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Diritto del Lavoro

27 settembre
Modulo politiche attive e passive del lavoro
Politica attiva
La definizione non ha fonte legislativa, è intesa come quella politica che comprende interventi di natura
pubblica con la finalità di indirizzarsi all’occupazione. Riguarda tutte le iniziative di carattere pubblico
finalizzate all’occupazione. Queste iniziative? Quando si parla di politiche attiva si intendono molte cose e
comprende molte aree: ad esempio l’area dei servizi che consentono al datore di lavoro e al lavoratore di
facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Sostanzialmente si può esemplificare come area che
rende più puntuale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Altra area riguarda la possibilità di favorire
l’occupazione di soggetti con determinati profili e che si trovano in determinate situazioni: possono essere
disoccupati di lungo termine o donne, soggetti con difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. Politiche attive
dovrebbero favorire questo reinserimento della donna nel mercato del lavoro con incentivazione di natura
economica ad esempio e lo stesso per i disoccupati di lunga durata, questo soggetto va assistito nella ricerca
del lavoro. Altra area sono le misure volte alla creazione diretta di lavoro da parte delle pubbliche
amministrazioni: lo stato interviene per agevolare o quantomeno favorire l’accesso alla pubblica
amministrazione. Altra possibilità riguarda il reinserimento o l’occupazione di lavoratori a rischio di
esclusione: ad esempio i soggetti che presentano disabilità tanto fisica quanto mentale, qui le politiche attive
potrebbero favorire l’accesso o il reinserimento nel mercato del lavoro. Non essendoci una fonte legislativa
che definisce la politica attiva gli studi sociologi indicano in queste politiche ciò che per un giurista non lo
sono: anche la disciplina del diritto sindacale rientra nelle politiche attive. Ciò è parzialmente inesatto in
quanto la disciplina dei rapporti sindacali non ha il fine di proporre (inter legislativa) di promuovere la
politica attiva, ma potrebbe avere dei profili ma non nasce con questa finalità. Stessa cosa per i sistemi di
sostegno a reddito, sono interventi di politica passiva infatti: qui lo stato interviene per tutelare lo stato di
bisogno che manifesta il lavoratore ed è passiva.
Politica passiva. Tutte quelle iniziative, anch’esse mosse dalla pubblica amministrazione (non si
differenziano qui) ma a differenza di quella attiva, la passiva interviene per attenuare una delle conseguenze
più gravi derivanti dalla perdita del reddito attraverso sussidi di natura economica. Queste iniziative destinate
a erogare sussidi di natura economica. Dobbiamo tenere presente che le politiche passive sono state oggetto
di riflessione perché si sono trasformate ma assoggettate a condizionalità: occorre che chi percepisce il
sussidio deve rispettare determinate condizione pena la decadenza del sussidio. Se il lavoratore non svolge
determinati corsi, rifiuta di lavorare e altro il sussidio gli viene tolto.
I servizi al lavoro permettono alle parti di incontrarsi più rapidamente: io cerco lavoro, il datore lo offre e le
politiche attive dovrebbero fungere da mezzo per far conoscere datore di lavoro e lavoratore.

Art 31 comma 2: infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Il problema di coniugare le politiche attive alle passive è italiano o è stato risolto dall’UE?
L’UE si è occupata di politiche attive e passive del lavoro degli stati membri? No, non esistono guardando il
TFUE norme che impegnano l’UE a disciplinare politiche attive. Il tratto invece indica delle strategie comuni
a tutta l’UE perché in alcune norme si fa riferimento ad una promozione della forza lavoro che deve essere
competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici.
Come l’ha fatto? Inizialmente con il coordinamento aperto: discussione multilaterale tra gli stati membri.
Principio fondamentale UE è libertà di circolazione, se io voglio trasferirmi in un altro stato membro devo
essere assoggettato a situazioni più o meno omogenee a quelle del mio stato madre. Successivamente è
avvenuto il dialogo: a una discussione multilaterale qui è più serio ed articolato perché oltre ad essere
convocati gli stati membri qui è presente anche la commissione europea con linee di indirizzo e si cerca di
individuare una politica comune. Nel corso d3gli anni sono stati individuati diversi obiettivi: già dal vertice
di Lussemburgo del 97 si parlava di 4 pilastri da perseguire e redigere: occupabilità, pari opportunità,
adattabilità e imprenditorialità. Necessità che l’economia Europea fosse basata sulla conoscenza competitiva
e dinamica del mondo e soprattutto con una crescita economica mirata alla costruzione di nuovi e migliori
posti di lavoro. Il consiglio di Lisbona nel 2000 indicava per il 2010 obiettivi di tasso di occupazione pari
almeno al 70%, tasso di occupazione femminile 60%, tasso occupazione a categoria specifica
particolarmente a rischio di esclusione sociale (lavoratori tra i 55-60) del 50%.
L’UE ha elaborato i fondi strutturali: fondi che se perseguono gli obiettivi prefissati consentono agli stati
membri di ottenere finanziamenti per promuovere quelle azioni. Es. Ungheria, l’Ue gli dice che se realizza
un piano di occupazione otterrà finanziamenti. Non deve esserci finalità passiva, la misura deve essere
condizionata ad una attività che lo stato deve fare, deve realizzare un programma. Questa strategia

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occupazione è stata proseguita negli anni successivi, da Stoccolma, Barcellona etc… Nel 2004 consiglio di
Bruxelles. 2008 sempre a Lisbona programma comunitario con 3 aree prioritarie sono innanzitutto attirare ed
attrarre nel mondo del lavoro un maggior numero di persone. Interesse di attualizzazione delle politiche
passive, aumentare gli investimenti nel capitale umano, migliorare le competenze e rendere più flessibile il
mercato del lavoro. Dal 2008 il nostro legislatore ha di sua iniziativa modificato il mercato del lavoro,
l’iniziativa è stata dettata da una volontà che nasce a monte: dall’UE che in questo programma chiedeva
adattabilità alle imprese, chiedeva flessibilità, poi nel bene e nel male sono state attuate dal legislatore
italiano. Molte di queste novità dell’ordinamento sono nate per effetto di previsioni comunitarie.

Flexicurity: coniugare la flessibilità del lavoro con la sicurezza sociale, di cercare un equilibrio. Malattia del
nuovo decennio: invecchiamento attivo della popolazione, queste sono osservazioni già fatte nel 2000.
Invecchiamento attivo significa che abbiamo un forte squilibrio demografico: ci sono sempre meno giovani e
popolazione sempre più anziana. Sul piano previdenziale come tutelare le generazione future? Strategia
Europa 2020: importante perché prevede obbiettivi misurabili espressamente indicati in 5 punti, vanno a
modificare quelli del consiglio di Lisbona del 2000. Tasso di occupazione 20-64 almeno 75%. Entra in gioco
il tasso di abbandono scolastico e l’UE deve rientrare nel dato di inferiore al 10% e deve aumentare al 40%
giovani tra 30-34 che hanno completato un ciclo di studi di istruzione universitaria. 3% del PIL va investito
in ricerca e sviluppo. Almeno 20 milioni di persone in meno a rischio di povertà e di emarginazione. Sono
fissati obiettivi di sviluppo compatibile con il rispetto dell’ambiente.

L’Italia in questi anni (dal 1997 ad oggi) ha seguito queste indicazioni, che non sono traducibili in norme?
Nel nostro paese è in atto un lungo e difficile processo di modernizzazione delle politiche attive del lavoro
che ancora devono concludersi. Vedremo come ad oggi c’è un quadro che ancora non si è completato, che fa
fatica raggiungere anche obiettivi minimi. Come ha risposto l’Italia alle sollecitazioni dell’UE? In primis, nel
97 abbiamo una prima indicazione: si deve al ministro Treu con una legge molto importante (legge 196/97)
che riferendosi alle dottrine di Lussemburgo introduce il lavoro cosiddetto interinale, chiamato oggi
somministrazione di manodopera. Nel 97 il legislatore italiano nell’ambito di un decentramento
amministrativo ci fu una riforma molto importante. Riforma Bassanini, non riguardavano il lavoro perché
introduca una tipologia contrattuale sconosciuta (d.lgs 469/97) conferire funzioni amministrative alle
province amministrative e non più allo stato. Fino al 97 i servizi di collocamento erano gestiti dallo stato, poi
con la riforma Bassanini vengono decentrati i servizi al lavoro per rendere più semplice il contatto fra
servizio e lavoro eliminando la possibilità allo stato che prima era interprete principale. Nel 2001 viene
introdotta una modifica costituzionale perché viene modificato l’art 117 Cost. che attribuisce alle regioni una
potestà legislativa concorrente in materia di tutela e sicurezza del lavoro. Nel 2003 per effetto di una legge
delega che nasce nel 2001 scritta e promossa dal consulente del lavoro Marco Biagi, quei principi verranno
trasfusi in un d.lgs considerato come una sorta di bibbia (d.lgs 276/03) chiamata Riforma Biagi. Questa
riforma è importante perché realizza quello che fino a quel momento in Italia non c’era: intervento di
soggetti privati nel mercato del lavoro. Soggetti privati sono agenzie del lavoro. Dopo il 2003 ci fu
confusione, possiamo dire che non c’è stat aun grossa modifica a ciò che era accaduto tranne nel 2015. Dal
2003 al 2015 più che altro ci sono state decisioni di giudici perché c’è stata qualche regione che avanzato
ricorso davanti alla Corte Costituzione di legittimità del decreto 469 perché si sentivano spogliate dalle
province in merito alle funzioni amministrative. Soluzione: ammesso l’ingresso di privati nella mediazione
tra datore e lavoratore e nel 2003 dove si favoriva solo l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, si
aggiunse alle agenzia i servizi di somministrazione di manodopera, di ricerca e del personale e supporto alla
riqualificazione del personale. La legislazione ha provato a rafforzare le politiche passive (anche quelle attive
sul piano economico, ma con un intreccio molto generico. Principio di condizionalità). (La legge delega del
2014…) Nel 2012 riforma Fornero sulle pensioni molto drastica e venne nel 2012 anche emanata una
riforma del lavoro, la Fornero dal 2003 in avanti comincia a vincolare l’erogazione dei sussidi passivi alla
condizionalità, al fatto che il lavoratore disoccupato per continuare a ricevere sussidi deve avere
comportamento attivo nella ricerca del lavoro. La Fornero dice che la finalità del sussidio è di incentivare la
ricerca (mantenersi preparati attraverso corsi di formazione ed altro). Questa intuizione del 2012 viene
trasfusa nel decreto legislativo 150/2015, fa parte degli 11 d.lgs per effetto della legge delega denominata
Jobs Act e che interviene sulla politica attiva, sul mercato del lavoro e sui comportamenti attivi da parte del
lavoratore. È un d.lgs molto ambizioso. Negli anni ottante si usava il modello cooperativo, in cui la parte
principale era lo Stato e fino agli anni 90 lo stato aveva monopolio del collocamento pubblico. … Quando
c’era opportunità dal datore di lavoro privato doveva rivolgersi obbligatoriamente all’ufficio di collocamento
che gli indicava il lavoratore in base alla lista compilata. Lo stato era artefice principale del lavoro. Dagli
anni 80 questa situazione faceva dubitare la dottrina perché riteneva che lasciare questo compito allo stato
non teneva conto delle realtà territoriale e delle competenze specifiche del lavoratore e autonomia regionale.
Una parte della dottrina scrisse che in Italia quando si parla di mercato del lavoro, il nostro stato non ha mai

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individuato un soggetto specifico, istituzionale che fosse in grado di coordinare questi servizi per il lavoro.
Se all’inizio lo stato gestiva tutto, successivamente lo ha fatto male perché quello che faceva lo stato era
molto burocratico perché la stessa assunzione avveniva con il ricorso alle liste di collocamento ma era su una
chiamata che era cosiddetta numerica ovvero lo stato faceva un po’ il notaio. L’ufficio di collocamento,, nel
momento in cui compilava la lista e faceva la graduatoria si basava sul titolo di studio che il soggetto aveva
acquisito. Se nella lista c’erano 50 lavoratori, chi veniva avviato era il primo della lista. L’ufficio di
collocamento non andava a scremare, si chiamava il primo della lista. Ciò significa dei costi di formazione
notevoli per l’azienda che riceveva il lavoratore, poteva indicare la mansione ma non sempre corrispondeva
al primo della lista. Il ns mercato del lavoro creava discrasie tanto era burocratico. Nel 97 decentramento e si
prende atto che anche le politiche del lavoro vanno decentrate: possibilità che i servizi siano vicini al
territorio e organizzati a livello periferico. Si realizza il Federalismo amministrativo, attribuire alle province i
servizi per l’impiego, poi nel 2001 c’è il cambiamento costituzionale e si attribuisce la competenze alle
regioni. Si volevano realizzare le autonomie locali. Autonomie locali vengono indicate le regioni e le
province ma tutte le scelte vengono attribuite nel 97 alle regioni che hanno questo compito dal 97 in poi di
indirizzare le politiche del lavoro territoriale e la gestione pratica viene affidata ai centri per l’impiego gestiti
dalle province amministrative (amministrazioni provinciali). Alle province vengono attribuiti i compiti di
gestione. Nasce un contenzioso che coinvolge i centri per l’impiego che dal 97 in avanti sono attribuiti alle
province. LA questione non è secondaria perché questi uffici sono l’anima del mercato del lavoro. Un d.lgs
del 98 aveva poi posto un’ulteriore condizione: stabilisce che al fine di assicurare l’integrazione tra politiche
formative e del lavoro, le regioni devono attribuire alle province compiti in materia di formazione
professionale. La formazione professionale dal 2001 in avanti è attribuita alle regioni e quindi questo d.lgs
aveva creato ulteriore astio. Possibile coinvolgimento delle province. Commissione tripartita e provinciale
del lavoro che aveva una funzione di consultazione in materia di mercato del lavoro territoriale. Questo era il
disegno organizzativo, la regione con compiti di organizzazione e controllo, il SIL banca dati mai funzionata
che avrebbe dovuto recuperare i dati di tutte le banche dati regionali, esiti deludenti. Le regioni a statuto
ordinario successivamente all’approvazione si pronuncia negativamente e ricorrono, la corte cost approverà
in parte il ricorso delle regioni ma ciò che le regioni si aspettavano non viene approvato dalla corte. La corte
cost, respinge e riconosce che hanno autonomia ma non tanto ampio da ritenere che le funzioni in materia di
gestione centri dell’impiego va comunque alle province. Sentenza 2001 arriva proprio quando il legislatore
modifica la carta costituzionale. Il ragionamento dei giudici sarà opposto perché il tit. V modifica le norme
che riguardano il parto di competente e modifica anche il 118 che riguarda competenze tra stato, regioni,
province, città metropolitane, città e comuni. Regioni competenza concorrente, può legiferare su quella
materia ma deve rispettare limiti e principi contenuti nella legge quadro emanata dallo stato. Queste materie
sono sicurezza e tutela del lavoro, previdenza complementare ed integrativa e professioni. Più competenza
esclusiva regioni in istruzione e formazione professionale. Escludere lo stato dalla preparazione
professionale. La regione pero ha questa competenza esclusiva che deve esercitare nell’ambito di principi
essenziali che sono i livelli essenziali delle prestazioni fissati dallo stato.

30 settembre
La legge costituzionale del 2001 aveva modificato l’art. 117 Cost. prevedendo l’attribuzione alle regione di
una competenza legislativa concorrente su alcune materie: tutela e sicurezza del lavoro, previdenza
complementare integrativa e le professioni; poi alle regioni è stata attribuita una competenza legislativa
esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale (questa competenza ha valore importante per le
tipologie contrattuali con finalità formative, prima di tutto il contratto di apprendistato). Infine, è stata anche
attribuita alle regioni la competenza concorrente in maniera di istruzione che va esercitata nei limiti delle
norme generali sull’istruzione che è di competenza esclusiva dello Stato. Rimane fermo il principio che le
regioni devono rispettare i livelli essenziali delle prestazioni che vengono fissati dallo Stato (essenziale il
rispetto dei principi fondamentali). Alla luce di ciò è chiaro che una disciplina legislativa regionale, se non
considerasse questi principi fondamentali dello Stato, potrebbe generare delle differenziazioni di natura
territoriale. Ad esempio la regione Lombardia può emanare una legge regionale virtuosa nella quale assicura
determinati servizi in materia di formazione professionale mentre la regione Friuli-Venezia-Giulia non
garantisce questi servizi. Si verrebbero a realizzare cosi delle differenziazioni a livello territoriale. Quindi,
ciò permette di assicurare alle regioni almeno un livello standard perché imposto dal legislatore statale. Il
mercato del lavoro non è di competenza esclusiva dello Stato ma deve essere gestito, soprattutto nella parte
operativa, dalla regione.
Dobbiamo chiederci: cosa ha inteso il legislatore costituzionale con l’espressione tutela e sicurezza del
lavoro? In genere, la dottrina ha sempre considerato in questi anni che, in questa materia vasta della tutela
della sicurezza e lavoro, non vada fatta rientrare la materia del diritto sindacale, ma anche dei rapporti di
lavoro perché si ritiene che queste due materie rientrino nella nozione di ordinamento civile e quindi
competenza esclusiva dello stato. Quindi nell’espressione sicurezza e tutela del lavoro si vuole attribuire alle

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regioni il conferimento di funzioni amministrative attinenti ai servizi per l’impiego. L’espressione assegna
quindi alle regioni una competenza legislativa laddove in precedenza il d.lgs del 97 gli attribuiva solo
competenza amministrativa ai fini della regolazione di quell’area. Il cambiamento sta nella fonte: se prima il
d.lgs attribuiva alle regioni una funzione solo amministrativa, prevedendo la possibilità alle regioni e alle
province di svolgere compiti solo gestionali e di indirizzo in materia di mercato del lavoro, sembrerebbe ora
che con la riforma costituzionale del 2001 non attribuisca solo funzione amministrativa ma anche legislativa.
Non significa che lo stato si sia sgravato di compiti operativi perché, se non svolge quel ruolo gestionale che
prima era svolto attraverso gli uffici di collocamento, allo stato rimane il compito di indirizzare le politiche
del lavoro oltre ai compiti in cui lo stato ha competenza esclusiva: la previdenza sociale, vigilanza in materia
di lavoro, conciliazione di controversie individuali e plurime. Però lo stato non svolge più quei compiti
gestionali. Sebbene allo stato rimanga competenza esclusiva su determinate materie che pure impattano sui
servizi al lavoro, tuttavia in materia di servizi al lavoro resta solo un compito di programmazione, indirizzo,
individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, della rete informatica. Le regioni avendo competenza
in tutela e sicurezza del lavoro svolgono funzioni e compiti fondamentali in materia gestionale dei servizi al
lavoro. Alle province, operando nel sistema regionale, sono conferite funzioni meramente amministrative e
compiti esecutivi: la gestione dei servizi per l’impiego.
Dopo il 2001 il quadro era delineato: Stato: compiti indirizzo e programmazione a livello nazionale;
Regione: compito di programmazione e indirizzo in ambito esclusivamente regionale; Province: per effetto
di quel d.lgs 97/469 residuavano compiti di carattere operativo-gestionale in materia di servizi per l’impiego.
La riforma Biagi (d.lgs 10 settembre 2003, n. 276) nel 2003 confermerà tale assetto istituzionale, infatti
l’art. 3 comma 2 esplicitamente recita “Ferme restando le competenze delle regioni in materia di regolazione
e organizzazione del mercato del lavoro regionale e fermo restando il mantenimento da parte delle province
delle funzioni amministrative attribuite dal decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, e successive
modificazioni ed integrazioni”. In sostanza la riforma Biagi cristallizzava il contesto attuale (1997).
Successivamente accadde che si mise in dubbio, alla luce della riforma costituzionale del 2001, i compiti
delle province. Si è messo in discussione il fatto che il d.lgs.97/469 non poteva e non può devolvere alle
province compiti che sarebbero di competenza delle regioni. Sollecitata a intervenire, la Corte Cost. nel
2005, con la sentenza 50, evidenzierà che anche le funzioni amministrative in materia di mercato del lavoro
su base regionale sono di competenza legislativa concorrente regionale, dando ragione a chi in dottrina
evidenziava tale anomalia. La stessa Corte aggiungerà anche un altro aspetto: riterrà che tali funzioni,
sebbene di competenza regionale, possono essere amministrate anche dalle province almeno fino a quando
una legge regionale non provvederà alla regolamentazione. Da un lato tale decisione evidenzia che il
ragionamento che vuole che la regione vi sia devoluta non solo la funzione di indirizzo, programmazione e
controllo su base regionale, ma che le vengano attribuite anche le funzioni amministrative perché rientrano
nella propria potestà legislativa concorrente nell’ambito della tutela e sicurezza del lavoro, dall’altro lato la
stessa Corte, considerando la criticità in cui alcune regioni potrebbero trovarsi, lascia alle province le
funzioni di carattere operativo e gestionale dei servizi al lavoro in attesa che una legge regionale non
provveda diversamente in materia. Quali regioni hanno approfittato di questa possibilità? Ovviamente quelle
più interessate, ovvero quelle che avevano avanzato ricorso davanti alla Corte Costituzionale. Una di queste
è la regione Lombardia che, con una legge regionale nel 2006, emana una legge in cui stabilisce che tutte le
funzioni amministrative in materia di servizi di preselezione e centri impiego sono attribuiti alle regioni.
Eventualmente, alle province attribuisco quei compiti di natura operativa attraverso un accreditamento a pari
di tutti gli altri soggetti professionali. In pratica questa legge riprende la questione e attribuisce al soggetto
regionale il compito di gestire i servizi al lavoro. La possibilità di attribuire alle province questi compiti può
essere ammesso con accreditamento della stessa regione a pari di ogni altro soggetto pubblico o privato
accreditato. Viene lasciata alla discrezionalità dell’ente regionale. Questo è il quadro tutt’ora vigente. È
accaduto che ciascuna regione ha disciplinato o meno la materia: alcune ritengono di sottrarre o di ipotizzare
la sottrazione di questa funzione alle province, mentre altre regioni si interessano relativamente alla materia
del lavoro perché sanno che occuparsene in prima persona implicherebbe un certo peso finanziario e quindi
hanno lasciato alle province quelle funzioni amministrative. Questa è la situazione attuale. Lo Stato deve
decidere se il servizio di orientamento è da individuare come livello essenziale delle prestazione perché se
cosi fosse, ogni regione o provincia sarebbe obbligata ad assicurarla. Alle regioni invece spetta compito
meramente gestionale che può diventare anche operativo per effetto di una legge regionale se emanata,
altrimenti sono le province a gestire il lato operativo. Altro cambiamento si ha con il Jobs Act del 2014: il
legislatore nazionale, con una legge delega, individua alcuni principi direttivi che il legislatore delegato
avrebbe dovuto seguire per riformare i servizi per il lavoro. L’idea di fondo è semplice: quella di rendere
effettivo il coordinamento o l’integrazione tra politiche attive e passive. Compito che aveva già provato a
compiere la riforma Fornero nel 2012, ma con un occhio più rivolto ai singoli strumenti piuttosto che
all’intero pacchetto dei servizi al lavoro. La riforma Fornero interveniva sugli strumenti di sostegno a
reddito utilizzando meccanismi di condizionalità. Qui invece il tentativo è molto più ambizioso, si vuole che

