Sei sulla pagina 1di 60

STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO

Prof. Matteo Nacci (matteo.nacci@unimi.it)


Ricevimento: venerdì 11-12

25 febbraio
Il Medioevo, per alcuni studiosi, finisce nei primi anni del Trecento, in particolare il 18
novembre 1302. In questo giorno, Bonifacio VIII promulga una bolla papale, chiamata
Unam Sanctam Ecclesiam, nella quale sostiene che è compito della Chiesa essere protettrice
della cristianità. La chiesa è un “mantello senza cuciture”, che deve proteggere il popolo
cristiano. Prima di quella data nessun re o monarca si sarebbe permesso di contrastare
questa idea del papa. Dopo questa bolla papale, c’è qualcuno che si ribella, ed è Filippo IV
il Bello: qui ha l’inizio della modernità. Per la prima volta un semplice re si permette di dire
che egli, nel suo regno, è un imperatore. Il diritto diventa uno strumento potestativo.

27 febbraio
La fine del mondo romano e della sua relativa esperienza giuridica fa iniziare l’epoca
successiva. Ci sono incertezze su quando finisce il medioevo, ma inizia sicuramente nel 476
d.C. con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Gli storici, in particolare romanisti e
medievalisti, si sono posti tre domande:
I. Che cosa è successo?
II. In che modo?
III. In quale momento?

I.
Che cosa è successo? Le correnti storiografiche hanno dato tre conclusioni: un generale
stato di decadenza, più cause interne ed una grande causa esterna: le invasioni barbariche.
Dicono che il cristianesimo sia stata un aggravante rispetto alla fine dell’Impero Romano
d’Occidente in quanto si ritiene che la sua fine sia stata una punizione divina. Altri storici
hanno dato cause nuove. Alcuni, come Niccolò Machiavelli, trattando nei suoi studi della
fine del mondo antico, parla del declino demografico che avrebbe portato poi i barbari ad
entrare nell’impero. Questa teoria è stata ripresa da Montesquieu che parla del declino
demografico come causa principale degli avvenimenti che hanno portato al 476 d.C.; un
altro fu Edward Gibbon che parlò di uno svuotamento sociale dell’impero. Un altro ancors,
Ferrero, ha sostenuto che non è stato tanto il declino demografico ma bensì le istituzioni

!1
romane che, già a partire dal III secolo, erano state inadeguate rispetto alle richieste della
popolazione. Secondo Carcopino l’impero era una grande struttura che sarebbe morta di
morte naturale, parla di una struttura che aveva molti anni di esperienza e come tale era
destinata a soccombere ai barbari. Uno dei più grandi scrittori, Biganiol, scrive nel 1947 che
i barbari hanno distrutto un impero in buona salute. Un terzo gruppo di conclusioni deriva
da coloro che invece parlano di continue trasformazioni, alcuni sostengono che in realtà le
continue trasformazioni naturali che avvengono in una società abbiano richiesto qualcosa di
diverso da quel che portava l’impero romano.

II.
Come è successo? Il dato sul quale tutti sono d’accordo è che il IV secolo dopo Cristo è
molto complesso e bisogna osservare in maniera diversa l’Occidente e l’Oriente. Mentre in
Oriente nasce l’impero bizantino, in Occidente la situazione è completamente diversa in
quanto si va verso la disgregazione. Il primo elemento da considerare è un generale
indebolimento dell’apparato statale romano che derivava da un cambiamento fisiologico
delle strutture dell’esercito romano. Accade che dalla metà del IV sec. sempre più barbari
entrano a far parte dell’esercito, prima con accordi su base consuetudinaria poi con stato di
federati (foedus). Molti storici evidenziano come il mos maiorum inizia a decadere. C’è un
altro gruppo di problemi rilevanti per comprendere il come è successo: siamo nell’ambito
economico fiscale, di fronte ad una sempre crescente necessità economica, il fisco romano
inizia ad essere spietato soprattutto nei confronti delle provincie e ciò spezzò il legame di
fiducia tra provincie e centro dell’impero. Le provincie scelsero di staccarsi dall’impero
romano e decisero autonomamente di annettersi alle popolazioni barbariche (Questa tesi è
sostenuta da Giorgio Ruffolo, in particolare in riferimento alla popolazione della Pannonia).
Aggiungiamo una generalizzata tendenza alla corruzione della burocrazia romana (IV-V
sec.) che aveva portato ad una sfiducia nei confronti del sistema e così alla decadenza del
mos maiorum. Un altro motivo è il Cristianesimo poiché secondo molti studiosi (Rousseau,
Montesquieu…) avrebbe indebolito lo spirito combattivo e della conquista che caratterizzò
sempre l’impero romano. Dal 380 il Cristianesimo diventa la religione ufficiale dello stato
con l’editto di Tessalonica e coloro che non seguivano i cristiani erano detti dementes ed
andavano puniti sia da Dio che materialmente sulla terra. Nel 325 vi fu il Concilio di Nicea,
con la nascita del Credo nicenocostantinopolitano. Il 313 è l’anno dell’editto di Vicinio e
Costantino (editto di Milano) all’interno del quale si metteva fine alla persecuzione dei
cristiani e l’inizio della libertà di religione per tutti. “Il cristianesimo è una religione che ha
favorito la formazione di un’idea internazionalistica che non conosceva confini.”

!2
Ultimo elemento è la crisi economica che incombe tra il IV e il V sec. che non aveva pari e
derivava dalla fase del dominato da cui i romani non sono riusciti a trasformare l’economia
da chiusa ad aperta portando così ad un non sviluppo monetario dell’economia dell’Impero.

III.
In quale momento? Vi sono momenti significativi prodromici al 476. Innanzitutto c’è a
livello storico un momento nel quale Roma viene violentata, in particolare nel 410 d.C. da
Alarico che la deturpa. Da questo momento in poi l’Occidente romano diventa l’Occidente
barbarico. Dopo ci furono imperatori deboli che non erano in grado di difendere un impero
come quello (es. Onofrio, Valentiniano III…) e portarono, a partire dalla corte imperiale, ad
un indebolimento. Abbiamo poi il protettorato di Ricimero (magister militum) che era un
capo dell’esercito con origini sveva e si svolge tra il 457 al 472. Nel 476 c’è l’atto finale che
inizia già nel 475, anno in cui Oreste caccia Nepode e nomina imperatore il giovanissimo
Romolo Augustolo. Nel frattempo Odoacre diventa re degli Eruli, una popolazione
barbarica con ars militare nelle vene, e chiese a Romolo Augustolo lo stato di federato.
Augustolo, malconsigliato dal padre, rifiutò la richiesta e così Odoacre lo cacciò ed esiliò
nei pressi di Benevento (fu l’unico della famiglia a non essere ucciso da Odoacre)
pagandogli una pensione. Così Odoacre inviò le insegne imperiali all’imperatore di Oriente
che attualmente era Zenone. Odoacre diventa un patrizio, ossia colui che governava l’Italia
come re dei barbari ma non diventò mai imperatore. Da un primo governo forte lui creò un
regno con Italia, Dalmazia e Sicilia. Nel 488 d.C., Zenone chiese a Teodorico, un Ostrogoto,
di riconquistare l’occidente. Teodorico uccise Odoacre (493 d.C.) e si impossessò prima di
Roma e poi di tutta la penisola italiana.

Nel 476 d.C. cade l’Impero romano d’Occidente ed iniziano i regni romano barbarici.
Questi regni si chiamano cosi perché c’è una componente romana ed una barbarica ed infatti
sono particolari e caratterizzano la prima parte del medioevo che noi chiamiamo proto-
Medioevo o Alto Medioevo. L’elemento caratteristico è che almeno inizialmente le
strutture di questi regni si modellano sulle quelle burocratiche del mondo romano che
dunque permane più o meno. Alla fine del V sec. ci sono molti regni romano barbarici: Eruli
e Sciri, Vandali, Svevi, Visigoti, Burgundi, Franchi, Isole britanniche; ognuno di questi è
caratterizzato da peculiarità proprie.

Romanitas-Christianitas-Germanitas: tutte le componenti delle popolazioni barbariche e la


presenza di ognuna di queste tre caratteristiche, in misura maggiore o minore, differenzia un

!3
popolo dall’altro nelle sue peculiarità. A seconda della composizione si distinguono le
peculiarità caratterizzanti dei singoli regni romano barbarici.

Ci sono tre motivi di attrito che possiamo rilevare all’atto dell’ingresso delle popolazioni
barbariche in quello che era l’impero romano: religione, giustizia e struttura della società.
• Religione: Arianesimo (barbari) vs. Cristianesimo (romani). I Longobardi, almeno in una
prima fase (quella dello stanziamento), elimineranno con violenza le strutture
ecclesiastiche presenti al momento del loro ingresso; i Visigoti invece si comportano in
maniera completamente diversa.
• Concezione e gestione della giustizia: altro motivo di attrito che portò a strutturazioni
differenti è quello della giustizia perché il concetto di giustizia romano era “lex aequalis
omnis est” mentre quello dei barbari era completamente diverso in quanto è tipico di una
giustizia di tipo privato, è un affare privato e si giustifica ad esempio nella faida come
avviene nella legge del taglione. Essa verrà addolcita nel tempo dalla composizione
pecuniaria, una compensazione economica.
• Struttura della società: un altro motivo di attrito riguarda la struttura della società e il
modo di concepirla. Nella mentalità barbarica la società è tribale, nella mentalità romana è
un concetto totalmente differente in quanto la societas è un insieme di istituzioni che sono
pesi e contrappesi che contribuiscono allo sviluppo della società.

Regno ispanico dei Visigoti


Si trova geograficamente in Spagna, da qui il nome “ispanico”. È il regno di una
popolazione che si insedia per prima in maniera stabile in Occidente. Sono presenti aspetti
comuni a tutti i regni barbarici come ad esempio il fatto che il re concede terre ai capi
militari, un altro è la vigenza del principio della personalità del diritto, ovvero che veniva
applicato il diritto romano ai romani e il diritto barbarico ai barbari. Altra caratteristica
come è che esistono e permangono almeno all’inizio di tutti i regni barbarici le vecchie
magistrature imperiali e le vecchie istituzioni municipali. Altro è la presenza di una figura
che da notevole passerà a notevolissima in tutti i regni barbarici: il comes patrimonii (conte
del patrimonio), amministratore del patrimonio del monarca.
Nei regno dei Visigoti, in un arco di tempo compreso tra il VI e il VII sec., ci sono
grandissime novità istituzionali che lo caratterizzano e lo rendono degno di essere trattato
con grande importanza. Prima peculiarità di questo regno è il fatto che si ha una importante
fusione tra due elementi: la germanitas e la romanitas. Questi due elementi riescono a
connubiarsi in maniera perfetta grazie alla christianitas in quanto abbiamo una precoce

!4
conversione (nel 589 d.C.) da parte di Recaredo, un monarca che durante il terzo Concilio
di Toledo manifesta l’adesione al cristianesimo. Ha grande importanza nella conversione la
figura dell’arcivescovo Leandro di Siviglia. L’effetto immediato della conversione del re è
una coesione importante e che parte dalle più alte sfere sociali e poi a catena si riflette su
tutte le altre classi sociali. Questa conversione comporta la concordia tra romani e barbari,
una concordia che noi possiamo toccare con mano attraverso la promulgazione nel 654 d.C.
della Lex Visigothorum da parte del monarca Recesvindo. Effetti della conversione sono:
da una parte abbiamo nuovi rapporti tra la chiesa e il mondo germanico, il re dei Visigoti
assume la carica di capo della gerarchia ecclesiastica ed interagisce con essa; dall’altra
l’instaurazione di nuovi rapporti tra i capi militari e i vertici della Chiesa, molto importanti,
perché ci ricorda quando nel tardo impero romano ci fu momento di grande coesione tra
gerarchia ecclesiastica e classe senatoria. A livello sociale questa coesione è fondamentale
perché permette la pace sociale e dunque si ha possibilità di sviluppo. Espressione
importante di questi due effetti ce l’abbiamo attraverso un’istituzione che si sviluppa in
questo regno romano barbarico e che evidenzia il nuovo connubio: si chiama concilio (della
Chiesa Visigota) ed è una assemblea all’interno della quale partecipavano tanti laici quanto
ecclesiastici, presieduto dal re, per parlare di questioni meramente civili e in cui si
decidevano le sorti del Regno dei Visigoti. Secondo la maggior parte della storiografia la
volontà di Recesvindo avrebbe comportato l’abolizione del principio della personalità del
diritto a favore di quello della territorialità del diritto, voleva la creazione di un regno
totalmente rinnovato, senza istituzioni romane. Il regno Visigoto fu monarcocentrico
(unzione divina, funzione teocratica del re) e tanto al centro quanto nelle provincie la
presenza del monarca era molto forte tanto che avrebbe governato sia al centro attraverso un
insieme di persone che lo aiutavano del centro (seniores palatii) che erano il concilio privato
del monarca, i singoli soggetti erano chiamati consiglieri palatini che si dividevano in:
comes cubicularius (capo della cancelleria reale), comes patrimonii (responsabili del
patrimonio del re) e comes stabuli (capo delle stalle, importante per la dinamica strategica e
militare dei cavalli.)
In provincia c’era un sistema in cui al vertice c’era il dux provinciae con gerarchicamente
sotto altre figure.

28 febbraio
C’è un sistema provinciale di tipo burocratico particolarmente capillare, in cui sono
eliminate le vecchie magistrature regionali e strutture municipali. A capo di ciascuna
provincia si trova il dux provinciae, amministratore generale della provincia. Al di sotto c’è

!5
il comes civitatis, il capo dell’amministrazione della giustizia, colui che gestiva a livello
provinciale la giustizia. Sotto ancora c’era il iudex territorii (giudice territoriale) con
funzione giudicante, thiufaldus è il nome, a partire dal VII sec., del iudex territorii. Poi si
trovava il millenarius, capo dell’esercito che controllava e gestiva un manipolo di mille
soldati. Sotto il quingentenarius e centenarius, che gestivano rispettivamente cinquecento e
cento uomini; al di sotto ancora c’era il defensor, il garante dell’amministrazione della
singola civitas. Un’altra funzione importante la svolgeva il numerarius, un ragioniere
pubblico, il contabile. Una funzione un po’ diversa la aveva il pacis adsertor, era colui che
doveva risolvere tutte le controversie che gli venivano affidate dal re. Altro dato generale di
questa rigida costruzione gerarchica è il tipo di funzione di questi soggetti: mentre i primi
tre avevano duplice funziona (amministrazione della giustizia e riscossione delle imposte -
funzione economica erariale), tutti quelli sotto avevano soltanto funzioni relative
all’amministrazione della giustizia.
Questa ricostruzione, in realtà, ha degli elementi contraddittori al suo interno poiché le
strutture romane non sono completante eliminate in quanto: il sistema delle provincie
apparteneva già al mondo romano; la burocrazia, già introdotta nel mondo romano, è
presente anche nel Regno dei Visigoti; inoltre, la figura del centenarius è l’equivalente del
centurione, figura preesistente nell’esercito romano.

Questa ricostruzione viene offerta dalla maggior parte della dottrina, ma è solo una parte.
L’altra ritiene invece questa versione troppo assoluta e radicale.
Possono essere fatte tre osservazioni:
I. Valore giuridico da attribuire alla Lex Visigothorum: essa avrebbe avuto l’effetto di
eliminare il principio della personalità del diritto in favore di quello territoriale. In realtà
questa legge va “soltanto” ad abrogare una legge precedente, la Lex Romana-
Visighotorum (Breviarium Alariciarum) del 506 d.C. di Alarico II. Non c’è da
assolutizzare che questa legge sia stata cosi fondamentale, il punto importante è che ha
eliminato una legge di un secolo prima mai formalmente abrogata, era un testo vecchio
che non rispondeva più alle necessità della società che si era chiaramente evoluta in un
secolo e mezzo. Quindi questa legge valeva sia per romani che per i goti poiché in un
secolo e mezzo i due rami della popolazione si erano naturalmente avvicinati e quindi il
valore della Lex Visighotorum è che viene abrogata una legge vecchia non più
necessaria. Tra l’altro c’è un altro fattore importante: per quei settori non regolati dalla
Lex Visigothorum vigeva il principio della personalità del diritto. Non c’è quindi nessuna

!6
strana peculiarità in questa legge, non è che il frutto di un’evoluzione fisiologica della
società.
II. Visione “teocratica” della potestà monarchica: idea di visione teocratica del monarca,
di un re che avrebbe avuto, a partire dalla fine del sesto secolo, la sacra unzione. L’idea
di una teocrazia non sta molto in piedi, ci sono aspetti che vanno ben considerati per non
assolutizzare l’idea di questa visione teocratica. Questi due aspetti sono: le tante lotte
intestine all’interno del regno visigoto e l’idea di una monarchia teocratica derivante
dalla modalità in cui il re visigoto veniva eletto.La monarchia gota era infatti di tipo
elettivo, la corona non si passava di padre in figlio (il re è primus inter pares). Quando il
re era nominato aveva un patrimonio funzionale all’ufficio monarchico che non diventa
di sua proprietà, la grande quantità di terre non andavano al figlio del re ma erano nella
disponibilità di colui che sarebbe diventato re poi eletto dai militari. L’imperatore nel
medioevo assume gli iura riservata imperatorii. Inizia a svilupparsi una consuetudine
secondo la quale passa l’idea che i capi sono capi approvati da dio (aggiunto elemento di
sacralità) ed è importante in un regno in cui la cristianità è l’elemento centrale. Per noi
ciò è abbastanza chiaro da una fonte del diritto e la nuova lettura del re in questo modo
la troviamo all’interno di una raccolta di norme di Re Erwig, presentata durante il XII
Concilio di Toledo nel 681 d.C. Con questa raccolta di norme noi potremmo dire che è
reale la visione teocratica ma nonostante quest’ultima sia stata promulgata
pubblicamente, in realtà non produsse minimamente l’effetto di imporre l’autorità regia
perché la storia dei Visigoti dimostra che gli ultimi anni del VII secolo e i primi dell’VIII
furono segnati da violente rivolte e lotte intestine nella compagine del Regno Ispanico
dei Visigoti nel regno del successore di Erwig, Egic. Quindi non è possibile parlare di
una potestà teocratica legata all’ufficio monarchico.
III. Riguarda i consiglieri palatini e magistrati principali, parte importante della ricostruzione
centrale e provinciale nel Regno dei Visigoti. Prima osservazione da fare è che i
consiglieri palatini non possono assolutamente essere assimilati ai membri del
concistorium imperiale perché i compiti di questi soggetti con compiti nella domus regia
svolgevano funzione solo nell’ambito dell’amministrazione e dei territori attinenti
all’ufficio del monarca. Il comes scanciarum era il capo dell’approvvigionamento della
domus regia, il comes spatariorum era il capo della guardia personale del re. I compiti di
questi consiglieri palatini non uscivano mai dai beni del re e la loro attività non
esorbitava mai fuori dalla sfera di possessi del re. Tra i membri del concistorium
imperiale c’erano due figure molto importanti che andavano al di fuori della sfera del re:
erano il quaestor sacri palatii, colui che approvava le leggi a livello universale e il

!7
comes sacrarum largitionum, il “ministro” delle finanze. Questa osservazione ci serve a
destrutturizzare l’idea monarcocentrica. Un’osservazione va fatta sui magistrati
provinciali, la storiografia ci dice che loro si sarebbero trasformati in magistrature di
formazione regia, ma è smentito dal fatto che queste cariche erano legate alla struttura
militare del regno romano-barbarico. Non si può parlare di magistrati provinciali che non
siano minimamente legati alla tradizione romanistica.

Grandi novità sono: la sempre più evidente differenza sociale fra uomini liberi e
differenziazioni censitarie; seconda novità è che c’è una sempre più evidente emersione di
aspetti signorili nell’ambito della gestione dei grandi patrimoni fondiari. In maniera forte
questi elementi emergono dalla metà del settimo secolo in cui c’è una evidenza importante
di questi due elementi. Il fatto che ci siano sempre più evidenti modalità di gestione dei
patrimoni terrieri in un modo signorile, il latifondista che gestisce il suo patrimonio in modo
assoluto all’interno del suo territorio: ordinamento giuridico feudale (il dominus ha nel suo
territorio un potere di tipo assoluto rispetto alle persone che vivono nel territorio che
gestisce). Questo sistema si fonda sulla figura del vassallo, tutto si fonda sul beneficium,
qualcosa che il vassallo da in beneficio a un altro. Questo sistema andrà a scardinare quello
delle corti popolari di giustizia, il fatto che emergano sempre di più elementi signorili
nella gestione della terra fa si che la giustizia esercitata dal dominus nel suo territorio posso
entrare in conflitto con coloro che gestivano la funzione di giustizia nella corte popolare. E
proprio questo l’elemento centrale del Regno dei Visigoti, non tanto l’eliminazione delle
categorie romane, la cosa importante è in queste ultime due novità. Sono momenti
prodromici al feudalesimo e alla signoria fondiaria.
(Il fatto che ci siano sempre più evidenti modalità di gestione di patrimoni terrieri in modo
“signorile”, dove il dominus gestisce il proprio patrimonio come se fosse il principe assoluto
nel territorio, rimanda all’idea del latifondo che poi verrà chiamato “feudo”. È un evento
che precorre il fenomeno storico del feudalesimo.)

