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PREMESSA
L’ordinamento giuridico romano si sviluppa per circa 13 secoli, dal 754 a. C. al 565
d.C.
La sua evoluzione viene suddivisa in 4 periodi (arcaico, pre-classico, classico e post-
classico) e per il suo lungo sviluppo nei secoli, subì variazioni notevoli, in
corrispondenza dei mutamenti politici, sociali ed economici di Roma.
Tanti sono stati gli studi affrontati, soprattutto per quanto riguarda la cd. Epoca
classica del diritto romano; al contrario, più trascurati sono stati gli studi relativi al
periodo post-classico, che noi invece preferiamo definirlo Tardo antico, e che va dalla
fine del III secolo d.C. all’inizio del IV secolo d.C. (284 d.C. – 565 d.C.). Il Tardoantico
non è stato studiato in quanto considerato decadente rispetto al periodo classico.
Tale periodo coincide con il cd. assolutismo imperiale, dove l’imperatore, arbitro
supremo delle sorti dello stato romano, assoggetta tutto e tutti al suo potere direttivo,
sacro, indiscutibile ed inviolabile.
Il Tardantico fu preceduto da una fase storica (l’ultimo secolo della Repubblica)
caratterizzato da guerre civili, dalla continua violazione delle istituzioni pubbliche,
dall’avvento di un impero assoluto e di un princeps, dalla consapevolezza dei romani
che la Repubblica non esisteva più, ma che vi erano un impero e un Dominus, dalla
nascita della percezione dell’esistenza di un diritto pubblico accanto a quello privato.
Quindi dal punto di vista politico tale periodo si caratterizza :
dalla progressiva sostituzione del cristianesimo al paganesimo;
dal trasferimento in Oriente del centro dell’impero;
e da una forte decadenza dello spirito giuridico, che va ad assumere toni
bizantini.
Ai fini specifici del nostro studio, ci interessa guardare l’ottantennio di anni che vanno
da Teodosio II (438 d.C.) alla compilazione di Giustiniano (529 – 534 d.C); in
particolare ci dobbiamo occupare di un determinato problema, ovvero il rapporto
intercorrente tra lo stato (cioè la produzione del diritto romano) e la chiesa (cioè
il simbolo della fede cristiana che è il credo).
Ecco perché il titolo : Ius principale e catholica lex.
Questo libro serve per capire se :
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tranquillità, ma senza entrare mai nei contenuti, i quali ovviamente erano sempre e
soltanto stabiliti dai vescovi.
Dunque da tutto quanto detto possiamo realmente vedere come i fatti della chiesa
risultino essere interconnessi con quelli dello stato.
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E’ per questo motivo che per completare la ricerca risultano essere fondamentali per il
giurista le testimonianze non tradizionali, cioè provenienti da sedi diverse.
Tra queste, tre sono le più importanti:
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chiedere giustizia al vescovo, visto che molto spesso l’impero non riusciva a garantire
la presenza dei funzionari in tutte le città dell’impero.
2. La seconda fonte è quella relativa agli ATTI DEI CONCILI ECUMENICI: di cui gli
studiosi del diritto non sapevano l’esistenza, ma di cui il maggior studioso fu Edward
Schwartz. Essi non solo contengono i verbali di quanto accaduto nei concili, ma
anche i cd. Canoni (articoli), che risultano essere molto importanti perché in qualche
modo influenzeranno la produzione del diritto.
Tali canoni si differenziano in :
Dogmatici : che riguardano la teologia e la fede (es. Efeso 431);
Disciplinari : che riguardano la regolamentazione interna della Chiesa
Cattolica.
In coda ai canoni, ci sono poi le Appendici contenenti decine e decine di leggi, che
hanno ad oggetto la materia religiosa, ma soprattutto contengono le leggi originali che
sono quelle che a noi servono per studiare effettivamente i rapporti tra stato e chiesa
cattolica.
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E quindi ci troviamo di fronte ad una costituzione che in realtà su tali rapporti non dice
nulla.
Ovviamente l’emanazione di questo codice risulta essere un fatto epocale, visto e
considerato che prima di esso esistevano solo due codici: quello Gregoriano e quello
Ermogeniano del III secolo, ma che non sono come da noi intesi, in quanto siamo di
fronte a raccolte “private” di rescritti di imperatori, scritti probabilmente per la
forte difficoltà sentita dall’amministrazione nel rintraccio delle norme da applicare.
Dunque fino al codice teodosiano tutto il diritto era visto sotto un profilo
orizzontale, non c’era gerarchia delle fonti e tutte dunque avevano pari dignità.
Tutto invece cambia con l’emanazione del codice teodosiano, dove risulta essere
diritto vigente solo quello richiamato nel codice, e tutto il diritto non contenuto nel
codice non è diritto vigente. Dunque comincia ad apparire una linea verticale con tutto
al vertice.
