Sei sulla pagina 1di 76

Sociologia del diritto

1. Introduzione alla sociologia del diritto


Disciplina dello studio del diritto con una prospettiva sociologica: possiamo de nirla come quella
branca della sociologia che studia i rapporti tra diritto e società. Si tratta comunque di una
de nizione molto generica che va riempita di contenuti e di prospettive.
La sociologia si occupa del diritto come fenomeno sociale, infatti si occupa dei rapporti tra diritto
e società. Possiamo fare molti esempi: la sociologia è particolarmente interessata a studiare
l’impatto in un determinato contesto sociale di una determinata normativa; studia gli e etti che
una norma produce nella società (esempio: quali sono stati gli e etti della legge che negli anni ’70
ha permesso alle donne di entrare nella magistratura? Come è cambiata la magistratura con
l’ingresso delle donne in questa professione?)
Come cambia l’assetto del mondo del lavoro con la promulgazione di una determinata normativa?
Lo studio dell’impatto è un tipico studio della sociologia, come anche quello dell’e cacia.
L’e cacia per il sociologo del diritto generalmente viene intesa come qualcosa di diverso rispetto
a come l’e cacia è intesa dal giurista. Sappiamo che una norma è e cace, dal punto di vista del
diritto, quando ha seguito tutto l’iter per la sua promulgazione e in qualche modo è valida e può
produrre i propri e etti. Per il sociologo invece l’e cacia è quell’insieme di e etti che la norma
produce nella società voluti da chi ha posto in essere questa stessa norma. Non sempre quelle
che sono le funzioni dichiarate di una norma sono e ettivamente le norme che il legislatore
intendeva perseguire e intendeva vedere svilupparsi nella società. Il modo in cui il sociologo vede
e veri ca se una norma è e cace o meno, lo discosta da quello del giurista puro.
Come la sociologia del diritto studia il diritto nei suoi rapporti con la società? Adottando quale
prospettiva? Utilizzando quale metodo? Certamente il sociologo del diritto non è un legislatore,
non è un giudice, non crea il diritto, non lo interpreta e tantomeno lo applica.
Il sociologo del diritto osserva il diritto come fenomeno sociale, lo descrive come fenomeno
sociale, lo interpreta con metodi e strumenti diversi da quelli del giurista, ma che non per questo
sono meno importanti. Infatti il sociologo va a scavare proprio quelle che sono delle dinamiche
sociali che in uenzano il diritto sia nel senso del diritto che in uenza la società, sia nel senso della
società che in uenza, per esempio, un cambiamento nella normazione di un determinato
fenomeno.
Portiamo un esempio: il riconoscimento della famiglia come non fondata sul matrimonio, è
evidentemente un riconoscimento che segue un grossissimo, lento ma inesorabile mutamento
dell’istituzione sociale della famiglia. Per esempio a partire da un aumento, nel tempo, dei gli nati
fuori dal matrimonio e quindi l’idea che la famiglia non necessariamente è solo quella che si fonda
su un contratto matrimoniale. Per varie ragioni infatti, che sono politiche, ideologiche, culturali,
etc, in molti paesi europei la famiglia è andata modi candosi.
Questo mutamento nella famiglia è particolarmente signi cativo e ci spiega molto bene quella che
può essere la prospettiva sociologica allo studio (e dello studio) del rapporto tra diritto e società.
Infatti il sociologo, per capire l’in uenza del mutamento sociale nell’istituzione familiare e del
mutamento giuridico, quindi del riconoscimento di questo stesso mutamento, dovrà analizzare
tutta una serie di fattori variabili che in primis hanno inciso sul mutamento della famiglia, e poi
quali sono stati i movimenti e le dinamiche che hanno sollecitato il diritto e lo hanno portato a
cambiare.
La scienza giuridica, e quindi i professionisti del diritto, conoscono le norme, le producono, le
interpretano e le applicano: già qui vediamo una di erenza notevole tra prospettive. Ciò non
signi ca che la sociologia del diritto non debba conoscere a fondo il diritto, infatti si è dei bravi
sociologi del diritto se si ha una doppia competenza: la prima è la competenza del giurista, cioè la
conoscenza approfondita del diritto, la seconda è la competenza sociologica. Inoltre la sociologia
svolge una funzione critica nei confronti del diritto e della scienza giuridica proprio perché, con i
propri metodi e con la propria prospettiva, riesce a far emergere alcune dinamiche, alcuni aspetti
1
fi
ffi
fi
fi
ffi
fl
fl
ff
ffi
fl
ffi
fi
ff
ff
fi
fl
ff
ffi
ff
fi
ff
fi
ffi
legge fenomeni e dinamiche giuridiche in modo critico e utile per questo al professionista del
diritto.
Ci sono forti connessioni storiche tra la sociologia e la scienza giuridica. Possiamo certamente
dire che la nascita della sociologia del diritto si deve anche a quei giuristi che, tra ne ‘800 e inizio
900’, si opposero a quella che era la concezione formalistica del diritto: l’idea che il diritto fosse
completo e che fosse certo, che fosse la legge che il giudice si limitasse ad applicare. E allora,
autori e giuristi come Gurvitch, Santi Romano, Geny e Ehrlich, criticarono questa prospettiva
formalistica e cominciarono invece a proporre ed a mostrare come il diritto fosse tutt’altro che
certo e completo; che il lavoro del giudice non era solo di mera applicazione della norma, perché
l’applicazione della norma al caso concreto presuppone sempre un’interpretazione e una
discrezionalità da parte del giudice che qui è anche creatore del diritto.
Oggetto della sociologia del diritto è dunque il diritto come è, non come dovrebbe essere (non il
Sollen - dover essere - di Kelsen; non il law in books di Pound - cioè quello che è scritto nei
codici, nei libri) né come ci piacerebbe che fosse. Dunque oggetto è il Sein di Kelsen (l’essere) e il
law in action di Pound (il diritto così come è applicato, il diritto come produttore di etichette).
La sociologia del diritto indaga il rapporto tra diritto e società signi ca, ad esempio, che indaga il
sistema giuridico (la struttura, la relazione con altri elementi del sistema sociale, le funzioni che
svolge e le sue origini); l’impatto e l’e cacia del diritto e delle norme; indaga le singole istituzioni
(la nascita, l’e cacia, il mutamento, la scomparsa e le funzioni); i diritti, con i processi che hanno
interessato nella storia e per l’a ermazione dei diritti, in particolare la moltiplicazione e la
speci cazione; i ruoli professionali; la conoscenza e le opinioni sul diritto; il rapporto tra
mutamento sociale e giuridico, e ancora il rapporto tra norme, azioni e processi sociali che
portano a de nire i comportamenti come leciti e illeciti.
La prima de nizione è dunque “la sociologia studia il diritto come modalità di azione sociale”.
Per fare questo la sociologia del diritto trae dalla sociologia generale i paradigmi teorici, alcuni
concetti fondamentali (il concetto di agire sociale, il concetto di potere, di società, di norma), i
metodi di ricerca che sono basati essenzialmente sull’osservazione empirica che potrà essere
qualitativa e quantitativa, e in ne adatta tutto questo allo studio del diritto, conoscendolo e
sapendo perfettamente che si serve di un linguaggio specialistico, che si serve di certi metodi
(nella cultura interna del diritto) che interpretano e creano il diritto in un certo modo.
Il diritto per la sociologia è dunque tanto oggetto di ri essione teorica, quanto oggetto di ricerca
empirica.

(Libro “Diritto e società”, cap. 1.


Per approfondire: Lawrence Friedman, voce Diritto e società, in Enciclopedia Treccani
http://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-societa_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/)

2
fi
fi
fi
ffi
fi
ff
ffi
fl
fi
fi
2. Osservare e comprendere i fenomeni sociali
Andiamo ad approfondire la di erenza tra opinioni personali e ricerca sociale.
Quello che dobbiamo fare è entrare nella prospettiva sociologica: che cosa signi ca ricercare e
fare ricerca sociale? In che cosa la ricerca sociale si distingue dalle opinioni personali?
Senz’altro tutti noi siamo “opinionisti” nella misura in cui, ogni giorni, diamo il nostro parere ed
opinioni, cerchiamo spiegazioni e proponiamo previsioni. Lo facciamo quotidianamente e tutto
questo non deriva necessariamente da delle nostre conoscenze scienti che, da delle teorie che
abbiamo fatto proprie o da ipotesi scienti che che abbiamo formulato. Semplicemente derivano,
o possono derivare, almeno in parte dall’esperienza individuale che facciamo, dalle cose e dalle
situazioni rispetto alle quali noi diamo i nostri pareri.
La ricerca sociale è qualcosa di diverso, perché se ci interessa ricostruire in modo rigoroso,
possiamo dire scienti co in senso ampio, i caratteri e le circostante nelle quali si manifesta un
particolare fenomeno sociale, il percorso di descrizione, e ancor prima di osservazione, e poi di
interpretazione è certamente più complesso rispetto a quello che seguiamo nelle vesti di semplici
opinionisti.
Non è quindi più su ciente farci un’idea ri ettendo sulle nostre esperienze o sulle nostre
percezioni personali, ci vuole qualcosa di più.
Il sociologo deve liberarsi dalla situazione nella quale è inserito, dunque dai condizionamenti della
propria situazione personale, e cercare di collocare i fenomeno che vuole studiare in un contesto
più ampio. In questo senso si ricorda sempre un’espressione, coniata da un celebre sociologo,
Charles Wright Mills (1959), che è quella dell’immaginazione sociologica: la capacità di
ri ettere su sé stessi fuori dalla propria situazione personale, ri ettere sul mondo astraendosi da
quelle che sono opinioni personali date dalla propria situazione.
Allora facciamo un esempio che apparentemente non c’entra nulla col diritto, per capire come
anche la ricerca socio-giuridica può partire da interazioni e fenomeni che ci appaiono
assolutamente prive di signi cato sociologico. L’esempio che Anthony Giddens fa è quello del
bere una tazza di ca è. Le considerazioni che faremo partono proprio da questo semplice gesto
che tutti noi facciamo, lo facciamo sempre, che sia con amici, danzati o altri, prima
dell’università o la mattina. L’idea può essere quella di rimanere svegli, ma in realtà prendere un
ca è, ad esempio con gli amici prima di entrare all’università, assolve a molte altre funzioni.

Guardiamo per esempio questa foto.


Possiamo interpretarla in vari modi
ma ci da un messaggio, ci fa
formulare delle ipotesi: potrebbero
essere cinque amici, cinque studenti
che brindano a qualcosa, potrebbero
essere cinque colleghi di una
giovane start-up che ha raggiunto
degli obiettivi, magari sono cinque
studenti che hanno visto dai loro
cellulari di aver superato un esame.
Quante informazioni può darci
questa foto e quante cose ci può
veicolare il semplice fatto di bere una
tazza di ca è.

Ecco allora che con la nostra immaginazione sociologica noi potremmo studiare, ipotizzare e
costruire una ricerca che ha a che fare col bere una tazza di ca è, per esempio sottolineandone il
suo valore simbolico di rito sociale quotidiano e allora, andare a capire quali sono i signi cati del
rito sociale quotidiano del bere un ca è è certo più importante dell’e etto che il ca è produce nel
3
fl
ff
ff
ff
fi
ffi
fi
ff
ff
fi
fl
ff
fl
ff
fi
fi
fi
ff
fi
nostro organismo. Ma anche potremmo chiederci se bere una tazza di ca è ci dice qualcosa sul
signi cato che il ca è ha nella nostra società. Il ca è è una droga, da assuefazione, ma
certamente chi beve il ca è non è considerato un drogato perché, nella nostra cultura, il ca è è
considerato una droga socialmente accettabile.
Anche questo può essere un punto di partenza per formulare alcune ipotesi e per andare a
veri carle attraverso delle indagini empiriche. L’immaginazione sociologica attorno al bere un
ca è può farci ri ettere sulle scelte etiche e sugli stili di vita: sempre di più si parla del ca è come
un prodotto che ha acquisito un’importanza enorme nel dibattito sulla globalizzazione, sul
commercio internazionale, sei diritti umani (lo sfruttamento). Quindi possiamo ipotizzare che la
decisione sulla marca di ca è da acquistare e consumare sia diventata una scelta che denota uno
stile di vita.
L’immaginazione sociologica permette di ragionare sulla relazione tra azioni individuali e concrete
e questioni più ampie. Proviamo allora a ri ettere su altri eventi che ci appaiono e che abbiamo
sempre pensato come eventi e fatti personali, pensiamoli in relazioni a questioni sociali più ampie.
Quando parliamo di ricerca sociale, parliamo di paradigmi, non solo nel senso della de nizione
che ne davano Platone -modello- e Aristotele -esempio-, ma seguendo quella che è una
de nizione di Thomas Kuhn che ci propone quest’idea di paradigma: una prospettiva teorica
condivisa e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una determinata disciplina, quindi troviamo
anche nella sociologia, in una prospettiva storica, dei paradigmi che sono andati ad a ermarsi, a
partire proprio dalla fondazione del paradigma positivista da parte di un autore ritenuto padre
della sociologia generale: Auguste Comte (1798-1857).

Paradigma positivista
Il paradigma positivista si riconduce alla nascita della sociologia, in particolare al suo fondatore
Auguste Comte alla ne del ‘700 no a metà ‘800. Questo è il periodo della Rivoluzione francese,
del trionfo dei principi fondamentali della libertà, dell’eguaglianza, un momento di trasformazione
profonda della società, dei rapporti tra classi e ceti sociali. È l’epoca della rivoluzione industriale
inglese, che aveva portato profondi cambiamento nell’ambito economico, nell’ambito sociale,
aveva prodotto innovazioni tecnologiche importanti, aveva trasformato la società con delle
migrazioni importanti verso le aree urbane. Tutto ciò aveva portato una trasformazione importante
nella vita.
Ecco allora che Auguste Comte, studioso e losofo francese, ri ette proprio su questi
cambiamenti nella società, nella cultura ed anche nel mondo del diritto che caratterizzano la sua
epoca e ritiene che sia fondamentale fondare una scienza che sia in grado di comprendere questi
cambiamenti: la sica sociale. Quest’ultima si con gura proprio come una scienza della società,
attraverso la quale, con la propria teorie e i propri strumenti, potesse essere possibile spiegare le
leggi del mondo sociale (perché certi fenomeni avvengono, perché certi mutamenti sociali si
presentano in un determinato momento?).
L’idea di una sica sociale porta immediatamente a ri ettere sul posto della sociologia nell’ambito
della scienza più ampia, perché Comte ritiene proprio che la sica sociale sia una scienza in
grado di spiegare il mondo sociale, esattamente come le scienze della natura sono in grado di
spiegare il funzionamento del mondo sico.
Proprio quest’idea della scienza sociale come scienza naturale, porta Comte a ritenere che la
società sia mossa da leggi e che, nel momento in cui queste leggi vengono scoperte e studiate
allora lo scienziato sociale sarà in grado di spiegare il perché dei fenomeni e degli avvenimenti
della società. In questo senso, proprio Comte sostiene che la conoscenza dei fenomeni sociali
possa avvenire su basi empiriche esattamente come la sica, la biologia e la siologia studiano le
leggi del mondo delle cose, le leggi dello sviluppo degli organismi viventi e le leggi del corpo
umano. La sociologia positivista, quella che si a erma con Comte, ritiene che, attraverso
l’individuazione delle leggi, la sociologia possa spiegare, classi care e descrivere i fenomeni
sociali. Questa idea porta Comte a pensare che le azioni umani sono governate e determinate da
leggi che possono essere determinabili scienti camente.
4
ff
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
ff
ff
ff
fi
fi
fl
fi
fi
fi
ff
fl
fi
ff
fi
fi
fl
ff
fi
ff
ff
fi
ff
Comte allora suggerisce quali possano essere gli strumenti per studiare la realtà e ritiene che lo
siano gli apparati concettuali, gli strumenti di analisi matematica e i procedimenti di inferenza delle
scienze naturali che ci permettono una comprensione scienti ca della società.
Il primo che pone le basi empiriche della scienza sociologica secondo il paradigma positivista è
un sociologo molto importante: Emile Durkheim. Egli, in “Regole del metodo sociologico”, da
una de nizione vera e propria di sociologia e dei modi attraverso i quali è possibile studiare la
società: “la prima regola … impone di considerare i fatti sociali come cose» (e quindi
oggettivizzare ciò che accade nella società) e i fatti sociali sono «modi di agire, di pensare, di
sentire, che presentano la … proprietà di esistere al di fuori delle conoscenze individuali …
Quando assolvo il compito di marito o di cittadino io adempio doveri che sono de niti – al d fuori
di me e dei miei atti – nel diritto e nei costumi. Anche quando essi si accordano ai miei sentimenti
ed io ne sento interiormente la realtà, questa non è perciò meno oggettiva: non li ho fatti io, ma li
ho ricevuti mediante l’educazione”.
Secondo Durkheim dunque, i fatti sociali hanno la stessa proprietà delle cose del mondo naturale:
non sono soggetti alla volontà dell’uomo, determinano le azioni dell’uomo e funzionano secondo
regole proprie che l’uomo può scoprire attraverso la ricerca scienti ca. Allora il mondo sociale, al
pari di quello naturale, è governato da leggi e possiamo quindi immaginare una realtà sociale al di
fuori della vita personale dell’individuo che il sociologo può studiare.
Allora è interessante lo studio che Durkheim conduce sul suicidio. Il suo studio viene pubblicato
nel 1897 ed è interessante dal punto di vista metodologico-sociologico: Durkheim ritiene, come
conseguenze di questa sua teoria, che il suicidio non è, come potrebbe sembrare, un atto
puramente compiuto da un soggetto, che trova delle sue motivazioni esclusivamente nella
psicologia e nella volontà del soggetto. Il suicidio è un fatto sociale e, come tale, può essere
studiato solo mediante altri fatti sociali.
Coma costruisce la sua ricerca empirica sul suicido? Innanzitutto studia e ricorre ai dato forniti
dalle statistiche u ciali e scopre che alcuni gruppi di persone sembrano essere più propensi al
suicidio rispetto ad altri: per esempio c’è un maggior numero di suicidi compiuti dagli uomini
piuttosto che da donne; più tra i protestanti che tra i cattolici; più tra i ricchi che tra i poveri; più i
non coniugati che i coniugati. Un altro dato che emerge dalle statistiche u ciali è quello che i
tassi di suicidio tendono ad essere più bassi nei periodi di guerra e più alti in periodi di instabilità
economica. Attraverso questa analisi delle statistiche u ciali, Durkheim a erma e scopre che due
forze sociali in uenzano i tassi di suicidio e sono l’integrazione sociale e la regolazione sociale.
Elabora dunque una categorizzazione del suicidio, sostenendo che queste due forze determinano
quattro tipi di suicidio:
• egoistico - determinato da una mancanza di integrazione sociale
• anomico - determinato da una carenza di regolamentazione sociale
• altruistico - determinato da un eccesso di integrazione sociale. I legami sociali sono troppo forti
e l’individuo attribuisce più valore alla società che a se stesso. Il questo caso il suicidio è un
sacri cio a favore di un «bene maggiore» (pere esempio i kamikaze)
• fatalistico - determinato da un eccesso di regolazione sociale, per cui l’oppressione
sull’individuo può produrre in lui un senso di impotenza che può indurlo al suicidio.