1 marzo
Regno bizantino in Italia - i Bizantini
Al centro del nostro interesse sta la sensibilità politica di Giustiniano I, detto il Grande, che
dal 527 fino al 565 mette in campo una politica tanto di conquista quanto di sensibilità
giuridica senza eguali e con influenze rilevantissime per la storia del diritto. Giustiniano ha
la volontà di riprendere in mano alcune regioni occidentali che da tempo erano state
occupate dalle popolazioni barbariche, questo volontà ebbe successo attraverso la presa di

!8
Cuma (553). Questa battaglia definisce la lotta con i Goti anche se per avere una definitiva
eliminazione di quasi tutti i barbari (Franchi ed Alemanni 561-562) bisognerà aspettare le
battaglie condotte tra Brescia e Verona. Il passaggio dell’Italia sotto il governo bizantino è
molto importante perché determinò la ricezione della compilazione giustinianea (corpus di
Giustiniano). La sua preoccupazione era quella di effettuare un riordinamento normativo
prendendo ad esempio quello di Teodosio. Infatti, questo progetto inizia nel 529 quando si
ha la promulgazione del Codex, del quale abbiamo solo l’indice, mentre nel 533 abbiamo le
Institutiones, un manuale dedicato alla scuola di diritto e i più complessi Digestorum seu
Pandectarum Libri Quinquaginta che conteneva tutta la dottrina del diritto romano
classico. E’ un’opera molto complessa che rappresenta il diritto romano classico più elevato.
Nel Sempre nel 533 abbiamo il Digesto, raccolta di cura e pareri, composto da 50 libri. Nel
534 abbiamo un’edizione più ampia del Codex, articolato in 12 libri, che sostituì la
precedente raccolta di costituzioni. L’ultima parte raccolse tutte le Costituzioni emanate
dopo il 535 nelle Novellae constitutiones (arrivate fino al 565). Tutte queste compongono il
Corpus Iuris Civilis che per noi è particolarmente importante perché con la nascita
dell’università questo sarà una fondamentale fonte per coloro che desideravano studiare il
diritto. Quali sono gli effetti della presa di Cuma? Succede che inizia l’esperienza dei
Bizantini in Italia, tale installazione comporta l’immediata applicazione delle leggi
giustinianee nel territorio italiano. In realtà, questa applicazione del diritto non fu così
immediata poiché addirittura ci volle una sorta di provvedimento che richiamava
l’attenzione della popolazione italica che è la Pragmatica Sanctio pro petitione Vigilii del
554 d.C. che rappresenta la volontà di Papa Vigilio. Tale sanzione richiama gli italiani e li
obbliga a seguire la legge del corpo legislativo giustinianeo (Il 14 agosto si promulga la
Pragmatica sanzione). La storiografia ha dibattuto a lungo sulla applicazione del diritto
giustinianeo in Italia ed è giunta a due differenti conclusioni: da una parte, alcuni
sostengono che la brevità del dominio bizantino unita alla resistenza delle popolazione
italiche verso ciò che era orientale non abbia determinato una buona ricezione della
compilazione giustinianea in Italia. Dall’altra, è che la formale abrogazione della precedente
legislazione, unita alla continuità del dominio bizantino in Italia in alcune zone, avrebbe
determinato invece una completa e feconda ricezione del diritto giustinianeo in Italia. La
seconda tesi è quella più accolta dalla dottrina ed è preferibile perché abbiamo riscontri
storici. La risposta risiede nel fatto che, bene o male, in alcuni momenti di più e in altri
meno, il corpus di Giustiniano è stato conosciuto, studiato ed apprezzato durante tutto il
Medioevo (700/800/900 anni-dal XI sec. fino al XIV). Dobbiamo fare una differenziazione
sulla base di due grossi periodi storici: Alto Medioevo e Basso Medioevo. Nell’Alto

!9
Medioevo, delle quattro parti del Corpus le più utilizzate sono state le Institutiones perché
quelle più semplici in quanto si tratta di un’opera nata per la didattica e dunque più facile. Il
diritto barbarico era pragmatico e quindi ci si trovava meglio al fine della utilizzazione. Di
fatto però anche il Codex fu utilizzato, ma non nella sua versione integrale. Fu sostituito con
un testo semplificato che conteneva solo i primi 9 di 12 libri e dove al suo interno erano
state inserite le costituzione meno lunghe e più semplici (questo testo si chiama Epitome
Codicis). Stessa cosa per le novelle (Epitome Iuliani) contenente 122 o 123 costituzioni. Il
Digesto fu praticamente sconosciuto durante tutto l’Alto Medioevo perché andava in
collisione con una cultura giuridica semplice come quella barbarica. Si dice che l’ultima
citazione del Digesto sia contenuta in una lettera di San Gregorio Magno per poi essere
compresa solo intorno al 1100 ca. L’atteggiamento cambia nella seconda parte del
Medioevo, detto Medioevo Maturo o Sapienzale, perché per loro l’opera meno utilizzata è
quella che fu la più conosciuta nell’Alto Medioevo. Si parlerà di uno studio del Digesto che
porterà a tre formulazione di questo. È anche vero che nel Proto Medioevo (Alto) noi
abbiamo, oltre ad opere di semplificazione, anche compilazioni di carattere esegetico della
compilazione giustinianea e di queste ne abbiamo di due tipologie: interpretazione e
commento del Codex e interpretazione e commento delle Institutiones. Le grandi opere di
interpretazione delle Istituzioni sono la Glossa di Torino, Glossa di Casamari, Glossa
Coloniese; delle opere esegetiche del Codice abbiamo la Summa Perusina e la Glossa
Pistoiese (siamo tra IX e XI sec.). In ogni caso si ha una buona ricezione della
Compilazione Giustinianea in Italia. Ricezione del corpus? Si. C’è però un altro aspetto che
ci interessa della dominazione bizantina, ovvero il fatto che all’indomani del ritorno del
mondo Bizantino si ha il ripristino della magistrature dell’ultimo periodo imperiale ma con
alcune differenze sostanziali rispetto al tardo impero di cui la maggiore differenza concerne
la separazione tra la penisola e le isole maggiori. La penisola era affidata al prefectus
praetorio Italiae, che era un unico soggetto e si trovava a Ravenna mentre il governo della
città di Roma fu affidata al praefectus urbi. La Sicilia fu affidata ad un governatore che
stava a Siracusa e che aveva il titolo di praetor e governava per conto dei Bizantini.
Sardegna e Corsica invece, dopo la fine del regno vandalico, furono governate
dall’amministrazione Bizantina della città di Cartagine, il loro governatore aveva sede a
Cartagine perché controllava anche buona parte del Nord-Africa. C’è anche altro che
cambia: i burocrati bizantini riprendono la vecchia distinzione tra le magistrature civili
(colui che svolge solo compiti di natura civile: Iudex) e quelle militari (il Dux) che sul finire
del tardo impero si era un po’ indebolita. Con il ritorno dei Bizantini in Italia si ridividono
nettamente. All’interno di questa organizzazione avevano delle competenze civili anche i

!10
vescovi, esponenti della gerarchia ecclesiastica. Nel mondo bizantino si attua un forte
cesaropapismo, non si da loro molta autorità. I vescovi ebbero più autorità nelle città dove
avevano sedi le diocesi. In caso di svolgimento di processo nei confronti di religiosi, il
vescovo poteva scegliere alcuni membri dell’apparato giudicante. Nel mondo bizantino non
vengono riconfermati gli assetti sociali tradizionali che caratterizzarono gli ultimi momenti
del tardo impero. Tutte le cariche furono affidate a Bizantini. Perché vengono riassegnate le
terre all’aristocrazia romana? Per non lasciarle incolte e perché i bizantini attuarono una
feroce tassazione nei confronti delle terre riassegnate alla ex classe senatoria romana per
avere un tesoretto da utilizzare nei casi di bisogno. Quale tipo di conclusione si può trarre
del mondo bizantino? Rispetto ai Visigoti e altri, i Bizantini non erano stati considerati
molto importanti ma poi vennero messi in evidenza tre aspetti: in primis tengono viva l’idea
imperiale, il concetto di impero. Per tutto il periodo medievale infatti il concetto di
imperatore è molto importante. Poi, i Bizantini in Italia hanno determinato la conservazione
dei legami culturali ed economici con l’Oriente. Terzo ed ultimo aspetto è il mantenimento
dei vincoli e dei legami commerciali con tutto il mondo Mediterraneo che ha determinato
una positiva circolarità economica e culturale.

6 marzo
Date esoneri scritti: 11 aprile - 9 maggio
Regno Franco Merovingio
Questo regno rappresenta la prodromica base concettuale-organizzativa-istituzionale del
regno franco carolingio. Siamo all’inizio della seconda ondata di invasioni barbariche e
facciamo riferimento al regno stanziatosi nelle Gallie all’inizio del VI sec. con a capo il re
Clodoveo. Su questo regno un grande storico, Jean Francois Lemarignier, ha elaborato una
sorta di sintesi di tutti gli studi che erano stati fatti precedentemente ed in questo suo scritto
del 1970 (la Francia medievale - istituzione e società) ci dice che la storiografia si può
dividere in tre grandi correnti di pensiero (ci sono tre idee sui merovingi).
I. Prima corrente: secondo alcuni, i merovingi avrebbero creato un sistema istituzionale
basato su un’idea di sfera di potestà pubblica e questa idea sarebbe derivata da una
copiatura col modello tardo imperiale romano;
II. seconda corrente: è formata da quegli studiosi che affermano che non c’è alcuna sfera di
potestà pubblica in questo regno in quanto è il classico regno romano barbarico con la
struttura popolare-militare;
III. terza corrente: esiste una sfera di potestà pubblica che non deriva dalla copiatura del
modello tardo imperiale ma bensì dalla concezione teocratica della potestà monarchica.

!11
Il regno dei merovingi, nei primi momenti, rimane legato ai costumi barbarici (La
Germanitas è l’elemento principale). Ben presto però l’influsso e l’influenza della
Romanitas e della Christianitas hanno caratterizzato questo regno rispetto ad altri.
Se e in che modo il regno franco merovingio è stato influenzato dall’elemento della
Christianitas e della Romanitas? Partiamo dalla struttura del regno: il governo si fonda in
modo particolare sulle cosiddette unità militari, ma questa non è una novità in quanto tutti i
regni romano barbarici trovano nella guerra il loro fondamento. Oltre le unità militari
troviamo il seguito, formato da un insieme di persone che trovavano autorità nella persona
del Duca e che collaborando con e per il Duca. Si occupavano delle funzioni non militari, di
gestione delle istituzioni e della vita sociale. Il dato particolare che vediamo in questo regno
è la tipologia del territorio: le Gallie, infatti, sono molto particolari poiché quando Clodoveo
entra in questo territorio trova già molte altre popolazioni germaniche che avevano due
possibilità di scelta: potevano scegliere di essere inglobate nel regno franco merovingio o di
rimanere ai margini del regno come alleati, mantenendo una certa autonomia, ma giurando
fedeltà al regno franco merovingio. Questa seconda opzione è quella che scelsero, ad
esempio, i Sassoni e Guasconi. Dal punto di vista istituzionale invece entriamo in quella
considerata la figura più importante: la carica ducale, il Duca.
Ci sono concetti chiave per rispondere alla domanda.
• Il Duca merovingio. Centrale è la carica ducale, sulla quale un grande studioso,
Archibald R. Lewis, ha condotto degli studi in particolare sul regno franco merovingio.
Secondo lui esistono due tipologie di duchi all’interno di tale regno: i duchi delle etnie
autonomie, sono quei duchi già presenti al momento in cui i merovingi entrano nelle
Gallie; i duchi interni, attivi nell’ambito della comunità e lavorano nelle e per le istituzioni
merovinge. Dice poi che col passare del tempo queste due cariche hanno subito
un’evoluzione, in modo particolare la seconda tipologia di duchi che sarà poi il soggetto
centrale della sua riflessione. A suo parere, questi duchi interni ben presto, prestissimo,
avrebbero subito un’evoluzione per cui avrebbero svolto funzioni tanto militari quanto
giurisdizionali e soprattutto sarebbero state figure direttamente dipendenti dal re.
[Romanitas e Christianitas non sono così importanti. Nacci] Le fonti merovinge danno
ragione a Lewis sul fatto che ci sia stata una reale evoluzione di questa seconda tipologia
di carica ducale, dipesa dal fatto che il territorio aveva confini più definiti ed era ora
possibile capire quali erano duchi di questa seconda tipologia, ma soprattutto le fonti
dicono che dalla metà del VII sec. effettivamente i duchi cominciano a svolgere funzioni
giurisdizionali. Non ci sono però fonti che parlano di una immediata e diretta dipendenza
dal re, infatti Lewis fa fatica a spiegare perché proprio dalla metà del VII sec. c’è una

!12
sempre maggiore autonomia del duca dal re, in modo particolare per i duchi delle etnie
autonome. Allo stesso modo però, anche i duchi interni dalla metà del VII sec. sono
sempre più autonomi, per cui non è affatto spiegabile quella parte di ricostruzione che ci
parla di una immediata dipendenza. Questa tesi è contestata da un altro grande storico,
Carl Ferdinand Werner, che in un articolo del 1972 parla in modo particolare dei duchi
delle etnie autonome e afferma che questi sono stati fin da subito indipendenti rispetto al
re ed hanno, abbastanza rapidamente, accresciuto le loro funzioni giurisdizionali. Questi
due aspetti li avrebbero resi alla pari dei duchi interni, infatti lo sviluppo è talmente veloce
che non può essere fatta una distinzione tra le due tipologie di duchi (sarebbe possibile
solo per pochi primi anni). La tesi di Werner ha il merito di aver determinato che
comunque a livello territoriale il regno è talmente peculiare che ci furono queste due
tipologie di duchi, ma ha il limite del fatto che secondo lui, per parlare di una sfera di
potestà giurisdizionale, deve sposare l’idea dell’esistenza di una sfera di potestà pubblica
in mano ad una autorità pubblica quindi al duca; la sfera di potestà pubblica però non è
minimamente indicata dalle fonti merovinge che, quando parlano dell’amministrazione
della giustizia da parte del duca, parlano di una giustizia privata che non è accomunabile al
nostro concetto di tribunale. I duchi in questo regno non si trasformano mai in autori
superiori con il compito di dare sentenze, le loro pronunce sono di tipo puramente
dichiarativo.
• Il Conte merovingio. Su questa figura la storiografia ha lavorato molto, in particolare sul
rapporto tra il Conte e il Comes civitatis. È stato detto che il comes civitatis di fatto
continuò ad operare con funzioni militari che sarebbero rimaste integre anche all’interno
di questo regno; secondo altri il comes avrebbe avuto le stesse funzioni del Grafio, che era
una autorità dell’esercito franco merovingio, che col tempo cominciò ad avere delle
potestà di tipo civile per la comunità che era chiamata a salvaguardare. La tesi più
interessante del rapporto tra conte e comes civitatis è quella di un’altra parte di storiografia
che sostiene che, in quelle città con agglomerati urbani dove c’era una presenza forte di
popolazione romana, dal punto di vista organizzativo ed istituzionale sarebbe intervenuto
una sorte di raddoppiamento delle istituzioni (istituzioni merovinge e romane). Ciò
significa che i franchi avevano istituzioni e allo stesso modo le avrebbero avuto i romani.
Le istituzioni per i franchi erano il Grafio e il Mallus o Mallum, cioè la corte di giustizia/
corte popolare (Malberg era il luogo dove si riuniva la corte popolare che doveva
giudicare su qualsiasi tipo di conflitto, era sempre riunita nello stesso posto [su una
collinetta] ed era un luogo sacro). I romani avevano nel comes l’autorità militare e nella
Curia (luogo) e nel Defensor (persona) gli apparati giudiziali. Queste due strutture,

!13
secondo questa corrente, nella metà VII sec. si sarebbero tanto avvicinate da fondersi in un
tutt’uno, il comes sarebbe stato pienamente nell’apparato militare franco e soprattutto si
sarebbe staccato completamente dalla sola civitas svolgendo compiti autoritari anche al di
fuori di essa, si sarebbe così istituzionalizzato nel sistema franco merovingio. Un
problema che troviamo nella figura del conte è quello per cui una buona parte di
storiografia sostiene che il conte, così come il duca, sarebbe stato nominato dal re e
dunque fosse una figura dipendente dal monarca. Non siamo d’accordo con questa teoria
perché abbiamo fonti che ci dicono in modo chiaro che (Diploma di Childeberto III del
688 o 689 d.C.) il re autorizzò il vescovo di una città (Lemain) a partecipare all’elezione
del conte insieme a tutti gli uomini liberi del distretto che avevano capacità di voto.
Secondo un certo Lot, il conte è una carica che dipende direttamente dal re, invece lui
aveva sbagliato perché in realtà è il contrario. Questo documento fa capire che la scelta del
conte fosse completamente popolare (il conte è una figura popolare, il monarca parla di
elettori naturali). Sia il duca che il conte sono cariche che non hanno un legame con il re
perciò non si può parlare di un monarcocentrismo.
• Centena. Nella linea che ci fa vedere questo regno come uno tipicamente romano
barbarico c’è una terza considerazione da fare: una valutazione della Centena. È un’unità
territoriale più piccola rispetto alla Contea (della quale era a capo il comes). Sulla centena
possiamo dare due delle undici interpretazioni: o era un’articolazione della contea (legata
strutturalmente), oppure un distretto territoriale del patrimonio regio [Tutte e due le teorie
sono plausibili ma la corretta è la prima]. Indipendentemente dalla nostra posizione in
merito, il dato in dubbio è il collegamento tra la centena con l’ambito militare per cui
anche l’etimo richiama al mondo militare.
• Il Re merovingio. Stesse osservazione possono essere fatte per il re. Ci sono due funzioni
svolte dal monarca: la prima è il mundeburdium; la seconda è la gestione del
patrimonio. La prima richiama il potere di mundio, potere di controllo di qualcuno su
qualcun altro, ma in questo caso era una protezione che il re concedeva ai propri sudditi.
In questo caso, il mundeburdium regio del regno franco merovingio, era quello che il re
offriva alla chiesa. Secondo una parte di storiografia la protezione che il re offriva alla
chiesa merovingia era forte allo stesso modo di quella del pater familias nei confronti della
sua famiglia (controllo assoluto). Secondo un’altra parte, il mundeburdio regio nei
confronti della chiesa merovingia, era meno cogente rispetto a quello del pater sulla
famiglia [Questa linea è più corretta. Nacci]. Era però in dubbio che il re svolgesse un
controllo così importante. Questa potestà si sostanziava scegliendo i vescovi e gli abati tra
le persone di sua fiducia nella gerarchia ecclesiastica; il monarca si fa inoltre garante e

!14
protettore dei benefici ecclesiastici (denaro o terre). Il monarca nei Concili aveva una
grandissima influenza. Questo potere così forte si spiega in un solo modo: con la precoce
conversione del monarca Clodoveo che nel 496 viene battezzato. Perché si converte?
Perché si doveva sposare con Clotilde, una principessa cattolica. Questa conversione porta
quindi il fatto che il re, precocemente, ha da quel momento il compito di armonizzare
genti eterogenee tra di loro (minister ecclesiae, capo della chiesa merovingia). Il fatto che
il re sia minister significa che si è reso conto che la chiesa produce ed ha molti benefici e
dunque vi si avvicina per trarne un beneficio economico. Il potere non è pero la creazione
di una potestà monarchica di tipo teocratico. Seconda è la gestione del patrimonio
fondiario: Il regno franco merovingio assiste a un aumento di competenze e di funzioni
nella gestione del suo patrimonio; in questo senso il monarca accresce le sue funzioni, i
suoi poteri, ma questo fenomeno non determina comunque l’attribuzione della sfera di
potestà pubblica; anche in questo caso il monarca non ha un funziona equiparabile a ciò
che chiamiamo sfera pubblica. Ciò che accade come evoluzione dell’elemento della
romanità e della cristianità è che il monarca svolge una maggiore funzione di
coordinamento (riguardo alla Chiesa e alle proprietà ecclesiastiche) e di regolamento e per
l’amministrazione del suo patrimonio. Che però il re non arrivasse mai ad avere una
funzione assoluta dell’epoca moderna, lo vediamo in modo particolare: non c’è alcuna
cerimonia pubblica per il conferimento della corona, il re diventa tale perché erano i capi
militari che lo sceglievano e questi, successivamente, faceva un viaggio in tutte le sue
proprietà per mostrarsi come il nuovo re. In questo senso, il fatto che non esista la
cerimonia della incoronazione ma che il monarca per essere tale compiva un viaggio
attraverso i suoi possedimenti, ci fa capire che il monarca franco merovingio era dunque
un signore territoriale, come tanti altri. Non ha una sfera di potestà pubblica, ma svolge
soltanto una funzione di gestore di beni e delle proprietà legate alla carica regia. Che il
monarca non svolga mai una funzione equiparabile a quella di una potestà pubblica lo si
può testimoniare con una fonte che viene utilizzata dagli storici, “L’elenco delle autorità
franche”, stilata da Dagoberto nel VII secolo d.C. Era una elencazione delle autorità
presenti all’interno dell’apparato organizzativo-istituzionale merovingio; anche la lista di
queste cariche va nella direzione presa in considerazione fino ad ora, perché si può
comprendere che i nomi che sono utilizzati anche nella dicitura e nella spiegazione dei
singoli ruoli, richiamano inequivocabilmente a una organizzazione popolare militare tipica
dei regni romano barbarici. Il primo capitolo definisce in modo semplice e elementare
quali sono le autorità che possono trovarsi nel regno franco merovingio nel VII secolo:
• il decano, che sovrintende a un gruppo di 10 persone;
!15
• il centurio che ha un ma manipolo di 100 soggetti;
• il tribuno che comanda due o tre villaggi;
• il conte (comes), che sovrintende a una o più città;
• al di sopra del comes, c’è il duca (dux) che coordina e governa dodici città;
• infine, il re, che sovrintende a una gente o tanti genti, un insieme di persone rispetto alle
quali il monarca ha una certa autorità. Per genti non si intende tutto il regno franco
merovingio, ma solo l’insieme dei territori che rientrano nel patrimonio del re. Quindi il
monarca non è tale perché svolge una funzione di controllo su tutto il territorio, nonostante
comunque abbia sicuramente una funzione di coordinamento, non avendo infatti un potere
incisivo al di fuori dei territori non appartenenti al suo territorio. Questo elenco annuncia
una linea popolare militare tipica dei regni romano barbarici.