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siano le strutture a farsi carico di questa interazione. Il punto che fa saltare il banco è un disegno di legge
costituzionale, promosso dalla maggioranza politica che aveva approvato la legge delega, che avrebbe
dovuto seguire il Jobs Act perché questo disegno di legge costituzionale in sostanza ritornava al passato
perché assegnava allo stato la competenza legislativa esclusiva in materia di servizi per il lavoro, in pratica si
tornava all’idea dei vecchi uffici di collocamento gestiti direttamente dallo stato attraverso il Ministero del
Lavoro. Questo disegno di legge costituzionale avrebbe dovuto cancellare la competenza legislativa
concorrente delle regioni in modo che fosse direttamente lo stato ad occuparsi di servizi al lavoro. Andò tutto
storto, in primis perché il disegno di legge costituzionale fu sottoposto a referendum nel 2014 ed ebbe esito
negativo. La riforma del Jobs Act nasce da quella idea (riformare i servizi dell’impiego tenendo conto del
passato) ma, non venendo approvato il disegno di legge, la stessa riforma del 2015 nasce monca di un
tassello fondamentale in quanto strutturata sull’idea che è lo stato il detentore della gestione dei servizi al
lavoro mediante un soggetto appositamente costituito: l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive
Lavoro). L’idea fu dunque di approvare il Jobs Act, dare ad ANPAL i poteri per gestire a livello centrale i
servizi al lavoro contestuale pero per fare ciò bisogna modificare le competenze costituzionali in modo che le
regioni non possano avanzare alcuna pretesa. Il banco salta ma rimane l’ANPAL che avrebbe il compito di
gestire ma non ne ha le competenze. Ciò significa che deve gestire le politiche del lavoro in sostanza
contrattando con le singole regioni ogni aspetto che attiene alle modifiche dei servizi al lavoro. Non finisce
qui perché poi lo stesso governo nella legge di stabilità decide di abolire le province: altra norma che sul
mercato del lavoro è notevole perché significa sopprimere il soggetto che in molte regioni, che non avevano
emanato quella legge regionale, avevano il compito di gestire le funzioni amministrative e quindi nasce un
ulteriore problema. Chi svolgerà quindi i servizi del lavoro per quelle province soppresse? Le province nel
frattempo diventano città metropolitane e questa legge di stabilità si dimentica i servizi al lavoro. Abbiamo
un quadro molto complesso. Accade che per effetto della soppressione delle province, le competenze sono
restituite alle regioni, anche quelle che non le volevano perché non avevano il personale, non potevano
sopportarne il peso economico. Dobbiamo ragionare tenendo conto del d.lgs.151/2015 che prende vita in un
quadro molto articolato. Questo decreto prevede innanzitutto una rete nazionale dei servizi per le politiche
del lavoro, tale rete ha il compito di individuare e dare visibilità a tutti i soggetti che possono concorrere al
funzionamento del mercato del lavoro. Il decreto legislativo 151 viene emanato tenendo conto del fatto che il
disegno di legge costituzionale non è stato approvato e quindi cerca la collaborazione delle regioni: le
pungola ad emanare leggi e quantomeno rendersi parte attivo nell’ambito dei servizi al lavoro. Questa
collaborazione rinnovata tra stato e regioni la ritroviamo in diversi punti: innanzitutto lo stato che cerca una
collaborazione proficua e cede alcune sue competenze che non sarebbe dovuto a concedere perché rientranti
in competenza statale, ma il legislatore nazionale si rende conto che questo è il tentativo di far comprendere
alle regioni che la collaborazione è reciproca: non solo le regioni devono cedere qualcosa ma anche lo stato.
Lo stato cede 1) la condivisione delle linee di indirizzo triennale e degli obbiettivi annuali (stiamo parlando a
livello nazionale) 2) soprattuto la condivisione della specificazione dei livelli minimi essenziali delle
prestazioni che era un compito statale ma che con questo d.lgs. condivide con le regioni in quanto la
collaborazione è necessaria perché lo stato non ha altri rimedi. Questo è un aspetto estremamente delicato:
ora al tavolo si trova lo stato con tutte le regioni, ognuna con le proprie questioni. C’è sia la regione virtuosa
sia quella che dice di non potersi permettere eventuali politiche attive. C’è un’opera di mediazione molto
importante e difficile. Poi c’è la (previsione???) dell’art.11 del d.lgs.151/2015 [POSSIBILE DOMANDA
ESAME] in cui vengono espressamente attribuiti alle regioni funzioni e compiti amministrativi: è
espressamente previsto che le province non c’entrano più nulla (al di la della legge regionale che avete
emanato o meno noi diamo espressamente i servizi alla regione). Altro aspetto è la stipulazione di
convenzioni tra stato e regione per assicurare la flessibilità organizzativa, anche questo è un aspetto che
potrebbe essere molto dirompente. Flessibilità organizzativa significa che qui ci potrebbero essere
trasferimenti di personale, mobilità del personale pubblico che da un ente potrebbe essere adibito appunto
all’attività dei servizi al lavoro. L’indirizzo politico è svolto dal Ministero del Lavoro e a lui rimane l’andare
al tavolo con tutti gli altri soggetti. Prima il ministero del lavoro decideva in quale direzione far andare il
mercato del lavoro: bisogna puntare sui servizi di orientamento ad esempio o altro; le regioni dovevano
seguire con propri programmi tali indicazioni prima. Adesso invece tali indicazioni devono essere condivise.
Allora quali sono i soggetti che svolgono i servizi per il lavoro? Art. 1 comma 1 del d.lgs.151/2015 ce ne
offre un elenco. L’ordine utilizzato dall’articolo non è casuale ma va a cascata. Individua in primis l’ANPAL,
l’agenzia che ha un compito estremamente importante in questo decreto ma praticamente ibrido; poi le
strutture regionali (Regioni); poi l’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale): dato che l’idea era quella di
creare un’interazione tra politiche attive e passive, le regioni avrebbero svolto le politiche attive e l’INPS le
politiche passive ovvero che eroga i sussidi per la disoccupazione ad esempio, le integrazioni salariali e altro;
poi l’INAIL, che qui non è come l’INPS riferito solo agli strumenti di sostegno a reddito e agli incentivi; poi
le agenzie private per il lavoro e gli altri soggetti accreditati: sono gli unici soggetti che rimangono secondo
quelle funzioni attribuitegli dalla riforma Biagi e quindi svolgono compiti di 1) intermediazione tra domanda

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e offerta di lavoro 2) somministrazione di manodopera 3) ricerca e selezione del personale 4) supporto alla
ricollocazione professionale. Compiti che il decreto 151 non modifica.
L’art. 1 inserisce anche i fondi inter professionali per la formazione continua, inserisce anche i fondi
bilaterali operanti nel settore delle agenzie di somministrazione e poi inserisce l’ISFOL (oggi INAP: Istituto
Nazionale Analisi Politiche Pubbliche) e infine inserisce anche altri soggetti privati e pubblici che possono,
per effetto del d.lgs. 276/2003, svolgere attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro. Questi
soggetti sono quelli detti ad autorizzazione ridotta: sono le Camere del Commercio, gli Istituti di istruzione
secondaria di secondo grado e le Università (Alcune università ad esempio sono soggetti a cui viene chiesto e
sono autorizzate a svolgere attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro). Alle strutture
regionali dunque, oltre alle province autonome di Trento e Bolzano, sono demandate tutte quelle attività che
sono definite servizi per l’impiego che prima erano devoluti ai cosiddetti centri per l’impiego.
Come possono le regioni svolgere questi compiti? O direttamente oppure attraverso il coinvolgimento di
soggetti privati accreditati. Però, questi soggetti accreditati, devono essere scelti sulla base di standard
definiti dall’ANPAL e quindi garantendo all’utente la libertà di scelta. Ciò significa che attualmente o la
regione svolge direttamente i compiti dei servizi per l’impiego cioè sostanzialmente fa quello che prima
facevano le province, oppure possono attribuire a soggetti privati (!) accreditati sulla base di principi di
standard definiti dall’ANPAL proprio in virtù di quella condivisione tra regioni e stato (!). Questa è la scelta
più radicale, quella contenuta nell’art.11 comma 4 [da sapere a memoria]: “sui livelli essenziali delle
prestazioni è possibile sottoscrivere delle convenzioni con gli enti regionali e provinciali e queste
convenzioni posso prevedere l’attribuzione a soggetti privati di tutte o in parte le funzioni e gli obblighi in
materia di politiche attive del lavoro”. È un principio molto significativo perché da una mera logica di
consistenza che abbiamo visto essere prima tra pubblico e privato, ora si passa ad una modalità tutta da
chiarire in base alla quale le regioni possono addirittura devolvere una parte delle loro funzioni alle agenzie
private del lavoro. Questo è un aspetto nuovo e completamente diverso dal precedente. [La differenza risiede
nel fatto che i servizi del lavoro possono o essere svolti direttamente dalle regioni o queste ultime possono
attribuire la funzione a servizi privati sulla base di costi definiti dall’ANPAL. Ci potrebbe essere anche una
soluzione B (quella dell’art.11 comma 4): pensare che nelle convenzioni sui servizi pubblici essenziali le
regioni possono prevedere l’attribuzione di una parte o di tutte le funzioni a soggetti privati accreditati, come
se si spogliasse delle proprie funzioni, purché ciò avvenga nelle convenzioni sulle linee essenziali che vanno
condivise tra le regioni e il ministero del lavoro. Potrebbe ad esempio attribuirgli anche le responsabilità.]
Ma ci sono regioni che si sono realmente svestite di queste funzioni? Attualmente no.
Le convenzioni sui livelli essenziali delle prestazioni sono importanti perché assicurano la disponibilità dei
servizi su tutto il territorio italiano, cercando di porre rimedio a ciò che in passato non era possibile fare (es.
Lombardia e Friuli). Questa convenzione dovrebbe superare questo problema perché trovando al tavolo tutte
le regioni con il ministero del lavoro si fa in modo che tutte le regioni abbiano determinati servizi almeno
minimi, essenziali. Poi, queste convenzioni devono garantire la funzionalità e l’esistenza si uffici territoriali
aperti al pubblico denominati centri per l’impiego. Poi, assicurino a tutti i residenti sul territorio italiano gli
stessi servizi al lavoro e stabiliscano misure di attuazione: individuano delle misure che favoriscono
l’accesso ai servizi al lavoro per coloro che si trovano nella condizione di beneficiare dei cosiddetti
ammortizzatori sociali pubblici, si nota qui il tentativo di coniugare politiche attive e passive. Il tentativo è il
fatto che le convenzioni sui livelli essenziali impongano che, dovendo essere necessariamente condivise,
ciascuna regione offra ai lavoratori disoccupati beneficiari dell’indennità di disoccupazione, delle misure di
politica attiva, non solo passiva (se l’INPS eroga il sostegno a reddito, ogni regione deve farsi carico di
condizionare l’erogazione di quel sussidio a una misura di politica attiva, per esempio si stabilisce al tavolo
che i destinatari dell’indennità di disoccupazione devono partecipare ad almeno un corso di formazione di
ore tot. con pena la decadenza dell’indennità di disoccupazione). Ogni regione deve dunque garantire un
corso di questo genere altrimenti cadremmo in differenziazioni territoriali.
L’ANPAL cosa fa? Viene istituito a partire dal primo gennaio 2016, è quindi un’agenzia nuova ed ha il
compito sostanzialmente di coordinare tutti i soggetti della rete. Ha diversi compiti, ma quelli che sono
importanti da evidenziare, oltre al coordinamento dei servizi al lavoro, sono:
• Gestione dell’albo nazionale delle agenzie del lavoro. Questa competenza viene conferita all’ANPAL ma
prima spettava al Ministero del Lavoro
• Gestione dell’ASPI e delle politiche (…?) ai disoccupati
• Una serie di compiti di carattere informativo: gestione della rete unitaria dei servizi, il monitoraggio e la
valutazione delle gestioni delle politiche attive, lo sviluppo del sistema informativo unitario. Questa è una
delle sfide più importanti che ha l’ANPAL, quello di far dialogare tutti i soggetti della rete in modo tale
che le informazioni risultino poi fruibili da tutti.
Possibilità di utilizzare la blockchain quale rete per gestire le informazioni relativamente alle politiche attive
e passive del lavoro. Questa è una evoluzione alla quale anche l’ANPAL sta riflettendo: cioè la possibilità di
avere un dato non modificabile. Tutti quei soggetti elencati nei servizi per il lavoro hanno necessità di

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dialogare tra loro e tutte le informazioni devono giungere in tempo reale ai soggetti interessati della rete: es.
comunicazione di assunzione di un lavoratore, attualmente c’è l’obbligo del datore di lavoro di comunicare
l’assunzione al centro per l’impiego attraverso una comunicazione telematica che viene automaticamente poi
trasmessa anche all’INPS. Questa informazione pero non interessa solo a questi soggetti, anche altri
potrebbero avere interessati fondamentali a riceverli. Ad esempio le agenzie di lavoro che potrebbero essere
interessate al fatto. Le comunicazioni sono fondamentali. Molte informazioni a volte sono a carico dei
singoli soggetti e sono poi a disposizione degli altri quando il dato è già datato e non serve più. Tutto questo
è confermato dall’art. 12 che prevede che “le norme regionali, eventuali leggi regionali in materia di
accreditamento delle funzioni ai servizi per privati devono comunque rispettare i principi generali definiti in
sede di conferenza permanente.” Altra disposizione importante è l’art. 12 perché prevede che, qualora ne
facciano richiesta all’ANPAL, le agenzie private possono essere accreditate a svolgere i propri servizi su
tutto il territorio nazionale, quindi questa è una importante innovazione perché prima queste agenzie del
lavoro potevano svolgere l’attività sul territorio nazionale ma solo se specificamente autorizzate dal
ministero del lavoro; ora invece il d.lgs.151 supera questa disposizione e lascia unicamente all’ANPAL il
compito di valutare questa possibilità. Questo è importante perché cosi le agenzie del lavoro si candidano in
maniera forte su ogni territorio regionale, ponendosi anche come alternativa al centro per l’impiego che
potrebbe essere o direttamente gestito dalla regione o lasciato a un servizio privato accreditato, si trova ad
operare anche con le agenzie del lavoro accreditate e ciò può favorire l’efficienza del servizio, ovvero
agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.

4 ottobre
Continuiamo con il discorso sul mercato del lavoro. Abbiamo visto che un ruolo fondamentale viene assunto
dall’ANPAL e dobbiamo tenere conto che l’ANPAL è stata costituita dal d.lgs. del 2015 ma è assoggettata al
Ministero del Lavoro, perché il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali continua ad avere delle
competenze specifiche di indirizzo politico. Quindi, quando si parla di indirizzo politico, si fa riferimento ad
obbiettivi, strategie che si intendono perseguire in materia di politiche del lavoro. Il Ministero del Lavoro ha
anche un’altra competenza: quella del controllo e della verifica del livello delle prestazione che vanno
definite non solo, ad oggi, dallo Stato ma devono essere condivise dalle regioni. Ovviamente, nel momento
in cui sono definite le linee guida in condivisione, il controllo e la verifica dell’applicazione di tali
prestazioni essenziali da garantire su tutto il territorio nazionale spetta al Ministero del Lavoro. Inoltre gli
spetta anche la vigilanza sull’ANPAL e su tutti gli enti che si occupano di politiche del lavoro (INPS, INAIL
e altri…). Nella nostra organizzazione a cascata troviamo dunque il Ministero del Lavoro al vertice e gli altri
enti a scendere. L’ANPAL assume i compiti della direzione generale del Ministero del Lavoro: gestione dei
programmi operativi in materia di formazione e dei servizi del lavoro, progetti cofinanziati dai fondi
comunitari e i compiti assegnati in precedenza dalla direzione generale dei sistemi informativi, innovazione
tecnologica e comunicazione.
Quelli che a noi servono sono 4 compiti, i più importanti:
• il coordinamento dei servizi per il lavoro e quindi l’ANPAL coordina tutti i servizi per il lavoro su tutto
il territorio nazionale sotto il controllo del Ministero del Lavoro;
• gestisce l’ASPI, vedremo essere l’assegno sociale per le prestazioni ai lavoratori disoccupati;
• collocamento dei soggetti disabili, la determinazione delle modalità e dell’ammontare dell’assegno di
ricollocazione;
• sviluppo e gestione integrata del sistema informativo.
Questi sono gli aspetti che più ci interessano, ce ne sono ovviamente anche altri come la gestione dell’albo
nazionale delle agenzie del lavoro, emanazione di atti interpretativi, il monitoraggio delle politiche attive, la
definizione e profilazione degli utenti, tutti aspetti molto importanti ma non per il nostro ragionamento. Per il
nostro ragionamento sulle politiche del lavoro ci interessa focalizzare l’attenzione solo su questi compiti che
sono espressamente attribuiti ad un soggetto specifico e para-pubblico (l’Agenzia Nazionale è para-pubblica
perché il rapporto di lavoro non è completamente pubblicistico).
L’aspetto più qualificante del d.lgs.150 è quello del sistema informativo ora definito “sistema informativo
unitario per le politiche attive”. Questo obiettivo non era nuovo, già altre leggi avevano provato a creare
una banca dati in grado di dialogare e quindi aggiornare automaticamente il dato che gli proveniva dai vari
soggetti coinvolti nella politica del lavoro. Esempio: abbiamo visto che nel mercato del lavoro per essere
efficiente si richiede necessariamente il coinvolgimento di altri soggetti, non soltanto di uno. Quindi, il
datore di lavoro che chiede, che pone un’attività, uno stage, un contratto di lavoro, cosa fa? Sostanzialmente
si rivolge ad un centro per l’impiego oppure attraverso questo sistema informativo dovrebbe pubblicare la
sua offerta di lavoro per coloro che potrebbero essere interessati. Ovviamente qualsiasi tipologia contrattuale
deve essere letta da tutti coloro che potrebbero essere interessati come centri per l’impiego, lavoratore stesso
etc. Ma non è solo questo lo scopo del sistema unitario delle politiche attive, è quello di rendere poi fruibili
queste informazioni anche successivamente e quindi di aggiornare lo status stesso del lavoratore che

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eventualmente risulterà individuato per quella proposta di lavoro. L’offerta viene accettata dal lavoratore che,
dal momento in cui accetta, fa sorgere un obbligo a carico del datore che deve comunicare l’avvenuta
assunzione. Tale dichiarazione di avvenuta assunzione dovrà essere in tempo reale visibile a tutti i soggetti
coinvolti nel mercato del lavoro. Allo stesso tempo, nel momento in cui so che il lavoratore è occupato, tale
informazione potrebbe essere interessante per l’INPS ad esempio e quindi verificare che tipologia
contrattuale è stata proposta e da qui scaturiscono conseguenze ad esempio dal punto di vista contributivo.
Questo sistema informativo ora ha uno scopo molto ambizioso.

INAPP (ex ISFOL) è un istituto estremamente importante anche se è sempre stato sottovalutato. È un istituto
di studio e di ricerca dal quale dovrebbero provenire indicazioni in materia di politiche del lavoro. Parliamo
di obiettivi anche strategici ai quali l’INAPP ha il compito di provvedere. Quale è stato il risultato che
speriamo oggi venga invertito? È quello che il nostro legislatore nazionale tenga conto di queste linee di
indirizzo, quantomeno di queste ricerche effettuate dall’INAPP. Scopo dell’ex ISFOL è quello di andare sulla
realtà del territorio a verificare le tipologie contrattuali, le criticità legate a determinati aspetti del lavoro e
altri. Il passato però dimostra che non sempre queste linee di indirizzo sono state valutate e monitorate.
Quindi il tentativo oggi del d.lgs. 150/2015 è stato quello di ridisegnare le funzioni dell’INAPP
attribuendogli un ruolo almeno di indirizzo e quindi un ruolo che potrebbe essere rilevante in materia di
politiche del lavoro.
???(Italia Lavoro s.p.a. è una società che era stata costituita che aveva diversi compiti che ora vengono dati al
presidente dell’ANPAL. Quello che interessa è l’ISFOL, infatti Obiettivo Lavoro è una società che in realtà
aveva specifici compiti come la gestione dell’albo nazionale delle agenzie del lavoro ma come abbiamo visto
questo compito è poi stato attribuito all’ANPAL e Italia Lavoro svolge ora solo compiti di monitoraggio e di
studio [Italia Lavoro è il vecchio nome dell’ANPAL!!!]).