Ora, per far sì che effettivamente nulla all’interno del codice risulti essere inutilizzato,
si fa inserire al suo interno anche la cd. Legge delle citazioni, detta anche oratio
Valentiniani ad Senatum. Essa è una legge del 426 voluta da Valentiniano III. E’ una
costitutio principis emanata per risolvere lo ius controversum dovuto dall'applicazione
del diritto classico in epoca postclassica. Per limitare l'interpretatio delle opere del
passato la legge restringeva le opere utilizzabili intorno a 5 autori stimati: Papiniano,
Gaio, Ulpiano, Modestino e Paolo. Nessun altro autore sarebbe potuto essere utilizzato
come fonte in un processo. Era ovviamente possibile che le parti fossero in contrasto
tra loro, così Valentiniano pensò ad un metodo meccanico, quello della maggioranza,
come una sorta di votazione. In caso di parità (per la mancanza di uno degli autori)
avrebbe prevalso sulle altre l'opinione di Papiniano. Potevano essere inserite come
fonti anche altri autori del diritto ma solo se citati dai 5 suddetti e su esibizione dei
testi originali.
Dunque si può ben capire che c’è il problema della certezza del diritto, che
l’occidente con tale legge crede di risolvere .
In oriente, invece, la situazione appare migliore, grazie appunto al Codice Teodosiano.
PROGETTI DI CODIFICAZIONE
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Il codice entra in vigore in Oriente con una Novella (cioè una nuova costituzione
rispetto a quelle vecchie contenute nel codice); essa era datata 15 febbraio 438, fu
emanata a Costantinopoli ed era denominata Saepe Nostra Clementia.
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Ma nel 438 in Occidente tale codice non è ancora vigente, nonostante sia stato donato
come regalo di nozze da Teodosio a Valentiniano.
Ecco perché si percepisce una sfasatura in quanto :
- nella parte orientale vige il codice teodosiano;
- mentre nella parte occidentale no.
Solo nel Natale di quell’anno tale codice viene presentato a Roma, dove si riunirono i
grandi dell’impero, cioè il Prefetto d’Italia (Fausto), il Senato di Roma e le altre
cariche dello Stato.
Ora visto che in oriente Teodosio II aveva preparato la Novella con la quale
comunicava che il codice diventava diritto vigente, ci si aspettava che anche
Valentiniano emanasse una novella per l’Occidente rendendo così operativo lo stesso.
Ma non fu così.
Allora ciò che ci si chiede è come abbia fatto Valentiniano III a renderlo obbligatorio.
Ebbene questi si servì di un certo Fausto, prefetto d’Italia. Era proprio il prefetto che
deteneva una copia del codice e la mostrava alle altre cariche dello stato.
Il Senato romano accolse per acclamazione della seduta, ed il codice entrò in vigore
il primo giorno dell’anno successivo (1° gennaio 439) in tutto il territorio imperiale.
Nei manoscritti del codice è stato conservato il verbale di quella seduta del senato,
infatti, nell’edizione critica del codice si è anteposto proprio questo verbale, contenuto
nei “gesta senatus romani de Teodosiano pubblicando”, allo scopo di rendere noto
come ha proceduto Fausto per rendere obbligatorio a tutti i sudditi il codice.
Al fine di rendere vigente il codice, Fausto legge due costituzioni contenute nel
codice, a differenza di Teodosio II che (per rendere vigente il codice in oriente) ne
introduce una, Novella.
Fausto, anziché leggere in senato il testo legislativo più recente (Novella di Teodosio),
lesse la più antica legge programmatica teodosiana risalente al 429 e contenuta in
CTh 1.1.5, con la quale lo stesso Teodosio aveva programmato per la prima volta il
codice (Ad similitudinem Gregoriani). Questa costituzione però si era rivelata un
fallimento.
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Nonostante la questione sia stata ritenuta “allo stato delle nostre conoscenze,
inspiegabile” (Volterra), il fatto non poté che avere una ragione d’essere, tanto che
per Dovere merita un tentativo di spiegazione.
Per esempio Paul Mayer all’inizio del ‘900 riferisce la legge del 438 come se fosse
stata la prima di quelle nuove costituzioni poste in apertura della serie legum novella
rum divi Theodosiani a. e poi significativamente fatta seguire da un’interpretatio.
Un altro filone colloca questa legge in apertura del codice, con natura introduttiva,
filone con a capo l’editore Sichardus (500), il quale sostiente che la Saepe Nostra
Clementia fosse al principio del codice.
Al contrario, le successive edizioni, seguendo altre linee, l’avrebbero esclusa dal
codex e l’avrebbero destinata alle novelle (tra cui Cuiacio e Gotofredo).
Poi il ritrovamento del Codice Ambrosiano nel XIX secolo, fece notare che come
prima costituzione del compendio teodosiano vi era proprio la Saepe Nostra
Clementia, avvalorando l’indimostrata tesi di Sichardus; questa comunque può essere
una casualità.
Ciò che fa riflettere è piuttosto un altro dato che, secondo Volterra, avrebbe ancora
continuato a rappresentare un’ “inspiegabile anomalia” : il codice ambrosiano, oltre
ad ospitare la Saepe Nostra Clementia, come introduttiva al codex, ospitava anche i
Gesta Senatus Romani, all’interno dei quali si annoverava la lettura, da parte del
prefetto d’Italia, della Ad similitudinem Gregoriani del 429.