Paradigma neo-positivista
Il paradigma positivista viene rapidamente soppiantato dal paradigma neo-positivista. Nel corso
del ‘900 viene meno quella ducia, sicurezza e certezza che ha caratterizzato in generale il
positivismo, non soltanto nella sociologia, ma anche nelle scienze giuridiche o loso che, infatti
viene meno il concetto di legge che non sempre è certa. Tramonta proprio l’idea della certezza
della scienza, della completezza della legge.
A partire dal ‘900 anche nelle scienze naturali, in particolare dalla sica, cominciano a diminuire e
perdere forza certi concetti, come quello della determinabilità, ma iniziano anche a prendere forza
alcuni concetti come la probabilità (non è detto, dal punto di vista della sica, che se facciamo
cadere un oggetto questo oggetto seguirà una legge per cui in tot. tempo arriverà al suolo.
5
fi
fi
fl
ffi
fi

ffi
fi
fi
fi
ff
fi
ffi
fi
fi
fi
Possono esserci dei fastidi, imprevisti che possono modi care il tempo di caduta), l’incertezza,
basati sulla consapevolezza, che diventa sempre più forte, del fatto che i fatti hanno un forte
elemento di imprevedibilità.
Questi concetti entrano anche nelle scienze sociali. Infatti si passa dal dire, secondo un
paradigma positivista, che un fatto accade per una legge che lo governa al dire che c’è
imprevedibilità anche in un semplice fatto. Questa certezza del paradigma positivista viene meno:
tanti imprevisti possono veri carsi modi cando la fattualità.
Il paradigma neo-positivista si caratterizza per una conoscenza della provvisorietà dell’ipotesi
teorica di ricerca: non possiamo essere certi delle nostre ipotesi, le dobbiamo sottoporre a veri ca
empirica. Non esistono leggi certe e de nibili una volta per tutte, nella sica e tanto più nella
società esistono probabilità. Il concetto di probabilità diventa fondamentale nella ricerca sociale,
che implica una serie di “disturbi” accidentali, uttuazioni, ineliminabili nel mondo sociale, nel
mondo del linguaggio, del pensiero, dell’interazione fra uomini.

Paradigma dell’interpretativismo
Altro paradigma importante, e che in qualche modo soppianta quello neo-positivista, è quello
dell’interpretativismo. Questo paradigma trova la sua matrice nello Storicismo tedesco, corrente
che ha posto l’accento sull’irriducibilità della conoscenza storica e sociale a leggi universali e
necessarie, come quelle proprie delle scienze naturali.
Con questo paradigma comincia ad a ermarsi l’idea che la società è cosa molto diversa dalla
natura, e quindi non può essere descritta, interpretata e spiegata facendo ricorso a leggi che sono
estrapolate e create per lo studio della natura, della biologia e dei fatti naturali.
Wilhelm Dilthey (1833-1911) distingue in particolare tra scienze della natura e scienze dello
spirito, dove le scienze dello spirito hanno per oggetto una realtà che l’uomo stesso costruisce,
che l’uomo vive con la propria esperienza diretta e percezione e che, in questo senso, sono
dirette non tanto a spiegare bensì a comprendere i fenomeni sociali.
Un autore fondamentale è Max Weber, in qualche modo glio di questa corrente, e propone una
sociologia che viene de nita come “sociologia comprendente”: “La sociologia designa la scienza
che si propone di comprendere, in virtù di un procedimento interpretativo, l’agire sociale e quindi
di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi e etti. Per agire si deve intendere un
atteggiamento umano se e in quanto l’individuo che agisce attribuisce ad esso un signi cato”.
Un concetto fondamentale nella sociologia comprendente è quello di verstehen, cioè
comprendere, nel senso di intendere lo scopo dell’azione, cogliere le dimensioni di intenzionalità
dell’agire umano, capire il perché dell’azione umana, il signi cato soggettivo attribuito
dall’individuo. Ed ecco allora che Weber si concentra in particolare sullo studio dell’azione sociale
come risultato dell’azione dell’individuo che si pone in relazione con l’azione di altri e questa
azione sociale può essere oggetto di comprensione e di spiegazione.
Per fare questo Weber introduce il concetto di tipo ideale che è un modello che ci permette di
riportare alla teoria ciò che noi osserviamo. Rispetto all’azione sociale Weber propone quattro tipi
ideali che sono:
1. Agire razionale rispetto allo scopo, ossia agire per conseguire uno scopo mediante i mezzi di
cui si dispone (io stipulo un contratto per comprare una casa)
2. Agire razionale rispetto al valore, ossia agire perché si crede nel valore dell’azione,
indipendentemente dalle conseguenze (pensiamo i primi obiettori di coscienza, quando
l’obiezione di coscienza era reato)
3. Agire tradizionale, ossia l’agire compiuto per abitudine
4. Agire a ettivo, ossia l’agire mosso da sentimenti non razionali.

In conclusione parliamo della connessione tra teoria e ricerca. Infatti, la sociologia del diritto, e
ovviamente la sociologia, è ricerca e teoria. Si parte da una teoria, che in qualche modo si
riconduce anche ad un paradigma ma che non è solo paradigma, che è lo schema logico
concettuale che consente di cogliere elementi e relazioni particolari e di sviluppare una
6
ff
fi
fi
ff
fi
fi
fl
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
interpretazione-spiegazione dei fenomeni concreti. La teoria orienta la ricerca, che è una ricerca
empirica che può svolgersi in modi diversi e che oggi de niamo sinteticamente come quell’attività
scienti ca di osservazione dei fenomeni sociali che permette di confermare o modi care la teoria
di cui ci si serve. Una teoria senza ricerca produrrebbe delle conoscenze astratte; una ricerca
senza una prospettiva teorica si tradurrebbe in un ammasso di dati di cilmente interpretabili.
Per la ricerca è dunque strettamente necessaria una teoria.

• paradigma positivista • paradigma interpretativista


Ricerca di spiegazioni, Le scienze della natura hanno per
oggetto una realtà consistente in
classificando i fenomeni sociali fenomeni osservabili ed esterni
in base alle leggi che li all’uomo e dunque cercano di dare una
governano, le azioni umane spiegazione di tali fenomeni. Le
sono governate da leggi scienze dello spirito hanno per oggetto
una realtà che l’uomo costruisce, vive
• paradigma neo-positivista con la propria esperienza diretta,
Si presume l’esistenza di una dunque è volta a non a spiegare ma a
realtà esterna all’uomo, ma essa comprendere.
è solo imperfettamente Il mondo conoscibile è quello del
significato attribuito dagli individui.
conoscibile, sia per l’inevitabile Non esiste una realtà unica, comune a
imprecisione di ogni conoscenza tutti gli individui ma ne esistono
umana, sia per la natura stessa molteplici, in quanto molteplici e
delle sue leggi che hanno diverse sono le prospettive con le quali
carattere probabilistico. gli uomini vedono e interpretano i fatti
sociali

7
fi
fi
ffi
fi
3. Teorie sociologiche sulla società: macro e micro sociologia

Una prima distinzione fondamentale che occorre fare è tra la macro e la micro sociologia. Queste
due correnti, queste visioni della società, si di erenziano.
La macrosociologia guarda la società dall’alto, nel suo complesso, i macroelementi che
compongono la società. Si caratterizza per una visione della società nel suo complesso come
sistema di relazioni: per esempio lo studio del rapporto tra mutamento sociale e giuridico; lo
studio del rapporto tra sistema economico e sistema politico. Questa prospettiva si muove nel
senso di teorizzare, osservare e interpretare i macrofenomeni sociali e ci interessa perché
nell’ambito di questa prospettiva sono stati elaborati alcuni concetti fondamentali, come il
concetto di sistema, di struttura, di istituzione, di funzione.
La microsociologia guarda la società dal basso, è un po’ quella visione che abbiamo accennato
parlando di Weber con le nozioni di azione sociale, di relazione sociale. È la visione della società
che si concentra in particolare sulla comunicazione, sulla relazione, è lo studio della società come
processo, come costruzione continua di un processo che, in qualche modo, deriva dal rapporto
tra i gruppi sociali. Ecco allora che qui i concetti fondamentali elaborati sono quelli di azione,
signi cato, comunicazione e linguaggio.

Macrosociologia
Nell’ambito della macro sociologia dobbiamo distinguere due modi di vedere il funzionamento
della società, che si ri ettono sul modo di concepire il diritto e la sua relazione con gli altri
elementi della società.
Distinguiamo dunque due approcci: un approccio funzionalistico, che riunisce le cd. teorie
funzionalistiche o dell’integrazione, e l’approccio con ittualistico, che riunisce le teorie che
guardano alla società a partire dal con itto che le caratterizza.
Nell’ambito delle teorie funzionalistiche troviamo alcuni assunti evidentemente condivisi. Infatti
integrazione vuol dire equilibrio, risultato di una serie di azioni svolte da elementi che
compongono il sistema. La società è dunque un sistema in equilibrio, si basa sull’equilibrio, e la
teoria funzionalistica richiama anche in parte quel paradigma positivista che accomuna lo studio
della società a quello dei fenomeni naturali. I primi funzionalisti concepiscono la società come
fosse un organismo vivente e, quindi, la società viene vista come sistema in equilibrio e viene
spiegata sulla base delle funzioni che i singoli elementi del sistema svolgono per il mantenimento
di questo equilibrio.
Nelle teorie funzionalistiche fondamentali, in cui troviamo Emile Durkheim e Talcott Parsons, la
funzione dell’elemento che fa parte di un sistema è intesa come l’apporto oggettivamente fornito
dall’elemento per garantire la stabilità e l’equilibrio del sistema. Quindi il diritto sarà quel sistema
che svolge la funzione di risolvere i con itti che eventualmente si manifestano nella società, il
sistema economico svolge funzione di mantenimento, il sistema politico svolge funzione di
organizzazione istituzionale della vita sociale.
Diversamente dall’approccio funzionalistico, quello con ittualistico ritiene invece che la società si
fondi sul con itto. La società non è un insieme di elementi che interagiscono in maniera armonica
al ne di garantire l’equilibrio, ma piuttosto è un insieme di ruoli che sono tra loro in tensione
manifesta, e quindi in con itto aperto, o latente, posti in posizione asimmetrica nella scala della
strati cazione sociale. I due esponenti principali di questa teoria sono Karl Marx e Weber, che
ritroviamo come esponente principale di questa teoria ma non solo.

Teorie funzionaliste
Dobbiamo capire alcuni concetti fondamentali sviluppati nell’ambito di questa teoria.
La struttura rappresenta l’insieme degli elementi che sono essenziali per la vita del sistema.
La funzione è l’apporto oggettivamente fornito dagli elementi alla stabilità e al benessere.

8
fi
fi
fi
fl
fl
fl
fl
fl
ff
fl
fl
Le istituzioni sono gli elementi che compongono il sistema. Evidentemente questi sono dei
concetti fondamentali ridotti all’essenza nell’approccio funzionalista, che vengono poi sviluppati
diversamente dai singoli autori di questa corrente.
È importante ricordare l’apporto di un sociologo funzionalista: Robert Merton. Il suo approccio è
importante poiché, per primo, mette in dubbio il concetto di funzione così come era stato
elaborato dal funzionalismo: la funzione è l’apporto positivo (eu-funzione) che l’elemento fornisce
al sistema per il mantenimento del suo equilibrio. Quindi, intrinseco al concetto di funzione dato
dal funzionalismo c’è l’idea che la funzione non possa che portare un contributo positivo.
Ecco che Merton, sociologo empirico e teorico, si allontana da questo concetto di funzione inteso
come eu-funzione e comincia ad aggiungere al concetto di funzione quello di dis-funzione, di
funzione manifesta e di funzione latente e fa alcuni esempi.
L’esempio più puntuale è questo: la religione non sempre svolge (solo) una funzione di
integrazione (creazione di una comunità di persone unite dallo stesso credo), ma può avere anche
altri e etti come diventare causa di tensione e con itti tra gruppi. Bisogna dunque mettere in luce
anche le dis-funzioni che produce.
Per il concetto di funzione manifesta (attribuita razionalmente) e di funzione latente (non
razionalmente voluta, né immediatamente riconosciuta dai soggetti che vi partecipano), Merton fa
un esempio calzante: le cerimonie rituali. Queste ultime sono quelle cerimonie classiche di popoli
primitivi che venivano fatte per ottenere la pioggia: non sempre si otteneva la pioggia ma questi
svolgono una funzione di consolidamento dell’identità e di coesione del gruppo.
Questo nuovo modo di intendere la funzione diventerà fondamentale nell’ambito dell’intera
sociologia.

Teorie del con itto


Possiamo distinguere due correnti fondamentali:
• le cd. teorie dicotomiche, rappresentate dal pensiero e dalla teoria di Marx. Dicotomiche
signi ca che il con itto, che sta alla base della società, la divide in due macro gruppi.
Paradossalmente Marx ritiene che, attraverso una serie di processi che porteranno alla
rivoluzione comunista, il con itto potrà essere superato.
• le cd. teorie pluralistiche, di cui Weber è il massimo esponente. Queste teorie ritengono che la
società sia divisa in una molteplicità di gruppi diversi tra loro in con itto e che, quindi, il con itto
sia la tensione, manifesta e/o latente, fra una pluralità di gruppi diversi corrispondenti ad una
molteplicità di ruoli. Il con itto è peraltro ineliminabile, benché possa essere regolamentato.
Questa visione è rispondente ad una fotogra a delle nostre società attuali: pensiamo ai con itti
tra gruppi politici, ai con itti tra gruppi economici, religiosi etc…

Come viene visto il diritto nell’ambito di queste teorie?