La vera novità dell’assetto istituzionale-organizzativo dei servizi per l’impiego è stata quella della
individuazione sul piano legislativo del centro per l’impiego. Alcune regioni hanno approvato diverse leggi
regionali volte a definire diversi servizi per l’impiego, alcune di queste hanno anche costituito agenzie
regionali per l’impiego [Le Marche e la Toscana ad esempio]. (Alcuni legislatori regionali la hanno
introdotta).
La definizione di centro per l’impiego è stata introdotta dall’art. 18, comma 1, d.lgs. n. 150/2015. Questo
articolo 18 dice che “Le regioni e le province autonome costituiscono propri uffici territoriali denominati
centri per l’impiego, per svolgere in forma integrata nei confronti dei disoccupati e dei lavoratori beneficiari
di strumenti di sostegno a reddito in costanza di rapporti di lavoro e a rischio di disoccupazione, al fine di
realizzare tutti quei servizi e quelle misure di politica attiva al lavoro utili all’inserimento o al
reinserimento nel mercato del lavoro”.
Primo aspetto fondamentale è la volontà di considerare due diverse categorie di soggetti interessati: i
lavoratori disoccupati (coloro che abbiano svolto un’attività lavorativa) e i lavoratori che beneficiano di
strumenti a sostegno a reddito a rischio di disoccupazione in costanza del rapporto di lavoro. Ci rivolgiamo
dunque non solo a lavoratori cessati dal rapporto di lavoro ma anche solo sospesi. Questo è fondamentale
perché la logica precedente prevedeva che il centro per l’impiego si occupasse solo di disoccupati. Prima i
centri per l’impiego si occupavano anche delle cosiddette liste di mobilità, ormai soppresse, contenenti i
lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria, che quindi non erano ancora cessati completamente
ma erano a rischio di licenziamento. L’idea di base è quella di inserire entrambi i soggetti. C’è un rischio: chi
è in cassa integrazione guadagni è un lavoratore che vede sospeso il proprio rapporto di lavoro ma che
potrebbe anche non ritornare a lavoro per effetto di un provvedimento espulsivo di natura collettiva
successiva. Però fin quando non termina la cassa integrazione in linea potenziale potrebbe essere ancora
ripreso in azienda. Altra novità è che appunto si parla di inserimento (disoccupati) e reinserimento (lavoratori
in cassa integrazione) nel mercato del lavoro perché ci si riferisce appunto a quelle due categorie di
lavoratori. L’art. 18 è la sintesi di come secondo il legislatore dovrebbero coniugare le politiche attive con
quelle passive (È la sintesi perché ci dice che tutti i lavoratori disoccupati, quindi beneficiari di un’indennità
di disoccupazione [politica passiva], e tutti i lavoratori in cassa integrazione, quindi beneficiari di una
integrazione salariale [politica passiva] devono essere inseriti o reinseriti nel mercato del lavoro [politica
attiva]). Questa azione è svolta dal centro per l’impiego ma si tratta di un compito non facile e che non è mai
stato facile. Se si vive in una piccola realtà anziché in una grande realtà territoriale, il centro per l’impiego
farà più fatica ad inserire o reinserire i lavoratori nel mercato del lavoro. Il piano di rafforzamento per i
servizi per l’impiego dovrebbe consentire di rafforzare il centro per l’impiego stesso trovando delle
professionalità, delle competenze necessarie, anche per comprendere i profili professionali che servono per
coniugare i due strumenti: le PA e le PP. Chi fa questo piano di rafforzamento? Stipulazione di convenzioni
tra Regioni e Ministero del Lavoro, significa possibilità eventualmente di operare strumenti quali la mobilità,
il comando, oppure si procede con l’assunzione.

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Navigator: profili che dovrebbero accompagnare, quale soggetto di politica attiva, coloro che risultano
fruitori del reddito di cittadinanza. Dovrebbero consigliare, promuovere opportunità occupazionali ai soggetti
beneficiari, ma chiaramente il personale del centro per l’impiego non era in grado di gestire questa ulteriore
competenza richiestagli e dunque è stato necessario assumere soggetti con competenze specifiche per il
reddito di cittadinanza (il reddito di cittadinanza è uno strumento di politica passiva).
Una delle criticità maggiori del nostro mercato del lavoro è stata la disomogeneità. Ciò significa che ogni
regione, proprio perché la materia era di competenza regionale, a causa della mancata approvazione di quel
referendum (abrogativo-integrativo che voleva riportare tutte le competenze allo stato) è diversa per quanto
riguarda i servizi al lavoro. Le regioni hanno l’opportunità in sede di condivisione di individuare quelle
prestazioni minime per tutte, che devono tenere conto di alcuni standard. Lo scopo è stato quello di
individuare delle linee guide, cioè criteri generali che lo stesso legislatore o quantomeno operatore regionale
deve necessariamente tenere in conto quando procede ad attribuire servizi per l’impiego delle politiche
attive. Quali sono questi servizi basilari?
• (Domanda esame!!!) Patto di servizio personalizzato: ogni regione entro 30 giorni dalla presentazione
della dichiarazione di immediata disponibilità deve sottoscrivere il centro per l’impiego il patto di servizio
personalizzato. Ogni regione (e quindi ogni centro per l’impiego) è tenuta, nel momento in cui ha la
dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro del disoccupato, deve subito convocare lo stesso
disoccupato e sottoscrivere il patto di servizio personalizzato. Questo patto di servizio è importante anche
perché è uno degli elementi base nel reddito di cittadinanza, infatti anche qui il legislatore ha ritenuto
opportuno ribadire che anche il fruitore del reddito di cittadinanza deve sottoscrivere contestualmente il
patto di servizio con il centro per l’impiego. Il patto di servizio è importante perché deve definire il
profilo personale del disoccupato (quali esperienze di lavoro ha già svolto, che ha fatto etc…), poi deve
individuare un responsabile di attività, inoltre devono essere indicate le azioni di ricerca attiva che
devono essere compiute dal disoccupato (es. deve presentare curriculum presso x o y, deve presentarsi
presso l’agenzia del lavoro x per sostenere colloqui, deve essere disponibile a frequentare corsi di
formazione etc…). Il patto di servizio non può essere standard (non deve essere un modulario o un
questionario in cui il soggetto proponente compila) ma deve essere un prospetto che comunque si modella
al disoccupato, poi deve indicare la frequenza ordinaria dei contatti con il responsabile (quante volte ci
vediamo? O ci sentiamo?), poi deve essere anche indicato come il responsabile delle attività possa
verificare che il lavoratore sia effettivamente impegnato nella ricerca attiva del lavoro. Quindi è un patto
di servizio estremamente importante che deve essere adottato almeno nei termini essenziali da ogni
regione. Nulla vieta che le regioni possano aggiungere altri elementi ed aspetti (alcune regioni lo hanno
fatto).
• Altro compito dell’ANPAL è quello di erogare accanto agli ordinari strumenti passivi un assegno
spendibile al fine di ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca di lavoro. In pratica,
oltre al patto di servizio che ogni lavoratore è tenuto a sottoscrivere, un’ulteriore azione che va rafforzare
il patto di servizio in sé è la possibilità di ottenere un assegno da parte del centro per l’impiego. Questo
assegno è concesso solo a coloro che risultano essere disoccupati da almeno 4 mesi. L’assegno serve ad
ottenere un servizio ancora più specializzato, serve a mantenere questa ulteriore attività di ricerca al
lavoro. Non si tratta però di un’indennità o di una somma economica, bensì di un voucher che il centro
dell’impiego riconosce al disoccupato da almeno 4 mesi e che gli serve ad ottenere questa ulteriore attività
di ricerca al lavoro. La competenza dell’erogazione del voucher è del centro per l’impiego ma, nell’ipotesi
in cui il centro per l’impiego non provveda, è possibile la richiesta telematica direttamente all’ANPAL.
Aspetto interessante è che questo assegno è spendibile sia presso i centri per l’impiego che presso i
soggetti accreditati, le agenzie del lavoro per esempio. Il lavoratore non può bypassare il patto di servizio,
quest’ultimo è indispensabile perché il lavoratore si deve sempre rivolgere al centro per l’impiego.
Questo voucher è possibile anche per i beneficiari in costanza del rapporto di lavoro, quindi non solo il
soggetto disoccupato ma anche il beneficiario. Qui però ci sono perplessità: fin quando il lavoratore non è
licenziato dall’azienda è ancora un dipendente. Perciò, consentire al lavoratore in cassa integrazione di
richiedere l’assegno per un’assistenza di ricerca continua di lavoro, stride col fatto che lui è ancora
lavoratore di quell’azienda. Si viene quindi a creare conflittualità tra un soggetto che, in linea teorica, è
ancora lavoratore. Se uno è ancora lavoratore perché gli dai mandato per cercate un altro lavoro? È logico
se io già conoscessi l’esito, ma allora perché lo ha messo in cassa integrazione? Perché non licenziarlo
direttamente? La cassa integrazione servirebbe per superare determinate crisi che l’azienda in quel periodo
ha ma, una volta superata, dovrebbe essere naturale il reinserimento di quel lavoratore in cassa
integrazione in azienda. Qui si da quasi per scontato che il lavoratore verrà licenziato. Eventuali risparmi
vanno a finanziare i servizi per l’impiego e di politica attiva.
[DOMANDA: Può una regione stabilire un patto di servizio nel quale non prevede determinati aspetti
indicati in sede di condivisione di linee guide tra stato e regioni? NO]

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Il d.lgs 150/2015 individua esattamente gli elementi che il patto di servizio deve contenere (le regioni più
virtuose hanno aggiunto elementi, altre si sono attenute esattamente agli elementi determinati dall’art. del
decreto legislativo).

Quello che è importante, una volta chiarita la parte pubblica, è dire che abbiamo un mercato pubblico di
politica attiva del lavoro che si apre velatamente anche al privato. Ma se io non voglio rivolgermi al centro
per l’impiego, ci sono altri soggetti che effettivamente possono adempiere a compiti di intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro? Dal 97 (d.lgs 469/97) è in corso la costruzione di un federalismo
amministrativo, il decentramento di determinate funzioni da stato a regioni, poi alle province e determinate
funzioni amministrative dei servizi al lavoro. Poi quel decreto legislativo del 97, alla luce della sentenza
C-55/96 della Corte di Giustizia Europea, la sentenza Job Centre che condannava l’Italia in quanto uno dei
pochi stati europei a non avere aperto il regime concorrenziale di servizi al lavoro anche a soggetti privati,
agli artt. 10 e 11 aprirà anche a soggetti privati lo svolgimento dei servizi per il lavoro ma specificatamente e
unicamente l’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro. Nel 97 però questa parte del d.lgs.,
nonostante consentiva a privati con determinati requisiti di natura patrimoniale e professionale dei
componenti di queste strutture, non ebbe applicazione pratica perché c’era un problema legato ai vantaggi di
questa attività che avrebbe dovuto svolgere il soggetto privatistico eventualmente costituito. Lo svantaggio
era l’assenza di lucro, cioè il fatto che l’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro veniva
aperta a soggetti privati in possesso di requisiti ma senza fini di lucro. L’idea alla base però era quella di
rispondere ad una richiesta comunitaria che diceva di aprire l’attività di intermediazione anche ai soggetti
privati. Vi erano però funzioni che lo stato escludeva ai privati come ad esempio il controllo delle
informazioni sul mercato del lavoro: ciò voleva dire imporre a questi soggetti privati di trasmettere quelle
informazioni di intermediazione anche allo stato e poi distribuire i fondi pubblici che erano destinati a
finanziare le politiche del lavoro ma non certamente alle agenzia private del lavoro. Questi aspetti erano
necessariamente di competenza statale. Cosa ha fatto il legislatore? Nel corso degli anni accade che viene
introdotta anche un’altra legge: la legge 196/97, molto importante perché introduce il lavoro interinale. Ciò
che è importante è ricordare che la sentenza C-55/96 di Corte di Giustizia del 97 segnerà la fine del
monopolio pubblico. Abbiamo parlato della previsione introdotta dal decreto 469/97 che troverà poca
applicazione, ma in ogni caso il legislatore nonostante il pericolo di abuso di posizione dominante,
continuava a sanzionare penalmente chi svolgeva attività di intermediazione senza autorizzazione o
accreditamento. Quindi la sentenza Job Centre condanna l’Italia per abuso di posizione dominante, in
sostanza assenza di concorrenzialità tra soggetti pubblici e privati; allo stesso tempo il legislatore italiano
prevede la possibilità di consentire, seppur in forma limitata, l’attività di intermediazione a privati in
possesso di requisiti, ma continua a sanzionare penalmente chi svolga attività che risultino essere in contrasto
con quella prevista dal legislatore nazionale (cioè senza autorizzazione e senza accreditamento). La
questione si era posta in termini pericolosi. Soltanto nel 2003, nell’ambito della riforma Biagi, vengono
introdotte due indicazioni: da un lato si dice nella lettera b della legge delega n.30 di perseguire la
modernizzazione e razionalizzazione dell’intervento pubblico con riconferma alle province delle funzioni
amministrative; poi aggiungeva l’ampliamento ai soggetti pubblici di soggetti privati che possono svolgere
attività riconducibili ai servizi per l’impiego, ma ciò è possibile solo dietro presentazione da parte dei privati
di una specifica autorizzazione o accreditamento.
Questo aspetto previsto dalla legge Biagi lo ritroveremo nella riforma del 2003 attualmente vigente e che
individua i compiti delle agenzie del lavoro. Si prova a creare con il d.lgs. del 2003 un mercato del lavoro
definito multipolare perché prevede la presenza di soggetti anche privati, a condizione che il soggetto privato
sia in possesso di una specifica autorizzazione; in più il legislatore riconosce ai soggetti privatistici anche la
possibilità di svolgere determinati servizi al lavoro in virtù di un accreditamento espressamente riconosciuto
dalla regione. Questo impone di capire la differenza tra accreditamento e autorizzazione.
• Autorizzazione: è un provvedimento che tende a rimuovere un divieto che in questo caso è il divieto di
svolgere un’attività pubblica. L’autorizzazione rimuove questo divieto. Il vantaggio introdotto nel 2003 è
che i nuovi soggetti autorizzati non necessariamente svolgono solo attività di intermediazione, ma possono
anche fare altro se ne hanno l’autorizzazione. Possono fare anche, se lo vogliono, attività di
somministrazione di manodopera, possono fare ricerca e selezione del personale, anche attività di
supporto alla riqualificazione professionale (il cd. outplacement). Queste attività, sia congiuntamente che
alternativamente, non possono svolgere attività senza autorizzazione da parte del Ministero del Lavoro.
• Accreditamento: è un provvedimento diverso dall’autorizzazione e non bisogna confonderli. Con questo
si attribuisce semplicemente l’idoneità ad erogare servizi per l’impiego. Un soggetto accreditato è
semplicemente idoneo, sulla base di determinati parametri, a svolgere un determinato servizio che però
resta pubblico.
La differenza è dunque che mentre con l’autorizzazione lo stato si spoglia di una competenza,
nell’accreditamento no. Quindi riconosce solo che un soggetto è eventualmente idoneo a svolgere una

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determinata attività. Molti esempi ci sono in ambito sanitario: molti servizi vengono accreditati come ad
esempio un istituto di analisi cliniche privato in cui la struttura pubblica accredita la struttura privata senza
spogliarsi della sua competenza.
Altra novità è che questi due criteri (accreditamento ed autorizzazione) rendono impossibile lo svolgimento
di servizi al lavoro di natura privata occasionale: se io non ho un’autorizzazione o accreditamento, non posso
svolgere occasionalmente la ricerca di servizi al lavoro per quell’azienda o settore. Come per il d.lgs del 97,
l’attività autorizzata o accreditata non richiede compensi da parte del lavoratore e quindi, anche se il soggetto
privato è autorizzato o accreditato, non è tenuto a chiedere compensi al lavoratore per questo tipo di attività.
Ma se l’agenzia del lavoro non può chiedere compensi al lavoratore, allora qual è il vantaggio per un’agenzia
del lavoro costituita dopo il d.lgs. del 2003? La differenza è sostanziale: nel 97 l’agenzia eventualmente
istituita poteva svolgere solo attività relativa, solo di intermediazione, quindi metteva semplicemente in
contatto domanda ed offerta di lavoro. Di conseguenza ora, cioè dal 2003, è vero che non posso chiedere
compensi al lavoratore però posso chiedere compensi al datore che se mi sottoscrive un pacchetto in cui mi
chiede di andare a fare ricerca e selezione del personale ad esempio, io al lavoratore non posso chiedere nulla
ma al datore si. Se io azienda voglio licenziare un lavoratore, posso chiedere all’agenzia di supportarne la
ricollocazione pagando per sostenergli il reinserimento. Ci sono diverse lettere di licenziamento in cui grandi
aziende sottopongono al licenziato a proprie spese un percorso di aiuto per il ricollocamento professionale
presso agenzia, che lo fa sotto compenso. Questa è la novità: l’agenzia.

Il d.lgs. 276/2003 individua le attività soggette ad autorizzazione:


• somministrazione di lavoro,
• intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro,
• ricerca e selezione di personale,
• supporto alla ricollocazione professionale (outplacement).
In questo decreto viene spiegato in cosa consistono questi 4 punti.
(!) Ci sono poi profili di un certo livello (esempio figure dirigenziali) dove l’agenzia lo supporta anche fin
dopo l’inserimento nella nuova attività. Lo aiuta anche dopo l’assunzione nella nuova realtà produttiva, è un
accompagnamento certamente oneroso.

(!) Per svolgere queste attività, le agenzie devono essere in possesso dell’autorizzazione perché senza non
possono svolgere alcun tipo di attività. Le agenzie del lavoro devono poi essere in possesso di determinati
requisiti di tipo finanziario, giuridico e altri requisiti di professionalità. C’è poi l’obbligo di interconnessione
col sistema informativo del lavoro, pena la decadenza dell’autorizzazione. Quindi le agenzie devono
comunicare tutte le notizie legate all’attività che svolgono (es. stiamo svolgendo attività di intermediazione
per Caio, da domani Tizio sarà sottoposto ad un programma di riqualificazione professionale etc…).

Accanto all’autorizzazione di carattere generale ce n’è un’altra cosiddetta requisiti ridotti. L’autorizzazione
requisiti ridotti presenta alcune particolarità rispetto a quella generale: una per i soggetti che possono
richiederla, due per l’esclusione di alcune attività.
• Sono soggetti che possono chiedere l’autorizzazione requisiti ridotti solo quelli individuati dal legislatore:
• alcuni pubblici: comuni, università pubbliche e private, istituti di scuola secondaria di secondo grado,
camere di commercio;
• altri privati: organizzazioni sindacali, enti bilaterali, patronati, ordine dei consulenti del lavoro e gestori
di siti internet (questi ultimi devono rispettare anche altre due condizioni ovvero: devono svolgere
l’attività senza fini di lucro e devono rendere pubblici i dati identificativi del legale rappresentante).
• Altro aspetto sono le attività escluse perché chi è autorizzato può svolgere solo un’attività, quella di
intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro (può svolgere solo questa funzione).
Quindi l’autorizzazione requisiti ridotti può essere richiesta solo dai soggetti elencati e chi la richiede può
svolgere solo attività di intermediazione. L’obbligo pena la decadenza dell’autorizzazione è quello di
interconnessione alla borsa continua nazionale del lavoro, ovvero al sistema informativo.

Accreditamento: è un provvedimento che serve semplicemente ad assicurare l’idoneità ai servizi per


l’impiego da parte dei soggetti privati. I regimi di accreditamento sono individuati nel rispetto di criteri
definiti con decreto del Ministero del Lavoro previa intesa con la conferenza stato-regioni e sono:
• solidità economica e organizzativa,
• esperienza professionale,
• obbligo di interconnessione con il sistema informativo unitario delle politiche del lavoro.
Altra novità, che non era prevista nel d.lgs. del 2003, è la tenuta di un albo dei soggetti accreditati. Prima i
soggetti accreditati non erano assoggettati ad un albo, a differenza della agenzie del lavoro. La gestione
dell’albo delle agenzie di lavoro è di competenza dell’ANPAL. Quindi le agenzia di lavoro per essere

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autorizzate devono essere iscritte all’albo. La novità è dunque quella dei soggetti accreditati che devono
essere iscritti anche loro all’albo tenuto dall’ANPAL che però, diversamente dal passato, può iscrivere
nell’albo nazionale anche le agenzie per il lavoro autorizzate alla somministrazione e alla intermediazione
nonché le agenzie che intendono operare nel territorio delle regioni che non hanno istituito un proprio regime
di accreditamento. Questo albo diventa molto importante perché, attraverso l’albo. conosco quali agenzie
possono lavorare su tutto il territorio e quali sono quelle regioni.

7 ottobre
Sistema multipolare: abbiamo delle funzioni pubbliche che sono devolute ai centri per l’impiego, servizi di
interesse pubblico che possono essere tanto gestiti da strutture pubbliche, tanto gestiti a soggetti accreditati.
Poi abbiamo servizi per l’impiego svolti da soggetti privati. Facoltà dei soggetti disoccupati da più di 4 mesi
di utilizzare voucher per la ricollocazione.