Per Dovere, pur non essendo in grado di spiegare questa presenza, possiamo
ritenere che la Saepe Nostra clementia non fosse all’inizio del codice, perché
abbiamo come oggettiva e sicura l’estraneità di essa ai disegni compilatori ipotizzati
nel passato, parzialmente mancati.
Si deve comunque cercare di motivare la presenza, apparentemente insolita, della
legge CTh 1, 1, 5 nei Gesta senatus Romani. A parte elementi cronologici divergenti
che escludono la redazione della Sæpe nostra clementia all’epoca in cui il codice
veniva materialmente ‘passato’ in Occidente (437), forse ci sarebbero indicazioni
ideologiche che facevano preferire la lettura del testo più antico.
Una tesi minoritaria può essere quella per la quale la costituzione del 438, già
concretamente efficace in Oriente, fosse stata collocata al principio del Codice nella
sua pubblicazione romana, al momento dell’efficacia universale per più fini:
dichiarare la fine della compilazione,
stabilire autoritativamente l’auspicata cogenza ecumenica,
enfatizzare i compilatori,
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Ciò non costituisce l’unico punto di incontro che potrebbe collegare Socrate al codice
teodosiano, di fatti c’è né un altro, forse più importante, che è nella persona di
Teodoro di Costantinopoli, un vescovo che ordina Socrate di scrivere la sua storia
ecclesiastica.
Infatti, così come ci dice Socrate, la sua attività di scrittura e di rilettura della Historia
sarebbe stata in qualche modo sollecitata da un tale Teodoro, citato all’inizio e alla
fine del libro, personaggio che molto probabilmente ebbe rapporti di particolare
impegno con il lavoro compilatorio ordinato da Teodosio II e che sarebbe anche il
dedicatario dell’Historia.
Forse tale personaggio fu un funzionario della cancelleria teodosiana: magister
memoriæ, che venne menzionato da Teodosio II con tanta enfasi, tra Antioco ed
Eudicio, tre commissari prescelti con la prima constitutio CTh 1, 1, 5 ricordato come
spectabilis comes consistorianus e ancora sia nell’editto programmatorio del 435 sia
nella novella del 438. Forse fu il Teodoro funzionario imperiale che, una volta
scomparso Teodosio II, partecipò quale questiorio ai lavori del concilio ecumenico di
Calcedonia nel 451.
Bisogna tenere presente un dato cronologico: l’odierna critica, in seguito al confronto
con la Storia di Sozomeno, colloca la redazione dell’opera già prima del 444,
diversamente dall’antica dottrina che la collocava prima del 439.
Si può ipotizzare che consultò, tra il vario materiale, anche la compilazione teodosiana
(Dovere), poiché adeguata all’analisi delle due sole e rilevanti realtà istituzionali
coeve: la Chiesa e lo Stato, i cui fatti erano ormai intrecciati (anche se non
formalmente). Anche perchè l’autore voleva scrivere per tutti e non solo per pochi
colti (proprio come le constitutiones del Codice di Teodosio II dovevano essere
conosciute e osservate da tutti).
Il legame ipotizzato tra Socrate e Teodoro fu probabilmente influente: forse Socrate
appartenne alla struttura burocratica (Mazza). Nella piena età tardoantica è notevole
l’importanza che ricoprirono i magistri scriniorum (magistri mamoriæ, epistularum,
libellorum et cognitionum) di preparare un certo tipo di importanti provvedimenti
normativi; gli avvocati famosi venivano spesso scelti come magistri scriniorum e
questori. Il magister memoriæ, diretto sottoposto del magister officiorum ed a capo di
62 memoriales, “stendeva le adnotationes e rispondeva alle suppliche” (Honoré).
Il fatto che l’Historia ecclesiastica si chiudesse già nella prima versione al 439 e il fatto
che tale data fosse mantenuta pure in occasione della seconda edizione, fanno
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Il 16° libro del codex è formato da 11 titoli; esso tratta ampiamente la materia
religiosa, infatti nel codex il legislatore mostra la chiara intenzione di volersi occupare
della Christiana Fides; questa intenzione è manifestata in tutti i 15 libri dove
ritroviamo distribuite varie leggi “ecclesie”.
I titoli e le rubriche volti a regolare gli aspetti del reale più vicini alla sostanza della
fede sono:
CTh 16, 1 De fide catholica;
CTh 16, 4 De his, qui super religione contendunt ;
CTh 16, 11 De religione → 16, 11, 1 – 16, 11, 2 – 16, 11, 3.
Il secondo di questi, sebbene prenda in analisi i riflessi sociali delle dispute religiose e
non la vera “sostanza della fides” (Archi), appare comunque omogeneo agli altri due
per l’oggetto ‘religione’ ma anche perchè, come le altre due rubriche, fornisce notizie
sui rapporti tra imperium e sacerdotium nel pensiero giuridico-culturale.
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Dovere iniziare proprio dall’ultimo titolo del 16°libro, il De religione, che comprende
tre costituzioni emanate dall’imperatore romano d’occidente Onorio e relative
all’Africa, databili tra il IV ed il V secolo (rispettivamente anni 399, 405 e 410).
