Quindi, offre realizzazione sul piano della programmazione alla visione complessa della salute-benessere e dei diritti di cittadinanza come diritti fondamentali delluomo (Campedelli, 2009). In tema di partecipazione vale la pena ricordare che la Regione Toscana, gi con la legge 69/2007 aveva sancito e sposato un particolare modello di democrazia partecipativa che ha poi tentato di estendere trasversalmente a tutte le aree di policy. Anche al livello delle Societ della salute il tema della partecipazione sociale alla programmazione stato non solo assunto come una necessit, ma la partecipazione stata normata attraverso una vera e propria strutturazione degli organi e delle sedi deputati a realizzarla divenendo in qualche modo organica al sistema di welfare. Alcuni articoli della legge n.60 del 2008 ne danno definizione. In estrema sintesi vengono indicate tre forma di partecipazione da avviare o allinterno delle Societ della salute o attraverso esse. Vengono istituiti, infatti, due organi di riferimento ad ogni livello territoriale: la Consulta del terzo settore ed il Comitato di partecipazione. Il primo organismo raccoglie tutti i soggetti del privato sociale che sono parte o ambiscono ad esserlo del sistema di offerta dei servizi sul territori, che sono direttamente coinvolti nella gestione dei servizi e che pertanto sono portatori di esperienze e professionalit ma anche di interessi chiari e definiti; il secondo organismo invece composto da membri che devono essere espressione di organizzazioni rappresentative dellutenza che usufruisce dei servizi oppure dellassociazionismo di tutela (advocacy) e di promozione e sostegno attivo. La terza gamba della partecipazione la partecipazione dei cittadini in quanto tali in forma non organizzata e si sviluppa attraverso le attivit di comunicazione e incontro che le Societ della Salute sono obbligate a tenere come le agor della salute cio eventi pubblici aperti alla popolazione nei quali partecipano anche gli esponenti politici. Ci possibile anche perch in Toscana il Terzo Settore una realt radicata e organizzata, capace di sostenere le famiglie nelle situazioni di sofferenza e disagio e capace di costituire, in rapporto integrato con i servizi pubblici, una strutturata rete di protezione sociale, che trova espressione viva in un ricco tessuto di volontariato, associazionismo, cooperative sociali: sono pi di 2.400 le organizzazioni di volontariato scritte al registro regionale, 1.700 le associazioni di promozione sociale, oltre 500 le cooperative sociali, e il fenomeno risulta costantemente in crescita negli ultimi anni.
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Bisogna per sottolineare che a fronte di una evidente considerazione e volont di strutturazione dei processi di partecipazione il potere reale attribuito agli organismi prima descritti (Consulta del terzo settore e Comitato di partecipazione) non che consultivo e mai vincolante n in fase di approvazione del PIS, n in fase di valutazione dei risultati raggiunti e ci depotenzia molto laccento sulla partecipazione che la Regione ha inteso dare. Tornando al tema dellintegrazione delle politiche possiamo certamente dire che la Regione Toscana ha molto investito in tal senso. Tuttavia lintegrazione, cos definita di alto livello, stata sviluppata soprattutto tra le politiche sociali da un lato e quelle sanitarie dallaltro. Resta da valutare se e in che misura questa marcata integrazione tra larea sociale e sanitaria abbia reso, ad esempio pi complicata o semplicemente meno centrale e visibile lintegrazione (pure rilevante) tra larea delle politiche sociosanitarie e larea delle politiche per il lavoro e per la formazione cos rilevanti nel profilo di benessere complessivo della persona. Tuttavia oggi le Societ della Salute sono un esempio chiaro della direzione di forte integrazione impressa ai due comparti e soprattutto del modo di intendere lintegrazione stessa. al livello delle Societ della Salute, quindi, che si delineeranno i diversi profili in merito alla gestione delle politiche (meccanismi di erogazione: affidamenti in esterno vs politiche di solvibilt della domanda), accesso ai servizi e quindi fruizione delle prestazioni e criteri di selettivit della domanda e relativamente al rapporto tra misure passive e politiche attivanti (di cura, assistenza, inclusione sociale e contrasto alla povert) sulla base di un frame regolativo regionale. Il tema dellintegrazione tra queste politiche e quelle del lavoro e della formazione che sono in gran parte competenza delle province presuppone il raccordo tra questi due enti e si pu certamente anticipare che a differenza del comparto socio-sanitario questo livello dintegrazione ben pi complesso da ottenere proprio a causa dei diversi soggetti che hanno in capo la potest legislativa e gestionale delle diverse policy.

4.3 Un quadro generale del sistema dei servizi allinfanzia in Toscana14. La Regione Toscana ha una tradizione di forte radicamento e sviluppo dei servizi alla prima infanzia. Gi a partire dal 1973 con lapprovazione di una prima legge sui nidi questo genere di interventi gode di legittimazione finanziamenti dedicati che collocano questa regione ai pi alti livelli in Italia nel grado di copertura dellofferta. Nel tempo non sono mancate rimodulazioni in quantit e qualit di fronte a criticit che le stesse istituzioni hanno riconosciuto. Essi possono essere riassunti come indicato nel Piano triennale per i servizi allinfanzia 2007-2010 nei seguenti punti:
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liniziale rigidit dellofferta di ununica tipologia di servizio (il nido); lesistenza delle liste dattesa; la diseguale distribuzione territoriale del servizio; la lievitazione dei costi.

le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte dal Piano triennale per i servizi allinfanzia 2007-2010.

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Lesigenza di riprogettazione stata tradotta nella Legge Regionale 22/1999 e in seguito nella Legge 32/2000 Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro. Con questa legge i servizi per linfanzia vengono ricompresi nel ventaglio degli interventi in favore di educazione, formazione, sviluppo, denotando lindirizzo strategico dei principi assunti alla base dellaidea stessa di educazione. Coerentemente con una concezione integrata delle politiche la cura della prima infanzia viene a rientrare nelle azioni di promozione del diritto allapprendimento lungo tutto larco della vita, come diritto della persona. Lancoraggio ai diritti individuali e alle pari opportunit di accesso anche in questo campo rimane centrale come principio guida della regolazione pubblica. Esso identifica, tuttavia, un troncone di politiche integrate autonome rispetto a quelle eminentemente assistenziali contenute nel PISR. Al suo interno la tematica minori identifica specifiche misure di sostegno alle responsabilit familiari, ma riguardanti laffido, ladozione, la tutela fuori della famiglia dorigine, laccoglienza residenziale in caso di maltrattamenti, minori non accompagnati. Diversa la legislazione che insiste sul sistema dei servizi educativi. Lattuale programmazione, riferibile al Piano di Indirizzo Generale Integrato 2006-2010, riafferma in coerenza con quanto gi sottolineato i principi dellintegrazione come leva per lo sviluppo dellapprendimento permanente. Per questo anche nella prima infanzia sostanziale lancoraggio alla Strategia di Lisbona in linea con lobbiettivo di estendere entro il 2010 la copertura ad almeno il 33% dei bambini minori di tre anni. Attualmente questo rapporto vicino al 28%, il 14,7% in pi rispetto al 2000 (Piano di Indirizzo Integrato 2006-2010). Si tratta di un traguardo a portata di mano che la Regione ha inteso perseguire in questi anni con diverse tipologie di servizi integrati (Nido dinfanzia, Centro gioco bambini e genitori, Centro gioco educativo, Nido domiciliare, Nido aziendale) in un piano di programmazione che ricongiunge il diritto dei minori alla cura con lo sviluppo di attivit educative e sociali finalizzate alla promozione di un processo continuo di apprendimento lungo tutto larco della vita. Appare di interesse lottica adottate per lidea di una sorta di strategia di investimento sociale che guarda alla prima infanzia come il momento cruciale, non solo dellinvestimento nellapprendimento continuo, ma altres della possibile ritrasmissione e riproduzione di disuguaglianze sociali e conflitti identitari (culturali o religiosi). Su questi aspetti, non meno rilevanti dei primi, i servizi intervengono come detto con una pluralit di alternative aperte allinterazione congiunta tra bambini, educatori, genitori e famiglie. Per schematizzare esse possono essere cos riassunte:

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Tab. 1, Tipologia dei servizi allinfanzia in Toscana


Nido dinfanzia Et Bambini tra 3 mesi e 3 anni Centro gioco bambini e genitori Bambini da 3 mesi a 3 anni Centro gioco educativo Bambini tra 18 mesi e 3 anni Nido domiciliare Bambini di et inferiore ai 3 anni Nido aziendale Bambini da 3 mesi a 3 anni figli di lavoratori e bambini residenti nel territorio di riferimento (riserva del 10%) Servizi educativi e sociali

Tipo servizio

Servizi educativi e sociali

Servizio a carattere educativo e ludico. Il servizio privo di mensa e riposo pomeridiano

Servizi e progetti ludici temporanei nella giornata. Pu essere comprensivo di mensa e riposo pomeridiano Progetti educativi e ludici, socializzazione e comunicazione con i coetanei

Tipo attivit

Socialit, gioco, pasti. Riposi pomeridiani

Socialit, gioco per i bambini e spazi di comunicazione e interazione per i genitori Previsione di spazi di incontro e comunicazione per gli adulti, ai fini del loro Concorso realizzazione dei programmi educativi. Logica di corresponsabilit tra adulti e educatori Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Servizi educativi e di cura presso il domicilio di famiglie con bambini di et inferiore ai tre anni, disponibili ad aggregarsi e mettere a disposizione spazi domestici per laffidamento, previa autorizzazione da parte del comune Cura continuativa

Vedi nido dinfanzia

Interazione con gli adulti

Le famiglie concorrono alla crescita, cura e socializzazione dei bambini

Vedi nido dinfanzia

Tipo di personale impiegato

Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Educatori in possesso di appositi titoli professionali e specifiche competenze

Educatori in possesso di appositi titoli professionali. Educatori familiari appositamente formati; Educatori a domicilio appositamente formati

Vedi nido dinfanzia

Fonte: Piano di Indirizzo Integrato 2006-2010

I servizi educativi ad oggi coprono il 28,5% della popolazione tra gli 0 e 2 anni. Dei 742 servizi, 532 sono costituiti da nidi dinfanzia e 210 da interventi integrativi (Sistema informativo regionale adolescenza SIRIA, 2008). Dalle rilevazioni del sistema informativo regionale (vedi Tab. 2), le liste di attesa risultano pari a 9.815 unit, a fronte di 21.071 bambini che frequentano un qualche servizio. Pur constatando evidenti, il problema delle liste dattesa rimane il problema principale del sistema di offerta.

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Tab. 2 Servizi per la prima infanzia per Provincia e Lista di attesa Iscritti - anno educativo 2005/06

Provincia Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa e Carrara Pisa Pistoia Prato Siena Totale Regione

Servizi 58 257 32 51 54 14 79 66 73 59 743

Lista Attesa 685 4140 832 294 606 167 1005 797 895 410 9831

Iscritti 1624 7512 798 1624 1560 576 2059 2106 1749 1463 21071

Fonte: sistema informativo regionale infanzia adolescenza (SIRIA)

In questo quadro, la strategia intrapresa punta innanzitutto allinnalzamento della copertura, attraverso il potenziamento dei servizi pubblici e altres laccreditamento, proseguendo sulla strada gi tracciata in passato ma non a scapito della qualit delle prestazioni o dellabbassamento delle tutele e degli inquadramenti salariali degli operatori. In questa logica va vista linclusione nel sistema di offerta dei fornitori privati. Attualmente le organizzazioni private (vedi Tab. 3) coprono il 32% dellofferta totale, ma con una incidenza a livello provinciale non omogenea. Dalla unica unit presente nella provincia di Massa e Carrara, si passa alla pressoch totale parit di servizi pubblici e privati di Prato (37 a fronte di 36).

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Tab. 3 Servizi per la prima infanzia pubblici e privati in Toscana - anno educativo 2005/06

Provincia Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa e Carrara Pisa Pistoia Prato Siena Totale Regione

Pubblici 39 184 22 39 41 13 47 47 37 38 507

Privati 19 73 10 12 13 1 32 19 36 20 235

Totale 58 257 32 51 54 14 79 66 73 58 742

Fonte: sistema informativo regionale infanzia adolescenza (SIRIA)

Rispetto al tipo di regolazione emergente, possiamo dire che essa si configura come una governance multilivello in cui le amministrazioni sono chiamate a svolgere diverse funzioni. Da un lato la centralit della fornitura pubblica, dallaltro la non meno importante azione di accreditamento, monitoraggio, controllo qualit per la gestione dei servizi in esterno. Il tutto allinterno di una strategia il cui scopo fondamentale quello porre le famiglie di fronte a diverse tipologie e alternative di cura parimenti di qualit: strutture pubbliche, strutture private accreditate (in questo caso riconoscendo altres la possibilit di usufruire di buoni servizi alla famiglie nelle zone prive di servizi comunali), strutture domiciliari familiari, nidi dinfanzia, centri giochi, etcMa non solo in risposta ai bisogni di cura e conciliazione vita-lavoro gli interventi integrati per linfanzia sono pensati. Nellottica di una politica sociale volta alla promozione dellapprendimento lungo tutto larco della vita, linfanzia costituisce il momento strategico dellinvestimento nel life-long learning.

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4.3.1 La programmazione regionale e le scelte future. Il Piano di indirizzo generale integrato 2006/2010 come abbiamo visto definisce le politiche, gli indirizzi operativi e rappresenta anche lo strumento programmatico al quale si riferisce la pianificazione provinciale e zonale. Al suo interno la regione riconosce un ruolo fondamentale agli enti locali, incaricati della gestione dei servizi integrati allinfanzia. Per s la regione ritaglia un ruolo di coordinamento strategico, fatto di finanziamenti dedicati, di formazione e aggiornamento per gli operatori, di azioni di monitoraggio a valutazione delle scelte compiute sui territori. Ma non solo in senso verticale che larticolazione dei rapporti istituzionali si mostra incardinata in una logica di rete. Parimenti integrati sono i rapporti che sul territorio connettono lofferta pubblica, con quella privata accreditata, con i comuni responsabili delle funzioni di accreditamento, autorizzazione, regolazione, monitoraggio, controllo. Considerano la rilevanza che hanno le politiche per linfanzia, per il futuro la regione prevede, da un lato, la realizzazione di nuovi servizi, sia a gestione pubblica che privata. Dallaltro per potenziare il sistema di conciliazione vita-lavoro, si deciso di intervenire anche con lo strumento del voucher (Concessione di un buono pari a 3.000 euro annui) per le famiglie con bambini in lista di attesa. Si tratta di una soluzione che mira ad agevolare le esigenze di conciliazione, laddove i servizi pubblici o accreditati non arrivano a coprire la domanda. Lassegnazione dei voucher avviene tramite bando regionale per i comuni che hanno liste di attesa. La strada della solvibilit, mantiene in Toscana una forte impronta regolativa pubblica. Non si tratta di titoli di acquisto che semplicemente conferiscono alla famiglia trasferimenti per la scelta delle strutture, ma di una soluzione integrativa delle reti di offerta in servizi gestite dai comuni.

4.4 Assistenza socio-sanitaria e politiche per linfanzia. Similitudini e differenze. E interessante a questo punto soffermarsi sulle specificit di questo comparto rispetto ad altre aree dellassistenza toscana. In particolare questo vale per laltro grande asse della politica sociale regionale, quello dellintegrazione socio-sanitaria. Entrambi godono di un livello di strutturazione assai consolidato con esperienze di riforma che precedono gli input provenienti dal livello nazionale. Diversa tuttavia limpostazione alla base del loro funzionamento. Lintegrazione socio-sanitaria lasse prioritario di integrazione che pi, possiamo dire, arrivato alla fusione strutturale. Le politiche sociali e quelle sanitarie in Toscana non solo sono chiamate a collaborare, a integrarsi vicendevolmente ma, di fatto, coincidono, avendo assunto la regione il concetto di salute allinterno di quello pi ampio di benessere. Questo significa ladozione di strumenti di pianificazione comuni, ben al di l delle forme di integrazione previste dalla normativa nazionale sullassistenza. Il tutto attraverso una impronta forte della governance sui territori, in termini di vincoli e opportunit da tradurre in pratiche concrete di programmazione e gestione integrata. Come gi detto la Societ della Salute il contenitore che a questo fine ricomprende tutte le funzioni sociali e sociosanitarie, definendo un sistema dotato di un alto grado di complessit istituzionale, anche al prezzo di un qualche sovraccarico amministrativo. Occorre per sottolineare che la strada intrapresa necessariamente fa i conti con unalta complessit. E a partire dallambito sanitario, sottoposto a un profondo processo di riorganizzazione territoriale,
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che si sono prodotte le innovazioni in direzione del rafforzamento delle prestazioni sociali, in questo modo portate al centro dellofferta locale. Ma gli obbiettivi sono stati anche altri. Non solo lintegrazione, o meglio, la convergenza delle politiche, ma altres il coordinamento e laggregazione degli enti locali e delle Asl allinterno di organismi di gestione politica pi grandi, come la Conferenza dei Sindaci, che hanno il compito di gestire le Societ della Salute. Diverso il discorso per i servizi allinfanzia, i quali rappresentano un altro asse prioritario ma esterno allambito prettamente assistenziale. Lintegrazione qui corre lungo lasse della promozione dellapprendimento permanente lungo tutto larco della vita, individuando nellinfanzia il primo gradino di una azione integrata, che si traduce anche in una diversit di dispostivi. In questo comparto meno netto il perno dominante poggiante sullintegrazione verticale delle strutture amministrative, siano esse relative alle competenze delle Asl o degli enti locali. Accanto alla centralit dei servizi pubblici, non mancano nella cura dellinfanzia innovazioni in direzione dellallargamento della rete anche ai soggetti privati, sebbene tramite accreditamento, e altres verso il sostegno monetario alle famiglie che non rientrano nelle liste dattesa. In questo si ravvede una strategia multicanale, fatta cio di diverse alternative che puntano a estendere il ventaglio delle possibilit in favore dellutente oltre la sola fornitura pubblica, il tutto per senza mancare di una forte regia regionale. Parimenti, come si potr notare dallo studio di caso condotto su Arezzo, quello dellinfanzia un settore che tende a integrarsi con il sostegno alla conciliazione vita-lavoro e alloccupazione femminile. Diversamente la questione dellintegrazione socio-sanitaria si lega soprattutto al problema della non autosufficienza. Con le Societ della Salute la riorganizzazione territoriale delle cure sanitarie rientra in un progetto di riforma che punta soprattutto a rispondere ai problemi posti dalla non autosufficienza, con lindividuazione di progetti di assistenza continuativi che vengono dal consolidamento dei processi di deospedalizzazione. 4.5. Le politiche di conciliazione vita-lavoro. Gli obiettivi pi generali alla base delle politiche di conciliazione dei tempi in Toscana si declinano, come naturale che accada, in una serie di sub -obiettivi settoriali che fanno riferimento anche ai contenuti delle politiche sociali integrate cos come individuati dalla Legge regionale 41/2005. In primo luogo bene sottolineare la forte spinta al sostegno delle responsabilit familiari (con un forte valore innovativo per lottica di genere e il tema della conciliazione tra tempi di vita e di lavoro) che la Regione ha realizzato negli ultimi anni. In particolare limpegno maggiore riscontrabile in una poderosa azione di qualificazione dei servizi, di personalizzazione delle prestazioni e nella tempestiva comprensione e rilevazione degli oneri di cura che gravano in particolare sulle donne e delle loro specifiche esigenze. Tutto questo si lega come abbiamo visto poco sopra alla diffusione di servizi multicanale tesi a estendere le possibilit di offerta e di conseguenza di conciliazione vita-lavoro. Ma relativamente al tema delle Pari opportunit di genere fondamentale citare la legge che la Regione Toscana ha promulgato solo qualche mese fa, nello specifico la Legge regionale 2 aprile 2009, n. 16 sulla Cittadinanza di genere. Questa legge ha visto un periodo di gestazione molto lungo e partecipato. Nella redazione sono stati coinvolti tutti i gruppi, le associazioni e i forum di donne che nel tempo si sono costituiti nel territorio toscano. Anche i sindacati hanno contribuito alla stesura della legge, in particolare per ci che
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attiene laccesso e la promozione del lavoro delle donne e le azioni a sostegno della conciliazione dei tempi. Alla conciliazione tra tempi di vita e lavoro la legge dedica un intero capo ed individua gli strumenti fondamentali per la sua realizzazione: a) sperimentazione di formule di organizzazione dellorario di lavoro nella pubblica amministrazione e b) nelle imprese private volte alla conciliazione vita-lavoro; c) promozione di unequa distribuzione delle responsabilit familiari tra donna ed uomo; d) incremento del ricorso ai congedi parentali da parte degli uomini; e) attuazione di interventi nellambito del governo del tempo e dello spazio urbano e pianificazione f) degli orari della citt; g) lotta agli stereotipi di genere che limitano le scelte lavorative e lassunzione di ruoli di h) responsabilit da parte delle donne. In particolare la legge attribuisce alle Province il compito di implementare i progetti e le azioni concrete di conciliazione non dimenticando di favorire la concertazione e la partecipazione dei soggetti della societ civile. Ulteriori innovazioni consistono nellistituzione della banca dati dei saperi delle donne nella quale sono inseriti i curriculum delle donne con comprovate esperienze di carattere scientifico, culturale, artistico, professionale, economico, politico, che lavorano o risiedono in Toscana. La banca dati uno strumento del quale viene data diffusione e informazione allo scopo di rappresentare lampio mondo dei saperi delle donne e favorire anche unadeguata presenza delle donne in ruoli fondamentali della vita regionale. A tale scopo la banca dati favorisce anche la divulgazione di competenze femminili al fine delle indicazioni e proposte di designazioni e nomine. La legge poi istituisce formalmente il forum sulla cittadinanza di genere e il Tavolo regionale di coordinamento per le politiche di genere che ha lobbiettivo di favorire lintegrazione tra i segmenti delle politiche che incidono sul fenomeno della parit di genere. Individua infine, gli elementi necessari per una programmazione soddisfacente in materia nella disponibilit di statistiche di genere relativamente agli ambiti pi cogenti: politiche economiche e delloccupazione, politiche sanitarie e sociali, formazione e informazione. Dal punto di vista della programmazione prevede la predisposizione del Piano regionale della cittadinanza di genere.

4.6 Il sistema regionale toscano per le politiche dellimpiego e le politiche attive del lavoro. A partire dal 1997 con il d.lgs.469/1997 le politiche del lavoro e di collocamento, vengono trasferite dallo Stato alle regioni e agli enti locali e si stabilisce che anche i soggetti privati (imprese, societ cooperative, enti non commerciali) possano, dopo aver ricevuto lautorizzazione ministeriale svolgere lattivit di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, facendo venir meno quindi il monopolio pubblico del collocamento. Il
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d.lgs 469/1997 definisce soltanto i criteri generali per lorganizzazione dei sistemi regionali per limpiego e demanda invece alla legislazione regionale il compito di definire la modalit specifiche. In meno di un anno la regione Toscana con la L. R. n. 52 del 6 Agosto 1998, stabilisce le Norme in materia di politiche del lavoro e di servizi per l'impiego, istituendo in luogo dei vecchi uffici di collocamento i centri per limpiego e le loro articolazioni territoriali. Il sistema regionale Toscano per i servizi per l'impiego risulta quindi costituito dai centri per limpiego e dalle Commissioni Provinciali Tripartite, a livello provinciale, dalla Commissione Regionale Permanente Tripartita a livello regionale e dal Comitato di Coordinamento Istituzionale. Le Commissioni provinciali tripartite, istituite in ogni provincia (Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Pistoia15, Prato, Siena) sono degli organismi di concertazione con le parti sociali in materia di programmazione provinciale delle politiche attive del lavoro, della formazione professionale e di gestione dei servizi per l'impiego e dei Centri per l'Impiego. La Commissione regionale permanente tripartita un organismo di concertazione attraverso il quale le parti sociali concorrono alla determinazione delle politiche del lavoro e alla definizione delle relative scelte programmatiche e di indirizzo della Regione. Il Comitato di Coordinamento Istituzionale ha il compito del coordinamento delle funzioni istituzionali ai diversi livelli del sistema regionale per l'impiego e delleffettiva integrazione, sul territorio, tra i servizi all'impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative". Nel 1999 la legge n.68 introduce nuove norme per il diritto al lavoro per i disabili. Di conseguenza la regione Toscana modifica la L.R. n. 52/1998 integrandola con una nuova legge regionale, la L. R. n. 12 del 2000, con la quale viene istituito il Fondo regionale per loccupazione dei disabili (al fine di finanziare le iniziative per linserimento dei disabili nel mondo del lavoro) e il Comitato regionale per il fondo, (composto da un assessore regionale, un componente delle organizzazioni sindacali, uno delle organizzazioni datoriali e uno delle associazioni dei disabili). Nel 2001 la Toscana con la L. R. n. 29 introduce il Piano regionale per le politiche dellimpiego e per le politiche attive del lavoro. Si tratta di uno strumento di programmazione con il quale la regione definisce i servizi allimpiego e le politiche attive del lavoro, favorendone lintegrazione con i piani della formazione, dellorientamento professionale, dellistruzione e delle politiche sociali. Si tratta di un primo passo verso una programmazione integrata delle suddette politiche. In seguito alla L. R. 29/2001 la funzione di programmazione delle politiche attive del lavoro spetta alla Giunta regionale, la quale, avvalendosi della Commissione regionale permanente tripartita e dopo aver sentito il Comitato di Coordinamento Istituzionale propone il piano regionale per le politiche dell'impiego e per le politiche attive del lavoro. Il piano, soggetto all'aggiornamento annuale, ed approvato tendendo conto dei piani regionali per l'orientamento e la formazione professionale, indica gli obiettivi e le strategie dell'intervento regionale, stabilendone le risorse finanziarie. Esso si articola nel dispositivo di piano, nel disciplinare di attuazione e nel programma finanziario. Il dispositivo di piano definisce i criteri generali per lomogeneizzazione dei servizi per limpiego, gestiti dalla province, su tutto il territorio regionale, specificando le forme di raccordo ed integrazione tra le politiche attive del lavoro, le politiche formative e della
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Per maggiori info vedi link:

http://www.provincia.pt.it/LAVORO/COMMISSIONE_TRIPARTITA/el_commissione_tripartita.htm

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formazione professionale, definendo gli standard minimi di efficienza dei servizi e di qualit delle prestazioni al fine di garantire l'omogeneit del sistema e tenendo conto della differenza di genere. Il disciplinare di attuazione definisce le procedure e individua gli strumenti per la valutazione dei servizi per l'impiego e degli strumenti di politica attiva del lavoro. Il programma finanziario infine individua le risorse finanziarie, indicando i criteri per la loro ripartizione e le quote da riservare a eventuali programmi di iniziativa regionale o a specifici progetti finalizzati ed aggiornato annualmente. Il piano infine deve essere approvato dal Consiglio regionale. Nel 2002 la Toscana emana un Testo unico in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro, con la L. R. n. 32 del 2002, che introduce il Piano di indirizzo generale Integrato (PIGI), ovvero un documento di programmazione che mette insieme tutte le norme su educazione, istruzione, formazione, orientamento e lavoro, definendo i compiti e le funzioni di regione, province e comuni e stabilendo lintegrazione fra momenti che non possono e non devono essere disgiunti. Nel 2005 interviene la nuova L. R. n. 20 che apporta modifica alla precedente normativa. Il nuovo testo interviene su diversi aspetti, in particolare in materia di intermediazione di manodopera, requisiti di accreditamento per servizi di orientamento e informazione, collocamento dei disabili e delle persone svantaggiate, infine nella regolamentazione dellapprendistato. 4.6.1 Le politiche attive del lavoro in favore delle donne nella regione Toscana Per lanalisi delle politiche attive del lavoro realizzate nella regione Toscana negli ultimi anni fondamentale il riferimento ai seguenti documenti: Il Piano Generale Integrato 2006-2010; Il Piano di Sviluppo Regionale 2006-2010; Il Piano Operativo Regionale della Toscana 2007-2013; Il Patto per loccupazione femminile in Toscana del 25 Luglio 2008;

Un elemento centrale delle politiche attive del lavoro realizzate in Toscana sembra essere lattenzione per le politiche di genere e per la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, come dimostrano le azioni realizzate per incoraggiare la creazione di impresa al femminile, dedicando degli appositi sportelli alle donne e prevedendo la presenza della figura dellanimatrice di parit e della referente di genere presso i centri per limpiego. In Toscana la partecipazione femminile al mercato del lavoro presenta delle disomogeneit territoriali. La scarsa partecipazione femminile al lavoro riguarda in particolare alcuni territori, come per esempio a Livorno e a Massa Carrara dove la percentuale di donne occupate al di sotto del 50%, mentre in altre aree gli obiettivi comunitari sono gi stati raggiunti (Firenze) o sono prossimi al raggiungimento (Siena). Un ulteriore svantaggio della componente femminile presente nel mercato del lavoro regionale, riguarda il fatto che le donne sono la componente con una maggiore probabilit di accesso ai lavori flessibili. Ma quello che risulta pi allarmante il fatto che le donne risultino nettamente svantaggiate nei percorsi di stabilizzazione16.

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Ripercorrendo liter degli ultimi interventi legislativi in materia di politiche del lavoro in favore delle donne, nel 2006 viene avviata una sperimentazione per incentivare il reinserimento nel mercato del lavoro di donne, con una et compresa tra i 35 e i 45 anni (fascia di et durante la quale le donne si trovano a dover lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura dei figli e alla famiglia). Dopo una prima fase di sperimentazione, nei primi mesi del 2007 si deciso di eliminare il tetto dellet massima, in modo da facilitare laccesso agli incentivi (che sono stati rifinanziati per il 2008 e per il 2009). Vengono introdotti a partire dal 2006 dei voucher per rimborsare liscrizione delle studentesse alle facolt scientifiche, generalmente frequentate in maggioranza da uomini, in modo da incoraggiare laccesso delle donne. Uno degli obiettivi delle politiche attive del lavoro comune al PIGI e al Piano di Sviluppo regionale 2006-2010 stato quello di puntare sulla conciliazione lavorofamiglia, attraverso misure di potenziamento degli asili nido (sia pubblici, sia aziendali) e attraverso i voucher di conciliazione. Nel Luglio del 2008 viene firmato il Patto per loccupazione femminile17 con lobiettivo di per raggiungere entro il 2010 un tasso di occupazione femminile pari ad almeno il 60%, cos come stabilito dalla Strategia Europea sullOccupazione. Nel patto vengono indicati interventi preventivi di contrasto della disoccupazione delle donne e una serie di misure promozionali per favorire linserimento lavorativo delle donne, finanziate con risorse provenienti dal POR FSE Ob. 2 2007/2013. Tra queste ricordiamo la promozione programmi come PARI, gestito da Italia Lavoro, che integrino misure passive di sostegno e interventi attivi per il reinserimento lavorativo; lo stanziamento di incentivi per lassunzione di donne; lutilizzo delle Carte Formative ILA (Individual Learning Account) su tutto il territorio regionale. Le ILA sono carte formative, di importo minimo di 2.500 euro, distribuite dalle provincie per sostenere la formazione. Tale misura, inizialmente sperimentata soltanto in alcune province della regione, si rivelata women-friendly, dal momento che su 3000 carte erogate il 70% stato utilizzato da donne. Nel patto viene inoltre sostenuta limportanza di puntare alla qualificazione delle donne sul mercato del lavoro. Le politiche di formazione vengono integrate con le politiche per linfanzia, sperimentando i voucher a sportello per lacquisto documentato di servizi di cura per minori, anziani e disabili. Si tratta di uno strumento che punta a favorire le azioni di ricerca attiva delloccupazione da parte delle donne, e a promuovere la formazione attraverso la partecipazione a work experience e tirocini.