Le agenzie di somministrazione si occupano, oltre all’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di


lavoro, oltre alla somministrazione e anche della ricerca e selezione del personale (agenzia del lavoro) o
anche di supporto alla ricollocazione professionale, anche dell’attività di inserimento o reinserimento di
lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro. Questa è un’ulteriore possibilità che il legislatore ha previsto a
favore dei lavoratori svantaggiati che subordina alla presenza di alcune condizioni:
• una convenzione che deve necessariamente essere prevista con soggetti pubblici territoriali;
• presenza di un piano di reinserimento o inserimento che deve prevedere anche interventi di carattere
formativo;
• coinvolgimento di un tutor.
• questa attività va indirizzata a soggetti specifici: lavoratori svantaggiati (il legislatore non offre una
definizione se non legandolo alla condizione di disoccupazione). Si impone che l’agenzia di
somministrazione che voglia svolgere attività di ricollocazione e reinserimento nel mercato del lavoro,
debba promuovere l’assunzione col lavoratore svantaggiato con un contratto di lavoro di durata non
inferiore a 6 mesi. Qualora i contratti di assunzione avessero durata non inferiore a 9 mesi, viene
consentito all’agenzia di somministrazione di operare in deroga e la deroga è rappresentata dal trattamento
retributivo: è possibile detrarre il compenso che il lavoratore percepisce come indennità di disoccupazione
per un periodo che è stabilito di 12 mesi.
Abbiamo modo di verificare l’intreccio tra PA e PP: nel momento in cui il legislatore stesso prevede ipotesi
di decadenza: stabilisce, nel caso in cui i lavoratori svantaggiati rifiutino l’avviamento professionale o altre
attività formative, la decadenza dei trattamenti. Anche in questo casi si provano ad introdurre dei meccanismi
di condizionalità.

Quando si può entrare nel mercato del lavoro?


È richiesto il possesso di due requisiti:
• l’aver assolto l’obbligo di istruzione;
• aver compiuto 16 anni di età
+ c’è poi un’eccezione: nel contratto di apprendistato per l’acquisizione e la qualifica del diploma
professionale (apprendistato di primo livello) l’età minima può essere abbassata a 15 anni.
Per contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico, il legislatore ha previsto l’obbligo di frequenza di
attività formative fino al 18esimo anno di età. Ciò non significa che, aldilà dell’obbligo di istruzione
superiore stabilito ai 16 anni, lo stesso soggetto minorenne non debba essere poi quantomeno accompagnato
in un percorso formativo e che gli vada riconosciuto l’obbligo formativo. La stessa legge Moratti (legge n.
53 del 2003) prevede che questo diritto/dovere all’istruzione e alla formazione (percorso formativo) è di 12
anni e comunque fino al compimento del 18esimo anno di età.

Quali sono le vie che devono percorrere i giovani che sono in uscita dall’obbligo di istruzione?
Sono: proseguire gli studi nel sistema scolastico/universitario; accedere al sistema regionale di istruzione e
formazione professionale (percorsi formativi di competenza regionale); apprendistato (regolato dal
d.lgs.81/2015: contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’inserimento dei giovani);
alternanza scuola-lavoro.

Sempre nell’ambito del mercato del lavoro dobbiamo tener conto di principi di carattere generale.
Il datore di lavoro deve:
• rispettare i principi generali in materia di collocamento e avviamento al lavoro;
• rispettare il divieto di indagine e di discriminazione (ciò significa che da un lato non può svolgere indagini
sulle condizioni politiche, religiose o sindacali ai fini della valutazione della capacità personale del
lavoratore e dall’altro non deve porre criteri che possano determinare discriminazioni);

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• visite mediche preventive: l’art. 41 del d.lgs. 81/2008 prevede che il datore di lavoro, ai fini della tutela
della salute e della sicurezza del lavoro, possa richiedere al lavoratore sia una visita medica preventiva o
comunque dopo l’assunzione ma sempre prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Questa eventuale visita
va necessariamente collegata all’assenza di possibili controindicazioni da valutare in relazione alla sua
mansione specifica (mansione alla quale verrà adibito). Queste visite mediche possono essere effettuate
dal datore di lavoro, dal medico competente sul luogo di lavoro o dalle aziende sanitarie locali
(dipartimento di prevenzione delle ASL). Ovviamente non è possibile effettuare visite preventive per
verificare lo stato di gravidanza o condizione legate all’alcol dipendenza o di sieropositività. La visita
serve solo a verificare l’idoneità del lavoratore alla mansione.
• Altro criterio di cui tenere conto è quello della comunicazione da parte del datore di lavoro. In ogni caso
di instaurazione del rapporto di lavoro subordinato o in tutti gli altri casi di lavoro autonomo in forma di
collaborazione coordinata e continuativa o anche di lavoratori di cooperativa, il datore è tenuto a
comunicare 24h prima a quello di instaurazione del rapporto di lavoro al centro per l’impiego. Dal 2007 la
comunicazione avviene in via telematica. Questa comunicazione è fondamentale perché attraverso di essa
si viene a conoscenza dell’avvenuta instaurazione del rapporto di lavoro ma anche degli obblighi
discendenti a carico del datore di lavoro: pensiamo a quelli contributivi o assicurativi.
(!) La comunicazione di assunzione viene fatta anche in caso di tirocinio (stage)? Sì, anche se in questi casi
non si può parlare di rapporto di lavoro ma di esperienza di lavoro. La comunicazione va comunque fatta.
+ Eccezione della comunicazione 24h prima nei casi di urgenza che sono connesse ad esigenze di carattere
produttivo (es. periodo particolare come il Natale: pensiamo ad un’azienda che produce panettoni): il
legislatore in questi casi permette al datore di lavoro di fare la comunicazione entro i 5 giorni successivi,
fermo restando l’obbligo di comunicare sempre il giorno antecedente all’instaurazione del rapporto di lavoro
le generalità del lavoratore e del datore di lavoro e la data dell’inizio della prestazione (Nell’ipotesi di forza
maggiore che impedisce al datore la comunicazione preventiva è possibile effettuare la comunicazione di
avvenuta assunzione il primo giorno utile ma in ogni caso rimane fisso l’obbligo di non superare i 5 giorni
dall’instaurazione del rapporto di lavoro).
• Anche la cessazione del rapporto di lavoro va comunicato al centro per l’impiego ma la comunicazione va
fatta entro i 5 giorni, e non solo la cessazione ma anche i casi di possibile trasformazione (Non
necessariamente si parla di trasformazione tra tipologie contrattuali (es. da tempo determinato a tempo
indeterminato) ma anche nei casi in cui si converte da stage a tipologia di rapporto di lavoro subordinato,
poi nei casi di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda o casi di distacco o trasferimento del
lavoratore). La responsabilità è in capo al datore di lavoro ma il legislatore ammette la possibilità che tale
compito possa essere delegato a soggetti iscritti a casse professionali o possono essere adempiuti da
associazioni di categoria o di datori di lavoro oppure, nei casi di somministrazione, dalle stesse agenzie
del lavoro.

Una delle novità indispensabili per il funzionamento del mercato del lavoro e delle PA e delle PP è la
necessità di far confluire in un’unica comunicazione (al centro per l’impiego) tutte quelle dichiarazioni o
indicazioni che il legislatore impone per i diversi soggetti pubblici. Pensiamo all’INPS in materia di
contribuzione: il rapporto giuridico contributivo sorge per effetto dell’atto di ammissione. Questa
comunicazione è l’atto di ammissione:
• dichiarazione del datore di lavoro che comunica l’avvenuta assunzione di un lavoratore e l’obbligo
nascente dall’assunzione. Si può parlare di una pluriefficacia della comunicazione obbligatoria, tant’è che
la stessa comunicazione vale anche nei casi di assunzione di lavoratori extracomunitari perché in questa
ipotesi la comunicazione va anche inviata alle prefetture (uffici territoriali del governo). Altro obbligo a
carico del datore di lavoro è quello di consegnare una copia della comunicazione obbligatoria al
lavoratore. Tale obbligo può essere assolto dallo stesso datore anche consegnando una copia del contratto
individuale del lavoro in cui risultino presenti: luogo di lavoro, data e inizio del rapporto di lavoro,
inquadramento, orario di lavoro, durata delle ferie, rinvio al contratto collettivo nazionale del lavoro
(importo iniziale della retribuzione), i termini di preavviso in caso di recesso e così via.
• Altro aspetto fondamentale che deve essere comunicato al lavoratore è la destinazione del trattamento di
fine rapporto: una volta consegnata la copia di contratto individuale, va anche consegnata al lavoratore
un’informativa in cui viene indicato un termine, che è di 6 mesi, entro il quale il lavoratore sarà obbligato
ad esprimere una volontà di adesione o meno alla previdenza complementare. Il lavoratore potrà
esprimere il proprio diniego o consenso: nel caso del consenso con la formula del silenzio-assenso, cioè
facendo trascorrere il termine di 6 mesi senza esprimere alcuna volontà (in questo caso aderirà alla
previdenza complementare) e in questo caso il TFR confluirà all’interno della forma pensionistica
complementare; in caso di diniego invece potrebbe eventualmente rifiutare, entro il termine di 6 mesi,
questa possibilità. [TFR=Trattamento di Fine Rapporto].

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Individuati gli obblighi del datore di lavoro che sono incentrati prevalentemente sulla comunicazione di
assunzione e sulla copia del contratto individuale di lavoro, dobbiamo verificare un altro aspetto: sappiamo i
soggetti istituzionali del mercato del lavoro, sappiamo che ci sono soggetti che si occupano di
intermediazione, dobbiamo soffermarci sulla scelta del lavoratore: il datore di lavoro può liberamente
scegliere il lavoratore che vuole assumere?
Oggi la riposta sembrerebbe facile, ma questa scelta è stata solo da qualche decennio consentita al datore di
lavoro perché inizialmente, con la legge sul collocamento del 1949, erano previsti alcuni obblighi:
in primis l’obbligo di iscrizione del lavoratore presso le cd. strutture di collocamento (il lavoratore che era
disoccupato doveva rivolgersi al suo ufficio di collocamento territoriale ed essere iscritto nella lista di
collocamento);
poi c’era la chiamata numerica: in pratica il datore di lavoro, per procedere ad assumere, non poteva
scegliere liberamente il lavoratore ma indicava semplicemente all’ufficio di collocamento il numero, la
qualifica e la categoria dei lavoratori che voleva assumere [es. 5 lavoratori, categoria operai, mansione
cuoco…]. L’ufficio di collocamento utilizzava la lista d’iscrizione dei lavoratori che teneva conto di una
graduatoria parametrata a determinati criteri: i carichi familiari, lo stato di disoccupazione (anzianità di
disoccupazione) e lo stato di bisogno desunto dalla condizione economica familiare. Tenendo conto di questi
tre parametri il lavoratore era inserito nella lista di collocamento in una determinata posizione […Erano
dunque presi i primi 5 della lista, qualunque fosse la loro competenza]. Criticità forte era legata ai costi che
l’azienda era poi chiamata a sostenere perché raramente si verificava una corrispondenza tra chiesto ed
ottenuto e ciò implicava iniziative di formazione, di collocazione e di apprendimento che imponevano
all’azienda costi di un certo peso.
Fu questa la ragione per cui venne prevista la chiamata cd. nominativa: la facoltà del datore di lavoro di
indicare nominativamente i lavoratori che voleva assumere, purché fossero presenti nella lista di
collocamento, sempre organizzata con lo stesso precedente criterio. Questa chiamata nominativa era
completamente diversa perché il datore veniva messo nella condizione di scegliere nominativamente il
lavoratore che poteva possedere requisiti professionali che corrispondevano alla mansione che l’azienda
intendeva coprire. Esisteva anche il cd. passaggio diretto: si tratta del passaggio di un lavoratore da
un’azienda ad un’altra. Questa era riservata ai lavoratori con qualifica elevata. Era prevista anche la cd.
assunzione diretta che però era limitata a pochi casi definiti da parenti stretti o dal coniuge: quando il datore
voleva assumere parenti stretti non c’era l’obbligo di ricorrere all’ufficio di collocamento.
Solo negli anni ’70 questo schema venne sostanzialmente modificato: in parte veniva ampliata la chiamata
numerica (l’area soggetta a chiamata numerica venne ampliata perché si riteneva che la stessa chiamata
numerica potesse assicurare equità nelle assunzioni).
Negli anni ’90 si ebbe un primo cambiamento con la legge sui licenziamenti collettivi del 1991 perché con
l’art. 25 venne prevista la possibilità dei lavoratori iscritti in liste di mobilità di essere chiamati direttamente
dai datori di lavoro, possibilità poi estesa a tutti i lavorati con l’art. 9bis della legge del ’96. Questa
possibilità, oggi chiamata assunzione diretta, è la regola che vige attualmente (è per questo che oggi si
presenta il curriculum) e permette al datore di lavoro di scegliere liberamente il lavoratore che ritiene idoneo
per lo svolgimento dell’attività lavorativa che necessita.
+ Tuttavia c’è un’eccezione: quella del cd. collocamento mirato (dei disabili).
Ci sono poi, in alcuni casi, disposizioni che consentono che una quota di assunzioni sia riservata a
determinate categorie di lavoratori a rischio di esclusione sociale.
Rimangono poi coloro che hanno il diritto di precedenza: possibilità di esercitare il diritto da parte di chi
abbia intrattenuto una tipologia contrattuale, in genere di lavoro subordinato, nel caso in cui il datore di
lavoro intenda procedere a nuove assunzioni per la stessa mansione [Caso tipico è quello del contratto a
termine in cui è espressamente previsto diritto di precedenza per i lavoratori a termine che abbiano svolto
tale attività a tempo determinato per un periodo predeterminato nel caso in cui il datore di lavoro, dopo la
loro cessazione, intendano assumere per la stessa mansione da loro svolta un lavoratore a tempo
indeterminato].

Grafico incrocio tra domanda ed offerta di lavoro (slide).


In determinati momenti storici lo stesso legislatore prova ad incentivare le assunzioni con meccanismi di
sgravio contributivo, fiscalizzazione di oneri sociali, con provvedimenti che quantomeno provano ad
incentivare le assunzioni (PA) da parte dei datori di lavoro sia pubblici che privati.
[Diritti di precedenza: nei casi di part-time, di lavoratori a termine etc…]

Grafico 2: quali sono le tipologie contrattuali impiegate dai datori di lavoro. Nel 2015 c’è stato il picco del
lavoro a tempo indeterminato; nel 2016 abbiamo contratto tempo indeterminato, apprendistato, contratti a
termine e altre tipologie non chiarite. Da qui emerge che il contratto a tempo indeterminato sia la tipologia
che dovrebbe essere ordinaria ma i fatti sono ben altri.

14
Altra regola fondamentale nell’ambito dei centri per l’impiego è quella dell’art.16 della legge del 1987 n.
56: nei casi di lavoratori che possono essere inquadrati nei livelli retributivi per i quali non è richiesto un
titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo (terza media), questi possono essere inseriti in
un’apposita graduatoria tenuta dal centro per l’impiego. La particolarità sta nel fatto che si parla di soggetti
pubblici che possono assumere questi lavoratori. Nonostante ci sia una previsione costituzionale che impone
per l’accesso a tutte le pubbliche amministrazioni tramite concorso pubblico; questi soggetti in possesso di
un titolo di studio non superiore alla scuola dell’obbligo vanno inquadrati solo per mansioni riguardanti la
scuola dell’obbligo (es. bidello di scuola media o asilo comunale). È una figura professionale la cui
mansione è inquadrabile in un livello retributivo che non richiede un titolo superiore a quello della scuola
dell’obbligo. Si tratta di una materia di competenza legislativa concorrente con la regione e ciò significa che
le graduatorie e gli avviamenti a selezione devono essere disciplinati dalle regioni e devono rispettare i
principi generali: adeguata pubblicità della selezione, economicità, imparzialità, adozione di meccanismi
oggettivi e trasparenti ai fini della selezione, rispetto di pari opportunità e composizione della commissione
che deve essere individuata tra soggetti di comprovata esperienza.
Nel 2003 è stata raggiunta una Conferenza Unificata tra Stato e Regione sulla materia, che dice che i principi
sopra indicati, che si trovano nell’art. 55 del Testo Unico sulla Pubblica Amministrazione, son da considerare
fondamentali ai sensi dell’art. 117 Cost. e vincola le decisioni che le regioni potrebbero prendere
autonomamente.

Collocamento Obbligatorio
Si tratta del collocamento che è stato previsto per le categorie “protette”. Dobbiamo considerare che tutte
queste sono categorie che il legislatore rietine meritevoli di disciplina e tutela specifica e particolare e sono:
invalidi civili, del lavoro, di guerra, non vedenti, i sordomuti, i profughi, gli orfani e le vedove dei caduti in
guerra, in servizio o del lavoro. La prima legge per il collocamento obbligatorio è la legge 482/1968, venne
introdotta allo scopo di tutelare quei lavoratori che presentavano deficit estremamente importanti. Si trattava
però di una legge eccessivamente rigida che, solo di recente, ha ricevuto una sistemazione ed una modifica
definitiva; con la legge 68/1999 si introduce il collocamento mirato, ovvero promuovere l’inserimento e
l’integrazione lavorativa delle persone diversamente abili nel mondo del lavoro. L’idea alla base delle legge
del 99 non è solo l’accesso al lavoro, ma è inserimento mirato: utilizzo di strumenti tecnici e di supporto che
possano migliorare la valutazione delle persone affette da disabilità con forme di sostegno, azioni positive,
relazioni interpersonali, quindi di considerare le capacità dei soggetti disabili e di inserirli nel posto ritenuto
più adatto (Qui si parla della collocazione dell’uomo giusto al posto giusto).
Il d.lgs. 151/2015, sempre nell’ambito del Jobs Act, ha introdotto modifiche alla legge 68/99: introduzione di
linee guida che devono essere elaborate dal Ministero del Lavoro e l’intesa con la Conferenza Unificata
Stato-Regioni. Queste linee guida, oltre a promuovere e quindi mobilitare tutti i soggetti che possono essere
interessati e coinvolti, servono a valorizzare le buone pratiche, anche ricorrendo a soluzioni nuove. (es.
possibilità è stata quella della previsione di una responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro)

Soggetti interessati dalla legge 68 del 99 sono: persone affette da minorazioni sensoriali, fisiche o psichiche
o portatori di handicap intellettuale che abbiano una riduzione delle capacità lavorativa superiore al 45%;
invalidi al lavoro con grado di invalidità superiore al 33%; persone non-vedenti e sordomute; altri soggetti
sono gli invalidi di guerra, civili di guerra e invalide per servizio. Sono meritevoli di protezione anche altre
categorie che non presentano un handicap o una particolare disabilità: sono gli orfani e le vedove di caduti
sul lavoro, vittime di terrorismo o criminalità organizzata, i feriti nell’adempimento del loro lavoro/dovere, i
familiari degli stessi, o coloro che risultano essere invalidi permanenti a seguito di missioni compiute dentro
e fuori i confini nazionali. (!!!)

Il collocamento mirato prevede la predisposizione, da parte del centro per l’impiego, di apposito elenco
tenuto dal centro per l’impiego (ufficio specifico: servizi per il collocamento mirato). Il meccanismo alla
base è quello di trovare la persona giusta per il posto giusto e questo si fa prevedendo un comitato tecnico
con una serie di soggetti amministrativi e medici, esperti del settore sociale. che vanno ad individuare per i
soggetti diversamente abili le potenzialità, le inclinazioni e ovviamente il grado di disabilità che hanno.
L’obbligo di assunzione (nel collocamento mirato c’è l’obbligo) varia in base alla consistenza occupazionale
dell’azienda perché l’obbligo è legato alla presenza di lavoratori occupati in azienda:
• 15-35 almeno 1 disabile,
• 36-50 assumere almeno 2 disabili,
• oltre i 50 dipendenti i soggetti disabili dovranno corrispondere al 7% dei lavoratori occupati in azienda.
La disciplina riguarda datori di lavoro con almeno 15 dipendenti e l’obbligo sorge solo in caso di nuova
assunzione, non automaticamente. Tra coloro che sono sottoposti all’obbligo di assunzione, ci sono anche

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soggetti considerati esclusi, ma che, nel caso di specie, sono comunque assoggettati e sono i partiti politici, i
sindacati, organizzazioni senza scopo di lucro; tutte quelle associazioni che operano nel campo della
solidarietà sociale. La differenza è che per questi soggetti l’obbligo di assunzione sorge solo nel caso di
nuove assunzioni.
Quali non sono considerate nuove assunzioni? In primis quelle che l’azienda effettua per sostituire un
lavoratore con diritto alla conservazione del posto; oppure i lavoratori che sono cessati qualora sono stati poi
sostituiti entro 60 giorni dalla cessazione, anche per mansioni diverse; apprendistato o contratto a termine
con tempo non superiore a 18 mesi.
Quali sono i datori di lavoro che non hanno obbligo di assumere soggetti diversamente abili? Sono sia
pubblici che privati che operano in determinate attività: settore edile limitatamente al personale di cantiere;
nel settore pubblico marittimo, aereo e terrestre; le imprese che operano negli impianti a fune e chi opera nel
settore trasporti.
Altra regola è quella dei datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti che, per la pericolosità della
attività lavorativa, possono essere parzialmente esonerati dall’obbligo di assunzione ma devono versare un
contributo esonerativo al fondo regionale previsto per l’occupazione disabili.