Infatti già leggendo l’inscriptio e la subscriptio si nota che esse hanno una loro
specifica destinazione territoriale. In esse non ci sono né precetti né sanzioni (ed è
per questo che viene chiamata Legge imperfetta), ma solo leggi speciali che non
riguardano tutto l’impero, ma determinate regioni (in questo caso la terra d’Africa).
Dunque in questo 11° titolo vi sono molte cose che a noi possono apparirci strane.
Innanzitutto ci si chiede cosa ci faccia all’interno del codice un titolo che non
contiene diritto sostanziale;
in secondo luogo, le tre costituzioni che lo caratterizzano, sono brevissime,
anche se qui comunque c’è da dire che in realtà si scopre il contrario visto che i
testi originali sono invece molto lunghi e dunque concludiamo il perché della
loro presenza massimizzata;
infine vi è il fato che tutte e tre le costituzioni sono state emanate tra dallo
stesso imperatore; sono speciali, in quanto sono rivolte ad una specifica parte
dell’impero, cosa strana visto che Teodosio, aveva detto ai suoi commissari che
nel redigere il suo codice, avrebbero dovuto attenersi a quelle che erano solo
leggi generali.
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fede cattolica”.
Questa è destinata all’Africa, perché qui vi è un forte scisma, nel senso che ci sono
due vescovi per ogni città, cioè quello della Chiesa Ortodossa e quello della Chiesa
Donatista.
Utilizzando le parole di Onorio, il compilatore voleva dichiarare che la vera religio
deve mantenersi “una et vera fides catholica”, diffusa e garantita dallo Stato.
Altri frammenti di questa costituzione si possono leggere anche in alcune parti del
codice teodosiano, in quanto la legge generale è stata frammentata e quindi posta in
alcune parti del codice.
Perciò non è proprio possibile che i commissari non sapessero cosa facevano.
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Oltre al De fide catholica (CTh 16, 1) e De his, qui super religione contendunt (CTh
16, 4) che presentano alcune suggestioni sull’idea normativa riguardo la catholica lex,
spunti informativi sono presenti in pagine diverse dello stesso libro.
A parte il De hæreticis (CTh 16, 5), soprattutto il De episcopis, ecclesiis et clerici (CTh
16, 2), benché sembri unicamente dedicato alla gerarchia dell’ecclesia, spiega meglio
l’atteggiamento statuale nei confronti della vera religio.
Esso è il secondo titolo del 16° libro e contiene 47 costituzioni. Esso è molto
importante ai fini del nostro studio, in quanto ci permette di definire i rapporti tra il
vescovo e il legislatore rispetto alla catholica lex.
In tale titolo, significativo è l’ordine della rubrica, che tra l’altro dice subito di cosa si
occupa.
L’articolazione della rubrica elencava in successione i soggetti cui si riferiva la
documentazione: all’inizio si sarebbe trattato di materiale riguardante i vescovi
(episcopis), poi delle norme relative alle ecclesie (chiesa cristiana) e infine ai
problemi posti dai clerici (insieme dei preti) (cleirici).
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In realtà però il termine Concilio, qui, dal punto di vista canonico, è usato in modo
errato, visto che significa un’altra cosa, a differenza della tradizione romana, in cui
invece vuol dire proprio assemblea in riunione.
Dunque, questo ci può far solo notare che quando il legislatore vuole indicare il
vescovo, lo fa chiaramente e con precisione, mentre quando vuole indicare le ecclesie
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L’alto ruolo del vescovo e la sua personalità erano riconosciuti e tutelati da un elevato
numero di proposizioni contenute nelle 47 leggi (iniziano con Costantino e arrivano a
Teodosio II) di cui si componeva il titolo 2° del 16° libro.
Queste norme sarebbero state affiancate dall’attenzione che altre constitutiones,
sparse in libri diversi, avevano manifestato nei confronti dei vescovi, attribuendo loro
taluni oneri di rilievo civile.
Al vescovo veniva garantita non solo una situazione del tutto particolare
relativamente all’imposizione fiscale e alla tutela giurisdizionale, ma gli veniva anche
riconosciuta la posizione di interlocutore privilegiato del principe.
Via via al vescovo erano state attribuite molte immunità, come il controllo su tutta la
vita del suo gregge, sulle varie attività dei chierici e su quelle delle sempre più
numerose e spesso rumoreggianti delle consociazioni monastiche, e l’amministrazione
degli ormai ingenti patrimoni appartenenti a ciascuna singola ecclesia locale.
Tra le costituzioni presenti nel codice teodosiano nel 16° libro al 2° titolo, riguardanti
i vescovi ricordiamo: CTh 16.2.43 che rappresenta un provvedimento del 418 e
con il quale vengono traslate nelle mani del Pastore alcune di quelle funzioni
socialmente importanti che fino ad allora erano state espressioni tipiche dei poteri di
intervento dei funzionari imperiali.
Ancora più esplicita sarebbe stata una legge del 421, e contenuta in 16.2.45 CTh.
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Dat. prid. id. iul. Eustathio et Agricola In particolare quindi viene affermando
conss. (421 iul. 14). che eventuali dubbi riguardo
l’interpretazione dei canoni ecclesiastici
sarebbero dovuti essere sciolti dai vescovi che si sarebbero dovuti consultare col
proprio vescovo’ (il Pastore della sede ‘imperiale) per chiarimenti.