Se non ci bastasse questa fonte, possiamo prendere in considerazione altre fonti del diritto,
che vanno nella linea dimostrativa utilizzata ora: le numerose leggi barbariche, che in
questo tempo vengono promulgate. Tutte mettono in evidenza una natura popolare-
militare barbarica delle norme contenute all’interno di queste disposizioni legislative; è
perciò un altro modo per dimostrare che siamo all’interno di una tipica struttura romano
barbarica.
• La prima legge è il Pactus Legis Saliciae (o Salice): questa legge salica è una legge della
fine del V secolo d.C., che nella sua struttura e nel suo contenuto dimostra che si tratta di
disposizioni normative tipicamente romano barbariche, non c’è niente di diverso, non si
parla di una sfera di potestà pubblica. È una legge che parlando della giustizia, fa
riferimento a una giustizia di tipo privato, che si basa sulla faida, non si parla di
processo, di raccolta di prove, di giudice o di testimoni, quindi vige la legge del taglione e
dal punto di vista degli assetti sociali, la legge mette in evidenza la superiorità dell’uomo
sulla donna. La legge fu utilizzata nelle grandi monarchie per evitare la corona da parte
delle figlie femmine. Fu modificata soltanto nel 1713 da Carlo VI, per permettere poi nel
1740 a Maria Teresa d’Austria di salire al trono; permise l’accesso al trono alle donne. I
Savoia nello Statuto Albertino, accettavano la legge salica, perciò nell’esperienza della
monarchia sabauda non c’è una regina. Nel mondo anglosassone invece, prese in
considerazione la Legge dei Burgundi, che ha permesso anche alle donne di accedere al
trono.
• La stessa cosa avviene con la Lex Ripuaria, una legge della metà del VI secolo in cui si
riproducono le stesse norme nell’assetto sociale, dove si afferma nuovamente la
superiorità dell’uomo sulla donna, e nell’assetto dell’amministrazione della giustizia

!16
perché i giudici svolgono una funzione solo dichiarativa, eliminano eventuali ostacoli che
si frappongono alla celebrazione di una giustizia privata. Anche se la legge è successiva
alla precedente (siamo infatti nel VI secolo), l’assetto normativo rimane lo stesso,
dimostrando quindi che l’esperienza popolare militare rimane costante nel tempo.
• Lex Alamannorum dell’VIII secolo, composta tra il 712 e il 725. Ci sono le stesse
strutture del VI secolo, anche questa legge come le altre, ripropone gli stessi argomenti a
livello sociale e processuale.
Questi tre leggi hanno una importante estensione temporale ma i contenuti sono gli stessi. Si
possono trarre 3 conclusioni da queste leggi, tre aspetti comuni:
1. La centralità del meccanismo della faida e della composizione pecuniaria per le tecniche
di risoluzione delle controversie giudiziarie;
2. Natura assolutamente dichiarativa e mai costitutiva dei pronunciamenti della corte
popolare, perché quando il giudice si pronuncia lo fa per emettere un pronunciamento
dichiarativo, per eliminare eventuali ostacoli che si frappongono alla celebrazione di
una giustizia di tipo privatistico;
3. Forte difesa della famiglia: la famiglia intesa in senso romanistico, cioè la famiglia
con al centro la figura dispotica del pater che aveva un potere assoluto, di vita e di
morte nei confronti dei membri della famiglia, dove erano considerati membri anche gli
schiavi, gli agnati e cognati;
Nessuna di queste 3 leggi fa pensare ad una nuova funzione del re, perché in nessuna si dice
che il re ha in mano una sfera di potestà pubblica, né che il re abbia il compito di garantire i
diritti di tutti, né che il re rappresenti una guida generale di tutto il popolo.
Per quanto riguarda la gestione del patrimonio, siamo in una linea continuativa con
l’esperienza popolare militare dei regni romano barbarici. Il re essendo primus inter pares,
e non avendo una sfera di potestà pubblica, per gestire il “suo” (inteso come annesso al suo
ufficio) patrimonio (considerando che i beni e le proprietà annesse all’ufficio regio sono
immensi), si serve di funzionari. Ma il patrimonio era così esteso che, non si limitò ad
aumentare il numero dei funzionari, ma cominciò ad assegnare delle terre a chi voleva lui, a
uomini di sua fiducia, ai quali o doveva un favore e quindi concedeva un beneficium,
oppure quelli che dovevano farlo a lui. Questo beneficio era caratterizzato dall’aspetto
giuridico dell’immunità; essa dal punto di vista strettamente giuridico ha un duplice aspetto:
positivo e negativo. L’aspetto negativo riguarda il concedente, perché colui che concede il
beneficio, dal momento in cui lo concede, deve vietare ai suoi agenti regi di agire su quei
territori. Quello positivo riguarda il concessionario, perché da quel momento potrà
esercitare i suoi poteri signorili. Questo beneficio è revocabile a piacimento dal sovrano. La

!17
revocabilità è totale: il monarca può revocare sempre e comunque il bene dato in benefico.
Sono beni annessi al patrimonio regio, neanche il re ne è proprietario ma ne usufruisce in
quel periodo di tempo in cui è monarca. Quando il re muore c’è una sorta di congelamento.
Questa consuetudine di dare in beneficio appezzamenti di terre richiama il sistema feudale,
o feudalesimo, chiamato per l’appunto anche sistema vassallatico-beneficiario, perché si
basa sul beneficio ma vassallatico perché richiama un sistema di subordinazione tipica del
vasus, il vassallo legato al signore con un contratto di feudo. Era un sistema piramidale al di
sopra del quale c’era il monarca e i vassalli a seconda della dimensione geografica del
beneficio. Questo aspetto è importante perché già con il Regno Franco Merovingio ci sono
dei momento prodromici di quello che sarà il sistema vassallatico. Pur rimanendo esso un
regno tipicamente barbarico c’è un atteggiamento che si avvicina a quello che sarà il sistema
feudale.

Regno Longobardo
Non interessa se siano giusti in Italia nel 568 o nel 569, tema sul quale la storiografia ha
spesso dibattuto. I longobardi hanno le loro strutture organizzative dove ancora ci sono i
Bizantini: la convivenza crea lotta, avendo abitudini e cultura completamente differenti.
Inoltre, la popolazione di quello che era l’Impero Romano (ora territorio bizantino) non sa
per chi parteggiare, così come anche la Chiesa. L’elemento più rilevante è quello rilevato da
gran parte della storiografia per cui le istituzioni bizantine hanno influenzato
l’organizzazione del regno longobardo in Italia. Infatti, uno dei primi punti di discussione
della storiografia è l’assetto organizzativo della popolazione.
Secondo alcuni i longobardi si sarebbero organizzati individuando una sfera di potestà
pubblica, di cui sarebbero stati titolari il re, i duchi e i funzionari. Altri sostengono che non
vi sia alcuna sfera di potestà, poiché i longobardi hanno mantenuto l’organizzazione
popolare militare degli altri regni.
Il secondo punto di discussione riguarda la natura delle singole istituzioni longobarde.
Assieme a questo tema vi è la discussione sui termini utilizzati per qualificare alcune
istituzioni del mondo longobardo.
• Fara, ovvero un’unità in cui i longobardi erano articolati al momento del loro arrivo nella
penisola italiana. Su questa caratterizzazione si sono espressi due studiosi, che si sono
domandati se la fara potesse essere un’unità di più famiglie o se fosse piuttosto un’unità
militare con all’interno gruppi familiari. A questo quesito hanno risposto due studiosi: da
una parte Jörg Jarnut, il quale sostiene che non sia possibile che esista un legame tra fara
ed esercito; di fatto la fara, sostiene Jarnut, non ha nulla di militare, ma è solo familiare.

!18
Murray sostiene che sia anzitutto militare e sia solo in via secondaria formata da un certo
numero di famiglie.
• Arimanno: su questa figura si i trapanesi una discussione ancora più rilevante che sulla
fara. Dobbiamo però considerare almeno 4 correnti storiografiche che hanno posizioni
differenti su questa figura e sulla sua qualifica. 1) Per la prima, l’arimanno era libero in
quanto facente parte dell’esercito, era quindi l’uomo libero in armi. 2) Una seconda
corrente qualifica l’arimanno come una particolare figura che faceva parte del seguito
regio, ovvero dei consiglieri più fidati del monarca. 3) Una terza corrente, sostiene che
questo termine sarebbe apparso nel corso del tempo, nella prima metà dell’VIII secolo, e
sarebbe l’uomo libero svincolato da qualsiasi rimando all’esercito o al seguito regio. 4)
Una quarta categoria parla invece di un uomo libero superiore nell’ambito di una
evoluzione signorile della società longobarda: l’arimanno poteva essere quindi un signore
fondiario. Questa, secondo il professor Nacci, è quella più convincente, in quanto si
innesta in un’evoluzione che giunge poi al sistema feudale.
• Ducato: la dottrina ha discusso a lungo su questa istituzione. La storiografia è abbastanza
d’accordo sul fatto che il primo ducato sia nato a seguito della presa della città di
Cividale, nel 568. In questa città fu istituita il primo ducato del Friuli, poiché re Alboino
affidò un gruppo di fare al nipote, Gisulfo. È la prima volta, nel 569, che compare questo
termine nelle fonti longobarde. Gisulfo diventa quindi il primo duca longobardo. Una
volta stabilito questo aspetto, è problematico il tema dell’organizzazione del ducato, per il
quale sussistono diverse interpretazioni. 1) La prima vuole che i ducati nascono dallo
stanziamento delle unità militari. Il ducato è da qualificarsi come un raggruppamento
territoriale che appare come evoluzione di alcuni raggruppamenti militari. 2) La seconda
corrente, invece, sostiene che i ducati longobardi sarebbero di derivazione romana
bizantina, che prima il mondo longobardo non conosceva. Queste due correnti vengono
conciliate dallo storico Bognetti che pubblicò uno studio nel quale sostiene che il ducato
non può prescindere da una sua natura miliare che comunque ha dovuto fare i conti con la
vicinanza delle istituzioni bizantine. A differenza di Bognetti, un altro storico, Stefano
Gasparri, ha studiato il ducato longobardo e in un celebre libro ha negato la natura
popolare del duca, per cui questa figura non avrebbe alcuna origine popolare militare. Il
duca sarebbe stata una figura legata al re, un uomo di fiducia dal sovrano, che svolgeva
funzioni in nome e per conto del re. Se questa è la ricostruzione delle maggiori correnti
storiografiche, è necessario prendere in considerazione solo le fonti unanimi, da cui
ricavare tre punti fondamentali.

!19
Le fonti longobarde ci dicono qualcosa di oggettivo rispetto alla domanda in merito alla
presenza di potestà pubblica o meno. La dottrina in modo unanime dice che:
• Le fonti danno una visione di assoluta continuità con i meccanismi di giustizia privata
(valore dichiarativo dei pronunciamenti della corte popolare, faida, composizione
pecuniaria).
• Le fonti in modo unanime ritengono fondamentale il ruolo della gairenthix: è una
assemblea di uomini liberi che aveva il compito di decidere le vertenze giudiziarie, aveva
il compito di amministrare la giustizia. Oltre a ciò aveva anch eil compito di introdurre
norme vincolanti per la comunità (consuetudini accettate e rese vincolanti) e anche il
compito di adottare delibere di interesse generale. [Possiamo associarla al nostro
Parlamento, anche di più].
• La dottrina in modo unanime ci riporta l’importanza della consuetudine come fonte del
diritto, una consuetudine che però si è evoluta in modo esponenziale durante un
particolare periodo di tempo del regno longobardo (643-755 d.C.). Tali consuetudini le
possiamo ritrovare in un’opera che rappresenta il nucleo fondamentale della legislazione
longobarda: l’Edictum regum Langobardorum. A partire dal 643 i vari regni
modificheranno le consuetudini e via via aggiungeranno norme, disposizioni a questo
primo nucleo. In questo periodo noi assistiamo al fatto che il diritto longobardo e le
istituzioni subiscono una profonda influenza, tanto da parte del diritto romano tanto da
parte del diritto prodotto dalla chiesa (romanitas e christianitas influenzano molto il diritto
longobardo).

C’è stata influenza del diritto romano e del diritto canonico sull’ordinamento giuridico
longobardo? Sì, in che modo?
• Diritto Romano. Ci fu sotto il regno di Liutprando il tic conoscimento formale in merito
all’utilizzo del diritto romano. Al capitolo 91 dell’editto, Liutprando dispose che i
contraenti potevano rivolgersi ad uno scritto e farsi redigere una cartula negoziale
(schema del contratto che si voleva porre in essere). Questa cartula poteva essere scritta
utilizzando uno dei due diritti utilizzati tra le genti: o il diritto romano o quello
longobardo. Nel capitolo 127, invece, sempre Liutprando, stabilisce la regola che dice che
se una donna longobarda sposava un uomo romano , la donna assumeva la legge personale
del marito. Il capitolo 153 stabiliva che l’uomo longobardo che diventava chierico
assumeva la legge romana perché la quest’ultima era intrisa maggiormente di elementi di
cristianesimo rispetto a quella longobarda. Il diritto romano è realmente entrato nel diritto
longobardo.

!20
• Diritto della chiesa (è ancora sbagliato parlare di diritto Canonico). La chiesa ha inciso in
due ambiti: matrimonio e famiglia. In questi due ambiti il diritto longobardo è stato
toccato oggettivamente dall’influenza della chiesa.
• Matrimonio: nel matrimonio originario del diritto longobardo, la donna, che aveva una
incapacità di agire, interveniva nel contatto matrimoniale come una res. Il padre o il
fratello titolari del mundio sulla donna promettevano la figlia o sorella ad un altro
soggetto e il contratto si perfezionava attraverso la traditio: il passaggio materiale
della donna dal mundio del padre al mundio del marito. A questo elemento la chiesa,
col passare del tempo, svolge un’opera di personalizzazione della donna che avviene
attraverso l’inserimento di un terzo atto formale: subharratio cum anulo, ovvero lo
scambio dell’anello ed era per l’esperienza barbarica un modo per determinare una
prestazione di consenso da parte della donna. La presa dell’anello costituisce il
consenso della donna ed un generale addolcimento del matrimonio longobardo.
• Famiglia: attraverso la chiesa si iniziò a tutelare i figli nati dal matrimonio legittimo.
Liutprando, per tutelare i figli nati dal matrimonio legittimo, esclude dalla successione
paterna i figli nati da nozze illecite.

Questa influenza ha inciso così profondamente nel modo di pensare il diritto per i
longobardi? No, anche se è innegabile una certa efficacia del diritto romano e del diritto
della chiesa, non hanno modificato a livello viscerale le istituzioni longobarde.

Per quale motivo?


• Persiste il principio della personalità del diritto
• Amministrazione della giustizia: nonostante l’addolcimento della chiesa e del suo diritto,
di fatto l’amministrazione della giustizia rimane di tipo privatistico.
• C’è una profonda continuità con la tradizione popolare-militare originaria per quanto
riguarda i principali istituti del diritto longobardo. Questi istituti sono il diritto di famiglia,
matrimonio, il diritto dell’uomo sulle cose. Nonostante tutto ciò che abbiamo detto
sull’influenza del diritto della chiesa in ogni caso la famiglia longobarda si fonda a livello
nucleare sull’autorità del pater e sul suo potere di mundio. Per quanto riguarda il
matrimonio, nonostante l’aggiunta dello scambio dell’anello, elemento centrale del
matrimonio continua ad essere la traditio. Per quanto riguarda il diritto dell’uomo sulla
cosa, nel mondo longobardo è sbagliato parlare di ius e di res, si parla di gewere. Significa
che nel mondo longobardo è l’assoluta protezione che l’uomo ha nei confronti della cosa

!21
che possiede, è un istituto che protegge a livello solo ed esclusivamente materiale il
legame tra l’uomo e la cosa, non c’era minimamente l’animus possidendi
Nonostante ci siano addolcimenti, gli aspetti fondamentali e centrali del diritto longobardo
rimangono legati alla tipica configurazione di un tipico regno romano-barbarico.
La maggior parte degli storici dicono che il dominio longobardo va diviso in due fasi.
Questa corrente ci dice che le fasi sono ben distinte.
• Stanziamento. Durante la prima fase gli storici sostengono ci sia stata una grande crisi
della carica regia all’inizio del regno longobardo. Re Alboino viene ucciso nel 572, Re
Clefi nel 574, solo dopo due anni. Nel 574 la conquista non aveva fatto grandi progressi.
Giocheranno un ruolo centrale nella prima fase il duca e i ducati (Il ducato inteso come
l’insieme di più fare unite). Non è tanto il re, assumono un ruolo più rilevante i ducati. Il
re non è stato così fondamentale anche perché la carica regia, dopo la morte di Clefi, fu
reistituita solo nel 584, dieci anni dopo, e significa che non ce ne era affatto bisogno. I
duchi, quando fu reistituita la carica regia, assegnano alla carica regina una spiccata natura
militare ma anche una certa somma di denaro e un certo numero di beni (beni fiscali: terre
produttive di reddito).
• Assestamento. Il diritto e le istituzione avrebbero raggiunto quella forma compiuta che si
porteranno fino alla fine del regno. A partire dalla metà del VII secolo entriamo nella
seconda fase. Questa fase è determinata da un cambiamento dovuto a due fattori:
• Passaggio da una comunità migratoria ad una stanziale
• Evoluzione della produzione economica verso un’economia chiusa (signoria fondiaria
o aziende curtensi). Le aziende curtensi assumevano poteri signorili che li avrebbero
staccati da tutti gli altri soggetti, diventavano autorità superiori al popolo. Questo ci
richiama l’Arimanno. Tra questi signori fondiari rientra anche il re, infatti il re è
considerato non tanto come una guida suprema del popolo, è semplicemente uno dei
tanti possessori di terre. Il re gestirà le terre sia attraverso uffici periferici che uffici
regi. Non assumerà mai una sfera di potestà pubblica.

Rapporto tra regno longobardo e romani


I romani inizialmente (fase stanziamento) sono completamente estranei dalla vita
longobarda, durante il VII sec. I romani sono completamente estranei dalla vita longobarda.
I romani non svolgono mai la funzione di funzionari, non sono minimamente considerati dai
longobardi. Dalla seconda metà del VII secolo abbiamo un oggettivo avvicinamento delle
due etnie, un avvicinamento che non porta ad un pieno godimento dei diritti politici tanto
che i romani non entrarono mai a far parte dell’esercito.

!22
Rapporto tra regno longobardo e chiesa
Eliminano tutte le più grandi diocesi. Nonostante ciò, il clero iniziò una vera operazione
missionaria volta a convertire le genti longobarde. Questa azione fu talmente importante che
il re Autari impedì il battesimo perché non dovevano convertirsi al cristianesimo. La
conversione delle famiglie ricche longobarde portarono a: furono ricostituiti i patrimoni
ecclesiastici; il clero locale acquisì un maggior prestigio nella società longobarda; furono
indetti sempre più concili. Un importante ruolo giocò la figura del papa, fu considerato il
papato un elemento importante per il rafforzamento delle istituzioni ecclesiastiche
longobarde. Questo determino una sorta di azione circolare, le famiglie ricche longobarde
vedono nella protezione della chiesa e dei beni ecclesiastici un ruolo fondamentale per
mantenere la grazia del papato.

[Una struttura completamente differente da quella longobarda di concepire la christianitas e


la romanitas è l’ordinamento carolingio. Base concettuale dell’ordinamento carolingio
Concetto di stanziamento avviene in due modi: mondo romanitas e christianitas viene
contaminato … unità produttiva (aziende curtensi) che incidono sui rapporti intersoggettivi
autonomi. Meccanismi di tutela del diritto: profondamente influenzato dal modo di ingresso
delle popolazioni nel regno romano d’occidente. La differente modalità di gestione e
ingresso delle popolazioni incide in modo profondo sulla possibilità di tutela delle situazioni
giuridiche soggettive. Abbiamo da una parte la modalità ?, tutela del diritto signorile che
vanno a sostituirsi a quelli di stampo prettamente popolare-militare. Fonte del diritto per
eccellenza è la consuetudine.]