Nelle teorie funzionalistiche tende ad essere considerato come uno strumento diretto a svolgere
una funzione di risoluzione dei con itti, di mantenimento dell’ordine sociale, di riduzione della
complessità secondo Luhmann, nella misura in cui, attraverso il diritto, si stabilisce tra la
moltitudine in nita di comportamenti possibili quali considerare ammessi e quali considerare
vietati.
Nelle teorie del con itto, invece, il diritto tende ad essere concepito come uno strumento di potere
attraverso il quale ottenere obbedienza e svolgere le proprie azioni in vista di un potere.

Microsociologia
Interazionismo
La micro sociologia invece è quella visione che guarda la società dal basso. Le teorie dell’azione
sociale - interazionismo - sono quelle che analizzano, descrivono, interpretano la società dal
basso, concentrando l’attenzione su individui, azioni, relazioni, produzione di signi cati.
Abbiamo molti sociologi che svilupparono questo tipo di prospettiva, soprattutto quelli della
scuola di Chicago, che fu particolarmente fertile per le ri essioni sul tema della città, della
9
fi
ff
fi
fl
fl
fl
fl
fl
fl
fl
fi
fl
fl
fl
fi
fl
fl
devianza etc… Max Weber, appartenente a questa scuola, è uno degli esponenti principali della
teorizzazione microsociologica della società.
La società è dunque intesa come campo di interazione tra attori sociali, interazione come
comunicazione, che può essere sica o virtuale. Dunque, la microsociologia pone l’attenzione
necessariamente sul principale strumento interattivo delle relazioni sociali: vale a dire la
comunicazione e, di conseguenza, lo strumento che la rende possibile cioè il linguaggio.
Concetti fondamentali sono l’azione, la relazione sociale e la comunicazione.
Per Weber la sociologia deve comprendere il senso delle azioni che gli individui pongono in
essere. Fondamentale in questa prospettiva è il senso attribuito dall’attore sociale ad una
determinata azione: questo può essere condiviso da altri oppure no.
Per formulare leggi generali probabili, e non certe ed assolute, Weber utilizza uno schema logico-
concettuale che è quello dei tipi ideali. Questi ultimi sono modelli ottenuti astraendo dai fenomeni
reali i loro caratteri distintivi: si tratta di modelli astratti di azione, di relazione che ci permettono di
interpretare ciò che osserviamo in concreto.

I concetti che abbiamo analizzato, da un punto di vista storico richiamano alcune correnti e
prospettive diverse che nascono e si a ermano, in una certa misura, in opposizione una all’altra.
In realtà oggi, la sociologia e la sociologia del diritto fanno interagire la prospettiva macro con la
micro, concetti elaborati nelle teorie funzionalistiche e concetti elaborati in quelle con ittualistiche.
Ogni prospettiva ha costruito nella storia un tassello della sociologia e della sociologia del diritto
e, molto spesso, la teoria e il ricorso a determinati concetti dipenderà non soltanto dal nostro
modo di concepire la società, ma dallo studio che vogliamo condurre.
E infatti, integrazione e con itto, che abbiamo descritto come due prospettive opposte tra loro, si
intersecano perfettamente nelle relazioni umane. Ci sono relazioni di tipo cooperativo che
sviluppano spesso meccanismo con ittuali: pensiamo ad esempio alla relazione di coppia, di tipo
a ettivo, al matrimonio. Sarebbe super ciale descrivere queste relazioni esclusivamente
attraverso una visione integrazionista, senza mostrare il con itto che le caratterizza.
Allo stesso modo, spesso, relazioni di tipo con ittuale sviluppano meccanismi cooperativi:
pensiamo alla lite giudiziaria, che è una relazione di tipo con ittuale che spesso al suo interno
produce meccanismi cooperativi in vista di un risultato migliore per le parti coinvolte nel con itto,
alla lotta politica, e persino la guerra.
Ancora, in merito alla integrazione tra prospettive macro e micro, pensiamo alla rilevanza
dell’attore sociale, delle sue scelte e delle sue azioni (micro); i concetti di status e ruoli; la
rilevanza della prospettiva più ampia, come quella di sistema all’interno della quale inserire studi
ed osservazioni tipici di una prospettiva microsociologica.
Weber dunque rappresenta la connessione necessaria tra visione micro e macro sociologica (di
tipo con ittualista pluralistica) come modi di guardare la società.

Status e ruolo
Dall’analisi delle teorie sono emersi alcuni concetti che si rilevano fondamentali per la sociologia
del diritto e sono fondamentali: il concetto di azione sociale, di ruolo e di status, di strati cazione
sociale, comunicazione, norme, potere, istituzione e cultura.
I concetti di status e di ruolo sono molto importanti perché richiamano quelle che sono norme
elaborate anche dal diritto.
Lo status indica una posizione sociale che può essere ascritta (età, sesso) o acquisita (ottenuta
attraverso una prestazione, come l’essere laureata, l’essere moglie).
Il ruolo rappresenta quel complesso di aspettative normative che dalla società, in senso generale,
convergono su un soggetto in relazione al suo status. Se per esempio mi trovo di fronte ad un
medico, il suo ruolo è legato all’aspettativa che la società fa convergere su di lui in quanto
medico.
Status e ruolo contribuiscono a de nire le nostre identità sociali, il fatto che noi siamo studenti da
un lato è uno status, dall’altro è connesso allo status di studente un ruolo: ci si aspetta che noi
10
ff
fl
fl
fi
fi
fl
ff
fi
fl
fl
fl
fl
fi
fl
seguiamo delle lezioni, che sosteniamo esami e così via. Quelli che a noi sembrano due concetti
molto semplici da de nire, diventano complessi in quanto descrivono situazioni che possono
essere molto complesse.
Pensiamo per esempio alle società che vincolano la persona in ruoli che non sono facilmente
modi cabili: un tempo la società era divisa in liberi e schiavi; oggi si può far parte di una casta
come accade in India. Vi sono poi società che riconoscono maggiore libertà e che attribuiscono
una molteplicità di ruoli, che possono anche essere in con itto tra loro, in seno ad una stessa
persona: pensiamo a coniuge/genitore, lavoratore/cittadino. Lo studio dello status quindi è
importante e questi concetti hanno una relazione importante con il mondo del diritto.
È chiaro che, più sono numerosi e di erenziati gli status e i ruoli, più sarà complessa la società:
questo perché le aspettative che si creano in seno alle persone che rappresentano e hanno più
ruoli, determinano una complessità certamente superiore rispetto a quelle società in cui i ruoli e
gli status sono molto più semplici.
Poi, più ampie sono le di erenze e le molteplicità di status e ruolo, più la società sarà strati cata.
La strati cazione sociale è quel concetto che indica la molteplicità e la diversità di posizioni
sociali, di accesso ai beni, di ruoli e di status che caratterizzano una determinata società.
Emile Durkheim compie uno studio di grande importanza su questi temi nella sua opera “De la
division du travail social” del 1893, in cui già metteva in relazione la divisione del lavoro con la
strati cazione sociale: più vi è di erenziazione del lavoro e delle attività in una società, più la
società diventa strati cata, cambiano i rapporti sociali, viene elaborato un diritto diverso nelle
società più semplici, con minore diversità di ruoli e minore complessità: un diritto volto a risolvere
eventuali con itti su valori fondamentali e condivisi, un diritto costituito soprattutto da norme di
tipo repressivo.
Diversamente, in una società strati cata acquista maggiore rilevanza quel complesso di norme
che tende a regolare i rapporti non solo tra persone, ma anche tra persone e cose e le norme
saranno di tipo restitutivo.
Questo diritto è espressione, sia nelle società più semplici sia in quelle più complesse, dei tipi di
solidarietà sociale che si manifestano e identi cano i diversi tipi di società.

Comunicazione e linguaggio
Il linguaggio è un insieme di segni e il signi cato dei segni dipende dal codice di riferimento.
Facciamo un esempio: cosa intendiamo con la parola viola? La viola può essere un ore, uno
strumento musicale, un colore e sicuramente, vista la molteplicità di signi cati, noi non daremmo
tutti la stessa de nizione di viola, perché non sappiamo a quale codice comunicativo si sta
facendo riferimento.
Così come il segno P avrà un signi cato diverso a seconda che il codice di riferimento sia
l’alfabeto latino (p) o quello greco (erre).
Apparentemente questi esempi non c’entrano nulla col diritto, ma in realtà nell’interazione sociale
riuscire a capire i segni, e dunque riuscirsi a intendere tra attori sociali, dipende dal fatto che gli
attori sociale che interagiscono tra loro si riferiscono agli stessi codici e quindi alle medesime
realtà pensate: questo può accadere solo se le persone che interagiscono lo fanno basandosi su
un codice comunicativo comune.
Pensiamo ancora al semaforo: è un oggetto che non soltanto si riferisce a un codice di riferimento
(codice della strada) ma che attraverso un colore, e quindi un linguaggio visivo, ci indica una
norma.
Nel caso delle norme giuridiche il livello di complessità dei segni è estremamente elevato perché,
il più delle volte, le norme rimandano, nel contenuto, ad una molteplicità di codici diversi.
Per esempio prendiamo l’art. 1 della legge 40/2004 che cita “Al ne di favorire la soluzione dei
problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla
procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente
legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Noi non
riusciremmo ad interpretare correttamente questa norma senza fare riferimento ai signi cati
11
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
ff
ff
fi
ff
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
attribuiti a dei concetti da altri codici, ulteriori rispetto al codice giuridico-normativo in senso
stretto. Ecco che la grande complessità della comunicazione della norma sta proprio nella
conoscenza e molteplicità dei codici a cui la norma fa riferimento.

Potere
Adottiamo il concetto di potere elaborato da Max Weber che, anche di questo concetto, propone
una tipologia attraverso i modelli di tipi ideali. De nisce il potere come “capacità dei soggetti –
singoli o collettivi – di fare seguire alle proprie intenzioni le azioni e i risultati, ottenendo
obbedienza da parte di altri soggetti”. Ecco che allora il potere in questo senso è molto diverso
dalla potenza sica, cioè l’imposizione coercitiva con la forza della propria volontà.
Il potere è quella forza dei soggetti di ottenere obbedienza e, sulla base di ciò, Weber ipotizza tre
tipi ideali di potere:
• legale: basato su presupposti razionali e ancorato a regole impersonali legalmente statuite o
contrattualmente stabilite. Questo tipo di potere caratterizza sempre di più le relazioni
gerarchiche delle società moderne.
• tradizionale: poggia sulla credenza quotidiana, nel carattere sacro delle tradizioni valide da
sempre. Non è codi cato in regole impersonali, ma è proprio di persone particolari che possono
ereditarlo, esserne investite da un potere superiore.
• carismatico: poggia sulla capacità di coloro che pretendono obbedienza in base al proprio
straordinario valore, di ordine morale, religioso o eroico

La ricerca empirica
La ricerca empirica nelle scienze sociali si sviluppa innanzitutto in America, tra le due guerre,
mentre in Europa si sviluppano maggiormente le teorie sociologiche. In particolare, la sociologia
del diritto empirica si a erma negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra e si sviluppa intorno agli
anni ’50 anche in Europa, nei paesi scandinavi, in Francia e in Germani (e successivamente in
diversi altri paesi, tra cui l’Italia).
La teoria è quel campo della conoscenza che riguarda i modelli di analisi della società, ossia i
paradigmi cui si ispirano gli scienziati sociali, le interpretazioni dei processi socioculturali che
contraddistinguono il costituirsi e il mutare dei sistemi sociali dati
La ricerca è il processo di acquisizione, analisi e interpretazione di informazioni relative a
fenomeni sociali e culturali che intendiamo studiare.
Teoria e ricerca sono due momenti fondamentali ed interconnessi: la teoria necessita infatti di quel
patrimonio di conoscenze derivanti dall’attività di osservazione e che si traduce in acquisizioni
sistematiche di dati e di informazioni, così come la ricerca necessita della teoria, sia per orientare
l’osservazione (ovvero per stabilire quali siano le domande più signi cative con le quali interrogare
la realtà sociale), sia per interpretare i risultati dell’osservazione e per collocare questi ultimi
all’interno di processi più complessi.

Se andiamo a guardare quali sono gli ambiti più comuni della ricerca socio-giuridica possiamo
certamente trovare ricerche sulla produzione delle norme: perché una certa norma viene creata?
Perché una riforma va varata? Sono ricerche pre e post legislative.
Un altro ambito importante è quello sull’attuazione delle norme e dunque quegli studi sull’impatto
delle norme: quali e etti ha prodotto? Ma anche studi sulla non attuazione delle norme: perché
una norma non ha avuto il seguito sperato?
Molti studi sono stati fatti sulle professioni giuridiche e sulla giustizia e così pure sul controllo
sociale, sul pluralismo giuridico, sui diritti e sulle opinioni degli operatori del diritto ma anche
gente comune (queste ultime ricerche sono note come KOL-Knowledge and Opinion about Law-).
Insomma la sociologia del diritto, che come dice Bobbio è quella scienza sociale che segue il
diritto come fosse la sua ombra, può occuparsi anche empiricamente di tutto ciò che con il diritto
e con la normatività ha a che fare.

12
fi
fi
ff
ff

fi
.

fi
Fasi della ricerca empirica
Come si svolge una ricerca empirica? Quali sono le fasi?
Innanzitutto si de nisce l’oggetto di studio e si formula un’ipotesi che è una proposta di risposta
al problema che si intende studiare.
Poi si sceglie l’universo entro il quale svolgere l’indagine: per esempio se voglio studiare la
percezione della giustizia nei giovani italiani, dovrò scegliere all’interno di quale universo voglio
svolgere la mia ricerca e, siccome vorrei che la mia ricerca fosse rappresentativa dell’opinione dei
giovani italiani in materia di giustizia, la mia ricerca sarà e cace se costruirò un campione che
tiene conto del genere, del luogo in cui vivono i giovani e altro. Dunque si e ettua un
campionamento: individuo la popolazione che mi interessa, la seleziono, costruisco un
sottosistema di questa popolazione che però rappresenti adeguatamente la popolazione totale.
Solo se avrò costruito un campione attendibile potrò dire l’opinione che i giovani hanno sulla
giustizia.
La raccolta dei dati può avvenire utilizzando metodi e strumenti diversi.
Se la raccolta dati riguarda dei fatti, i metodi classici sono l’osservazione, il questionario,
l’intervista semi-strutturata, intervista non strutturata o le storie di vita.
Se la raccolta dei dati riguarda dati documentali, si procede con l’analisi dei testi che, nella ricerca
socio-giuridica, potranno essere tanto testi giuridici (sentenze, atti, legislazione) quanto testi non
giuridici ma ugualmente utili (giornali e media per esempio).
La ricerca si distingue anche per poter essere di tipo quantitativo o qualitativo.
Quella quantitativa si distingue perché raccoglie grandi quantità di dati per ricavare aspetti
frequenti e salienti del fenomeno che si sta studiando. Per questo tipo di ricerca si utilizzano
mezzi che riescono a raggiungere un ampio campione di popolazione come questionari,
statistiche e altri.
Quella qualitativa invece raccoglie un numero circoscritto di dati, ma ricava informazioni più
approfondite utilizzando mezzi come interviste, osservazioni, storie di vita o focus groups.
Potremmo unire a una ricerca quantitativa una qualitativa se volessimo fare un focus ad esempio
su una realtà particolare come potrebbe essere Lampedusa.
La terza fase è quella dell’elaborazione dei dati: dopo aver raccolto una massa di dati attraverso
osservazioni di fatti o analisi di documenti, noi dobbiamo leggere questi dati attraverso strumenti
e metodologie della ricerca sociale.
Quarta fase sarà la relazione conclusiva, cioè l’elaborazione di ciò che è stato osservato,
descritto, la sua interpretazione e, in seguito, la confutazione delle ipotesi iniziali.