Possiamo vedere quindi come tutto ciò coincida perfettamente con la costituzione
16.11.1 del 399, in virtù della quale : quando si tratta delle lex catholica bisogna
chiamare il vescovo, per tutte le altre cause gli altri cognitores.
Quindi a parte l’accenno al concilio in CTh 16.2.4, si nota la costante affermazione
imperatoria circa la naturale auctoritas episcopale.
Non solo al vescovo veniva garantita una posizione particolare relativamente alle
imposizioni fiscali, rispetto ogni altro suddito, o relativamente alla tutela
giurisdizionale, ma era pure riconosciuto interlocutore privilegiato del principe. Il
vescovo aveva funzioni giudiziarie, di controllo sul suo gregge, sui chierici, sulle
consociazioni monastiche e l’amministrazione degli ingenti patrimoni di ogni chiesa.
Il legislatore non solo non negava tale alto ruolo, ma lo elevava persino come punto di
riferimento per la produzione normativa riguardante la materia religiosa.
Riferimenti ecclesiali sono presenti anche nel De fide catholica (CTh 16, 1) e De his,
qui super religione contendunt ( CTh 16, 4).
Per es. persino nell’editto del 386 (poi CTh 16, 4, 1), in cui si faceva riferimento alle
assemblee non proprio ortodosse dei concili di Rimini e Costantinopoli, allorché il
principe indicava ai sudditi i riferimenti fideistici, non aveva potuto che richiamarsi ai
vescovi riuniti nei sinodi.
Il fatto che fossero citati concili non ortodossi in una tale legge forse non è stato un
errore dei compilatori teodosiani (Dovere). Questa legge era oramai inoperante e i
compilatori teodosiani ne erano a conoscenza, dato che collocarono la costituzione
successiva del 388 (che chiariva meglio la costituzione del 386) nel De hæreticis (CTh
16, 5, 15).
Il fatto di conservare nel De fide catholica un documento inoperante e dai riferimenti
non ortodossi è forse stata una consapevole decisione, una scelta di natura politica
fondata su una ratio squisitamente ideologica (si ricordava il costante impegno
imperatorio nel difendere le decisioni dogmatiche dei vescovi), serviva a chiudere
degnamente il I titolo del XVI libro.
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“Opporsi con la forza al pacifico editto imperiale” quindi negare le decisioni dei vescovi
sulla fede ortodossa, avrebbe comportato l’applicazione delle pene previste per il
crimen maiestatis.
Si richiamava così l’attenzione dei destinatari sulla tranquillità teodosiana a tutelare la
pace dell’ecclesia in ogni modo.
Solo i sacerdotes rimanevano unici riferimenti che il principe consentiva alla propria
volontà normativa nell’individuare i contenuti della professione di fede.
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ricordato il suo dovere in tema religioso della consultazione dei vescovi e ribadì che
l’imperatore, piuttosto che essere al di sopra della ecclesia catholica, vi appartenesse
e che non c’era onore maggiore di essere considerato filius ecclesiæ.
La conferma della rigida appartenenza ai vescovi della meditazione de fide si trova
pure nella Storia ecclesiastica di Sozomeno, in cui è presente una vicenda che
vede Valentiniano, sollecitato da alcuni vescovi per rilasciare l’autorizzazione per
riunirsi in sinodo: Valentiniano avrebbe risposto proclamando la sua appartenenza ai
laici cattolici e la sua incompetenza a decidere su tale richiesta, delegando i vescovi a
decidere se riunirsi a discutere de fide.
Un’altra conferma del fatto che il legislatore riconosce il ruolo del vescovo (attenzione
ruolo che il vescovo ha nella comunità ecclesiastica) la troviamo nel De fide
catholica, CTh 16.1.
Esso contiene 4 costituzioni (16.1.1, 16.1.2, 16.1.3, 16.1.4):
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religio usque ad nunc ab ipso insinuata Nella prima parte Teodosio I si rivolge a
declarat quamque pontificem Damasum tutte le nazioni che sono sotto il suo
sequi claret et Petrum Alexandriae dominio, alle quali ordina di rimanere
episcopum virum apostolicae sanctitatis, fedeli alla nuova religione.
hoc est, ut secundum apostolicam Nella seconda parte viene affermato che
disciplinam evangelicamque doctrinam il contenuto della religione cristiana era
patris et filii et spiritus sancti unam stato diffuso da San Pietro ed era ora
deitatem sub parili maiestate et sub pia vigilato dalle due figure più importanti
trinitate credamus. nella Chiesa : Damaso (Vescovo di
1. Hanc legem sequentes christianorum Roma) e Pietro (Vescovo di Alessandria).
catholicorum nomen iubemus amplecti, Quindi il legislatore diceva che bisognava
reliquos vero dementes vesanosque confessare la stessa fede di Damaso e
iudicantes haeretici dogmatis infamiam Pietro (e dunque il "Credo ortodosso"
sustinere nec conciliabula eorum stabilito da questi due vescovi). Ciò
ecclesiarum nomen accipere, divina perché solo i sacerdoti sarebbero rimasti
primum vindicta, post etiam motus i riferimenti indiscutibili per definire la
nostri, quem ex caelesti arbitrio correttezza del Credo dei sudditi fedeli :
sumpserimus, ultione plectendos. Damaso e Pietro rappresentavano gli
Dat. III kal. mar. Thessalonicae Gratiano orientamenti che il legislatore riteneva
a. V et Theodosio a. I conss. (380 febr. opportuno indicare ai destinatari delle
27). sue prescrizioni religiose.