15 marzo
Regno Franco Carolingio
Esperienza romano-barbarica che segue quella merovingia. L’avvento di questa dinastia
avviene in un momento storico in cui i meccanismi tradizionali germanici di promozione
della giustizia vanno a scontrarsi con i sistemi signorili dove il grande possessore fondiario
inizia ad esercitare un grande potere, compreso quello di amministrazione della giustizia.
Fonte del diritto per eccellenza è la consuetudine, che ha da un punto di vista oggettivo un
valore inferiore a quello normale delle fonti.
Le opere letterarie di questo periodo denunciano una lamentela: non avere una corretta
modalità di tutela dei meccanismi del diritto, si lamentano su una generale decadenza e
decadimento della giustizia. A tutti questi elementi problematici Carlo Magno cerca una

!23
soluzione introducendo novità nell’ordinamento giuridico. Carlo Magno vive tra il 742 e
l’814, fu re dei Franchi dal 768 e re dei longobardi dal 774, imperatore dalla notte di Natale
dell’800 d.C. La politica e le scelte di Carlo Magno caratterizzeranno per tutta la durata
della sua vita l’ordinamento giuridico, e queste scelte saranno fondamentali per lo sviluppo
del diritto. La storiografia si proietta verso una definizione di ordinamento prettamente
monarcocentrico, con una crescita esponenziale della funzione e dei compiti della carica
regia. Il monarca inizia a legiferare (potestà legislativa). Carlo Magno avrebbe creato un
sistema di governo unitario con lui al centro e altri funzionari attorno legati alla sua persona;
si aveva una rilevante suddivisione tra centro e province. È realmente un regno
monarcocentrico? Al centro del regno, nella domus regia, ci sarebbero stati, attorno al
monarca, alcuni ufficiali e funzionari che sovrintendevano le principali funzioni del re:
• Senescalco: sovrintendente del palazzo regio
• Camerario: sovrintendeva agli appartamenti del re perché vi si trovava il tesoro personale
del monarca
• Comes Stabuli: capo della cavalleria
• Cancellarius: capo della cancelleria prima regia poi imperiale. Era colui che
sovrintendeva ai singoli funzionari che lavoravano nella cancelleria regia: vertice
dell’amministrazione centrale, coordinatore di tutti i funzionari centrali.

In provincia, invece, abbiamo un rappresentante del sovrano, il Conte, nominato dal re che
agisce in nome e in conto suo ed è aiutato da un vicario (vice comes), colui che in caso di
bisogno sostituiva il conte nell’amministrazione. Secondo questa ricostruzione storiografica,
la contea si suddivideva in tante piccole circoscrizioni dette centene con il centarius,
direttamente dipendente dal conte. Mentre il conte è figura dipendente dal re, il centarius,
inteso come capo di una centena, è dipendente dal conte. Oltre a questa forma di governo di
tipo monarcocentrico, la storiografia dice che il re avrebbe creato una nuova figura di
funzionari non stabili che invia nelle province: i missi dominici, funzionari con funzione di
controllo e che vengono suddivisi in due tipologie: i missi ad hoc e i missi ordinarii. I primi
erano coloro che avevano una missione ben definita, erano nominati funzionari per svolgere
una determinata funzione; i secondi avevano un mandato generale in virtù del quale
dovevano garantire la corretta esecuzione degli ordini regi in provincia.
Diversa era l’amministrazione delle regioni poste ai confini dell’impero. Queste regioni si
sarebbero suddivise territorialmente in una struttura unitaria che prendeva il nome di marca,
affidata al comes marcae (marchio o margravio), era un soggetto nominato direttamente dal
re e suo rappresentante, agiva in nome e per conto del re.

!24
L’ordinamento carolingio è monarcocentrico perché sta al centro ma sovrintende anche tutto
il resto. Il re acquisisce il pieno governo di tutto il popolo. Secondo questa teoria,
espressione di tale cambiamento della concezione del monarca sarebbe la cerimonia di
incoronazione. Per la prima volta con Carlo Magno si ha l’incoronazione che si sarebbe
associata anche ad un altro momento che rappresentava quello in cui il monarca si staccava
dal resto del popolo. Nella notte di Natale dell’800 Carlo Magno viene incoronato da Papa
Leone III, si crea un connubio indissolubile tra la potenza regia ed ecclesiastica (“il papa
aveva trovato il suo partner ideale”). Il sacramento dell’unzione regia ha al suo interno il
passaggio della corona, del mundio (rappresenta la volontà di rimarcare che il re è qualcuno
che sta al di sopra, è una sorta di principe sciolto dalle leggi) e dello scettro dal papa
all’imperatore. Secondo questa ricostruzione tutto ciò avviene per la prima volta con Carlo
Magno (Conferimento del controllo della giustizia al re). Ci sarebbe stato nel mondo
carolingio il definitivo abbandono dei modi tradizionali di amministrazione della giustizia in
quanto il re ne diventava titolare. Ciò determinò l’idea della creazione di una sfera di potestà
pubblica, talmente forte che il re, come conseguenza, assume una fortissima potestà
legislativa. La norma diventa veicolo della volontà stessa del sovrano. Questa si coglie dai
capitularia, fonte del diritto di età carolingia: sono leggi che obbligavano i sudditi e che
esprimevano la suprema volontà del re. Anche nella qualificazione stessa dei capitolaria si
trova questa definizione, divisi in due:
• Capitularia legibus addenda: aggiungono qualcosa a leggi che già esistevano
• Capitularia per se scribenda: leggi nuove valide per tutti i sudditi dell’impero
Questa corrente storiografia è stata attaccata da alcuni autori perché hanno ravvisato dei
punti oscuri: alcuni non sono d’accordo per alcune teorie di fondo, altri hanno contestato la
ricostruzione di alcune figure come il conte o dell’amministrazione del patrimonio.
L’ordinamento carolingio è monarca centrico o è di stampo popolare-militare?
• Il conte carolingio: partendo dal conte franco merovingio possiamo chiederci se quello
carolingio è un continuatore o è qualcosa di più, cioè espressione diretta della volontà del
re. I Capitolari carolingi ci dicono che il conte svolge funzioni militari e quindi uguali a
quelle che svolgeva il conte merovingio. Oltre alle funzioni militari, il conte carolingio
svolgeva funzioni di amministrazione della giustizia, il suo compito era quello di populus
facere iustitiam, quindi il conte doveva far rispettare e tutelare il diritto della tradizione.
Questa funzione del conte come colui che è tutore del diritto della tradizione la esplicita lo
stesso Carlo magno che, nel Capitulare missorum generale dell’802, dice che i liberi
devono osservare le norme del popolo (consuetudini accettate dal popolo) e nel capitolo
26 invita i conti e i centenari a tutelare il diritto della tradizione secundum legem scriptam,

!25
non secundum arbitrium suum. Lo stesso capitolare però non parla di una funzione del
conte o del centenario diversa da quella dell’epoca merovingia: il conte non diventerà mai
il giudice che intendiamo noi, il conte e coloro che amministravano la giustizia devono
seguire i meccanismi di giustizia popolari militari. Quindi non c’è distinzione di strumenti
tra il conte franco merovingio e quello carolingio, però si può parlare di una evoluzione di
funzione. Infatti, il conte carolingio è un soggetto che acquisisce molte più funzioni fino a
diventare un’autorità di primo piano nel regno. Le fonti ci affermano questo
accrescimento di funzioni: nel Duplex legationis edictum del 789 (capitolo 17) e i
Capitula a missis dominici ad comites directa dell’801-813 (cap. dall’I al V). Questi due
documenti affermano che il conte deve occuparsi di categorie di soggetti deboli che
potrebbero soccombere quali le vedove, gli orfani e gli schiavi affrancati (miserabiles
persones). Altra fonte è il Capitulare Aquisgranense dell’801 al 803: aveva lo scopo di
disciplinare le tecnicità del procedimento giudiziario nei confronti di un soggetto che
aveva commesso un furto o una rapina in una contea e poteva essere trasferito in un’altra
contea per essere giudicato. Altro è il Capitulare missorum Aquisgranense primum
dell’810 assieme al Capitulare de iustitiis faciendis dell’811-813: entrambi si occupano di
quelle vertenze giudiziarie che riguardano la titolarità di un fondo o della libertà di un
uomo. Questi due ci dicono che le cause giudiziarie che hanno per oggetto questi due
argomenti possono essere presi in esame dalla corte popolare solo se presieduta dal conte.
L’elemento di novità più importante è il rapporto che si crea tra il conte carolingio e
l’autorità unitaria del sovrano. Questo rapporto si sostanzia dicendo che Carlo Magno,
molto spesso, interviene nei confronti dei conti e di coloro che amministrano la giustizia
per incitarli ad amministrare la giustizia, ricordandogli che quello è il loro compito
principale. Perché Carlo Magno insiste a più riprese? Perché nel modo di amministrare la
giustizia si creano altri soggetti cioè la signoria fondiaria e le corti popolari che iniziano a
surclassare l’amministrazione della giustizia. Si rende conto che pericolosamente c’è
un’evoluzione in senso signorile dell’ordinamento e questa evoluzione è ciò che porterà
all’implosione del regno carolingio. Carlo Magno però, per provare ad arginare questo
assetto signorile che stava crescendo, fece ancora di più, non solo esortava i conti, ma
dette vita ad una nuova magistratura: la magistratura dei missi dominici. A questi ultimi fu
affidata una funzione di tipo giudicante, intervenivano direttamente per curare il corretto
funzionamento dei sistemi tradizionali di giustizia. Il fatto che ci sia una differenza
sostanziale tra missus e conte noi lo vediamo dal modo di compiere l’attività che gli da il
sovrano: il missus è agente diretto del sovrano ed inizierà a produrre pronunce costitutive;
il conte invece era “controllato” dal missus.

!26
• Amministrazione del patrimonio regio: in primis, il patrimonio regio è gigantesco
grazie alle conquiste e con l’assetto definitivo della struttura dell’impero ed è gestito in
particolare dagli uffici della domus regia. Il patrimonio era formato anche da tante
strutture satellitari: le curtes in provincia, in queste c’è il iudex che è l’unico agente regio
ammesso alla gestione del patrimonio del re in ciascuna delle curtes. Problema che si crea
è un cortocircuito tra iudex e conte e viene indagato da Thompson in un suo testo. Dice
che il iudex è un agente regio e molto spesso le singole curtes si trovavano in contea
(c’era un conte e magari tanti iudex). Nella lettura patologica della vita quotidiana è
possibile dire che iudex e conte sono diversi ergo il conte non è figura direttamente
dipendente dal re.
Possiamo dire quindi che il conte franco carolingio non cambia la sua natura originaria,
rimane la stessa del conte merovingio. Thompson (The dissoluzione of the Carolingian fisc
in the ninth century, 1935) dice che l’ufficio di conte è ricoperto da persona con ingente
patrimonio: ci sono due tipologie di terra fiscale: una terra gestita direttamente dal re
attraverso i suoi agenti e una terra concessa dal re in via temporanea a persona di sua
fiducia: vassalli. Del periodo carolingio iniziano a manifestarsi le prime norme strutturate
che in seguito hanno dato inizio al sistema vassallatico. I carolingi introducono novità: una
sul piano formale ed una sul piano sostanziale. Piano formale: oltre alla cerimonia della
commendatio (stretta di mano) aggiungono il giuramento di fedeltà. Piano sostanziale:
diventano vassalli anche gli esponenti più elevati della società. Mentre nel mondo
merovingio essere vassallo significava essere protetti dal signore territoriale, nel mondo
carolingio inizia la consuetudine di coloro che diventano vassalli anche se fanno parte della
classe più alta della società. Questo perché comincia ad essere un onore essere un vassallo
del re, un vassus casatus (faceva parte degli strati più elevati della società) che svolgeva
funzione inerente alle grandi funzioni dei funzionari del palazzo regio. Essere vassallo non
era una capitis deminutio, era un titolo d’onore.

Genesi di un diritto feudale in epoca carolingia?


Ancorché il conte assuma sempre più funzioni, ancorché il re, molto spesso, interviene per
dire ai conti di svegliarsi nell’amministrazione della giustizia perché l’assetto signorile stava
fagocitando i compiti del conte. Nonostante l’ampliamento delle regole, le consuetudini del
futuro diritto feudale, cioè della concessione della terra a titolo di beneficio vassallatico che
entra nelle spire della società, anche negli strati più elevati; nonostante tutto questo siamo
ancora, anche per questo regno romano barbarico, all’interno di un tipico ordinamento di

!27
stampo popolare-militare, perché il diritto feudale come tale si manifesta nel mondo
carolingio come quelle norme e quelle consuetudini per fare acquisire ai soggetti privati una
certa potestà in concorrenza con quella del re. Per cui, con un re intelligente e furbo come
Carlo Magno si riesce a gestire tutto; con monarchi pusillanimi e debosciati, come i
successori di Carlo Magno, non si riesce a tenere le redini dell’impero. Infatti, non è un caso
che dall’814 l’impero carolingio comincia un declino irrefrenabile.

!28
20 marzo
Diritto feudale
Si può parlare della genesi di un diritto feudale già in età carolingia ma con alcuni
accorgimenti maggiori rispetto al mondo merovingio. Il momento di svolta, per il quale noi
assistiamo ad un rafforzamento del sistema vassallatico-beneficiario, noi lo possiamo
intravedere alla morte di Carlo Magno (814 d.C.), momento in cui assistiamo, in
quell’impero, ad una frammentazione politica rilevante che porta, alla fine del IX sec., il
regno franco carolingio ad essere suddiviso in tre parti. Dall’817 all’880 abbiamo quattro
trattati che smembrano, uno dopo l’altro, l’unicità dell’impero carolingio. La divisone
definitiva avviene con l’ultimo di questi quattro trattati: il trattato di Ribemont, dell’880
d.C., in cui troviamo il vecchio impero carolingio diviso in tre regni: il regno dei franchi
occidentali, il regno dei franchi orientali e il regno di Borgogna. Perché questo
smembramento? Da cosa è dipeso? Questa divisione dipese dalla stessa causa che rese
grande il regno carolingio: il sistema feudale. Con la suddivisione dell’impero carolingio
noi dobbiamo per forza notare un elemento oggettivo: c’è stata una crisi della politica di
Carlo Magno, non per colpa direttamente sua ma, l’immenso territorio dell’impero
carolingio unita alla suddivisione dell’impero in feudi, ha determinato un indebolimento
della politica centrale, quindi un indebolimento della possibilità di incidere, di Carlo
Magno, all’interno del vastissimo territorio. Questa grande crisi politica diventa
assolutamente irreversibile con i successori di Carlo Magno che non avevano sicuramente il
suo nervo strutturale, non avevano le caratteristiche di comando e di imperio che aveva lui:
ciò portò ad un accadimento molto importante per lo storico del diritto, cioè alla
sostituzione del sistema popolare-militare (in particolare amministrazione della giustizia ma
più in generale un po’ tutto) col sistema curtense, che si afferma e quindi si ha la definitiva
emarginazione delle forme associative di stampo popolare-militare. Che cosa significa
affermazione del sistema curtense? Il sistema curtense è un sistema sul quale poi si
insinuerà il diritto feudale (che non è che l’organizzazione economica del sistema curtense),
il sistema economico delle curtes. La corte era intesa come un fondo dominante (spesso un
appezzamento di terra) dal quale dipendevano altri fondi che venivano coltivati da servi, da
soggetti semi liberi o da soggetti liberi. Dal punto di vista etimologico la parola corte viene
da cohors, inteso come uno spazio chiuso, recintato da una siepe o da un piccolo muro, che
circondava un edificio che era l’azienda, ecco perché si chiamerà poi “azienda curtense”.
[La corte era quel territorio che aveva un suo confine ben delineato e questo territorio
circondava un edificio]. L’edificio poteva anche essere una chiesa o un monastero, si
trattava dell’azienda della chiesa o monastero. Le fonti del diritto che abbiamo in merito
sono quelle su due tipologie di corti: da una parte le corti regie, dall’altra le corti
monastiche o ecclesiastiche, cioè quelle corti di pertinenza delle chiese o dei monasteri. Chi
ci racconta in modo preponderante di queste corti sono rispettivamente il Capitulare de
!29
villis di Carlo Magno (siamo intorno all’800/801); mentre alcuni documenti che prendono il
nome di “polittici” fanno un’elencazione dei beni materiali delle corti monastiche o
ecclesiastiche (due tra i più importanti polittici sono il polittico di Bobbio e il polittico di
Santa Giulia da Brescia, contengono l’elencazione dei beni tanto delle corti monastiche
quanto delle ecclesiastiche). Questo è il sistema, di fatto, della cosiddetta economia curtense
medievale.
Nel medioevo lo sviluppo economico passa necessariamente attraverso queste corti,
attraverso queste strutture economiche, tanto che, un grande storico del diritto, Gioacchino
Volpe, in un suo studio del 1904 ha parlato dell’economia curtense medievale dicendo che
è “un microcosmo che basta a se stesso per due/terzi”, dove il concetto di lavoro è
diversificato a seconda delle categorie di persone ma coordinato (Si parla di diversificazione
ma allo stesso tempo di coordinazione come caratteristiche centrali dell’economia curtense
medievale). Con il sistema curtense noi vediamo il definitivo abbandono dei meccanismi di
natura popolare-militare e quindi l’affermazione di un concetto di vita tanto economica
quanto giudiziaria di tipo signorile, infatti sarà centrale, in questa parte di medioevo, il ruolo
del signore fondiario. Il signore fondiario ha un ruolo centrale perchè, per le persone che
vivono all’interno della corte, in quel territorio chiuso, il signore fondiario è colui che
garantisce i diritti, tutela le persone, garantisce le persone stesse ed amministra la giustizia.
Ha un compito praticamente totale, compreso quello dell’amministrazione della giustizia
che va dapprima in collisione per poi fagocitare completamente quello tipico dei regni
romano barbarici. Il sistema curtense anche oggi è individuabile, tanto in Italia quanto
all’estero, ad esempio in molte località rurali del bresciano, lodigiano, altra è Courmayeur.
La signoria fondiaria diventa il metro di valutazione e di strutturazione dell’economia
medievale. L’azienda curtense è infatti stata anche chiamata, in quanto struttura produttiva,
da Silvio Pivano, un grande studioso, “una forma di organizzazione produttiva rurale”.
Quindi ogni persona svolgeva un compito ben preciso, e nello svolgere il proprio compito
era coordinata da un altro soggetto che svolgeva una funzione di coordinamento e controllo
delle funzioni minori dal punto di vista dell’organizzazione produttiva: c’erano soggetti
addetti alla produzione e all’imballaggio, c’era chi si occupava del bestiame, della
coltivazione e nell’avere ciascuno la propria funzione era controllato e controllore. Allo
stesso tempo la persona era inserita all’interno di un ingranaggio produttivo che nel sistema
medievale prende il nome di comunitarismo.