16

Nel sito della regione Toscana si legge infatti che a distanza di 6 anni da un avviamento al lavoro con tipologia contrattuale a termine, solo il 42% della componente femminile risulta essersi stabilizzata nel mercato del lavoro contro il 61% di quella maschile.

http://www.regione.toscana.it/regione/multimedia/RT/documents/1217584911565_patto_occupazione_fe mminile.pdf
17

Il testo del Patto per loccupazione femminile firmato il 25 Luglio del 2008 disponibile sul sito della regione Toscana al seguente indirizzo:

http://www.regione.toscana.it/regione/multimedia/RT/documents/1217584911565_patto_occupazione_fe mminile.pdf

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Per rafforzare le politiche di conciliazione vita/lavoro, vengono sollecitate azioni alle imprese, per garantire ai lavoratori, sia uomini che donne, lutilizzo di congedi parentali, part-time a tempo indeterminato, telelavoro e servizi di supporto (come ad esempio asili nido aziendali e/o interaziendali, centri estivi o strutture assistenziali). Un altro punto qualificante del patto riguarda il contrasto al lavoro nero e irregolare e la proposta di un progetto pilota regionale per promuovere linserimento di donne straniere in lavori di prestigio e visibili. Si punta in tal modo ad abbattere gli stereotipi esistenti sulle donne immigrate e a superare la doppia discriminazione che le relega al solo lavoro di cura.

4.6.2 Limpatto della crisi sulla regolazione delle politiche. Limpatto della crisi ha impattato sugli strumenti ordinari di gestione delle crisi occupazionali. A livello nazionale le misure anticrisi hanno operato sul versante degli ammortizzatori sociali in deroga. Anche in Toscana come in altre regioni stato raggiunto un accordo tra regione e parti sociali che ha esteso la possibilit di accedere alla cassa integrazione per tutti i lavoratori dei settori produttivi, le aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Gli accordi hanno previsto varie forme di interventi sia sulle aziende, sia nei riguardi dei singoli che si trovino in condizioni di difficolt. Per quanto riguarda le prime va ricordata lincentivazione dei contratti di solidariet e la rimodulazione degli orari di lavoro - al fine di assicurare la continuit del rapporto di lavoro- e soprattutto lintroduzione Fondi condizionati allassunzione e stabilizzazione delle figure pi deboli nel mercato del lavoro: lavoratori a tempo determinato, lavoratori in mobilit, donne disoccupate con pi di 35 anni, giovani laureati. Per riguarda lintervento sulle persone vanno segnalate misure che puntano ad allargare larea dellassistenza cosiddetta dedicata. Nel 2008 per i lavoratori privi di qualsiasi ammortizzatore sociale (con un reddito Isee inferiore a Euro 12.500,00) stato previsto un contributo una tantum di 1.650,00 euro. Completano il quadro agevolazioni sui mutui e un Fondo di garanzia (nel limite di 15.000 euro) per gli atipici, al fine di garantire laccesso al credito per necessit legate alla condizione familiare, sociale, abitativa. Le iniziative intraprese concorrono a definire un insieme di azioni assai articolate, agenti soprattutto sulla continuit del reddito, di fronte a situazioni emergenziali che diventano sempre pi acute in un mercato del lavoro che fino a prima della crisi non presentava (o presentava solo in misura limitata ad alcune zone) problemi di disoccupazione strutturale. Parimenti questi medesimi strumenti prevedono una azione stabilizzatrice da attuarsi nei confronti delle aziende, configurando in questo caso una strategia volta alla creazione di occupazione per segmenti di forza lavoro pi a rischio in questa fase. Le problematicit tuttavia non mancano. Innanzitutto per il carattere emergenziale delle innovazioni, dal quale, n le misure nazionali, n quelle regionali, sembrano avare la forza di uscire Anche considerando la proposta di istituzione di Reddito minimo avanzata dalla regione nel 2009, si potrebbe pensare a un Fondo costituito ad hoc, da finalizzare alla riunificazione dei vari strumenti di sostegno al reddito per i casi non rientranti nei dispostivi ordinari. Quella del Reddito minimo una questione che questa fase di recessione ci spinge a riconsiderare, non solo per la mancanza in Italia di una vera politica nazionale contro la povert, ma soprattutto per le possibilit di integrazione (tra
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misure passive e attive) che lassistenza dedicata potrebbe fornire in un quadro di riforma da estendere anche alla politiche del lavoro.

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Griglia 1: larchitettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro
Fasi di policy Minori Programmazione Rapporti istituzionali Ambiti di policy Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Governance orizzontale

Gestione

Tipicit del modello Fonti di finanziamento

Sussidiariet verticale: La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento, controllo e verifica Province e Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi Sussidiariet orizzontale: programmazione pubblica preminente. La Societ della Salute supera i Piani di Zona. Forme di partecipazione, concertazione, con gli attori del territorio (parti sociali, organizzazioni non profit, volontariato, gruppi di cittadini) Orientamento prevalente allofferta, ma accreditamento di fornitori privati secondo principi stabiliti a livello regionale Fondo nazionale politiche sociali Fondo Sociale regionale Fondo socio-sanitario Fondo Sociale Europeo 2007/2013

Strumenti di erogazione

Servizi e sostegni monetari, ma nel quadro di piani individualizzati e regia pubblica forte

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5. Il sistema di governance delle politiche sociali socio-sanitarie della Zona Aretina18

5.1 La programmazione integrata e partecipata delle politiche socio-sanitarie. La programmazione sociale della zona aretina si caratterizza per una forte impronta socio-sanitaria. In coerenza con gli indirizzi assunti dalla regione Toscana, gran parte della programmazione zonale finalizzata a questo obbiettivo, ma con metodi e percorsi di programmazione che in parte si discostano dal tipo di assetti di governance promossi dalla regione. Come noto il modello organizzativo individuato dalla regione Toscana per la gestione degli interventi socio-sanitari la Societ della salute, una struttura terza allinterno della quale vengono aggregate le amministrazioni e le strutture sociosanitarie (le Asl) in ambiti pi vasti che oltrepassano i confini dei singoli comuni. Le societ della salute hanno come obiettivo quello di promuovere la progressiva territorializzazione e integrazione tra le politiche sociali e sanitarie. Si tratta di unopzione dotata di un alto grado di complessit istituzionale che punta a consorziare gli enti locali e a favorire processi di innovazione nellassistenza attraverso innovazioni di sistema che coinvolgono la programmazione e gestione delle cure sanitarie, da finalizzare al rafforzamento della continuit assistenziale, della medicina di base, dellintegrazione socio-sanitaria. Nel caso di Arezzo la Societ della Salute non ancora stata costituita. Come sottolineato da alcuni intervistati vi sono stati ritardi nellattuazione delle linee programmatiche regionali e altres scelte volute dalle amministrazioni locali che hanno, nei fatti, rimandato ladozione di questo strumento di programmazione e gestione. Nonostante ci, la zona aretina ha proceduto comunque in direzione di una trasformazione del modello organizzativo, introducendo dei cambiamenti riguardanti i contenuti delle politiche (in merito ai quali linnovazione consiste nellintegrazione delle politiche sociali e sanitarie e la progressiva estensione dellintegrazione a tutte le politiche di settore che influiscano sulle determinanti di salute e del benessere dei cittadini), le modalit della programmazione (che evolvono da un tipo di partecipazione di natura consultiva ad una partecipazione sempre pi di tipo deliberativo) e infine gli strumenti di new public management introdotti per limplementazione delle politiche individuate. A partire dai paragrafi successivi verr descritto some sia andato strutturandosi il percorso di riforma del sistema di governance delle politiche sociali e socio-sanitarie, sottolineando gli elementi innovativi introdotti, gli attori coinvolti e gli strumenti adottati per realizzare una programmazione partecipata e una gestione integrata delle politiche socio-sanitarie nella zona aretina.

5.1.1
18

La programmazione delle politiche sociali: il Piano Sociale di Zona 2002.

Di Maria Concetta Ambra

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La Zona Aretina19 sin dal 2001 aveva iniziato a utilizzare dei meccanismi per la programmazione partecipata e la gestione associata delle politiche sociali. La programmazione delle politiche sociali, organizzata in sei aree di intervento (minori e famiglie; anziani; disabili; immigrati; povert ed esclusione sociale; dipendenze e salute mentale) ed attuata attraverso il Piano Sociale di Zona 2002 nel quale sono incluse lanalisi del contesto socio-economico, della domanda sociale e dellofferta di servizi, prestazioni e strutture (residenziali e semi-residenziali, pubbliche e private) [Piano Sociale 2002, p. 23]. Il sistema di governance per la programmazione e la gestione delle politiche sociali, si caratterizza gi come un processo partecipato, in quanto i soggetti del terzo settore e della cittadinanza locale sono coinvolti nella stipula di un Patto Territoriale Sociale. E importante sottolineare per che la partecipazione in questa fase, ha una natura pi consultiva e concertativa, nel senso che i cittadini sono chiamati ad esprimere le proprie aspettative, ma le decisioni finali spettano allarticolazione Zonale Aretina (dora in poi ZA). Inoltre, nel Piano Sociale di Zona 2002, sono gi presenti alcuni elementi che lasciano intravedere linizio di un percorso di riforma degli assetti organizzativi dei servizi sociosanitari verso una gestione associata tra Comuni e Asl e verso la definizione di standard minimi di diritti esigibili dal cittadino in merito ai servizi e alle prestazioni erogate. Nel modello di gestione infatti troviamo quelli che saranno i futuri attori del nuovo sistema di governance, ovvero la Segreteria Tecnica Zonale (con la descrizione delle sue funzioni, dalla composizione, dei collegamenti funzionali, delle risorse umane, strutturali ed economiche) e la Conferenza dei Sindaci. E gi presente quindi larchitettura Istituzionale della futura Societ della Salute, e si procede ad organizzare la programmazione delle politiche in direzione di una programmazione partecipata e la gestione e laccesso ai servizi dei Comuni verso un accesso integrato alla rete.

5.1.2 I nuovi attori della programmazione partecipata e della gestione integrata delle politiche socio-sanitarie. La programmazione partecipata promossa attraverso organi specifici che hanno il compito di raccogliere le istanze dei cittadini. Nella Zona Aretina sono stati istituiti due organi di partecipazione: la Consulta per la Partecipazione dei cittadini e il Tavolo di Concertazione per il coinvolgimento dei soggetti istituzionali e rappresentativi delle comunit locali e delle forze sociali. La consulta per la partecipazione aperta a tutti i cittadini ed organizzata in Forum tematici, coordinati ciascuno da un animatore. Gli animatori dei forum e un componente della ZA delegato ai processi di partecipazione, costituiscono il gruppo di coordinamento della consulta, che garantisce il contatto permanente tra lorgano politico e lorgano partecipativo. Gi nel 2006 la Zona socio-sanitaria aretina aveva sostenuto la partecipazione dei singoli e comuni cittadini alla programmazione nel settore della salute, ma
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Fanno parte della Zona-distetto Aretina i Comuni di Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino e Subbiano.

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principalmente con funzione consultiva. Il tavolo di concertazione composto invece dai rappresentanti dei soggetti organizzati, dai portatori di interessi collettivi (organizzazioni sindacali e del terzo settore) e dalle istituzioni del territorio (comuni, provincia, ASL, camera di commercio, ecc) ed presieduto dal Presidente della ZA. Nel 2007 tali organi di partecipazione vengono coinvolti nella programmazione del Piano Integrato di Salute (PIS) 2008. In primo luogo la Consulta, sulla base dei dati forniti dallarticolazione zonale identifica lImmagine di Salute, indicando alcune priorit dazione da inserire nel PIS. Il documento di Immagine di Salute viene quindi inviato al Tavolo di concertazione, il quale pu esprimere ulteriori osservazioni. Allinterno della segreteria tecnica della ZA, vengono individuati i Gruppi di Lavoro Tematici della Segreteria Tecnica, composti da: a) i membri della segreteria tecnica: a garanzia di una maggiore condivisione a livello territoriale e di una maggiore capacit di apportare completezza di elementi conoscitivi rispetto ai temi specifici; b) i membri dei Forum Tematici della Consulta: a garanzia della continuit delle attivit dei gruppi di lavoro con quanto elaborato nel Documento di Immagine di salute, in termini di analisi dei bisogni della comunit e di evidenziazione di alcune priorit di azione ; c) i membri dello staff di zona, con funzioni di supporto e coordinamento [PIS della Zona Aretina, anno 2006, p. 2]. Lultimo attore del processo di programmazione, titolare della funzione di governo lArticolazione di Zona della Conferenza dei Sindaci che, dopo aver recepito le indicazioni espresse nellImmagine di salute, esercita, la funzione politica di indirizzo degli Obiettivi di Salute e delle priorit di azione (14 Giugno 2007) e supervisiona il processo. La ZA supportata dal coordinamento della Segreteria Tecnica di Zona, che ha il compito di proposta degli interventi da attuare (Documento Tecnico di piano) e di stesura dei programmi operativi per la realizzazione degli interventi del PIS, nei quali devono essere indicate le risorse disponibili, (finanziarie, umane e tecnologiche) e gli enti e i soggetti coinvolti nella realizzazione del piano. [Composizione dei Gruppi di Lavoro Tematici della Segreteria Tecnica, Giugno 2007]. Il caso Aretino mostra quindi di aver optato per un modello di programmazione e gestione delle politiche nel quale sono coinvolti non solo le istituzioni ma anche i cittadini e i soggetti del terzo settore, sebbene secondo schemi fortemente strutturati e comunque in ottica consultiva. Daltra parte anche nella gestione associata dei servizi possibile osservare una moltiplicazione degli attori coinvolti e una progressiva inclusione dei responsabili tecnici, provenienti anche dal mondo dellassociazionismo nelle responsabilit che erano state esclusiva dei funzionari amministrativi. Nel paragrafo che segue illustreremo nel dettaglio quali siano le fasi della programmazione e della gestione operativa del Piano Integrato di Salute della zona Aretina.

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5.1.3

La riforma del sistema di governance delle politiche socio-sanitarie: lintroduzione del Piano Integrato di Salute 2007.

A partire dal 2007 nella Zona Sociosanitaria Aretina, pur non essendosi costituita alcuna Societ della Salute20, i Sindaci tuttavia, in accordo con la ASL deliberano21 di utilizzare il Piano Integrato di Salute come strumento di programmazione pluriennale, in sostituzione del Piano Sociale di Zona. Il Piano Integrato di Salute, permette un nuovo processo di programmazione territoriale principalmente per due motivi: in primo luogo perch permette la gestione associata non solo delle politiche sociali ma anche delle politiche sanitarie; in secondo luogo, perch assumendo una logica di sistema permette di promuovere il benessere e la salute dei cittadini (in una parola il welfare locale), superando gli steccati delle politiche di settore, per costruire un sistema territoriale di protezione. Nella sostanza quindi larchitettura istituzionale della Societ della Salute gi presente nella zona aretina, non solo perch sono operanti le Conferenze dei Sindaci (previste nella Societ della Salute), ma soprattutto per la consolidata collaborazione a rete tra comuni e Asl, che ha reso operativa lintegrazione socio-sanitaria puntando alla continuit assistenziale, alla promozione della domiciliarit e alla presa in carico in caso si situazioni di cronicit. La programmazione integrata e partecipata, prevede un percorso distinto in diverse fasi, dallatto di Indirizzo al patto locale di salute; dallimmagine comunitaria di salute, allindividuazione degli obiettivi e delle priorit di azione; dalla composizione dei gruppi di lavoro tematici, allaccordo di programma per lattuazione del PIS e per la gestione associata dei servizi e degli interventi indicati nel Programma Operativo Annuale, il quale viene approvato in seduta pubblica Latto di indirizzo della Zona socio-sanitaria Aretina stabilisce il percorso metodologico e i relativi gli strumenti operativi per unificare i tradizionali strumenti di programmazione attuativa territoriale in campo sociale e sanitario, ovvero il Piano delle Attivit Territoriali (ex D. Lgs. 229/99) e il Piano Sociale Zonale. Latto di indirizzo del PIS prevede anche la sperimentazione di un nuovo modello organizzativo22 per la gestione integrata dei servizi socio-sanitari. Si tratta di un processo di integrazione graduale, che prevede nel 2007 la sostituzione del Piano di zona con la programmazione di tutte le attivit socio-assistenziali e di alcune attivit di integrazione socio-sanitaria. A partire dal 2008, la programmazione integrata viene estesa a tutte le prestazioni sociosanitarie, per arrivare infine alla programmazione integrata e partecipata di tutte le prestazioni sanitarie territoriali [Atto di Indirizzo del PIS, 2007]. Con il Patto Locale per la Salute (18 Marzo 2007), ha inizio il percorso partecipato per la formazione del PIS, coinvolgendo tutti i soggetti presenti sul territorio, istituzionali e

21 22

Delibera ZA n. 1 dell8 gennaio 2007.

La sperimentazione del nuovo modello organizzativo iniziata nel territorio comunale Aretino a partire dal mese di settembre del 2007, dopo che sia la ASL-8, sia il Comune di Arezzo avevano deliberato in tal senso il 14 Novembre del 2006.

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non, interessati alla programmazione in ambito sociale e sanitaria e pi in generale alla tutela della salute. Nel patto locale vengono sanciti i valori e i principi che orientano la programmazione, tra cui: a) il riconoscimento della salute delle persone come un bene e un diritto primario; b) limportanza di promuovere politiche orientate allequit, allinclusione sociale e alla pari opportunit di accesso e fruizione dei servizi, rimuovendo tutti gli ostacoli che impediscano la fattiva esigibilit dei diritti di cittadinanza sociale; c) la promozione della salute attraverso la solidariet tra cittadini e la corresponsabilit della comunit attraverso la partecipazione congiunta dei soggetti pubblici, privati e il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni; d) la valorizzazione dellesperienza partecipativa come occasione di condivisione di spazi di ascolto e confronto con i cittadini che permettano la crescita di una Comunit Educante; e) il superamento di un approccio emergenziale in favore di politiche di prevenzione e promozione del benessere; f) la centralit della persona, portatrice di bisogni e potenzialit specifiche riconducibili and un unico e peculiare progetto di vita; e lutilizzo di politiche trasversali e integrate. Il principio di fondo che la salute non sia una responsabilit esclusiva del settore sanitario, in quanto anche le politiche promosse in altri settori (politiche educative e formative, politiche sociali, del lavoro e di contrasto alla povert) influenzano lo stato di salute e quindi il benessere di una comunit. Nel patto locale viene inoltre sancita listituzione di due nuovi organi per la partecipazione e la concertazione: la Consulta per la partecipazione dei cittadini e il Tavolo di concertazione, in modo da permettere ai cittadini di contribuire attivamente alla costruzione del sistema di salute. Tali organi possono formulare alcune indicazioni sulle priorit negli obiettivi di salute e partecipare anche alla co-progettazione di interventi e servizi programmati nel Piano. In questo modo si osserva il tentativo di promuovere una partecipazione non pi esclusivamente consultiva, ma tesa a permettere ai cittadini di influire sulle decisioni effettivamente prese. Dopo che la consulta si espressa sul profilo di salute (che include lanalisi e il confronto partecipato sulla situazione demografica, sullo stato di salute della comunit, sulle determinanti della salute e sulla domanda e offerta di servizi sociali educativi e sanitari) viene approvata limmagine di salute, da inviare al Tavolo di Concertazione, affinch esprima ulteriori indicazioni sulle priorit di azione da inserire nel PIS [LImmagine Comunitaria di Salute, 2007]. La programmazione si conclude con lapprovazione finale in seduta plenaria e pubblica, alla quale sono invitati i membri degli organi di partecipazione e di concertazione. In tale sede vengono discussi il PIS e il Documento tecnico di piano contenente gli interventi previsti nel Piano Operativo annuale, avanzato dalla segreteria tecnica. La gestione degli interventi previsti nel PIS, ha inizio con la sottoscrizione di un Accordo di programma per la gestione associata degli interventi programmati, nel quale sono definite le modalit di gestione dei programmi operativi previsti dal piano
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operativo annuale, e sono indicati per ogni progetto o programma operativo un responsabile tecnico e un responsabile amministrativo, le risorse disponibili, le fasi dellintervento e gli indicatori di valutazione del raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Nel Programma Operativo del 2008 sono indicati cinque23 obiettivi di salute, per un totale di 1.691.098, 17 euro di risorse disponibili provenienti dal PISR [Accordo di Programma 2008]. Le cinque priorit sono gestite dai Gruppi di lavoro tematici, attraverso dei programmi operativi. Per ogni programma viene individuato un Responsabile Tecnico e sono indicati nuovi strumenti di project management da utilizzare (come ad esempio il progetto esecutivo, che specifica i contenuti del programma, i referenti tecnici e amministrativi, le risorse e le fonti, e le modalit di gestione e accesso alle risorse da parte degli enti attuatori o dei soggetti affidatari). Un elemento critico a nostro avviso riguarda la possibilit che tale innovazione organizzativa possa complicare il processo di gestione delle politiche invece che semplificarlo. Come osserva uno dei dirigenti intervistati, in queste innovazioni c il rischio che si crei una ulteriore struttura, pi burocratica, pi distante dai bisogni dei cittadini e nella quale sia pi complicato distinguere nella implementazione delle politiche, il responsabile politico, dal tecnico, dal funzionario. Secondo il piano del 2008, ai referenti amministrativi verrebbero lasciati i compiti relativi alla funzione di elaborazione dei contratti (in collaborazione con il responsabile tecnico) e alla gestione finanziario-contabile delle risorse. Inoltre in merito ai programmi operativi attivi nellanno 2008, (come si evince dallallegato A del Programma Operativo 2008, contenente i nominativi dei responsabili tecnici e dei referenti amministrativi), sono stati individuati circa 33 responsabili tecnici (provenienti dal mondo dellassociazionismo, dalla Asl, dalla provincia, dalle scuole, e dai membri dei forum della consulta per la partecipazione dei cittadini, in qualit di responsabili dei singoli programmi), rispetto ai 7 referenti amministrativi, [Accordo di Programma 2008, pp. 10-17].

5.2 Verso un welfare comunitario Come abbiamo visto la programmazione e gestione delle politiche socio-sanitarie nella Zona Aretina realizzata con la partecipazione dei cittadini e i soggetti del terzo settore, organizzati in Gruppi di lavoro Tematici. La lettura partecipata dei bisogni dei cittadini influisce quindi sul Piano Integrato di salute, utilizzato per programmare le politiche, le misure, gli interventi da attuare sul territorio. Nellultimo incontro tra i cittadini, i rappresentanti della societ organizzata e i membri della segreteria tecnica dellArticolazione Zonale Aretina, emersa unallarmante percezione di scivolamento verso la povert da parte dei cittadini e la richiesta di
23

Le cinque priorit indicate sono: 1) corresponsabilizzazione della comunit locale per la promozione del benessere in termini di sicurezza e qualit della vita; 2) Riorganizzazione e potenziamento della rete di protezione sociale a sostegno della domiciliarit; 3) Promozione della salute e prevenzione del disagio in tutte le fasi del ciclo di vita; 4)Contrasto delle Nuove povert; 5)Promozione dei processi di integrazione socio-culturale.

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sostenere un approccio comunitario di sostegno alle famiglie sottoposte a condizioni di fragilit. E stato sottolineato inoltre, come levolversi del mercato del lavoro verso modalit di impiego scarsamente tutelate accrescono le difficolt delle famiglie monoparentali, monoreddito e con minori e/o anziani e disabili a carico. Nei paragrafi che seguono descriveremo le politiche implementate dal Comune di Arezzo per fronteggiare le nuove povert e sostenere le famiglie e i minori, attraverso misure attente alla conciliazione tra vita-cura e lavoro, e la promozione di politiche di formazione e inserimento al lavoro. 5.2.1 Le politiche di contrasto alla povert e per linclusione sociale dei soggetti deboli. Le misure di contrasto alla povert gestite dal Comune di Arezzo, possono essere descritte sostanzialmente come politiche di assistenza, pi di tipo passivo che attivo. Esse comprendono un sostegno di tipo economico o leventuale accoglienza in centri appositi, (centri di accoglienza, alloggi di emergenza, posti letto in convenzione con hotel) sulla base di un piano di assistenza individuale (PAI) sottoscritto tra lassistente sociale del comune e il cittadino in stato di bisogno. Tutti gli interventi di contrasto alla povert che prevedono lerogazione di un sostegno economico da parte del Comune(per esempio un sostegno per il pagamento di due/tre mesi di affitto), sono condizionati dal effettivo comportamento del destinatario, il quale deve mostrare di volersi attivare concretamente per uscire dalla situazione di difficolt in cui si trova. Si tratta quindi di misure assistenziali, temporanee e condizionanti, le quali vengono immediatamente sospese, nel caso in cui per esempio il destinatario rifiuti un lavoro che egli non ritenga adatto alle proprie capacit. A fronte delle misure esistenti, il forum tematico sulle nuove povert -cui hanno partecipato i cittadini- ha sottolineato lassenza nel profilo di salute della popolazione aretina di dati in grado di valutare le conseguenze della instabilit lavorativa, della diffusione di forme di lavoro precarie e dalla chiusura di grandi imprese che un tempo garantivano un lavoro maggiormente stabile. I cittadini hanno quindi avanzato la richiesta di avere a disposizione ulteriori dati in particolare sulle nuove tipologie occupazionali sempre pi diffuse (il profilo di salute contiene infatti i dati relativi agli occupati, ma non permette di comprendere in quali forme di lavori siano occupati i cittadini, e quale sia la percentuale di lavori precari sul totale) e sulla tipologia di famiglie cui viene erogato un sostegno economico. Relativamente ai target di persone cui sono destinate le misure di contrasto alla povert, si riscontra un attenzione specifica per i seguenti destinatari: 1) anziani soli o con pensioni particolarmente basse; 2) persone che perdono il lavoro dopo i 40 anni di et; 3) famiglie monoparentali (in particolare quelle composte da donne sole con figli a carico in et scolare); 4) disabili e persone con problemi di dipendenza;
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5) ex carcerati e senza fissa dimora. Si tratta di persone con difficolt nellaccesso al mercato del lavoro o nellaccesso al credito, che di conseguenza non riescono a far fronte al pagamento dellaffitto e delle utenze. Rispetto a tale problema le proposte avanzate dalla consulta riguardano la necessit di garantire delle efficaci politiche formative, in grado di promuovere lingresso nel mercato del lavoro; limportanza di realizzare politiche in grado di conciliare i tempi di vita e di lavoro; la necessit di assegnare una residenza anche fittizia ai senza fissa dimora, in modo da poter erogare loro un sostegno al reddito. Le politiche di contrasto alla povert e di inclusione sociale sono programmate e realizzate cercando di integrare i progetti e le risorse del livello regionale, provinciale e comunale. In particolare la regione Toscana si molto impegnata nel finanziare attraverso il fondo per la non autosufficienza (L.R. 66/2008) numerosi servizi di assistenza, gestiti dal comune, come ad esempio il servizio di assistenza domiciliare, il servizio municipale per la cura di casa e per la cura della persona. I servizi di assistenza domiciliare forniti dal comune non si limitano alle persone anziane, ma includono anche i minori, ai quali sono destinati servizi di assistenza domiciliare educativa, il mentoring, e centri per minori e per i ragazzi per disabili. In base ai dati forniti dal Comune di Arezzo (sui servizi finanziati, il numero di utenti beneficiari e la spesa relativa) nel 2009 sono stati erogati contributi ordinari ed extraordinari a circa 1229 utenti, per una spesa superiore ai 587 mila euro. Altri servizi offerti sono la mensa, gestita dalla Caritas per circa 14.600 utenti (costo 28 mila euro); il servizio latte e pannoloni per 177 bambini che vivono in famiglie in difficolt (costo 40 mila euro); lassegno di cura per 102 utenti (costo oltre 155 mila euro); i servizi di accompagnamento e di compagnia per gli anziani; le vacanze per anziani e disabili, i centri di aggregazione per disabili; i centri diurni di socializzazione; gli inserimenti socio-terapeutici per disabili; il sostegno ai minori con handicap e il supporto specialistico per minori; il servizio di trasporto sociale per 79 utenti (costo 240 mila euro); le attivit estive per i minori (costo 35 mila euro); il servizio di consulenza e mediazione familiare presso lo spazio famiglia;il servizio di sostegno alla genitorialit e alla maternit; i centri di accoglienza per le donne, per gli stranieri, per il campo nomadi, per i minori immigrati, Come si nota si tratta di numerosissimi servizi (oltre 60) finanziati anche con risorse regionali, anche se la programmazione di tali servizi di competenza del livello zonale. 5.2.2 Le politiche di orientamento, formazione e lavoro.