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Dat. X kal. feb. Mediolano Honorio nob. p. bisogna rispettare ciò che hanno deciso i
et Evodio conss. (386 ian. 23). vescovi.
A tal motivo si erano tenuti due concili della filosofia eterodossa: uno a Rimini nel 359,
e un altro a Costantinopoli nel 360.
A Rimini cedettero alla filosofia eterodossa, mentre a Costantinopoli no. Quindi
l’imperatore convocò nuovamente i vescovi, che poi alla fine cedettero alla filosofia
eterodossa.
La quarta costituzione è frammentata ed è presente anche nelle altre parti del codice.
Questa nel quarto titolo ha un luogo di emissione diverso, cioè non Milano, ma
Costantinopoli. In questo modo si spiega perché si era confuso il concilio del 360 con
quello ecumenico del 381.
Nel 388 l’imperatore emanava un’altra costituzione che annullava la precedente, ma
le espressioni erano talmente efficaci che voleva inserirle nel codice per far chiudere il
primo titolo.
Da ciò si può osservare come nel codice sono conservate anche le costituzioni
abrogate, ma ritenute efficaci dai commissari teodosiani.
Il quinto titolo del 16° libro del codice teodosiano è intitolato De haereticis, e in esso
Teodosio II ha voluto far cenno a ciò che gli imperatori precedenti avevano stabilito
nei concili ecumenici circa le loro decisioni sulla fede. Questo titolo è formato da 66
costituzioni.
Ai fini del nostro studio vedremo :
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furono bollati dalla legge con il nome di porfiriani, i suoi scritti furono condannati alle
fiamme e contro chiunque ne fosse stato trovato in possesso fu comminata la pena
capitale.
Infine vennero stabiliti 20 canoni (o regole).
Il 25 luglio 325 il Concilio si concluse. L'imperatore fece trasmettere le decisioni del
concilio a tutti i vescovi cristiani esortandoli ad accettarle, sotto la minaccia dell'esilio].
Alcuni studiosi hanno sostenuto che questa costituzione è una chiara ipotesi di
legislatore che tenta di fare il teologo, visto che è come se entrasse nelle cose della
fede, e quindi tutto ciò contrasterebbe la nostra teoria, cioè quella in cui il legislatore
non entra nelle cose della fede (16.11.1).
Ma bisogna però notare che il legislatore non fa semplicemente altro che ripetere la
formula del credo niceno di Costantinopoli, quindi non è un ideatore, perché difatti
ve ne è solo un segmento.
Quindi né il legislatore né tanto meno il codice possono dirsi teologi.
Ebbene leggendo tale costituzione ci appare chiaro fin da subito che in essa si sta
confermando il contenuto delle decisioni canoniche del Concilio di Costantinopoli
del 381, e per far questo il legislatore trova conveniente richiamare un paio di
espressioni della Formula del Credo, continuando poi con il lavoro svolto dai padri
conciliari, e stabilendo così che i sudditi osservino e rispettino quanto da questi detto
nel concilio.
In ordine cronologico subito dopo questa vi è CTh 16.1.3.
Allora non si può certo negare che vi sia una sorta di compromissione con la teologia,
e che comunque il legislatore in qualche maniera si sia sbilanciato, ma sicuramente
non possiamo sostenere che questi sia un teologo, semplicemente si rimette a quanto
stabilito dai vescovi (considerati ancora dal legislatore come punto di riferimento in
materia religiosa).
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Negli atti del concilio è presente un’altra costituzione del 436, che non ha carattere
generale, in quanto si condanna all’esilio Nestorio, e quindi non è presente nel codice
teodosiano.
Queste due costituzioni rappresentano gli ultimi provvedimenti teodosiani. Esse
seguono il passaggio tra due diversi orientamenti del tardo ius principale
sull’argomento della catholica fides: dalla considerazione del momento episcopale
singolarmente inteso, all’attenzione rivolta al concilio ecumenico e ai suoi canoni.
CONCILIO DI CALCEDONIA
Nel 450 Teodosio II cade da cavallo e muore, ma alla sua morte succede Marciano,
un tribuno militare, nominato poi senatore, che sposò Pulcheria.
Con la successione di Marciano a Teodosio, c’è un cambio di dominus, ma allo stesso
tempo una sostanziale continuità di dinastia, infatti non solo Marciano sposa Pulcheria,
sorella di Teodosio II, ma si aggancia soprattutto a quella che è la posizione
costituzionale di Teodosio.
Quando muore Teodosio c’è un problema religioso, in quanto, come abbiamo detto, di
lì a poco c’era stato il concilio di Efeso del 449 (cd latrocinio di Efeso).
Grazie alle fonti ci è arrivato tutto il materiale epistolare scambiato tra il Papa Leone
Magno e la famiglia di Teodosio.