La signoria fondiaria
Signoria fondiaria: questa unità produttiva rurale era tendenzialmente un appezzamento di
terra formato da tante micro parti unite dal recinto (o dal muretto o siepe) che faceva da
elemento connettivo. Si pensi a tante monadi, tante strutture che “bastano a se stesse per
2/3”, stavano quindi abbastanza bene dal punto di vista dell’auto sufficienza ma non erano
!30
indipendenti l’una dall’altra (erano autonome ma non indipendenti perché il sistema feudale
stava in equilibrio sulla base di tante strutture monadiche che erano le singole aziende
curtensi che poi diventeranno nel territorio i singoli feudi che a seconda della grandezza e
del soggetto titolare sarà il vassallo, valvassore o valvassino). Ma come era strutturata
l’azienda curtense?
Era formata da un territorio suddiviso in due parti: la pars dominica e il massaricium. Il
massaricium, a sua volta, era diviso in tanti piccoli mansi. Il signore fondiario è a capo di
tutta l’azienda, ma come si struttura il lavoro all’interno? Ciascun manso è affidato ad una
famiglia di contadini che era obbligata a coltivarlo: dei frutti prodotti da ciascun manso, la
famiglia di contadini trattiene una parte per il loro fabbisogno e l’altra la danno al signore
fondiario (tendenzialmente 1/3 per sé, 2/3 per il signore). I contadini di tutti i mansi, oltre a
coltivare il loro manso, erano obbligati a coltivare e rendere fruttifera anche la pars
dominica e di questa parte tutti i frutti andavano al signore fondiario. In questa struttura
dove il signore ha un potere pressoché totale di vita e di morte sui soggetti (amministrazione
e tutela) che è chiamato banno, o potestà bannale, che è un potere non solo arbitrario ma
che riguarda anche la libertà sulla decisione della produzione e sulla distribuzione del
prodotto [Potestà bannale: il signore aveva una libertà totale sulle decisioni anche in merito
alle coltivazioni come ad esempio decidere cosa fosse meglio coltivare in un territorio o
come commercializzare quel prodotto, in che modo far fruttificare una terra di cui era
titolare]. Con bannum intendiamo dunque una funzione che al suo interno ha altre
caratteristiche, cioè non è soltanto la tutela nei confronti dei soggetti, non è solo il controllo
del lavoro o l’esercizio della potestà giudiziaria ma è anche, per esempio, la decisione libera
sul dove e come sfruttare al meglio quelle terre. Qual’è la parte evolutiva di queste aziende
curtensi? Il fatto che già sul finire dell’impero di Carlo Magno, e in modo particolare con i
successori, riescono per la loro poca attitudine al potere e al controllo a perdere molte curtes
regiae appartenenti al patrimonio del monarca. Perché le perdono? Perché i signori fondiari
delle signorie vicine alle curtes regiae, lentamente riescono a fagocitare le competenze del
soggetto che doveva lavorare all’interno della corte regia come rappresentante del monarca,
ovvero le funzioni degli iudices. Questo accade perché i successori di Carlo Magno non
riescono ad organizzare il controllo periferico e l’assenza di questo controllo fa si che il
signore fondiario inizi ad assorbire le competenze ed i soggetti dalla corte regia
inglobandoli nella loro azienda curtense e quindi al loro controllo, per poi espandersi.
Questo assorbimento totale delle corti regie è elemento patologico negativo dell’impero
carolingio che a causa di monarchi incapaci non riesce a tenere il controllo di questi
possedimenti regi in periferia che erano un’enorme fonte di reddito per il patrimonio regio.
Perché e come mai il diritto feudale ha successo? Deriva dal fatto che questo sistema di
organizzazione fu utilizzato da tutti gli strati della società, non soltanto dal monarca ma
anche da altri soggetti che vedevano nella organizzazione feudale la riposta più incisiva alle
!31
questioni di natura socio economica che si presentavano all’uomo medievale. Il sistema
feudale riuscì poi a mettere bene in relazione le singole persone col signore fondiario, il
signore fondiario con altri signori fondiari (che poi saranno tutti insieme i vassalli) e
l’insieme dei vassalli con il monarca. La cosa interessante è che un sistema che si sviluppa
per l’incapacità di alcuni monarchi poi riesca a creare equilibrio tra il monarca e il sistema
feudale in quanto tale. Il successo del diritto feudale è talmente evidente che Marc Bloch,
un grande storico del diritto, ha parlato nel suo libro “La società feudale” di un diritto
feudale diviso in tappe storiche: il primo momento è un momento che è possibile
individuare già compiuto all’interno del regno dei franchi occidentali, già qui abbiamo un
sistema compiuto di diritto feudale; secondo momento quando si diffonde a macchia d’olio
in tutta Europa. Col passare del tempo, si sviluppano delle consuetudini che rendono più
formalistico il rapporto che si crea tra i soggetti, non soltanto fra il monarca e i grandi
signori, ma anche fra i grandi signori e i signori meno importanti, o fra i signori meno
importanti e quelli ancora meno importanti (è questo il sistema del vassallo-valvassore-
valvassino, la gradazione di importanza all’interno del sistema vassallatico-beneficiario).
Come si struttura il rapporto fra questi soggetti? Il rapporto tra questi soggetti si sviluppa
attorno ad un contratto che prende il nome di contratto feudale o contratto di feudo, per far
sì che si possa regolare un rapporto di tipo vassallatico-beneficiario. Il contratto feudale si
qualifica come un rapporto giuridico complesso articolato in tre elementi: un elemento
personale, uno reale ed uno chiamato dell’immunità.
• Elemento personale: l’animus di questo rapporto è quello della fedeltà
• Elemento reale: la terra che nel sistema feudale prende il nome di beneficium, questo
perché non sarà sempre e solo la terra, saranno anche degli uffici.
• Elemento dell’immunità: è di raccordo tra i due. Ha doppio contenuto: ha contenuto
negativo per il concedente perchè, dal momento in cui crea questo rapporto di feudo, deve
dire ai suoi agenti che non possono entrare più in quel territorio ad esercitare i diritti in
nome e per conto del concedente; positivo per il concessionario che potrà esercitare diritti
signorili che prima esercitava il re o i suoi agenti.
Il rapporto feudale nasceva anche grazie all’espletamento di alcune formalità che, benché si
chiamino formalità, erano necessarie per il perfezionamento del contratto di feudo:
• Prestazione del giuramento di omaggio e il giuramento di fedeltà da parte del vassallo.
• Giuramento di fedeltà: il vassallo prestava il giuramento con le mani una sull’altra (a
mo’ di preghiera) e mettendole sui testi sacri oppure su una qualche reliquia sacra che
possedeva il signore (era necessario anche l’elemento della sacralità per perfezionare il
contratto).
• Giuramento dell’omaggio: constava di due elementi. In primis c’era la immixtio
manum, mescolanza delle mani e quindi il darsi la mano; poi c’era la dichiarazione di
volontà del vassallo che era verbale e all’interno della quale il vassallo diceva che
!32
“non avrebbe mai commesso niente per nuocere il signore”. Si svolgeva nella domus
del signore e quando si giungeva al momento della consegna del beneficio bastava
prendere in mano simbolicamente una zolla di terra o una pergamena (nel caso fosse
un ufficio da svolgere nella domus del signore) a rappresentare la trasmissio del
beneficium.
Una volta che erano presenti questi tre elementi il contratto iniziava a realizzare i suoi
effetti.
In realtà giocano un ruolo rilevante, nell’evoluzione del contratto di feudo, i cosiddetti usus
feudorum: le consuetudini feudali, quella serie di comportamenti che prendono forma nello
svolgimento del contratto di feudo e diventeranno l’elemento su cui basare i successivi
contratti di feudo. Le regole del diritto feudale sono l’insieme delle consuetudini feudali ed
hanno il compito di precisare quel complesso insieme di diritti e di doveri in capo al signore
e in capo al vassallo.
Doveri del vassallo
Il vassallo ha un elementare dovere: quello di rimanere fedele al signore. Il dovere
elementare del vassallo si esplicita però in un duplice contenuto: quello di astenersi da ogni
azione diretta o indiretta a procurare danno al signore e inoltre deve prestare al signore il
suo consilium e il suo auxilium, una somma di attività che il vassallo ha il dovere di
compiere nei confronti del signore.
• Il consilium: è il dovere del vassallo di assistere il signore con il proprio parere
nell’esercizio della funzione giudiziaria, doveva partecipare a tutte le sedute della corte
giudicante presieduta dal signore.
• L’auxilium: è il dovere del vassallo di prestare al signore soldati, quindi si sostanzia nella
maggior parte dei casi nel prestare al signore servizio militare. Questo avveniva o
attraverso l’invio di un contingente militare, oppure attraverso l’invio dello scutagium,
una somma di denaro con cui il signore poteva rifornirsi come meglio credeva per lo
svolgimento dell’attività militare. Oltre a questo invio di somma di denaro però, il
vassallo aveva l’obbligo, dettato dalla consuetudine, di inviare una somma di denaro in tre
occasioni predeterminate nella sua vita di soggetto feudatario:
• Nel caso di rapimento del signore il vassallo doveva pagare il riscatto;
• Quando il figlio maschio primogenito del signore diventava maggiorenne, il vassallo
doveva inviare la somma di denaro per comprare l’armatura militare;
• Quando il signore aveva una figlia femmina primogenita che giungeva alle nozze, per il
matrimonio della donna il vassallo doveva versare una somma di denaro a titolo di dote
matrimoniale.
Oltre queste occasioni ordinarie potevano essercene altre straordinarie in cui il vassallo
versava denaro al signore.

!33
Doveri del signore
Anche il signore doveva mantenere la propria fedeltà nei confronti del vassallo e lo faceva
non togliendogli il beneficio senza motivo o in materia arbitraria. Poi aveva il dovere di
protezione e di mantenimento nei confronti del vassallo: ovvero che, una volta che un
signore dava un beneficio ad un soggetto, quest’ultimo doveva essere sano, nel caso di un
terreno doveva essere coltivabile o nel caso di un ufficio, ad esempio del vassus casatus,
doveva avere un contenuto.

21 marzo
Col passare del tempo, le consuetudini feudali giunsero anche a determinare la possibilità di
strutturare il sistema feudale così come lo conosciamo in tutto il medioevo: una
strutturazione che si incardina all’interno società. Come può avvenire questo radicamento
maggiore rispetto a quello conosciuto nel mondo carolingio? Questo radicamento del diritto
feudale noi lo abbiamo solo con un passaggio: l’ereditarietà del feudo, cioè la possibilità di
ereditare il feudo a determinare condizioni e circostanze. Mentre nel mondo carolingio,
quando un vassallo moriva, il re riprendeva il beneficio (il monarca poteva revocare il feudo
quando volevo), inizia a svilupparsi la consuetudine di poter ereditare i feudi.
A partire dalla metà del IX sec. si sviluppa la consuetudine di poter ereditare i feudi
maggiori che erano quei feudi concessi direttamente dal monarca. L’ereditarietà implicava
che alla morte del vassallo, il beneficio non tornava nella piena disponibilità del monarca
ma passava all’erede del vassallo. Questo stabiliva il capitolare di Quierzy dell’877 d.C.,
emanato da Carlo II detto il Calvo, re dei franchi occidentali, in cui si stabilisce appunto la
possibilità di ereditare i feudi maggiori. Di fatto, la normativa stabilita da questo capitolare
non parla di una trasmissione diretta ed immediata alla morte del vassallo, bensì di un
determinato metodo di trasmissione: alla morte del vassallo il beneficio veniva ripreso dal
monarca che aveva l’obbligo di ritrasmetterlo all’erede del de cuius (vassallo). Questo
passaggio formale è necessario (per il rapporto di fedeltà che c’era tra signore e vassallo)
perché il monarca, durante il passaggio formale, doveva e poteva così verificare che non ci
fossero casi di indegnità a ricevere e succedere. Per esempio, poteva capitare che il padre
molto anziano non moriva e quindi si dava al figlio, questo figlio però molte volta uccideva
il padre ed era quindi indegno a succedere. Quest’ultimo fatto accadeva molto spesso
durante il medioevo ed è per questo che Carlo II stilò il capitolare. Col passare del tempo
inizia a svilupparsi la consuetudine di poter ereditare non soltanto i feudi concessi
solamente dal sovrano (maggiori) ma anche i cosiddetti feudi minori, cioè quelli concessi
all’interno di quel sistema vassallatico-beneficiario [Valvassore al valvassino, vassallo al
valvassore]. A questo punto tutti i feudi possono essere ereditati. Questa disposizione la
ritroviamo all’interno di un capitolare, la Constitutio de Feudis del 1037 d.C. di Corrado II
il Salico, in cui stabilisce che anche i feudi minori, cioè quelli non concessi direttamente dal
!34
sovrano, potevano essere ereditati. Cosa comporterà questa doppia struttura, cioè il poter
ereditare prima i feudi maggiori e poi quelli minori? Ciò comporta che per ereditare il figlio
del vassallo doveva essere maggiorenne. Ma non sempre, quando un vassallo moriva, il
figlio aveva raggiunto la maggiore età. Gli usus feudorum ci danno delle regole abbastanza
rigide da utilizzare nel caso in cui l’erede non avesse raggiunto la maggiore età. La
consuetudine più normale era quella secondo la quale il signore assumeva la tutela del
soggetto minorenne e così facendo veniva qualificato come procurator o custos del soggetto
minore. La nomina di procuratore o custode comportava che il signore si appropriava
interamente del beneficio che spettava al minorenne e assumeva l’obbligo di educarlo e
mantenerlo fino al raggiungimento della maggiore età. Una volta che il soggetto sottoposto
a tutela avesse compiuto la maggiore età, sarebbe lui stesso diventato titolare del feudo con
tutti i suoi obblighi. Una consuetudine particolare riguardante questo rapporto tra minore e
procuratore (che poteva essere il signore o monarca) era sviluppata nella zona di Parigi e
circostanti: in queste zone, ad assumere la tutela del minore, non era il monarca o il signore
ma era il parente più prossimo che ne assumeva la custodia e la tutela e fino al
raggiungimento della maggiore età. In questi casi il parente doveva mantenere il minore e
tutelarlo, ma allo stesso tempo diventava vassallo fino a che il minore non raggiungeva la
maggiore età. Nel caso in cui il vassallo avesse soltanto figlie femmine, inizialmente veniva
applicata una regola consuetudinaria secondo la quale la donna non poteva assolutamente
ereditare il feudo per via degli obblighi principalmente militari (auxilium) che non poteva
svolgere e infatti, una volta morto il vassallo, il feudo tornava nel possesso del signore o del
monarca. Successivamente si cercò di risolvere questo problema facendo ereditare il feudo
alla donna ma quest’ultima doveva scegliere un uomo, non necessariamente lo sposo, che
adempisse agli obblighi dell’auxilium (cosiddette prove muscolari). Se poi la donna si
sposava, gli oneri militari erano svolti dal marito. Il diritto feudale fu coì diffuso e
capillarmente struttura in tutta la società che toccò perfino la chiesa e le sue istituzioni:
infatti il diritto feudale arrivò a portare delle particolari conseguenza all’interno della
gerarchia ecclesiastica. In che modo il diritto feudale incide sulla gerarchia ecclesiastica?
Scegliendo i vescovi e gli abati: tale intromissione non è che una forma medievale di
cesaropapismo, cioè l’intervento dell’autorità temporale su ciò che è autorità spirituale.
Questa intromissione poteva avvenire in due modi: i signori potevano o eleggere loro
direttamente il vescovo o l’abate oppure il signore poteva conferire ai monaci (per eleggere
l’abate) o al capitolo cattedrale (per il vescovo), che era un organo collegiale, la licentia
eligendi, che è la licenza di eleggere qualcuno e poi il signore doveva comunque confermare
l’eletto. Affinché l’eletto potesse realmente prendere il possesso del beneficio si dovevano
comunque espletare tutte le formalità necessarie al perfezionamento del contratto di feudo.
C’è poi da dire che l’abate o il vescovo eletto era perfettamente inserito in un sistema
feudale. Da non dimenticare sono due aspetti importanti: primo è che nella maggior parte
!35
dei casi i possedimenti, i benefici, delle diocesi e dei monasteri erano ricchissimi e questo
ingolosisce non poco la potestà temporale; secondo aspetto è che l’abate del monastero e il
vescovo non avevano figli e quindi non avevano questo limite, dunque non c’era il
problema dell’ereditarietà. Il sistema feudale è talmente sviluppato anche all’interno della
gerarchia ecclesiastica tanto che noi abbiamo un importante strumento per verificarlo:
l’Eigenkirke, chiesa privata o chiesa propria. Quest’ultima era un’istituzione che si
sviluppa in particolare in quel periodo, ed era una chiesa che un signore o un gruppo di
soggetti decideva di fondare in un determinato territorio: il signore faceva costruire la
chiesa, la arredava con arredi sacri, sceglieva il sacerdote, dotava la chiesa dei beni
necessari affinché potesse avere una propria sussistenza ma il limite di queste chiese private
è che il parroco non rispondeva alle entità ecclesiastiche ma al signore, questo è un esempio
classico di radicamento del diritto feudale in tutta la società.

!36
Caratteristiche del proto-Medioevo
Dobbiamo prendere in considerazione è che siamo in un mondo giuridico completamente
rovesciato rispetto a quello romano perché il mondo medievale ha un diritto che forma un
ordinamento (ordine giuridico medievale). Il concetto di ordine però non piace molto
perché c’è tutto meno che l’ordine in quel mondo, infatti il mondo medievale è definito il
mondo della “pluralità di monadi” [La monade è a se stante ma non si completa se non
facendo riferimento a due entità]. Le due entità del mondo medievale sono il papa e
l’imperatore, due soggetti che almeno formalmente assumono il colore di autorità
coordinatrici, questa realtà è quindi pluralistica. Prima grande caratteristica è che, nel
mondo medievale, ciò che è differente è il concetto stesso di diritto perché mentre il diritto
romano si fonda sulla legge, è prettamente legale, quello medievale è prettamente
consuetudinario. Infatti la fonte del diritto più espressiva dell’età medievale è la singola
consuetudine che insieme alle altra va a comporre l’insieme delle consuetudini delle singole
comunità e che poi diventa vincolante per la popolazione. Il fatto che sia un mondo
consuetudinario evidenzia un’altra caratteristica: il fatto che ci sia un’incompiutezza del
potere politico. Si parla di incompiutezza perché il potere politico per potersi esprimere
deve legiferare, per legiferare deve esprimere una volontà. Il princeps medievale (che già
parte come primus inter pares) non ha questa attitudine, non ha un progetto politico
totalizzante, non considera la legge come manifestazione del suo potere che invece si
caratterizza per la difesa del territorio, per la riscossione delle tasse e per far fruttificare le
terre. Non c’è quindi la volontà di legiferare. Ma perché il potere politico è incompiuto? Le
ragioni più profonde di questa incompiutezza sono innanzitutto le continue e profonde crisi
demografiche (soprattutto nell’alto medioevo) che comportano un pessimismo
antropologico che pervade la comunità e l’uomo medievale e che fa si che si passi, a livello
psicologico, da una mentalità di tipo antropocentrico ad un reicentrismo, cioè non si ha
fiducia nell’uomo in quanto tale ma si ha nelle cose che possono costituire sostentamento
materiale nei momenti di crisi (la res sta al centro del ragionamento dell’uomo medievale, la
terra produce tutti gli strumenti funzionali con cui l’uomo può sostentarsi). Altro elemento
per cui possiamo parlare di incompiutezza del potere politico sono le stirpi nordiche che
entrano in quello che era l’ex impero romano d’occidente, quindi una diversificazione
antropologica, di nazionalità che porta al coordinamento di persone molto differenti. Per
questo motivo, il monarca non ha tempo per pensare ad esprimere se stesso attraverso la
volontà ma deve sistemare cose molto diverse e ciò comporta questa problematica
abbastanza rilevante. Altro causa dell’incompiutezza è la Chiesa perché mal sopporta una
mentalità totalizzante da parte del detentore del potere politico: non a caso il momento più

!37
alto di secolarizzazione, inteso come scollamento fra il sentimento religioso e la società, noi
lo abbiamo in epoca moderna, in modo particolare dopo la riforma protestante. La chiesa,
sposando una mentalità non individualista ma comunitaria che si manifesta nell’ “extra
Ecclesiam nulla salus”, ovvero che è la comunità a proteggere il singolo ed anche in questo
caso si favorisce la concezione del potere politico incompiuto. La crisi demografica, quindi
il passaggio dall’antropocentrismo al reicentrismo, l’invasione delle stirpi nordiche e la
chiesa romana sono tre fattori che comportano questa incompiutezza del potere politico. Ma
queste tre cause fanno si che il diritto prodotto abbia caratteristiche totalmente diverse
rispetto all’esperienza giuridica passata e anche rispetto a quella che sarà poi, quindi a
quella moderna.
Il diritto prodotto del medioevo ha delle caratteristiche estrinseche che sono il carattere
ordinativo e quello autonomo, che sono le due caratteristiche essenziali.
• Ordinativo: significa che il diritto non ha un carattere di tipo potestativo, il diritto è
costume che viene osservato e quindi è l’insieme delle consuetudini. Il diritto è visto come
esperienza, infatti Giuseppe Capograssi, un filosofo e giurista molto importante, parlerà
del diritto medievale come visione esperienziale del diritto, il diritto appartiene talmente
tanto alla società che “è come qualcosa di scritto sulla pelle degli uomini”.
• Autonomo: significa che il diritto non è espressione del potere politico ma lo è delle
comunità intermedie, (per esempio una è la fara, la corporazione, quelle strutture che
riunivano i soggetti che svolgevano la stessa professione). La possibilità di scegliere una
legge, la legge personale, le cosiddette professiones iuris, anche quella è l’espressione di
una mentalità comunitaria del diritto. Il diritto è quindi ciò che si manifesta all’interno
delle comunità intermedie.
Le conseguenze del carattere autonomo e ordinativo del diritto medievale sono di ordine
prettamente antropologico che poi incidono nel mondo del diritto. La principale di queste
cause antropologiche è il comunitarismo, ovvero la sfiducia nei confronti del singolo
soggetto e, in modo consequenziale, fiducia nei confronti della comunità intermedia: l’uomo
decide di cedere idealmente una parte della sua individualità per far parte di una struttura
più ampia. Questo lo fa per un senso di rassicurazione, per una ricerca di protezione: è
questo il ruolo fondamentale della comunità intermedia [Paolo Grossi fa un esempio e dice
che si può immaginare l’uomo medievale nel paragone con la formica. Infatti può essere
visto come una formica che è perfettamente pensabile al di fuori del formicaio, ma il
rapporto di protezione che sussiste fra uomo medievale e la comunità è lo stesso che sussiste
tra la singola formica e il formicaio]. Nel mondo medievale il soggetto, sposando la
mentalità comunitaristica, sopravvive uti socius e non uti singulus. In questo processo di
inserimento dell’uomo nella società a far da acceleratore è la chiesa che svolge un ruolo
molto importante (salus aeterna animarum che garantisce la chiesa). Ciò è individuabile in
!38
alcuni grandi filosofi o teologi che hanno indirizzato il loro pensiero sulla prevalenza di una
mentalità comunitaristica. Ad esempio prendiamo il maggiore esponente della filosofia e
teologia medievale: San Tommaso d’Aquino. All’interno della sua opera, la Summa
teologica, ad un certo punto parla della legge e dice che “la legge è un certo ordinamento
della ragione rivolto al bene comune, promulgato da chi ha il governo della comunità” [In
latino: Lex est quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam
communitatis habet promulgata]. Elemento centrale di questa concezione di legge di San
Tommaso è quel “ad bonum commune”, e significa che la centralità della comunità ha ruolo
fondamentale all’interno dell’esperienza giuridica medievale. Stessa cosa ci dice
Sant’Alberto Magno, maestro di San Tommaso, quando dice che la legge è un ordinamento
giuridico complesso per la cui formazione concorrono tre soggetti: populus, princeps et iure
consultus, il popolo è ovviamente il più importante perché è colui che, attraverso le sue
consuetudini, manifesta al principe quali siano le regole da eventualmente porre in essere,
regole che vengon redatte in forma giuridica attraverso il giureconsulto, l’esperto di diritto.
Lo stesso dirà più avanti Ugo di San Vittore che dice che ciò che caratterizza la legge non è
tanto il singolo soggetto ma è la comunità, infatti è solo attraverso la comunità che la grazia
riesce a diffondersi pienamente, parla di una “diffusione privilegiata”.