11 ottobre
Collocamento dei soggetti diversamente abili
Il collocamento mirato favorisce non semplicemente incontro tra domanda ed offerta di lavoro, ma che
questo incontro tra domanda e offerta di lavoro sia realizzato con strumenti adeguati in considerazione del
potenziale lavoratore che è un soggetto cd. protetto. Per questo motivo il legislatore individua una serie di
strumenti che possono essere d’aiuto ai fini dell’accesso al lavoro di questi soggetti. Si parla di “matching
mirato”: un incontro che qualifica l’accesso al lavoro in considerazione del soggetto che ne andrà a fruire.
Tutti i soggetti diversamente abili sono inseriti in una apposita lista, tenuta dal centro per l’impiego, che
prende in considerazione una serie di requisiti: la capacità lavorativa, decisa da un comitato tecnico che,
prima di autorizzare l’iscrizione del soggetti nella lista, deve verificare dei requisiti, abilità, competenze,
inclinazioni e l’aspetto del grado di disabilità. Una volta effettuata dal comitato tecnico la compilazione di
questa scheda, il lavoratore diversamente abile è inserito in una lista. Già in passato il legislatore aveva
individuato l’obbligo a carico dei datori di lavoro, sia del settore pubblico sia privato, di assumere soggetti
che presentano particolari difficoltà di accesso al lavoro (legge 482/1968: Legge sul collocamento
obbligatorio). Conformemente a quella impostazione c’è la previsione di imporre ai datori di lavoro l’obbligo
di assumere un soggetto diversamente abile il cui numero varia a seconda della dimensione occupazionale
dell’impresa. È espressamente stabilito dalla legge 68 del 99 che: per impresa con 15-35 dipendenti è
obbligatorio assumere almeno 1 disabile; 36-50 assumere almeno 2 diversamente abili; oltre i 50 dipendenti i
soggetti disabili dovranno corrispondere al 7%. La soglia scatta quando l’impresa ha almeno 15 dipendenti.
Il legislatore stabilisce però anche una regola importante: dice che nel caso in cui ci troviamo nella prima
fascia (15-35) l’obbligo scatta soltanto in occasione di nuova assunzione. Altro aspetto importante è quello
dell’art. 3 comma 1 della legge 68/99 che prevede espressamente che, nel caso di partiti politici o
associazioni culturali senza scopo di lucro o che operano nel campo della solidarietà sociale, anche per
costoro sorge l’obbligo di procedere all’assunzione, ma solo in occasione di nuova assunzione, non prima.

Quali sono le nuove assunzioni che non vanno considerate? Es. sono un'impresa con 15 dipendenti e so
che assumendo un nuovo lavoratore mi scatta l’obbligo di assumere il disabile.
Quindi non vengono considerate nuove assunzioni (e quindi non scatta l’obbligo):
• quando si tratta di sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (es. malattia,
infortunio);
• lavoratori che sono cessati dal servizio entro 60 giorni e poi sostituiti anche se con mansioni diverse;
• ipotesi classiche dell’apprendistato (se assumo un apprendista e ho 15 dipendenti non devo assumere
diversamente abile);
• contratto a termine nei termini indicati (almeno 18 mesi).
(!) Altro aspetto da considerare riguarda i datori di lavoro che sono espressamente esonerati da questo
obbligo:
• settore edile (limitatamente al personale di cantiere) [Domanda esame: datore di lavoro che opera nel
settore edile ed ha 15 dipendenti non considerati nell’ambito cantieristico (segreteria, professionisti che si
occupano di ordini, archivio etc…) ha l’obbligo di assunzione di disabile];
• esenzione pressoché completa in tutto il settore del trasporto aereo, marittimo, terrestre con riferimento al
personale viaggiante e navigante;
• impianti a fune;
• autotrasporti (limitatamente al personale viaggiante).
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Ci sono datori di lavoro che per la loro attività possono essere parzialmente esentati perché il legislatore ha
ritenuto che la loro attività sia estremamente a rischio: potrebbero essere problemi legati al lavoro pesante,
faticoso, alta pericolosità e altro [Non totale esenzione, solo parziale!].

Il legislatore va incontro alle imprese in crisi [dal greco: punto di rottura] e ritiene opportuno sospendere
l’obbligo di assunzione a carico di quei datori di lavoro.
Lo stesso avviene per:
• i contratti di solidarietà difensivi (contratti che vengono stipulati non individualmente ma collettivamente
stabilendo delle riduzioni di orario: si fa perché l’impresa è in crisi/per evitare licenziamenti-prendono
parte i sindacati → esonero assunzione disabili) (!!!) che dal 2015 è diventata causale della cassa
integrazione guadagni straordinaria;
• procedure di mobilità: vengono considerati i casi nei quali, dopo il licenziamento collettivo, per le imprese
che occupano più di 15 dipendenti, il legislatore ha previsto la sospensione dell’obbligo di assumere
soggetti diversamente abili per un periodo di 12 mesi [per 12 mesi divieto per il legislatore di assumere
disabili] (la mobilità ormai è stata cancellata e i lavoratori in mobilità percepiscono la NASpI che è la
Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego).

Altro aspetto fondamentale è che quegli obblighi vanno rispettati a livello nazionale. Questo aspetto ha, in
passato, fatto sorgere una grande questione: bisogna capire se un’azienda multi localizzata (più sedi in più
regioni in tutta la nazione) deve rispettare questi obblighi in tutte le sedi, oppure trattandosi di un’unica
impresa, l’obbligo va considerato solo per l’impresa “madre” → compensazione territoriale: possiamo
assumere in una sede del gruppo o unità produttiva un numero di lavoratori che è superiore a quello che
prescritto, portando l’eccedenza a compenso del minor numero di soggetti protetti assunti in altre unità
produttive (l’obbligo è comunque assorto).

Altra questione fondamentale è capire quali sono i soggetti che vanno computati nel numero che il legislatore
stabilisce in 15/35/50. Sono computati tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato; non
vengono calcolati invece:
• i lavoratori diversamente abili (se ho già assunto un disabile ed arrivo a 36 non devo assumere 2 soggetti
disabili) [Domanda: ho 15 dipendenti e assumo un soggetto disabile non per obbligo di legge, devo
assumerne un altro? No];
• soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro;
• i dirigenti;
• i lavoratori assunti con contratto di inserimento;
• i lavoratori assunti con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore (tecnica comunemente utilizzata
dalle imprese quando si trovano al limite);
• soggetti impegnati in lavori socialmente utili;
• lavoratori a domicilio;
• lavoratori occupati con contratti a termine (contratto a tempo determinato) fino a 6 mesi non sono
computati (modalità molto utilizzata al limite) [contratto a termine è senza causale].

Aspetto più critico è come assumere soggetti diversamente abili: l’azienda che deve assumere disabili con
che modalità lo fa? Il decreto 2015 n.151 (uno di quei decreti dell’ambito del Jobs Act) ha introdotto una
serie di modifiche rispetto alla disciplina precedente:
• in primis i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici hanno la facoltà di assumere lavoratori
disabili, quando scatta l’obbligo, mediante richiesta nominativa;
• per il settore pubblico cambia la regola: c’è la richiesta numerica [perché per il settore pubblico vige il
principio del concorso] e si tiene quindi conto dell’ordine in cui il soggetto è situato nella lista, previa
verifica della compatibilità della mansione da svolgere (criteri di trasparenza e di buona amministrazione
esigono che l’amministrazione individui il soggetto diversamente abile dall’elenco del centro per
l’impiego);
• altro aspetto fondamentale riguarda i disabili con menomazioni psichiche: il legislatore ritiene che in
questo caso l’eventuale avviamento al lavoro debba avvenire solo mediante la stipulazione di convenzioni
(il disabile psichico supera tutte le regole precedenti: non può essere chiamato nominativamente perché
deve essere per forza avviato tramite convenzione in cui vengono individuati aspetti che il datore fi lavoro
dovrà assolutamente tenere in considerazione).

Una novità è stata quella di istituire una Banca dati del collocamento mirato in cui devono essere inseriti i
prospetti informativi dei datori di lavoro: è un obbligo che il datore di lavoro deve trasmettere annualmente
perché indica il numero complessivo dei lavoratori occupati nell’azienda e quindi da prospetto si può

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ricavare se eventualmente quell’azienda è assoggettata o meno all’obbligo di assumere disabili. Una volta
inviato, il prospetto va modificato solo nel caso di cambiamenti (assunzioni o altro) e solo in questo caso si
incide sulla quota di riserva.

Convenzione
La convenzione è uno strumento specificatamente previsto per soggetti disabili che presentano menomazioni
psichiche, ma potrebbe essere adottato per assumere ogni soggetto diversamente abile. Ci sono diversi tipi
(ne individuiamo 3), a loro volta suddivisi in sottotipi:
• Convenzioni bilaterali → intervengono 2 soggetti:
1. Convenzione per l’inserimento dei disabili: possibilità di carattere generale. Il datore di lavoro
privato, anziché usare la chiamata nominativa, stipula una convenzione perché con questa ha la
possibilità di: indicare i tempi e le modalità con cui intenderà assumere; individuare
nominativamente i lavoratori che riterrà più vicini alle mansioni che necessita; l’eventuale facoltà di
assumere a termine e la possibilità di svolgere tirocini formativi e di orientamento. Soprattutto però,
questa convenzione consente la possibilità di apporre un patto di prova più lungo rispetto a quello
previsto dalla contrattazione collettiva (normale è 6 mesi, con la convenzione si può allungare.
Questa possibilità può essere utile per il datore di lavoro) [Questa è la convenzione standard].
2. Convenzione di integrazione lavorativa: questione diversa dalla standard perché qui consideriamo
disabili con difficoltà di inserimento. È qui che comprendiamo i disabili psichici. In questo caso si
parla di integrazione perché mira a favorire dei percorsi che facilitano l’accesso al lavoro per il
soggetto diversamente abile e, ovviamente, questi percorsi sono sottoposti al controllo dell’ente
pubblico incaricato alla sorveglianza e soprattutto alla salute del soggetto disabile. Qui stiamo
parlando di una convenzione dedicata a particolari disabili psichici, ma anche di altra natura, che
però necessitano di un percorso di integrazione lavorativa perché non possono essere inseriti a tout
court.
3. Convenzioni con cooperative sociale ed organizzazioni di volontariato: è stata prevista al comma
5 art.11 e prevede l’inserimento di disabili presso cooperative sociali (che si occupano di questo
tema: formazione, integrazione lavorativa dei disabili) ed organizzazioni di volontariato.
• Convenzioni trilaterali → intervengono 3 soggetti: da un lato abbiamo il datore di lavoro che ha un
obbligo (assumere soggetto disabile) e può affidare questo compito ad una cooperativa sociale o ad
un’impresa no profit. Questa cooperativa utilizza le prestazioni di questi lavoratori pero facendo in modo
che questi lavoratori possano usufruire di tutte quelle attività necessarie alla formazione, orientamento.
1. Convenzione di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative
2. Convenzione di inserimento lavorativo
Abbiamo questa differenziazione perché, mentre la prima si rivolge a tutti i soggetti rientranti nel diritto
legato all’avviamento al lavoro, la seconda è rivolta a quei disabili che presentano difficoltà particolari a
essere inseriti nel normale ciclo produttivo.
Aspetto caratterizzante è che il lavoratore disabile è assunto a tempo indeterminato dal datore di lavoro; però
il vantaggio è che, quando stipulo una convenzione con soggetti no profit o cooperativa sociale, l’assunzione
viene fatta direttamente dal soggetto e quindi contestualmente accade che io, datore di lavoro, ho bypassato il
mio obbligo. In pratica il legislatore prevede che nella convenzione il datore di lavoro si deve impegnare ad
affidare alla cooperativa determinate commesse, è un do ut des: qualora il datore fornisse delle commesse
alla cooperativa, allo stesso tempo la cooperativa assumerà l’obbligo di assumere il soggetto disabile. Inoltre
l’art.12bis, prevedendo questa opportunità di prevedere la convenzione per disabili che presentano particolari
difficoltà di inserimento, lo lascia ammissibile solo per quei datori di lavoro che presentano un requisito
dimensionale estremamente rilevante (più di 50) [!].

Art.14 del d.lgs. n. 276/2003 (riforma Biagi): prevede un’ulteriore possibilità alla bilaterale e trilaterale, non
disciplinata dalla legge del 99. Si tratta di una riproposizione della convenzione trilaterale: è previsto il
conferimento di commesse all’impresa sociale. Le peculiarità rispetto alle altre convenzioni sono però: i
criteri di individuazione dei lavoratori che vanno inseriti; valore complessivo delle commesse e altre. È una
convenzione sottoposta a limiti molto più stringenti rispetto a quelle del 99. Criterio distintivo è l’essere
ancora più stringente perché impone limiti ben precisi, indicati nell’ambito della convenzione; altro aspetto
fondamentale è la possibilità di estendere la convenzione anche a soggetti svantaggiati e non
necessariamente disabili.

Una volta assunto, o direttamente con sottotipi di convenzioni bilaterali o indirettamente con la trilaterale, al
disabile riconosciamo:
• il diritto al normale trattamento economico e normativo degli altri lavoratori (art.10 l.n. 68/99);

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• il lavoratore, una volta rispettata la quota di riserva, non necessita di contratto a tempo indeterminato
standard, potrebbe anche essere con contratto di apprendistato o con contratto a tempo parziale (part-
time);
• patto di prova legittimo per la Corte Costituzionale, purché si rispettino condizioni particolari.
Un aspetto molto delicato è quello del licenziamento: cosa accade se devo licenziare un soggetto
diversamente abile? Per non incappare in ragioni di carattere discriminatoria si ritiene che il licenziamento è
accettabile in presenza di giusta causa e giustificato motivo ed in particolare di perdita di ogni capacità
lavorativa o aggravamento di invalidità tale da determinare la definitiva impossibilità di reinserire il disabile
all’interno dell’azienda, anche attuando le possibili modifiche all’organizzazione del lavoro, accertata dalla
commissione medica insediata presso le Asl.
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo → legato solo alle condizioni di carattere soggettivo del
lavoratore. Abbiamo un limite perché se poniamo la questione sulla capacità di lavoro, questa capacità va
accertata dalla commissione medica. Nasce unicamente criticità per condizioni e capacità di lavoro.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo → è di per se non legato alle condizioni del lavoratore, ma è
legato all’attività e all’organizzazione del lavoro dell’azienda. Si ritiene che il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo è ammissibile solo come rimedio estremo, solo come estrema ratio.
Posso licenziare un lavoratore disabile? Ci sono due orientamenti dottrinali molto importanti:
1. Basandosi sull’art. 4 comma 4 legge 99 → per i lavoratori disabili che, divenuti tali per malattie o
infortunio, non sono in grado di svolgere le mansioni per i quali erano stati assunti, è previsto che il
datore di lavoro gli attribuisca diversa mansione o equivalente alla precedente o, in mancanza, inferiore e
che il soggetto diventato disabile ha diritto al trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
2. Basandosi sull’art. 10 comma 3 → qualora c’è incompatibilità dello stato di salute del già disabile con
le mansioni che gli vengono affidate: in questa ipotesi posso licenziarlo per giustificato motivo
oggettivo? La dottrina ritiene che bisogna garantirgli tutte le garanzie procedurali e di natura sostanziale
che sono garantite per tutti gli altri lavoratori. Anche per il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, il datore deve garantire l’obbligo di repêchage (ripescaggio), adibirlo prima di licenziarlo a
mansioni diverse e, in ultimo, eventualmente licenziarlo [Posso procedere al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo? Sì, ma dovrò prima rispettare tutte le garanzie procedurali previste per i
non diversamente abili].

14 ottobre
La legge n. 68 del 99 prevede due norme specifiche per i lavoratori diversamente abili:
• art. 4 comma 4: prevede specificatamente che i lavoratori che diventano disabili per malattie o infortunio
[sono divenuti disabili nel mentre del rapporto di lavoro] possono essere adibiti a mansioni equivalenti,
ovvero anche a mansioni inferiori. Qualora si verificassero ipotesi di questo tipo, il lavoratore diventato
disabile ha diritto al trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza);
• art. 10 comma 3: nel caso in cui si verifichino due ipotesi, quest’ultime possono legittimare il datore di
lavoro o a sospendere il rapporto o prevedere la sua cessazione. Trattandosi di un soggetto disabile, il
legislatore prevede garanzie sostanziali e anche di natura procedurale.
• prima ipotesi legata sostanzialmente ad assicurare l’imparziale accertamento di incompatibilità alle
mansioni e l’idea che c’è alla base è che, prima di procedere ad un eventuale procedimento espulsivo, si
prova a verificare l’accertamento delle condizioni di salute e quindi l’avvenuta incompatibilità.
• altra ipotesi è quella della sospensione non retribuita del rapporto di lavoro: il legislatore stabilisce che
il datore di lavoro, finché c’è questa incompatibilità alla mansione in correlazione all’aggravarsi della
salute, può disporre e concedere l’aspettativa non retribuita al lavoratore. Ammette lo stesso legislatore
il licenziamento solo nel caso in cui l’aspettativa non è servita a recuperare le energie e il suo stato di
salute.
In generale, quando parliamo di lavoratori disabili, dobbiamo tenere presente se applicare o meno la regola
prevista per lavoratori non diversamente abili. La regola è che, in caso di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare l’impossibilità del lavoratore ad essere adibito a mansioni
equivalenti: si chiama obbligo di repêchage. Nel caso del lavoratore diversamente abile, l’obbligo di
repêchage non è sufficiente (si potrebbe celare un’ipotesi fraudolenta) e quindi la legge del 99 prevede sul
datore di lavoro l’obbligo di prevedere una sospensione del rapporto di lavoro: un congedo, un’aspettativa
non retribuita e solo dopo aver eventualmente svolto questa attività formativa, il datore di lavoro verifica
l’impossibilità alla mansione e poi potrebbe intimare il licenziamento.

Altra regola importante che fa saltare un po’ il banco e quella del termine: nel caso di cessazione del
rapporto di un lavoratore, il datore deve comunicare al centro per l’impiego l’avvenuta cessazione entro 5
giorni. Per il lavoratore diversamente abile cambia la regola perché il datore di lavoro deve comunicare il

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licenziamento o le dimissione al centro per l’impiego entro 10 giorni dall’avvenuta cessazione del rapporto
di lavoro. Questo è importante perché deve essere sostituito con un altro lavoratore al fine di rispettare la
quota di riserva (Nel momento in cui sono legittimato a licenziare un soggetto diversamente abile, lo
licenzio, do la comunicazione; la comunicazione permette agli uffici di procedere con la sostituzione) [il
datore di lavoro deve sempre la quota di riserva].

Un’altra regola importante deriva dai licenziamenti collettivi.


I licenziamenti collettivi sono intimati nei confronti di più lavoratori, almeno 5, e devono riguardare imprese
con più di 15 dipendenti. Nell’ipotesi di il licenziamento collettivo, o del licenziamento individuale per
giustificato motivo oggettivo, ove ci fossero soggetti diversamente abili, questi eventuali licenziamenti
risulterebbero annullabili nell’ipotesi in cui il numero di lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore
alla quota di riserva. Questo perché, anche qui, si vogliono evitare pratiche fraudolente [Dunque, quando si
procederà ad un licenziamento collettivo, laddove ci fosse disabili, devo verificare se il numero dei lavoratori
occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva].

L’obbligo che è in carico al servizio collocamento disabili (ufficio del centro per l’impiego) è che devono
comunicare, con una cadenza mensile, alla direzione territoriale del lavoro il mancato rispetto degli obblighi
di assunzione di lavoratori disabili. Qui scattano poi le sanzioni di natura amministrativa e l’obbligo di
assumere il soggetto, oltre il caso degli esoneri. Ricordiamo che c’è una differenza sul piano sanzionatorio: il
legislatore sanziona diversamente le aziende private e gli enti pubblici economici rispetto alle pubbliche
amministrazioni.

Formazione professionale
Argomento molto importante nell’ambito delle politiche attive. Entra in gioco in diversi momenti dell’attività
del soggetto perché con formazione professionale ci si può riferire a diverse attività: al primo inserimento nel
mondo del lavoro, all’aggiornamento, c’è il perfezionamento, la riqualificazione professionale per qualsiasi
attività professionale. Primo aspetto importante è che la formazione professionale dà luogo ad un’attività
formativa dalla quale poi si conseguono titoli di studio o formativi, diversi da quelli di istruzione sia
secondaria sia a livello universitario. Abbiamo due norme costituzionali riferite alla formazione
professionale: l’art. 35 comma 2 (“La Repubblica cura la formazione e l'elevazione professionale dei
lavoratori”) e soprattutto l’art. 117 comma 3 che attribuisce alle regioni la competenza esclusiva in materia
di formazione e istruzione professionale. Primo aspetto fondamentale da evidenziare è dunque che si tratta di
una materia di competenza esclusiva della regione e che quindi interviene subito dopo il percorso di
istruzione obbligatorio e quello secondario, ed eventualmente universitario, individuato dal legislatore
statale. Sono stati diversi i provvedimenti in merito: inizialmente abbiamo avuto una legge importante,
possiamo dire la prima sulla formazione professionale, la legge quadro del 1978 che, per la prima volta,
introdusse il concetto di politica attiva. La formazione professionale è finalizzata ad interventi che mirano
alla riqualificazione professionale. Ipotizziamo la cessazione del rapporto di lavoro: in questo momento
interviene lo strumento passivo (la NASpI), ma per essere percepita, l’indennità di disoccupazione, è
subordinata alla frequenza di percorsi di aggiornamento e riqualificazione professionale. Il legislatore, già
nel 1978, si era reso conto delle potenzialità che la formazione aveva (quella post-istruzione secondaria/post-
università).
Quali sono stati i limiti della legge del 78? Ne ebbe diversi: in primis la riforma contava sulla realizzazione
di una parallela riforma della scuola e dell’università che però non venne alla luce (la prima fu nel 2000); poi
l’idea che la materia non fosse attraente per la contrattazione collettiva e di conseguenza veniva
espressamente riservata a tipologie contrattuali (una era l’apprendistato e l’altra era il contratto di
formazione-lavoro [abrogato]. Il contratto di formazione-lavoro aveva questa duplice anima: non solo di
inserimento lavorativo, ma anche di formazione del lavoratore all’interno dell’azienda). Per molto tempo la
formazione era ridotta a mero addestramento pratico, sostanzialmente legato all’attività da svolgere e per
molti anni l’aspetto ancora più negativo era legato alla percezione che gli strumenti passivi non dovessero
avere anche la funzione di incentivare il lavoratore ad aggiornarsi e riqualificarsi professionalmente.
La successiva legge n. 196 del 1997 ebbe invece effetti maggiori rispetto alla legge del 78 perché stabilì
l’accreditamento per tutti quei soggetti che operavano nell’ambito della formazione nel sistema regionale e
stabilì la certificazione delle competenze nei percorsi di formazione professionale. La legge del 97 (molto
conosciuta - la cd. legge Treu) riscrisse anche alcuni aspetti dell’apprendistato. Poi pose le basi per la
costituzione dei fondi inter-professionali per la formazione continua e infine previde anche una formazione
professionale per i lavoratori somministrati (all’epoca si chiamavano interinali).
Dove c’è un’attenzione maggiore? Nella legge n. 53 del 2003 perché, con la riforma Moratti, vengono
stabiliti due sottosistemi: da un lato un sistema statale di istruzione secondaria superiore e dall’altro un
sistema regionale dell’istruzione e della formazione professionale.