Nel descrivere le politiche di formazione implementate nel Comune di Arezzo, ci siamo soffermati in particolare sui progetti e gli interventi con i quali il Comune riuscito ad integrare le politiche di formazione e lavoro alle politiche socio-sanitarie. In questa ricerca non rientra il tema lavoro in senso stretto, essendo daltra parte le competenze in questo settore non tanto dei comuni, quanto di province e regioni. Ci sono tuttavia pratiche formative gestite dai comuni che appaiono molto interessanti dal punto di vista del sostegno allintegrazione delle politiche. In particolare questo vale per quelle di cura e assistenza per i minori, un settore nel quale Arezzo vanta una esperienza decennale di servizi di qualit. Ma non solo questo il punto che ci interessa mettere in evidenza. Il fatto che nonostante la centralit dellofferta pubblica, lamministrazione ha introdotto in questi anni svariate innovazioni, configurando un sistema misto (pubblico e privato),
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ma con standard qualitativi elevati (garantiti da processi formativi unitari) e la possibilit per le famiglie di accedere a diverse alternative, non solo in servizi. Lintervista alla Dirigente delle politiche sociali, ha evidenziato lesistenza di misure tese a formare e riqualificare le operatrici di asili nido e scuole per linfanzia (siano esse gestite dal pubblico o dal privato), al fine di innalzare la qualit dei servizi offerti e garantire lesistenza di livelli omogenei di prestazione dei servizi offerti sul territorio. Un esempio di tali politiche dato dalla realizzazione del progetto Mary Poppins, gestito dal Centro Pari Opportunit della provincia di Arezzo in collaborazione con lUfficio dei servizi sociali del Comune di Arezzo e di tutti gli altri comuni del territorio provinciale24 e finanziato dalla Comunit Europea, per promuovere la formazione professionale di baby-sitter qualificate. Uno dei volantini diffusi dal Comune per pubblicizzare il progetto si rivolgeva alle donne in cerca di lavoro: Diventa una moderna Mary Poppins. Un progetto innovativo della Provincia di Arezzo. Un lavoro in regola che ti permette di stare con i bambini. Unoccasione per valorizzare le tue competenze. Unopportunit formativa. Se ti piacciono i bambini e hai voglia di lavorare con loro, se possiedi i requisiti richiesti, la Provincia di Arezzo e i suoi Comuni ti offrono la possibilit di iscriverti nellElenco zonale delle operatrici e degli operatori per i servizi non educativi di assistenza allinfanzia a carattere domiciliare. Le moderne Mary Poppins per essere iscritte allelenco unico degli operatori, di dovevano frequentare corsi di abilitazione di breve durata (da 20 a 50 ore) gestiti dalle agenzie formative locali, in modo da ottenere la qualifica richiesta (educatore domiciliare e familiare, educatore per linfanzia e/o operatore familiare per linfanzia). Le operatici e gli operatori iscritti negli elenchi appositamente istituiti dalle 5 zone socio-sanitarie sono inoltre tenute a frequentare ogni anno dei corsi di aggiornamento professionale. Tale progetto riuscito al tempo stesso ad offrire un sostegno alle mamme lavoratrici con bambini fino a 13 anni, attraverso lerogazione di voucher25 per usufruire di una baby-sitter qualificata. Il buono servizio erogato dal Comune si rivelato un utile strumento per creare un mercato sociale dei sociali laddove, per motivi di costo e di reddito delle famiglie, non era possibile per le utenti pi deboli acquistare le prestazioni loro necessarie. Inoltre esso ha permesso la personalizzazione del servizio, in quanto i genitori avevano la possibilit di scegliere la baby sitter allinterno dei nomi inseriti nellelenco di professioniste certificate. In tal modo il comune ha mostrato unattenzione sia allemersione del lavoro nero nel mercato dei servizi, sia per la qualificazione professionale delle donne disponibili a lavorare con i bambini, sia per la conciliazione degli impegni di accudimento delle donne con le esigenze lavorative. Il tutto in un sistema che appare fortemente attrezzato
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Sono stati coinvolti tutti i 39 comuni della provincia e le 5 Zone socio-sanitarie Aretina, Valdichiana, Valdarno, Casentino e Valtiberina. Erano erogabili massimo 500 buoni a persona in base al numero dei figli (300 per il primo figlio e 100 per i figli successivi di et non superiore ai 13 anni). Ogni buono ha un valore di 4 euro ciascuno a copertura parziale di un costo orario complessivo fissato in 7 euro allora per il servizio offerto.

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anche sul piano dei servizi, con una quota di offerta praticamente pari, come rimarca la Dirigente, alle richieste della domanda. Su questo torneremo meglio nel prossimo paragrafo.

5.2.3

Le politiche per le famiglie, i minori e la conciliazione dei tempi di curavita-lavoro.

Le politiche di conciliazione dei tempi di cura e di lavoro delle famiglie sono promosse attraverso una significativa offerta di servizi di cura per i minori e attraverso la diversificazione delle tipologie orarie di fruizione dei servizi presenti sul territorio. Sono inoltre stati realizzati diversi progetti nei quali si cerato di favorire la conciliazione dei tempi di cura-vita-lavoro. Un esempio in tal senso il progetto Mary Poppins, che gi stato menzionato. In tal modo le politiche di sostegno alle famiglie, riescono a favorire loccupazione femminile, offrendo alle donne un servizio flessibile e in grado di rispondere anche a quei bisogni non standardizzati delle donne lavoratrici. Rispetto allofferta dei servizi rivolti ai minori, dalla fine del 2009 nel comune di Arezzo sono presenti nidi pubblici comunali e privati (accreditati e autorizzati), che accolgono complessivamente 737 bambini pari a oltre il 37,5% dellutenza potenziale dei bambini residenti nel comune di Arezzo. Il comune gestisce direttamente 6 dei 13 nidi comunali (sostenendo un costo di 4 milioni di euro) per 460 bambini. Gli asili nido privati, distinti in autorizzati (due asili) e accreditati (dieci asili) accolgono altri 277 bambini. Per la fascia da 2 a 3 anni, sono state aperte inoltre due sezioni primavera, una comunale di 20 posti e laltra presso lasilo privato accreditato Aliotti per 17 posti. Liscrizione ai nidi effettuabile non solo presso le sedi delle circoscrizioni o presso linforma-giovani del comune, ma anche presso lo sportello polivalente, recentemente istituito sulla base della convinzione, come sostiene lassessore al decentramento, che sempre pi occorra andare incontro alle esigenze dei cittadini, portando i servizi e gli sportelli a diretto contatto con la domanda. Negli ultimi anni il Comune di Arezzo ha puntato molto sullobiettivo di incrementare progressivamente lofferta di nidi e/o altri servizi integrativi per la fascia 0/3 anni. Il convenzionamento con i privati ha permesso infatti di ridurre significativamente le liste di attesa (da circa 500 bambini agli attuali 20). Tale risultato stato raggiunto dallamministrazione comunale, lavorando su quattro campi di intervento: 1) il convenzionamento di nidi accreditati (per lanno scolastico 2009-2010 lamministrazione comunale si convenzionata con i nidi privati accreditati per 125 posti con un costo pari a 291.260,70 euro). 2) lapertura di un nuovo asilo nido comunale per ulteriori 20 posti; 3) la riqualificazione di tre servizi del territorio per la fascia tra 0 e 3 anni (i tre asili sono stati ricondotti a forme gestionali in linea con quanto previsto dalla legge regionale 32/2002); 4) la partecipazione a bandi regionali per lerogazione di buoni servizi alle famiglie in graduatoria comunale che usufruiscono dei servizi di asili nido privati.

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Le scuole dellinfanzia26 presenti sul territorio aretino alla fine del 2009 sono 32 distinte in scuole comunali, paritarie e statali, che accolgono 2405 bambini accolti. Anche in questo caso gli orari di apertura vanno incontro alle esigenze delle famiglie, soprattutto di quelle in cui entrambi i genitori lavorano. Tutte le scuole dellinfanzia (eccetto Acropoli) restano aperte dalle 7 del mattino alle 17.30. Oltre allofferta di asili nido e della scuola di infanzia, il Comune di Arezzo, per facilitare lattivit di cura alla famiglia, offre una serie di servizi integrativi, tra cui: larea bambini, che accoglie 16 bambini ed fruibile a pacchetti orari di 3/5 ore giornaliere per un tempo definito sulla base delle esigenze familiari; il Tempo per lascolto, che un servizio di accoglienza per genitori e figli , due volte la settimana con flessibilit di fruizione. Una persona di fiducia in famiglia, che prevede un servizio di baby-sitteraggio a domicilio, un servizio di accompagnamento dei bambini e baby taxi e un servizio di intrattenimento ludico pomeridiano in luoghi attrezzati. Il Progetto Mary Poppins, della provincia di Arezzo, al quale aderisce anche il Comune, che consiste nellassegnazione a donne occupate di buoni servizio per laccudimento di minori, in modo da permettere alle donne di mantenere il proprio lavoro. Dal 2007 inoltre il Comune, in collaborazione con le istituzioni scolastiche, promuove delle attivit di pre-post scuola e delle attivit pomeridiane (per un totale di circa 94 mila euro), garantendo ai bambini allinterno delle scuole statali, un tempo di permanenza pi lungo e qualificato con progetti27 e laboratori. Ulteriori progetti presenti nella realt Aretina sono i PIA (Progetti Integrati di Area) che consistono in azioni di prevenzione e intervento in situazioni di disagio, al fine di promuovere il diritto allapprendimento e allo star bene a scuola. Si tratta di progetti finanziati da risorse regionali e che prevedono la compartecipazione del 50% da parte del Comune, attraverso la concertazione con gli altri comuni e le scuole della Zona socio-sanitaria Aretina. Il Comune di Arezzo mette a disposizione delle scuole il proprio laboratorio didattico il C.E.A.A. (Centro di Educazione Ambientale Alimentare), nel quale vengono proposte attivit di educazione ambientale e alimentare, rivolte agli alunni e agli insegnanti di tutte le scuole di Arezzo e alla cittadinanza. Durante lanno scolastico vengono coinvolti di norma circa 700 alunni della scuola dinfanzia, primaria e secondaria di primo grado, per un costo complessivo pari a circa 20 mila euro. Altri progetti didattici promossi dal Comune in collaborazione con le istituzioni scolastiche e altri enti pubblici, associazioni, coinvolgendo circa 2500/300 alunni sono:

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Le scuole comunali sono cinque: Acropoli, Orciolaia, Pallanca, Don Milani, Villa Sitorni. I bambini accolti in queste strutture sono 450 e hanno una et compresa tra i 3 e i 6 anni. (Il costo di 3 milioni di euro). Le scuole dellinfanzia paritarie sono undici con 680 bambini: quelle statali sono sedici scuole per 1275 bambini.

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Uno dei progetti realizzati, pomerigginsieme coinvolge circa 600 alunni della scuola di infanzia, primaria e secondaria di primo grado.

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1. la citt dei bambini, rivolto alla sostenibilit ambientale, culturale e istituzionale per i bambini e le bambine nellottica che lavorare con essi sia di interesse per lintera citt (costo circa 20 mila euro); 2. Il progetto lettura, in collaborazione con la Biblioteca della citt di Arezzo ne le istituzioni scolastiche del primo ciclo. Lobiettivo primario promuovere leducazione alla lettura, tramite lincontro con gli autori, tornei di lettura, costruzione di libri (il costo di circa 20 mila euro); 3. sport-giocando, in collaborazione con ala Provincia, il CONI e lUSP(?) per la promozione motoria e sportiva tramite attivit ludiche e ricreative. Il comune compartecipa al costo del progetto con circa 8 mila euro. 4. Giardino interculturale: un progetto realizzato in collaborazione con la cooperativa sociale La Tappa, che consiste in percorsi didattici allinterno di un giardino, in cui sono presenti piante provenienti da tutti i continenti. Costo del progetto 12 mila euro. 5. Conosciamoci un progetto in collaborazione con lassociazione Naviganti, Teatro e altre difficolt, che si propone la conoscenza della storia locale di Arezzo. Il costo di circa 6 mila euro. In conclusione rispetto alla politiche per le famiglie e i minori e per la conciliazione cura-vita-lavoro realizzate, ci sembra utile sottolineare non soltanto lintegrazione tra le misure di sostegno alle famiglie (in termini di molteplicit di orari di asili nido e scuole e di presenza di servizi integrativi) ma anche lattenzione per la qualit dei servizi offerti. Tutte le operatrici dei nidi, inclusi quelli privati, sono qualificate attraverso corsi organizzati e finanziati dal Comune, in modo da garantire standard alti e omogenei nei servizi offerti, a prescindere che questi siano gestiti dal pubblico o dal privato. Inoltre si riscontra la tendenza a creare spazi di ascolto sociali e pubblici, in grado di sostenere la genitorialit, come per esempio attraverso gli sportelli di ascolto per genitori e figli in momenti di difficolt. Infine lutilizzo dei voucher per sostenere le donne che lavorano, in modo da ridurre i servizio privato di baby- sitter, gestito tenendo conto del reddito delle donne che ne fanno richiesta e del numero di figli a carico. Non si tratta quindi di uno strumento indifferenziato, in quanto il Comune distingue i beneficiari in base ai differenti bisogni individuali, controlla il processo e garantisce il rispetto di standard di qualit alti, omogenei e certificati. 5.2.4 Il progetto Una persona di fiducia in famiglia: un esempio di integrazione tra le politiche.

Il Progetto Una persona di fiducia in famiglia gestito dallAssessorato alle politiche sociali, delleducazione e della famiglia del Comune di Arezzo e da una Associazione individuata tramite una selezione pubblica e punta ad offrire alle famiglie un servizio integrativo rispetto a quelli gi esistenti, per la cura dei minori (da zero a dodici anni). Si tratta di un modello innovativo perch lascia alle famiglie la possibilit di scegliere loperatore/operatrice e pu essere utilizzato con la massima personalizzazione e flessibilit oraria. Il Progetto offre tre tipi di servizi:
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1) un servizio di baby-sitteraggio a domicilio disponibile in tutti i giorni dellanno, inclusi i festivi, dalle 7 alle 24. Il costo del servizio di 6,50 euro allora. 2) Un servizio di accompagnamento fuori e di baby-taxi, disponibile tutti i giorni dellanno inclusi i festivi dalle 7 alle 21. Il costo di 6 euro allora, cui si aggiunge, nel caso in cui si chieda il servizio di accompagnamento in aiuto dei bambini, il costo del percorso (9,29 euro a Km). 3) Un servizio di intrattenimento ludico in spazi attrezzati, con opportunit di gioco e animazione differenziate. Il servizio costa 3 euro allora e funziona il pomeriggio, in tutti i giorni feriali fino alle 20.30, e nei periodi di chiusura delle scuole accessibile anche al mattino. In tutti i casi prevista la possibilit di riduzioni per lacquisto di pacchetti orari e per chi si iscrive allassociazione che gestisce il servizio. Nel caso del servizio spazio gioco anche possibile ottenere una riduzione per famiglie con pi di un figlio. Il progetto un ottimo esempio di integrazione tra le politiche sinora esaminate, in quanto se da una parte sostiene le donne nella conciliazione dei compiti genitoriali, nel diritto al lavoro e alla vita sociale, dallaltra punta anche a promuovere loccupazione giovanile, tutelando unattivit lavorativa spesso sommersa e favorendo la formazione di un mercato dei servizi sociali a costi sostenibili ma garantiti nella qualit dal pubblico. Inoltre le famiglie vengono aiutate a sostenere la cura dei minori non soltanto garantendo loro i tradizionali servizi educativi offerti con gli asili nido e le scuole dellobbligo, ma rafforzando i servizi complementari e integrativi che possono essere utilizzati in orari diversi e personalizzati (dopo la scuola o lasilo, in sostituzione in caso di malattia del bimbo, per laccompagnamento alle attivit extra-scolastiche che coincidano con gli orari di lavoro dei genitori, o durante i giorni festivi). 5. 3 Alcune riflessioni conclusive. Le principali caratteristiche del modello aretino di welfare community sono: a) la tendenza a realizzare un welfare community di tipo universale: vengono stabiliti dei livelli di prestazioni di qualit ed omogenei su tutto il territorio, fattivamente fruibili dai cittadini; b) integrato: lattenzione per lintegrazione tra le politiche, riguarda la programmazione, e limplementazione delle politiche, con lobiettivo di realizzare un modello di gestione associata e integrata dei servizi sociali e sanitari presenti sul territorio; c) redistributivo: non si tiene conto soltanto della diversit dei bisogni espressi dai cittadini (puntando alla personalizzazione degli interventi), ma ci si preoccupa anche della diversa capacit del singolo di far fronte al costo dei servizi offerti. Il tentativo in corso quello di realizzare un sistema in cui il pagamento dei servizi venga differenziato in base allIsee (anche per servizi gestiti dai privati, come accade gi in alcuni asili nido privati convenzionati). Anche nei casi in cui i servizi offerti prevedono la compartecipazione dei cittadini, il Comune di Arezzo garantisce un costo accessibile a tutti, mantenendo alta la qualit dei servizi offerti; d) partecipato: la partecipazione dei cittadini non si limita esclusivamente alla fase di programmazione delle politiche, ma in alcuni casi si estende anche alla fase di gestione
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delle politiche implementate (per esempio attraverso la co-gestione di progetti in parteneship tra comune e associazioni del terzo settore)

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Parte III Ripartire con un sistema di servizi alla persona Lesperienza di Lamezia Terme nello scenario calabrese
6. La Calabria. Resistenze al cambiamento e tentativi di innovazione del welfare locale28 6.1 Uno sguardo al passato Un breve paragrafo introduttivo sullo scenario nel quale si inserisce il nuovo ciclo di programmazione calabrese , a nostro parere, essenziale per cogliere elementi di continuit e discontinuit tra un ingombrante passato e un presente nel quale si colgono tentativi di ristrutturazione e innovazione. Rispetto al nuovo ciclo di programmazione comunitaria (2007-2013), la Calabria rientra tra le regioni dellobiettivo Convergenza che, sostituendo lObiettivo 1, interessa le aree meno avanzate con condizioni socioeconomiche sfavorevoli (in Italia identificabili con le regioni del Mezzogiorno). Il precedente ciclo (2000-2006) si chiude con un bilancio critico che denuncia alcuni dei ritardi strutturali di cui la regione soffre. Uno degli aspetti sottolineati nel nuovo documento di Programmazione Operativo FSE 2007-2013 la mancanza di una capacit istituzionale sia a livello decisionale che gestionale, che ha caratterizzato il precedente settennio29. Lo stesso documento propone nelle prime pagine un bilancio di sintesi lasciando intendere che, rispetto ai principali assi di intervento previsti per il ciclo 2000-2006, non sono riscontrabili impatti significativi in termini sviluppo, inclusione sociale, occupazione e investimenti realizzati sul tessuto produttivo30. Per quanto riguarda gli interventi a favore delloccupazione, un risultato di portata modesta stata la realizzazione dei Servizi dellimpiego che, tuttavia, non ha visto una loro messa a regime a livello territoriale rimanendo, quindi, in una fase ancora iniziale. Pochi e frammentati sono stati i corsi di formazione professionale finanziati con risorse FSE (assi Adattabilit e Capitale umano) che, secondo il Rapporto di valutazione intermedia31, hanno avuto il principale limite di non essere stati correlati ai fabbisogni professionali del tessuto produttivo locale favorendo cos poche opportunit di impiego sicuro. E mancata una strategia che accompagnasse la riforma dei sistemi di istruzione e formazione a tutti i livelli, compreso la realizzazione di un Catalogo dellofferta formativa regionale per la valorizzazione e la certificazione delle competenze. La lotta allesclusione sociale stata circoscritta alle tradizionali categorie di soggetti senza che sia stato messo in atto un sistema integrato di interventi socio-assistenziali
di Caterina Cortese Al di l di unoggettiva analisi dei risultati conseguiti dalla regione nel precedente ciclo (Rapporto di valutazione indipendente IRS 2003 e 2006), laccento critico del POR FSE 2007-2013 potrebbe derivare anche dal cambio di giunta (e di colore politico) che ha segnato le elezioni regionali del 2005 e che ha visto il tentativo della nuova colazione di evitare il disimpegno automatico di molte delle risorse europee non ancora investite. 30 POR FSE 2007-2013 pp. 26-32 31 IRS, Rapporto di valutazione intermedia del POR Ob. 1 2000-2006 della Regione Calabria, 2003
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territoriali (basta osservare che la legge regionale 23/2003, promulgata per recepire la normativa nazionale in materia di politiche sociali Legge 328/2000, ha conosciuto una effettiva attuazione solo nel 2009 con lapprovazione definitiva del primo Piano Regionale Sociale). Guardando al contesto socio-economico regionale, le statistiche ufficiali presentano una situazione che nel 200832 risultava ancora difficile, con parametri di sviluppo tra i pi bassi a livello nazionale e lontani, ancor pi, dagli obiettivi fissati dal Consiglio europeo di Lisbona. Rispetto alla media nazionale (58,7%) il tasso di occupazione calabrese fermo al 44,1% e risulta essere, insieme a quello siciliano, il pi basso del 2008 nella graduatoria delle regioni italiane. Un dato significativo rappresentato dalla misura del tasso di occupazione per genere: quello maschile (57,6%) supera di quasi il doppio quello femminile (30,8%). In entrambi i casi si tratta dei livelli pi bassi tra i tassi di occupazione regionali. Nella graduatoria delle province, spiccano purtroppo citt calabresi come Crotone dove occupato solo il 37% della popolazione (anche qui con una pesante differenza di genere: 51,6% uomini e 23,2% donne) e Reggio Calabria che al terzultimo posto, con un tasso di occupazione del 42,9%33. Il dato sul livello di disoccupazione altrettanto significativo (12,1%) e sintomatico di una mancanza di dinamismo sul mercato del lavoro soprattutto se si guarda parallelamente al tasso di inattivit, pari al 49,8%, che equivale a dire che cinque persone su dieci non appartengono alle forze di lavoro. In una condizione cos caratterizzata, il tentativo avviato e dichiarato nei nuovi documenti di programmazione, a partire in particolare dallultimo biennio, quello di intervenire con una certa urgenza, ma altrettanta strategicit, su una serie di problematiche evidentemente correlate le une alle altre (se si considera anche lo scarso livello di sviluppo del sistema produttivo caratterizzato da una bassa competitivit e scarsi investimenti in ricerca e innovazione, processi di crescita aziendale deboli, modesta presenza nei mercati internazionali nonch i deficit legati ai trasporti e alla rete stradale e autostradale, allarretratezza di alcune aree rurali, al digital divide e alla scarsa diffusione dellutilizzo delle ICT, si veda FESR 2007-2013 pp. 59-73), alle quali lamministrazione regionale sta cercando di rispondere attraverso lideazione di progetti di carattere sperimentale e innovativo che guardano al problema nella sua organicit (origine- impatto- risoluzione).

6.2. Il sistema di governance delle politiche di welfare Nonostante si riscontrino in Calabria difficolt nella messa a punto di strategie in grado di incidere sui nodi che rallentano lo sviluppo economico e sociale del proprio territorio, guardando al sistema regolativo delle politiche si coglie, nello scenario attuale34, una
Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro. Media Regionale 2008. E vero tuttavia che la regione Calabria ha un tasso di lavoro sommerso o lavoro nero che suggerisce di guardare alle statistiche pubbliche con un margine di riserva. 34 E bene precisare che nel momento in cui si presenta il presente rapporto di ricerca sono da poco trascorse le elezioni politiche regionali 2010 che hanno visto il ricambio della giunta con la vittoria di una coalizione di centro-destra. Il contenuto del contributo fa ovviamente riferimento alloperato della precedente giunta e presenta le testimonianze di alcuni dirigenti che sono tuttora impegnati nei settori delle politiche sociali e del lavoro.
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duplice tendenza divisa tra uningombrante eredit del passato, fatta di vuoti regolativi e mancanza di programmazione territoriale strategica (path dependency) e una spinta, promossa negli ultimi anni, verso la dotazione di strumenti pianificatori adeguati che concretizzino anche quel processo di decentramento di funzioni e compiti dal livello regionale (che ha mantenuto fino ad adesso un forte accentramento) verso i contesti locali. La valutazione generale che le interviste con i testimoni privilegiati35 fanno emergere, che si sia diffusa limportante consapevolezza di dover rompere con il passato, con le vecchie procedure e, soprattutto, con un vecchio modo di fare politica che ha fatto troppo spesso mancare gli appuntamenti verso uno sviluppo e una crescita del territorio calabrese. Non si tratta certamente di una metamorfosi compiuta ma possibile, sia da punto di vista formale (lapprovazione di diversi documenti di pianificazione), sia dal punto di vista sostanziale (la conquista di primi risultati), intravedere la volont politica della giunta regionale di proporre una programmazione sociale decisa a riformare un sistema che fino a questo momento scontava gravi ritardi sia in termini di innovazione nelle politiche che nei servizi. Una prima linea di programmazione regionale rispetto alle politiche sociali veniva realizzata con la LR 5/8736 la quale rappresentava, in quegli anni, una normativa piuttosto avanzata poich puntava a responsabilizzare le autonomie locali in materia di assistenza sociale e a promuovere servizi territoriali di tipo domiciliare o semi-residenziale. Tuttavia le principali indicazioni di metodo di tale normativa vennero disattese lasciando i singoli Comuni alla realizzazione di un piano degli interventi spesso disorganico (finanziamenti a pioggia e servizi frammentati). Fino ad adesso tiene a precisare il Dirigente del Settore Politiche sociali vi stata una forte tendenza ad istituzionalizzare la persona con bisogno. Basti pensare che in tutta la Regione si contano circa 370 strutture residenziali convenzionate (sociosanitarie e socio-assistenziali) che ospitano circa 570037 utenti con un costo che si aggira attorno 35 milioni di euro annui pagati dalla regione. Questi sono dati significativi, se non preoccupanti, rispetto al tessuto sociale presente in Calabria sia dal punto di vista della offerta di servizi appunto di tipo residenziale-assistenzialeemergenziale, che della domanda apparentemente composta da una notevole quota di non auto sufficienza. Prima dellapprovazione del Piano sociale regionale, i territori ricevevano i finanziamenti singolarmente (ovvero per singolo comune) e molto spesso sulla base di compromessi politici piuttosto che alla luce di unanalisi reale dei fabbisogni38. Secondo l Indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei
Assessore e Dirigente di Servizio Settore Politiche Sociali Famiglia Volontariato Terzo settore; Dirigente di settore e Dirigente di Servizio Settore Politiche del Lavoro, Mercato del Lavoro POR asse III Risorse Umane, Vertenze Ammortizzatori e Previdenza [Dipartimento 10 Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato, Regione Calabria] Legge Regionale di riordino e programmazione dei servizi socio-assistenziali che, in attesa della legge nazionale di riforma dellassistenza e della legge di riforma delle autonomie locali, applicava, anche in questo caso con qualche ritardo, quanto previsto dal D.P.R. 616/77 e dalla legge 641/78 sul riordino delle funzioni socio-assistenziali di competenza dei Comuni singoli o associati incaricando questi di realizzare l'integrazione e il coordinamento dei servizi sociali con quelli sanitari. 37 Su una popolazione totale di circa 2 milioni. Quello che manca tuttora nel Piano Sociale una analisi socio-economica del contesto regionale cos come manca una mappatura dei bisogni suddivisa per aree-province o ambiti. Non stata inserita per scelta dichiara il Dirigente di settore - in quanto abbiamo ritenuto che i dati potessero raffigurare una
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comuni (Istat 2005), in Calabria la spesa per interventi e servizi sociali pari allo 0,8% della spesa totale (euro 25 di spesa pro-capite). Fatta 100 la spesa sociale, circa il 96% erogato dalla Regione, il 4% dalle Associazione dei Comuni mentre nessuna spesa a carico dei Distretti socio-sanitari. Rispetto alle categorie di utenza, la spesa fortemente gravata dai Servizi alle famiglie e ai minori per i quali la Regione Calabria spende il 41,5% del totale. Pi o meno la stessa quota destinata ad Anziani (14,4%) e Disabili (15,3), mentre una quota leggermente superiore assegnata alle misure di Contrasto alla povert, Disagio adulto e ai senza fissa dimora (21,7%). Seguono i costi per le Multiutenze (4,1%), per i servizi per gli Immigrati e nomadi (1,6%) e per le Dipendenze (1,3%). Tab. 1 La spesa sociale in Calabria
Famiglie e minori Anziani Disabili Poverta, disagio adulto e senza fissa dimora 21,7 Immigrati e nomadi Dipendenze Multiutenza Totale

Regione Calabria ITALIA SUD

41,5

14,4

15,3

1,6

1,3

4,1

100,00

38,7 43,6

23,0 19,6

20,7 14,3

7,1 11,9

2,5 1,4

1,1 2,3

6,8 6,8

100,00 100,00

Fonte: Istat, Indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei comuni, 2005

Se si guarda alla spesa dei comuni in base al tipo di prestazione offerta (servizi; trasferimenti monetari; strutture), i dati denotano uno sbilanciamento della spesa a favore dei trasferimenti monetari in quasi tutti i settori di intervento. Per esempio, nellArea assistenza familiare con minori, i voucher impegnano solo lo 0,1% della spesa a fronte del 18,9% dei Contributi economici ad integrazione del reddito familiare (Area trasferimenti monetari). Per lAssistenza domiciliare socio-assistenziale (sempre per larea famiglia) viene speso dai Comuni calabresi circa l8% mentre la retta per prestazioni residenziali del 37,9%. Riguardo alle Strutture, la spesa maggiore per la gestione degli Asili nido (69%) contro il 2% destinato ai Servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia. Il quadro che emergeva nel 2005 quello di un sistema dei servizi sociali ancorarti ancora ad un modello di welfare tradizionale di tipo assistenziale e riparatorio. Le innovazioni, gli strumenti di integrazione tra le politiche e i mezzi che dovrebbero favorire lattivazione (intesa anche come autonomia di scelta) del soggetto sono ancora poco diffusi. Leggermente inferiore lo scarto della spesa tra Servizi e Trasferimenti monetari nellarea anziani. Nel settore dei Servizi la spesa per i voucher
situazione distorta della realt sia perch datati (ovvero relativi al censimento 2001) sia perch avrebbero fotografato una ormai consueta situazione allarmante della Calabria che avrebbe creato o troppo disfattismo o troppe aspettative. La scelta stata invece quella di programmare a partire da unanalisi fatta direttamente sul territorio con le visite, gli incontri e i tavoli organizzati durante la stesura del Piano sociale regionale con i referenti istituzionali (ed extra istituzionali) impegnati nellambito delle politiche sociali. Sembrerebbe quindi una scelta funzionale agli obiettivi da conseguire tarata su una lettura del bisogno ravvicinata e, allo stesso tempo, proporzionata ad una stima del budget di spesa per utenza (anziani, minori, famiglie, disabili) che ogni ambito socio-assistenziale ha presentato alla regione per la richiesta di finanziamento.