13
fi
ffi
ff
4. Parliamo di diritto
In base alle nostre risposte in merito a cosa rappresenta per noi il diritto, è emerso che moltissime
nostre de nizioni ricalchino medesimi aspetti comuni.
• La maggioranza ha de nito il diritto come “insieme/sistema di regole/norme
• È de nito “collante della società”, come modo per tenere insieme, per garantire la paci ca
convivenza come ritenevano i funzionalisti. Ma la convivenza potrebbe, ovviamente, anche non
essere paci ca: il diritto potrebbe anche portare dissenso nella società.
• Altro aspetto è il diritto come strumento di risoluzione dei con itti.
• È interessante anche vedere come è stato inserito l’aspetto dell’accettazione del diritto. Ma
quanto possiamo dire che il diritto è accettato dalla società? Che vuol dire accettare il diritto?
• Concetto di e cacia: è fondamentale per la sociologia. L’e cacia di una norma, per il diritto,
deriva dal fatto che una norma, a seguito di tutto l’iter, viene pubblicata nella GU ed entra in
vigore. Per la sociologia invece, è la corrispondenza tra gli e etti che una norma produce sulla
società, e le intenzioni di chi ha posto in essere tale norma.
• Tema della giustizia: fondamentale anch’essa. È interessante, dal punto di vista sociologico, se
messa in relazione con altri concetti: per esempio il rapporto tra giustizia e legalità, si possono
sovrapporre al 100% o possiamo dare de nizioni di erenziate?
• “Tutto ciò che è vita è regolamentato dal diritto in tutti i suoi aspetti”: potremmo dire che il diritto
copre potenzialmente tutti gli aspetti della nostra vita.
• Il diritto de nito, dal punto di vista soggettivo, come potere.
• È interessante anche la connessione tra il concetto di certezza ed il fatto che il diritto ci
permetta di vivere liberamente.
[Concetti: potere-ordine-risoluzione dei con itti-equilibrio-sanzione-norme-law and rights]
Percezione del diritto tra gli studenti: prima cosa da fare in questo progetto è scegliere il
fenomeno da studiare e, in questo caso, la proposta è la percezione del diritto tra gli studenti.
Seconda cosa da fare è de nire l’ipotesi che è un’a ermazione, formulata dal ricercatore, che
deve essere veri cata attraverso la ricerca.
Terzo step è la formulazione del disegno di ricerca, dove il ricercatore stabilisce l’ampiezza del
campione (tutti noi che risponderemo), e sceglie il metodo adeguato per raggiungere gli scopi
della ricerca stessa. Il metodo che utilizzeremo è l’analisi dei documenti (risposte).
Le caratteristiche del campione sono importanti e per questo dobbiamo dire di più.
Normalmente, quando si costruisce un campione, quest’ultimo deve avere determinate
caratteristiche: in primis la rappresentatività, cioè deve essere rappresentativo dell’universo che
rappresenta la nostra ricerca (il nostro campione è “alcuni studenti del secondo anno di
Giurisprudenza”). La rappresentatività ci permette di estendere la nostra ricerca dal solo
campione alla totalità degli studenti del secondo anno di Giurisprudenza.
Caratteristiche del campione: chi siete? Come le vostre caratteristiche possono in uire sulle
risposte che date? Non siamo studenti alla prima sessione del primo anno, dunque le nostre
risposte sono già tendenzialmente mediate dalle conoscenze che abbiamo appreso in un anno e
mezzo di studi di Giurisprudenza. Questo è un dato che ci accomuna, indipendentemente dalla
“qualità” del nostro libretto universitario. Possiamo così a ermare che, quel poco di conoscenza
che abbiamo del e sul diritto, ci rende competenti a rispondere; questo è un dato signi cativo.
Altra caratteristica nota è il nostro genere. Non siamo a conoscenza di altre caratteristiche che
magari potrebbero in uire: la nostra istruzione, il nostro posizionamento politico o religioso etc.
Quali argomenti per le domande della nostra ricerca?
Secondo me sarebbe interessante, per esempio partendo dal concetto di ordine, comprendere se
il diritto è visto come qualcosa di necessario o meno. Dunque comprendere se il concetto di
ordine è visto come qualcosa di imprescindibilmente legato al diritto come prodotto che ne
consegue, oppure è un qualcosa di raggiungibile anche senza di esso, solo grazie al buon senso
di ciascuno.

14
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
fl
fi
fi
fi
fl
ff
ff
ff
ffi
ff
fl
fi
fl
fi
5. Norme sociali e norme giuridiche
Il concetto di norma è fondamentale, senza di questo è impossibile de nire il campo di
normatività che chiamiamo diritto.
In e etti, anche a guardare alcune de nizioni date nel dibattito sociologico-giuridico, ma anche di
senso comune del diritto, troviamo sempre il riferimento alla normatività.
Per esempio L. Friedman, sociologo americano, parla di diritto inteso come sistema giuridico
(Legal System), composto dalla sostanza materiale, che è esattamente l’insieme di norme
dell’ordinamento, e dalla struttura, la conformazione più durevole, il corpo istituzionale che è
come l’intelaiatura.
William Evan parla di Legal System, anch’egli riempendo il sistema giuridico di valori, di norme,
ruoli e organizzazione.
In ultimo abbiamo Niklas Luhmann, uno dei sociologi più complessi, che parla di Recht come
insieme di norme e di Rechtssystem come insieme delle comunicazioni riferite al diritto. Questo
riferimento alla comunicazione, nell’ambito della sociologia del diritto, è fondamentale: la norma
non rimane dentro i codici e dentro la forma alla quale “appartiene”, la norma viene comunicata,
recepita, utilizzata o, al contrario, può non essere seguita per scelta degli autori sociali stessi.
Dal punto di vista sociologico, quello che ci interessa evidenziare è che la norma entra nella realtà
sociale e vi entra in molti modi (pensiamo ad un cartello stradale). Anche consultando vari
vocabolari ed enciclopedie è evidente il legame tra diritto e società, al di là di altre de nizioni di
norma. Nonostante ciò è chiaro che non c’è discorso sul diritto che non includa la norma.
L’origine etimologica della parola norma ci serve: norma viene dal lat. norma che indica la
squadra per misurare gli angoli retti ( gurato: regola). Dal concetto di norma deriviamo il
signi cato di norma come modello, regola, ordine e costume. Deriva anche l’aggettivo normale: la
norma è qualcosa che indica un modello di qualche tipo.
La norma (squadra in latino) è uno strumento di misura, che guida e misura un tratto gra co. La
misura in questo caso è quantitativa, traducibile in numeri.
La misura dell’azione si connette al suo modello. Per esempio, per il musicista il metronomo è sia
misura quantitativa che guida, o modello, del ritmo entro il quale il suono è prodotto.
Per le azioni umane la norma è uno strumento di guida e di misura. Ogni azione si può rapportare
ad un modello preesistente (la norma) che o re, come fanno la squadra ed il metronomo, una
guida e una misurazione.
Il saluto, la promessa, la minaccia sono tre modelli di azione che possono essere rapportati ad un
modello, che o re una guida, che mi permette di orientare ed interpretare l’azione che sto
compiendo.
Le norme possono essere pensate e non comunicate verbalmente. Infatti, molte azioni che
compiamo quotidianamente si ispirano a norme che non necessariamente comunichiamo ad altri
e talora neanche a noi stessi. Nel nostro discorso, le norme che ci interessano maggiormente
sono quelle che vengono comunicate, cioè quelle che partendo da una fonte si dirigono a
destinatari e perché ciò avvenga dobbiamo porre un’enfasi importante allo spazio discorsivo, alla
comunicazione (condivisione di codici). Ciò che interessa al sociologo è l’analisi del percorso che
la norma compie (chi interviene in questa analisi del percorso? Qual’è la rilevanza dei media, per
esempio, nella comunicazione delle norme sociali e giuridiche?).
Pensata come modello dell’azione, la norma non solo è una guida, un modello, ma anche uno
schema interpretativo dell’azione in base al quale l’azione diventa comprensibile e risulta de nibile
da chi agisce e da chi, eventualmente, vi partecipa o vi assiste. Noi comprendiamo un’azione
altrui se è comprensibile sulla base di uno schema interpretativo.
La norma dunque orienta l’azione o rendole un parametro di riferimento e, al tempo stesso,
conferisce un signi cato d’azione.
Possiamo dunque de nire in prima battuta la norma come un modello, cioè un’entità arti ciale
che media tra la mente umana e il mondo della realtà fenomenica, fornendo schemi interpretativi
della realtà (parliamo di attribuzione di signi cato) e guida per le azioni che operano in questa
15
ff
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
realtà (orientamento dell’azione). Questi modelli devono essere pensati non come il prodotto
unilaterale del soggetto che li genera, ma come la risultante di un processo di continua
interpretazione. Inoltre, tali modelli si traducono in atti di comunicazione, o messaggi, che
veicolano un determinato contenuto da un soggetto ad un altro.

Questa è la voce “norme e sanzioni sociale” contenuta nell’Enciclopedia Treccani delle scienze
sociali, a cura di V. Ferrari.
“Nel processo comunicativo le norme sociali compaiono in vario modo…Un atto di disobbedienza
civile è usualmente motivato dall'adesione a un modello normativo alternativo che può essere,
o non essere, esibito comunicativamente. La notizia fornita da un giornale, che una norma è stata
proposta o approvata da un organo dotato di poteri appositi, convoglia informazione e
conoscenza su quella norma. Un parlamento 'comunica' nel momento stesso in cui emana una
norma destinata a durare nel tempo; ma anche due alpinisti che si trovino a percorrere una stretta
cresta nevosa che non permette a entrambi di passare simultaneamente, non avendo un codice
normativo di riferimento e dovendo, al tempo stesso, minimizzare il pericolo, produrranno e si
comunicheranno una norma, contingente ed e mera, capace di regolare sul momento
l'imbarazzante situazione: uno potrà retrocedere no a un punto più largo, ovvero sporgersi fuori
dalla cresta, debitamente assicurato alla montagna”.
Ferrari qui fa l’esempio degli alpinisti: due estranei che si incrociano per strada si comunicano
più o meno silenziosamente una norma, cioè una guida, delle rispettive azioni: può avvenire tra
due passanti che vogliono evitare di scontrarsi, tra due alpinisti che si trovano nello stesso punto
pericoloso, ad esempio uno in salita e uno in discesa e che si accordano su come a rontare la
situazione pericolosa: il loro accordo avrà carattere normativo. Il modello normativo adottato
per regolare il passaggio può ispirarsi alla comune esperienze di scalate e con ciò ri ettere un
modello normativo già conosciuto da entrambi: ad esempio “a chi va in salita deve essere data la
precedenza”, ma può essere dettato anche da circostanze del momento: “passa uno dei due
perché è più stanco, perché è più anziano, perché è ferito”.
Abbiamo de nito così la norma come guida dell’azione ma dovremmo speci care meglio questo
aspetto: la norma infatti è il modello cui l’azione si uniforma di fatto, può uniformarsi e deve
uniformarsi. Ogni fatto, evento o azione può essere contemplato da una norma avente maggiore o
minore di usione, radicamento, stabilità, durevolezza nel tempo. Ecco allora che la nostra vita
sociale ci presenta una miriade di norme più o meno istituzionalizzate.
Le norme sociali possono essere di erenziate innanzitutto a seconda della loro maggiore o minore
istituzionalità.

Per istituzione (che va dall’istituzione della Chiesa sino all’istituzione del pranzo di Natale) noi
intendiamo un’organizzazione stabile di persone che perseguono uno scopo comune;
un’organizzazione di pubblici poteri; ogni pratica seguita ricorrentemente da un gruppo sociale
nell’organizzazione della propria vita e dei rapporti fra i suoi membri; complesso di norme che
struttura un campo sociale. Si tratta di diverse de nizioni ma con un elemento comune: il
riferimento esplicito o implicito ad una organizzazione stabile e socialmente riconosciuta. Ecco
che cosa ci indica l’istituzionalità e il fatto che una norma sia istituzionale o meno è un indice di
stabilità ed eventualmente di giuridicità.
L’istituzionalità per esempio fa in modo che un’insegnante adotti un modello che è quello
tipicamente istituzionale della scuola per cui, per rispondere, bisogna alzare la mano.
La norma orienta l’azione e le conferisce un signi cato, come nel caso di votazioni al Parlamento
europeo: per votare infatti si alza la mano. Il fatto che in aula alcuna persone alzino la mano ed
altre no (la norma orienta l’azione) acquista un signi cato in relazione alla norma sociale-giuridica
(parametro di riferimento) che stabilisce che attraverso quei gesti una legge è stata votata
(conferisce un signi cato ai gesti) in quell’assemblea a sua volta de nita Parlamento.

16
ff
fi
fi
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
ff
fl
L’appartenenza ad un sistema normativo è un indice quasi sicuro di istituzionalità e, in questo
senso, le norme genericamente de nite come giuridiche vanno ricercate nel campo
dell’istituzionalità. Però non è il carattere dell’istituzionalità a rendere giuridica una norma!
Le norme giuridiche sono un sottogruppo del complesso delle norme sociali.

Il saluto è un’azione che compiamo spessissimo e che assume delle connotazioni diverse a
seconda del contesto nel quale e ettuiamo questa azione. Per esempio, è connotato
dall’obbligatorietà o meno, può essere un atto consigliato o di educazione.
Sicuramente incrociando un conoscente per strada, ci troviamo in un contesto in cui possiamo
scegliere se salutare o meno: è un incontro casuale nel quale saremo totalmente liberi di salutare
o no la persona che conosciamo.

Questa fotogra a, tratta dal lm


“L’attimo fuggente”, ci permette di
ragionare sull’istituzionalità e sulla
norma come modello (nella prospettiva
fattuale). Qui noi abbiamo la situazione
in cui i componenti di una classe
decidono di salutare il proprio maestro,
che se ne sta andando, violando quello
che è il contenuto della norma che
prescrive una certa modalità di saluto
perché connaturata all’istituzione in cui
questo saluto si compie. Al tempo
stesso, però, questa azione collettiva è intrinseca di un signi cato duplice: c’è saluto degli
studenti al proprio insegnante e c’è un saluto fatto contravvenendo alla stessa norma che gli
studenti dovrebbero rispettare per salutare un proprio docente.
Anche il saluto tra i membri di due squadre di calcio rientra in quelle che sono le convenzioni
stabilite dal gioco del calcio prima di iniziare una partita.
Dunque un medesimo atto come il saluto può rapportarsi ad una norma più o meno istituzionale:
può essere un atto libero, un atto opportuno, una regola di educazione, una consuetudine o
un obbligo giuridico secondo modalità sse (es. saluto militare codi cato in un codice).

L’istituzionalità rappresenta un primo elemento mediante il quale è possibile distinguere la norma


giuridica nel complesso più ampio di norme sociali. Ma è anche vero che l’istituzionalità è un
carattere necessario, ma non su ciente, per distinguere la norma giuridica da quella non
giuridica. Possiamo quindi dire che la norma giuridica è sempre istituzionale, ma l’istituzionalità
non è su ciente per distinguere la norma giuridica da quella sociale. Le norme familiari per
esempio, sono giuridiche?

Il secondo elemento che ci aiuta a distinguere la norma giuridica rispetto a quella sociale è la
sanzione. Anche in questo caso però dovremo dire che la sanzione non è un elemento su ciente
per distinguerle. Possiamo fare moltissimi esempi di norme che se trasgredite porteranno la
persona che commette il fatto ad essere sanzionata, ma la sanzione può anche essere sociale
che si esprime per esempio: con biasimo nel caso in cui su un autobus non venga ceduto il posto
ad una persona anziana; la norma che prescrive di comportarsi educatamente in un circolo di
amici, se trasgredita, può indurre i frequentatori abituali ad escludere il trasgressore, anche
de nitivamente. La norma familiare per esempio contempla naturalmente delle sanzioni: le norme
di obbedienza, di rispetto e di educazione sono tendenzialmente punite dai genitori che spesso
preannunciano le stesse punizioni; oppure la norme penale delle lesioni (art. 582 c.p.) che se
infranta potrà portare alla reclusione da tre mesi a tre anni. Quest’ultimo esempio ci mette in luce

17
fi
ffi
fi
ffi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
ffi
da un lato la presenza obbligatoria di una sanzione, dall’altro ci avvicina alla norma vivente per cui
la reclusione non è a atto scontata.
Quindi, la norma giuridica prevede un obbligo o un dovere e a sostegno di ciò una sanzione. Lo
schema Kelseniano spiega che se X (condizione) allora Y (conseguenza) dove X può essere un
atto illecito (sanzione negativa) oppure lecito (sanzione positiva) dove Y rappresenta un vantaggio
che segue l’azione (premio) oppure precede l’azione (inventivo). Il concetto di sanzione positiva è
molto importante e possiamo fare esempi diversi come il soldato che compie un atto di eroismo:
non agisce per ottenere una medaglia al valore, però forse gli verrà data.
Le sanzioni possono essere distinte anche in maniera diversa. Ci sono sanzioni repressive (che
mirano a punire il trasgressore con un male proporzionale all’azione trasgredita) e restitutive
(mirano a riportare, a spese del trasgressore, la condizione a come era prima della trasgressione);
poi positive e negative; possiamo distinguere poi le sanzioni individuali da quelle collettive (nel
diritto internazionale per esempio, l’embargo, l’assedio e l’apartheid). Abbiamo poi sanzioni
includenti ed escludenti (per le includenti pensiamo alla sanzione sancita dall’art. 48 ord. pen.
che prevede la concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori
dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento
sociale).