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Quali sono le norme della riforma Moratti che tentano di ridisegnare la formazione professionale? In primis
c’è l’obbligo di istruzione per almeno 10 anni (il soggetto deve essere formato dallo stato); nell’ambito del
sistema educativo furono introdotte indicazioni di un certo livello sulla collocazione della formazione
professionale (quando deve intervenire) e stabilì l’obbligo formativo fino ad almeno 18 anni. Infine l’art. 1
comma 662 legge 296/2006 prevede che i percorsi svolti dal sistema regionale possono accogliere i giovani
dopo la scuola media e accompagnarli per 2 anni nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione. L’opera di
puntualizzazione della materia formativa è stata poi continua, sia dal punto di vista del legislatore sia perché
deve seguire il percorso di vita del lavoratore, ed ha individuato e distinto diversi percorsi: istruzione e
formazione professionale, istruzione professionale e formazione professionale superiore, apprendistato,
formazione professionale dei disoccupati e la formazione continua.
• Percorsi di istruzione e formazione professionale: sono diventati ordinamentali, cioè disciplinati con un
decreto ministeriale, l’11 novembre del 2011. La competenza rientra nella competenza esclusiva della
regione, quindi sono realizzati dalla regione e dalle agenzie formative pubbliche e private accreditate o
istituti professionali di stato, ai quali le regioni accreditano queste attività. Non solo la regione può
accreditare un soggetto privato per svolgere questo tipo di percorso, ma potrebbe devolverlo anche ad un
istituto di scuola professionale. C’è un accordo tra Stato e Regioni del 2011 che definisce in maniera
dettagliata questo percorso, in particolare stabilisce le figure nazionali e diplomi professionali che possono
essere conseguiti frequentando questi percorsi. Altro aspetto importante è che questi percorsi hanno
validità su tutto il territorio nazionale (ecco perché sono stati riconosciuti e intercalati in D.M.).
• Percorsi di istruzione professionale e formazione professionale superiore: la novità è che c’è una
formazione di livello terziario non universitaria. In pratica, il legislatore ha previsto l’intervento di istituti
tecnici superiori, quindi ha introdotto la possibilità di istituire dei poli tecnici-professionali, i quali
possono eventualmente rilasciare, in quanto competenti, titoli di studio. In più però può anche proporre
corsi professionalizzanti non necessariamente rivolti ai giovani che frequentano l’istituto di istruzione ma
anche ad altri soggetti. Questo percorso è lasciato al legislatore nazionale che offre un’opportunità
ulteriore (qui la regione entra in gioco relativamente).
• (!!!) Formazione professionale dei disoccupati: misura fondamentale. Lo prevede il d.lgs. 150/2015 che
introduce misure di politica attiva finalizzate a favorire percorsi per l’inserimento dei soggetti disoccupati,
anche attraverso l’avviamento ad attività di formazione ai fini della riqualificazione e formazione
professionale. Come viene fatto? Con il Patto di Servizio, che è la condizione per continuare a ricevere
l’indennità di disoccupazione. Una volta che l’istituto previdenziale concede la NASpI poi vuole
virtuosismo del lavoratore, quindi il soggetto deve partecipare a tutte le attività di formazione e
riqualificazione professionale e queste attività sono possibili con la sottoscrizione del patto di servizio.
Sappiamo che c’è anche l’assegno di ricollocazione per il beneficiario della NASpI e per il disoccupato da
almeno 4 mesi.
• Formazione continua: riconosciuta al lavoratore in costanza di attività lavorativa. Ci sono due possibilità
che il legislatore ha previsto: o il finanziamento da parte della pubblica amministrazione, o il
finanziamento a fondi paritetici inter-professionali [Il fondo inter-professionale per la formazione continua
promuove attività in materia di istruzione e formazione professionale al fine di conseguire un titolo
professionale? No, perché devono unicamente svolgere attività di formazione continua e di aggiornamento
professionale; lo possono fare o la pubblica amministrazione o la regione o altri]. Altro aspetto
fondamentale è il fondo europeo, quella della regione è una competenza di base. Seconda azione è quella
dei fondi inter-professionali per la formazione continua. Avviata con la legge Treu che consentiva, alle
parti sociali, di costituire dei fondi di formazione professionale finanziando questi fondi attraverso una
contribuzione a carico del datore di lavoro e dei lavoratori. Attualmente è ancora vigente ed esistono in
diversi settori professionali. Il fondo inter-professionali per la formazione continua è un fondo che viene
finanziato dalle parti sociali con un contributo espressamente previsto dal contratto collettivo, la misura
del contributo è fissata per legge (legge del 1978) allo 0,30% e, questo fondo, eroga formazione continua
ai datori di lavoro che aderiscono. È un obbligo aderire? Nel caso in cui il datore di lavoro non aderisse, è
comunque previsto il versamento di una contribuzione all’istituto previdenziale.

Attività di formazione: come viene certificata? Abbiamo sostanzialmente due possibilità: una è quella
dell’apprendimento permanente, l’altra è quella della certificazione delle competenze. La differenza
sostanziale ci è stata indicata dalla Legge Fornero del 2012.
• Apprendimento permanente intendiamo qualsiasi attività intrapresa dalle persone in modo formale, non
formale ed informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le
competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale ed occupazionale (art. 4 comma 51 legge
92/2012).
• Apprendimento formale: conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica professionale o
diploma professionale;

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• apprendimento non formale: scelta intenzionale della persona che si realizza, al di fuori dei sistemi
educativi classici, in ogni organismo che persegua scopi educativi e formativi.

18 ottobre
Alternanza scuola-lavoro
Dobbiamo considerare questo nuovo strumento e cercare di capire come classificarlo. Noi sappiamo per
certo che non viene considerata come tipologia contrattuale di lavoro (neanche i tirocini), e quindi come
possiamo qualificarla? Il d.lgs. del 2005, che aveva appunto introdotto inizialmente questo strumento che è
l’ASL, lo definiva come “metodologia didattica”. Quando si parla di metodologia didattica subito viene in
mente che si tratta di una competenza statuale (esclusiva dello stato), dato che stiamo parlando del sistema di
istruzione di base, non professionale. Ricapitolando, parliamo di una metodologia didattica rivolta alla
fascia di studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età [Ricordiamo la regola della riforma
Moratti: obbligo di istruzione per 10 anni].
L’idea nel 2005 era dare ad uno studente, che aveva compiuto il quindicesimo anno di età e che quindi era
ancora nel bel mezzo del percorso obbligatorio di studi (che arriva a 16 anni), la possibilità di alternare
studio e lavoro. Alla base dell’idea del legislatore del 2005 c’era semplicemente il voler creare una strada
virtuosa tra lo studio e l’esperienza lavorativa, tenendo presenti le esigenze degli studenti: l’obiettivo era
dunque coniugare due mondi (scuola e lavoro) che a volte non parlano, non dialogano e non interagiscono.
Ma come mai non comunicano tra loro? Perché il nostro sistema d’istruzione è basato su una riforma
piuttosto datata e solo negli ultimi si sono avvicendati tentativi di promuovere una scuola che fosse più
vicina alle esigenze del mercato del lavoro. La riforma del 2005 voleva dunque permettere questo dialogo.
Solo nel 2015, dieci anni dopo (quindi l’alternanza non è così recente), il legislatore ha modificato
quell’orientamento perché per dieci anni questa metodologia didattica era stata poco utilizzata, essendo
facoltativa, e poco diffusa: parliamo della possibilità data agli istituti di istruzione superiore di promuovere,
in via facoltativa, agli studenti iniziative di carattere lavorativo, che non sfociassero in tipologie contrattuale,
ma semplicemente legate alle esperienze di lavoro, che per 10 anni è rimasto sostanzialmente inattuato (solo
gli istituti professionali sfruttavano questa opportunità, ma loro erano legati a determinate ore di didattica
obbligatoriamente destinate all’esperienza lavorativa; tutti gli altri istituti non erano interessati anche per le
difficoltà nel coniugare i due percorsi).
Solo con la cd. “Buona Scuola”, nel 2015 con la legge n. 107, l’alternanza diventa obbligatoria (alcuni
furono estremamente d’accordo; da altri fu invece considerato un limite). Quello che è importante
evidenziare è che l’alternanza scuola-lavoro riceve una regolamentazione completa a differenza del 2005,
dove si dava semplicemente una facoltà agli istituti di istruzione superiore.
La Buona Scuola prevede che nell’ultimo triennio delle superiori, obbligatoriamente, la possibilità di
svolgere un percorso di studio in determinate realtà che possono essere aziende, enti locali, musei, istituzioni
pubbliche e private. Sono quantificate dallo stesso legislatore le ore: 200 ore per i licei, 400 per gli istituti
professionali. Nasce qui la prima questione criticata: perché questo distacco orario così significativo?
Perché viene fatta l’alternanza? Il legislatore risponde così: per incrementare l’opportunità di lavoro e
soprattutto per l’orientamento dello studente. Allo studente, che spesso è catapultato in una realtà, privata o
pubblica, che ha scelto relativamente, è richiesto di fare un’esperienza e capire cosa avrà interesse a fare da lì
a poco. Da un punto di vista non teorico è una grandissima opportunità perché, al di là dell’attività richiesta,
ciò permette allo studente di escludere attività e di conoscere meglio altre (se vengo inserito in una struttura
es. archivio di stato e mi danno mansioni, dopo 200 ore capisco a quale tipo di lavoro potrò aspirare).
Altra novità è che le ore utilizzate in alternanza sono considerate ore di studio/lezione e che può essere svolta
oltre l’orario scolastico ed anche all’estero. Questo è un altro aspetto chiarito dalla legge del 2015, perché nel
2005 non si capiva se l’alternanza dovesse svolgersi all’interno dell’orario di lavoro o fuori, nell’orario
scolastico o al di fuori. Il legislatore del 2015 suggerisce invece un aspetto molto importante: di ritenere che
le ore di alternanza fanno parte del POF (Piano Offerta Formativa) che ogni scuola deve proporre. La legge
prevede anche un registro nazionale presso le Camere di Commercio con tutte quelle imprese ed istituzioni
interessate a svolgere questi percorsi di alternanza. Sono due gli aspetti che a noi interessano sotto questo
profilo: a chi spetta la competenza, e noi sappiamo che spetta al dirigente scolastico che deve poi redigere
una scheda di valutazione sulla struttura e ulteriore novità è la Carta dei diritti e dei doveri, che è
fondamentale per evitare abusi e deviazioni dal modello “standard”. I diritti rispetto agli strumenti
dell’alternanza sono ad esempio il diritto alla pausa per lo studente; ma ci sono anche doveri come il
presentarsi in orario, rispettare le indicazioni fornite, mantenere atteggiamenti rispettosi ed altri (non sono
aspetti banali, sono anzi molto importanti). Reale novità è proprio la formulazione di questa Carta dei diritti e
doveri. Il Ministero dell’Istruzione, dopo la legge del 2015, emana una circolare dove prende posizione sulla
qualificazione dell’alternanza scuola lavoro. Per il legislatore del 2005 si trattava di una metodologia
didattica che doveva essere poi eventualmente proiettata verso il pratico. La circolare del 2015 parla di una
“opportunità formativa” e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali. Se la circolare precisa un
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aspetto di questo tipo significa che timore di possibili abusi su questo strumento. Dunque l’idea alla base è
quella di un apprendimento mediante un’esperienza di lavoro (l’apprendimento presuppone già delle
conoscenze e quindi questa definizione cambia un po’ le carte in tavola. Questo è il problema per cui si
discute molto sull’alternanza scuola-lavoro, perché questa circolare voleva togliere dubbi ma in realtà ne ha
aggiunti ulteriori. Altro aspetto delicato sono i tutor: uno dovrebbe essere interno alla scuola, l’altro esterno,
presente nel luogo che accoglie gli studenti. C’è qui il problema che gli studenti ricevono poi una sorta di
valutazione dai due tutor (uno della scuola ed uno del luogo ospitante). Dal 2017 l’esperienza dell’alternanza
può essere presentata anche come tesina per l’esame di maturità. Dal 2019, con l’entrata in vigore del nuovo
esame di maturità, l’esperienza dell’alternanza costituire uno dei requisiti di accesso.
Qual’è il problema dei tutor? La valutazione: il fatto che io sottoponga lo studente alla valutazione di un
tutor esterno. Come valuterà questo tutor esterno? Su quali basi? Questo è un altro limite, sarebbe stato più
logico che la valutazione fosse lasciata unicamente al tutor scolastico, sulla base di eventuali indicazioni del
tutor esterno. Però subordinare una valutazione al tutor esterno significa un po’ condizionare anche lo
studente che si trova a non poter rifiutare tale valutazione, è un confronto a basi inique.
Le percentuali delle scuole che hanno fatto alternanza sono molto aumentate: nel 2005 erano solo il 54%
(fondamentalmente istituti professionali e tecnici) e si è passati al 96% con l’obbligatorietà.
Dove hanno fatto alternanza gli studenti? Principalmente nelle imprese private (36,1%) dove hanno svolto
esperienza lavorativa in ambito privato; poi c’è stata la possibilità, per alcune scuole, di svolgere questa
attività con l’impresa simulata o svolgendo attività esterne (la stessa scuola fa alternanza al suo interno)
(12,4%); nel settore no profit (7,6%); nelle Pubbliche Amministrazioni (8,5%) e per il restante percentuale in
studi professionali, ordini, associazioni di categoria.

Garanzia Giovani
Altro aspetto da ricordare è la Garanzia Giovani, una raccomandazione del 2013, che nasce dall’idea unitaria
di offrire ai giovani disoccupati, o che sono usciti dal sistema di istruzione formale (percorso obbligatorio di
studi), un’informazione sui percorsi futuri di studio, di apprendistato o tirocinio o altra misura di formazione.
Qui stiamo parlando di un’attività che vuole coprire un’area “molto ampia” perché non parla solo di
formazione, ma anche di tipologie contrattuali come ad esempio l’apprendistato. Qui l’idea è quella di
rendere il giovane cosciente dei percorsi che potrebbe intraprendere nel futuro, che potrebbero essere o un un
percorso che va informato/qualificato, quantomeno ridefinito perché il sistema di istruzione non corrisponde
al mercato oppure percorso contrattuale. Quindi, quattro mesi da quando sono usciti dal mercato del lavoro
(disoccupati) oppure i giovani usciti dal sistema di istruzione formale. Questa raccomandazione prevede una
fascia di età per i giovani: dai 15 ai 29 anni. Questo perché sono i cosiddetti Millennials che secondo l’UE
vanno indirizzati verso alcuni percorsi. I NEET (Not in Employment, Education or Training) sono un altro
modo per definire la categoria a cui si riferisce la Garanzia Giovani. In Italia, con un d.l. del 2013, abbiamo
dato attuazione alla raccomandazione comunitaria. L’articolo 5, in particolare, prevede due aspetti: il primo
richiama sostanzialmente tutti i contenuti e gli obbiettivi della raccomandazione comunitaria; il secondo
promuove l’intervento sul mercato del lavoro, in particolare sui centri per l’impiego, che dovrebbero essere
quantomeno quelli incaricati di individuare questa domanda e proponendo l’offerta formativa adeguata. Il
piano di attuazione, approvato nel 2013 ed attuato in sé nel 2015, ha ricevuto critiche ed elogi. Gli aspetti più
critici sono stati un po’ nella conclusione che il nostro legislatore ha adottato nel momento in cui lascia ai
centri per l’impiego il compito di individuare questi soggetti. Questo perché prevede una serie di
informazioni che vengono racchiuse in otto azioni (!) [Siamo prima del Jobs Act e dell’istituzione
dell’ANPAL]. In pratica, i centri per l’impiego, già problematici, si trovano a dover gestire anche la Garanzia
Giovani e gli si richiede di svolgere otto azioni difficili da realizzare che sono:
• accoglienza e profiling. Il problema era la stipulazione del patto di servizio ed, anche qui, entra in gioco la
definizione di un percorso personalizzato. Ma avere un percorso personalizzato significa avere
competenze di personale, all’interno del centro per l’impiego, che sia in grado di orientare il ragazzo a
percorsi, a volte anche lavorativi.
• Offerta di tirocinio e di orientamento;
• oppure offerte di lavoro a tempo indeterminato o contratto a termine dai 6 ai 12 mesi o contratto a termine
con durata superiore a 12 mesi, accompagnata da bonus occupazionale per il datore di lavoro;
• poteva proporre un’offerta di apprendistato;
• oppure può proporre al giovane l’attività di inserimento nel servizio civile;
• può proporre un percorso di avvio di impresa;
• interventi finalizzati ad incentivare la modalità transnazionale;
• infine l’inserimento in percorsi di formazione professionali o di istruzione, per completare gli studi o per
specializzarsi professionalmente.
L’unica azione che è stata attuata è il percorso di formazione [Domanda: quando si parla di Garanzia Giovani
si intende solo percorsi di formazione? No, non prevede solo quello, sarebbe tutt’altro].

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Nel 2014 il Piano viene rafforzato prevedendo in primis la possibilità al giovane di inserire le proprie
informazioni personali e soprattutto di sceglierai la Regione a cui chiedere l’erogazione dei servizi. La
Garanzia Giovani riceve ovviamente un finanziamento poiché idea comunitaria e quindi è come se l’Europa
dicesse che verranno finanziati gli stati che offriranno questi determinati servizi. Quindi, con questo accordo
Stato-Regioni si definiscono le 2014 le linee guida e si da l’opportunità al giovane di individuare la Regione
dove vuole fare questo corso o attività. Entro 60 giorni la Regione lo indirizzerà verso un operatore che gli
erogherà i servizi di orientamento, realizzerà la profilazione e stipulerà poi il patto di servizio, che diventa
elemento centrale perché ci consente di individuare le azioni che il centro per l’impiego può proporre sulla
base del profilo del candidato.

21 ottobre
Politiche passive
Dobbiamo ricordare che si tratta di prestazioni che hanno natura previdenziale, vengono distinte in due
diverse tipologie: tutele esterne ed interne.
• Tutele esterne: servono ad assecondare la circolazione dei lavoratori e la mobilità dello stesso lavoratore,
anche intersettoriale. Sono diverse. La più importante è l’indennità di disoccupazione (NASPI). F
• Tutele interne: finalità diversa dalla tutela esterna. Servono a favorire la stabilità del rapporto di lavoro
perché intervengono nel mentre del rapporto, non quando il rapporto è già cessato, come fanno invece le
tutele esterne.