In questi anni, Leone Magno invia una serie di epistole a Teodosio II per far riunire un
ulteriore concilio per annullare quanto stabilito nel latrocinium.
Teodosio non lo convoca e dopo poco muore.
Il suo successore Marciano, era molto religioso.
Però a questo punto il Papa non ha più l’intenzione di convocare un nuovo concilio,
visto che proprio la morte di Teodosio e la forte religiosità di Marciano lo
tranquillizzano.
Marciano però incurante di quanto detto dal Papa, indice comunque il concilio,
certamente per intento di tipo legittimo.
Possiamo dunque vedere come vi siano dei legami tra la vita politica e quella
ecclesiastica.
Ebbene, per quanto riguarda il concilio, Marciano cerca di convocarlo a Nicea, insieme
a Valentiniano III, imperatore d’Occidente, ma qui ci sono briganti organizzati che
potrebbero creare forti disordini. Quindi Marciano cambia il luogo del concilio, da
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Nicea a Calcedonia, perché è più protetto dalle forze armate contro i fastidi dei lavori
conciliari.
Quindi Marciano, nel 451, convocò il Concilio di Calcedonia per correggere le
decisioni del concilio di Efeso, detto “latrocinio di Efeso”, che aveva confermato le
teorie monofisiste e assolto Eutiche dall’accusa di eresia.
Le sedute cominciarono l'8 ottobre 451 e contarono fra i cinquecento e i seicento
vescovi.
In questo concilio si risolve il dogma cristologico, cioè in Cristo sono presenti due
nature, quella divina e quella umana, e nessuna di esse prevale sull’altra.
In esso viene riabilitata la figura di Flaviano, patriarca di Costantinopoli, che è in
esilio, e si depone invece Eutiche e Dioscoro, patriarca di Alessandria, con tendenze
monofisiste.
Facendo ciò però si sono avuti molti problemi, in quanto ad Alessandria il patriarca
veniva scelto dalla popolazione, e quindi con il deporre di Dioscoro, gli egiziani
vedevano sostituirlo con un altro vescovo, Proterio, scelto dal concilio.
Quindi la popolazione, capeggiata dai monaci, si rivoltano contro il nuovo patriarca.
Al fine di proteggere quest’ultimo intervengono i soldati inviati da Marciano, che
inizialmente cedono.
Ciò che succede ad Alessandria, succede anche in altre parti del mondo, in quanto vi
è un interesse diffuso di contrastare le decisioni del concilio, soprattutto nelle regioni
periferiche dell’impero (Siria, Gerusalemme, ecc.).
L’impero però non può consentire che ci sia una contestazione nei confronti del
Concilio di Calcedonia, e quindi interviene con la costituzione 7 febbraio 452 (CI
1.1.4).
Bisogna poi ricordare che al successo del Concilio contribuirono le pressioni del cugino
di Pulcheria, Valentiniano III, il quale agì in accordo con papa Leone I. Quest'ultimo,
nel 450, aveva inviato una missione, capeggiata dal vescovo di Como Abbondio,
originario di Tessalonica: egli ottenne che Anatolio (Patriarca di Costantinopoli dal 449
al 458) accettasse una lettera che Leone aveva indirizzato nel 449 al suo precedessore
Flaviano (martirizzato dai sostenitori del monofisismo di Eutiche). La lettera è tuttora
ricordata col nome Tomus ad Flavianum.
Tuttavia papa Leone rifiutò di accettare il ventottesimo canone del concilio, che
sanciva l'uguaglianza fra la sede apostolica di Roma e il patriarcato di Costantinopoli,
asserendo l'ormai tradizionale posizione relativa al primato di Roma.
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CI 1.1.4 Essa quindi rappresenta un editto di Marciano del 452, inserito poi nel
codice di Giustiniano (CI 1.1.4), subito dopo la legge teodosiana del 438.
Infatti, aprendo il primo libro del Codice di Giustiniano è presenta la
costituzione di Teodosio II del 448 (1.1.3), e subito dopo quella di
Marciano del 452 (1.1.4). Per quanto riguarda la costituzione 1.1.3, i
compilatori l'hanno scelta come terza costituzione (e quindi hanno saltato
il concilio di Efeso del 431) perché è considerata l'ultima costituzione in
materia di fede.
Nella costituzione di Marciano, vediamo che nell’inscriptio c’è sia il nome di
Valentiniano III sia di Marciano (in quanto il “Dies et imperi” di
Valentiniano III, è precedente a Marciano), il quale si mostra sottomesso
al primo, mostrando la continuità con l’impero d’occidente.
Nelle costituzioni di Valentiniano, invece, non compare mai il nome di
Marciano perché non vuole riconoscergli la legittimità.
Questa è una costituzione breve, dove ci sono sia precetti che sanzioni (cd
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Lex Perfecta).
Le sanzioni sono diverse per ogni categoria di persone.
Il legislatore sostiene che pubblicamente non si deve discutere del credo e
del dogma, in modo da non fare nascere problemi nell’ordine pubblico
(questo è l’obiettivo).