Altro carattere fondamentale della norma giuridica è la sua eteronomia. Le norme possono
essere autonome (quella che il soggetto da a se stesso: norma morale, etica) o eteronome.
L’eteronomia della norma giuridica signi ca che essa è imposta da qualcuno di esterno che ha il
potere di farlo, indipendentemente dal fatto che la norma possa richiamare i nostri valori personali
o che ci conformiamo ad essa perché la riteniamo giusta.

Altro aspetto importante è la giustiziabilità: una norma è giuridica se, nel caso venga violata, vi è
qualcuno dotato dell’autorità di intervenire (dal punto di vista fattuale avere l’autorità non signi ca
certamente che interverrà per forza) sanzionando chi l’ha infranta. Max Weber ci ricorda che
abbiamo diritto quando la trasgressione della norma dà luogo ad una coercizione da parte di un
apparato di uomini espressamente disposto a tale scopo.

Ultimo carattere, che Ferrari considera come quello per distinguere l’universo delle norme
giuridiche nell’ambito delle norme sociali, è quello della pretesa di completezza. La norma
giuridica fa parte di un sistema di norme (ordinamento giuridico) che ha la pretesa di essere
completo, universale, onnicomprensivo. Certamente però, qualsiasi azione, pretesa, aspettativa
può essere riferita ad un parametro normativo.

È giuridica la norma ma osa?


È giuridica la norma di diritto canonico?
È giuridica la lex mercatoria?

18
ff
fi
fi
fi
6. Norme giuridiche, azioni, comunicazione, diritto

Speci chiamo ancora un po’ l’associazione tra norme e diritto: ci servirà a delineare meglio quella
che è la caratteristica della prospettiva sociologica dello studio del diritto.
Abbiamo associato il diritto alla norma, e lo abbiamo fatto adottando un signi cato generalmente
condiviso. Non a caso, come abbiamo visto nelle nostre risposte, la maggior parte di noi ha
utilizzato il concetto di norma per de nite il diritto.
Per questo motivo abbiamo approfondito questo concetto e abbiamo fatto riferimento al
complesso di norme che ci circonda, complesso che orienta la nostra vita, le nostre scelte, le
nostre azioni. Le orienta perché le scegliamo, perché siamo portati a seguire determinate norme,
che siano familiari o religiose, qualsiasi tipo.
Abbiamo de nito le norme, a partire dall’origine etimologica, come un modello che orienta le
azioni e attribuisce signi cato alle azioni stesse.
Abbiamo delineato, dentro questo complesso normativo, alcune caratteristiche mediante le quali
distinguere quel complesso normativo particolare che chiamiamo giuridico. Questo lo abbiamo
fatto vedendo alcune caratteristiche, come l’istituzionalità, che da sole non ci permettono di
circoscrivere questo campo giuridico ma abbiamo visto come certamente le norme che de niamo
giuridiche presentano una serie di caratteristiche.
A questo punto dobbiamo però articolare meglio questo rapporto tra norme e diritto perché diritto
è una parola, così come lo è norma. Il mondo del diritto non coincide con le norme giuridiche (non
può essere sovrapposto perfettamente al complesso di norme): questo è particolarmente
evidente adottando una prospettiva sociologica, che è una prospettiva critica, descrittiva e non
evidentemente prescrittiva. Non è neanche una prospettiva teorica, di teoria del diritto o di
loso a del diritto, per quanto vi siano comunque evidenti connessioni tra queste discipline e
queste prospettive.
Se da un lato abbiamo associato il diritto al concetto di norma, e non prescindiamo dal concetto
di norma per occuparci di diritto, dobbiamo però riempire il concetto di norma con le
caratteristiche di questa norma come elemento, aspetto che entra nel mondo sociale.
Il diritto non può essere compreso se non guardiamo ad alcuni aspetti fondamentali della norma
nella società: la norma è azione, è messaggio, e tutto ciò implica un lavoro complesso.
Pensiamo per esempio all’attività del giudice: quest’ultimo non può certamente essere
interpretato come un mero soggetto che si limita ad applicare una norma ad un caso concreto.
È paci co che la norma è parte fondamentale della sua attività, ma se proviamo a pensare a tutto
ciò che completa l’attività del giudice, come tutti gli aspetti di discrezionalità, di riferimento ad
elementi soggettivi, tutti questi aspetti esterni sono elementi che rientrano nel diritto e che
consideriamo proprio adottando una prospettiva critico descrittiva del diritto. È evidente che
l’attività discrezionale del giudice, in una prospettiva prescrittiva, è ricondotta ad una norma che
permette al giudice un margine di discrezionalità.
Il diritto, nella prospettiva sociologica, è visto come materiale sociale, come oggetto di
comunicazione tra attori sociali, come strumento di azione sociale. Vincenzo Ferrari de nisce la
sociologia come studio del diritto inteso come modalità di azione sociale. Nel delineare la norma
come modello abbiamo visto questo aspetto.
Il fatto che le norme siano messaggi implica moltissime cose. Pensiamo ad una moltitudine di
attori che comunicano, pensiamo agli attori che in questi giorni intervengono nella comunicazione
relativa ai provvedimenti per far fronte alla situazione in cui ci troviamo. Si tratta di una
comunicazione molto complessa che si sta creando, complessa perché sono molteplici le
persone che parlano e comunicano norme: il Capo del Governo, i Prefetti, i Sindaci e molti altri
ancora che sono legittimati a comunicare norme attraverso atti normativi, amministrativi etc.
Pensiamo proprio alla complessità della comunicazione normativa in questo periodo, complessità
che ha una serie di e etti: per esempio tutti noi no ad una settimana fa non eravamo sicuri di
cosa potessimo fare o meno (che signi ca uscire per necessità, che signi ca uscire mantenendo

19
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
la distanza etc). Tutti questi dati hanno reso e stanno rendendo la comunicazione molto
complessa.
Le norme come messaggio ci fanno pensare anche alla moltitudine di attori che orientano le
proprie azioni secondo modelli giuridici, ad esempio per raggiungere uno scopo. L’orientare le
proprie azioni secondo modelli giuridici signi ca anche che molto spesso le persone che
orientano le proprie azioni, e le orientano anche tramite delle relazioni sociali, cercano di
raggiungere uno scopo che spesso con gge con quello di altri. Pensiamo ad una lite giudiziaria, a
chi vi interviene, a chi comunica la norma e al signi cato che ad essa viene dato. In una lite
giudiziaria evidentemente le parti coinvolte agiscono orientando le proprie azioni secondo modelli
giuridici per cercare di avere ragione in una situazione con ittuale. D’altra parte, il con itto è
connaturato al diritto.
L’elemento del potere nella comunicazione e nell’uso del diritto come strumento di azione sociale
è assolutamente essenziale.

Processo prismatico
Questa immagine rappresenta un
prisma e va letto come un processo,
un qualcosa di dinamico dove c’è un
fascio di luce che entra nel prisma e
ne esce trasformato in un qualcosa di
completamente diverso.
Le azioni e le interazioni sociali
avvengono in quello che è uno spazio
comunicativo complesso, non in uno
spazio vuoto. Ecco che Ferrari indica
la comunicazione come un processo
prismatico perché, in questo spazio
che non è vuoto, c’è sempre “una moltitudine, più o meno individuata, di altri parlanti” che
intervengono nella comunicazione e, nel momento in cui intervengono nella comunicazione,
possono modi care il senso della norma.
Prendiamo per esempio il ruolo dei media nella trasformazione del signi cato di una norma:
nell’atto stesso del comunicare una norma molto spesso i media ne danno un’interpretazione in
questo senso. La loro interpretazione non necessariamente è la stessa dell’emittente che ha
prodotto e comunicato la norma.
In questo spazio si inseriscono le norme giuridiche, che orientano il nostro o il comportamento di
altri, che sono messaggi che da un emittente giungono al ricevente.
Questo emittente può essere il legislatore come il datore di lavoro o la persona che interviene in
una lite giudiziaria: l’emittente può essere un soggetto X.
Il percorso dall’emittente al ricevente non è diretto; le norme subiscono molte in uenze che
incidono in maniera signi cativa dai media: mass media, operatori del diritto e altri soggetti.
Proviamo a pensare quanto detto immaginandolo come un processo prismatico: immaginiamo le
norme che da un emittente arrivano ad un ricevente, passando per un processo comunicativo
complesso che investe una moltitudine di persone proprio perché entra nello spazio sociale della
comunicazione.

20
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fl
fl
7. L’azione giuridica

Riprendiamo la de nizione di azione sociale come intesa da Weber: “l’azione sociale è un’azione
dotata di senso che produce e etti al di fuori della sfera individuale dell’attore sociale”. L’azione è
dotata di senso e quindi di signi cato che evidentemente l’attore sociale da e che può essere
compreso o meno dal suo interlocutore.
Le azioni sociali sono poi atti di comunicazione: abbiamo nell’azione sociale un passaggio di
informazioni da un soggetto (emittente) ad un altro (ricevente). Questi atti di comunicazione
possono riferirsi a modelli ed indicare delle azioni come, per esempio, il “prima studi poi esci”
oppure “la mia casa è in vendita”.
Le azioni sociali danno dunque luogo ad interazioni sociali (azioni orientare all’azione altrui) e gli
attori sociali orientano la propria azione o quella di altri secondo modelli normativi di natura
diversa (familiari, morali, religiosi, giuridici). L’azione sociale produce inoltre una molteplicità di
e etti che, tra le tante cose, possono essere conformi o di ormi rispetto alla volontà di chi agisce.

Agire socialmente signi ca compiere azioni che producono e etti oltre la sfera personale di chi
agisce.
Agire normativamente signi ca orientare la propria azione o l’azione altrui secondo modelli
normativi di qualunque natura (familiare, morale, religiosa, giuridica)
Agire giuridicamente signi ca orientare la propria azione o l’azione altrui secondo modelli
normativi di natura giuridica, quindi agire attraverso il diritto.
È su questo ultimo modo di agire che so ermeremo la nostra attenzione tenendo presenti due
aspetti fondamentali: in primis il fatto che il diritto è un potente fattore di orientamento sociale (in
una prospettiva descrittiva non signi ca che le persone debbano orientare il loro comportamento
o che certamente lo facciano); poi il fatto che le norme legittimano un’azione.
Posso orientare la mia azione secondo il modello normativo di tipo giuridico per raggiungere uno
scopo: se intendo acquistare una casa seguo una determinata norma.
Poi posso orientare l’azione altrui secondo un modello normativo di tipo giuridico: il Parlamento
emana una legge che regolamenta un determinato fenomeno, per raggiungere certi e etti.
Ecco qui due tipi di azione sociale: io che agisco secondo modelli normativi per raggiungere un
risultato, io che oriento l’azione altrui secondo un modello normativo di tipo giuridico per
raggiungere certi e etti.
Gli attori sociali agiscono giuridicamente, cioè agiscono riferendosi a norme giuridiche in vario
modo: dall’alto verso il basso, cioè emanando leggi, sentenza, decreti, atti amministrativi (un
attore legittimato a fare ciò utilizza il diritto per emanare leggi etc); dal basso verso l’alto mediante
le elezioni, i ricorsi, le petizioni (signi ca che abbiamo la capacità di agire, riferendoci a norme
giuridiche, per fare arrivare verso l’alto quella che è la nostra opinione rispetto al diritto, quella che
è la nostra esigenza rispetto ad un mutamento di regolamentazione sociale di un determinato
fenomeno); in ultimo orizzontalmente quando, mediante per esempio la stipula di un contratto, di
un testamento, le persone agiscono per raggiungere un risultato in una situazione, almeno
teoricamente, posta sullo stesso livello. Questa proposta di azione giuridica orizzontale deve
tenere ben presente questa posizione paritetica è in realtà una posizione in cui il maggiore o
minore potere delle parti è sempre presente.

L’azione giuridica, come ogni altra azione sociale, non è un processo chiuso, ma aperto. Nasce da
qualcosa che esiste, si sviluppa e dispiega i suoi e etti potenzialmente illimitati e ad ampio raggio.
Non possiamo, da un punto di vista sociologico, guardare all’azione giuridica come un qualcosa
che si conclude nell’atto che si pone in essere.
Questo va tenuto in considerazione in particolare soprattutto quando al quadro si aggiungono altri
soggetti in posizione di intermediari. Tutte le azioni sociali giuridiche sono complesse e vanno per
forza inserite in un contesto sociale, vanno analizzati i soggetti che intervengono e vanno posti

21
ff
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
ff
ff
ff
ff
ff
nell’ambito più ampio di un sistema sociale che a sua volta condiziona l’andamento di questa
azione. Questi
schemi ci
permettono di
visualizzare come
operano le azioni
sociali.

L’azione giuridica può essere distinta in generica, quando le norme alle quali si ricorre per agire si
indirizzano ad un pubblico indi erenziato di soggetti (in lessico giuridico parliamo di norme
generali e astratte) e speci ca, quando le norme si indirizzano a speci ci soggetti (siamo nel
campo della normazione individuale, dell’interazione giuridica tra soggetti che si riferiscono a
modelli normativi di tipo giuridico per estendere la propria sfera di autonomia e decisione: è il
caso del contratto, del testamento, dell’azione giurisdizionale o amministrativa).
Questi due tipi di azioni li possiamo leggere attraverso gli schemi posti in precedenza.

L’azione giuridica generica è un tipo di azione sulla quale la sociologia del diritto si so erma
moltissimo. La sociologia ne indaga la nascita, l’in uenza sulle scelte e sulle azioni delle persone,
sull’applicazione e la non applicazione delle norme generali e astratte. La sociologia cerca di
rispondere ad una serie di domande come per esempio: quali sono gli attori sociali che
intervengono nel processo legislativo? come si di ondono le norme nella società? quali e etti
producono? E ancora che cosa fa sì che una questione risulti meritevole di regolazione
normativa? E chi avanza al sistema politico la domanda? Gli attori possono essere molto diversi:
possono essere gruppi di interesse per esempio economico, possono essere le lobbies, i
movimenti politici e molti altri.

Creazione della norma


Veniamo alla creazione della norma e la leggiamo secondo la prospettiva di una molteplicità di
attori sociali. Da quello che abbiamo detto no ad ora, possiamo dire che prima che abbia inizio
il processo legislativo intervengono alcuni fondamentali attori: le lobbies, che intervengono
facendo pressione a nché una norma venga (o non venga) emanata; gruppi di interesse; soggetti
politici (ad esempio in campagna elettorale) e mass media.

Lobby: si tratta di un gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno la
capacità di in uenzarne le scelte, soprattutto in materia economica e nanziaria. Il verbo lobbying
indica proprio il ‘fare pressione, in uenzare’, un’attività dunque diretta a tutelare gli interessi di
un’azienda o di una categoria economica.
De nizione enciclopedica di treccani.it è “gruppo di interesse che opera prevalentemente nelle
sedi istituzionali di decisione politica attraverso propri incaricati d’a ari o apposite agenzie allo
scopo di in uenzare e persuadere il personale politico a tenere conto degli interessi dei propri
clienti nell’emanazione di provvedimenti normativi. Tali attività possono essere più o meno
istituzionalizzate e più o meno lecite, a seconda che vengano regolamentate (come negli USA,
dove vige l’obbligo di iscrizione dei lobbisti in un apposito albo professionale), o si svolgano
senza controlli normativi”.