Tutele Interne
Si tratta di una sospensione del rapporto di lavoro e questi strumenti di tutela interna sono le cd. integrazioni
salariali. Dobbiamo capire perché un rapporto che è sospeso discenda da esso l’obbligazione retributiva a
favore del prestatore d’opera (lavoratore subordinato). Il diritto del lavoro si dota di un’eccezione rispetto al
diritto privato: il fatto che il contatto di lavoro, pur essendo sinallagmatico, alla mancata prestazione di una
parte non sempre fa corrispondere l’annullabilità del contratto. Se io voglio adempiere ma non ricevo la
controprestazione non si annulla il contratto, perché? Perché mira alla conservazione del posto di lavoro.
Sia che intervenga dal lato datoriale che del lavoratore, una delle prestazione può essere non adempiuta ma
ciò non significa che il contratto sia risolvibile (esempi sono la maternità, l’infortunio). Qui il legislatore non
dichiara l’estinzione del contratto. Sul versante datoriale questo accade ad esempio quando abbiamo la cassa
integrazione: il lavoratore vorrebbe svolgere la sua parte, ma il datore non riesce a compiere la sua che è la
retribuzione, magari perché l’azienda è in crisi o in ristrutturazione. Dunque nelle tutele interne il rapporto è
in essere, è solo sospeso, e nel mentre della sospensione il lavoratore ottiene un’integrazione salariale. Le
tutele interne sono di tre tipi: cassa integrazione guadagni ordinaria, cassa integrazione guadagni
straordinaria e i fondi di solidarietà bilaterali (altra ipotesi ormai in esaurimento è la cassa integrazione in
deroga: può essere considerata superata).
Perché si ricorre alla cassa integrazione? È uno strumento che viene utilizzato nelle nostre aziende. Le ore
totali utilizzate tra CIGO, CIGS e Cassa in deroga nel 2015 dava un risultato, rispetto all’anno precedente,
negativo (-33,6% rispetto al 2014), significa che ci sono state meno integrazioni.
• Cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO): tutela la disoccupazione parziale, ovvero la
sospensione temporanea dell’attività o riduzione dell’orario di lavoro. Entrambe queste cause devono
essere causate da eventi transitori (es. calamità naturale) o situazione temporanee di mercato non
imputabili a imprenditori o lavoratori (es. crisi di mercato). Anche dopo il d.lgs. 148/2015 (sempre i
decreti a seguito del Jobs Act) sono stati confermati due interventi di integrazione salariale: la cassa
integrazione ordinaria e straordinaria ed in entrambi i casi viene confermata la funzione della cassa
integrazione, ovvero consente di garantire un sostegno a reddito a seguito di riduzione dell’orario o di
sospensione dell’attività lavorativa. Non è vincolata a limiti dimensionali; è però legata a limiti di
carattere soggettivo perché il campo di applicazione è soggettivamente definito dal legislatore (non tutte le
imprese possono ricorrervi: possono ricorrere le imprese industriali di trasporto, installazione impianti,
cooperative, imprese edili, industriali etc…). Quello che è importante ricordare sono le causali di
intervento. Nella maggioranza dei casi sono quasi tutte incluse. Hanno durata relativamente breve (max 13
settimane consecutive, possono essere prorogate trimestralmente fino a 52 settimane massimo [1 anno]).
La procedura per ricorrervi è di natura gestionale: deve prevedere una comunicazione che il datore è
tenuto a fare alle rappresentanze sindacali aziendali o in mancanza ad associazioni più rappresentative a
livello nazionale. In questa comunicazione preventiva da inviare a rappresentanze sindacali dobbiamo
indicare causa, durata, numero dei lavoratori interessati; poi segue su richiesta delle parti un esame
congiunto perché il legislatore ritiene necessario che ci sia un confronto tra le parti che in questo caso
(differentemente dal licenziamento collettivo: le rappresentanze possono proporre varianti al
licenziamento) consiste banalmente in un confronto che potrebbe anche proporre delle soluzioni
modificative, ma non delle varianti alternative. L’intera procedura deve concludere massimo entro 25

24
giorni dalla data della comunicazione preventiva; se si arriva fino a 50 dipendenti i giorni scendono a 10.
Una volta esaurita la procedura, il datore può presentare domanda telematica all’istituto previdenziale
dove va indicata la durata (13 settimane etc), i nominativi dei lavoratori e le ore che andiamo a richiedere.
È importante che questa comunicazione con tutte le informazioni siano trasmesse dall’INPS a tutti gli enti
interessati attraverso sistema unitario.
• Cassa integrazione guadagni straordinaria: regola diversa perché assoggettata a limiti dimensionali. La
sua concessione limitata a imprese che occupano mediamente più di 15 dipendenti (inclusi i dirigenti e gli
apprendisti). Ampio campo di applicazione. Differenza oltre il limite è la causale, perché qui si tratta di
causali incisive sull’attività produttiva perché la CIGS può essere chiesta solo per far fronte a
riorganizzazione aziendale o crisi aziendale o per effetto della stipulazione di contratti di solidarietà (solo
queste tre). Sono tutte causali diverse da quelle della CIGO perché, mentre in questa sono temporanee, per
la CIGS sono strutturali (Ratio della CIGO è quella della ripresa dell’attività produttiva proprio perché
temporanea). La CIGS potrebbe anche portare a licenziamento collettivo piuttosto che alla ripresa
dell’attività. Per ogni causale d’intervento il legislatore ha stabilito diversi presupposti:
• La riorganizzazione aziendale presuppone che il datore abbia un piano di intervento in cui deve
contenere dati (fondamentalmente gli investimenti che vuole effettuare) e eventuale attività di
formazione dei lavoratori per correggere l’inefficienza. La durata massima è più ampia rispetto alla
CIGO, qui si parla di massimo 24 mesi, continuativi o in un quinquennio mobile.
• La crisi aziendale deve contenere un piano di risanamento (avranno perdite) e la durata è massimo 12
mesi, anche continuativi. Una volta scaduta la prima autorizzazione, non si potrà effettuare nuovamente
se non dopo un periodo pari a due terzi di quello relativo alla precedente autorizzazione.
• Il contratto di solidarietà difensivo si ispira al principio di solidarietà, ma non individuale. Non è come
un part-time ad esempio, qui è un contratto da stipularsi collettivamente e stabilisce una riduzione di
orario di lavoro. Il datore potrebbe accordarsi con le rappresentanza sindacali (unica possibilità) al fine
di ridurre l’orario di lavoro per una collettività di lavoratori. Il legislatore consente, quando legittima
questo contratto di solidarietà, all’azienda di chiedere la CIGS. La riduzione media oraria non può
essere superiore al 60% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati al
contratto di solidarietà. La durata massima è di 24 mesi in quinquennio mobile o continuativo. La
durata massima definitiva può raggiungere anche i 36 mesi ma non per le imprese edili.
Anche la CIGS è sottoposta ad una procedura di concessione, amministrativa. Questa prevede una
comunicazione preventiva, che è molto importante in questo caso, che deve contenere numero dei
lavoratori, causali e altro. Anche qui è previsto l’esame congiunto entro tre giorni dalla predetta
comunicazione. I termini sono di 25 giorni o 10 giorni per le imprese che occupano fino a 50 dipendenti.
Quello che è interessante è che la domanda di concessione del trattamento di integrazione salariale va
presentata entro 7 giorni dalla procedura di consultazione sindacale e va correlato con elenco nominativo
dei lavoratori. Accanto alla domanda di CIGS vanno dunque allegate delle documentazioni, l’impresa
dovrà poi procedere alla comunicazione.
[Dunque è importante ricordare che CIGO e CIGS si differenziano per limiti dimensionali, presupposti,
procedura quasi identica tranne qualche termine per l’esame congiunto, l’aria di attività è diversa, durata è
diversa, causali diverse]
Ci sono poi principi comuni di CIGO e CIGS.
• Destinatari: chi ha diritto? Sono esclusi i dirigenti e lavoratori a domicilio; sono inclusi tutti gli altri
lavoratori, compresi gli apprendisti, tutti quelli con contratto di lavoro subordinato. I dirigenti entrano
però in gioco per il numero [Domanda esame: i dirigenti sono computati nel numero dei lavoratori per i
quali è possibile chiedere CIGS? Sì (!!!) / Dirigenti prendono CIGS? No (!!!)].
• Altro aspetto fondamentale comune è stato introdotto dal d.lgs.148: anzianità di effettivo lavoro di
almeno 90 giorni [Domanda esame: tutti i lavoratori possono accedere a CIG? a) tutti; b) i lavoratori che
hanno almeno 90 giorni di anzianità lavoro effettivo. Risposta corretta è b)]. Questo requisito non è
previsto per gli eventi oggettivamente non evitabile: si riferisce quindi in genere alla CIGO.
Altra regola importante: non tutti i contratti di apprendistato sono annessi alla Cassa Integrazione Guadagni,
solo quello professionalizzante [Esistono tre tipi di contratti di apprendistato: 1) contratto per l’acquisizione
della qualifica e diploma professionale di primo livello; 2) apprendistato di secondo livello
(professionalizzante); 3) apprendistato di terzo livello (alta formazione e ricerca). Per gli apprendistati di
primo e terzo livello la CI non è prevista.] può ricevere la CIG.
Altra particolarità è che l’apprendistato può venire sospeso o ridotto: è un apprendistato che ha una durata,
quando viene sospeso il periodo deve essere comunque prorogato in misura corrispondente. Nel momento in
cui fruisce delle ore di CIG dovrà, a attività ripresa, recuperare quelle ore.

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Misura dell’integrazione salariale
L’integrazione salariale ammonta all’80% della retribuzione globale (massima che posso ricevere) comprese
fra le ore zero e il limite dell’orario contrattuale. Altra novità è che il trattamento di integrazione salariale
percepiti sostituisce l’indennità di malattia. Abbiamo detto che sia CIGO sia CIGS non possono superare i 24
mesi. Il pagamento viene anticipato dall’impresa e poi sarà rimborsato dall’INPS attraverso il meccanismo
dei conguagli tra i contributi dovuti e quelli corrisposti. CIGO e CIGS prevedono, come regola generale, che
siano anticipate eventuali integrazioni salariali dal datore, il quale poi riceverà il conguaglio nel momento in
cui verserà i contributi. Ci sono però due casi in cui, sia per CIGO che CIGS, può essere autorizzato il
pagamento diretto ai lavoratori senza passare per il datore: sono i casi in cui ci sono serie e documentate
difficoltà finanziarie dell’impresa. Nella CIGO, l’INPS può autorizzare il pagamento direttamente; nella
CIGS il permesso deve arrivare dal Ministero del Lavoro.

Fondi di solidarietà bilaterale


Per quale ragione sono necessari? La cassa integrazione guadagni (sia O che S) individua le imprese e le aree
a rischio. Esistono delle aree che sono scoperte dall’integrazione salariale e non hanno la possibilità di
richiederla. Ragione legata al fatto che non tutte le imprese sono indicate e a queste ultime spetta il fondo. Le
aree scoperte, nel corso degli anni, sono state diverse: settore assicurativo, aziende bancarie, determinati
settori di monopoli di stato, poste e telecomunicazioni. Nel 1996, per porre rimedio a questa assenza, con la
legge 662 il legislatore previde la facoltà [non l’obbligo] di costituire fondi di solidarietà alla contrattazione
collettiva. Veniva riconosciuta alla contrattazione collettiva, nei settori non coperti da CIG, la possibilità
attraverso il contributo sia datoriale che del lavoratore, di ricevere integrazione del reddito (natura
mutualistica). Queste ipotesi le hanno seguite anche altri settori (es. poste). Questo fa pendant con altri
strumenti di natura contrattuale che il legislatore ha riconosciuto nel corso degli anni, come i fondi di
pensione, i fondi sanitari integrativi, fondi di solidarietà bilaterali e welfare aziendale che può nascere anche
contrattualmente. Tutti questi strumenti li abbiamo inseriti in un contenitore che prende il nome di
previdenza contrattuale, cioè una previdenza che nasce da accordi contrattuali in virtù di disposizioni
espressamente stabilite dal legislatore nazionale per tutelare un bisogno socialmente rilevante. Quando
parliamo di bisogno socialmente rilevante intendiamo bisogni che rientrano nell’art. 38 comma 2 Cost.:
questi eventi sono la vecchiaia, l’infortunio, malattia e disoccupazione involontaria.
Come sono istituiti questi fondi? Nascono sulla base di un decreto del Ministero del Lavoro e Politiche
Sociali, ma questo decreto non fa che recepire un accordo contrattuale sottoscritto a livello nazionale dalle
rappresentanze sindacali indicativamente più rappresentative. Abbiamo due novità fondamentali: mentre nel
1996 era facoltativo, dal 2012 sono diventati obbligatori nei settori scoperti; altra novità introdotta dal
d.lgs.148 riguarda l’ampliamento dei beneficiari del fondo di solidarietà perché prima, non essendoci
obbligatorietà, non era previsto. Novità nell’ampliamento: mentre nel 2012 era obbligatorio solo per le
imprese che occupavano mediamente più di 15 dipendenti, dal 2015 anche le imprese che occupano
mediamente più di 5 dipendenti Ulteriore novità è che, oltre alla CIG, i fondi di solidarietà possono
prevedere finalità ulteriori e possono offrire anche una tutela integrativa a prestazioni connesse alla perdita
del posto di lavoro. Quindi il fondo interviene non solo obbligatoriamente sulla tutela interna, ma
facoltativamente, se ha disponibilità finanziaria, anche per la tutela esterna. Può anche prevedere assegni
straordinari nell’ambito di processi di agevolazione all’esodo per persone prossime al pensionamento (settori
di un certo livello) [Domanda: il fondo di solidarietà è obbligato a erogare assegni straordinari di
agevolazione all’esodo? No]. (!) Unico obbligo è riconoscere integrazione salariale, come le CIG]; potrebbe
contribuire il fondo a finanziamento di programmi formativi. [Domanda: oltre a riconoscere integrazione
salariale può fare altro? Sì, ma è facoltativo]

Il d.lgs.148 non solo conferma l’impianto dato nel 2012, ma aggiunge altri tipi di fondi di solidarietà: FdS
obbligatorio, alternativo, residuale (oggi sostituito dal salariale), territoriale e facoltativi [Ma i FdS possono
essere costituiti solo sulle aree scoperte dalla CIG? NO]
• Ordinario: obbligatori nei settori scoperti da CIGO e CIGS per le stesse causali.
• Alternativo: costituiti in settori tipici in cui si opera la bilateralità che è a favore di soggetti che stipulano
contratto collettivo (l’artigianato è il settore principale in cui opera la bilateralità, ma non è l’unico). In
linea generale sono uguali agli ordinari, cambia la contribuzione.
• Residuale: opera nei casi in cui le imprese non vi provvedano nonostante ne abbiano l’obbligo. Ci sono
imprese del settore magari non convinte, nonostante ci sia l’obbligo. Non sono previste sanzioni tranne
quella della confluenza nel fondo di integrazione residuale istituito dal Ministero del Lavoro.
• (!!!) Salariale, sostituisce il residuale: interviene per quelle imprese che, pur avendo l’obbligo, non
hanno stabilito fondo di integrazione ordinario, stabilito dal legislatore ed istituito dal Ministero del
Lavoro. A differenze dell’ordinario, può riconoscere o assegno di solidarietà (assegno previsto solo per
datori con fino a 15 dipendenti e per eventi di sospensione o riduzione del lavoro verificatesi a decorrere

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dal primo luglio 2016) o assegno ordinario (datori con mediamente più di 15 dipendenti. In questo caso la
durata viene stabilita in 26 settimane in un biennio e le causali sono le stesse di CIG e CIGS, con
eccezione di CIGS perché solo in caso di riorganizzazione e crisi aziendale).
Ci sono principi comuni per i fondi di solidarietà: alla base sono le due prestazioni riconosciute dal
legislatore ovvero l’assegno ordinario e di solidarietà.
L’assegno ordinario è simile a quello della CIGO, è infatti previsto per una durata non inferiore a 13
settimane e non superiore alle durate massime previste per CIGO e CIGS (24 mesi). Qui devono essere le
parti a stabilire la durata complessiva, il legislatore stabilisce solo il termine minimo. La prestazione standard
viene riconosciuta da fondo di solidarietà bilaterale. Tempo di erogazione parte da una base di 13 settimane
ma è variabile, non ci sono limiti massimi che invece sono stabiliti per CIGO E CIGS.
L’assegno di solidarietà viene garantito dal fondo di integrazione salariale. I fondi di solidarietà prevedono
una riduzione dell’orario di lavoro al fine di evitare licenziamenti plurimi. L’assegno di solidarietà interviene
nei casi di contratti di solidarietà: in quei settori scoperti da ammortizzatori sociali pubblici, non possono
ricorrere all’integrazione del contratto di solidarietà e quindi, attraverso il fondo, l’azienda che non rientra
nella CIG, può richiedere la causale per integrare la riduzione oraria (Es. io stipulo contatto di solidarietà al
70% e il 30% lo chiedo al fondo di solidarietà). Questo può intervenire solo in due casi: per evitare
licenziamenti collettivi o per evitare licenziamenti plurimi oggettivi. Può essere corrisposto per un periodo
massimo di 12 mesi in un biennio mobile (differenza rispetto al contratto di solidarietà difensivo). L’assegno
di solidarietà cambia quindi per durata e soggetto che la riconosce; cambia poi in relazione alle motivazioni
che devono essere due tranne licenziamento plurimo, perché non è previsto per contratto solidarietà per
CIGS. I fondi possono erogare prestazioni ulteriori (!!!) [Differenza tra CIGS e assegni di solidarietà è nella
durata e nel soggetto che la riconosce].
Il fondo di solidarietà intersettoriale previsto solo per le province autonome di Trento e Bolzano: un fondo
solo per loro intersettoriale territoriale.

Meccanismi di condizionalità
Dobbiamo capire come le politiche passive riescono a smuovere il lavoratore.
(!!!) Sono previsti alcuni meccanismi di condizionalità all’art. 22 del d.lgs. n. 150/2015: «Ai lavoratori
dipendenti per i quali la riduzione di orario connessa all'attivazione di una procedura di sospensione o
riduzione dell'attività lavorativa per integrazione salariale, contratto di solidarietà, o intervento dei fondi di
solidarietà di cui agli articoli 26 e 28 del decreto legislativo adottato in attuazione dell'articolo 1, commi 1 e
2, della legge n. 183 del 2014, sia superiore al 50 per cento dell'orario di lavoro, calcolato in un periodo di
dodici mesi, devono essere convocati in orario compatibile con la prestazione lavorativa (se lavorano), dal
centro per l'impiego con le modalità ed i termini stabiliti con il decreto di cui all'articolo 2, comma 1, per
stipulare il patto di servizio personalizzato di cui all'articolo 20 (...)»
Bisogna ricordare i presupposti per cui interviene il patto di servizio. Prima condizione è che sono destinatari
del patto di servizio anche coloro che ricevono l’assegno ordinario dal fondo di solidarietà. Domanda esame:
patto di servizio per il lavoratore che percepisce l'assegno ordinario da un fondo di solidarietà? Sì, si intende
questo quando si parla di intreccio tra Pa e Pp. Ma come fanno ad intrecciarsi? Non solo i destinatari di
CIGO e CIGS ma anche quelli dei fondi di solidarietà bilaterali hanno l'obbligo di presentarsi al centro per
l’impiego per stipulare il patto di servizio ed altra condizione è che (!!!) la riduzione dell’attività lavorativa
deve essere superiore al 50%, se fosse inferiore potrebbe non essere indispensabile convocarlo.
I) Primo obbligo è dunque la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato (che presuppone una serie
di attività come l’obbligo di essere convocati una volta al mese, l’obbligo di presentare i curricula etc…)
II) Avviamento di attività: il lavoratore in queste condizioni deve essere avviato anche a iniziative e
laboratori di carattere formativo o altre iniziative di politiche attive, ovvero alle attività socialmente utili
(attività che potrebbero essere indicate da ente pubblico o locale, come attività di giardinaggio o simili).
III) Assegno di ricollocazione: stiamo parlando di lavoratori nel mentre della prestazione lavorativa e il
lavoratore che è in CIG può richiederlo. Ma dove viene ricollocato? Finche non termina la CIG lui è
ancora dipendente dell’azienda, ma il legislatore riconosce questo assegno con procedura tipica (!!!)
Sono previste sanzioni, ed anche questa è una novità.
Sono previste le seguenti sanzioni:
a) in caso di mancata presentazione alle convocazioni ovvero agli appuntamenti di cui al comma 1 e mancata
partecipazione alle iniziative di orientamento di cui all'art. 20, comma 3, lettera a), in assenza di giustificato
motivo:
1) la decurtazione di un quarto di una mensilità per la prima mancata presentazione;
2) la decurtazione di una mensilità, per la seconda mancata presentazione;
3) la decadenza dalla prestazione per la ulteriore mancata presentazione;
b) in caso di mancata partecipazione alle iniziative di cui all'articolo 20, comma 3, lettera b), ovvero alle
iniziative di cui all'articolo 26:

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1) la decurtazione di una mensilità per la prima mancata partecipazione;
2) la decadenza dalla prestazione per la ulteriore mancata presentazione.
Dunque, se il lavoratore non fa quello che gli è richiesto, come presentarsi attivamente e partecipare ad
attività formative, potrebbe anche rischiare di perdere il trattamento di integrazione salariale. Inoltre, in caso
di violazione degli obblighi di cui al comma 3, trovano applicazione le disposizioni di cui all'art. 21, che
prende anche il recupero dell’INPS delle somme indebitamente percepite, la responsabilità disciplinare e
contabile del funzionario responsabile, il versamento delle risorse non erogate in relazione a prestazioni
oggetto di provvedimenti di decurtazione o decadenza per il 50 per cento al Fondo per le politiche attive,
possibile ricorso all’ANPAL.

25 ottobre
Tutele esterne
In primis dobbiamo ricordare che, in linea generale, hanno la particolarità di essere tutele riconosciute dopo
la cessazione del rapporto di lavoro, a differenza delle tutele interne. Le esterne assecondano la mobilità
intersettoriale e la circolazione del lavoratore: ciò significa che, intervenendo nel momento in cui cessa il
rapporto di lavoro, il legislatore prova a riconoscere al lavoratore un sussidio che possa consentire di far
fronte alle esigenze causate dall’assenza di reddito.
Quali sono queste tutele esterne? Sono diverse, ma sicuramente la più nota è l’indennità di disoccupazione
che, dopo la riforma d.lgs. n. 22/2015, ora si chiama NASpI (Nuova assicurazione sociale per l’impiego).
Abbiamo poi altre forme di disoccupazione, ad esempio rimane l’indennità speciale prevista per la
disoccupazione edile. Invece, è stata prevista in via strutturale una indennità di disoccupazione per i
collaboratori coordinati e continuativi, ora denominata DIS-COLL. Infine è stata prevista un’indennità di
mancato avviamento per lavoratori del settore virtuale; sono state poi previste anche delle prestazioni
emergenziali, sempre in caso di disoccupazione involontaria; in ultimo, l’assegno di disoccupazione che però
è stato soppresso a seguito dell’entrata in regime del reddito di cittadinanza, entrato in vigore nel 2019.
Come abbiamo visto anche nella CIG, nell’agosto del 2016 sono state presentate richieste di ASpI, Naspi e
disoccupazione e mobilità che hanno portato ad un aumento dell’1,9% rispetto al mese di agosto 2015, il che
fa capire che quando aumenta l’indennità di disoccupazione significa che ci sono più cessazioni del rapporto
di lavoro. Il dato evidenzia quindi un ricorso maggiore causato da licenziamenti o figure affini.