22 marzo
Altra caratteristica del diritto medievale è la fattutalità. Il termine fattualità rimanda al fatto
che può essere qualsiasi fatto della vita: fatto climatico, fatto economico, comportamenti
collettivi, ecc. Perché il fatto ha incidenza sul diritto medievale? Si minimizza il contributo
del singolo nella formazione del diritto, e focalizzare l’attenzione su altri due elementi
fondamentali della fattualità del diritto:
• il sangue, inteso come appartenenza a un gruppo familiare o pluri-familiare, cioè come
gruppo che è includente verso gli appartenenti del gruppo ed escludente verso coloro che
non lo sono (e quindi rimanda al comunitarismo).
• il tempo, inteso come un accumulo di momenti che incide sul diritto senza una specifica
volontà umana. Nel mondo romano infatti un certo modo di far passare il tempo
determinava la possibilità del determinarsi di un certo istituto giuridico (es. usucapione):
nel mondo medievale l’uomo ha terrore del tempo e per supplire il terrore nei confronti di
questo tempo che passa, il tempo è visto come un elemento di timore.
Il sangue è un elemento protettivo, e insieme al tempo e con la terra costituiscono i 3
elementi caratterizzanti del diritto medievale. Caratterizzano il modo di esprimersi del
diritto medievale dal punto di vista della fattualità.
• la terra è un elemento materiale che vincola a se l’uomo e gli garantisce nutrimento,
garantisce sussistenza materiale.

!39
Il tempo visto come accumulo di momenti, rappresenta lo scorrere dei momenti affinché il
gruppo familiare possa proseguire nella sua discendenza. È una struttura che dunque
richiama il fatto come assolutamente materiale.
Il legislatore (principe medievale) ha un ruolo di amministrazione della giustizia del suo
patrimonio, partecipa alla corsa dei signori per accaparrarsi terra, non ha alcun potere
diverso dai capi militari perché è primus inter pares. Quindi il suo ruolo è assolutamente
minore rispetto a quello della modernità giuridica, perché nel medioevo il ruolo del princeps
è quello di essere aequs, cioè di essere equo. Caratteristica fondamentale del principe è
quella dell’equità. Egli ha cioè il compito di ius dicere, il suo compito fondamentale è
quello della iurisdictio: il suo compito non è quello di fare le leges, non è un principe che
promulga leggi. Il principe medievale ha un compito minore in questo senso, egli deve
soltanto limitarsi a leggere quei dati normativi che sono già iscritti nella natura delle cose,
ed eventualmente trasformarli in norma giuridica, mediante l’ausilio dell’esperto del diritto,
che sa scrivere il diritto. Quindi il potere del principe medievale è quello di iurisdictio. Deve
manifestare attraverso una legge scritta ciò che è già non scritto nella natura delle cose. La
natura gioca un ruolo fondamentale nel medioevo. Riprendendo il celeberrimo rapporto
triadico Dio-uomo-natura, gioca un ruolo fondamentale anche l’uomo, come colui che vive
nella natura la divinità, ma anche Dio, che ha creato la natura, all’interno della quale sono
già inscritti quietati normativi che il princeps può trasformare in legge scritta, con l’aiuto
dell’esperto di diritto. Questo rapporto triadico aristotelico, sarà completamente scardinato
nel mondo moderno, dove verrà sostituito con un rapporto diretto: dio e uomo, secondo il
quale l’uomo è capace di leggere da solo la Sacra Scrittura. Il principe medievale non
considera il suo potere come potere di fare le leggi, non si autodetermina nel fare leggi, può
solo ius dicere, cioè individuare e rendere in forma normativa qualcosa che è già presente in
natura. Il principe medievale, si diceva, deve essere il lettore della natura, cioè colui che
legge qualcosa che già esiste. Non ha alcuna attività creativa, deve sistemare soltanto
qualcosa già presente in natura (Si parla di “appartatezza del legislatore”).
Questa caratteristica del principe medievale determina anche l’ultima grossa caratteristica
del Medioevo, il peculiare rapporto fra lex e consuetudo. É un rapporto peculiare, che
verrà scardinato nel mondo moderno, che si sostanzia in questi termini: la consuetudine è
una legge in potenza, perché potenzialmente tutte le consuetudini possono essere leggi, e la
legge è una consuetudine redatta per iscritto, non è un atto della volontà arbitraria del potere
del princeps, ma è la messa per iscritto di principi giuridici che già esistono in natura.
Questo è il vero discrimine tra medioevo ed età moderna: c’è infatti un cambiamento di
mentalità del principe. È qui che si gioca la vera differenza tra i due mondi. Il princeps, che
non sarà più primus inter pares, ma sarà princeps legibus solutus, che sta al di sopra delle
leggi. Il principe come monarca assoluto che manifesta il suo potere non con atti
dell’intelletto, ma con atti di volontà, la volontà individualista e arbitraria del monarca
!40
assoluto è la tipica forma espressiva della mentalità giuridica, a differenza deI medioevo,
dove il principe si limita a compiere un’attività interpretativa dei dati giuridici, che si
trovano già nel mondo naturale.

Il ruolo della chiesa nel Medioevo


In questa grande operazione comunitaristica, gioca un ruolo fondamentale la chiesa romana:
essa, con il suo ruolo centrale, incide fortemente ed esprime perfettamente la mentalità
comunitaristica. essa si manifesta come corpo intermedio, rappresentativo del
comunitarismo medievale.
Qual è il ruolo della chiesa Romana nel medioevo? Incide su qualcosa o no? E in che modo
la chiesa romana è protagonista nel medioevo? Come espresso nel principio “Extra
Ecclesiam nulla salus”, la chiesa romana, che svolge nel medioevo un ruolo centrale, si
presenta come una comunità, come corpo intermedio espressivo e rappresentativo
perfettamente a pieno titolo del comunitarismo: c’è una motivazione culturale. La chiesa
svolge un ruolo di guida, di coordinamento e coordinazione che, soprattutto nelle piccole
comunità rurali più lontane dal centro, il monarca non riesce a svolgere. Tutte le città
medievali infatti hanno due cuori pulsanti: chiesa e municipio (potere temporale). Tutto
ruota intorno alla chiesa, che svolge nelle piccole società rurali un ruolo fondamentale. In
assenza e nella incompiutezza del potere politico e nell’appartatezza del legislatore essa ha
un ruolo importante. Per lo storico del diritto la presenza giuridica della chiesa nel
medioevo è fondamentale per tre ragioni:
1. La chiesa è l’unica istituzione che si professa fin dalle origini come ordinamento
giuridico primario (“Ecclesia est societas iuridice perfecta”, cioè la chiesa è una società
giuridica perfetta). Ha le sue potestà, le sue istituzioni, ha i diritti per poter esercitare le
potestà di cui è titolare, è un ordinamento che si è creato dal punto di vista istituzionale
e non è dipendente da altri ordinamenti giuridici.
2. Essa fin dall’inizio ha voluto produrre un proprio diritto (fatti del 380, 325, 313), quello
canonico, benché guardasse a quello romano. Si parla di collezioni di opere canoniche,
opere letterarie formate da canoni, volute sin dall’inizio della chiesa. Le fonti di questa
volontà le troviamo nelle cosiddette collezioni pseudo-apostoliche, cioè collezioni di
diritto canonico già a partire dal I secolo.
3. Il diritto canonico non è soltanto il diritto di un apparato sacerdotale, di una confessione
religiosa, non è solo un diritto che parla di sacramenti, matrimonio, confessioni, ecc…
ma esso fa parte della vita interna del diritto giuridico medievale. Struttura cioè lo stesso
ordinamento giuridico medievale.
Di fronte a queste tre ragioni lo storico del diritto deve porsi questa domanda: perché la
chiesa vuole un diritto suo? Perché ha bisogno del diritto prodotto dalla chiesa, di un suo
diritto? La chiesa ha inteso produrre un suo diritto per una ragione antropologica, né
!41
giuridica né politica. Si fonda cioè, nel medioevo sul ruolo svolto della chiesa, sulla
salvezza eterna delle anime: è la chiesa che stabilisce quali sono i precetti, le direttive e gli
elementi giuridici da seguire per arrivare a questo fine. La ragione più intima della
produzione del diritto da parte della chiesa, è una ragione assolutamente di tipo
antropologico. La chiesa professa la salvezza eterna delle anime con un fine ultimo, e
stabilisce i precetti per raggiungerla. Questo fine lo si può raggiungere anche attraverso il
diritto, che è un mezzo per raggiungere il fine ultimo, non il fine ultimo stesso. Il diritto
nell’ordinamento canonico è un mezzo per raggiungere un fine ultraterreno, non terreno,
cioè la salvezza delle anime. Non ha funzione come nell’apparato statuale di mantenere
l’ordine pubblico. Nell’espressione “Extra Ecclesiam nulla salus” emerge la mentalità
comunitaristica, perché la chiesa si presenta come una comunità salvante, che detta regole,
principi e norme che, se ben seguiti e determinati, possono portare anch’essi alla salvezza
dell’anima.
Lo sviluppo del diritto della chiesa è per lo storico del diritto un elemento molto importante:
gli storici del diritto parlano di due momenti ben distinti nei quali si sviluppa il diritto
prodotto dalla chiesa:
• Ius antiquum - Proto-Medioevo: è il primo millennio (IV-V sec. d.C. / XI-XII sec. d.C.),
chiamato dagli storici del diritto canonico il periodo del ius antiquum. Qui si ha una
operazione di stratificazione delle fonti del diritto. Ciò significa che nel primo millennio
di vita della chiesa, sono moltissimi gli organi istituzionali della chiesa che producono
norme, le quali vengono riunite in collezioni di diritto canonico, cioè opere di diritto
canonico contenenti norme. In questa stratificazione del diritto canonico ci sono decretali
pontificie, cioè documenti dei pontefici, i documenti dei concili, i documenti dei sinodi,
ecc… cioè sono molte fonti del diritto della chiesa che vengono alla luce e si stratificano
l’uno sull’altro. Intono all’anno 1000, inizia un nuovo modo di strutturare il diritto della
chiesa, non solo visto come un insieme di norme, delle rigide disposizioni: il diritto
canonico inizia ad essere studiato in modo scientifico, nasce quella disciplina che prende
il nome di scienza del diritto canonico. Studio scientifico del diritto canonico significa
che non si guarda più la bolla papale (documento che aveva il sigillo del papa, era uno dei
commenti più espressivi del magistero pontificio), ma le singole bolle papali o i singoli
decretali pontefici vengono studiati a livello dottrinale, ovvero si guarda ciò che
producevano a livello di diritto. Inizia cioè a svilupparsi una dottrina intorno al diritto
prodotto dalla chiesa. A partire dal 1088 (data della nascita dell’università di Bologna), il
diritto canonico, riunito nel Ius Commune, sarà oggetto di studio nelle più importanti
università europee per lo studio della giurisprudenza. Ci sono tre grandi studiosi del diritto
canonico: Ivo di Chartres, Algero di Liegi e Pietro Abelardo. Questi ultimi si rendono
conto che la stratificazione delle fonti poteva creare problematiche applicative del diritto
dal punto di vista pratico, cioè dal punto di vista applicativo c’era una disarmonia. Per
!42
loro era necessario armonizzare le norme discordanti, ovvero i canoni (da “canon”, cioè la
deliberazione che veniva presa all’interno dei concili; le singole norme all’interno del
codice sono canoni, non articoli). Il primo che fece questa operazione culturale fu Ivo di
Chartres, che in un’opera particolare (nel suo prologo), “Panornia” (scritta tra il
1092-1095) afferma che per lui, per risolvere questo problema di non armonia delle norme
del diritto canonico, era necessario considerare questo: non è detto che le norme, ancorché
diverse siano necessariamente in opposizione. Possono essere armonizzate e applicare il
principio dispositivo che deriva da una norma sulla base della valutazione della fattispecie
completa. Il suo pensiero si riassume in una frase scritta proprio all’interno di quel
prologo: “diversi sed non adversi”, cioè “diversi ma non avversi”: si possono utilizzare
entrambe le norme che apparentemente sembrano in contrasto, sulla base di accorgimenti
interpretativi infatti possono essere utilizzate entrambe. Anche Algero di Liegi scrive
un’opera, “De misericordia et iustitia” scritta tra il 1095 e il 1121, al cui interno parla
della distinzione che sussiste tra leggi che devono essere applicate in senso stretto
(strictum ius), che lui chiama “giustizia”, e quelle leggi che al loro interno contengono
una dispensa, che viene chiamata “misericordia”. La dispensa è la possibilità, nel caso
concreto, di disapplicare la legge quando l’applicazione della legge costituisce per il
raggiungimento della salvezza eterna, un nocumento superiore del giovamento stesso
della sua applicazione, sarebbe qui di più negativo che positivo applicarla. Egli per
arricchire la sua esposizione teorica, aggiunge dei suoi commenti. Un altro autore che
merita di essere ricordato è Pietro Abelardo, che scrive tra il 1115 e il 1117 “Sic et non”,
un’opera pratica: voleva dimostrare in pratica che è possibile armonizzare norme
apparentemente discordanti fra di loro. La sua opera è un insieme di 158 questioni
pratiche, dove lui dimostra ciò.
• Ius novum - Medioevo maturo, chiamato dagli storici del diritto canonico ius novum
(XI-XII sec. d.C. / XIV-XV sec. d.C.) e che dura fino al concilio del Trento (celebrato tra
il 1455-1463) e che è anche la stagione delle Decretales pontificie. Nel passaggio da
Proto-Medioevo a Medioevo maturo, o da ius antiquum e ius novum cambia
l’atteggiamento perché ci si rende conto che non è più sufficiente l’opera del singolo
autore che commenta le singole norma, ma è necessario passare a una sistemazione delle
fonti del diritto canonico. Si parla di un passaggio dalla stratificazione alla sistemazione
delle fonti. L’inizio del secondo millennio si caratterizza per una operazione culturale e
legislativa di sistemazione delle fonti del diritto canonico. I pontefici sovrabbondano nel
promulgare decretali, promulgano molte disposizioni. La decretale pontificia è una riposta
di un papa ad una autorità ecclesiastica o civile. Il papa risponde più precisamente con
una regola di diritto (regula iuris), che diventa utilizzabile anche per altri casi. La scienza
del diritto canonico va avanti, non si ferma con questi tre grandi studiosi, e chi farà
un’opera sistematica di armonizzazione dei canoni discordanti è Graziano, un monaco
!43
che studiò a Bologna e molto probabilmente insegnò lì. Egli decide di compiere un’opera
che ha come scopo ultimo quello di armonizzare le norme discordanti. Usa le fonti più
disparate, che chiama autorictates, per armonizzare le norme discordanti. La sua opera,
conosciuta come “Decretum Gratianii”, si chiama in realtà “Concordia Discordantium
Canonum” scritta tra il 1140 e il 1142. Per risolvere questi apparente contrasti, usa tutte le
fonti possibili e immaginabili, perché per lui per risolvere un contrasto apparente tra
norme o un caso concreto utilizza una fonte specifica, spiegandone il motivo. Egli fa
anche dei commenti personali profondi circa la soluzione che offre. Il commento
personale si chiama “dictum”. L’insieme dei suoi commenti sono chiamati “dicta
gratiana”. Quindi usa dicta ed autorictates per risolvere apparenti contrasti tra norme e
casi giuridici e armonizzare casi concreti. Il 1140 è una data a cui è attribuito il decreto di
Graziano, che ci fa fare una riflessione importante: erano già state fondate le più
importanti università (Bologna 1088). Si ha già lo studio del diritto canonico all’interno
dell’università. Tutto ciò porta i pontefici a promulgare decretali, ma ciò comporta che
anche tante decretali cominciamo a essere in lettura contraddittoria l’una con l’altra. È
necessario anche compiere un’opera di armonizzazione. In questo caso è compito del
Papa, che deve cioè promulgare una collezione di decretali pontificie che costituiscano un
universum del diritto canonico. Il primo che ha questo pensiero è Papa Gregorio IX, che
affida a un grande canonista la scrittura, la strutturazione di una collezione unitaria di
decretali pontificie, che sarà ufficialmente promulgata nel 1234, col nome di “Collectio
decretalium Gregorium IX” o “Liber Extra” (extra rispetto al decreto di Graziano, che
era materiale di studio nelle università). L’attività decretalistica va avanti, e dopo Gregorio
IX, chi decide di armonizzare e razionalizzare l’immenso patrimonio delle decretali
pontificie è Bonifacio VIII, che nel 1298 assegna a un gruppo di tre giuristi il compito di
scrivere una raccolta di decretali pontificie. Questa verrà ufficialmente promulgata nel
1298 col nome di “Liber Sextus”, perché aveva una strutturazione rigida, in 5 libri (iudex,
iudicium, clerus, cunnubia, crimen):
• iudex non parla del diritto processuale ma dei principi generali del diritto
• iudicium = attività giudiziaria della chiesa
• clerus = tutto ciò che riguarda la gerarchia ecclesiastica
• connubio = diritto matrimoniale
• crimen = diritto penale canonico.
• Nella mente di Bonifacio VIII la sua opera doveva essere la sesta parte, quella di
Gregorio IX, il Liber Extra.
Agli inizi del XIV secolo, Clemente V, da vita a un’altra collezione di decretali, da
prolungarsi ufficialmente. Egli muore prima di poterla promulgarla, e verrà promulgata dal
suo successore, Giovanni XXII, nel 1317 e prende il nome di “Clementinae”. Noi oggi lo
troviamo riunito insieme ad altre 2 collezioni decretali (“Extravagantes communes” e
!44
“Extravagantes Ihoannis XXII”), che furono privatamente trovate da Jean Chappuis, che
insieme al Decreto di Graziano, al Liber Extra, al Liber Sextus e alle Clementinae del
grande corpo normativo della Chiesa formato in epoca medievale e pubblicato nel 1500 da
Chappuis chiamato “Corpus Iuris Canonici”.

Alla fine dell’XI secolo ci sono cambiamenti a livello antropologico ed economico talmente
evidenti, che la storiografia non esita a parlare di un passaggio dal Proto-Medioevo al
Medioevo Maturo, con la premessa che il Medioevo rimane uno, poiché l’esperienza
giuridica è unitaria, totalmente in continuità. I cambiamenti sono sostanzialmente due:
• cambia il paesaggio agrario, da uno silvo-pastorale, di boschi dove non ci sono
coltivazioni, si passa ad un passaggio di terre coltivabili. La struttura boschiva si
trasforma in una organizzata. C’è una massimizzazione del profitto, giungendo ad un
sistema di economia monetaria.
• cambia la coscienza collettiva, per cui si passa da un atteggiamento di sfiducia nei
confronti del singolo soggetto, ad un atteggiamento propositivo nei confronti del soggetto,
che ha delle importanti conseguenze. Il soggetto comincia a credere in se stesso.

!45
27 marzo
Caratteristiche del Medioevo maturo
Nel XIV secolo avvengono cambiamenti che determinano il passaggio da una parte del
medioevo all’altra. I cambiamenti evidenti che avvengono nel passaggio dal X all’XI secolo
sono visibilmente evidenti: c’è un cambiamento del paesaggio agrario, cioè dal punto di
vista della toponomastica cambia il modo di concepire la terra. Infatti non c’è più una terra
legata al piccolo disboscamento per produrre frutto solo per quella piccola famiglia o quella
corte ma cambia il paesaggio. Ogni possibilità di coltivazione delle terre viene infatti
sfruttata: c’è una massimizzazione del profitto che viene considerato elemento centrale del
passaggio dell’economia monetaria che inizia a svilupparsi proprio nell’IX sec. Il
cambiamento del passaggio è quindi anche una ‘cartina di tornasole’ per quanto riguarda ciò
che avverrà all’economia. Altro elemento è il cambiamento della coscienza collettiva che è
meno visibile ad occhio nudo ma con una incidenza profonda. Abbiamo un atteggiamento di
profonda fiducia nei confronti del soggetto, un atteggiamento che porta il singolo a credere
in se stesso, non siamo ancora nell’individualismo moderno ma si può dire che c’è una
maggior fiducia. Si comincia a credere alla persona intesa come singolo soggetto. Questi
due cambiamenti visibili, quello del paesaggio agrario e il cambiamento della coscienza
collettiva portano a due conseguenze:
• Assistiamo ad una circolazione economico monetaria che era inesistente nel momento
storico precedente e che va di pari passo col ripopolamento dei centri urbani, questi ultimi
diventano un crocevia demografico, le città si popolano sempre di più e questo comporterà
la creazione di una sorta di sistema di vasi comunicanti: queste due cose si daranno forza
reciproca (Tanto più si popola la città tanto più gira l’economia monetaria).
• Contesto socio economico: c’è necessità che alcuni soggetti si occupino in via esclusiva
dell’arte della ‘mercatura’, coloro che si possono occupare del commercio esclusivamente.
Nasce la figura del mercante professionista, un soggetto che si occupi di questa attività a
livello professionale.
• Contesto culturale: dal punto di vista culturale cambia il modo di poter ricevere cultura
che diventa dal “monastero” al “centro universitario”. Il modo di ricevere cultura era
attraverso un’istruzione di tipo monastico, i rampolli delle famiglie nobili andavano a
studiare presso i monasteri e le abbazie, cioè in quei centri di cultura in cui si tramandava
la chiesa (appannaggio soltanto per la chiesa). Erano pochissime le famiglie che potevano
permettersi di mandare i propri figli all’interno delle scuole monastiche. Nel Medioevo
Sapienziale si passa alla cultura universitaria perché nel passaggio dal X all’XI secolo
assistiamo al fiorire di questi centri. L’esempio è la nascita della Alma Mater Studiorum,
l’Università di Bologna nel 1088.
Queste tre conseguenze sono in grado di incidere sull’unicità dell’esperienza giuridica
medievale? NO
!46
Queste conseguenze, seppur evidenti e fortissime espressioni di cambiamento, che
avvengono nel corso dell’XI sec. non possono farci dire, dal punto di vista della storia del
diritto, che siamo di fronte ad un altro medioevo. Il medioevo giuridico è uno solo, il fatto
di dividerli in due è solo una determinazione di tipo cronologico. Non si può parlare di due
esperienze giuridiche medievali. È vero però che questa conseguenze portano a concepire
abbastanza diversamente dal passato l’economia, le persone e la mentalità medievale.
Possiamo vedere che, dei due vuoti che erano presenti nel Proto Medioevo, solo uno viene
colmato: i vuoti sono quello culturale e quello politico. Viene colmato quello culturale, si ha
un allargamento delle maglie del dare e fornire cultura come possiamo vedere dalla nascita
delle Università, quello politico no a causa dell’appartatezza del legislatore e
dell’incompiutezza del potere che permangono anche nel Medioevo Maturo.