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del 10% e, nel secondo, la spesa per Contributi economici ad integrazione del reddito familiare del 14% mentre pi alti sono i costi sostenuti, trattandosi di persone anziane e spesso non auto sufficienti, per la Retta per prestazioni residenziali. Rispetto alle Strutture, anche in questo caso la spesa pi alta per le Strutture residenziali (70%) e meno alta per esempio per la gestione dei Centri diurni (15,8%) o per i Centri di aggregazione sociale (7,3%). La legge regionale 23/2003 (recepimento della 328/2000) e lapprovazione, nellagosto del 2009, del primo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali e Indirizzi per la definizione dei Piani di Zona39, hanno voluto rompere con questo meccanismo frammentato e dispersivo, invitando i territori ad unirsi in ambiti territoriali (sostanzialmente coincidenti con i 33 Distretti socio-sanitari) e a rimodulare i servizi socio-assistenziali sul territorio secondo un principio di vicinanza (prossimit) e di integrazione delle risorse soprattutto in ragione della presenza di un terzo settore che negli ultimi anni si dimostrato particolarmente vivace.40 Ladozione del Piano Regionale Sociale, seppure con un ritardo di nove anni rispetto a quanto indicato dalla normativa nazionale (l. 328/2000), ha dato il via alla costruzione di una piattaforma programmatoria per la costruzione di un nuovo sistema di welfare fondato sul concetto di ambito territoriale (distretto socio-sanitario), sulla cooperazione istituzionale (tra i comuni partner, tra questi e lAzienda Sanitaria Provinciale, i sindacati, le associazioni di categoria e le rappresentanze degli interessi) e sulla partecipazione della societ civile alla definizione degli interventi socio-assistenziali. Dal punto di vista pi propriamente culturale, la riforma sociale regionale cerca di superare la concezione delle politiche sociali come politiche residuali (cenerentola delle politiche stata definita da un consigliere regionale) e del servizio sociale non pi come elargizione ma come diritto. Il concetto di programmazione, nonch le pratiche regolative che da esso derivano, stato fino ad adesso poco utilizzato a livello regionale, determinando oltre che un vuoto normativo anche la mancanza di una strategia di intervento unitaria quale manovra determinante per la risoluzione di problematiche complesse come quelle che caratterizzano il contesto regionale. Tale vuoto ha contribuito a creare nei territori un aumento delle disparit locali e, di conseguenza, delle disuguaglianze sociali. Il processo di decentramento calabrese stato infatti fino ad ora molto parziale. La latitanza della normativa regionale in materia di politiche ha avuto effetti differenti: da un lato, non ha fermato quei territori, come per esempio Lamezia Terme41, capaci di programmare e riformare lofferta socio-assistenziale anticipando lapprovazione del

La prima stata emanata dalla precedente giunta regionale (centro destra) mentre lapprovazione del Piano che ha volutamente seguito le Linee guida tracciate dalla legge regionale stato redatto e approvato dallattuale Giunta (centro-sinistra); un caso eccezionale, dunque, di continuit operativa che supera la discontinuit politica 40 Anche in questo caso tuttavia si tratta di un universo molto eterogeneo e disperso sul territorio, con concentrazioni alte nelle province di Cosenza e Catanzaro ma ancora molto poco organizzato (assenza del concetto di rete). 41 Lamezia Terme rappresenta un caso dove il territorio riuscito ad accumulare il proprio sapere e a metterlo in pratica avviando un processo virtuoso di programmazione che era in linea (e se vogliamo in anticipo) rispetto a quanto verr formalmente dichiarato dalla Regione con la pubblicazione del primo Piano Sociale Regionale nel 2009. La forza di Lamezia Terme stata duplice: ovvero sia istituzionale che extra istituzionale nel senso che c stato un gruppo politico e tecnico che ha creduto nellideazione di un nuovo sistema dei servizi e, allo stesso tempo, ha saputo far leva sul tessuto associazionistico che caratterizza la zona.

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PSR; dallaltro, ha lasciato altri territori liberi di agire secondo criteri e logiche localiste, ed altri, meno organizzati, bloccati nelle loro inefficienze. Rispetto allarchitettura istituzionale, come si avr modo di vedere anche relativamente alle politiche per loccupazione, uno dei pi grandi deficit di questa regione riguarda la scarsa comunicazione-integrazione regolativa dei rapporti tra i diversi livelli (regionale, provinciale e locale). Come sintetizzano le parole del Dirigente Si tratta di un problema che congenito a questa regione nel senso che i territori sono stati abituati cos da una regione che ha sempre voluto accentrare a s poteri e soprattutto risorse42 con una scarsa propensione a rendere autonomi i comuni sia nella programmazione che nellattuazione delle politiche. Si in presenza di due forze opposte: da una parte la regione non delega, dallaltra, i territori o non sono pronti o si giustificano dietro questa mancanza di autonomia concessa per evitare di impegnarsi direttamente per la risoluzione di alcune questioni. Questo assetto istituzionale ha purtroppo contribuito a sfavorire la crescita delle autonomie locali e la loro diretta responsabilit a governare in maniera efficiente sul proprio territorio. In una tale situazione di ritardi e di difficolt, lintento che si evince quello di procedere in maniera graduale ma incisiva verso la costruzione di un nuovo modello di welfare plurale e condiviso dalla molteplicit dei soggetti istituzionali e non (artt. 1e 3 della LR 23/2003) che operano nel settore. Al Piano Sociale, sta seguendo la predisposizione dei Piani di Zona da parte dei distretti socio-sanitari, secondo le linee guida dettate dalla Regione, e dei Regolamenti che il Dipartimento 10 sta attuando allo scopo primario di realizzare un sistema omogeneo dei nuovi servizi alla persona.

Capita che cittadini si presentino presso gli uffici regionali per richiedere un aiuto finanziario per situazioni di povert o chiedano informazioni che solitamente dovrebbero fornire i servizi sociali comunali o la provincia. Questo avviene per due ordini di ragioni: o linformazione sulla territorializzazione dei servizi non raggiunge efficacemente il cittadino oppure i servizi locali soffrono di uninefficienza che essi stessi addossano alla mancanza di trasferimenti della regione nelle casse locali. Siamo di fronte ad una lotta fra istituzioni che denuncia il livello ancora basso del decentramento istituzionale avviato formalmente allinizio degli anni novanta

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6.3. La programmazione sociale e il nuovo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali. Con un ritardo di nove anni rispetto alle indicazioni della normativa nazionale (328/2000) e di sei anni rispetto alla legge di recepimento regionale (LR 23/2003), la regione Calabria ha approvato il suo primo Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali e Indirizzi per la definizione dei Piani di Zona (2007-2009) nel giugno 2007. La Commissione consiliare ha ritardato di altri due anni la messa a regime del Piano fino a quando, il 9 agosto del 2009, il Piano stato definitivamente approvato e formalmente consegnato al territorio43. Un primo tentativo di Piano sociale regionale era stato fatto nel 2005 (biennio 20032005), quando la precedente giunta lo aveva sottoposto al Consiglio per lapprovazione. Ma la vicinanza alle elezioni avevano comportato lo scioglimento del Consiglio e, quindi, la mancata attuazione. I tempi della Politica sono spesso diversi dai tempi tecnici o dal momento nel quale si prende consapevolezza della necessit di un cambiamento di rotta [Dirigente di settore alle Politiche sociali]. E quindi, per una serie di ragioni, tra cui il ricambio politico, gli eccessivi tempi decisionali, la mancanza di una pianificazione sociale adeguata nonch la forte incapacit di adattamento al nuovo mostrata dalla classe dirigente, che la riforma sociale ha tardato a realizzarsi in Calabria. I lavori di preparazione del Piano sono stati accompagnati da un lavoro concertato con il territorio che ha previsto sopralluoghi e incontri istituzionali tra il gruppo tecnico del Dipartimento 10 della Regione e gli uffici di settore dei comuni capofila degli ambiti di zona previsti dalla LR 23/2003 (coincidenti con i distretti socio-sanitari). Lapprovazione allunanimit del Consiglio Regionale e la larghissima partecipazione territoriale (ANCI, UPI, sindacati, terzo settore) raccolta nella fase di preparazione e poi di approvazione del PSR (circa 2500 partecipanti), possono essere interpretati come dei segnali che indicano la presenza di una volont di procedere ad un cambiamento, appunto ad una riforma, che non risponda solo ai compiti previsti dalle normative ma che tanga conto dei mutamenti intervenuti ormai nella domanda sociale locale. Il PSR sostanzialmente guidato da due logiche: 1) Il PSR ed il passato: Il sistema dei servizi esistente (case di accoglienza, casi di cura, case famiglia ecc) viene sostanzialmente mantenuto sia perch ha ormai consolidato il proprio ruolo rispetto alla domanda di servizi sia perch ha creato forme di economia sociale e di occupazione dei quali non si ritenuto opportuno privare il territorio. Tale sistema, per quanto di natura meramente assistenziale, risponde ad un bisogno emergenziale (disabili, anziani, minori) comunque presente, soprattutto nei centri a pi alta densit abitativa della regione (Cosenza e Reggio Calabria) e che come tale deve essere preso in carico. La situazione stata in qualche modo sanata nel senso che sono stati introdotti dei controlli sulla gestione di tali strutture, ridotte le rette di compartecipazione della spesa pubblica alla gestione delle strutture convenzionate e richiesta una quota sulla base dei redditi agli utenti ospitati (risparmiando in media 5 milioni di euro allanno soprattutto nelle strutture anziani e disabili) (Dirigente di Settore alle Politiche sociali).
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DGR 364/2009.

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2) Il PSR ed il futuro: E stata espressa nel Piano la volont di rompere con il passato, con la logica assistenzialistica passiva, con la tendenza ad istituzionalizzare. Lattuale fisionomia del welfare regionale caratterizzata dalla mera erogazione di sussidi economici e dalla tendenza ad istituzionalizzare i servizi alla persona (PSR p. 11) Questo passaggio ha previsto un doppio livello di concertazione: da una parte, a livello regionale, sono state individuate le linee guida e di indirizzo per la programmazione dei nuovi servizi e, dallaltra, sono state delegate ai 33 distretti socio-sanitari le modalit di progettazione e gestione dei nuovi servizi alla persona. Dopo la presentazione del PSR in Giunta, inoltre, per prevenire i ritardi della politica che, si sapeva ci sarebbero stati, stata approvata una delibera44 che prevedeva da subito i trasferimenti di denaro dallente regionale ai territori con lobiettivo di avviare i lavori di progettazione. Per finanziare il sistema residenziale, le risorse sono state inviate nel comune dove ubicata la struttura; sullaltro versante, quello dei nuovi servizi alla persona (concentrati nei quattro ambiti: famiglia, anziani, disabili, minori), nel novembre 2008 la Regione ha destinato a ciascun Comune capofila circa 27 milioni di euro per dare il via alla stesura dei cosiddetti piani distrettuali (precursori dei PdZ) che avrebbero dovuto attendere, per essere ufficiali, lapprovazione del PSR che nel frattempo era impantanato in commissione consiliare. Dato questo lavoro di preparazione e progettazione locale, la Regione ha impegnato i territori a rispondere formalmente a quanto previsto dal PSR invitandoli a presentare le schede progetto formulate in concertazione con il terzo settore e le rappresentanze dei cittadini. In coincidenza con il periodo della ricerca, la Regione (Settore Politiche Sociali Dip. 10) stava completando la formulazione dei Regolamenti previsti dalla legge45 allo scopo di regolare la tipologia dei servizi da realizzare, le modalit di erogazione, il sistema di accreditamento, ecc, ovvero larmamentario normativo necessario alla concreta attuazione al PSR. I Regolamenti ai quali il Settore Politiche sociali sta lavorando rappresentano un vero e proprio esperimento di concertazione territoriale bottom up sostiene il Direttore di Servizio delle Politiche sociali. Negli ultimi mesi infatti il gruppo tecnico, con un forte appoggio dellAssessore alle politiche sociali, si recato fisicamente sui territori per rilevare le criticit, le carenze, le difficolt ma anche le risorse, le capacit e le volont di agire per attrezzare lambito dei servizi necessari senza sprechi e abbandonando la vecchia logica del campanile46. Di fronte a tali dinamiche, sembra di essere temporalmente ai primi anni del 2000, quando la maggior parte delle regioni italiani si adeguava alla normativa nazionale e invitava i territori ad elaborare i Piani di Zona. La Calabria, invece, sta attuando tutto questo nel corso del 2009 ed legittimo presumere che, trattandosi di un processo soprattutto culturale che implicher un cambiamento nei comportamenti, nelle mentalit, nelle procedure, avr bisogno, come tale, di ancora diversi anni per affermarsi.
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DGR. 670/2007

Si tratta in tutto di diciotto regolamenti dei quali ne sono stati approvati sei. Un primo bilancio dimostra che i territori stanno reagendo bene: su 409 comuni solo 6 non sono ancora riusciti ad investire le risorse inviate dalla regione e a procedere con la partecipazione alla programmazione di ambito.
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La direzione seguita quella di attuare un decentramento progressivo che faccia detenere alla Regione un ruolo di indirizzo e coordinamento, che responsabilizzi poco a poco i territori affidando loro la necessaria autonomia per la costruzione del nuovo sistema di programmazione ed erogazione dei servizi nellambito di propria competenza. 6.3.1. Gli orientamenti di fondo del PSR e le Indicazioni operative47 Per dare attuazione agli obiettivi proposti dal PSR, la strategia regionale in materia di welfare si articola su due livelli: Priorit di sistema e Priorit di benessere sociale. Le prime hanno chiaramente come obiettivo quello di sopperire ad una carenza, in termini di strutture e servizi, che impedisce al sistema sociale calabrese di rispondere adeguatamente alle gravi condizioni economiche e sociali cui si trova la popolazione. Di fronte a tali obiettivi si coglie nuovamente il ritardo (ma non limmobilismo) con il quale la regione Calabria sta intervenendo su questioni che dovevano gi essere consolidate quale, per esempio, la definizione del sistema di accreditamento o la realizzazione di un Sistema Informativo Sociale. Il secondo tipo di priorit mira invece ad intervenire sui quattro target che la regione ha individuato come destinatari principali della politiche socio-assistenziali. Tab. 2 Le priorit del PSR
Priorit di sistema Priorit di benessere sociale

Potenziamento dellinfrastruttura organizzativa dei servizi diffusi in ogni distretto e di servizi di scala Progettazione di un Sistema Informativo sui Servizi Sociali capace di fornire informazioni attendibili su domanda e offerta, distretto per distretto Definizione dei requisiti e degli standard di accreditamento per le strutture a ciclo residenziale o semi-residenziale Valorizzazione del ruolo delle IPAB attuando i contenuti della riforma introdotta dalla legge 32872000, dal D. Lgs. 207/2001 e dalla LR 2372003

Attuazione dellufficio del Segretariato sociale Intervento a favore dei giovani Intervento a favore delle famiglie Intervento a favore dei soggetti non auto-sufficienti (Anziani, Disabili, Minori)

Fonte: PSR p. 26

Rispetto ad esse, nella lettura del PSR si possono cogliere quelli che sono gli orientamenti che sottostanno al modello di welfare configurato dalla Regione sintetizzabili come segue48: Lorientamento scolastico, universitario e professionale pensato come metodo per favorire la buona socializzazione dei giovani rispetto alla loro vita relazionale e lavorativa; Mantenere e valorizzare le responsabilit genitoriali (sportelli di ascolto; centri diurni per adolescenti; spazi genitori-figli) equivale a puntare sulla famiglia come nucleo fondamentale e scheletro naturale del nuovo sistema di welfare calabrese49 (care giver). Allo stesso tempo si riconosce la necessit di

Tali informazioni sono tratte dal PSR Per approfondimenti si rimanda al PSR pp. 25-63 49 Tale fondamento viene enunciato anche nella LR. 1/2004 che allart. 1 recita: La Regione riconosce e sostiene come soggetto sociale essenziale la famiglia [] attua attraverso lazione degli enti locali
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alleggerire la famiglia dalla sua funzione di cura e assistenza attraverso il potenziamento di servizi domiciliari destinati ai membri non auto-sufficienti del nucleo (che si tratti di disabili o anziani) ma anche mediante trasferimenti monetari una tantum. La domiciliarit, la collaborazione con attori del Terzo settore e lactive ageing sono individuate come azioni da intraprendere per costruire un sistema di sostegno a soggetti non autosufficienti; linserimento lavorativo delle fasce deboli (donne, giovani, disoccupati di lunga durata) inteso come il principale vettore di inclusione sociale. Rispetto ai tradizionali sostegni economici, che rimangono comunque il nocciolo duro del welfare calabrese, si sono diffuse nel territorio forme alternative di sostegno al reddito quali le cosiddette work experiences, che puntano allinserimento lavorativo di categorie svantaggiate (in particolare disabili psichici ed ex detenuti) e le borse lavoro destinate invece ad avviare alcuni soggetti verso percorsi di formazione-lavoro (disabili, Rom, categorie protette)50 o ancora verso il lavoro sociale51. Alcuni segnali interessanti, se rapportati allo scenario precedente e se letti in una logica di integrazione e innovazione delle policies, riguardano quindi il tentativo di avvicinare le persone ad un lavoro o ad un percorso formativo che stimoli la loro capacit di partecipare, attivarsi per riemergere da uno stato di bisogno e per allontanare il rischio di emarginazione. Rispetto ai servi offerti alla famiglia e ai minori (sostegno alla genitorialit), gli interventi sono ancora pochi e i 15 milioni di euro stanziati dalla Regione su fondi nazionali e su fondi FESR per la realizzazione di una rete di asili nido su tutto il territorio non sono stati ancora investiti. Anche in questo caso si compensa la mancanza di una dotazione strutturale di servizi mediante lerogazione di ulteriori sostegni economici ad adulti in difficolt o a persone che, anche alla luce degli impatti che la crisi economica ha avuto sul mercato del lavoro, hanno perso il lavoro con conseguenti difficolt per lintero nucleo familiare. E opportuno precisare che in un contesto come quello calabrese misure di sostegno al reddito rappresentano ancora la maggiore fonte di spesa delle politiche sociali al servizio di persone svantaggiate52. Ideazione e applicazione di politiche attive del lavoro non risultano ancora diffuse poich, come si vedr anche nel paragrafo successivo, le urgenze sociali e occupazionali di questa regione richiedono interventi di tipo pi strutturale che incidano realmente sul tessuto economico e sul mercato del lavoro. La necessit, infatti, quella di agire non tanto sullofferta di lavoro, quanto sulla domanda poich uno dei principali problemi che caratterizza questo contesto la mancanza di occasioni occupazionali, e non di forza lavoro. Questultima, storicamente, stata costretta a spostarsi dalla propria terra di origine ma, oggi, costi della vita pi alti e diffusione di opportunit lavorative occasionali o precarie, rendono lemigrazione meno appetibile di un tempo concorrendo ad aumentare la percentuale delle persone non attive preseti in questa regione. E alla luce di un contesto socio-economico cos fragile

politiche sociali [] finalizzate a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona nella propria famiglia. 50 Entrambe queste iniziative sono finanziate mediante risorse del FSE. In particolare dal 2004 stata avviata la sperimentazione delle Borse Lavoro mediante le quali circa 3000 donne, con difficolt familiari o economiche, sono state impiegate nellassistenza domiciliare per anziani. 52 La Regione sta lavorando alla proposta di istituire un reddito minimo di inserimento secondo le modalit indicate dallart. 23 della legge 328/2000.
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e debole che, sul finire del 2008, stato approvato un Piano della Povert53 come strumento programmatorio integrativo al PSR e al Piano per lOccupazione54. Si tratta di un documento completo nel quale viene presentato concretamente limpegno (in termini di obiettivi e risorse) che la regione intende investire nel settore della formazione, del lavoro, delle misure alternative di sostegno al reddito55. Lattenzione rivolta a quelle che vengono definite le nuove povert (nuclei familiari monoreddito; madri sole con figli; immigrati; adulti disoccupati nella fascia di et 405056; famiglie in situazioni debitorie, etc) per le quali si individua lintegrazione delle politiche (formazione, lavoro, assistenza) come via principale per accompagnare lindividuo e/o il nucleo verso una situazione di autonomia (Piano per la povert p. 16). In questa cornice dazione sono previsti interventi a pi livelli nel senso che se la Regione si impegna a garantire forme minime di reddito e di sostegno economico (mediante risorse ordinarie o comunitarie), il compito dei territori sar quello di realizzare, attraverso i Piani di Zona, misure di contrasto in termini di accesso ai servizi erogati anche dalle organizzazioni del Terso settore in attuazione del principio di Sussidiariet verticale e orizzontale. Relativamente ai rapporti con il non profit viene individuata una specifica azione (ivi, p.27) che consente a questi soggetti di partecipare ai finanziamenti erogati dalla Regione per la predisposizione di un offerta formativa che sia finalizzata a favorire linserimento occupazionale di soggetti svantaggiati occupati (a rischio licenziamento) e disoccupati. Infine una misura nuova nel panorama regionale costituita dellistituzione di un Fondo per il Microcredito57 che, nato in Calabria circa nel 2007, si presentato come sperimentazione di un modello di sostegno alternativo destinato alle fasce deboli della popolazione (famiglie monoparentali, non autosufficienti con basso reddito, immigrati non regolari, disoccupati, portatori di handicap, ex detenuti, famiglie numerose monoreddito, i ceti operai, i giovani con livelli medi di istruzione) nonch come misura preventiva (salvagente) per evitare che situazioni iniziali di povert o indigenza potessero trasformarsi in stati o situazioni di pre-usura, abbandono, disperazione. Il fondo per il Microcredito della Regione Calabria rivolto sostanzialmente a due macrotarget distinguendo tra un Microcredito socio-assistenziale e un Microcredito alla microimpresa con il duplice scopo, quindi, di sostenere la crescita socio-economica di persone a rischio di povert e favorire lo sviluppo di piccole imprese (esistenti o ex novo) nonch forme di auto-impiego di categorie svantaggiate.

LR. 15/2008 Il Piano della Povert stato elaborato dal Dipartimento 10 e, quindi, di concerto tra i Dirigenti dei settori che lo compongono (Settore Politiche sociali, Settore Lavoro e Settore Formazione Professionale). 55 Su questultimo sono stati investite molte risorse comunitarie. Il settore delle politiche sociali riguardato infatti da sei misure (tre a valere sul FSE per un totale di 68 milioni di euro e tre sul FESR (sul quale le ripartizione dei fondi e i bandi sono ancora allo stato iniziale). 56 Il Consiglio regionale ha rettificato il Piano Sociale nel luglio 2009 aggiungendo una nota riguardante i soggetti tra i 50 e i 60 anni che hanno persi i lavoro (anche per effetto della crisi) ai quali viene destinato un contributo economico ad personam di circa euro 3.600 (una tantum). 57 Tale Fondo gi attivo ed gestito dalla Fondazione Calabria Etica (istituita ai sensi dellart. 18 bis della legge regionale n. 7 del 2 maggio 2001 sulla finanza etica) in collaborazione con Banca Etica e Caritas.
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6.4. La programmazione in materia di lavoro e la bozza del Piano per lOccupazione.58 Rispetto alle Politiche del lavoro esistono dei documenti di orientamento strategico (PAN 2008 e 2009) nonch le Linee guida espresse nel POR FSE 2007-2013. Non si arrivati mai alla definizione formale di un Piano regionale per loccupazione unitario e definitivo ma si proceduto in maniera incrementale ovvero la Regione sta attuando una serie di azioni in materia di lavoro mantenendo una coerenza con lorientamento strategico espresso nei documenti di programmazione ufficiali, la cui sommatoria riconduce al contenuto espresso nel Piano (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) Esiste una bozza di Piano recentemente aggiornata (giugno 2009) ma circa un anno fa la Regione, in coincidenza con la fase di chiusura della programmazione 2000-200659, aveva pubblicato dei Bandi ognuno dei quali rispondeva ad una linea strategica contenuta in quello che era stato definito (ma non ancora formalizzato) Piano Regionale per lOccupazione e il Lavoro - Piano dAzione 2008. Il giugno del 2008 ha rappresentato nella stagione programmatoria calabrese una data importante perch i bandi proposti sono stati pensati come chiusura del ciclo precedente (2000-2006) e avvio della nuova (2007-2013). Quindi, utilizzando le risorse delluno sono state lanciate le linee dazione per laltro (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) I bandi in questione sono stati: Concessione di incentivi alle imprese per l'incremento occupazionale e la formazione in azienda dei neoassunti (Bando PMI) Concessione di incentivi alle imprese di grandi dimensioni per lincremento occupazionale e la formazione in azienda di neoassunti (Bando GI) Concessione di incentivi ai datori di lavoro per lincremento occupazionale e la concessione di una dote formativa come contributo alladattamento delle competenze (Bando PARI) Ladesione ai bandi stata discreta (1.297 domande pervenute e 628 ammesse). I soggetti neo-assunti sono stati in tutto 5.666 (di cui 2.116, pari al 36%, concentrati nella provincia del catanzarese). Si tratta nella maggior parte dei casi di soggetti rientranti nelle categorie svantaggiate (5.565) e solo in minima parte di soggetti diversamente abili (101). Loccupazione stata creata nello specifico in aziende medio-grandi60. Tali risultati sono stati molto al di l delle aspettative iniziali e, pertanto, lobiettivo programmato per il 2010 quello di promuovere la creazione di altri 3000 nuovi posti di lavoro. Nel corso degli ultimi mesi (aprile-giugno2009), le linee di azione sono state aggiornate per essere meglio contestualizzate nello scenario attuale e, quindi, essere collegate alle problematiche scaturite dalla crisi internazionale. La programmazione relativa agli interventi sulloccupazione presenta, anche in questo caso come per le politiche sociali, quelli che sono stati definiti dal Dirigente di settore due blocchi: le
Il paragrafo frutto delle osservazioni raccolte dalle interviste a: Dirigente di Settore e Dirigente di Servizio alle Politiche del Lavoro, Mercato del Lavoro POR asse III Risorse Umane, Vertenze Ammortizzatori e Previdenza Dipartimento 10 della Regione Calabria. 59 La rendicontazione della quale ha ricevuto proroga fino al 31 dicembre 2009. 60 Cfr. Programma Regionale Sostegno allincremento occupazionale I primi risultati. Giugno 2009. Monitoraggio interno a cura del Dipartimento 10 Settore lavoro.
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Politiche vere e proprie e le Azioni di sistema. In particolare, le Azioni di sistema sono state pensate come interventi volti a rafforzare il modello di governance e il processo stesso di attuazione delle politiche sui territori. In questo ambito si fa stringente la collaborazione inter-istituzionale tra regione e provincia attraverso la quale si sta lavorando61 alla possibilit di elaborare Piani triennali per loccupazione. Il tentativo quello di ampliare la sfera di azione delle province per farle passare da una gestione ordinaria delle politiche del lavoro verso una gestione pi complessa e organica. Questo comporter uninnovazione istituzionale nel senso di un ammodernamento dei servizi, del personale, degli strumenti, che certamente richieder tempo per realizzarsi. A questo scopo, la Regione ha predisposto delle linee guida inviate alle province e un atto di indirizzo, i quali si collegano ai principi presenti nel POR e nella bozza di piano. Il secondo blocco della programmazione riguarda le Azioni operative che si concentrano soprattutto su due linee: 1) incentivi alloccupazione; 2) auto-impiego. La principale logica del Piano quella, infatti, di tentare di creare unintegrazione tra le azioni a favore delloccupazione e azioni che incoraggino lo sviluppo del mercato del lavoro stesso dal lato della domanda. Gli strumenti pi importanti a sostegno di questi due macro-obiettivi sono di diversa natura, uno di questi il cosiddetto bonus assunzionale che la Regione mette a disposizione dellazienda attraverso una procedura pubblica (bando)62. Per coniugare manovra anticrisi e incentivi alloccupazione, la Regione ha adottato un meccanismo il base quale lerogazione di tale bonus concesso esclusivamente ad aziende solide che abbiano una buona prospettiva di investimenti occupazionali futuri; allo stesso tempo, vengono premiate63 quelle aziende che inseriscono al loro interno soggetti che sono stati licenziati a causa della crisi oppure lavoratori in cassa integrazione e mobilit. Questo meccanismo sta chiamando inevitabilmente in causa la necessit di una collaborazione forte tra i vari soggetti che si occupano di politiche del lavoro e, quindi, regione, province, CPI, INPS, associazioni di categoria e forze sociali, che attraverso un lavoro serrato di concertazione ormai consolidato ma non sempre facile (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) si stanno muovendo per intervenire concretamente e strategicamente su uno dei principali nodi di rallentamento della Regione Calabria: il mercato del lavoro. Lobiettivo generale , inoltre, dato il particolare momento storico, quello di riuscire a rispondere in maniera pi incisiva alle difficolt scaturite anche dalla crisi economica internazionale. Le linee guida generali sono rimaste le medesime ma stato formulato un atto di indirizzo con il quale la Regione ha cercato appunto di adeguarsi al nuovo scenario. Un esempio rappresentato dal fatto che per la prima volta i fondi comunitari sono utilizzati per finanziare ammortizzatori sociali ovvero risorse FSE destinate ai lavoratori di aziende in crisi attraverso le quali viene garantito loro un reddito e, allo stesso tempo, questi soggetti vengono inseriti in un sistema di politiche attive del lavoro. Questo progetto sta andando avanti con buoni risultati che hanno altres accelerato i rapporti inter-istituzionali tra la Regione e lINPS, le quali stanno lavorando

Lintervista avviene proprio nel periodo nel quale si stanno mettendo a punto i nuovi strumenti di programmazione. 62 La basa giuridica di questa procedura il Regolamento 800 del 2008 che individua questo strumento del bonus a favore delle imprese. Attraverso questa misura nello scorso anno (2008) stata creata nuova occupazione per circa 6 mila unit. 63 Ovvero ricevono una premialit.