22
fi
fl
fl
ffi
fi
ff
fl
fi
fl
ff
ff
fi
fi
ff
ff
Avviato il processo legislativo, intervengono ancora una volta una molteplicità di attori. Questa
prospettiva si stacca e rende più complesso un iter legislativo secondo le norme che un sistema
giuridico-politico si dà per la creazione delle norme stesse. Quello che ci interessa mettere in
evidenza è la complessità di questo processo di comunicazione nel quale intervengono una
molteplicità di soggetti in maniera diversa.
Gli attori politici intervengono nella creazione di una norma come maggioranza e minoranza, ma
anche come schieramenti trasversali a maggioranze e minoranze parlamentari.
Altri soggetti sono le lobbies che intervengono ed hanno un’in uenza particolare sulla creazione
delle norme e fanno sì che il progetto originario della norma subisca necessariamente delle
modi che e dei cambiamenti.
Attraverso il processo legislativo si produrrà una norma che potrà essere più o meno chiara, più o
meno precisa, più o meno soggetta a necessarie interpretazione per la sua applicazione, più o
meno e cace. Questo dipenderà da una molteplicità di cause che ritroviamo in questa
comunicazione, in questo processo di creazione delle norme. Per esempio se non si troverà
accordo per norme particolarmente complesse, le maggioranze, minoranze o gli schieramenti
trasversali potranno decidere di mantenere un livello di vaghezza di una parte della norma
delegando poi, al momento dell’applicazione, ad altri soggetti l’interpretazione della norma
stessa. Dunque la legge (volutamente o meno) vaga potrà comportare che il potere esecutivo ne
precisi i contenuti, che i giudici ne diano interpretazioni di erenti.
Il fatto che una norma sia vaga ci fa capire quanto l’azione giuridica non si concluda con l’azione
stessa, quanto l’azione giuridica sia un atto che produce e etti illimitati che non possono essere
chiusi nell’azione a sé stante.
La formulazione vaga di una norma potrà portare ad una nuova norma che renda più chiara la
precedente.
Prendiamo per esempio la legge 31 dicembre 2012, n. 247 e riguarda la “Nuova disciplina
dell’Ordinamento della professione forense”. L’art. 21 di tale legge cita “Esercizio professionale
e ettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli albi, degli elenchi e dei registri;
obbligo di iscrizione alla previdenza forense 1. La permanenza dell’iscrizione all’albo è
subordinata all’esercizio della professione in modo e ettivo, continuativo, abituale e prevalente,
salve le eccezioni previste anche in riferimento ai primi anni di esercizio professionale. Le modalità
di accertamento dell’esercizio e ettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le
eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione sono disciplinate con regolamento adottato
ai sensi dell’articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite, con esclusione di ogni riferimento al
reddito professionale”.
Ma cosa vuol dire “Esercizio professionale e ettivo, continuativo, abituale e prevalente”? Infatti,
questi termini potrebbero essere scelti appositamente in modo da non delineare una linea cosi
univoca e precisa, lasciando così in un secondo momento l’esplicazione di questi concetti.
In e etti la vaghezza della norma ha portato all’emanazione di un decreto ad hoc che prevede sei
condizioni: la trattazione di 5 a ari (ovvero incarichi giudiziali e stragiudiziali, come consulenze e
pareri. Essi possono essere assegnati anche da un altro avvocato); possedere una partita Iva;
possedere uno studio e un’utenza telefonica; avere un indirizzo Pec; di rispettare l’obbligo di
aggiornamento professionale e di aver stipulato una polizza assicurativa.
I termini sottolineati di per sé non rendono maggiormente chiaro quello che la norma contiene.
Cosa si intende per studio? E’ ancora possibile destinare parte della propria abitazione a attività
di studio e ssare il domicilio dello studio in quella sede? Se più avvocati sono nello stesso
studio, ma non tutti partecipano alle spese di studio (es. neo-avvocati) si può dire che questi
“abbiano uno studio”? Tutte queste domande dimostrano che anche una norma speci ca come
questa possa essere letta come un’azione giuridica che non si esaurisce in sé stessa, ma produce
una serie di conseguenze.

23
ff
ff
fi
ffi
fi
ff
ff
ff
ff
ff
ff
fl
fi
8. E etti dell’azione giuridica

Abbiamo visto che l’azione giuridica può essere vista come un atto di comunicazione che si
svolge in un contesto pieno e complesso in cui intervengono soggetti diversi, cosiddetti media
individuali e collettivi, che rendono più complessa questa azione. Questa azione produce poi una
serie di conseguenze ed e etti potenzialmente illimitati.
Questo argomento è molto ampio e per questo può essere suddivido in due grandi aree
tematiche: la prima è quella della costruzione di identità che l’azione giuridica (generica) produce;
la seconda riguarda la vasta ri essione empirica sull’impatto e l’e cacia delle norme.

Identità ed etichette
Madre, attore, convenuto, creditore, rifugiato, minore, condannato sono etichette, identità
giuridiche o sociali rigide e formali, che in qualche modo tipizzano degli status, alle quali sono
associati status e ruoli e da cui dipende la formazione di un campo di aspettative sociali
(pensiamo anche a tutte le gure che possiamo individuare all’interno del codice civile).
[V. pag. 83 libro “Diritto e Società”, Ferrari]
Il ruolo si sostanza in atteggiamenti, valori e comportamenti che la società attribuisce ad uno
status, inteso come posizione sociale ordinata in un certo ambito sociale. Il ruolo è dunque
l’aspetto dinamico dello status. L'aspettativa è la previsione dell’individuo circa la condotta degli
altri membri della società ed è prodotta dai ruoli e dalle norme sociali.

Il deviante
Una etichetta particolarmente complessa e sulla quale la sociologia del diritto e discipline a ni si
sono so ermate è quella del deviante. Che cosa signi ca deviante? Deviante, rispetto ad una
norma, è chi agisce in modo non conforme a quella stessa norma. Ma che cosa signi ca
comportamento conforme? Quando possiamo sostenere che il nostro comportamento è
conforme alla norma se la norma spesso, in realtà, non indica un comportamento preciso ma
indica un comportamento che prevede possibilità che non per forza coincidono con il contenuto
della norma? Proviamo a pensare all’associazione tra conforme e deviante e comportamento
normale o regolare.
Quindi, se da un lato conformità e devianza esprimono l’idea dell’aderenza o dello scostamento
delle azioni in riferimento a norme, la quali cazione di deviante o conforme applicata ad azioni
speci che varia a seconda dei signi cati che vengono socialmente attribuiti a quelle norme e
questi signi cati possono mutare a seconda dello spazio, del tempo, delle interpretazioni
soggettive (come quelle del giudice rispetto al comportamento tenuto in relazione ad una norma).
Portiamo un caso: la normativa sull’uso delle sostanze stupefacenti. Questa normativa è
interessante perché innanzitutto ci fa meditare molto su quello che può essere un comportamento
conforme o deviante rispetto all’uso personale, non per scopo terapeutico, di sostanze
stupefacenti. Su questa questione il dibattito politico, sociale e le rivendicazioni sono state molto
accese nel nostro paese, come anche in tanti altri. Allora vediamo, anche solo guardando la
normativa, come si sia passati dall’idea che l’uso in quantità modica fosse espressione della
libertà personale (nella legge del 1975 n. 685 “Disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope”) ad essere questo stesso comportamento un disvalore in un determinato momento
storico (D.P.R. n. 309 del 1990 “TU Stupefacenti”: vietato qualunque impiego personale si
sostante stupefacenti, se non per uso terapeutico). Possiamo quindi chiederci perché lo stesso
comportamento è divenuto da conforme a deviante con il passare del tempo. Questa è proprio

24
fi
ff
ff
fi
ff
fi
fl
fi
fi
fi
ffi
ffi
fi
una domanda sociologica: perché c’è stato il mutamento? Quali sono stati i fattori che hanno
determinato il cambiamento?
Devianza è quindi un concetto complesso che non va confuso con il concetto di criminalità!
Certo è che ogni comportamento criminale sia deviante rispetto alla norma penale, però non ogni
comportamento deviante è criminale. È poi un concetto relativo in quanto il signi cato di
“devianza" varia a seconda delle diverse prospettive da cui lo si guarda.
Possiamo individuare diversi approcci allo studio della devianza: approcci non sociologici ed
approcci sociologici.
Riconduciamo gli approcci non sociologici alle teorie di tipo biologico e psicologico.

Secondo l’approccio biologico il comportamento deviante è ricondotto alle caratteristiche siche


e biologiche degli individui. Noti esponenti di tale approccio sono Cesare Lombroso e William H.
Sheldon.

Per Cesare Lombroso (1835-1909) i criminali possono essere


identi cati da alcune caratteristiche anatomiche: “il
delinquente nato ha in genere la testa piccola, la fronte
sfuggente, gli zigomi pronunciati, gli occhi mobilissimi ed
errabondi, le sopracciglia folte e ravvicinate, il naso torto, il
viso pallido o giallo, la barba rada”. Questa fotogra a è
contenuta nella sua opera e riporta il momento in cui veniva
misurato il cranio per stabilire la tendenza a delinquere o meno
del soggetto.

Per William H. Sheldon (1898-1977) ci


sono invece tre tipi fondamentali di
costituzione sica, alle quali fa
corrispondere tre personalità diverse.
• Endomorfo: la costituzione endomorfa
è rappresentata da un sico con ossa
piccole, arti corti, grasso e pelle
morbida e vellutata, che porta con sé un
temperamento socievole, accomodante
e indulgente con se stesso e quindi certamente poco propenso alla lite ed al con itto e, di
conseguenza, alla devianza.
• Mesomorfo: la costituzione mesomorfa è rappresentata da un sico con un tronco imponente,
con torace robusto, una gran massa di muscoli ed ossa solide, che porta con sé un
temperamento attivo e dinamico che può sfociare nell’irrequietezza, nell’aggressività,
nell’energia e nell’instabilità e, per questo, con maggiore probabilità ad atti di devianza e
criminalità.
• Ectomorfo: la costituzione ectomorfa è rappresentata da un sico magro, delicato, fragile, con
ossa piccole e spalle curve, che so re di insonnia e di allergie e che, portando con sé un
temperamento introverso, ipersensibile, nervoso, è più propenso alla devianza e alla criminalità.

L’approccio psicologico è invece quello che ricerca la spiegazione della devianza concentrandosi
sui tratti della personalità dell’individuo. Lo psicopatico è infatti una persona chiusa, incapace di
emozione, che agisce d’impulso e raramente avverte un senso di colpa.

Le teorie sociologiche riconducono a delle cause sociali e/o culturali, relative al contesto,
all’esercizio del potere, alle istituzioni che possono de nire come devianti o meno delle pratiche,
che inducono l’individuo a commettere atti devianti o criminali (paradigma eziologico). Possiamo
25
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
distinguere le teorie sociologiche in quattro loni principali: teoria della tensione; teoria del
controllo sociale; teoria della subcultura; teorie dell’etichettamento o labelling theories.

Teoria della tensione


Nella teoria della tensione è fondamentale il concetto di anomia, cioè di assenza di norme sociali
che regolano e limitano i comportamenti individuali. In questa prospettiva la devianza e la
criminalità sono il risultato di tensioni strutturali e della carenza di regolazione morale
all’interno della società. Tra i principali esponenti di questo approccio troviamo Emile Durkheim e
Robert K. Merton.
Per Emile Durkheim la devianza è sostanzialmente il risultato dell’anomia, ossia dell’assenza e
della perdita di valori e norme tradizionali per una persona, non sostituite da altri punti di
riferimento, da altri modelli comportamentali. Per studiare la devianza e l’associazione tra
devianza ed anomia, Durkheim fa uso di statistica: la scoperta della regolarità e della ricorrenza
del veri carsi di fenomeni devianti porta ad utilizzare la statistica e la matematica per la lettura dei
comportamenti criminali. Infatti abbiamo parlato del fatto sociale suicidio, che è considerato
esempio classico di devianza, in cui Durkheim osserva che: il tasso di suicidi è inversamente
proporzionale al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui gli individui fanno parte; il tasso dei
suicidi varia in ragione dell’andamento della situazione economica (aumenta nei periodi di crisi); le
crisi economiche determinano una situazione di anomia, ovvero una crisi della sfera normativa e
valoriale che indebolisce e riduce l’integrazione sociale.
Per Robert Merton la devianza è l’e etto del contrasto tra la struttura culturale (che de nisce le
mete verso le quali tendere e i mezzi con i quali raggiungerle) e la struttura sociale (che determina
la distribuzione e ettiva delle opportunità necessarie per arrivare a tali mete con quei mezzi).
In questa relazione tra struttura culturale, che de nisce quali sono gli obbiettivi che la persona
deve raggiungere in una società del consumo (per esempio la ricchezza), e sociale, che determina
la distribuzione delle opportunità per raggiungere tali obbiettivi, il comportamento deviante o
criminale scatta con probabilità quando manchino queste opportunità per raggiungere quelle
mete.

Teoria del controllo sociale


Questa teoria, che raccoglie molti esponenti, si basa sull’idea che le persone generalmente si
comportano in maniera conforme alle norme, perché esistono dei meccanismi di controllo
sociale che interdicono l’azione deviante. Certamente, nell’ambito di queste teorie, il diritto
occupa una posizione di particolare importanza, ma tali meccanismi possono essere anche altri e,
in particolare, possono essere: esterni (sorveglianza esercitata dagli altri); interni diretti
(imbarazzo, vergogna, senso di colpa); interni indiretti (per esempio il legame con gure
autorevoli di riferimento: legame genitori- gli, studente-insegnante).
Trevis Hirschi (1935) sostiene, per esempio, che una persona tende a compiere un reato quando
il vincolo che lo lega alla società è molto debole. Propone poi quattro tipi di vincoli che legano
l’individuo alla società e che quindi promuovono un comportamento rispettoso della legge:
l’attaccamento (a genitori, insegnanti…); l’impegno a perseguire obiettivi convenzionali (il
successo scolastico, l’a ermazione professionale, la reputazione sociale); il coinvolgimento in
attività convenzionali (studio, lavoro, svago…); le credenze (i sistemi di valori personali ai quali
la persona da particolare importanza). Quando viene meno uno o vengono meno tutti questi
vincoli, la persona si indebolisce e quindi è maggiore la probabilità che devii le norme.

Teorie delle subculture


La Scuola di Chicago è una scuola molto importante nell’ambito della sociologia, della sociologia
del diritto ma anche di quella urbana, che ha sviluppato moltissime ri essioni sull’ambito, sullo
26
fi
ff
ff
ff
fi
fi
fi
fl
fi
fi
spazio, sulle norme, sui gruppi e sulle subculture
dello spazio urbano. È a questa scuola che si
debbono moltissime ricerche, ancora oggi, sulla
devianza giovanile, sulle gang etc.
Secondo la Scuola di Chicago sono i gruppi
sociali che stabiliscono le regole, la cui infrazione
costituisce la devianza. Il comportamento
deviante, così come quello conforme, si
apprendono nell’ambiente in cui si vive. Ciò
signi ca che una persona diventa deviante per la
società maggioritaria, per la cultura dominante,
quindi anche per il diritto u ciale, perché si è
formata in una comunità, in una subcultura di tipo criminale, che quindi ha norme diverse da
quelle della società generale e che vengono dunque trasmesse da una generazione all’altra.
Quindi, il comportamento deviante è direttamente associato alle norme veicolate dall’ambiente in
cui la persona vive.
I metodi di ricerca utilizzati per e ettuare tali ricerche sono dati u ciali, raccolti ed analizzati per
diverse aree della città; descrizioni geogra che e statistiche e storie di vita per illustrare il
processo socio-psicologico attraverso cui si diveniva criminali.
Abbiamo moltissime ricerche in merito ma una di queste è particolarmente interessante: quella
sviluppata da Park, Burgess e McKenzie nell’opera “The City” del 1925. In questo studio sulla
città viene dettato un modello astratto che, in qualche modo, vuole rappresentare l’espansione
urbana come processo dinamico, che si sviluppa per cerchi concentrici a partire dal centro città
(sviluppo in maniera radiale a partire da un centro). La città si estende perché ciascun anello
interno tende ad espandersi e a invadere la zona circostante, questo processo viene spiegato
ricorrendo alla metafora dell’ecologia vegetale: espandendosi, la struttura urbana tende a
riprodursi come una pianta che crescendo forma foglie nuove ma sempre uguali. Questa
espansione non produce solo un e etto sico e materiale, ma crea anche delle precise aree
sociali che possono includere delle particolari aree nelle quali emerge e si radica la devianza.

Questa immagine rappresenta il modello concentrico e suggerisce quella che è la reale situazione
di molte città in cui si creano dei veri e propri luoghi di marginalità sociale che portano più
facilmente alla devianza. Questo modello è applicabile a molte città americane: al centro c’è il
distretto più professionale, seguono zone di transizione (occupate recentemente per esempio da
gruppi immigrati) e così via dicendo.