Perché il vuoto culturale è colmato?


Le università nascono perché ci sono bisogni che possono essere affrontati solo per mezzo
di questo grande bacino culturale che è l’università intesa come centro dell’istruzione e della
formazione. Da un certo punto in poi non è più sufficiente il modo di offrire cultura dei
centri monastici perché cambia la coscienza collettiva che va in direzione diversa rispetto a
quella precedente. Quali sono le circostanze storiche che hanno portato al sorgere delle
università che fioriranno in Italia e in Europa fra il XII e il XIV secolo?
Diverso modo di riscoprire il diritto romano: viene riscoperto in un modo inedito rispetto
all’epoca precedente. Si parla di riscoperta del diritto romano perché nel mondo alto-
medioevale il diritto romano era un diritto imbarbarito, si parla di volgarizzazione perché i
barbari, chi più chi meno, utilizzeranno il diritto romano ad uso e consumo, cioè solo quel
diritto romano che serviva loro per creare quelle che gli storici chiamano le leges romanae
barbarorum (ad esempio la lex Visighotorum, la lex Burgundiorum, la lex Alamannorum ed
altre). Tutte le leggi romano-barbariche hanno al loro interno il diritto romano ma
volgarizzato. A un certo punto ci sono diversi fattori storici nel corso del XII sec. che
portano a riapprezzare il diritto romano in purezza, cioè cosi come è scritto nel corpus
giustinianeo. Questo atteggiamento è favorito anche dal ritrovamento del Placito di
Marturi, intorno al 1076 (Placito: placitum, decisione giudiziaria, provvedimento
decisorio). Si tratta di una decisione presa da un gruppo di giudici che si erano pronunciati
all’interno di una controversia insorta tra un signore di Firenze (Sigizone) e il monastero di
Marturi (piccola cittadina in provincia di Siena). In questa causa, Sigizone sosteneva che, in
realtà, un terreno adiacente al monastero e la chiesa (Sant’Andrea da Papajano) all’interno
di questo erano state usucapite da lui [Usucapione sono 20 anni] (possesso vale titolo). I
giudici decidono di utilizzare per risolvere la controversia un passo delle pandette di
Giustiniano (titolo VI del libro IV) che parlano dei casi di denegata giustizia che consente il
reintegro nel possesso cioè che l’oggettiva difficoltà degli abitanti del monastero di Marturi
!47
di adire al giudice aveva permesso di fermare il tempo prescritto dell’usucapione. Nella
motivazione si legge “magistratibus non habentibus”. I giudici dicono che Sigizone non può
avere quella terra che anzi deve tronare nella piena disponibilità del monastero. La cosa
importante è che viene utilizzato del puro diritto romano per risolvere una controversia
medievale. All’interno di questo consesso di giudici c’era anche un soggetto, un certo
Pepone (o Pepo), un giurista che inizia per conto suo a ristudiare tutte le opere contenute
all’interno del corpus giustinianeo. Questo studio, ancorché privato, fa scaturire un interesse
collettivo nei confronti del diritto romano giustinianeo per vedere quanto è utile e
soddisfacente per risolvere problemi legali del loro tempo (ragionamento degli uomini di
cultura dell’XI sec). Lo studio del corpus diventerà una professione e in particolare si
ricorda colui che è detto “lucerna Iuris”, Irnerio, il fondatore morale dell’università di
Bologna. Irnerio studia il corpus in modo scientifico e formerà una grande scuola di giuristi
con 4 allievi prediletti che saranno coloro che diffonderanno a macchia d’olio lo studio
scientifico universitario del corpus: questi 4 dottori della legge che sono le colonne portanti
sono Martino, Bulgaro, Ugo e Jacopo. In che modo questi giuristi studiano il diritto?
Chiaramente non si limitano a prendere il corpus e leggerlo, loro utilizzeranno lo strumento
della glossa.
La glossa altro non è che esegesi, una chiarificazione testuale, una operazione esegetica di
spiegazione del testo. Questo perché i maestri del diritto si rendono conto che il corpus è
complesso e quindi è necessario, per una maggiore comprensione da parte degli studenti,
fare delle spiegazioni di alcune parole. Le glosse infatti almeno inizialmente anche a livello
visivo dovevano rendere l’idea di una chiarificazione testuale e potevano essere marginali o
interlineari. Le glosse marginali sono quelle a margine del testo; le interlineari sono quelle
poste fra un rigo e l’altro dell’opera del corpus che il magister andava a spiegare. Queste
tipologie di glosse inizialmente si chiamano tutte, indipendentemente dal posizionamento,
glosse grammaticali perché, anche nel nome, volevano essere la spiegazione di una
semplice operazione di semplificazione del testo. Successivamente le glosse passarono
dall’essere grammaticali a diventare interpretative, cioè che sono sempre di più le singole
parole semplificate e sulla base di un testo in buona parte semplificato i singoli maestri
cominciavano a riflettere sempre un po’ più in profondità sul testo del corpus giustinianeo.
Perché non interpretano? I glossatori hanno una atteggiamento psicologico nei confronti del
corpus usi rispetto che rasenta il timore reverenziale, hanno una vera e propria devozione.
Adriano Cavanna, uno storico del diritto, ha definito il corpus come “un libro caduto dal
cielo” per i glossatori. Questi glossatori, attraverso le glosse interpretative, riescono ad
avere sempre un grande rispetto, tanto che per loro il testo del corpus è un modello giuridico
perfetto, immutabile che può essere automaticamente applicato in ogni tempo e in ogni
contesto storico. [“Ragnatela di fili logici” insieme di glosse interpretative, Adriano
Cavanna]. È chiaro che i glossatori non si fermano qui, infatti con il passare del tempo
!48
escogitano altri sistemi per scavare sempre più profondamente i segreti giuridici contenuti
all’interno del corpus. Questi altri sistemi per poter studiare e trasmettere il corpus
giustinianeo sono, per esempio:
• dissentiones dominorum: sono l’insieme delle varie opinioni dei maestri del diritto,
potevano essere discordanti ma rappresentavano le opinioni della dottrina e delle scuole
giuridiche (per esempio quelle della scuola di Bologna erano diverse da quelle di Parigi,
Oxford, Colonia o Berlino);
• il casus (o i casus): era un modo di spiegare il testo del corpus abbastanza particolare
perché era il caso pratico e, questo caso pratico, veniva presentano dal magister agli
studenti riprendendolo dal corpus di Giustiniano (all’interno del corpus era già previsto il
casus e allo stesso modo la soluzione) per vedere in che modo si risolveva nel corpus;
• quaestio: sembra simile al casus ma qui il magister presentava un caso pratico che il
magister inventava di sana pianta e di questo caso pratico non c’era una soluzione
predeterminata, per cui si giungeva alla soluzione soltanto per mezzo della disputatio, uno
scambio di opinioni, alle volte molto feroce che avveniva tra studenti e docente, e solo
dopo si giungeva alla solutio (ragionata) della quaestio. La disputatio avveniva
generalmente tra il docenti e gli studenti più avanti con gli studi poiché avevano già
abbastanza compiuto il senso del diritto e gli strumenti per poter interagire col docente
all’interno di questa fase obbligatoria per arrivare alla soluzione;
• brocarda o generalia o regulae iuris: espressioni sintetiche che contenevano un mondo
giuridico molto ampio, erano rappresentative di qualcosa di molto più complesso. Per
esempio, nel diritto privato c’è il brocardo “fumus boni iuris” ovvero la “parvenza di buon
diritto”. Altra è “pacta sunt servanda” che introduce al mondo del diritto internazionale.

L’università come era organizzata? Era di tipo assolutamente privatistico: il docente siglava
un contratto privato di docenza di tipo privatistico con ogni singolo studente e il docente
riceveva un compenso per ciascuno studente. I più grandi maestri del diritto erano
ricchissimi. La prima università pubblica fu quella fondata da Federico II nel Regno di
Napoli (inizio XIII sec.). Molto spesso nella mattina c’erano lezioni frontali di tipo piuttosto
teorico mentre nel pomeriggio venivano proposte le varie quaestiones e quindi lezioni
pratiche. Il docente era molto spesso un uomo della prassi: faceva l’avvocato, svolgeva la
funzione di pubblico funzionario, era magistrato e giudice e quindi associava, nel suo modo
di spiegare il diritto, sempre la parte pratica alla spiegazione teorica (teoria+prassi). Dal
momento che l’attività dei glossatori è quella di rendere più chiare le singole parole, ad un
certo punto ci sarà chi di tutte le semplificazioni fa un riassunto. La scuola dei glossatori
troverà la sua conclusione con il più grande dei glossatori: Accursio. Lui è l’esponente più
alto della scuola dei glossatori ma di fatto anche l’ultimo perchè è colui che si mette
all’animo di raccogliere tutte le glosse fatte fino a quel momento sulle opere giustinianee.
!49
Fra 1220 e il 1234 Accursio raccoglie tutte le glosse e aggiunge altre sue glosse: quest’opera
prende il nome di “Magna Glossa” che viene chiamata anche Glossa Accursiana o Glossa
Ordinaria e contiene 97000 glosse. Quest’opera fu talmente importante che incideva anche
sulle sentenze dei tribunali, quella di Accursio era un’opinione prevalente (opinio Accursi)
nel decidere come risolvere una controversia. Se Accursio fa quest’opera di sintesi la
domanda che ci possiamo porre è: dato che non c’è più da glossare che si fa? Lo studio del
diritto romano-giustinianeo prosegue ma i maestri del diritto dovranno trovare un nuovo
modo per studiarlo: non più attraverso la glossa ma per mezzo di un’altra operazione
culturale che è il commento e i giuristi si chiameranno commentatori. Il passaggio da
scuola di glossa a scuola di commento non è violento, non c’è una cesura ma è un passaggio
in continuità. L’opera di commento consiste nell’operazione di interpretazione e soprattutto
attualizzazione del corpus giustinianeo. I giuristi (siamo nella seconda metà del XII sec.)
cominciano a dire che devono prendere il testo del corpus per comprendere solo la ratio di
quella legge e utilizzare la ratio per attualizzarla ai loro bisogni. A differenza dei glossatori i
commentatori iniziano a fare un’operazione più profonda: inizia una scuola molto
importante (quella dei commentatori) che non farà altro che prendere parti del corpus e farvi
un’opera di commento più profondo. Arriva il momento in cui viene fatto il commento in
profondità di tutte le opere. Si arriva al momento storico in cui qualcuno vorrà fare un’opera
di sintesi: questo commentatore è Bartolo da Sassoferrato (anche lui verrà chiamato
Lucerna Iuris). Dopo di lui, per studiare il diritto, si prese la sua opera al posto del corpus in
sé che fu talmente importante che tutti i più grandi studiosi proponevano la scienza di
Bartolo come la scienza giuridica per eccellenza: si considerava Bartolo il più importante
dei maestri e il buon giurista doveva necessariamente conoscere la sua opera (nisi bonus
iurista, nisi sit bartolista). Di fatto dopo di lui tutti non facevano altro che ripercorrere o
ripetere le idee e i pensieri e i commenti di questo grande giurista. Elemento centrale è che
in questo sviluppo ciò che avevamo messo come elemento centrale (ripopolamento delle
città e sviluppo economico) va di pari passo con il riempimento del vuoto culturale e con
una cultura universitaria molto più ampia di quella del monastero. Come la città diventa il
crocevia dei traffici commerciali, così anche la stessa città diventa il crocevia di una cultura
giuridica che si crea e si auto genera grazie alle opinioni degli studiosi del diritto. Questa
ragnatela di fili logici era un modo per crearne una culturale europea, c’era una cultura
circolante. Ecco perché il vuoto culturale è senza dubbio colmato.
Ciò che invece non viene assolutamente colmato è il vuoto politico perché il soggetto
politico ingombrante, quello con una psicologia totalizzante, e come soggetto politico
intendiamo lo stato, è un futuribile, non c’è l’idea dello stato né di un princeps, di un
detentore del potere politico, esercitante un potere assoluto. La stagione delle monarchie
assolute determina la modernità giuridica.

!50
28 marzo
Il vuoto politico però non viene colmato. Il principe deve essere equo. Un grande giurista
scrive intorno alla metà del 1100 un tratto di filosofia politica: Giovanni di Salisbury
scrive un trattato che si chiama “Policraticus” in cui definisce il princeps come “imago
aequitatis” a dimostrazione che ancora nel XII secolo il ruolo del principe è lo stesso
dell’alto medioevo. Tempo dopo anche San Tommaso identifica il principe come “custos
iusti”: deve essere colui che non produce leggi ma esercita atti di equità; è colui che legge
nella natura delle cose un dato giuridico voluto da Dio che già esiste e che lo trasforma in
norma. Questa è la concezione di un principe che è colui che ha la iuris dictio, il suo
compito è quello di dire il diritto, cioè leggere qualcosa che già esiste trasformandoli in
norme grazie all’ausilio dell’esperto di diritto. Il principe ancora non è legislatore nel
medioevo maturo, è piuttosto un produttore di diritto. Ciò significa che le leggi esistenti
sono limitate all’ambito di intervento pubblicistico del monarca: leggi che per esempio di
tanto in tanto presupponevano l’allontanamento di coloro che erano infestati da malattie.
Ha un gioco fondamentale una fonte del diritto che caratterizza tutte l’esperienza giuridica
medievale: la consuetudine, che è la prova migliore per valutare il diritto medievale come
diritto consuetudinario in cui il principe non manifesta la sua volontà. Il diritto ha una
impronta consuetudinaria, ciò che conta sono i comportamenti ritenuti dalla comunità con
una forza obbligante. Questo trova riscontro nelle esperienze giuridiche locali: per esempio
lo troviamo nel tardo XIII sec. nella penisola italiana dato che il diritto era consuetudinario
tanto nel settentrione che nel centro meridione. L’impronta consuetudinaria la verifichiamo
in questo tardo medioevo sicuramente dalla penisola Italiana. Nell’Italia centro
settentrionale come struttura organizzativa si vive l’esperienza comunale. I liberi Comuni
hanno al loro interno come fonte normativa principale lo Statuto Comunale, quella fonte
organizzativa istituzionale per la struttura organizzativa del comune. Gli statuti non sono
l’insieme delle regole generali ma rappresentano la messa per iscritto delle consuetudini. Lo
stesso Federico Barbarossa, nella pace di Costanza, accetta di dare ai comuni della Lega
Lombarda la possibilità di mettere per iscritto le “consuetudines vestres” (Il monarca non ha
ancora la possibilità di incidere all’interno della produzione del diritto). In Italia meridionale
Federico II di Svevia, nel 1231, scrive il Liber Augustalis o Liber constitutionem regni
Siciliae. Questo documento è un ibrido: al suo interno ci sono norme che vorrebbero
spingersi verso nuove concezioni di potere e allo stesso tempo ci sono riferimenti radicati al
patrimonio consuetudinario territoriale. Per cui anche quello che poteva essere un atto
normativo del detentore del potere politico diventa un’ulteriore prova della
consuetudinarietà del diritto medievale. Anche nel contesto europeo i blandi tentativi del
monarca di essere controllore della produzione del diritto falliscono e il monarca stesso non
si pone come unico produttore.

!51
In Francia a partire dal XIV secolo in poi sarà il laboratorio giuridico per eccellenza della
modernità. Infatti, il 18 novembre 1302, con la promulgazione della Bollam Unam Sanctam
di Bonifacio VIII cambia tutto. Il XIII secolo è il periodo medievale delle modificazioni ma
non viene colmato il laboratorio giuridico. La Francia del XIII sec è ancora impostata su una
fortissima matrice consuetudinaria. Nel 1254 Luigi IX, tornando da una crociata, promulga
un’ordinanza regia (prima ordonnance riformatrice) che riguarda gli agenti regi che durante
la sua assenza avevano commesso danni economici (sostanzialmente abusi di natura
patrimoniale, oggi reato di malversazione). Se Luigi IX condanna i suoi sottoposti si può
pensare che vi sia una potestà legislativa, ma in realtà il contenuto dell’ordinanza è molto
particolare perché c’è all’interno un richiamo al rispetto delle consuetudini locali perché le
consuetudini sono la fonte giuridica primaria.
In Portogallo la legislazione regia si intensificherà soltanto a partire da Alfonso III
(1248-1279), ovvero quasi alla fine del XIII secolo. Si è comunque lontani da una
legislazione assoluta da parte di un monarca assoluto.
Situazione particolare è quella della Spagna dove in tre regioni (Catalogna, Navarra e
Aragona) in modo particolare dominano i diritti locali (consuetudini) che sono i fueros. In
Castiglia invece un monarca, Alfonso X detto il Saggio, prova a forzare il cosiddetto
localismo consuetudinario attraverso la promulgazione di una legge nel 1265: la celeberrima
Ley de Las Siete Partidas, la legge delle sette parti. Questa legge non contiene le
consuetudini locali ma è formata da norme di diritto comune: diritto giustinianeo e diritto
canonico insieme e nelle università si chiamerà ius commune. Questa legge ancorché
promulgata da un monarca non sarà accettata dalla comunità: la prassi castigliana
considererà questa legge un corpo estraneo e non la applicherà ma continueranno ad essere
applicate le consuetudini: il derecho foral. In modo ancora più rilevante questa legge non
verra solamente accantonata perché, se è vero che dopo la promulgazione non viene
accettata, in realtà questa legge sarà recepita ma soltanto nel 1348 mediante la
pubblicazione dell’Ordenamiento de Alcalà. Il XIII secolo è quindi ancora periodo in cui la
consuetudine è matrice costante del diritto.
Questo ci fa capire che in tutta Europa la consuetudine è l’elemento portante. Pero se la
consuetudine è l’elemento caratterizzante è anche vero che le consuetudini utilizzate dal
mercante del VII o VIII secolo sono ormai inadeguate. Ci si rende conto che bisogna
aggiornare le consuetudini: ci deve essere una forza che compie questo rinnovo ed è il
maestro di diritto attraverso la interpretatio. La scienza giuridica (scientia iuris) è
l’insieme dei giuristi che rinnovano le consuetudini che non erano più al passo con i tempi.
Questo lo avrebbe potuto fare il monarca ma non era ancora il suo tempo. È ancora l’epoca
del ius commune formato tanto da norme di diritto canonico tanto da norme di diritto civile
e per civile si intende il diritto romano giustinianeo.