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alla gestione integrata di archivi e procedure che possano facilitare la gestione del FSE a scopi lavorista-assistenziali64. Sulle misure destinate allauto-impiego e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la Regione ha predisposto delle linee di programmazione e di azione a favore di soggetti giovani che intendono avviare forme di imprenditorialit, sostegno allinserimento occupazionale delle donne-mogli-madri e misure che incentivino limprenditoria femminile mediante azioni pi incisive sullorientamento ai possibili canali di finanziamento e al sistema creditizio. Lobiettivo finale quello di giungere ad una legge regionale per le politiche di genere, di favorire certamente linserimento occupazionale delle donne in un mercato del lavoro regionale che le vede fortemente svantaggiate (tasso di occupazione femminile del 30% - Istat 2008), ma soprattutto quello di abbattere i nodi della disuguaglianza intervenendo per favorire unuguale indipendenza economica tra uomini e donne; unuguale partecipazione delle donne ai processi decisionali politici ed economici e per contrastare ogni forma o comportamento discriminatorio sul posto di lavoro a sfavore delle donne. Sul versante della Formazione professionale stato formalizzato il primo Catalogo Regionale al quale il lavoratore o lazienda destinataria dei voucher (o bonus) pu attingere per acquistare un percorso formativo che si traduce in un PIAL (Piano Individuale di Avviamento al lavoro) nel caso in cui si tratti di un lavoratore gi segnalato dai CPI per il quale si renda necessario un accompagnamento personalizzato. Anche la realizzazione dei PIAL stata collegata alla manovra anticrisi. Attraverso un processo di concertazione che avviene a livello regionale tra imprese, parti sociali e funzionari di regione, vengono individuati i bacini occupazionali a rischio e indicati i potenziali percettori della misura di sostegno al reddito (lavoratori licenziati o disoccupati; lavoratori che hanno concluso la CIG, ecc ). Chiusa la fase di concertazione, lelenco dei lavoratori proposto viene controllato dalla Regione mediante archivio INPS; successivamente la Regione finanzia lINPS che eroga direttamente gli ammortizzatori sociali. Il lavoratore percettore obbligato a recarsi presso il CPI e inserirsi in un percorso individuale di attivazione. Spesso il lavoratore segue una fase di Formazione o percorsi personalizzati di altre misura (Catalogo). In aggiunta a ci, la manovra anticrisi (Bando Incentivi allOccupazione) ha previsto, come anticipato sopra, di favorire concretamente lopportunit occupazionale dei soggetti a rischio invitando le aziende a creare nuova occupazione attingendo prima di tutto da questo bacino di lavoratori a rischio. Dal punto di vista gestionale, i bandi per lerogazione dei finanziamenti vengono tuttora gestiti a livello centrale dalla Regione; tuttavia nella gestione della manovra anticrisi e del pacchetto povert, la parte attuativa stata assegnata alle province. Queste iniziano gradualmente ad essere soggetti istituzionali responsabili della gestione di misure di politica attive del lavoro (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro). Nei piani triennali, predisposti tra regione e provincia e avviati a gennaio 2009, molte delle risorse erano state destinate anche al potenziamento della rete dei Servizi per limpiego; tuttavia, nel giugno 2009, tale Piani sono stati revisionati sia per tenere conto degli effetti che la crisi stava avendo sul mercato del lavoro locale, sia per programmare misure pi complesse che rispondessero alla nuova logica di programmazione (analisi del contesto; valutazione di impatto; risultati attesi; obiettivi specifici). Anche questa ha rappresentato unoccasione nuova per gli enti istituzionali (e di conseguenza per il
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Questa alleanza viene descritta dal Dirigente come unassoluta novit.

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personale addetto) per abbandonare il vecchio stile programmatorio, denso di indirizzi ma povero di fattibilit, e rinnovare il modus operandi. Le province diventeranno sempre di pi soggetti attuatori di politiche attive del lavoro, la Regione sta cercando di preparare il decentramento di funzioni e compiti mediante linvestimento di fondi strutturali a favore di un ammodernamento degli uffici provinciali che non dovranno solo occuparsi di pratiche ordinarie ma agire in funzioni di risultati e obiettivi prefissati nei piani di programmazione triennale. (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro). Una cultura della progettazione che sta cercando di entrare, dunque, nelle amministrazioni pubbliche calabresi che si sono rese consapevoli e sembrano pronte a reagire a favore di un cambiamento. Tale cambiamento nel modo di governare comporta un impegno costante e quotidiano da parte di questi due livelli istituzionali proprio perch non facile sradicare vecchie abitudini e vecchi metodi. (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) A tale scopo stato istituito un tavolo permanente, nel quale funzionari e dirigenti regionali e provinciali si confrontano sulla programmazione e sulle nuove procedure da adottare. E vero, tuttavia, che questa Regione, soffre ancora molto della mancanza di una cultura della cooperazione e della collaborazione (tra istituzioni ai diversi livelli ma anche tra istituzioni locali, imprese, cittadini e/o associazioni) cos come scarsamente diffuso il concetto di rete. Accade spesso che molto difficile riuscire a riunire gli interessi dei diversi attori in una regione nella quale spesso le problematiche individuali diventano lunico parametro per misurare il proprio e laltrui benessere. Inoltre, si diffusa una gestione informale dei rapporti tra i livelli istituzionali per cui se un dirigente o un assessore del comune ha una necessit, contatta direttamente il referente che in Regione potrebbe risolverla. Questo approccio non necessariamente negativo (se letto in termini di capitale sociale) ma chiaro che in un contesto de-regolamentato come quello che caratterizza questa regione, gli atteggiamenti informali, i rapporti ad personam, non fanno altro che mantenere alta la differenziazione dei territori, sedimentare la frammentazione dei servizi e allontanare la realizzazione di un modello unitario di welfare. Pur riconoscendo che alcuni passi in avanti sono stati fati in materia di azioni volte ad incrementare loccupabilit, la programmazione regionale in materia di lavoro si trova ancora in una fase che potremmo definire intenzionale ovvero possibile registrare un ritardo gi rispetto al nuovo ciclo di programmazione comunitario, iniziato idealmente nel 2007, e che solo da poco pi di un anno sta assumendo le prime forme. Non si tratta anche in questo ambito, come in quello per le politiche sociali, di una carenza di regolamentazione, poich nonostante manchi un piano formale per loccupazione, tale mancanza compensata da una serie di linee di azione, regolamenti, delibere, che manifestano un chiaro tentativo di intervenire concretamente e con strategia sulle questioni occupazionali e sullo sviluppo del mercato del lavoro locale. I ritardi che caratterizzano la Regione Calabria sono dovuti, secondo la Dirigente di settore, a questioni strutturali che rallentano di molto loperato della Regione in direzione di uninnovazione delle politiche stesse: forte presenza di una logica assistenzialistica nei confronti, per esempio, degli oltre 15.000 lavoratori parastatali inserti in LSU, LPU, forestali65, ecc; alti tassi di disoccupazione giovanile e alti tassi di
7.000 LSU e LPU e 13.000 forestali. Ovvero ci sono 20.0000 persone che non sono stabilizzate. Una politica che nasceva come politica a favore delloccupazione (come aiuto ad inserirsi nel mercato del lavoro) diventata, nel corso dei suoi ormai 15 anni, una politica di assistenza.
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disoccupazione intellettuale (con conseguente fuga dei giovani neo-laureati verso altre regioni); diffusione di un sistema che non premia il merito (clienteralismo). Questi problemi, ai quali si aggiungono i consueti giochi di potere o i turn-over politici, contribuiscono a frenare il percorso di crescita delle capacit istituzionali e, di conseguenza, la formulazione di una strategia matura a favore dello sviluppo del territorio. Purtroppo ancora oggi la Regione si trova a dover gestire politiche di emergenza che assorbono molte delle risorse disponibili traducendosi per in mero assistenzialismo Laddove non c sviluppo di impresa, laddove non c occupabilit dei soggetti, rimane solo lassistenzialismo (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) In un contesto caratterizzato da tali ostacoli, chiaro che discutere di politiche attive per il lavoro diviene un tema secondario. Il problema che emerge chiaramente che la Calabria soffre di una carenza di domanda di lavoro. Se le aziende non investono nel capitale umano66, se le aziende non promuovono occupazione qualificata, in una parola se non si capitalizzano, difficilmente le misure di valorizzazione dellofferta di lavoro troveranno esito. Intervenire sullofferta del lavoro certamente doveroso in una societ della conoscenza ma come intervenire su un falso problema dal momento che la forza lavoro qualificata calabrese costretta a spostarsi per trovare un impiego coerente con il proprio percorso formativo o equamente retribuito in base al profilo ricoperto. (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) Basti pensare che in Calabria non esistono Agenzie interinali e non solo perch i canali informali sono da sempre il canale preferenziale per trovare il lavoro ma perch effettivamente non ci sono attivit produttive o servizi che hanno bisogno di esse per reclutare lavoratori. (Dirigente di Settore alle Politiche del Lavoro) 6.5 Considerazioni conclusive Da questa prima ricognizione sul modello di programmazione regionale, possiamo concludere che in Calabria, forse pi che in altre realt, la materia lavoro inevitabilmente e profondamente collegata alla questione sociale non solo perch loccupazione intesa come unica via a favore dellautonomia della persona, ma anche perch pu effettivamente preservare da un rischio di esclusione sociale e dalla moltiplicazioni di situazioni di emarginazione e povert che gi adesso riguardano il 27% della popolazione (Istat 2007). Come per le politiche sociali, anche per quelle occupazionali, la nuova stagione programmtoria, che mira ad introdurre strategie di attivazione del soggetto e ad investire sulla formazione individuale, sembra appena iniziata e i risultati cominciano solo lentamente ad affiorare. Questi, tuttavia, potranno risultare vani o reversibili se il processo di policy change e di innovazione ricever di nuovo una battuta darresto. Il problema non legato direttamente alla deregolamentazione (intesa come la mancanza di una quadro normativo unitario e coerente che pure ha penalizzato questa regione nellambito delle politiche sociali e del lavoro), quanto allassenza, per troppo tempo, di una progettualit matura, consolidata e realmente collegata ad una strategia di sviluppo aderente alle esigenze locali. Lalta
Grazie ai numerosi incentivi (nazionali o comunitari) o a programmi di politica economica (fin dalla Cassa del mezzogiorno) le aziende calabresi sono tra quelle pi dotate di attrezzature e impianti. Ci che manca una forza lavoro qualificata che utilizzi tali strumenti e che investa per esempio nei mercati internazionali.
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percentuale di disoccupazione e di inattivit, i bassi redditi delle famiglie, la perdita delle fasce giovani e qualificate della popolazione, denunciano ancor pi il ritardo di un sistema produttivo che non crea innovazione e la chiusura di un mercato del lavoro locale che si muove troppo spesso al confine tra legalit e illegalit. Il sistema di welfare, al cui centro sta ancora la famiglia e il suo ruolo di tutela dai rischi e di assistenza, mostra ancora una forte carenza nella dotazione territoriale di servizi, cui si contrappone labbondanza di strutture di cura tradizionali. Se, come abbiamo visto, si coglie il tentativo di superare un modello chiaramente sbilanciato a favore di politiche di tipo assistenziale, possiamo tuttavia osservare che non ancora possibile per la Calabria riconoscere una fisionomia di welfare definita come avviene per molte altre regioni ed, in particolare, per le altre due regioni oggetto di ricerca: la Lombardia e la Toscana. Nel caso della Calabria il modello di welfare locale , per usare unespressione ben nota ma efficace, un cantiere ancora aperto che mostra alcuni segnali di cambiamento i quali tuttavia risentono inevitabilmente il peso di difficolt socioeconomiche strutturali consolidatesi nel tempo nonch di una atteggiamento culturale che guarda alle politiche sociali ancora come una fonte di sostegno economico e non di sistema. Una continuit gestionale e lausilio di sedi complementari, che superino le altalene politiche, potrebbero essere auspicabili quali garanzie verso limplementazione di una riforma che, per le sue caratteristiche e per la forte path dependency che ancora dimostra, avr certamente bisogno di diversi anni per potersi dire applicata (se non ancora compiuta). Una struttura stabile e visibile al territorio, quale pu essere un Laboratorio di integrazione, potrebbe supportare unorganizzazione e una suddivisione delle competenze chiara e ponderata. Ovvero rispettare, da una parte, la dimensione verticale dei rapporti tra Regione ed autonomie locali (che in Calabria rappresenta ancora una nota dolente), e, dallaltra, favorire la governance locale mediante la compartecipazione dei diversi soggetti che gravitano attorno alle politiche sociali con lobiettivo unico di costruire un sistema territoriale di welfare che sostiene la persona ad uscire attivamente da una situazioni d disagio e di bisogno.

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Griglia 1: larchitettura istituzionale del sistema di politiche sociali, formative e del lavoro nella Regione Calabria
Fasi di policy Minori Rapporti istituzionali Ambiti di policy Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

Sussidiariet verticale: La Regione svolge funzioni di indirizzo, programmazione, coordinamento mediante Piano Regionale degli interventi I Comuni concorrono alla programmazione e alla realizzazione degli obiettivi Sussidiariet orizzontale: Collaborazione tra enti locali (distretti socio-sanitari) e organismi non profit nella fase di programmazione e gestione dei servizi socio-assistenziali LR 28/2009 Norme per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale

Programmazione

Governance orizzontale

Tipicit del modello

Modello a gestione centralizzata con scarso decentramento di potere ai territori. Logica assistenziale. Prevalenza di misure di politica passiva. (da circa due anni, tuttavia, si registra la tendenza a costruire un modello di welfare condiviso con i territori, attivante e integrato cfr. Piano Regionale)

Gestione

Fonti di finanziamento

Fondi Europei (FSE e FESR) FNPS FRPS Fondi a carico dei Comuni e del Distretto socio-sanitario

Strumenti di erogazione

Strutture socio-residenziali Servizi Borse lavoro, work experiences, voucher formativi

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Griglia 2 Gli strumenti di programmazione e i livelli di competenza (Regione Calabria)


Ambiti di policy Minori Strumenti di programmazione Conciliazione Inclusione Formazione e lavoro

- POR FSE 2007-2013 - Piano Regionale degli Interventi e Politiche regionali per la famiglia dei Servizi Sociali e Indirizzi per la Definizione dei Piani di Zona per il Piano per le Pari Opportunit in triennio 2007-2009 Calabria (2007) (DGR 364/2009) (Ufficio Regionale della Consigliera di Parit) LR 1/2004

- PAN 2008 e 2009 - Bozza di Piano per lOccupazione - Piano anticrisi (2009) - LR 34/2002 e LR 1/2006 (Delega alle Province in materia di formazione) - Piano Regionale per le Risorse Umane per il periodo 2009-2010

Progetto Integrato di Sviluppo Regionale Rafforzare i Diritti dei Minori

- Piano degli interventi a sostegno delle situazioni di povert (art. 5 LR 15/2008) - Progetto Integrato di Sviluppo Regionale Sostenere e Migliorare le Condizioni di Vita delle Persone Svantaggiate.

- Programma di interventi di assistenza domiciliare (aiuto domestico e cura della persona, preparazione) per occupare donne in condizioni disagiate

Piano di finanziamento nidi dinfanzia comunali e nidi-infanzia aziendali (5 milioni su fondi FESR)

- Catalogo Regionale dellOfferta Formativa - Riqualificazione dei Centri per lImpiego

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- Pacchetti Integrati di Agevolazione (e rispettivi Piani di Formazione Aziendale Livello istituzionale di competenza

Dipartimento Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato

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7. Il sistema di governance nella programmazione sociale del Distretto lametino67

Premessa. Il Comune di Lamezia Terme rappresenta un caso di studio interessante perch mostra una serie di caratteristiche che riproducono il modello di welfare calabrese. Diviso tra una profonda arretratezza del sistema produttivo e una conformazione sociodemografica e socio-economica tale da accrescere la domanda di servizi socioassistenziali, il territorio del distretto lametino68 ha avviato, negli ultimi anni, un processo di innovazione che, riguardando prima di tutto lassetto politico-istituzionale (riorganizzazione dei ruoli e delle competenze), ha cercato di impattare sul livello gestionale e operativo (dotazione di nuovi strumenti e dispositivi di programmazione locale)69. Un passo importante per dare nuovo ordine allazione di governo stata la Riforma organizzativa intervenuta e ultimata nel 2007,70 attraverso la quale stata superata la suddivisione delle competenze per Dipartimenti e realizzata una suddivisione delle attivit politiche per macro-aree tematiche. Tale suddivisione ha avuto lo scopo di garantire una maggiore omogeneit tra le aree e consentire una propedeuticit alle azioni del governo locale (per esempio nellArea Servizi alla persona sono compresi tutti gli interventi che hanno come finalit favorire il miglioramento delle condizioni di vita - dalla scuola, allo sport, al tempo libero ma anche alla lotta alla povert e allemarginazione nonch misure di sostegno alle famiglie e alle altre categorie di soggetti svantaggiati -; analogamente, le misure di politica attiva del lavoro rientrano nellArea Attivit produttive nella quale, oltre alle opportunit di investimento offerte da misure economiche come gli incentivi allauto-imprenditorialit o la recentissima misura del microcredito imprenditoriale, sono previsti anche interventi rivolti alle fasce pi deboli e a favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro (orientamento ai giovani; incentivi alloccupazione e microcredito di solidariet per famiglie, giovani, donne e lavoratori atipici). Per quanto riguarda il settore delle Politiche sociali, il Comune di Lamezia Terme, a partire in particolare dal 2000, ha avviato una serie di iniziative rivolte alle diverse categorie sociali (immigrai, giovani, donne, disabili) per la fornitura di una nuova tipologia di servizi (o a consolidamento di quelli gi esistenti) stringendo rapporti sempre pi regolari con il tessuto associativo locale. Rispetto alle politiche del lavoro, come si avr modo di approfondire pi avanti, ci si trova di fronte ad una situazione, anche in questo caso riproduttiva del contesto regionale, nella quale parlare di politiche attive sembra prematuro o comunque non
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di Caterina Cortese

Il Distretto socio-sanitario comprende 11 comuni ma il Piano sociale ha contato ladesione di 10 Comuni (Lamezia Terme, comune capofila; Cortale; Curinga; Falerna; Feroleto Antico; Gizzeria; Iacurso; Maida; Nocera Terinese; Pianopoli) Anche in questo caso opportuno segnalare che il Comune di Lamezia Terme stato interessato da elezioni comunali 2010 le quali, a seguito di un ballottaggio, hanno confermato la candidatura del sindaco uscente.
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DGC n.253 del 27.04.2006 e successive modifiche.

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incisivo rispetto ad una serie di problematiche che pongono i cittadini in una situazione di povert e disagio tale da non consentirne lattivazione. 7.1. La programmazione delle politiche sociali (famiglia, minori, povert). Nello scenario Calabrese, il Comune di Lamezia rappresenta un caso abbastanza avanzato in quanto ha dimostrato, nel corso degli anni, una capacit di sperimentare forme innovative di programmazione e gestione dei servizi socio-assistenziali. Il territorio caratterizzato, inoltre, da una presenza ricca di organizzazioni del terzo settore che ha spesso fornito un utile impulso alla definizione di unofferta formativa coerente con i bisogni del territorio ma, allo stesso tempo, ha reso necessario per lamministrazione locale gestirne il proliferarsi e leterogeneit. Le esperienze di collaborazione si sono via via strutturate fino alla realizzazione, nel 2008, di un portale telematico Lamezia non profit. Il portale del Terzo settore a Lamezia attraverso il quale sono state, in prospettiva del Piano di zona, censite le diverse realt non profit disperse sul territorio (spesso troppo variegate e sommerse) e, quindi, presentate sul portale (oggi sono presenti circa 300 enti tra associazioni, cooperative e organizzazioni di volontariato operanti sul territorio di Lamezia Terme). Aldil di questo network virtuale, il Portale rappresenta un punto di riferimento per gli utenti (informazioni e comunicazioni aggiornate) nonch un modo per conoscere i progetti integrati tra lassessorato alle politiche sociali del Comune di Lamezia Terme e le associazioni e tra queste e lAzienda Sanitaria Provinciale. Queste ed altre sperimentazioni cercavano di sopperire alla mancanza di regolamentazione regionale poich, dopo lapprovazione della LR 23/2003, non era seguita una fase di programmazione vera e propria che dettasse le linee guida ai territori. In assenza di un quadro normativo regionale e di una linea di programmazione definita, si assistito infatti ad una sorta di inversione di tendenza e, come nel caso di Lamezia, il territorio si riappropriato della sua legittima funzione di programmazione dei servizi socio-assistenziali. In questo caso, quindi, si assiste ad uninversione di tendenza per cui il Comune ha anticipato le indicazioni del livello regionale non senza provocare preoccupazione e e diffidenza da parte dellapparato politico-istituzionale regionale. Il distretto si avvalso tuttavia della collaborazione del gruppo tecnico del Dipartimento X Dipartimento Lavoro, Politiche della Famiglia, Formazione Professionale, Cooperazione e Volontariato svolgendo con esso i lavori di preparazione e ottenendo, di volta in volta, lautorizzazione a procedere. La fase di programmazione durata circa due anni (2006-2008) e, come anticipato sopra, il Comune di Lamezia Terme (in qualit di comune capofila del Distretto sociosanitario) ha dato il via ad un processo di programmazione sociale che prende forma con lapprovazione del Piano Sperimentale di Zona del Lametino71 e che, rapportato allo scenario regionale, rappresenta una vero caso di innovazione istituzionale72. Le componenti che fanno guardare ad esso come ad un modello vincente sono: la forte
Prima di questa dizione, il piano sociale locale era stato definito come piano sperimentale distrettuale proprio a causa della mancanza del Piano regionale. Anche gli altri ambiti territoriali calabresi si stanno dotando di un piano di zona ma la differenza sta nel fatto che, rispetto a coloro che stanno iniziando a programmare adesso, il contesto lamentino ha avviato i lavori gi da qualche anno trovandosi quindi preparato e avvantaggiato di fronte alla richiesta regionale.
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volont politica, rappresentata dallAssessore alle Politiche sociali e dal gruppo tecnico dellArea Servizi alla persona del comune, i quali, mossi dalla determinazione a voler intervenire significativamente sul territorio, si sono fatti animatori e hanno guidato i lavori di pianificazione sociale riuscendo a coinvolgere gli altri comuni dellambito e a dare forma ad una concertazione territoriale concreta (secondo elemento di forza). Tale prassi subentrata infatti ad un tipo di azione politica distorta e inefficiente, tipicamente diffusa nei territori calabresi nei quali sono state spesso realizzate politiche rispondenti a logiche di tipo assistenziale-clienterale piuttosto che coerenti con le deficienze strutturali dellarea o della composizione della domanda sociale. Altro elemento di forza del piano sociale lametino rappresentato dalla volont di realizzare quel processo di decentramento della programmazione e gestione dei servizi sociali (riappropriazione delle funzioni territoriali) che nel contesto calabrese ha sempre stentato a realizzarsi. Emerge, infatti, una tendenza del livello regionale a mantenere accentrate la maggior parte delle attivit, inandempiendo al principio della sussidiariet verticale e orizzontale. Rispetto a ci naturalmente le visioni sono divise tra due parti: dal punto di vista regionale, i territori non sono ritenuti pronti ad adempiere ai compiti istituzionali previsti dalla normativa (e questo in parte vero visto che i parametri di sottosviluppo economico e occupazionale che caratterizzano alcune aree territoriali fanno da specchio a gravi incapacit amministrative o a violazioni dellinteresse collettivo); dallaltra parte, quei territori pi dinamici e ambiziosi vedono nellaccentramento regionale un abuso istituzionale che provoca ritardi, approssimazioni nel modo di concepire le politiche e mancanza di dispositivi adeguati alla gestione dei servizi in chiave innovativa. Per dare corpo alla programmazione cos caratterizzata, sono stati formalmente costituiti la Conferenza dei Sindaci e il Gruppo di piano73, questultimo formato sia da referenti politici che da figure tecniche proprio perch vi era fin dallinizio lintenzione di strutturare un piano fattibile e molto vicino al territorio. I tavoli di co-progettazione, organizzati per area tematica (Famiglia minori anziani disabili)74, sono stati a composizione mista e hanno coinvolto tutti gli attori del TS. Propedeuticamente era stato realizzato il portale Lamezia non profit proprio per censire tutte le organizzazioni attive sul territorio, per identificare le risorse presenti e, quindi, identificare i contributi che ciascuna associazione o cooperativa poteva dare nella gestione dei servizi75. Rispetto alla gestione dei servizi, ci che emerge che c, da parte del comune, una forte tendenza ad esternalizzare (tramite gara pubblica) sia per le scarse risorse (economiche e di organico), sia per adempiere a quanto previsto e dalla normativa nazionale e da quella regionale sulla collaborazione con i soggetti di utilit sociale. Come viene per anche chiarito dalla Responsabile dellArea Servizi alla persona la collaborazione che si sta cercando di strutturare con le organizzazioni del terzo settore
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Secondo la procedura prevista dalla LR 23/2003. Si tratta delle quattro aree sulle quali la Regione ha destinato i finanziamenti.

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La realizzazione di una sorta di censimento del non profit nel lamentino nasce anche dallesigenza di conoscere la reale portata del fenomeno che soprattutto negli ultimi anni aveva dimostrato particolari segni di fermento con il rischio di determinare per una sovrapposizione di presenze e servizi. Lo scopo stato inoltre quello di correggere uno dei limiti di questo tessuto associativo ovvero la mancanza di capacit di fare rete nonch evitare la dispersione delle risorse pubbliche.

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pu contribuire a legittimare il lavoro delloperatore sociale e incrementare loccupazione nellambito dei servizi alla persona. Mancando a livello regionale unanalisi statistica di carattere socio-economico, la premessa alla stesura del piano di zona stata unanalisi dei fabbisogni realizzata durante i tavoli tematici avvalendosi dei dati disponibili a livello comunale e mediante i contributi conoscitivi offerti dalle singole associazioni. La partecipazione del TS e della societ civile stata ampia (hanno partecipato circa 300 organizzazioni) e la discussione ha avuto carattere consultivo finalizzato a creare un consenso sulla definizione degli interventi. Da questo lavoro di gruppo emerso che la suddivisione della programmazione sociale per aree tematiche, nonostante faciliti certamente il lavoro anche da un punto di vista organizzativo, non pi adeguata per rispondere alla nuova conformazione della domanda sociale che rende necessario pensare i servizi con una logica innovativa e trasversale. Dalla lettura del PdZ emergono sostanzialmente due principi che guidano la programmazione e le realizzazione dei servizi: la domiciliarit, in sostituzione, laddove possibile, della istituzionalizzazione dellutente (sia questi anziano, minore o disabile) che, fino ad adesso, ha rappresentato la via principale di assistenza alle fasce di popolazione pi a rischio e la copertura territoriale dei servizi, che cerca di sopperire ai vuoti strutturali che caratterizzano soprattutto i piccoli centri urbani o i comuni dellentroterra. Una delle criticit emerse dalla discussione concertata e dallanalisi di contesto svolte in preparazione del Pdz , infatti, la povert in termini di strutture e risorse destinate ai servizi sociali nei comuni con meno di 1000 abitanti. Questa consapevolezza ha reso necessario ripensare e razionalizzazione i sevizi sul territorio.

7.2. La progettazione nellofferta dei servizi socio-assistenziali. Alla luce delle difficolt descritte sopra, uno dei primi obiettivi del PdZ stata la realizzazione, in quasi tutte le sedi comunali, di un Segretariato sociale76. Sulla base di una proposta avanzata in sede di concertazione (tavoli tematici), il servizio stato pensato su tre livelli dazione: 1) Prima accoglienza dellutente e orientamento ai servizi (Porta Unica di Accesso) con uno sportello attivo in tutti i comuni77; 2) Poli di integrazione tra servizio sociale e risorse presenti nel territorio (attivazione di tre sportelli dislocati strategicamente per poter garantire al copertura della domanda); 3) Unit di Valutazione Multidisciplinare che cerca di offrire una risposta personalizzata allutente che si rivolto al Segretariato e di definire una strategia di intervento anche in sinergia con la assistenza sanitaria ove necessaria78. Lobiettivo quello di portare il servizio a casa dellutente.Il comune di Lamezia non pu ancora fare da ente gestore dei servizi (non ha il budget necessario n il personale sufficiente per poterlo fare) e

Al momento dellintervista, il bando per laffidamento del servizio risulta pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
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Il progetto stato co-finanziato da tutti i Comuni (ad esclusione del comune di Feroneto). Non c ancora una buona integrazione socio-sanitaria.

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quindi esternalizza i servizi attraverso bandi79 (concorso dappalti) che non si basano sul principio dellofferta al ribasso ma sul requisito fondamentale della qualit del servizio offerto. Rispetto al bando presentato per laffidamento del Segretariato sociale stato fatto un tentativo di favorire lappaltamento di quelle realt associative che occupano al loro interno operatori sociali residenti in tutti i comuni del Distretto (ovvero tra i criteri di valutazione ottiene maggiore punteggio quella associazione o cooperativa che riesce ad occupare personale che proviene da tutti i comuni del Distretto) (si tratta di una attenzione per favorire loccupazione e spingere verso il riconoscimento del lavoro sociale).

Non esiste ancora un albo degli enti accreditati in quanto la regione non ha legiferato sui requisiti dellaccreditamento.