Altra ricerca interessante, sempre svolta nell’ambito della Scuola di Chicago, è quella di Nels
Anderson (1889-1986) su un particolare gruppo sociale: gli hobo. Gli hobo sono una speci ca
tipologia di personaggio urbano: sono vagabondi, non sono lavoratori stagionali, lavorano il
minimo indispensabile ma non sono senza tetto e quando non lavorano passeggiano, osservano.
Alcuni bevono o giocano d’azzardo, alcuni vivono al limite della devianza o della malattia mentale.
È talora un lavoratore precario nomade dello spazio urbano e Chicago, che è il contesto di
osservazione della ricerca di Anderson, è stata a lungo la capitale degli hobo che vivevano nella
zona di transizione entrando in contatto con altre realtà. Anderson stesso era stato un hobo e per
questo fu facile per lui fare osservazione partecipante e proporre delle relazioni tra ambiente,
controllo sociale e sviluppo di attività criminale.

Sempre nell’ambito di queste teorie del controllo rientra una teoria piuttosto nota: quella di Edwin
H. Sutherland (1883-1950) che, in un famoso studio sugli White Collar Crime (1949), speci ca il
rapporto tra condizionamento sociale e devianza nel senso che chi commette un reato lo fa
perché si conforma alle aspettative del suo ambiente. In questo senso, le motivazioni del suo
comportamento non sono diverse da quelle di chi rispetta le leggi. Quindi, in questa teoria, ad
27
fi
ffi
ff
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
essere deviante non è l’individuo, ma il suo gruppo di appartenenza e quindi gli individui non
violano le norme del proprio gruppo, ma solo quelle della società in generale. Il processo di
apprendimento avviene di solito in piccoli gruppi e riguarda sia le motivazioni alla base della
commissione di reati, sia le tecniche per farlo.

Teorie dell’etichettamento
Queste teorie sono un vasto e composito movimento ma che vede le teorie che si sviluppano al
suo interno accomunate da un nucleo centrale: nessuno atto è intrinsecamente deviante, ma è
l’etichetta di deviante a renderlo tale. Qui torniamo un po’ al signi cato di etichetta dato all’inizio.
Questo movimento ha dato successivamente vita ad una molteplicità di indirizzi criminologici.
Howard Becker (1923) propone una teoria nella quale i gruppi sociali creano la devianza
stabilendo le regole, la cui infrazione costituisce la devianza, e applicano questa regole a persone
particolati che etichettano come outsider. In questa teoria si sottolinea l’aspetto politico, la non
neutralità del concetto e dell’attribuzione dello status di deviante: chi può imporre le proprie
norme agli altri e come può riuscirci? È naturalmente una questione di potere politico ed
economico. Vediamo proprio come l’attenzione si sposta dall’atto all’azione di etichettare e
stabilire se un comportamento è conforme o meno. La devianza non è quindi una qualità
dell’azione commessa, ma la conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni
al trasgressore; il deviante è quindi una persona cui l’etichetta di deviante è stata applicata con
successo e il comportamento deviante è il comportamento così etichettato dalla gente.
Le teorie dell’etichettamento sociale rappresentano il terreno fertile per la nascita e lo sviluppo di
una particolare teoria, che nasce negli USA ma che ha avuto grande fortuna in Italia, che è quella
della criminologia critica. Ovviamente, si tratta di un approccio alla criminalità ed alla devianza
che si distingue nettamente dalle teoria criminologiche tradizionali sia per gli strumenti di ricerca
utilizzati che per gli scopi perseguiti. È interessante il fatto che questa particolare teoria nasce in
ambito universitario, infatti il campus di Berkeley ha rappresentato un polo primario della
contestazione al sistema. La facoltà di Criminologia è stato l’humus in cui si è sviluppata la
criminologia radical americana, determinando la reazione autoritaria delle istituzioni che nel 1974
hanno decretato la chiusura della facoltà e l’allontanamento dei docenti e dei ricercatori che
avevano approccio critico alla questione criminale che evidentemente attribuivano alle istituzioni il
ruolo di “etichettatori” dei comportamenti devianti. In Italia Alessandro Baratta è il capostipite
della Criminologia critica e il fondatore nel 1975 della rivista “La questione criminale”.
Aspetti fondamentali della criminologia critica sono che: è la classe dominante a detenere il
potere di etichettare chi è deviante/criminale (diritto=strumento di potere); c’è la necessità di
disvelare e destrutturare l’ideologia dominante nel sistema penale e nelle teorie criminologiche
tradizionali; c’è un’adesione abbastanza generalizzata alla teoria materialistica della devianza di
ispirazione marxista; c’è un compito attribuito allo scienziato sociale che deve impegnarsi nella
trasformazione della società; c’è un’applicazione del paradigma anti-eziologico del controllo
sociale: la devianza non è un fenomeno ontologico determinato da cause ma l’e etto del controllo
sociale.
Tematiche fondamentali sviluppate da questo approccio sono quella della criminalizzazione
primaria e secondaria (critica al diritto penale come diritto eguale); una critica al carcere
considerato circuito di emarginazione funzionale agli interessi della classe dominante (nell’ambito
di quest’area di ricerca abbiamo posizioni molto diverse che vanno dagli abolizionisti del carcere a
coloro che propongono un utilizzo del carcere solo per situazioni particolari); possiamo anche dire
che si sviluppò un dibattito tra abolizionismo del diritto penale e diritto penale minimo; poi si
sviluppò un approfondimento della questione criminale come questione di genere (ripensamento
della questione criminale in termini di genere). In ultimo, si sviluppò anche un tema di grande
attualità cioè il discorso sulla sicurezza come sicurezza dei diritti e non come sicurezza delle
persone.

28
fi
ff
Avendo analizzato molte teorie possiamo dedurre alcune cose: i concetti di devianza e criminalità
non sono assoluti ma relativi; occorre dunque contestualizzare storicamente i fenomeni di
devianza e criminalità per comprendere e chiarire quali siano i rapporti di potere che sono alla
base di tali fenomeni. Occorre poi mantenere uno spirito critico nello studio dei fenomeni che
sono il prodotto di norme (non solo giuridiche): per esempio la criminalità come prodotto della
norma penale; le devianza come prodotto della norma morale condivisa.
Quindi, riprendendo Ferrari: “l’applicazione delle quali che di deviante e di conforme ad una
classe di azioni astrattamente individuate, o a singole azioni concrete, dipende da decisioni che
vengono assunte e comunicate lungo le fasi dell’azione giuridica. Sono queste decisioni che,
sociologicamente, attribuiscono le etichette di cui stiamo parlando”. Dunque, da un lato il diritto
irrigidisce la realtà tipizzando le gure sociali (il condannato, il convenuto, la madre etc), dall’altro
queste stesse gure create hanno un carattere fortemente relativo.

✽. Integrazione alla teoria della tensione di Merton


Lui sostiene che può esserci una tensione tra strutture culturali, o anche mete culturali (i valori
generalmente accettati del successo materiale) e i mezzi istituzionalizzati per raggiungere tali
mete. Si concentra in particolare sulle società industrializzate (quella americana) dove questi
mezzi sono individuati nell’autodisciplina e nel duro lavoro. In teoria chi segue questi mezzi
dovrebbe raggiungere queste mete, indipendentemente, ad esempio, dalle sue condizioni
economiche e, più in generale, dalle sue condizioni economico-sociali di partenza. In realtà,
l’evidenza empirica ci dice che non sempre è così. Quando le persone falliscono, infatti, possono
essere sottoposte a pressioni sociali che spingono il soggetto a farsi strada a prescindere,
utilizzando ogni mezzo a disposizione. La cosa in realtà è più complessa e Merton individua 5

METODI DI ADATTAMENTO METE CULTURALI MEZZI ISTITUZIONALIZZATI

conformismo + +

innovazione + -
ritualismo - +
rinuncia - -
ribellione +/- +/-

possibili reazioni alla tensione tra mete culturali e mezzi istituzionalizzati e, da queste stesse
reazioni dipende il comportamento deviante che può anche essere criminale.
In questo schema abbiamo i cd. “metodi di adattamento alle tensioni”, che Merton distingue tra
conformismo, innovazione, ritualismo, rinuncia e ribellione, e pone in relazione queste reazioni alle
mete culturali e ai mezzi istituzionalizzati. Nello schema il + signi ca “accettazione”, il - signi ca
“ri uto” e il +/- signi ca “ri uto di mete o mezzi dominanti e sostituzione con nuove mete e nuovi
mezzi”.
La conformità per Merton consiste nell’accettare sia le mete culturali che i mezzi istituzionalizzati,
indipendentemente o meno dal fatto che si raggiunga o meno il successo. Secondo Merton la
maggior parte della popolazione ricade in questa categoria.
L’innovazione consiste nell’accettare le mete culturali, ri utando però i mezzi istituzionalizzati.
L’esempio che fa in questa categoria sono i criminali che si arricchiscono per mezzo di attività
illegali.
Il ritualismo consiste invece nell’accettare i mezzi istituzionalizzati, ma anche nel sottrarsi alle
mete culturali, per cui le norme vengono dunque seguite per sé stessi e per abitudine. Qui Merton
colloca coloro che svolgono lavori noiosi, ripetitivi.
La rinuncia consiste invece nel ri utare le mete culturali e i mezzi istituzionalizzati. In questa
categoria Merton inserisce le persone che ritiene vivano fuori dagli schemi sociali e fa l’esempio
dei senzatetto o dei mendicanti.

29
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
In ne, la ribellione consiste nel ri utare sia le mete culturali sia i mezzi dominanti, i quali però
vengono sostituiti da nuove mete e nuovi mezzi, in una prospettiva di cambiamento, di
innovazione e mutamento del sistema sociale.
Salvo la conformità, gli altri quattro comportamenti sono da considerare devianti in quanto
deviano dalle mete culturali e dai mezzi istituzionali. Il lavoro di Merton sulla devianza, ed
evidentemente anche sulla criminalità, è importante in quanto a ronta uno degli interrogativi dei
nostri tempi: il perché, con l’aumentare del benessere della società nel suo complesso, i tassi di
criminalità non diminuiscano ma aumentino o rimangano costanti.

9. Impatto ed e cacia della norma giuridica


Proseguiamo nel campo degli e etti dell’azione giuridica a rontando un tema molto importante:
l’impatto e l’e cacia della norma giuridica.
Sappiamo ormai che l’azione giuridica è intrinsecamente teleologica, è cioè rivolta a produrre
e etti entro una sfera più o meno vasta di rapporti sociali. Certamente un’azione giuridica
generica produrrà e etti in una molteplicità di rapporti sociali (tra tutti i consociati); ma un’azione
giuridica speci ca, come una sentenza di condanna a tre anni di carcere (o un matrimonio, un
contratto di locazione etc.), produrrà e etti sulla vita del condannato ma anche sui suoi rapporti
sociali.
Dice Ferrari (p. 92) che: “chi agisce attraverso il diritto, dal livello più ampio di un’assemblea
costituente, sino a quello più ridotto…, lo fa per raggiungere degli obiettivi… Se gli obiettivi
perseguiti dall’attore sono raggiunti, è convenzionale dire, in sociologia del diritto, che l’azione è
stata e cace”. Possiamo partire da questa citazione per analizzare il pro lo dell’e cacia della
norma giuridica.
In realtà, nel momento in cui una norma entra in vigore, nel momento in cui un’azione giuridica
viene compiuta, nel momento in cui viene emanata una sentenza, nel momento in cui si
perfeziona un contratto, si veri cano molti fatti, alcuni prevedibili, altri imprevisti. Questa
distinzione tra e etti ci porta a distinguere tra due concetti: il concetto di impatto e quello di
e cacia.
Quando parliamo di impatto della norma ci riferiamo a tutti gli e etti prodotti dalla norma, quindi a
tutti i comportamenti ed eventi che scaturiscono direttamente o indirettamente dalla norma
stessa.
Quando parliamo invece di e cacia della norma, che può essere una legge, una sentenza, un
contratto, ci riferiamo alla “produzione di e etti conformi alle intenzioni di coloro che l’hanno
posta in essere” (L. Friedman). Pensiamo, partendo da questa de nizione, alla complessità di
questo tema: dover correlare l’e cacia di una norma generale ed astratta con le intenzioni del
legislatore non è a atto semplice né immediato.
Facciamo un esempio: la legge 19 febbraio 2004 n. 40, che va sotto il nome di “Norme in materia
di procreazione medicalmente assistita”, oggi ampiamente riformata, ha avuto un forte impatto e
possiamo farci domande sulla sua e cacia. Certamente questa norma ha avuto molti e etti, in
primis il fatto che le cliniche e gli ospedali si sono più o meno conformate al dettato normativo ed
hanno vietato e non praticato più la fecondazione eterologa e, quest’ultimo, era proprio uno degli
obiettivi principali della legge 40. Ebbe poi molti atri e etti, che riconduciamo più in generale
all’impatto della norma, come per esempio l’e etto del cd. “turismo riproduttivo”: viaggi di coppie
all’estero per potersi sottoporre a tecniche di fecondazione medicalmente assistita che la nostra
normativa aveva vietato, mentre altri paesi la permettevano. Andando avanti con questo studio
potremmo scoprire molte altre cose, come il fatto che questo turismo riproduttivo ha messo in
luce forti diseguaglianze economiche poiché la possibilità di avvalersi di certe tecniche, come la
fecondazione eterologa, ha dipeso dalla disponibilità economica delle persone.
Sappiamo che il concetto sociologico di e cacia non coincide con il concetto giuridico di
e cacia.
La scienza giuridica de nisce l’e cacia sulla base della corretta procedura di creazione ed
emanazione di norme, perciò una norma è e cace dal momento in cui entra in vigore no ad una
30
ff
ffi
ffi
fi
ffi
ffi
fi
ff
ff
ffi
ff
fi
ffi
ff
ffi
fi
fi
ffi
ffi
ff
ffi
ff
ffi
ff
ff
ff
ff
ff
fi
fi
ffi
fi
ff
eventuale abrogazione. Quindi, il termine e cacia nella scienza giuridica designa la potenzialità di
una norma a conseguire i suoi e etti tipici.
Lo studio sociologico dell’e cacia è invece uno studio più complesso, proprio a partire dalla
de nizione di e cacia stessa: l’e cacia si ha quando gli e etti sociali corrispondenti alle
intenzioni di chi ha agito, vanno nella direzione voluta.
Lo studio sociologico dell’e cacia consiste dunque nel mettere in relazione fatti che possono
essere empiricamente osservabili a precedenti progetti d’azione. Cioè io (soggetto individuale o
Parlamento) voglio raggiungere un determinato obiettivo, per raggiungere il quale mi servo del
diritto. Quindi, riprendendo l’esempio della legge 40, il Parlamento emana la legge per
regolamentare complessivamente la materia della fecondazione assistita e noi osserviamo i
comportamenti che seguono al progetto. Certamente in un’ottica sociologica noi potremmo
ipotizzare che fra la previsione astratta del comportamento, contenuta nella norma, e i
comportamenti concreti vi è sempre un’alta probabilità di non coincidenza.

Tra i classici della sociologia del diritto, ad a rontare mediante una metodologia empirica lo studio
dell’e cacia è stato Theodor Geiger, sociologo tedesco, nel suo “Vorstudien zu Heiner
Soziologie des Rechts” del 1947. Secondo Geiger: la validità del diritto è tanto un concetto
normativo quanto fattuale; la norma è valida in quanto prescrive un determinato comportamento;
il quoziente di e cacia della norma valida è pari al numero di volte in cui viene tenuto il
comportamento prescritto e al numero di volte in cui al comportamento che viola la norma segue
la sanzione (il legame tra comportamento conforme e il numero di volte in cui, se è il
comportamento non è conforme, si è sanzionati ci da il quoziente di e cacia della norma valida).
Geiger in realtà collega l’e cacia della norma ad altri fattori, tra i quali l’opinione pubblica sul
diritto, che incide sul comportamento conforme, e la capacità dei funzionari di intervenire
applicando le sanzioni. Questa è una delle prime teorie articolate sullo studio dell’e cacia e le
critiche che le sono state mosse riguardano la rigidità di questo schema che non si ritiene sempre
empiricamente veri cabile.
Altro contributo interessante è quello del sociologo norvegese Vilhelm Aubert, scomparso di
recente. Aubert ha compiuto molti studi sulle funzioni simboliche e latenti del diritto e la domanda
che si è perché leggi frequentemente trasgredite, e dunque non e caci, rimangono in vigore?
Partendo da questa domanda va a vedere quali sono le funzioni latenti, diverse da quelle
apertamente ascritte a determinate normative, che ne legittimano la sopravvivenza. Se proviamo a
pensare a tutto l’ambito del diritto penale, che già di per sé è un ramo del diritto che svolge
funzione anche simbolica: ci sono leggi penali puramente simboliche, leggi che a priori mirano,
non ad in uire sui fenomeni sociali, ma esclusivamente a trasmettere messaggi volti a rassicurare
i cittadini. Ambito particolarmente signi cativo per comprendere questo uso del diritto penale
simbolico è quello dell’immigrazione clandestina: il reato di immigrazione infatti ha portato ad una
serie di critiche e perplessità da parte di sociologici e penalisti per la sua forte funzione politico-
simbolica di rassicurazione attraverso una norma che non può essere e cace rispetto a quel
progetto di azione che si propone manifestamente di raggiungere.
Certamente si può presumere che il comportamento conforme alla legge sia un indice importante
di e cacia: se abbiamo una norma che nei fatti è particolarmente osservata, noi possiamo
azzardare un giudizio in merito alla sua e cacia, ma senza dubbio lo studio vero e proprio
sull’e cacia è molto più complesso. Diverse sono infatti le variabili che incidono in particolare sul
rapporto tra ottemperanza ed e cacia.
Innanzitutto, perché è cosi complesso lo studio dell’e cacia? Perché la distanza tra law in book e
law in action è dovuto a molteplici fattori. Dobbiamo sempre tenere in mente però che la norma è
un atto di comunicazione.