!52
Regni monarchici del Medioevo Maturo
Regno di Francia
Parlando di questo regno è opportuno focalizzarsi su tre aspetti .
• Il nuovo ruolo delle consuetudini locali in seguito alla trasformazione
dell’organizzazione curtense. Questo comporta anche un nuovo ruolo delle consuetudini
locali, in seguito anche alle nuove tipologie di rapporti che intervengono tra le signorie
fondiarie e tra le signorie fondiarie e quelle territoriali
• Diffusione in modo particolare nelle regioni meridionali della scienza giuridica
bolognese a cui si associa anche l’inizio di un processo di redazione delle consuetudini
locali.
• Riguarda l’espansione del demanio regio e conseguentemente una prima definizione di
ruolo unitario del monarca

I. Modificazione delle consuetudini locali: primo dato socio economico è che il regno di
Francia fra il XII e XIV secolo subisce un’accelerazione di tipo economico cioè
assistiamo ad una espansione economica importantissima. Le aziende curtensi maturano
così l’obiettivo di aumentare la produzione per creare un surplus da destinare al
mercato. La strategia delle aziende curtensi per fare questo è ridurre la pars dominica,
aumentare il numero dei mansi e addirittura inizia la consuetudine di far pagare i
contadini per coltivare la terra (il censo annuo da pagare al signore). Col pagamento del
censo, il signore poteva comprarsi i prodotti in altri mercati e ciò gli garantisce una
maggiore ricchezza economica e il possesso di più prodotti da destinare al mercato.
Questa strategia non verrà utilizzata dalle aziende inglesi, che invece aumenteranno la
pars dominica. In questo modo il signore continua a svolgere un potere pressoché totale,
la cosiddetta “potestà bannale”, ovvero l’insieme dei poteri totali che attengono alla
persona del signore. Il signore presiede inoltre la corte di stampo e con caratteristiche
feudali. Il pagamento del censo è una consuetudine che sviluppa in Francia, chiamata
“Censive”. Mediante il pagamento del censo, il contadino non era obbligato a rispettare
i doveri derivanti dal contratto di feudo. Questo tipo di struttura economica, e quindi la
rivisitazione dell’azienda curtense, inciderà anche nell’organizzazione della struttura
ecclesiastica. Anche i benefici ecclesiastici, le grandi diocesi, i conventi, le abbazie, non
rimangono estranei alla rivisitazione dell’azienda curtense. Anche i vescovi e gli abati
acquisiscono un maggiore potere economico, grazie alla ristrutturazione funzionale
dell’azienda curtense. Aumentando questo loro potere, i signori, sia laici che
ecclesiastici, esercitano poteri ampli a livello economico, giurisdizionale e soprattutto
iniziano a creare centri di potere che col tempo vanno in frizione l’uno con l’altro. Sarà
necessaria poi la funzione di un soggetto, principe o monarca, che vorrà svolgere un
ruolo differente da quello del primus inter pares che ha svolto fino ad ora. Il dato
!53
interessante è che questa espansione economica non riguarda solo l’azienda curtense,
ma anche i centri urbani, le città più o meno grandi che sono investite da questa
espansione economica. Soprattutto avviene in Provenza e la Lingua d’Oca, in
meridione, e in Fiandra. Questo per la maggiore sicurezza dei traffici commerciali, la
presenza del mercante e soprattutto per la diffusione della cultura. Ciò determina che
negli eventuali contrasti fra aziende curtensi e signori fondiari, e fra comuni o fra città ci
si rivolgerà al monarca, che inizia ad assumere, ancorché indirettamente, una funzione
di tutore delle consuetudini locali e delle organizzazioni economiche locali. Nelle città
più piccole ci si appellava alle città più grandi. Il re garantiva la corretta applicazione
della norma e forniva consigli per risolvere la controversia. Anche le città sono toccate
dall’espansione economica, soprattutto nella Francia meridionale. Quando i cittadini di
una città giungono a scontrarsi con quelli di altre città ci si rivolgeva ad un organo
d’appello rispetto agli organi giudicanti delle città. Questo soggetto era il monarca, che
assume un ruolo di garante del diritto. Questo ruolo era impensabile nell’Alto
Medioevo, in quanto era primus inter pares. Fra controversie sorte in città minori, erano
quelle maggiori ad essere di appello (chef de sens). Quando questo non avveniva,
interveniva in re, come colui che garantiva la corretta applicazione della norma o
provava a dare un consiglio per giungere alla risoluzione della controversia. Il monarca
muta la sua funzione: non è soltanto il più grande signore territoriale, ma svolge una
potestà unitaria, ovvero un ruolo che si pone al di sopra della popolazione che deve
guidare. Non è il principe sciolto dalle leggi, ma colui che tutela la corretta applicazione
del diritto e dei diritti, prodotti dalle consuetudini locali. In questo sviluppo, tanto
economico quanto urbanistico e mercantile, il monarca inizia ad assumere un ruolo
diverso rispetto a quello che aveva avuto in precedenza. Nonostante ciò, le consuetudini
sono ancora la maggiore fonte di diritto.
II. Diffusione della scienza giuridica bolognese; fondazione di centri universitari e
redazione delle consuetudini regionali: la diffusione della scienza giuridica bolognese è
strettamente connessa alla creazione di centri universitari e all’inizio di una prassi che
voleva la redazione per iscritto delle consuetudini. Questo diritto si diffonde in
particolar modo nelle regioni del sud perché le consuetudini locali presentavano forti
radici romanistiche poiché in esse era circolato il Breviarium Alariciarum. Nelle regioni
centro e ancor di più in quelle settentrionali era prevalente la tradizione germanica. La
Francia, in base alle tradizione ed al diritto, può essere suddivisa in due parti: da una
parte ci sono Pays de droit écrit, le terre meridionali, quelle con spiccata tradizione
romanistica; dall’altra i Pays de droit coutumier che sono le altre regioni con più
spiccata tradizione germanica Sulla base di questa distinzione noi abbiamo nelle regioni
meridionali la nascita dei centri universitari. Uno fra tutti è il centro universitario di
Tolosa: lo studium di Tolosa, fondato nel 1233 da Papa Gregorio IX. Il fatto che nella
!54
Francia meridionale ci fosse una spiccata tradizione romanistica non impediva la nascita
di centri universitari anche in altre regioni. Anche nel nord, infatti, nonostante la
tradizione giuridica fosse legata alle consuetudini germaniche, fioriscono comunque
centri universitari. Ciò dimostra che l’universitas come centro dello studio stava
funzionando come formula ed era il miglior veicolo di diffusione della cultura. Nella
città di Orleans si sviluppa un modo di fare cultura che si accorperà a quello che viene
definito lo studium di Orleans. È una città con forte tradizione germanica e la città
nasce per lo studio del diritto romano giustinianeo e per il diritto canonico (ius
commune). All’interno di questo centro universitario ci sono due grandi studiosi e
maestri, Jacques de Rèvigny e Pierre de Belleperche, ai quali si deve un nuovo
indirizzo metodologico dello studio del diritto. Loro merito è che iniziano a rendersi
conto che non basta più studiare i diritti come sono ma è necessario inserire nello studio
anche le tradizioni locali. Il diritto andava studiato per utilizzarlo nella società in quel
tempo, finisce la credenza che il diritto giustinianeo fosse applicabile ad ogni contesto.
All’interno del diritto andavano inseriti i bisogni e i costumi locali. Questi due giuristi
contestualizzano il diritto: il contesto storico deve essere valutato nello studio del
diritto. Al fenomeno della nascita delle università si associa anche una prassi che inizia
a svilupparsi dal XIII secolo che è quella della compilazione di raccolte di consuetudini:
si iniziano a mettere per iscritto le consuetudini locali, le Raccolte coutumier. Queste
raccolte vengono redatte dai singoli giuristi che iniziano a considerare utile metterle per
iscritto, sono private e non vengono quasi mai ufficializzate ma hanno un ruolo
fondamentale: vengono considerate dalle corti di giustizia. Un’opera molto importante
fu la Grand coutumier de Normandie, redatta intorno al 1250 ca., tanto affidabile che
ottenne una sorta di autorità piena. Queste raccolte di consuetudini sono non volute
dall’organo legislativo e dimostrano la voglia delle singole popolazioni di rimanere
attaccate alle proprie consuetudini locali, evitando un tipo di rapporto verticistico tipico
del regime vassallatico-beneficiario. Con il proliferare di queste raccolte, invece si
sviluppa un rapporto orizzontale. Soltanto nel Medioevo Maturo la signoria territoriale
comincia a fagocitare gli usi e i costumi tipici delle popolazioni. Per evitare che le
aziende con le loro regole e i loro regolamenti interni, soffochino le consuetudini locali,
nascono queste raccolte, che anche i tribunali territoriali cominciano ad utilizzare.
III. Estensione del demanio regio e dell’autorità regia: fino a tutto l’XI secolo il monarca
francese è uno dei tanti signori territoriali, sicuramente con un più ampio patrimonio. A
partire dal XII/XIII secolo assistiamo a duna espansione dell’autorità del monarca in tre
modi 1) in alcune regioni il re divenne titolare della potestà unitaria fina a quel
momento spettante al principe locale. Questo passaggio avveniva mediante la presa in
possesso da parte del monarca di quel patrimonio ed egli esercita i diritti demaniali
utilizzando le strutture presenti nel territorio, che da strutture e magistrature
!55
principesche diventano regie (questo accade in Normandia: il duca di Normandia viene
sostituiti dal monarca, quest’ultimo lascia tutto come era, non modifica nulla ma svolge
l’esercizio delle magistrature e del potere demaniale). 2) in altre regioni fu conservata
la guida locale del territorio, rimane il principe territoriale ma si insatura un legame
tra monarca e principe basato su regole e principi di diritto feudale. Qui la guida
materiale del territorio rimane al principe locale e il monarca amplia la sua potestà
unitaria. 3) possibilità del sovrano di concedere la guida di un territorio ad un suo
parente: appannaggio. Quest’ultimo poteva durare per tutta la vita del concessionario
per poi tornare nella disponibilità del monarca oppure poteva essere ereditato mediante
la successione diretta in linea maschile. Questa modalità del monarca di estendere il
proprio potere è una modalità che si differenzia da altre esperienze monarchiche. Ad
esempio in Inghilterra la situazione è diversa perché il monarca, per ampliare la sua
potestà, amplia la sua potestà demaniale in tutto il regno, risultando quindi il principale
signore fondiario; ugualmente accade durante il periodo monarchico in Sicilia. Sulla
base di queste tre possibilità per mezzo delle quali il monarca ampliava la sua potestà
noi dobbiamo dividere la Francia in due parti: un’area rientrante nella signoria
territoriale effettiva del monarca; un’altra in cui prevalevano le realtà unitarie locali dei
principati e degli appannaggi. Nella prima il re esercita direttamente il potere demaniale,
attraverso l’invio di emissari regi, soprattutto nelle strutture che da principesche
diventano regie. Nelle altre regioni, invece, il sovrano interveniva poco o nulla
direttamente nella guida del territorio ma ancorché il suo intervento non era diretto
poteva svolgere una protezione ancora più incisiva rispetto a quella svolta negli altri
tipi. La tuitio regia, ovvero la protezione del re, è infatti ricca di potenzialità, molto di
più rispetto al controllo diretto. Il monarca inizia ad essere considerato il garante dei
diritti pur non avendo una potestà unitaria. Nel XIV secolo, circa nel 1380, accade una
controversia molto importante fra alcuni cittadini uniti nelle Lega dei Comuni
Fiamminghi ed altri cittadini legati al conte di Fiandra. I cittadini fiamminghi fanno
appello al re indipendentemente dalla fattispecie e ciò testimonia che negli anni 80 del
XIV secolo il monarca è il garante della giustizia. È colui che garantiva il corretto
esercizio della giustizia. Il monarca, su questo patrimonio, esercita il “diritto di
guardia”, che prima esercitava solo nel territorio dove aveva la potestà unitaria.
Successivamente invece questa protezione di estende su chiese che il monarca aveva
contribuito a costruire, oppure che finanziava.

!56
Regno di Spagna
Il XIII secolo è quello della riconquista del territorio spagnolo da parte dei re cattolici di
Spagna contro le armate arabe che avevano conquistato la penisola iberica. Da una parte ci
sono i re cattolici: Alfonso VIII di Castiglia, Pietro II d’Aragona e Sancho VII di
Navarra, dall’altra gli arabi di Muhammad al Nasir. Lo scontro termina il 16 luglio del
1212 con la Battaglia di Las Navas de Tolosa. Vincono i cattolici che riconquistano i
territori occupati. Il regno d’Aragona e il regno di Castiglia Leon furono i più rilevanti nella
riconquista, regni in cui la caratteristica comune era l’espansione della signoria territoriale.

Regno d’Aragona
Il nucleo principale, a partire dal XII secolo, era da una parte il regno d’Aragona come
nucleo centrale formato da comunità agrarie insieme alle contee catalane che erano le
principali città dove maggiormente si avevano traffici economici e mercantili. Dal XIII
secolo iniziò un periodo di espansione territoriale e vennero aggiunte all’originario nucleo
alcune città: Valencia, Murcia e le isole Baleari. L’espansione non si fermò solo alle città
spagnole ma dal 1282 inizia la conquista della Sicilia, basi mercantili nell’impero turco e
d’oriente e poi dal XIV secolo la conquista della Sardegna. Il Regno d’Aragona mantiene in
ciascun territorio l’ordinamento locale, non impone l’ordinamento regio. Come
caratteristica peculiare è un regno in cui si sviluppano gli ordinamenti municipali (le
municipalità). Questa forma di governo municipale ha la struttura di una diarchia, cioè
c’erano due strutture in una sola municipalità: da una parte il rappresentante del sovrano,
il baile, dall’altra le assemblee cittadine, formate dai rappresentanti delle classi mercantili,
i mercanti che sono rappresentati nelle corporazioni. Nelle contee catalane in particolare,
dove forte era l’attività mercantile e marittima, le corporazioni hanno un ruolo
fondamentale, svolgono ruolo di guida. Una delle più importanti corporazioni è quella dei
mercanti di Barcellona che arriverà ad essere così importante che avrà un proprio organo
giudicante per giudicare e risolvere tutte le cause nate tra gli associati (il Consolat del Mar)
e concernenti tutte le cause nate tra i soggetti inseriti in quella corporazione. In ciascun
regno facente parte della corona aragonese, il re era rappresentato da un funzionario che
agiva in nome e per conto suo: il procurador o gobernador o lugarteniente. Questo
soggetto garantiva l’esercizio della potestà unitaria da parte del monarca.
L’esercizio della potestà unitaria del re consisteva in che cosa? È il superiore garante dei
diritti, la superiore tutela del diritto vigente oltre che dell’organizzazione delle forze armate
in caso di guerre. Significa che in caso di controversie deve cercare di mediare le pretese
dell’una e dell’altra parte. Ciò avviene in un periodo complesso per il Regno d’Aragona,
perciò il ruolo del monarca deve collimarsi con i diritti consuetudinari delle comunità locali.
Queste comunità cercheranno di difendere i loro propri diritti. Anche in Spagna, in
un’assemblea generale del 1247, detta Curia General nella città di Huesca, viene promosso
!57
un corpo organico di usi territoriali, pervenuto in due compilazioni: Compilatio Minor o
Fueros de Aragòn o Codigo de Huesca (formata da 8 libri) e Compilatio Maior o Fori
Antiqui o Liber in excelsis (formata da 9 libri). La messa per iscritto di questi usi è per
evitare che questi usi possano essere violati. Per evitare eventuali violazioni, in un passo del
Proemio di questa raccolta di usi si afferma il principio secondo cui “le norme possono
essere innovate esclusivamente dalla legge regia”. Questo passo enfatizza il principio
fondamentale del monarca come difensore del diritto consuetudinario (compito del monarca
di difendere la consuetudine e di farlo evolvere). In questo caso ancora la legge deve essere
fatta per il bene della comunità, le leggi sono rivolte ad bonum commune. Questo aspetto ci
fa comprendere che non siamo ancora nella modernità. Succede poi che verso la metà del
XIII secolo la monarchia inizia a partecipare ad un movimento (il movimento dei signori)
che altro non è che la volontà dei signori di rafforzare i loro diritti e, a questo progetto,
partecipa anche la monarchia. Quindi il monarca perde il ruolo di garante dei diritti che fino
a quel momento aveva avuto perché si mette sullo stesso piano di tutti i signori. E a questo
punto le comunità rimangono senza un garante dei diritti? Vengono escogitati nuovi sistemi
di difesa dei diritti delle comunità locali. Nel 1265 nasce la Uniòn Aragonesca che
difendeva i diritti degli aderenti. Questa unione, nel 1283, sarà approvata da Pietro III con
il Privilegio General, e il monarca diede addirittura dei diritti a questa associazione. Nel
1285 questa unione fu confermata da Alfonso III. Dalla prassi di questa unione aragonesca
si evince che il sovrano, avendo come compito quello di tutelare i fueros e gli altri
ordinamenti locali come quello dei signori territoriali, perdeva ogni autorità fino ad essere
destituito nel caso in cui fosse venuto meno a tale compito violando in proprio favore i
diritti degli ordinamenti locali. Proprio a dimostrazione della maggior tutela che avevano gli
ordinamenti locali nel Regno d’Aragona si sviluppano le assemblee delle Cortes. Queste
corti erano presenti in ciascuno dei territori aragonesi e avevano lo scopo di tutelare i diritti
degli ordinamenti locali vigenti nel territorio. Esse tutelavano i diritti locali contro quelli che
si chiamano contra fueros: azioni del re che potevano violare questi ordinamenti locali.
All’interno delle cortes c’erano rappresentanti della collettività (quindi uno per tipo): sia
della comunità locale che della gerarchia ecclesiastica.

Questo regno deve essere messo in relazione con l’altro regno spagnolo: il regno di
Castiglia-Leòn.

Regno di Castiglia-Leòn
Sono individuabili delle analogie col Regno di Aragona:
• Anche il Regno di Castiglia-Leòn assiste ad una importante espansione territoriale che
significa anche affermazione della grande signoria, in particolare fondiaria.

!58
• Sviluppo delle città demaniali, la diffusione delle municipalità in forma diarchica. Anche
qui siamo di fronte ad un rappresentante del monarca, l’alcalde e che dopo il 1348 sarà
chiamato corregidor, e poi l’assemblea municipale che è inizialmente aperta a tutti
(concejo abierdo) e poi è chiusa ad un numero limitato di persone che si occupano del
bene della collettività (consejo serrado).
• Il patrimonio regio è molto consistente come nel caso del Regno d’Aragona e su questo
patrimonio il re esige versamenti monetari da parte delle comunità locali, esige tasse. I
pagamenti principali sono ad esempio i dazi sulle merci, i cosiddetti portazgos; una
grande quantità di tasse per ciò che riguardavano i diritti di transumanza, i montazgos;
tasse in cambio dei servizi militari che l’esercito del re prestava alle comunità, i
fonsadera. Anche in questo regno abbiamo un’amministrazione tanto centrale quanto
periferica: la centrale è affidata agli uffici della domus regia ed emerge la figura del
camerero mayor, il funzionario più alto in grado che gestiva i beni demaniali al centro;
nelle singole regioni che facevano parte del regno invece si trovava il merino mayor,
funzionario capo dei funzionari regionali, si faceva aiutare da un gruppo di merinos. Il
merino mayor prende anche il nome di adelantado mayor e i funzionari sotto di lui si
chiamano anche adelantados.
• L’assemblea delle cortes: aveva esattamente le stesse funzioni di quelle d’Aragona.
Tutti questi elementi li troviamo tanto nel regno di Aragona tanto nell’altro.

Allo stesso modo sono individuabili delle differenze. In primo luogo una differenzia dal
punto di vista dell’economia maggioritaria perché l’economia di questo regno non è toccata
dalla vivacità dei traffici mercantili, bensì la ricchezza si produce attraverso i prodotti legati
alla pastorizia, i prodotti agrari. I prodotti della pastorizia rappresentano il maggior veicolo
di ricchezza ed infatti, Alfonso X detto il Saggio, nel 1273, dà vita alla corporazione che si
chiama la Mesta castigliana. Questa corporazione rappresenta un elemento centrale, era
formata da più di 3000 proprietari di greggi, moltissimi aderenti, all’interno della quale le
donne avevano gli stessi diritti dell’uomo e all’interno della quale venivano stabilite regole
generali comuni a tutti gli aderenti relativa alla transumanza e ai diritti di pascolo. Questa
corporazione assume un ruolo protagonistico talmente grande da essere elemento portante
dell’economia. I contadini hanno difficoltà ad interagire con i pastori e c’è un problema di
rapporti tra i proprietari di greggi e contadini dall’altra, infatti, le pretese di questa
corporazione fagocitano i diritti dei contadini. Le pecore devono mangiare ed hanno
bisogno di spazio, in questo senso i diritti di pascolo rappresentano il metodo per espandere
la signoria fondiaria. Fra tutti i signori del regno chi avrà più terre di tutte? Il monarca, che è
colui che può essere il datore di diritti, privilegi ed onori. Succede quindi che i signori
cercano di conquistare l’attenzione del monarca per farsi concedere benefici per far
pascolare il bestiame. Il re è colui che può garantire la sussistenza di un signore perché se
!59
decide di togliergli le terre lo può mandare in rovina. La monarchia assume e acquista un
nuovo ruolo in questo regno: il ruolo di essere fonte di domini e di diritti. Ciò comporta
anche il fatto di esercitare una certa potestà unitaria. In che modo e dove si sviluppa questo
esercizio della potestà unitaria? Attraverso un incremento della potestà giudiziaria. Tanto è
che, nel 1247, una assemblea di Cortes riunita a Zamora, decide per l’istituzione di un
tribunale del re: il Tribunal de la corte (corte regia). Questo tribunale ha la caratteristica di
avere la competenza esclusiva su alcuni casi: per esempio l’omicidio commesso in tempo di
pace proclamato dal monarca, la violenza contro le donne, il tradimento nei confronti del
monarca (i cosiddetti casos de corte). Questa competenza oggettiva e personale ha una
conseguenza: una configurazione nuova del ruolo del sovrano all’interno della società
castigliana. Il sovrano svolge il ruolo fondamentale di essere colui che ha il compito di
precisare norme valide per tutte le comunità del territorio, non più solo per i domini di sua
competenza. Il monarca, a seguito dell’incremento della sua potestà unitaria, assume una
nuova potestà. Siamo nell’ultima parte del Medioevo. Nella seconda metà del XIII secolo, a
dimostrazione del nuovo ruolo del re, il monarca da vita a delle raccolte di diritto regio: il
“Fuero Real” del 1252, un’altra “El especulo de Las leges” scritto tra il 1255 e il 1260 e la
“Ley del Las Siete Partidas” del 1265. Questa raccolta di norme non ha l’effetto desiderato
e non viene applicata infatti. L’inserimento di questa legge ce l’abbiamo solo nel 1348 con
l’Ordinamento di Alcalà, solo 100 anni dopo abbiamo l’inserimento nel tessuto legislativo
castigliano. Si stabilisce che le norme contenute nella legge delle sette parti trovano
immediata applicazione, e quindi si applicano le norme di diritto regio. Se le norme regie
non regolano un determinato caso si possono applicare le leggi dei fueros. In modo
fondamentale è cambiata la concezione della legge dopo 100 anni. Infatti nel 1348 la legge
applicata direttamente è quella regia e in via suppletiva i diritti delle comunità locali. Questo
perché la giurisdizione del sovrano diventa la manifestazione della sua potestà monarchica.
Il monarca è tale perché esprime il suo potere in quanto produttore di legge. Quello che
cambia è il rapporto tra diritto e potere politico.

!60

Potrebbero piacerti anche