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Per quanto riguarda le politiche destinate allarea anziani, si deve premettere che il territorio lamentino ha una popolazione relativamente giovane (secondo le rilevazioni Istat 2006 lindice di vecchiaia a Lamezia Terme il 16%) mentre gli ultra 75enni rappresentano, nellintero territorio del distretto, il 47,9% della popolazione residente. Si assiste negli ultimi anni per ad un graduale aumento dellet media di vita e della non-autosufficienza degli anziani. Rispetto a questo quadro socio-anagrafico, la necessit , come si anticipava prima, quella di favorire la domiciliarit dellintervento e alleggerire le famiglie dal lavoro di cura. Si cerca quindi di superare la gestione ospedalocentrica dellanziano malato o disabile per favorire una permanenza assistita nel suo contesto di vita attraverso lADI (assistenza domiciliare protetta) e la gestione delle RSA in collaborazione con lAzienda Sanitaria Provinciale. Rispetto agli interventi destinati alla famiglia lattenzione particolarmente rivolta a diffondere i servizi su tutto il territorio potenziando in particolare la mediazione familiare con incontri protetti per i quali, al momento, non vi sono strutture adeguate (luoghi fisici). Nel territorio del lamentino sono particolarmente rilevanti infatti i casi di abbandono di minori o di affidamento a case famiglie ma non ci sono strutture idonee per favorire un accompagnamento alle responsabilit familiarit dei genitori non affidatari. Gli obiettivi emersi dal tavolo tematico riguardano quindi la realizzazione di attivit di sostegno alle relazioni genitori-figli, informazione dellofferta dei servizi offerte alla famiglia (tempo libero, servizi sanitari, scolastici e para-scolastici, ecc), consulenza legale rivolta alle famiglie. Per quanto riguarda le politiche destinate ai minori, limpegno quello di combattere il disagio giovanile (primi fra tutti abbandono scolastico, devianza, micro-criminalit giovanile) attraverso servizi leggeri come le Ludoteche (se ne prevede lapertura di sei nuove sedi) o mediante un supporto pi incisivo al nucleo familiare con lintervento di un operatore sociale domiciliare. Sullarea disabili si propone di nuovo il tentativo di de-istituzionalizzare la persona ed inserirla nei Centri diurni per disabili mentali quale struttura di accoglienza guidata da personale esperto. Sulle aree di intervento non finanziate direttamente dalla Regione, il Comune di Lamezia Terme ha realizzato dei servizi, per esempio per gli immigrati, in quei comuni dove c unalta concentrazione di popolazione straniera quali uno Sportello informativoo, una Casa di accoglienza per i rifugiati (Progetto SPRAR) nella quale al momento risiedono 15 nigeriani (esiliati politici). Si tratta di un progetto co-finanziato anche dal Ministero degli interni e dalla cooperative di TS che si occupano di immigrati. Accanto a questa breve rassegna dei servizi programmati in sede di Piano sociale, ci sono altri interventi direttamente finanziati dai fondi comunali che hanno un carattere pi assistenziale vecchia maniera (trasferimenti monetari). E opportuno precisare che in un contesto socio-economico come quello descritto nella presentazione dello studio di caso (alti tassi di disoccupazione e povert, nuclei familiari fragili, domanda di lavoro debole soprattutto per alte qualifiche disoccupazione intellettuale) il sostegno monetario ha ancora una funzione molto forte. Come si avr modo di spiegare ancor di pi nel paragrafo dedicato alle politiche del lavoro, le carenze strutturali del mercato del lavoro locale, abbinate a forme di assistenzialismo di lunga durata, contribuiscono al perdurare nella potenziale utenza dei servizi sociali di una cultura dellassistenza come leva principale di sostegno. In un contesto dove sembra mancare tutto e dove purtroppo si registra uno scarso dinamismo prima di tutto in termini di investimenti strategici e funzionali alla crescita economica e culturale, il sussidio viene considerato
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lunica ancora possibile per garantirsi non una sussistenza (fruizione di beni primari) ma una sopravvivenza (spesa per consumi) (effetto perverso dellassistenza). Tra le misure di assistenza passiva direttamente erogati dal Comune vi sono: Sostegno economico (Assegno di maternit per madri non trattate da INPS; Assegno integrativo per nuclei con pi di tre figli; Assistenza economica pere situazione di emergenza e povert grave; Esenzione mense scolastiche e trasporti per minori con handicap; Buoni pasto per famiglie indigenti; Pronto cassa; assistenza economica straordinaria (contributo per spese funerarie, rimborso spese viaggi per motivi sanitari); assistenza abitativa (due mensilit di affitto). Il nuovo metodo della programmazione a livello distrettuale rappresenta certamente uninnovazione importante nel contesto calabrese non solo perch introduce principi e logiche che rompono con la tradizionale prassi di concepire le politiche sociali (assistenza ed emergenza), ma anche perch introduce e spinge i comuni verso una collaborazione inter ed extra-istituzionale che, in un contesto come quello calabrese caratterizzato da isolamento amministrativo e da una propensione a curare esclusivamente il proprio micro-territorio, rappresenta un tentativo di costruire una nuova cultura della progettazione abbinata ad una concezione avanzata delle politiche sociali pensate ormai in termini di servizi e non pi di assistenza passiva. Manca comunque ancora una cultura dellintegrazione (per esempio tra assessorato alle politiche sociale e politiche del lavoro) che solo di recente, mediante il nuovo progetto del Microcredito, si sta cercando di creare.

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Tab. 3 - Ripartizione fondi per area di intervento, Annualit 2009


Area dintervento Servizio Servizio di Segretariato sociale di I e II livello Area Trasversale Unit Valutativa Multidiciplinare Fondo Regionale per le Politiche sociali Fondi a carico dei Comuni e del Distretto socio-sanitario *

108.393,06

Anziani

Servizio di Assistenza Domiciliare Integrata 487.662,14 Centro servizi per la famiglia 84.616,69

Famiglia Sportello per la Famiglia 10.000 Servizio domiciliare di sostegno al minore ed alla famiglia in difficolt 97.388,55

Minori Tirocini Formativi 77.304,35

Servizi di Ludoteca Disabili Assistenza domiciliare e servizio di aiuto alla persona

67.886,23 166.176,29

Tot.

981.034,25

118.393,06

* I Comuni del Distretto partecipano con un co-finanziamento nella misura dell11% con risorse finanziarie, e con altre risorse strutturali, strumentali e umane Fonte: Piano Distrettuale Sperimentale nel Lamentino Novembre 2009

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7.3. La programmazione delle politiche del lavoro e per le pari opportunit. La principale linea di programmazione in materia di politiche del lavoro rappresentata dal POR FSE e dal POR FESR 2007-2013. Di recente stato firmato tra Regione Calabria e Comune di Lamezia un Protocollo di Intesa attraverso il quale stato predisposto un Piano per lo Sviluppo Locale. Nellambito del Comune lamentino, le materia Lavoro affidata allAssessorato allo Sviluppo e Programmazione Economica. E inserita, quindi, allinterno di un ambito di policy che cerca di intervenire in maniera decisiva sulla domanda di lavoro cercando di svilupparne il potenziale economico non solo in termini di crescita ma anche di occupazione. Labbinamento dellAssessorato sembra opportuno se si considera che una delle pi grandi difficolt della regione Calabria, cos come del territorio di Lamezia Terme, quella di creare nuovi posti lavoro. Un esempio abbastanza rappresentativo delle difficolt che la regione Calabria si trova a dover affrontare, prima ancora di potersi occupare di politiche attive del lavoro, la presenza di circa 7000 Lavoratori Socialmente Utili e Lavoratori di Pubblica Utilit che, inseriti sul finire degli anni Novanta mediante questi istituti di lavoro temporaneo (massimo18 mesi), sono stati di anno in anno confermati e attendono ancora oggi di essere stabilizzati. Questi rappresentano una voce di spesa che incide notevolmente sul bilancio pubblico (anche regionale) riducendo, di conseguenza, le risorse da poter investire per atri target di cittadini (per esempio i giovani disoccupati). Di fronte ad una tale situazione (appunto emblematica), le politiche del lavoro vengono in qualche modo fuorviate o, comunque, costrette a convivere con questo tipo di situazioni. Molte risorse pubbliche vengono assorbite da questa forza lavoro ed come, quindi, se le politiche del lavoro fossero indietro di un paio di generazioni (trattandosi ormai di persone appartenenti alla fascia di et 45-55). Si creato una sorta di circolo vizioso tale per cui lo spazio e lattenzione per le giovani generazioni che devono inserirsi nel mondo del lavoro viene cos a mancare (Assessore). Il mercato del lavoro locale si presenta inoltre povero (in termini di qualifiche impiegate) e poco dinamico, colpito da alti tassi di inattivit e di disoccupazione, soprattutto la cosiddetta disoccupazione intellettuale. Queste tendenze sono generate anche dalla conformazione delle imprese presenti sul territorio: si tratta infatti di micro-imprese (spesso anche di ditte individuali) attive nei settori dellagro-alimentare, dellarredamento, del manifatturiero tradizionale, la cui domanda di lavoro si rivolge principalmente a figure di bassa-media qualifica. Si tratta inoltre di settori saturi e che subiscono una concorrenza internazionale che non sono preparati ad affrontare. Gli effetti della globalizzazione, dellapertura dei mercati o della stessa congiuntura economica sfavorevole intercorsa a partire dalla fine del 2008, non hanno fatto altro che aggravare una situazione che anche autonomamente soffriva di una grave crisi occupazionali e di una crescita molto rallentata. Lamezia Terme stata dichiarata, a partire dal 1 gennaio 2009, Zona Franca Urbana (ZFU) 80 ovvero una zona con un Indice di Disagio Economico (IDS) tale da rendere indispensabile anche lintervento economico del Ministero dello Sviluppo Economico

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Laltra citt calabrese candidata ad essere riconosciuta ZFU era Crotone.

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per contrastare i fenomeni di esclusione sociale e favorire lintegrazione sociale e culturale delle popolazioni residenti81. Alla peculiarit del contesto calabrese corrisponde, quindi, una peculiarit delle politiche portate avanti dallattore locale. In questo scenario, infatti, parlare di politiche attive del lavoro quasi inadeguato nel senso che, data una serie di ostacoli strutturali alloccupazione, la politica costretta ad intervenire prima di tutto sul superamento di quelle situazioni di disagio estremo che impedirebbero comunque al soggetto di attivarsi (come si diceva prima la mancanza del lavoro fa da specchio ad sistema produttivo bloccato; la cultura dominante del disoccupato quella di aspettare un aiuto; il circuito formativo non adatto a garantire un impiego; lappartenenza a nuclei familiari ampi monoreddito o a reddito basso precludono una serie di attivit e di consumi che potrebbero facilitare la vita relazionale del soggetto; le occasioni di lavoro sommerso divengono appetibili perch generano un guadagno veloce per il lavoratore e un basso costo per il datore di lavoro, ma concorrono a dequalificare il mercato del lavoro locale; etc) Un altro esempio emblematico di mancato sviluppo rappresentato dal fallimento di un progetto di politica attiva del lavoro recentemente promosso dallassessorato (Impresa Giovane) che si poneva come obiettivo proprio quello di avvicinare il mondo universitario a quello produttivo promuovendo linserimento di giovani neo-laureati nelle imprese locali. Queste avrebbero ricevuto sgravi fiscali se avessero accolto nuova forza lavoro, per almeno un anno, nei settori della ricerca e dellinnovazione. Purtroppo, a differenza della forte partecipazione avuta dai giovani in cerca di lavoro, non corrisposta una disponibilit delle aziende ad aderire al progetto il quale, di fatto, ha mancato i suoi obiettivi. Un altro progetto di natura sperimentale e innovativa, stato quello volto ad offrire a giovani laureati stage retribuiti presso aziende dislocate al di fuori del contesto regionale (selezionate con appositi accordi) con lobiettivo di specializzarsi e poi rientrare nel paese dorigine per trasferire le competetene apprese. Anche in questo caso ladesione stata scarsa e questa volta lo stata da parte dellofferta di lavoro. Si ripresenta un circolo vizioso per cui le imprese non investono e non creano lavoro e molti giovani sono costretti (se non vogliono spostarsi) ad accettare lavori sottoqualifcati, concorrendo in entrambi i casi ad abbassare la qualit del mercato del lavoro locale (sotto-capitalizzazione). In questo scenario, uno degli obiettivi principali dellAssessorato alle attivit produttive stato in questi anni, anzich quello di rincorrere il buon lavoro, quello di creare le condizioni per loccupabilit sia sul versante della domanda che su quello dellofferta. Il problema infatti non rappresentato dalla nascita di nuove imprese, poich in Calabria il tasso di natalit delle imprese mediamente buono, quanto quello di stimolare la nascita di imprese che creino realmente crescita e occupazione. Purtroppo lauto-imprenditoria stata spesso vista in questo contesto come unalternativa alla disoccupazione e i numerosi incentivi creati a favore di essa hanno generato spesso una imprenditoria stagnante che non ha contribuito a creare una
La legge 27/12/2006 n.296 n(Legge finanziaria 2007)allart.1,commi 34 e segg.,nel testo modificato dalla legge 24/12/2007 n.244 (Legge finanziaria 2008) ,istituisce nello stato di previsione del Ministero dello Sviluppo Economico un apposito fondo con una dotazione di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009:fondo destinato al finanziamento di incentivi ed agevolazioni fiscali e o previdenziali a favore delle nuove attivit economiche iniziate, a partire dal 1 gennaio 2008, dalle piccole e micro imprese nelle ZFU.
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crescita economica del sistema locale n un incremento delloccupazione, soprattutto in settori trainanti delleconomia (ICT, internazionalizzazione o anche artigianato specializzato). Constatata infatti la difficolt delle imprese locali di creare nuovi posti di lavoro (tanto pi nel campo della ricerca e dellinnovazione), il tentativo stato sia quello di orientare la formazione di nuove imprese in alcuni settori nei quali, da apposite indagini, sono risultati poco presenti sul territorio; sia quello di intervenire sullofferta, cercando di promuovere forme strategiche di inserimento occupazionale puntando prima di tutto sullorientamento alle professioni e al percorso di studio (orientamento a partire dalle scuole medie e medie superiori). Spesso infatti c un forte scollamento tra i titoli di studio conseguiti e le reali capacit di assorbimento delle imprese di forza lavoro specializzata. E stata organizzato, in via sperimentale, il Salone dellorientamento quale momento di incontro e approfondimento cui sono stati invitati tutti gli attori collegati alla filiera formativa e alle tematiche del lavoro per favorire uno scambio di informazione rispetto alle opportunit di studio e di lavoro. LInformagiovani stato trasformato in Servizio Nuova Impresa presso il quale gli utenti possono avere informazioni e assistenza rispetto alle opportunit di finanziamento sia nazionali che europei. Tra le misure a met strada tra lassistenziale e il lavoro, il Comune di Lamezia Terme ha attivato da circa sei mesi i programmi di Borse lavoro per giovani neolaureati (ovvero un inserimento lavorativo presso aziende locali o presso lo stesso Comune retribuito con 350 euro al mese per un massimo di 8 mesi a 25h settimanali). Un altro progetto (non ancora attivo) prevede Borse lavoro per disabili con un inserimento individualizzato guidato da tutors della Cooperativa sociale che si aggiudicher il servizio. Unaltra misura nuova nel panorama locale il progetto Microcredito (attivato da Giugno 2009) che si muove su una duplice linea di finanziamento (sullesempio del progetto regionale per il Microcredito coordinato da una Fondazione regionale): microcredito alle famiglie e microcredito per lo start up d impresa. Altre iniziative sono il Prestito donore, erogato dalla Regione Calabria; Impresa DONNA e altri progetti ai quali il Comune sta lavorando. Inoltre alcune aziende dellarea del distretto stanno partecipando ai bandi regionali per usufruire degli incentivi messi a disposizione quali per esempio i voucher alla persona per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; lavvio di iniziative di auto impiego in forma di lavoro autonomo nei nuovi bacini di impiego; i finanziamenti per le PMI da destinare alle attivit formative per i propri dipendenti, ecc Nonostante le iniziative, quello che per emerge durante le interviste uno scarso impatto di tali politiche, soprattutto perch si scontrano con un tessuto culturale ostico. Dunque, il tentativo promosso dalle politiche del lavoro del comune di Lamezia Terme stato quello dotare il territorio di occasioni e di strumenti per portare i soggetti a muoversi meglio sul mercato del lavoro; le azioni sono state rivolte principalmente ai giovani e alle donne, da una parte, e alle imprese, che, tuttavia, non hanno sempre partecipato alle iniziative innovative proposte. Proponendo una sintetica conclusione, possibile constatare come sia in corso a Lamezia Terme un processo di adeguamento ai nuovi modelli di programmazione, tanto nel settore delle politiche sociali quanto, pur nelle difficolt descritte, nelle politiche del lavoro. Si assiste ad un tentativo di dotarsi degli strumenti idonei a progettare ed intervenire sul territorio ponendo al centro del sistema la persona-cittadino ed i suoi
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bisogni; cos come avviata la diffusione della pratica della concertazione territoriale che cerca di legittimare e regolarizzare la presenza di un terzo settore vivo. Una delle principali lacune che, tuttavia, rimane la scarsit di informazioni socioeconomiche puntuali e aggiornate rispetto al contesto locale. Questa scarsa propensione degli uffici a rilevare il dato, ha comportato automaticamente una conoscenza approssimativa di alcuni fenomeni e, quindi, una programmazione politica meno aderente alle reali necessit territoriali. Queste carenze, unite ad una situazione politica non sempre trasparente e ad una classe dirigente che orienta spesso le proprie scelte verso il raggiungimento di vantaggi particolaristici piuttosto che verso il perseguimento di un bene collettivo, impediscono ancora oggi di guardare con troppa fiducia ai cambiamenti che pure stanno interessando questa zona e potrebbero prefigurare un rinnovamento del welfare locale al contempo significativo ma faticoso.

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Parte IV Conclusioni82 Le sfide della riforma territoriale del welfare e dellintegrazione tra le politiche
8.1 Linee di confronto tra Lombardia, Toscana e Calabria Mettendo a confronto le tre regioni considerate nel corso della presente ricerca, interessante evidenziare alcuni aspetti di convergenza che riguardano le trasformazioni del welfare non solo in Italia. Tali direttrici, che abbiamo voluto identificare sinteticamente con tre termini: attivazione, rescaling, governance, riguardano oggi un po tutti i contesti europei, ma con traduzioni e significati molto diversi tra loro. Se di convergenza si pu parlare, essa ha a che fare con lidentificazione di obbiettivi comuni che le politiche di welfare trasversalmente da stato a stato dovrebbero perseguire. Gli strumenti e i percorsi di riforma attraverso i quali approdare a quel nuovo genere di politiche sociali abilitanti che abbiamo messo in evidenza allinizio, rimangono differenti tra loro, essendo il risultato di spinte allinnovazione e di influenze sociali, istituzionali, che in ogni paese si riverberano sul tipo di politiche. In questo lavoro non ci siamo occupati dei mutamenti dei welfare europei. Ma a ben vedere questo ragionamento che abbiamo appena svolto vale anche per le regioni che abbiamo studiato in un contesto come quello italiano, da anni sottoposto a grandi processi di riforma e tuttavia ancora connotato da alcuni degli elementi di fondo della tradizione di welfare che gli propria. Daltro canto, se da un lato crescono i vincoli che derivano dallappartenenza allUnione europea, con la conseguente pressione isomorfica che ne deriva, dallaltro proprio i processi di rescaling e lo sviluppo di una governance multilivello conferiscono maggiori poteri anche ai territori (dalle regioni sino alle realt municipali), accentuando a questo livello gli impatti delle trasformazioni, con tutto quello che ne consegue in termini di rotture e persistenze, istituzionali, culturali, sociali. Lesito che se i modelli nazionali di welfare, codificati in letteratura, spiegano ancora molte delle differenze importanti esistenti in materia tra gli Stati, per altro verso il crescente protagonismo dei territori rimescola le carte, portando allinterno degli stessi modelli delle varianti significative. Il caso italiano da questo punto di vista paradigmatico. Ancor pi che in altri paesi europei, dove la tenuta dei quadri nazionali stata pi forte, in Italia il decentramento e, negli anni a noi pi vicini, la regionalizzazione hanno avuto come esito una crescente differenziazione territoriale, con lemergere di modelli regionali assai diversi tra loro. Se indubbio che il nostro sistema assistenziale per certi versi ancora condizionato da residualit dellofferta, scarso sviluppo dei servizi e sostanziale assenza di vere politiche familiari, pur in presenza di un forte ruolo della famiglia come agenzia di cura e ammortizzatore sociale, anche vero che sia lappartenenza allUE sia soprattutto la
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Di Rosangela Lodigiani e Andrea Ciarini.

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regionalizzazione ne stanno modificando il volto. Questi processi agiscono uno sforzo di modernizzazione che per non si estende su tutto il paese secondo le medesime caratteristiche e intensit. Parimenti sono dissimili i dispostivi che le regioni mettono in campo di fronte al mutato profilo della domanda sociale di protezione. In linea con quanto appena sostenuto, il ridisegno normativo a cui andato incontro il sistema italiano di welfare (con in testa, naturalmente, la legge quadro 328/2000 per la realizzazione del Sistema integrato dei servizi sociali e la riforma del Titolo V della Costituzione) se, da un lato, mostra di recepire alcune delle indicazioni che vengono dal quadro europeo, dallaltro lato, nel conferire potere esclusivo alle regioni in materia, pone implicitamente le basi per una differenziazione interna al paese, senza la previsione di clausole di perequazione (su tutte la mancata approvazione dei Livelli Assistenziali, LIVEAS) e implicitamente quasi rinunciando a un coordinamento nazionale della territorializzazione del welfare. Le tre regioni da noi studiate offrono al riguardo utili spunti di riflessione. Come anticipato, anchesse si trovano a convergere lungo le linee guida comuni sopra indicate. Tuttavia restano ampie le specificit territoriali e anche i margini di interpretazione/attuazione di tali linee guida, da cui derivano effetti non scontati, sui quali vogliamo riflettere in sede conclusiva. Si tratta di specificit che derivano sia ragioni di tipo storico, politico, culturale, istituzionale, economico, ovvero dalla peculiare infrastruttura del welfare che nel tempo si consolidata, ma derivano anche da come dentro a questa peculiare struttura giocano le tensioni derivanti dal mutamento della domanda sociale e impattano le riforme. Il primo e pi lampante esempio fornito dalla direttrice di riforma forse pi condivisa a livello internazionale, quella della attivazione. Le nostre regioni infatti offrono un riscontro a quanto affermato in precedenza, mostrando come la sua interpretazione non sia univoca. Anzitutto perch il principio dellattivazione pu essere applicato tanto ai sistemi di protezione quanto ai beneficiari. Con riferimento ai sistemi di protezione lattivazione pu essere coniugata al principio della condizionalit: i benefit sono erogati se si rispettano alcune condizioni; ma i vincoli posti possono variare da un contesto regionale (e in alcuni casi perfino locale) allaltro. Guardando ai beneficiari, si pu di volta in volta enfatizzare il lavoro come ambito privilegiato di espressione della cittadinanza oppure il riconoscimento dei diritti non condizionabili come prerequisito dellaccesso e reinserimento lavorativo. Tutto ci pur condividendo tutti la stessa idea che occorra superare limpianto assistenziale del welfare a favore di un approccio promozionale, orientato allautonomia dei cittadini. Il punto che questo mutamento non sempre converge verso scelte comuni. In modo particolare Lombardia e Toscana, le pi attrezzate delle regioni da noi considerate e quelle da pi tempo impegnate in un processo di innovazione del welfare territoriale, appaiono differenziate quanto a scelte e orientamenti di fondo, non solo rispetto al tema attivazione. Diverse sono le parole chiave che esse utilizzano per descrivere gli assetti del welfare locale, cos come le scelte che traducono in dispositivi gli assi strategici di intervento. Cos a un modello, quello lombardo, centrato sulla promozione della libert di scelta degli utenti e delle famiglie (attraverso il ricorso a dispositivi quali il voucher e la dote), della sussidiariet orizzontale aperta a tutte le sue componenti sciali e forme associative, del lavoro come principale canale di integrazione sociale, se ne contrappone un altro, quello toscano, che mostra una predilezione per lerogazione dei servizi rispetto ai trasferimenti e che pone maggiormente in risalto le dimensioni delluguaglianza dei diritti nellaccesso alle prestazioni e della
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responsabilit pubblica lungo lintera filiera della programmazione e gestione degli interventi. Dal canto suo, anche la Calabria mostra specificit proprie, legate semmai al ritardo con cui la spinta allinnovazione ha cominciato a produrre un mutamento di approccio alle finalit del welfare locale, il cui impianto assistenziale profondamente radicato, ancorch appunto in fase di cambiamento. Significativamente, la ricerca svolta ha mostrato come nei tre contesti regionali ricorrano alcuni termini che appartengono al vocabolario comune della modernizzazione del welfare, e che tuttavia trovano declinazioni diversificate nella realt. Ci vale in particolare per i termini di seguito indicati, peraltro molto compenetrati tra loro, che sono assunti dalle regioni a esemplificazione delle direttrici di riforma del welfare territoriali, ma che mostrano quanto tali direttrici esitino in percorsi in parte eterogenei. Sussidiariet verticale e orizzontale, tra decentramento e governance Rappresenta il riferimento normativo fondante i rapporti tra i livelli istituzionali e gli attori del welfare; da questo punto di vista, la riforma del titolo V e la costituzionalizzazione del principio di sussidiariet hanno rappresentato un momento di accelerazione dellattuazione del decentramento e del conferimento di poteri ai territori e alle formazioni sociali che li animano. Ci ha implicato sviluppare una governance multilivello, che ridisegna i processi di policy making aprendo alla rappresentanza degli interessi di cui sono portatori i diversi attori locali, superando la centralizzazione dei poteri in mano allo stato, in favore di una ripartizione degli stessi tra i diversi livelli istituzionali, sulla base di competenze specifiche; sostenendo una logica di rete piuttosto che gerarchica e processi di negoziazione e co-partecipazione piuttosto che di imposizione burocratica. Ne risulta incentivata linclusione nei processi decisionali della societ civile in unottica di welfare mix. Ma se lapertura al welfare mix e al decentramento sono fattori di mutamento consolidati, diversi possono essere i gradi verticalizzazione interni ai sistemi regionali. Vi possono essere approcci pi verticistici laddove la regione assume pi ampi poteri di indirizzo e controllo della regolazione dellofferta locale, e casi di maggiore autonomia territoriale. Partecipazione, tra voice effettiva e mera consultazione: il vero volto della sussidiariet orizzontale Il binomio sussidiariet orizzontale/attivazione si traduce nellapertura di spazi nuovi di partecipazione alla costruzione del welfare. Direttamente o indirettamente i cittadini sono cio chiamati a concorrere alla definizione stessa delle politiche, alla loro implementazione, avendo possibilit di voice e di partecipazione ai processi programmatori sia individualmente, sia, in modo specifico, attraverso le rappresentanze della societ civile e del terzo settore in particolare. In tal senso la legge 328/2000 e le leggi regionali che disciplinano la materia (almeno in Lombardia e Toscana) hanno offerto una cornice normativa che ha dato indicazioni precise e predisposto un terreno fertile affinch tale partecipazione si sviluppasse, pur con le differenze di cui casi regionali hanno dato conto, che si riflettono nel peso effettivamente dato a tale voice. Empowerment, tra responsabilit individuali e collettive Si tratta un concetto plurisemantico aperto a diverse interpretazioni. Possiamo assumere lempowerment come processo che si pu realizzare sia a livello individuale che locale, territoriale teso a rafforzare le capacit degli individui nellaccezione seniana
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delle capabilities (Sen, 2000). In questa accezione lempowerment indica che le politiche sociali sono chiamate a essere abilitanti e potenzianti al fine di sostenere individui, gruppi svantaggiati, comunit locali nello sviluppare capacit di azione, autodeterminazione e auto-organizzazione, e ad acquisire il potere e le risorse necessarie per esercitare una cittadinanza attiva. Se questo un processo chiave del welfare attivo, anche vero che la sua attuazione risponde a obiettivi e dispostivi anche molto diversi. Da una parte vi sono concezioni dellempowerment che mettono laccento sullattivazione come responsabilizzazione del singolo e delle comunit come trasferimento del rischio dalle istituzioni alla societ. Dallaltra, sono presenti versioni dellattivazione che puntano alla responsabilizzazione delle istituzioni, prima ancora che degli individui e delle comunit, come prerequisito di una strategia abilitante tesa a rafforzare le capacit individuali e collettive. Contrattualizzazione individuale, tra autonomia e condizionalit Come corollario delle politiche di empowerment e di attivazione, cresce (o dovrebbe) il potere dei soggetti nella definizione delle risposte ai propri bisogni e di negoziarli con i servizi. Nei fatti ci si traduce in modi diversi: come riconoscimento del sapere esperto dei cittadini e comunque come sforzo di valorizzarlo e accrescere le capacit personali di fronteggiamento; oppure come codifica pi istituzionalizzata dei rapporti tra utenti e servizi, alla luce di un patto reciproco che definisce diritti e doveri. Si ispira a questa seconda declinazione la logica della condizionalit tipica delle politiche del lavoro, ma non solo di queste. Centralit della domanda vs orientamento allofferta La tendenza emergente (ma non realizzata allo stesso modo nelle regioni qui considerate) quella di costruire le politiche sociali e definire i servizi a partire dalla domanda sociale. Tale scelta risponde a pi obiettivi: rovesciare la logica di passivit del welfare tradizionale e responsabilizzare i cittadini rispetto alla loro situazione di bisogno, valorizzandoli in quanto utenti esperti e partecipi della governance territoriale. Diversa per la traduzione di questo approccio in termini di politiche e prerogative riconosciute tanto al sistema istituzionale, quanto al cittadino-utente. Da un lato la centralit della domanda rimanda al sostegno al potere di scelta tra alternative di offerta. Laddove come in Lombardia questa ormai una scelta consolidata, ci implica una crescente centralit di voucher e titoli sociali. Dallaltro lato, lapproccio demand-side, sebbene spesso associato ai soli strumenti di solvibilit, pu essere giocato non solo sul piano del potere di scelta ma anche come avviene in Toscana su quello dei livelli minimi garantiti dallamministrazione. In questo caso alle amministrazioni si riconosce il compito di organizzare lofferta, e non solo di svolgere funzioni di accreditamento tra erogatori in concorrenza. Laddove presenti, gli strumenti di solvibilit sono inseriti in una struttura di offerta organizzata direttamente o indirettamente dal pubblico.

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Tav. 1 - Direttrici di riforma del welfare territoriale in ambito socio-assistenziale, secondo il modello della welfare community e dellattivazione
Direttrici di riforma
Sussidiariet verticale (istituzionale)

Lombardia
Devoluzione ai sensi della normativa nazionale, con una puntuale regolamentazione regionale; forte ruolo di coordinamento regionale Programmazione partecipata; tavolo permanente del terzo settore; tavoli tematici; difficolt di rappresentanza interna al terzo settore Le politiche sociali sono definite in termini abilitanti, e prevedono investimenti nel capitale umano e sociale dei beneficiari. Sostegno alle famiglie e alle reti di prossimit. In un quadro che vigila sulla qualit dei servizi e delle prestazioni, e garantisce parit di accesso Definizioni di piani personalizzati;

Toscana
Decentramento ai territori, ma seconda una forte regia pubblica regionale.

Calabria
Processo di decentramento parziale; forte ritardo nella regolazione normativa regionale; accentramento dei poteri a livello centrale e scarsa autonomia dei territori Recente adozione di una programmazione concertata con i territori (livello politicoistituzionale) e con i rappresentanti della societ civile (sindacati e terzo settore) La strategia dellempowerment perseguita ma il contesto socio-economico regionale richiede interventi strutturali sul lato della domanda di lavoro piuttosto che sullofferta.

Sussidiariet orizzontale (governance e partecipazione)

Istituzione di una legge regionale per la partecipazione. Ma processi di governance essenzialmente orientati alla consultazione. Le politiche sociali definiscono standard minimi di diritti sociali. Impronta egualitaria.

Empowerment

Contrattualizzazione individuale

Definizione di piani personalizzati di intervento

Centralit della domanda vs orientamento allofferta

Centralit dei titoli sociali: voucher in ambito sociosanitario e sistema della dote in ambito lavorativo, dellistruzione e della formazione; principio della solvibilit della domanda; sistema di mercato regolato o quasimercato Il reinserimento lavorativo visto come il migliore sistema di protezione anche nellarea dello svantaggio sociale. Nellarea delle politiche del lavoro laccesso alla dote condizionata al PIP. Il sistema un mix tra politiche attive (per es. formazione) e passive

Attivazione lavorativa

Centralit dellofferta pubblica, diretta o indiretta. Scarsa presenza di dispostivi di solvibilit. nelle politiche sociosanitarie. Sistema di accreditamento e possibilit di scelta, ma monitorata e controllata, nei servizi allinfanzia. Maggiori restrizione nei servizi socio-sanitari Sistema misto di politiche attive e passive, politiche dellofferta (occupabilit, adattabilit, formazione) e politiche della domanda (intervento per la creazione di occupazione).