Alla fine del terzo paragrafo ci sono le sanzioni:
- se sarà un chierico o un milites a contestare, sarà spogliato;
- se invece sarà chiunque di un’altra condizione, servo o libero, sarà
sanzionato nel modo più adatto : il servo con pene severe; il libero in
forza dell’apparato giudiziario che dovrà punirlo cacciandolo dalla città.
Ebbene tale costituzione è davvero importantissima in quanto consente di fare una
serie di affermazioni non solo sul rapporto Ius principale e Catholica lex, ma anche su
altri argomenti.
Capiamo bene dunque come il legislatore tenga a cuore l’ordine pubblico, difatti il suo
obiettivo è proprio quello di evitare la contestazione religiosa, visto che potrebbe
trasformarsi in disturbo all’ordine pubblico, e così in contestazione politico-istituzionale
all’impero.
Questa costituzione oltre che contenuta nel codice di Giustiniano, è contenuta anche
in Evagrio Scolastico, il quale però cita anche i monaci.
Allora ci si chiede se tali monaci fossero presenti anche all’interno del testo originale.
E per rispondere a questa domanda, noi ci serviremo dei Basilici, visto che in essi
potrebbe essere contenuta una versione della legge diversa da quella presente nel
codice. Ebbene andando a guardare il brano dei basilici (scritto in greco) e prendendo
la legge 1.1.4 (scritta in latino) vediamo che mentre i basilici fanno riferimento ai
monaci, in tale costituzione il riferimento non c’è. Allora è probabile che con le
interpolazioni dei basilici sia stata cancellato il riferimento ai monaci, forse perché
costituivano un pericolo, e quindi citarli significava dargli la legittimità di oppositori.
Infatti, nei basilici troviamo la parola greca Aeresis, che tradotta dal greco al latino,
vuol dire setta.
Quindi i monaci venivano paragonati ad una setta, per tale motivo costituivano un
pericolo. Pertanto i redattori avevano già individuato la figura dei monaci come
oppositori.
E quindi anche la costituzione 1.1.4 parlava di monaci, anche se non specificamente, e
cioè quando dice genericamente “chiunque di ogni altra condizione”. Tant’è vero che
abbiamo una costituzione 1.2.13 del 455 di Marciano, nella quale il termine monaci
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esiste. Quindi in questo il riferimento non costituiva più un pericolo, anzi non citarla
avrebbe dato ai monaci una dignità teologica e teoretica. Inoltre in tale contesto
comunque non è poi casuale il riferimento ai giudici. Infatti la costituzione 1.1.4 si
riferisce contro coloro che disprezzano questa legge e per questo a loro verranno
irrogate delle pene perché non solo vanno contro la fede stabilita una volta per tutte
con autenticità, ma soprattutto profanano i venerandi misteri così come fanno i giudei
e i pagani.
Dunque chi mette in discussione Calcedonia viene equiparato a chi è pagano e a chi è
ebreo.
Ecco perciò che Calcedonia rappresenta un tentativo di blocco concettuale esegetico.
Marciano oltre la 1.1.4 emana anche altre costituzioni tutte a difesa di Calcedonia,
creando così una sorta di Corpus normativo conciliare.
Dopo la legge 1.1.4 di febbraio, a marzo viene emanata un’altra legge che non è nel
codice di Giustiniano ma negli atti del concilio di Calcedonia, e nella quale non c’è né
precetto e né sanzione. Questo è il motivo per cui non è inserita nel C.I.
Confrontando le due costituzioni capiamo qual è la tecnica di redazione del codice.
Infatti gli studiosi che le hanno studiate dicono che l’imperatore sta ripetendo la
costituzione 1.1.4, perché la prima non è stata rispettata, ma nonostante ciò nella
reiterazione non sancisce l’irrogazione di pene più gravi.
Ma dal confronto non si capisce solo la tecnica di redazione, ma anche qualcosa della
politica normativa, e cioè se io voglio rendere efficace un provvedimento lo ripeto, ma
soprattutto inasprisco le pene.
Qui siamo di fronte ad un provvedimento reiterato, ma con il quale non si ripetono
precetto e sanzioni (non c’è quindi l’inasprimento delle pene).
C’è però qualcuno che afferma che qui si sta effettuando un’opera di convincimento
dei sudditi, ma contemporaneamente un’opera di convincimento dei funzionari, una
sorta di fidelizzazione.
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2. L’altra non è presente nel CI, però leggendo gli atti del concilio di Calcedonia noi
troviamo due costituzioni molto simili:
- una è del 2 maggio 452;
- e un’altra è del 455.
E’ come se ad un certo punto nel 455 si fosse ripresentato un problema di
difesa del concilio e la cancelleria avesse ripetuto una costituzione già emanata.
Ebbene la costituzione del 455 è presente nel CI ed è una costituzione geminata
(1.5.7).
Sono tutte costituzioni in cui il concilio di Calcedonia è sempre il punto di
riferimento.
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Esaminando testo per testo noi abbiamo risposto alla domanda di partenza, cioè
“che rapporto c’è tra ius principale e catholica lex?”.
E’ un rapporto rispettosissimo delle opere di competenza.
Il legislatore rispetta la provincia ecclesiastica e non entra a stabilire il
contenuto del credo.
In questo modo si smentisce la convinzione dell’esistenza del cesaro papismo.
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