NASpI
Inizialmente, la Naspi era disciplinata da un regio decreto del 1935, si richiama qui all’art. 38 Cost: la
disoccupazione volontaria è un evento espressamente previsto. Si tratta di quegli eventi che il legislatore
costituzionale prevede a favore del lavoratore quando si trovi in stati di bisogno e nelle situazioni di bisogno
indica anche la disoccupazione involontaria. Dopo il regio decreto c’è stata una parziale modifica della
disciplina vigente dalla riforma Fornero del 2012, fino ad arrivare al d.lgs. 22/2015 che rientra nell’ambito
del Jobs Act (legge delega del 2014). Il legislatore ha ripreso l’impianto previgente riconoscendo l’indennità
di disoccupazione a requisiti ordinari, l’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola a requisiti ridotti,
l’indennità speciale in edilizia e l’indennità di mobilità. L’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola
e l’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola a requisiti ridotti sono stati accorpati in un’unica
forma di sussidio di disoccupazione che era inizialmente denominata dalla riforma Fornero come ASpI
(Assicurazione Sociale per l’impiego) e, successivamente, il d.lgs. 22/2015 lo ha denominato Naspi [i
requisiti sono cambiati in minima parte].
Cosa stabilisce la Naspi? L’articolo in questione è l’ 1 del d.lgs. 22 del 2015 che prevede il riconoscimento di
un’indennità che ha funzione di sostegno a reddito del lavoratore disoccupato, si parla però sempre di
disoccupazione involontaria. I soggetti destinatari della Naspi sono i lavoratori subordinati, compresi gli
apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa, nonché il personale artistico, teatrale e cinematografico. Invece,
sono esclusi dalla disciplina diversi soggetti: i lavoratori a tempo indeterminato della Pubblica
Amministrazione, gli operai agricoli a tempo determinato ed indeterminato, i lavoratori extracomunitari con
permesso di soggiorno di lavoro stagionale. Dunque, per questi soggetti la Naspi è preclusa. La Naspi
richiede requisiti di assicurazione e di contribuzione. Una delle novità del 2012 con la riforma Fornero è
stata quella di assorbire l’indennità di disoccupazione ordinaria a requisiti ordinari con quella a requisiti
ridotti in un’unica prestazione; così, il legislatore, in ragione di questa unificazione, ha previsto dei requisiti
più ampi: hanno diritto alla Naspi coloro che sono in stato di disoccupazione, e quando si parla di stato di
disoccupazione ci si riferisce alla dichiarazione che il lavoratore deve rendere presso il centro per l’impiego.
Quindi la prima condizione é essere in stato di disoccupazione, ma non è sufficiente, infatti occorre
manifestare questo status. Secondo requisito è di natura assicurativa: coloro che possono far valere, nei
quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno 13 settimane di contribuzione contro
la disoccupazione. Ciò significa che, quando un lavoratore subordinato è assunto presso un datore di lavoro
privato (per quelli pubblici tranne i lavoratori pubblici a termine), quest’ultimo è tenuto a corrispondere una
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contribuzione, anche per l’indennità di disoccupazione. In sostanza il legislatore chiede, nei quattro anni
precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, un requisito di natura contributiva di 13 settimane. Questi
soggetti possono far valere trenta giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di
disoccupazione. Sono quindi requisiti di natura contributiva e assicurativa. Per il calcolo della Naspi occorre
poi rispettare un reddito di riferimento: si tiene conto del reddito che il soggetto ha percepito negli ultimi
quattro anni (si tiene conto della retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni) e si
divide per il numero delle settimane di contribuzione e viene moltiplicato per un coefficiente fisso (4,33).
Nel momento in cui si determina il reddito di riferimento (la retribuzione), quest’ultima può essere pari o
inferiore. Se la retribuzione mensile così calcolata risulta essere pari o inferiore ad un importo prestabilito
dallo stesso legislatore (che viene rivalutato ogni anni. Ad esempio nel 2015 ammontava a 1195€ mensili),
l’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione; se invece la retribuzione mensile risulti essere superiore
a questo importo prestabilito, in questo caso si calcola sempre il 75% e a questo si aggiunge un ulteriore
25%. Il legislatore ha fissato un importo massimo che ammonta a circa 1300€ [In sostanza il legislatore
impone un limite massimo, annualmente rivalutato, che tiene conto della retribuzione che è stata percepita
dal lavoratore negli ultimi 4 anni]. In ogni caso (nel 2015) l’importo massimo mensile era di 1300€
(rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie
degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente) e non si può superare. In più il legislatore,
modificando quanto era stato previsto dalla riforma Fornero che riduceva l’indennità in relazione all’età
anagrafica, prevede una diversa riduzione della Naspi: prevede che ogni mese, a decorrere dal quarto mese di
fruizione (91º giorno), la Naspi si riduce del 3%. Questo accade perché l’indennità di disoccupazione è un
meccanismo di sostegno a reddito che deve però accompagnare e spingere il lavoratore alla ricerca di un
altro posto di lavoro. Per quanto concerne la durata, anche quest’ultima viene considerata in maniera non
predeterminata perché considera le settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni. In particolare é
corrisposta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro
anni (ipotizziamo che in quattro anni io ho sempre lavorato in maniera regolare ciò significa che avrò diritto
alla metà delle settimane di contribuzione e quindi durerà 24 mesi. Si parla di contribuzione e ciò significa
che questi contributi devono essere effettivamente versati, non è sufficiente aver lavorato per quei quattro
anni). Altro aspetto importante di cui bisogna tener conto è che non vengono considerati nel calcolo delle
settimane degli ultimi quattro anni, le settimane di contribuzione in cui sono state erogate le prestazioni di
disoccupazione, questo perché sappiamo che la NASpI, essendo un’indennità di disoccupazione, fa fronte ad
uno stato di bisogno del lavoratore, dunque è a carico dello Stato che viene incontro anche con il
riconoscimento di una contribuzione figurativa nel periodo di erogazione dell’indennità (figurativa perché
risulta che il lavoratore stia lavorando quando invece non lo fa). Sulla decorrenza della NASpI non è
cambiato nulla rispetto alla disciplina precedente: la NASpI inizia a decorrere dall’ottavo giorno successivo
alla data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro, ma la domanda deve essere presentata entro l’ottavo
giorno. Dunque, dalla cessazione del rapporto di lavoro, se io presento la domanda nei primi otto giorni,
l’indennità decorrerà non dalla cessazione del rapporto ma dall’ottavo giorno [Domanda: l’indennità di
disoccupazione quando decorre? Non decorre dal giorno della cessazione del rapporto ma dall’ottavo
giorno]. Invece, decorre dal giorno successivo alla domanda se è stata presentata successivamente all’ottavo
giorno (esempio sono stato licenziato e presento la domanda di NASpI dopo un mese: dunque la NASpI
decorrerà dal giorno successivo alla data di presentazione della domanda). La domanda è telematica e c’è un
termine di decadenza di sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, ovvero che superato il
termine il diritto alla NASpI decade. L’erogazione della NASpI è condizionata sempre alla permanenza dello
stato di disoccupazione, ma soprattutto bisogna anche partecipare regolarmente alle iniziative di formazione
e di riqualificazione professionale che vengono eventualmente proposti dai centri per l’impiego. Altro
aspetto è la possibilità di richiedere, nel momento in cui sono licenziato e ho diritto alla NASpI, la
liquidazione anticipata in un unico importo dell’intero trattamento che mi spetta. Questo per i casi in cui,
spiega il legislatore, il lavoratore intendesse svolgere un’attività lavorativa autonoma o impresa individuale o
per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa (sempre cooperative con scopo
mutualistico e che preveda la prestazione di attività lavorativa da parte del socio).
Si può lavorare durante la disoccupazione? Bisogna distinguere due casi fondamentali.
• (!!!) Il primo caso non è affatto infrequente ed è quando il reddito che si consegue da questa nuova attività
risulta essere superiore a quello individuato dal legislatore ai fini fiscali e la durata del rapporto di lavoro
risulta essere superiore a sei mesi. Nel caso in cui abbiamo un reddito derivante dalla nuova occupazione
che risulta essere superiore a quello prestabilito ai fini fiscali e la durata non è superiore a sei mesi, solo in
questo caso l’indennità viene sospesa. In questo caso il lavoratore è parte attiva in quanto deve
comunicare all’istituto previdenziale la sua nuova occupazione e il fatto che la durata non è superiore a sei
mesi. Al termine della sospensione, l’indennità continua ad essere erogata per il periodo residuo.
• Altra ipotesi è quella in cui il reddito che si ottiene dalla nuova occupazione risulti essere inferiore a
quello stabilito a fini fiscali dal legislatore. In questo caso il lavoratore deve comunicare all’INPS, entro

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un mese, il reddito annuo previsto. Ciò significa che il lavoratore potrà percepire anche la NASpI, quindi
in questa ipotesi il lavoratore è sottoposto all’obbligo di comunicare all’INPS il reddito che riceve. Il
datore di lavoro deve essere diverso da quello presso il quale il lavoratore, in precedenza, svolgeva
l’attività lavorativa ed in seguito era stato licenziato.
Quando decade la NASpI?
• Quando il lavoratore perde lo stato di disoccupazione;
• (!!!) quando non provvede alle comunicazioni in seguito all’inizio di attività lavorativa subordinata o
attività di lavoro in forma autonoma [Domanda esame: nel caso in cui non ci sono le comunicazioni, il
datore di lavoro non comunica, cosa accade? Decadenza della prestazione];
• raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
• assegno ordinario di invalidità, ma il lavoratore potrebbe optare per la NASpI;
• violazione delle regole di condizionalità [Domanda: nel caso in cui il lavoratore violi i principi in materia
di condizionalità, se ad esempio non partecipa ad un corso di formazione erogato dall’INPS (domanda già
sbagliata, l’INPS non eroga corsi di formazione. Li erogano i centri per l’impiego, unici organi delegati
per le politiche attive)].

Indennità di mobilità
Altro aspetto riguarda l’indennità di mobilità, cioè un’indennità di disoccupazione più rafforzata che era
riconosciuta esclusivamente per i lavoratori che erano dipendenti di imprese con più di 15 dipendenti e
licenziati collettivamente. Si riferiva dunque ad una cerchia molto ristretta di lavoratori e, proprio per questo,
il legislatore, con la legge del ’91, ha previsto l’erogazione di una specifica indennità di mobilità. A questo
collegava anche l’iscrizione ad un’apposita lista: la lista di mobilità. In questa lista, tenuta dal centro per
l’impiego territorialmente competente, erano individuati tutti i lavoratori licenziati collettivamente dalle
imprese con più di 15 dipendenti. Questo è stato fatto perché si trattava di imprese di dimensione medio-
grande e si cercava dunque di favorire la nuova collocazione di lavoratori licenziati collettivamente. Con la
legge n. 92/2012 il legislatore ha ritenuto opportuno sopprimere l’indennità di mobilità a decorrere dal 1°
gennaio 2017. Dunque non c’è più questo tipo di indennità né esistono più le liste di mobilità, ma i lavoratori
ora, anche quelli occupati in imprese con più di 15 dipendenti e provenienti da una procedura di
licenziamento collettivo, una volta licenziati hanno diritto unicamente a ricevere la NASpI (!!!) [Domanda:
esiste ancora l’indennità di mobilità? No, perché il lavoratore licenziato collettivamente da impresa con più
di 15 dipendenti ha diritto unicamente alla NASpI]. La l. 42/2012 introduce un regime transitorio per
garantire un graduale passaggio dal vecchio al nuovo sistema.

DIS-COLL
La DIS-COLL è un altro tipo di indennità di disoccupazione che inizialmente era stata prevista in via
sperimentale, ora invece in via strutturale per via di una legge di stabilità intervenuta negli ultimi anni. È
disposta a favore dei lavoratori collaboratori coordinati e continuativi e, in questo caso, che abbiano perduto
involontariamente la propria occupazione. Sono esclusi gli amministratore e i sindaci (iscritti in via esclusiva
alla gestione separata presso l’INPS), i soggetti non pensionati e privi di partita IVA. La regola rimane quindi
molto simile a quella della NASpI, infatti rimane sempre centrale l’aspetto dell’involontarietà della
disoccupazione (quando si parla di involontarietà si intende che non ci sono state cessazioni volontarie).
Anche in questo caso sono previsti alcuni requisiti molto simili a quelli della NASpI: stato di disoccupazione
(il lavoratori deve comunicare al centro per l’impiego la sua dichiarazione di immediata disponibilità: il
lavoratore si mette a disposizione); devono far valere almeno tre mesi di contribuzione nel periodo che dal 1°
gennaio dell’anno solare precedente l’evento della cessazione dal lavoro all’evento (cessazione); devono poi
far valere, nell’anno in cui si verifica la cessazione del rapporto di lavoro, almeno un mese di contribuzione
oppure un rapporto di collaborazione di durata pari almeno ad un mese, che ovviamente sia seguito da un
mese di contribuzione. Identico è il meccanismo di calcolo rispetto alla NASpI: anche per la DIS-COLL si
guarda il reddito imponibile ai fini previdenziali, quindi quello che risulta dei versamenti contributivi che il
collaboratore ha effettuato attraverso il committente (nella collaborazione coordinata e continuativa è
previsto un obbligo di contribuzione fissato nella misura di due terzi a carico del committente e nella misura
di un terzo a carico del collaboratore, con l’obbligo del committente di versare anche la quota a carico del
collaboratore). Il reddito imponibile va poi diviso per il numero di mesi di contribuzione ottenendo il reddito
medio. L’indennità, rapportata al reddito medio, è pari al 75%, però bisogna tenere conto anche qui dei limiti
massimi espressamente individuati dal legislatore; anche qui non si possono superare i 1300 euro. Anche
nella DIS-COLL c’è la penalizzazione: anche qui dopo il primo giorno dal quarto mese di fruizione si
applica la penalizzazione del 30% sull’importo. Abbiamo sempre la domanda telematica ed anche in questo
caso il termine di decadenza è di 68 giorni dalla data di cessazione del contratto di collaborazione e va quindi
tenuto in considerazione. Anche questa indennità decorre dall’ottavo giorno successivo alla data di
cessazione del rapporto se la domanda è presentava entro l’ottavo giorno, altrimenti decorre dal primo giorno

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successivo alla data di presentazione della domanda. Anche qui c’è la condizionalità: nonostante qui stiamo
parlando di lavoratori collaboratori coordinati e continuativi, non perfettamente autonomi, il legislatore
vincola comunque la concessione della DIS-COLL alla regolare frequentazione alle iniziative di attivazione
lavorativa e ai percorsi di riqualificazioni professionali erogati dai centri per l’impiego.
Cosa succede nel caso in cui il lavoratore che percepisce la DIS-COLL accetti un contratto di lavoro
subordinato? Qui la disciplina è diversa rispetto a quella per la NASpI, infatti:
• se il contratto di lavoro subordinato risulta essere di durata pari o inferiore a cinque giorni, la prestazione
viene sospesa d’ufficio sempre sulla base delle comunicazioni obbligatorie e rinizierà ad essere corrisposta
per il periodo residuo spettante al momento in cui era stata sospesa;
• se invece risulta essere superiore a cinque giorni, si decade dal diritto alla DIS-COLL [Domanda: superati
i cinque giorni si ha diritto ancora alla DIS-COLL? No].
Anche in questa ipotesi è possibile richiedere un’anticipazione per lo svolgimento di un’attività di lavoro
autonomo o impresa individuale o nuova attività para subordinata, purché il reddito annuo che si deriva sia
inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione e poi è sempre necessaria la
comunicazione all’INPS entro trenta giorni dall’inizio dell’attività.
Anche in questo caso il lavoratore può decadere dal diritto alla DIS-COLL. Questo accade quando:
• si perde lo stato di disoccupazione;
• nel caso in cui non partecipi alle iniziative di attivazione lavorativa e ai percorsi di riqualificazione
professionale proposti dai servizi competenti;
• abbia una nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato di durata superiore a cinque giorni;
• inizio di un’attività lavorativa autonoma senza adeguata comunicazione;
• il raggiunto dei requisir per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
• infine l’acquisizione del diritto all’assegno ordinario di invalidità, nel caso in cui non decida di optare per
la DIS-COLL.

Prestazioni emergenziali
I fondi di solidarietà bilaterali, molto importanti per quelle aree scoperte dagli ammortizzatori sociali
pubblici, possono anche prevedere, in via facoltativa, una tutela integrativa rispetto alle prestazioni pubbliche
connesse alla perdita del posto di lavoro. Questo è importante perché si sta dando qualcosa di integrativo,
quando si parla di prestazione emergenziale si intende una prestazione definita da alcuni fondi di solidarietà.
[Domanda: se una prestazione è integrativa, che vengono facoltativamente riconosciute dal fondo di
solidarietà bilaterale ... , quale conseguenza ne discende? È una prestazione integrativa e quindi la domanda
potrebbe essere che il fondo di solidarietà bilaterale interviene in sostituzione della CIGO e CIGS
(integrazioni salariali pubbliche); invece interviene ad integrazione dell’indennità di disoccupazione (questa
è una cosa che fa comprendere che i lavoratori delle aree scoperte sono scoperte solo ai fini della CIG ma
non anche della NASpI, quindi i destinatari dei fondi di solidarietà bilaterali ricevono queste integrazioni
salariali in sostituzione degli ammortizzatori pubblici. Nel caso in cui si tratti di indennità di disoccupazione,
il legislatore non fa differenze e dice che ricevono sempre la NASpI. Quindi, ad esempio, il dipendente nel
settore bancario, in caso di licenziamento sarà assoggettato alla NASpI: questa prestazione è dunque
qualcosa in più che il fondo di solidarietà bilaterale può addirittura riconoscere (facoltativamente) in
aggiunta alla NASpI (!!!)]. Nel decreto ministeriale del 2014 è stabilito che il Fondo del credito cooperativo
provvede in via emergenziale a erogare un assegno, definito emergenziale, della durata massima di 24 mesi
(come la NASpI). Questo accade perché il legislatore si rende conto che si tratta di certi settori, come
l’assicurativo, il bancario ed altri, con retribuzioni molto elevate e quindi quel reddito minimo dal quale
calcoliamo la NASpI è già basso e così il fondo di solidarietà bilaterale gli concede un’integrazione,
aggiungendo ai 1300€ circa che gli spettano una cifra erogata dai fondi [Domanda: se effettivamente questo
assegno emergenziale riguarda esclusivamente i fondi di solidarietà bilaterale la riposta è sì; alla domanda se
sostituisce la NASpI la risposta è no; se sostituisce la CIGO la risposta è sì].
Per quanto riguarda l’integrazione è come se lo stesso fondo erogasse la NASpI, cioè applica il suo criterio di
calcolo (slide 69) che arriva fino a 3600€ al quale poi considera/li toglie i 1300 della NASpI. La sede
competente è sempre il fondo.

ASDI (Assegno Sociale di Disoccupazione)


Soppresso a seguito dell’entrata in vigore del Reddito di cittadinanza. Era una prestazione ibrida: prevedeva
un sussidio per coloro che avessero terminato l’indennità di disoccupazione (NASpI) e non avevano ancora
occupazione. Il legislatore aveva dunque ritenuto opportuno sperimentare una nuova prestazione ibrida
(requisiti erano attestazione ISEE pari od inferiore a euro 5000; la fruizione avveniva per non più di 6 mesi
con possibilità di proroga ed infine era prevista la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato).
L’importo era pari al 75% della NASpI, non poteva superare l’ammontare dell’assegno sociale (per il 2015

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pari a 448,52€). Questo fa comprendere come il legislatore ha provato ad intervenire su una platea di
destinatari che era ancora abbastanza ampia.

La DIS-COLL è una tutela esterna ed è un sussidio di disoccupazione ed è esterna perché interviene al


momento della cessazione del rapporto di lavoro. A differenza della NASpI, che è destinata unicamente ai
lavoratori subordinati, sebbene subisca alcune eccezioni (lavoratori pubblici a tempo indeterminato es.);
invece la DIS-COLL è un sussidio di disoccupazione che interviene sempre dopo la cessazione ma si
riferisce ad una categoria di soggetti che non sono i lavoratori subordinati ma i lavoratori coordinati e
continuativi, che dal 1º gennaio 1996 sono iscritti all’Agenzia della Gestione Separata. La DIS-COLL nel
2015 era in via sperimentale ed è poi stata confermata l’anno successivo, e dal 2017 è diventata una misura
di carattere strutturale. Prevede dei requisiti di assicurazione e contribuzione diversi dalla NASpI, perché
appunto si rivolge ad un rapporto di collaborazione che è autonomo ma presenta alcune caratteristiche tipiche
della subordinazione (rapporto parasubautonomo). Sostanzialmente servono tre mesi di versamenti di
assicurazione e di contribuzione e in 30 giornate di lavoro effettivo. Il d.l. n. 4 del 2019, non ancora
convertito in legge, tra le altre cose come revisione quota 100 e reddito di cittadinanza, ha anche
l’anticipazione della DIS-COLL con un requisito più semplice da raggiungere, non più di tre mesi ma di un
solo mese. Per gli altri aspetti, come decadenza e condizionalità, le due indennità sono molto simili.

Stato di disoccupazione (post d.l. 4/2019)


Una delle condizioni per essere iscritti al collocamento ordinario è quello dello stato di disoccupazione. Dice
il legislatore, per effetto del d.l. 4, che il lavoratore può essere iscritto al collocamento ordinario (anche
mirato) anche ove percepisca dei redditi, purché non risultino essere superiori a determinate soglie. Questo è
estremamente importante perché in precedenza (prima del d.l.) il lavoratore non poteva iscriversi. Questa è la
ragione per cui, sia nel collocamento ordinario che mirato, occorre rispettare dei limiti di reddito: se si riceve
un reddito inferiore al reddito minimo previsto da imposizione fiscale (che attualmente ammonta a 8145€ nel
caso di lavoratore dipendente e 4008€ nel caso di lavoratore autonomo nel corso dell’anno solare), al di là
del rapporto di lavoro, ci si può iscrivere sia al collocamento mirato che ordinario. Qui bisogna che il centro
per l’impiego verifichi la condizione reddituale ed è molto presumibile che il centro per l’impiego vada a
richiedere una certificazione fiscale (molto presumibilmente annuale).
Per chi invece ha un rapporto di lavoro a termine fino a 6 mesi, a prescindere dal reddito percepito, lo stato di
disoccupazione risulta essere sospeso per tutta la durata del contratto. Il lavoratore, una volta terminato il
contratto, risulterà comunque iscritto (!!!).

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Sospensione del rapporto di lavoro (non fa parte del programma per il primo test!!!)

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