In ambito lavorativo le categorie svantaggiate possono usufruire di voucher o seguire Piani Individuali di Avviamento al Lavoro (PIAL) Sebbene la regione abbia iniziato a formulare unofferta sulla base di unanalisi dei bisogni, manca ancora una misura reale della domanda sociale

Accanto a misure passive di welfare (trasferimenti e sussidi), si diffonde lutilizzo di misure di inclusione sociale che prevedono un inserimento nel circuito lavorativo (tirocini e work experiences)

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8.2 Ragioni e pratiche della differenziazione regionale Come appare evidente da quanto sin qui argomentato, le Regioni conservano specificit proprie legate a diversi fattori: la cultura politica, anzitutto, ma anche le caratteristiche del contesto sociale e demografico, economico e produttivo, la vitalit della societ civile. Il welfare per definizione un ambito in cui si esprime una visione di societ, di contratto sociale, di rapporto tra responsabilit individuali e collettive, e questo si riflette nellinterpretazione e nella rilevanza data a ciascuno dei principi e delle direttrici di riforma sopra citati. Senza contare che entrano in gioco anche le capacit (e le risorse) dei sistemi locali di passare dalladesione teorica a essi alla loro attuazione e traduzione in politiche, dispositivi e pratiche di intervento. Il confronto tra le regioni qui presentate e le realt locali offre interessanti spunti di riflessione con particolare riferimento a due questioni: il coordinamento istituzionale (sussidiariet verticale); i processi di integrazione orizzontale tra diverse aree di policy. Al riguardo sia le regioni sia, in modo ancor pi evidente, le realt locali si presentano come laboratori dellinnovazione capaci di suggerire spunti di riflessione importanti a livello nazionale, ma nel contempo mostrano quanto sia ineludibile considerare le disparit territoriali come una delle variabili strutturali in campo. Si tratta di una disparit che, in certi ambiti, la regionalizzazione del welfare acuisce, configurando nuove disuguaglianze tra territori pi o meno attrezzati dal punto di vista della capacit amministrativa, della partecipazione della societ civile, delle risorse a disposizione. Si tratta altres di una disparit che, quando presa debitamente in carico, consente il delinearsi di risposte pi efficaci e mirate sui bisogni reali. Da questo punto di vista importante sottolineare che il divario tra gli assetti regionali del welfare si erano gi in qualche modo configurati ancora prima della 328 e della riforma costituzionale. Emblematici i casi, per certi aspetti diametralmente opposti, delle regioni che abbiamo indagato in questa sede. Lombardia, Toscana da una parte e Calabria dallaltro sono casi che bene testimoniamo inoltre di una diversit che poggia anche su condizioni di bisogno profondamente differenti. La Calabria ha trovato nel nuovo quadro normativo senzaltro un impulso a organizzare un welfare territoriale. La sua implementazione ha richiesto comunque diversi anni per giungere a una prima svolta tangibile, peraltro ancora non del tutto conseguita. In sostanza si andata diffondendo la consapevolezza della necessit di una rottura rispetto al passato. Tuttavia la riorganizzazione delle politiche non appare essere andata troppo oltre lavvio di un nuovo corso di programmazione, senza effetti tangibili in termini di nuovi servizi. La macchina amministrativa mostra carenze che mal si adattano alla gestione della complessit istituzionale propria delle prestazioni in servizi. Sebbene pi di recente non siano mancati tentativi di innovazione istituzionale, il comparto assistenziale fa fatica a uscire dal deficit strutturale che lo ha sempre accompagnato, caratterizzato da unottica solo assistenzialistica e riparatoria. Ma non solo un problema di offerta che incide sui ritardi delle riforme. la domanda che presenta caratteristiche tali da ritardare lavvio di programmi di riordino del welfare locale. I bisogni sono soprattutto legati alla mancanza di lavoro, alla presenza di una quota disoccupazione strutturale (giovanile e femminile in particolare) ai pi alti livelli non solo in Italia, ma in Europa, alla povert assoluta. Questo per dire che non tutto pu essere demandato ai territori e che lo sviluppo del welfare locale (soprattutto se riferito al problema dellinserimento lavorativo e del contrasto alla povert) molto dipende dalle condizioni macro entro cui le reti della governance locale sono chiamate a operare.
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Per altro verso, molte delle trasformazioni indotte dalla 328/2000, Lombardia e in Toscana (ma lo stesso discorso vale per molte altre regioni del Centro-Nord) le hanno in qualche modo anticipate, trovandosi investite da pi precoci processi di modernizzazione che hanno richiesto limplementazione di nuovi e pi complessi servizi sociali (di inserimento attivo nel mercato del lavoro, di cura e conciliazione vitalavoro). Come possibile rilevare nei capitoli dedicati alla governance regionale, la Lombardia aveva gi maturato prima della Legge 328 un impianto di regolazione che non stato stravolto dalla riforma, ma che anzi ha teso a inglobare questultima al suo interno, avendola per certi aspetti anticipata. Basti in proposito pensare che alcuni provvedimenti normativi che hanno portato poi alla definizione della l.r. 3/2008 Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario sono antecedenti al 2000. In effetti, limpianto di programmazione, gestione, erogazione delle politiche che ha preso forma costituisce unesperienza unica nel panorama nazionale, sia per il suo portato di innovazione, sia per la complessit delle trasformazioni avviate. In sintesi, riprendendo anche la classificazione che ne viene proposta in letteratura, il modello di welfare regionale si presenta come integrato, devoluto, plurale e partecipato. Si caratterizza altres per un orientamento alla domanda che: i) capovolge il rapporto tra risposte e bisogni; ii) fa prediligere i titoli sociali in molte aree di intervento (buoni, voucher, dote, quali strumenti finalizzati ad attivare il beneficiario); iii) si propone di sollecitare le risposte che partono dal basso; iv) ha portato alla creazione di un quasi-mercato nellambito delle unit di offerta sociosanitaria; v) mira allintegrazione tra le diverse aree di policy e i relativi interventi. In questo frangente, la sfida dellintegrazione particolarmente avvertita e sta spingendo gli amministratori a ripensare le fasi di programmazione. Questo in modo che la difficile ricomposizione del vaso rotto cos sono state evocativamente definite le situazioni di disagio da uno degli intervistati che oggi si cerca di realizzare integrando a valle i servizi e i dispositivi si traduca, piuttosto, nella definizione di una politica integrata sin dallinizio, a monte, tale da garantire che il vaso trovi i supporti necessari per non andare in frantumi. Entro questa cornice, la famiglia viene esplicitamente riconosciuta come soggetto sociale fondamentale, in grado di definire azioni e strategie di risposta alle condizioni di bisogno e al contempo di produrre servizi a carattere socio-educativo e assistenziale, per s o per la propria rete di relazione. Il che non comporta che su di essa vengano fatte ricadere responsabilit e funzioni difficilmente sostenibili quanto, piuttosto, che il welfare regionale intervenga in termini sussidiari, ovvero creando le condizioni a rinforzo e promozione delle risorse e delle capacit che si vogliono proprie della famiglia stessa. In questottica, lofferta di welfare che peraltro cerca di seguire tutte le diverse fasi del ciclo di vita familiare, nella loro ordinariet o problematicit si fatta dunque pi articolata e diversificata, in modo tale da rispondere ad esigenze certamente eterogenee; detto altrimenti, ha inteso offrire alle famiglie le condizioni essenziali per continuare a svolgere al meglio le proprie funzioni primarie, senza che ci implicasse una rinuncia, il caso specifico delle donne, a svolgere i compiti produttivi. Di qui una rinnovata centralit alle politiche di conciliazione, costruite nella tensione tra empowerment delle capacit familiari di cura e potenziamento della capacit ricettiva delle strutture e dei servizi esistenti. Parimenti da considerarsi precedente agli assunti della nuova legge nazionale il percorso intrapreso dalla Toscana, ancorch con proprie specificit. Se da una parte gi
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con la Legge Regionale 72/1997 la Toscana aveva, di fatto, anticipato la 328, introducendo prima che entrassero nellagenda delle riforme nazionali strumenti come i Piani di zona e lassetto municipale del welfare locale; dallaltro con la Legge 41/2005 e in seguito con lavvio della sperimentazione della Societ della Salute ha superato lidea stessa di integrazione tra le politiche (contenuta nella normativa nazionale) per una vera e propria fusione istituzionale tra settore sociale e settore sanitario, come chiave di volta delle riforme. Si avviata cos una programmazione unica, fortemente integrata, tesa in ultima analisi a sviluppare risposte multiple in una concezione di salute che tende verso quella di benessere, come filiera integrata dellassistenza continuativa sociale e sanitaria. Ma lottica integrata riguarda in questa regione anche altre aree di politiche sociali. Se il socio-sanitario costituisce un punto di riferimento sostanziale della governance regionale (contribuendo molto a marcare il segno dellapproccio toscano) non meno rilevante unaltra filiera dellintegrazione, quella della cura dei minori. Rientrando in un diverso troncone di politiche sociali integrate, questi servizi fanno parte di una pi ampia strategia volta al riconoscimento dei diritti delle persone alla formazione lungo tutto larco della vita, proprio a partire dalla prima infanzia, dove come da anni oramai comunemente riconosciuto si formano le principali disuguaglianze che segnano il cammino delle persone. Nellancoraggio a una tale visione valoriale (conforme peraltro agli orientamenti della Strategia Europea per loccupazione e al dibattito pi avanzato in Europa in tema minori e infanzia) la Toscana non rinuncia a caratteristiche sue proprie fondanti, come il forte presidio pubblico (rilevabile gi nellalto tasso di copertura nella fascia 0-3: il 28% circa, a ridosso degli obbiettivi di Barcellona), ma aprendo tuttavia anche a soluzioni in parte nuove rispetto alle tradizionali impostazioni di policy regionali. Nel Ricorso a servizi di varia natura (Nido dinfanzia, Centro bambini e genitori, Centro gioco educativo, Nido domiciliare, Nido aziendale) nellaccreditamento di strutture private nel sistema di governance e prevedendo, altres, in taluni la possibilit di usufruire anche di forme di sostegno monetario nel pagamento delle rette, emerge una strategia multicanale, flessibile (nel senso di tarata sui bisogni compositi delle famiglie), ma a forte regia pubblica, tanto in termini di offerta diretta quanto in quelli di monitoraggio, controllo qualit, aggiornamento degli operatori, innalzamento della copertura. In generale il modello toscano, se cos lo possiamo definire, si caratterizza (al di l delle differenze impostazioni tra le aree di policy, che pure sono presenti) per una forte accentuazione delle funzioni regolative delle amministrazioni pubbliche, siano queste relative allofferta diretta, alle partnership pubblico-private o anche alla fruizione di dispositivi di solvibilit della domanda, presenti, ma non cos capillarmente diffusi come emerge chiaramente per la Lombardia. Schematizzando proprio la presenza di orientamenti quasi opposti in tema di gestione delle prestazioni lelemento che maggiormente differenzia le due regioni. Alla base di tutto ci ci sono diverse concezioni del ruolo della sussidiariet e della famiglia come agenzia di cura. In un caso: la Lombardia, assumendo lidea di welfare attivo come strumento di capacitazione della famiglia, vista come soggetto fondamentale a partire dal quale definire strategie e risposte; nellaltro: la Toscana, valorizzando in primo luogo la dimensione dei diritti delle persone, prima ancora che il ruolo sussidiario della famiglia. Si tratta di scelte valoriali diverse tra loro, ma che non esauriscono tutta la complessit in gioco, n il tema (non meno rilevante) della resa istituzionale. In effetti se guardiamo al rapporto tra domanda e offerta, possiamo dire che si tratta senzaltro di regioni che hanno compiuto
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sforzi di modernizzazione amministrativa e di innovazione nelle politiche sociali, pur avendo optato per modelli diversi. Il raffronto con la Calabria ci utile a mettere in risalto questo aspetto in tutti i suoi condizionamenti. Diversamente da quanto stato rilevato in Toscana e in Lombardia, in Calabria il problema della cura dei minori in primo luogo meno avvertito. Tutto questo non solo per le difficolt della macchina amministrativa o per le mancate scelte dei policy makers locali, ma soprattutto per i condizionamenti posti da un mercato del lavoro asfittico, in cui la questione principale la mancanza del lavoro pi che la conciliazione vita-lavoro per le donne o la formazione lungo tutto larco della vita. Comune alle tre regioni certamente il problema della non autosufficienza. Qui in effetti le pressioni della domanda sono convergenti, ma ricevendo risposte altamente differenziate in termini di quantit e qualit dellofferta. Anche in questo caso la Calabria appare rimanere pi indietro, stretta tra laddossamento familiare e la persistente tendenza al ricorso allistituzionalizzazione che mal si concilia con i programmi di riordino pi innovativi, centrati sulla promozione della presa in carico domiciliare e il rafforzamento delle prestazioni ad alta integrazione socio-sanitaria. Basti pensare che in tutta la Regione si contano circa 370 strutture residenziali convenzionate (socio-sanitarie e socio-assistenziali) che ospitano circa 570083 utenti con un costo che si aggira attorno 35 milioni di euro annui pagati dalla regione. Alla luce di quanto sottolineato, senzaltro il contesto calabrese appare pi influenzato da quelle caratteristiche di lungo periodo, come ricorso alle reti della solidariet familiare, alla famiglia come cassa di compensazione del mancato intervento pubblico, al basso grado di legittimazione ed efficienza amministrativa delle istituzioni, che di solito associate al cosiddetto modello mediterraneo (Ferrera, 1996). Non che questi stessi elementi distintivi (soprattutto il ruolo giocato dalla famiglia nellofferta di cura) non siano presenti anche nelle altre due regioni oggetto di indagine. Tuttavia pi forte il senso di rottura degli equilibri pregressi, in direzione di una modernizzazione che punta pi fortemente allo sviluppo dei servizi, sia pure in interazione con famiglia. Sintomatico di questa situazione proprio il rapporto welfare-servizi-famiglia nella cura dei minori. In Toscana, in Lombardia (ma la stessa cosa vale per il Centro e il Nord) la famiglia non ha smesso di rivestire funzioni essenziali per la cura. Essendo ancora bassi i tassi di copertura rispetto alla domanda, ma crescente loccupazione femminile, sono molto pi qui che al Sud i nonni che integrano lassistenza garantita dai servizi. Come mostrano i dati Istat (2006) tra Nord, Centro e Mezzogiorno, la percentuale di nonni che si prendono cura dei nipoti (fino ai 13 anni) mentre i genitori lavorano rispettivamente del 29,2% nel Nord-ovest, del 27,6% nel Nord-Est, del 27,5% in Centro, del 17,2% al Sud. In Lombardia il 28,5% dei nonni si occupa dei nipoti, in Toscana il 33,3%, in Calabria solo il 13,3%. Evidentemente la maggiore quota di donne non occupate nelle famiglie calabresi e meridionali in generale supplisce in proprio alla carenze dei servizi. Diversamente in Toscana e Lombardia, di fronte alla carenza dei servizi (sebbene in crescita nel grado di copertura) ma in presenza di una maggiore quota di donne occupate, sono pi spesso i nonni ad assolvere funzioni di cura e assistenza integrative. Tutto questo ci d in qualche modo lidea di una tendenza alla modernizzazione, certamente ancora incompiuta rispetto ai bisogni e tuttavia pi incline a introdurre elementi di novit nella configurazione del welfare.

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Su una popolazione totale di circa 2 milioni.

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Pur costituendo, nei fatti, due modelli altamente differenziati, Lombardia e Toscana sperimentano entrambe soluzioni innovative tese a rendere il welfare funzionale alla risposta nuovi bisogni sociali. Anche in questa capacit (quanto meno rispetto agli obbiettivi) di rendere il welfare meno assistenziale e pi orientato a favorire migliori condizioni di occupabilit, cos come di conciliazione vita-lavoro si trova una differenza sostanziale tra gli orientamenti seguiti dalle due regioni innovatrici e la Calabria, dove il perno rimane ancora lassistenza, soprattutto monetaria, alle condizioni di disagio. Ma in tutto questo, come viene messo in evidenza dalla ricerca, un peso determinante lo hanno le caratteristiche della domanda sociale, oltre che le scelte dei policy makers. Daltra parte, se rimaniamo al tema lavoro e inclusione sociale, ci troviamo di fronte a due regioni nelle quali il problema della disoccupazione strutturale non ha avuto e non ha quelle caratteristiche di lungo periodo che si rilevano in Calabria e in altre realt del mezzogiorno (anche se certamente la crisi sta modificando lo scenario). In questo senso, le politiche di attivazione che dobbiamo ricordare presuppongono in tutte le loro versioni, sia quelle pi condizionanti, sia quelle pi egualitarie, mercati del lavoro tendenti in generale alla piena occupazione , trovano in Lombardia e Toscana un terreno pi preparato a recepire le innovazioni. Mentre in Calabria il problema principale proprio la mancanza strutturale di lavoro, cosa che in qualche modo giustifica delle difficolt a uscire da approcci solo assistenziali e poco pro-attivi. Anche perch lattivazione non ha alle spalle le condizioni di contesto che possano permettere una effettiva abilitazione dei soggetti in cerca di occupazione. Con la crisi il problema della mancanza di lavoro e del disagio sociale crescente inizia a interessare in modo significativo anche Lombardia e Toscana. Tuttavia, se indubbio che la crisi impatti in modo molto diverso sui territori, altrettanto vero che anche quelli pi forti ne subiscono le conseguenze negative, rendendo il rischio di ricadere in percorsi di impoverimento, fragilizzazione, marginalit e disagio unesperienza diffusa e trasversale a unampia fascia di popolazione, che si estende al di l dei tradizionali profili di svantaggio. Ci rende il tema dellintegrazione delle politiche su cui precisamente si concentrata la presente ricerca una priorit in agenda per tutti i territori. La vulnerabilit sociale che si viene delineando si costruisce su pi versanti, laddove entrano in gioco, oltre naturalmente alloccupazione, anche la questione abitativa, lo stato di salute, il capitale umano, sociale e familiare dei soggetti, la conciliazione tra lavoro e funzioni di cura, la solidit del tessuto relazionale di riferimento. E ci richiede di superare lidea di politiche settoriali e mirate a specifici target, per immaginare risposte personalizzate e integrate. Anche su questo, le regioni qui presentate si stanno misurando, con programmi che riportano dattualit temi e prospettive di intervento per diverso tempo considerate superate. Il problema del sostegno passivo, della continuit del reddito, complice anche gli accordi anticrisi stipulati a livello nazionale, ritornano dattualit nel momento in cui la mancanza del lavoro e i pericoli di scivolamento nella povert iniziano a incidere trasversalmente tanto nelle regioni pi avanzate, quanto in quelle pi deboli. In questo quadro lintegrazione delle politiche, non solo sociali, ma anche formative e di contrasto allesclusione sociale, e pi in generale la ricerca di un riequilibrio tra le politiche dellofferta e della domanda (caduta lillusione che agire solo sullofferta fosse sufficiente), appaiono direttrici di riforma imprescindibili in un paese come lItalia sprovvisto di schemi dedicati per il contrasto alla povert, ripiegando pi spesso nellutilizzo improprio dei dispositivi ordinari.
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Qualunque riflessione in merito allintegrazione sulle politiche, peraltro, non pi prescindere dal considerare la centralit delle politiche di sviluppo, a sostegno delle imprese e della creazione della domanda di lavoro, in particolare di domanda di qualit. Passa di qui la sostenibilit del modello di welfare attivo. 8.3 Buone pratiche locali e innovazione istituzionale Se questo a grandi linee il quadro sinottico generale, la ricerca sui territori offre una immagine dei processi di governance e dei dispositivi assai pi complessa e variegata, soprattutto pi capace di far emergere i nodi critici e i punti di forza di politiche di welfare, che, al di l dei proclami in merito agli orientamenti di fondo, si misura potremmo dire de visu con i bisogni della cittadinanza. Prima di offrire un breve spaccato sulle tre realt comunali oggetto di approfondimento sul campo, possibile premettere alcune riflessioni, che trasversalmente interessano il funzionamento dei sistemi di welfare locali, ben evidenziate dagli studi di caso presentati in precedenza. Anzitutto, lefficienza e la capacit di innovazione del welfare locale dipendono in larga misura dalla capacit amministrativa regionale e locale e in particolare dalla capacit di gestire la complessit dei processi. Di tali capacit certamente Lombardia e Toscana offrono testimonianza. Non meno importante delle scelte politiche risulta infatti il livello tecnico-amministrativo, incaricato di portare concretamente avanti le innovazioni quando si tratta di inaugurare un nuovo corso o il consolidamento di pratiche gi sedimentate in uno sviluppo incrementale delle prestazioni. Daltra parte, come emerso dalla ricerca sul campo, quello che in ultima analisi risulta centrale nelle trasformazioni in corso non appare soltanto la scelta tra un modello orientato alla domanda o uno allofferta; o ancora lalternativa tra servizi e trasferimenti, operata a priori come scelta di principio. Piuttosto contano le risorse a disposizione, che operano come vincolo strutturale capace di orientare pesantemente le scelte. Conta altres la fenomenologia dei bisogni che pu indurre a ricercare nuovi mix di risposta. Conta, nella concretezza delle situazioni in cui le politiche e i servizi di fatto vanno a incidere, la qualit delle prestazioni, la loro estensione in termini di copertura del bisogno e la capacit di rendere gli utenti e le organizzazioni della governance multilivello partecipi dei processi di policy messi in atto, siano questi relativi alla possibilit di scegliere il tipo di prestazioni o di prendere parte alla loro costruzione. Se questi sono gli obbiettivi di fondo che una buona organizzazione dellofferta deve perseguire, diversi possono essere i dispositivi adottati. Siano questi orientati allofferta o alla domanda essi non possono fare a meno di una amministrazione efficiente. Conta, non ultimo, il momento di crisi che stiamo attraversando, che spinge a riconsiderare gli assetti di welfare consolidati o verso i quali ci si stava muovendo. Lo stesso paradigma dellattivazione, che come sopra si diceva necessita di contesti di piena occupazione per poter esprimere pienamente le sue valenze di promozione dellautonomia delle persone si trova in grave difficolt quando il lavoro come oggi accade anche nelle regioni pi forti viene a mancare, obbligando a un suo ripensamento (Colasanto, 2010). Scendendo sul territorio, i modelli regionali e le loro cariche valoriali, anche le pi raffinate, fanno i conti con una complessit istituzionale che fatta di pi strumenti integrati tra loro, spesso presentati come alternativi, ma nella realt dei fatti in qualche
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modo compresenti. E ci accorgiamo che qualche volta nella pratica delle politiche sociali possono cadere delle barriere identificate a monte come costitutivamente alternative. Altre volte il modello appare cos forte da plasmare le scelte dei territori; ma qui entrano in gioco la capacit di regia della Regione e la forza del suo governo nel costruire il quadro normativo di riferimento (e quindi anche nel determinare lallocazione delle risorse), e anche, almeno in qualche caso, la continuit politica o meno tra regione e territori. Ladesione ai modelli regionali pi o meno costruiti culturalmente non attraversa indistintamente le diverse aree di policy. In Toscana per esempio, nei servizi allinfanzia si riscontra una pluralit di dispositivi in cui convivono sia approcci orientati allofferta sia approcci tesi a sostenere economicamente le famiglie. Diverso il caso delle politiche socio-sanitarie, organizzate in sistemi complessi di governance in cui limpronta istituzionale pubblica decisamente pi vincolante. Lo studio di caso condotto su Arezzo per molti versi d conto di questa differenziazione. Sebbene poggianti su una robusta base pubblica, sia in termini di erogazione diretta, sia nel controllo e monitoraggio del rapporto domanda-offerta, i servizi allinfanzia del comune di Arezzo hanno teso ad allargare progressivamente lofferta con laccreditamento di strutture private, for profit e non profit. Inoltre nellottica del sostegno alle famiglie sono stati previsti buoni servizi alle famiglie in graduatoria comunale che usufruiscano di asili nido privati. In una strategia diversificata, fatta di pubblico e anche di privato, il presidio pubblico pi che nellofferta diretta si rileva nella garanzia degli standard di qualit, promossi sul piano dei controlli e su quello inedito della formazione. Tutta la formazione organizzata dal comune non riservata alle sole strutture pubbliche, bens a tutti i centri pubblici, privati e in convenzione, cos da garantire omogeneit e continuo aggiornamento verso lalto degli standard. Ma lintegrazione non riguarda solo il tipo di servizio. La cura dei figli entra fortemente in relazione con la conciliazione vita-lavoro, in termini di molteplicit di orari degli asili nido e di servizi integrativi a prezzi contenuti anche al domicilio, come la possibilit di accedere a buoni servizio per laccudimento domiciliare (in collaborazione con la Provincia), servizi di babysittegraggio, accompagnamento a scuola, intrattenimento ludico pomeridiano, il tutto con responsabilit di controllo e garanzia in capo allamministrazione comunale. Interessante nellottica del welfare promozionale, teso a espandere le possibilit di scelta e altres la partecipazione degli utenti alla programmazione delle politiche sempre su questo terreno la grande attenzione riservata alla co-decisione. Amministrazione, genitori e operatori insieme concorrono alla definizione dei criteri da tenere in considerazione per laccesso agli asili nido. Effettivamente nei servizi allinfanzia e nella conciliazione-vita lavoro il grado di innovazione istituzionale aretino decisamente maggiore di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, con soluzioni che tendono a travalicare le grandi alternative identitarie associate ai diversi modelli di governance regionale. In parte diverso il discorso per un altro segmento importante delle politiche sociali locali, quello della non autosufficienza e dei servizi sociali. In questo caso lalterit di modelli trova conferma anche sul territorio. Sebbene Arezzo non abbia ancora portato a compimento limplementazione della Societ della Salute, il perno della strategia di integrazione socio-sanitaria della regione Toscana, il percorso seguito rimane abbastanza in linea con gli indirizzi regionali. Il processo di de-ospedalizzazione si salda con la ricerca di un rapporto maggiormente osmotico tra Asl e enti locali (da aggregare progressivamente, riducendone la dispersione organizzativa) teso a favorire lo sviluppo delle cure
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intermedie e della continuit assistenziale. Nella sostanza listituzione della Societ della Salute gi presente nella zona aretina, perch gi operanti gli organismi amministrativi deputati alla sua gestione. Ma soprattutto, cosa pi importante, allinterno delle politiche socio-sanitarie che coerentemente con il disegno istituzionale della regione Toscana, si definiscono gli standard minimi di diritti esigibili dal cittadino in merito alle prestazioni erogate. Va detto inoltre che anche per quanto riguarda le forme di partecipazione al policy making questo settore di politiche si mantiene in linea con gli orientamenti regionali, prevedendo organi di coordinamento e aggregazione degli interessi, chiamati a interagire con le strutture amministrative (Conferenza dei sindaci e Asl in particolare) solo in determinate fasi della programmazione e senza che questo si traduca in un effettivo potere di determinazione dei servizi. A ben vedere, questa una caratteristica sostanziale della governance aretina e della regione Toscana, la quale, sebbene si sia dotata di una legge regionale per la partecipazione del cittadino, pare ancora rimanere sul terreno della sola consultazione piuttosto che lapertura a modelli di partecipazione pi inclusivi capaci di produrre effettiva co-determinazione. Ma questa probabilmente anche una scelta politica, ovvero aprire alla consultazione della societ civile e del terzo settore, ma allinterno di una primazia pubblica in merito agli interventi da attivare da conservare comunque. Di particolare interesse anche lesperienza di Milano. Forte della continuit politica e strategica in cui si muove il Comune rispetto al quadro di riferimento fornito a livello regionale, il welfare locale ripropone tra i suoi capisaldi quelli del welfare attivo. Di qui lorientamento a passare da politiche di protezione a politiche di attivazione e partecipazione; la scelta di partire dalla domanda per la costruzione della risposta ai bisogni; nonch la rilevanza assegnata alla sussidiariet orizzontale, sociale. tuttavia possibile parlare di un modello Milano per alcune opzioni che ne qualificano le scelte in materia di politiche sociali. Del resto, la stessa dimensione del capoluogo, e la rilevanza che esso gioca nel contesto lombardo sotto il profilo politico, economico, demografico, culturale, a renderlo un territorio che si pone come interlocutore per certi aspetti privilegiato della Regione e per altri come attore autonomo, dotato di una propria capacit innovativa, al punto da poter essere considerato come un cantiere aperto di sperimentazioni. Il sistema di offerta dei servizi sociali, socio-sanitari ed educativi si strutturato cercando di integrare differenti aree di politica e intervento; questo nella valorizzazione della famiglia quale soggetto attivo nella rete dei servizi e in attuazione al principio della sussidiariet orizzontale, dunque mediante interventi congiunti e intese tra pubblico e privato. in particolare nellambito dellassessorato ai servizi sociali che questo processo di integrazione si realizzato, con lunificazione delle politiche e degli interventi educativi e sociali in capo allAssessorato Famiglia, Scuola, Politiche sociali; ununificazione che al tempo stesso una specificit e un punto di forza della realt milanese. Lapproccio socio-educativo integrato infatti considerato come una strategia vincente specie per fronteggiare i bisogni delle persone appartenenti allarea delle cosiddette nuove povert, nella misura in cui tende a superare la logica di intervento settoriale, mediante il coordinamento di pi aree di politica e servizi. In questa logica di integrazione va considerato un secondo elemento innovativo che vogliamo qui segnalare: lorientamento verso quello che alcuni intervistati hanno definito lo spacchettamento dei target. Come rilevato anche a livello regionale, sullonda della crisi e dellacuirsi delle forme di disagio e insieme dellampliarsi dei processi di impoverimento e marginalizzazione, si sta procedendo verso la
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decostruzione delle tradizionali categorie di classificazione del bisogno (anziani, disabili, immigrati, donne, over 50), in favore della definizione di unarea allargata in cui sono compresi i soggetti esposti al rischio di espulsione dal mercato del lavoro. Tale orientamento peraltro non una novit del momento contingente e, specie nelle aree di programmazione considerate della nostra ricerca, ha spinto a lavorare in questottica sia nel settore adulti in difficolt (con lintegrazione delle azioni specificamente rivolte al contrasto allesclusione sociale), sia con riferimento ai minori (con la finalit di accompagnarli anche oltre il compimento della maggiore et) e agli stranieri (per i quali si cerca di aumentare il grado di connessione rispetto al settore politiche della famiglia e minori e giovani, superando unimpostazione settoriale, a favore di un intervento pi complesso). Un terzo elemento innovativo del sistema di welfare milanese sul quale vale la pena soffermarsi riguarda la Sperimentazione del Segretariato sociale. Indicato dalla L.R. 3/2008 come porta di accesso unificata ai servizi del territorio, ma gi in parte anticipato nella programmazione precedente del Comune di Milano, il Segretariato Sociale stato avviato in via sperimentale in una zona di decentramento sul finire del 2009. Dal punto di vista funzionale e operativo si compone di unequipe pluridisciplinare, di cui fanno parte un operatore amministrativo, un assistente sociale, un educatore professionale. Costruito secondo questo schema, come ben mostra il capitolo dedicato allesperienza milanese, il Segretariato Sociale rivela la tipicit dellimpianto di welfare comunale, strutturandosi lungo tre direttrici quali: la riforma del sistema di primo accesso ai servizi; la trasversalit dellintervento, tanto in termini di integrazione delle politiche quanto di target di riferimento delle stesse; lapproccio a valenza sociale e pedagogica. Un quarto, e a nostro avviso il pi promettente degli elementi innovativi emersi che potr inoltre essere valorizzato in una prospettiva laboratoriale, visto linteresse raccolto da parte dellamministrazione locale porta a riflettere sulla questione della conciliazione lavorativa e dei servizi alla prima infanzia. Nonostante Milano abbia in questi anni cercato di dare in merito risposte significative, offrendo servizi e supporti economici alle famiglie (superando di un punto percentuale gli obiettivi europei quanto a offerta di servizi rivolti alla prima infanzia), o forse proprio a motivo di questa situazione gi favorevole e matura, si tratta di una questione che merita di essere rivisitata in una luce nuova. Come si argomenta in chiusura del capitolo milanese, occorre affrancare la conciliazione dalla sua tradizionale caratterizzazione al femminile e arrivare a connotarla come vero e proprio problema dellintera societ, di cui tutti siano chiamati a farsi carico, ripensandola in termini di capacitazione dei soggetti (Riva 2009; Riva e Zanfrini 2010). Perch ci possa realizzarsi, rimangono aperte alcune sfide: anzitutto superare la contrapposizione tra politiche sociali e politiche del lavoro e tra interventi delle aziende e interventi dello stato sociale. Ad oggi, infatti, il vero nodo della conciliazione sembra essere una fin troppo netta divisione dei compiti tra attori sociali ed economici, secondo criteri e finalit che difficilmente giungono a ricomposizione. Per questo il capitolo citato chiude lanciando lipotesi di un Patto Milano per la conciliazione, un patto tra istituzioni, politiche, servizi sociali e imprese. Le basi per lavorare in questa direzione sono state gettate. Ma la sfida pi grande, a ben vedere, di carattere culturale, e richiede di aprire una riflessione sul significato della conciliazione vita-lavoro. Veniamo infine a Lamezia Terme. Del quadro regionale connotato da ritardi nellavvio del nuovo corso delle politiche sociali abbiamo sopra detto. Lamezia presenta al proprio interno sia caratteristiche che, di fatto, la tengono ancorata al senso di incompiutezza
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della governance regionale Lamezia, sia aspetti innovativi che ne fanno un caso di studio interessante, per la possibilit che questi possono essere scambiati e tradotti in pratica in altre zone della regione. Lamezia ha nel corso degli ultimi anni mostrato una certa capacit di sperimentazione, anche grazie a una certa dotazione di organizzazioni non profit che hanno sostenuto gli sforzi programmatori dellamministrazione. Emerge una forte volont politica di modificare il corso degli interventi assistenziali, agendo sulla macchina amministrativa e sulla programmazione come leva strategica per linnovazione. La nuova programmazione indotta dalla 328 risponde non tanto allobbiettivo di dotare il territorio di nuovi servizi di fronte pressioni di una nuova domanda sociale, bens il mezzo attraverso il quale rompere la vecchia azione politica discrezionale, inefficiente e clientelare. Ma il nuovo metodo della programmazione rappresenta una innovazione importante anche per un altro motivo. Con questa si inducono i comuni ad associarsi intorno al distretto socio-sanitario, uscendo dallisolamento autoreferenziale che ha indebolito la capacit di presa in carico sociale. Una delle principali lacune che tuttavia rimane la scarsit di informazioni socioeconomiche puntuali e aggiornate rispetto al contesto locale. Questa scarsa propensione degli uffici a rilevare il dato, ha comportato automaticamente una conoscenza approssimativa di alcuni fenomeni e, quindi, una programmazione politica meno aderente alle reali necessit territoriali. Come si pu notare emerge anche qui limportanza della capacit amministrativa. Prima ancora che ladozione di modelli o strumenti presi da questa o quella sperimentazione, importante agire allinterno della macchina amministrativa, come prerequisito indispensabile di qualunque innovazione futura. 8.4. I nodi da sciogliere, le strategie possibili A partire dalle molteplici indicazioni emerse dalla ricerca nei tre contesti regionali e locali, proviamo in chiusura a sintetizzare i nodi che i percorsi locali di riforma del welfare portano in evidenza e insieme alcune piste di intervento sulle quali strategicamente appare opportuno investire in chiave progettuale. 8.4.1 Ripensare la governance I processi di rescaling, di decentramento, di regionalizzazione e di sussidiarizzazione delle politiche, dei quali abbiamo ampiamente discusso in questo Rapporto di ricerca, portano a valorizzare la dimensione locale e quella municipale in modo particolare come il terreno su cui si misura la capacit della collettivit (considerata in tutte le sue componenti, istituzionali e non solo) di creare inclusione, benessere, coesione sociale. In questo senso i casi da noi analizzati mostrano seppure con modalit differenti quanto proprio il livello locale possa configurarsi come il pi appropriato per mettere in campo risposte innovative, per sperimentare soluzioni nuove e mirate ai bisogni del territorio, oltre che, com ovvio, per attivare servizi integrati e personalizzati. Per altro verso, tuttavia, gli stessi casi ci consentono di evidenziare molto bene ci che pi volte abbiamo sottolineato: non tutto pu essere demandato a questo livello. Per almeno due ragioni.
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Anzitutto, i territori non sono egualmente dotati di risorse, di capacit amministrative e di gestione dei processi di riforma stessi, di capacit di lettura dei bisogni e, conseguentemente, di elaborazione di risposte adeguate. Se la diversit e la specificit territoriale sono dati imprescindibili per la costruzione di sistemi di welfare efficaci e rispondenti alle esigenze che emergono dalla cittadinanza, non basta delegare ai territori perch tale costruzione avvenga automaticamente. In questo caso non di diversit o di specificit che si deve parlare quanto di divari territoriali, da cui possono discendere disuguaglianze sul piano dei diritti e dei sistemi di protezione. istruttiva al riguardo la vicenda della partecipazione ai processi di policy making da parte delle realt del terzo settore, che come hanno mostrato le nostre regioni necessita di essere in qualche misura regolata affinch tale partecipazione possa esprimersi al meglio. Larticolazione interna al no profit, e ancor pi leterogeneit che caratterizza le espressioni delle societ civile ammessa a prendere parte alla programmazione sociale rendono a volte difficile lemergere di una rappresentanza condivisa, ed effettivamente capace di portare al tavolo con le istituzioni le voci di tutti. In tal senso linfrastruttura istituzionale che definisce le norme in cui ci pu avvenire diventa uno dei qui vincoli benefici che favorisce lauto-organizzazione delle societ civile, senza darla per scontata, e consente il dispiegarsi del potenziale innovativo che essa possiede. In secondo luogo, molti dei fenomeni che provocano lemergere di certi bisogni a livello locale (pensiamo alla disoccupazione) poggiano su determinanti sistemiche su cui le societ locali da sole poco possono fare. Per certi versi anzi il trasferimento di competenze sul territorio, se non adeguatamente supportato dai livelli centrali (in termini non solo di finanziamenti, ma anche di capacit amministrativa), pu produrre effetti opposti, ovvero il rinchiudersi in particolarismi alimentati e legittimati dallindebolimento dei canali di solidariet nazionali (Ciarini, 2010). Ne discende lesigenza di scandagliare ulteriormente le implicazioni profonde dei processi regionalizzazione del welfare italiano in merito a come si definiscono i rapporti tra amministrazioni periferiche e quella centrale (e ci vale sia per quanto riguarda il rapporto Stato-Regioni, sia a sua volta il rapporto tra Regioni ed enti locali), a maggior ragione nel momento in cui il nostro paese sta discutendo lattuazione di una riforma profonda del suo assetto amministrativo quale quella del federalismo fiscale. In altri termini il nodo su cui riflettere propriamente quello della governance sia livello regionale sia soprattutto a livello centrale, salvaguardando appieno il senso di ci che si definisce una governance multilivello. Per ci che attiene loggetto della presente ricerca, quanto emerso nelle pagine precedenti suggerisce in particolare limportanza di una azione di coordinamento effettivo esercitata dal livello nazionale, con funzioni specificatamente rivolte a impedire lesplosione dei divari territoriali (ma sarebbe meglio dire delle disuguaglianze), cos come intendeva la 328 quando attribuiva allo Stato il compito di definire dei livelli minimi di assistenza. Il momento attuale sembra cio richiedere una capacit e una efficienza amministrativa centrale per molti versi persino superiore a quella conosciuta nel welfare fordista, quando sostanzialmente si trattava di organizzare flussi di finanziamenti (prettamente di natura contributiva) da destinare a singole categorie professionali o utenti in condizioni di bisogno. Il problema in Italia risulta amplificato dalla storica debolezza dei livelli amministrativi centrali, in un sistema di welfare, come ricordato da Paci (2008), formalmente unitario, ma sempre condizionato da svariate forme di particolarismo, prima categoriale, in tempi pi recenti a carattere locale. Oggi la valorizzazione del territorio come ambito primario di programmazione e gestione degli interventi sociali e
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il conseguente trasferimento di risorse e responsabilit amministrative agli enti locali, richiedono un sistema di sussidiariet verticale coerente e organizzato in ambiti di responsabilit non sovrapposti, n tendenti alla frammentazione. Il pericolo di un malinteso concetto di decentramento come trasferimento di sole responsabilit senza risorse o come progressiva evaporazione delle politiche nazionali per il crescente attivismo dei soli programmi regionali o locali rischia di acuire le forti differenze che gi adesso segnano il paese. Il rischio che le disparit territoriali relativamente ai sistemi economico-produttivi, ai mercati del lavoro, alla povert, alla vulnerabilit si vadano a sommare a carenze istituzionali o anche pi semplicemente a differenziazioni interne ai modelli di welfare cos che alla fine si configurino territorialmente pacchetti di servizi e perfino di diritti disomogenei nel paese, con conseguenze che si riverberano sul piano della cittadinanza economica e sociale. Detto in altri termini, cos come per le persone, attivare la responsabilit dei territori significa anche creare le condizioni affinch tale responsabilit si possa dispiegare. E questo richiede, peraltro come condizione di per s non sufficiente, di mantenere alta la funzione di coordinamento (e in indirizzo) del centro, nel pieno rispetto del principio di sussidiariet. Considerando quanto sin qui argomentato, non si tratta naturalmente di celebrare un impossibile ritorno al passato, ma di lavorare per rafforzare la funzione di coordinamento degli attori in campo da parte dellamministrazione centrale. Le risposte dei sistemi locali di welfare non possono essere altro che multiple, specifiche, ma inscritte dentro il quadro di una strategia nazionale che abbia a cuore la diminuzione dei differenziali, delle diverse dotazioni di capitale economico, di capitale sociali, culturale. Riportare a sistema linsieme delle esperienze di riforma implica dunque riuscire a fissare obiettivi comuni, verso cui fa convergere i welfare locali, pur salvaguardando la possibilit di trovare assetti regolativi propri, che non necessariamente devono coincidere. In questo senso, proprio come auspicato allinizio di questa ricerca, gli studi di caso effettuati hanno messo in luce esperienze interessanti che vale la pena di mettere in dialogo tra loro, anche al fine di pervenire a una modellizzazione utile ad altri territori, che dia gambe allidea di rinnovare il welfare a partire dalle esperienze maturate in ambito locale, attivando una sorta di metodo aperto di coordinamento nazionale, cos come si realizza a livello europeo. In merito, importante rilevare la disponibilit dei territori coinvolti nella presente ricerca ad avviare ulteriori collaborazioni e attivit di ricercaazione, anche in chiave laboratoriale. 8.4.2 Uno o tanti modelli mediterranei I processi di trasformazione del welfare sembrano acuire i divari territoriali, segnatamente tra un Centro-Nord che sperimenta soluzioni, anche molto diverse tra regioni e regione quanto a scelte di governance (Toscana e Lombardia sono due esempi lampanti in questo senso), ma comunque accomunate da una spinta alla modernizzazione, e un mezzogiorno (in questa ricerca rappresentato dalla Calabria) in cui paiono ancora predominanti i caratteri tradizionali dei welfare mediterranei. Essi afferiscono, come risulta dalla ricerca, nella combinazione di condizioni di domanda e di offerta di protezione sociale che replicano il riprodursi di un familismo coatto (Saraceno, 1998) che scarica sulle reti della solidariet familiare - sulle donne in special modo (escluse dalla partecipazione al mercato del lavoro)- i costi del mancato intervento pubblico. Ma se la famiglia assume qui il ruolo tradizionale di cassa di
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compensazione delle mancata redistribuzione pubblica, se il familismo in altre parole una caratteristica non solo culturale di fondo, ma soprattutto diretta conseguenza di mancate politiche familiari, questo trova alle spalle condizioni strutturali, relative alla generale mancanza di lavoro, che alimentano il persistere di approcci assistenziali, soprattutto monetari, tesi a intervenire (risarcire) sulle situazioni di disagio. Non che il ruolo della famiglia non sia rilevante nelle altre due regioni oggetto di indagine. Tuttavia, come abbiamo mostrato, pi evidente pare il senso di rottura degli equilibri produttivi e riproduttivi tradizionali. E tutto questo non solo per unefficienza della macchina amministrativa pi attrezzata a recepire istanza di rinnovamento. Non meno rilevanti sono le caratteristiche della domanda sociale, ovvero la natura dei bisogni sociali espressi dalle famiglie. Di fronte a mercati del lavoro non asfittici, meno condizionati da zone grigie di illegalit, in grado (almeno fino al pi recente passato) di assorbire quote crescenti di occupazione femminile, le questioni della conciliazione vita-lavoro, della occupabilit, dellinserimento attivo nel mercato del lavoro, in una parola dellattivazione come la si intende nei moderni orientamenti di policy, trovano presupposti pi ricettivi delle innovazioni, essendone anzi alla base. Del divario che acuisce il diverso rendimento istituzionale delle regioni innovatrici del Centro e del Nord rispetto al ritardo che pesa sulle capacit di innovazione delle regioni del meridione questa indagine coglie solo in parte la complessit del fenomeno. Se possiamo dire che la Calabria rappresenta bene il caso di una regione del mezzogiorno che amplifica i caratteri mediterranei del welfare, non detto che questa stessa situazione si ripresenti secondo le medesime caratteristiche e intensit in altre regioni del Sud. Interessante e utile sarebbe in proposito allargare lo sguardo anche ad altre regioni di questa area del paese, ponendo la questione dei diversi mediterranei che caratterizzano il mezzogiorno. 8.4.2 Lintegrazione delle politiche: dalla porta unica di accesso allo spacchettamento dei target La crescente vulnerabilit della popolazione e la complessit delle situazioni di disagio che si vanno configurando nellattuale scenario, il leitmotiv sotteso al bisogno di integrazione delle politiche emerso in tutte le realt da noi studiate, sia a livello regionale, sia ancor pi a livello locale. Come abbiamo avuto modo di rilevare, in questi anni sonno andati modificandosi i profili del rischio e della domanda sociale. Anche per rispondere a questa esigenza, le politiche delle quattro aree di policy da noi indagate trovano nei territori tentativi importanti di integrazione, come i capitoli hanno evidenziato. Inoltre, la necessit di leggere i bisogni e di andarli a intercettare laddove si manifestano, facendo emergere la domanda che resta nascosta, incapace perfino di esprimersi, sta spingendo le amministrazioni locali a riflettere anche sulla fisionomia dei servizi territoriali e naturalmente sulle condizioni di accesso agli stessi. In questo senso davvero rilevante osservare pi da vicino le realt che stanno sperimentando (come Milano) il servizio di Segretariato sociale, o sportello unico, ovvero porta di accesso unificata ai servizi del territorio, dove lo sforzo non tanto quello di creare un semplice punto di raccolta e smistamento della domanda sociale, ma di predisporre un punto di contatto con la cittadinanza, qualificante lintero sistema di welfare per la capacit di ascolto, accompagnamento, ed eventuale presa in carico, col rimando a realt di secondo livello per problemi che necessitano di risposte specifiche.
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Lefficacia di tale Sportello, che mira a lavorare in rete con le altre realt di servizio che abitualmente raccolgono e rispondono ai bisogni, dipender dalla capacit di integrare competenze diverse, comprese quelle delle realt di terzo settore che da tempo nei territori svolgono questa stessa funzione. La logica di rete e quella della prossimit nei confronti dellutenza dovranno dunque costituire i punti di forza dello Sportello in parola. In questo senso il Segretariato sociale pu costituirsi oltre che come punto di riferimento per i soggetti in situazione di bisogno anche come opportunit per rinforzare o ritessere il proprio capitale sociale e trovare agganci relazionali che riconducano a contesti di inclusione e appartenenza. La questione dellintegrazione delle politiche, peraltro, non si esaurisce nel tentativo di fornire una risposta articolata al bisogno, laddove esso viene espresso. La vulnerabilit sociale di cui si riferito, ancor pi acuita in questa fase di crisi in tutte le realt locali considerate, richiede risposte sempre meno settoriali e sempre meno definite su precisi target di riferimento, perch i soggetti in situazione di bisogno non sono categorie distinte, ma sempre pi contigue e mobili. Lesigenza di riconfigurare i profili del rischio risalta infatti sempre pi a fronte delle crescenti difficolt occupazionali che determinano in molti casi una serie di fragilit al di l di quella economica: psicologica, familiare, abitativa. Tale fragilit porta includere una larga fetta di disoccupati nella fascia dei cosiddetti adulti in difficolt, per i quali le esigenze connesse alla ricerca attiva di un nuovo impiego costituisce solo una parte del problema. Dunque le politiche sociali e del lavoro diventano giocoforza integrate. La personalizzazione delle politiche (a cui lo stesso servizio del segretariato sociale dovrebbe concorrere) pare essere la strada maestra per fronteggiare la situazione, ma non facile da realizzare. Spacchettare i target, come alcuni intervistati hanno suggerito, implica riconfigurare le categorie di classificazione del rischio, ma agire su questo fronte non basta quando su tali classificazioni si incardina laccesso alle risorse economiche. quindi unoperazione complessa e di sistema che non sufficiente realizzare a valle, l dove si prende in carico il soggetto in difficolt, ma richiede un ripensamento a monte dellintera architettura. 8.4.4 Politiche di offerta e politiche della domanda. Il problema del reddito di fronte alla crisi La crisi, dunque, fa emergere in modo ancor pi evidente la necessit di integrazione delle politiche, ribadendo quanto essa vada attuata tanto tra le politiche sociali in senso stretto quanto con riferimento ad altre aree di politiche, su tutte quelle del lavoro e dello sviluppo. Non una novit. La stessa legge 328/2000 lo diceva gi chiaramente. Tuttavia, in modo non scontando, proprio la crisi, la mancanza del lavoro, la disoccupazione, la precarizzazione e lesplosione del ricorso agli ammortizzatori sociali spingono ancor pi il lavoro al centro del welfare, mostrando quanto esso sia fulcro del benessere individuale e collettivo, ma evidenziano nel contempo che se il welfare vuole essere attivo e attivante non pu concentrarsi solo sullofferta, almeno non quando non in grado di garantire loccupazione. Il caso calabrese lo mostra in modo eclatante, ma ci emerge sempre pi in questi mesi anche in Lombardia e Toscana, come la ricerca sul campo ha indicato. Il lavoro come ambito di integrazione, emancipazione dalla condizione di bisogno, realizzazione personale, benessere economico, riconoscimento sociale cos come predicato dal welfare attivo pu essere tale solo se c, e se di
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qualit. Puntare allo sviluppo economico e produttivo dei territori, sostenere le imprese dunque la pi importante politica di attivazione che si possa pensare in questo frangente. Per non smarrire e non contraddire uno dei principi alla base del welfare attivo, secondo cui il lavoro fattore cruciale di inclusione e cittadinanza attiva, occorre che quando il lavoro viene a mancare siano garantite assieme ai dispositivi per sostenere il reddito (adeguati ammortizzatori sociali), le condizioni per non perdere lo status di cittadinanza attiva, e dunque di inclusione. In questo senso, il collegamento degli ammortizzatori in deroga alle politiche attive e in particolare alla formazione appare molto importante. Sapendo per che non si pu pretendere dalla stessa formazione la garanzia di un reimpiego immediato dei beneficiari. Senza affatto volerne sminuire il ruolo di riqualificazione e aggiornamento, ai fini delloccupabilit, essa assume in questa fase, una funzione di attivazione in senso lato, attribuendo una finalit nuova, di tipo promozionale, agli stessi ammortizzatori sociali. Ne consegue che oggi la distinzione tra politiche attive e passive sembra perdere rilievo, o meglio esige di essere ridefinita. Se vero che le politiche passive si devono collocare in stretta relazione alla disponibilit alloccupazione, il sostegno del reddito diviene altrettanto prioritario e la sua adeguatezza lo diviene ancor di pi. A quanto detto, si aggiunga la questione legata alle temporaneit degli ammortizzatori sociali, in deroga o meno. Se la crisi perdura, quando la loro copertura terminer, i soggetti pi vulnerabili potrebbero trovarsi senza altre reti di protezione. A partire da queste considerazioni, i tempi paiono maturi per rilanciare la riflessione anche su strumenti dedicati, come il reddito minimo. Tutto questo non solo perch ad oggi lItalia rimasto in Europa uno dei pochi paesi ancora a non avere ancora una politica nazionale di contrasto alla povert, ma altres per le pressioni che insistono (e tenderanno a crescere) sui dispositivi ordinari, spingendo verso deroghe che potrebbero pi utilmente essere messe a sistema in un nuovo quadro di interventi ordinari e dedicati (da attivare quando i primi vanno a esaurimento). A questo fine si tratta anzitutto di guardare a quanto realizzato negli altri paesi europei ove dispositivi di questo genere sono presenti. Ma si potrebbe utilmente guardare anche in Italia, dove istituti simili sono stati introdotti in via pi o meno sperimentale. La regione Toscana ha nello scorso anno fatto una proposta di legge in merito allistituzione del reddito minimo. Nel Lazio stato invece istituito di recente. Ma vi sono esperienze regionali di pi lungo periodo come quella campana, cui si potrebbe guardare o ancora, quella pi recente della Provincia Autonoma di Trento, laddove da oltre un anno stato introdotto il reddito di garanzia, con funzioni sia anticongiunturali (sostenere i lavoratori scolpiti dalla crisi) sia strutturali (prevenire e contrastare situazioni di povert secondo criteri di equit). Di queste esperienze uno degli aspetti che meriterebbe di essere indagato meglio lo sforzo di integrare il sostegno del reddito con le politiche attive del lavoro la formazione in primis e con le politiche sociali. sulla base di tale integrazione che il lavoro pu rappresentare il fulcro del welfare senza diventare per requisito unico di accesso alla rete di protezione. Al di l delle modalit specifiche attraverso cui i meccanismi citati sono stati definiti e implementati, ci su cui hanno il merito di far ragionare la possibilit di integrare in modo nuovo politiche attive e passive, dispositivi di sostegno del reddito e attivazione, intendendo questultima in senso ampio, come promozione delle capacit degli individui.
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8.4.5 La conciliazione come sfida per la modernizzazione del welfare Il confronto tra le regioni da noi considerate ha messo in evidenza molto bene come gli assetti di welfare si differenzino in base a diversi fattori: scelte politiche, tradizioni istituzionali, contesto economico produttivo, ecc. Tra di essi un ruolo determinante giocato dalla domanda sociale. Come abbiamo avuto modo di evidenziare, nelle regioni economicamente pi dinamiche, quali la Lombardia e la Toscana, dove la partecipazione al mercato del lavoro delle donne pi alta e le famiglie sono in larga misura a doppio reddito, la disoccupazione contenuta (almeno fino a prima della crisi), la domanda sociale si indirizzata da tempo verso la questione della conciliazione famiglia-lavoro. Rispetto a questa esigenza, Lombardia e Toscana hanno messo in campo risposte significative, in parte diversificate, ma in buona misura accomunate dal potenziamento dei servizi di care per la prima infanzia. Non un caso che tanto Milano quanto Arezzo abbiano evidenziato proprio nel tema della conciliazione uno degli snodi per lo sviluppo del sistema di welfare locale. Per altro verso, la definizione di un compiuto sistema di servizi e dispositivi a sostegno della conciliazione lungi dallessere pienamente realizzato anche in questi contesti per certi aspetti virtuosi. Anzi, proprio lesempio di queste due realt locali evidenzia come il tema della conciliazione assuma un valore paradigmatico dentro i processi di modernizzazione del welfare italiano, in buona misura ancora di stampo familistico. Se c una prima indicazione importante da trarre, la portata culturale del tema, che sollecita almeno due spunti di riflessione. Primo, la questione della conciliazione una questione di tutti, della societ intera (donne e uomini), e per questo penalizzante restare imbrigliati come spesso accade in una sua lettura solo al femminile, bench sia indubbio che sono le donne a subire i costi maggiori della conciliazione tra mothering e working. Come afferma la Nussbaum (2002), ciascun essere umano ha diritto tanto a ricevere quanto a prestare cure, quindi il tema della conciliazione interpella e interessa la societ intera. I casi qui presentati, e quelli di Milano e Arezzo in particolare, sembrano al riguardo suggerire che i tempi sono maturi per compiere un passo avanti e riconoscere che la ricomposizione tra vita e lavoro riguarda il diritto di ogni persona (al di l dellappartenenza di genere) di armonizzare le diverse sfere esistenziali importanti per la sua piena realizzazione (nel linguaggio del capability approach significa avere la capacit potenziale e attuale di essere e fare ci che si ritiene di valore per s). La capacit di dare corso a questa armonizzazione non equamente distribuita, anzi determina nuove disuguaglianze. Di qui lesigenza di pensare risposte nuove. Non solo, ma gli equilibri su cui si gioca tale armonizzazione non possono essere preconfezionati, dipendendo dalle scelte di vita di ciascuno. Di qui allora anche lesigenza di strutturare le condizioni istituzionali che consentano lesercizio di una libert di scelta e flessibilit nellaccesso alla alternative di offerta anche in questo ambito. Una tale riflessione spinge evidentemente a ripensare il rapporto tra politiche del lavoro e politiche sociali, tra funzioni di produzione e funzioni di riproduzione sociale, tra diritto a dare e ricevere cura e diritto al lavoro, evitando che tra di essi debba sempre frapporsi un trade off penalizzante. A queste contrapposizioni si aggiunge quella che a chiusura del caso milanese, viene definita come divisione troppo netta dei compiti tra gli attori locali che a vario titolo sono coinvolti nella questione, in particolare le istituzioni e le imprese, mentre la conciliazione una questione che investe lintera comunit locale. In questa prospettiva, le imprese vanno considerate come veri e propri stakeholder delle politiche di conciliazione e andrebbero
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maggiormente coinvolte nella loro attuazione. Per esempio spingendole ad agevolare di pi la fruizione dei congedi parentali (di fatto scarsamente utilizzati dai potenziali beneficiari) e a vedere anche in questo ambito un fattore ineludibile su cui giocare la loro responsabilit sociale. In questo senso davvero interessante la proposta che emerge da Milano di immaginare un nuovo patto tra istituzioni politiche e amministrative, imprese, famiglie. Come anche lesperienza aretina suggerisce, ci che occorre dunque un investimento dellintera collettivit sulla questione della conciliazione e della cura dei minori come un tuttuno nella prospettiva di una comunit educante in cui lamministrazione si fa garante di una messa in rete strategica di attori e alternative di offerta in vista del miglioramento della capacit di presa in carico. Secondo, considerando che le politiche di conciliazione coincidono attualmente in larga misura con lo sviluppo di servizi per la prima infanzia, ripensare la conciliazione diventa unoccasione propizia per riflettere sullapproccio con cui vanno pensati e impostati tali servizi, valutandoli non solo funzionalisticamente come risposta a una domanda di care. Anche in questo caso i tempi sembrano essere maturi (come testimoniano Milano e Arezzo) per valorizzare di pi le funzioni educative che i servizi di care per i pi piccoli assolvono, diventando parte di un sistema di welfare che punta alla capacitazione dei soggetti, a partire dagli stessi bambini in una ottica strategica di formazione lungo tutto larco della vita. In questa prospettiva garantire opportunit adeguate di care e di educazione ai pi piccoli, anche nella primissima infanzia, rappresenta un investimento contro le disuguaglianze che si producono gi in tenera et e che tendono a incrementarsi lungo il corso della vita. In questa luce, garantire una copertura universalistica dellutenza (e non solo della domanda che non detto che sia sempre capace di esprimersi), diviene una questione di cittadinanza per i pi piccoli e per gli adulti di domani. A patto di non creare nuove contrapposizioni al ruolo effettivo ed educativo della famiglia, che va anzi con maggior forza sostenuto; e a patto naturalmente che sia garantita la qualit dellofferta. Mettere a tema la conciliazione rappresenta, come si detto, unopportunit di modernizzazione del welfare. Ma anche loccasione per ricordare che il welfare non va considerato n solo in chiave emergenziale (come in questa fase di crisi sembra accadere), n come risposta alle situazioni di grave emarginazione, povert, esclusione. Un welfare attivo e preventivo trova quindi nella conciliazione uno dei punti cardine per essere un welfare per tutti, per affrontare la vita quotidiana e le vulnerabilit che discendono dal compiere scelte persino le personali scelte di vita, compreso lavere dei figli. Vulnerabilit che si accrescono nellattuale fase di recessione e che confermano quanto il welfare sia un ambito sul quale investire, non certo su cui effettuare larte del risparmio. Si pu anzi arrivare a dire che investire nel welfare rappresenti una politica di sviluppo.

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