Fattori che incidono sull’e cacia della norma


Il primo aspetto di particolare importanza quando si voglia studiare l’e cacia o meno di una
norma è quello dell’univocità e dell’equivocità dei messaggi normativi. Il signi cato del
31
fi
ffi
ffi
ffi
fl
ffi
ffi
fi
ffi
ffi
ffi
ffi
ffi
ff
ffi
fi
ffi
ff
ffi
ffi
ff
ffi
ffi
ffi
ffi
ffi
fi
messaggio normativo può infatti essere più o meno chiaro sin dall’origine e questo perché chi
comunica può avere interesse a farsi capire, ma può anche avere interesse a non farsi capire.
Per esempio notiamo che non sempre il Parlamento, quando emana una legge, emana una legge
chiara. Questo accade in ragione di una molteplicità di fattori: può essere il mancato accordo sul
contenuto della norma all’interno del Parlamento o altri. In generale dunque la vaghezza di una
norma può essere non soltanto la conseguenza di un uso di termini o linguaggio che di per sé
portano una minore chiarezza, ma la formulazione vaga può essere anche dettata da una scelta di
rimandare ad un secondo momento e ad altri soggetti l’interpretazione (es. contratti collettivi di
lavoro).
C’è anche il giornalista come esempio di medium che frequentemente entra nello spazio
comunicativo della norma. Quella del giornalista è una gura chiave per la comprensione nello
studio dell’e cacia perché molto spesso i destinatari di una norma generale ed astratta vengono
a conoscenza di quest’ultima proprio attraverso i mass media.
Il giornalista è uno specialista delle tecniche informative ma non è necessariamente esperto di
codici speci ci (giuridico, medico, biologico etc.), che sono quelli che servono per comprendere
una norma e comunicarne correttamente il contenuto. Dunque, quello che può accadere è che,
per ragioni diverse, il giornalista trasmetta un messaggio distorcendone o modi candone il
signi cato. Prendendo il caso del messaggio normativo dato dal giornalista, tale messaggio può
essere in uenzato da molti fattori che possono portare a distorcere il signi cato della norma
stessa. Pensiamo ad un giornale cartaceo: ogni giornale segue determinate regole che sono
dettate dallo spazio (lo spazio dato per una notizia di una norma incide sul modo in cui la notizia
viene data), dalla sempli cazione del messaggio, dalla “natura politica” del giornale stesso (il
giornale può essere partitico, avere orientamenti politici o etici di diverso tipo), dal tipo di giornale
(quotidiano, giornale scandalistico e altri). Il destinatario che legge della norma in un determinato
giornale riceverà l’informazione veicolata dal giornalista: la probabilità che il lettore venga a
conoscenza di informazioni “distorte” è molto elevata.
In generale, il tema dell’interpretazione della norma è di fondamentale importanza. Ogni attore che
interviene nel processo comunicativo interpreta la norma e interpretare signi ca utilizzare altre
parole per descrivere il contenuto della norma ma, utilizzare altre parole, può signi care
cambiarne in parte il contenuto.
Si pensi in primo luogo a tutte quelle norme che necessitano di un’interpretazione del giudice.
Torniamo al tema della “Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope” (legge 22 dicembre
1975, n. 685) che si presta bene alla nostra analisi. Successe che nell’art. 80 di questa legge,
rubricato “Detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope”, si leggeva che
“non è punibile chi illecitamente acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope
di cui alle prime quattro tabelle dell'art. 12, allo scopo di farne uso personale terapeutico, purché
la quantità delle sostanze non ecceda in modo apprezzabile le necessità della cura, in relazione
alle particolari condizioni del soggetto. Del pari non è punibile chi illecitamente acquista o
comunque detiene modiche quantità delle sostanze innanzi indicate per farne uso personale non
terapeutico, o chi abbia a qualsiasi titolo detenuto le sostanze medesime di cui abbia fatto uso
esclusivamente personale”.
È rilevante il punto in cui si parla di “modiche quantità”: una espressione come questa non può
che essere vaga e rimandare ad una interpretazione successiva. Il concetto di modica quantità ha
infatti dato adito ad interpretazioni assolutamente di ormi da tribunale a tribunale. Che cosa può
avere inciso sulla diversa interpretazione? Possono aver inciso molti fattori tra cui l’interpretazione
personale del giudice e molti altri. “Quantità modica” diventa dunque il parametro quantitativo
essenziale per discriminare tra le condotte ai ni della non punibilità e, prendendo citazioni di
sentenze, per alcuni giudici, per essere de nita tale, la quantità semplicemente non deve superare
le dosi per l’uso di qualche giorno e per una sola persona; per altri la modica quantità deve essere
valutata sulla base non solo delle proprietà tossiche della sostanza, ma anche alla personalità
psico sica della persona.

32
fi
fi
fl
fi
ffi
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
È chiaro che più una norma è ampia, più sono le sue possibili interpretazioni; più e antica, più
interpretazioni sono state date; più è generica più sarà di cile interpretarla letteralmente e sarà
necessario ricorrere ad altri metodi interpretativi.

Il signi cato di una norma è poi certamente in uenzato dal tempo. Questo è chiarissimo se
prendiamo in considerazione alcuni concetti: prendiamo per esempio il concetto di famiglia e
quello di comune senso del pudore. Questo sono riferimenti che evidentemente danno adito ad
interpretazioni molto diverse proprie perché in uenzate dal tempo, un tempo che tenderà di volta
in volta a speci care maggiormente cosa si intende per famiglia o senso del pudore nel nostro
caso.
Proviamo a pensare dal punto di vista giuridico a quante relazioni di tipo a ettivo si possono
associare al concetto di famiglia oggi: abbiamo la coppia, coppia con gli, l’unione fondata sul
matrimonio, l’unione di fatto, la famiglia mono genitoriale, quella eterosessuale e quella
omosessuale. Tutte queste interpretazioni incidono qualora ci sia un richiamo alla famiglia in una
determinata normativa.
Il concetto ancor più vago di “buon costume” (presente negli artt. 19, 21 Cost. e art. 5 c.c.) si
identi ca con l’insieme dei principi etici dominanti in un certo momento storico. Si tratta dunque
di un principio estremamente mutevole e che cambia nel corso del tempo. Cuniberti, nel suo
saggio “Il limite del buon costume”, scrive: “Si può dire che per la Corte esiste una nozione
costituzionale di buon costume, autonoma e distinta da quelle desumibili dalla legislazione
ordinaria: ma la Corte si è sempre guardata bene dal fornirne de nizioni precise, forse anche per
la consapevolezza dell’opportunità di mantenere in capo al concetto quel tanto di elasticità che
consenta ai giudici di adattarlo all’evoluzione del sentire sociale”.

Altro elemento fondamentale nella nostra analisi è lo spazio discorsivo. Infatti, il signi cato della
norma può mutare a seconda dello spazio discorsivo nel quale è inserito: varia da lessico a
lessico (il linguaggio giuridico adotta costantemente espressioni derivanti da altri lessici che a loro
volta necessitano di strumenti di interpretazione e di una conoscenza speci ca - linguaggio
criminologico, sico, biologico etc…) e da lingua a lingua.

Anche gli interessi delle parti sono un fattore decisivo: possono essere convergenti o divergenti,
in uiscono sulla comunicazione normativa e dunque sulla univocità e sulla equivocità dei
signi cati dei messaggi normativi. Prendiamo come esempio l’art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto
doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno”): se leggiamo questo articolo ci poniamo una serie di domande.
• Colui: secondo il codice grammaticale al quale la parola appartiene, indica un soggetto
maschile → si escludono i soggetti femminili?
• Danno: questo concetto che ci riporta a sacri ci materiali, monetizzabili → non possiamo
considerare tra i danni anche altri tipi di sacri ci?
• Cagionare: in che senso possiamo dire che un’azione sia stata cagione di un danno?
Vediamo uno degli articoli più importanti del codice civile che di per sé, per le parole che utilizza,
è un articolo che si presta a interpretazioni diverse che dipenderanno in gran parte dagli interessi
delle parti in gioco. È allora probabile che la vittima di un atto lesivo, in particolare il suo avvocato,
propenderà per una interpretazione estensiva, mentre il suo autore propenderà per una
interpretazione restrittiva che magari gli permetterà di non essere accusato. Questo esempio
rende chiaro che il signi cato può mutare se divergenti sono gli interessi delle parti coinvolte.

La conoscenza della norma è un altro fattore: se non conosciuta, la norme non può essere
rispettata (e dunque il comportamento non potrà essere conforme al suo contenuto). Questo è
tanto più vero nelle nostre società in cui la sovrapproduzione legislativa e giurisprudenziale rende
sempre più complessa la conoscenza delle norme stesse, anche per gli specialisti del mestiere.

33
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fl
ffi
fi
fi
ff
fi
fi
C’è poi il tema delle opinioni sulla norma che, sicuramente, è un aspetto fondamentale in termini
di adesione e di e cacia della norma stessa.

Anche se non si condivise la norma, la minaccia della sanzione è un fattore che porta a
rispettarla. Il rinforzo sanzionatorio opera soprattutto attraverso un meccanismo preventivo di
persuasione che sollecita all’obbedienza per timore o per desiderio della sanzione, negativa o
positiva. Ci sono però dei fattori che possono incidere in maniera rilevante: l’e cienza e
ine cienza dell’apparato cui spetta di applicare le sanzioni; le previsioni di più sanzioni a ittive
nel tempo e ine cacia della minaccia della sanzione (esempio: se guardiamo il tema della
recidiva, cioè di quanti detenuti usciti dal carcere ricommettono reati, vediamo bene questo
aspetto. La prospettiva di essere arrestati genera maggior timore la prima volta rispetto alle
seguenti e quindi le sanzioni a ittive nel tempo operano come fattore di ine cacia della minaccia
della sanzione); in ultimo il calcolo razionale (costi e bene ci nell’osservare o deviare rispetto alla
norma: tipico caso dell’evasione scale).

C’è poi il tema enorme dell’implementazione della norma. Il concetto sociologico di


implementazione è più ricco e complesso del concetto di applicazione della legge. Implementare
una norma fa riferimento al complesso processo di messa in atto, da parte degli attori istituzionali,
e di altri soggetti interessati, di azioni che danno attuazione al dettato normativo. Dunque, in
questo complesso processo entrano in gioco risorse economiche, interpretazione della norma,
competenze professionali e attitudini personali (vedi politica delle tre I di un ex ministro
dell’istruzione). Comportamenti, strategie, risorse costituiscono aspetti ineliminabili nello studio
del processo di implementazione della norma.

34
ffi
ffi
ffi
ffl
fi
fi
ffi
ffi
ffl
10. Media, immigrazione e messaggio giuridico

Viviamo in una fase in cui il tema dell’immigrazione risulta al centro del dibattito mediatico e
politico. Riprendendo le parole di un losofo della politica e teorico del diritto, Luigi Ferrajoli,
leggiamo che l’immigrazione è “il banco di prova di tutti i valori della civiltà occidentale”. Questo
perché interroga il principio di uguaglianza, quello di solidarietà e il concetto di sicurezza, oggi
paradigma attorno al quale ruota molta parte della nostra attività politica. Il tema
dell’immigrazione interroga la gerarchia delle fonti dello Stato di diritto: buona parte dei diritti e dei
doveri degli immigrati sono oggetto non di normative nazionali, ma di circolari e attività
amministrativa che nella materia migratoria acquistano un peso certamente da stravolgimento
delle fonti del diritto. Mostra poi anche il potere delle etichette giuridiche in termini di percezioni e
aspettative sociali: pensiamo a cosa comporta l’etichetta sociale di clandestino, di immigrato
irregolare o regolare, o quella di richiedente asilo. L’immigrazione è dunque un tema che, nella sua
drammaticità ed attualità, si presta a molte analisi ed indagini.
In tutto questo, evidentemente, il giornalista ha un ruolo decisivo e una responsabilità importante
nel comunicare le notizie che riguardano il fenomeno migratorio perché c’è un legame circolare tra
il fenomeno, la percezione sociale, la politica e l’attività normativa, e allora la percezione sociale è
frutto di come il giornalista ed i mass media veicolano le informazioni. Ecco allora che il ruolo di
giornalista è quello di veri care le fonti, riportare le informazioni in modo completo e accurato e
corretto, riportare le voci dei protagonisti e degli esperti, di restituire insomma la complessità del
reale e la verità sostanziale dei fatti stessi.
Proviamo a pensare alle notizie che noi leggiamo in tema di immigrazione, nel quale tema il diritto
ha un ruolo centrale: quali notizie vengono date più frequentemente sull’immigrazione? Come
vengono date le notizie? Quale attendibilità delle fonti mediamente hanno le notizie che vengono
date?
Ecco che, a seguito di una serie di notizie scandalistiche e non veicolate da regole deontologiche,
è stato emanato un Codice deontologico speci co per il giornalismo in materia di immigrazione:
questo codice deontologico è la “Carta di Roma”. Ma perché in particolare si decide di scrivere
questa Carta? C’è un fatto a partire dal quale comincia l’elaborazione del tema: la strage di Erba e
il linciaggio mediatico del cittadino tunisino Azouz Marzouk che ne consegue. Il 12 dicembre del
2006, i principali quotidiani italiani, in prima
pagina, condannano mediaticamente il marito di
una donna uccisa insieme ad altre persone. Vittime
furono la moglie, la suocera, il glio di due anni e
una vicina di casa. Il titolo della notizia (“La caccia
nella notte”; “Era fuori per indulto”) non lascia
scampo, è già una condanna: proviamo a pensare
a cosa questo messaggio veicola. La frase “era
fuori per indulto” messa a sottolineare una critica
anche a questo istituto, e lo si accusa in un
processo che pone il giornalista nel ruolo di
giudice. Un paio di giorni dopo, negli stessi
quotidiani, si leggeva che, in realtà, il tunisino
accusato della strage quella notte si trovava in Tunisia. Questa notizia è apparsa a molti giornalisti
35
fi
fi
fi
fi
come una storia particolarmente signi cativa sul modo in cui il giornalismo, e in particolare la
comunicazione della cronaca nera, relativo all’immigrazione veniva condotto in maniera
deontologicamente non accettabile.
Ecco allora che la Carta di Roma, composta da pochi articoli, sancisce dei principi fondamentali:
il primo è di adottare termini giuridicamente appropriati nel racconto del fatto, per restituire al
lettore e dall’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri; poi
bisogna evitare la di usione di informazioni imprecise, sommarie o distorte che, ovviamente,
veicolano una comunicazione sbagliata, riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e
migranti; e ancora, si devono interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni
specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e
completo, che guardi anche alle cause dei fenomeni e quindi non limitandosi ad una analisi
super ciale di ciò che accade; non bisogna inoltre consentire l’identi cazione per rispettare gli
obblighi della privacy, fondamentali nella comunicazione giornalistica.
Nasce nel 2011 l’Associazione Carta di Roma che diventa molto importante in quanto va proprio a
monitorare quella che è l’informazione in tema di immigrazione.

36
fi
ff
fi
fi
11. Funzioni del diritto

Ci chiediamo anzitutto che cosa intendiamo per funzione del diritto. Premessa necessaria è
puntualizzare che siamo nel mondo dei fatti. Ci chiediamo allora a cosa serve il diritto, quali sono
le funzioni che svolge nella società, ci chiediamo anche qual’è la distanza tra fatti e valori e perché
il tema delle funzioni del diritto va ricondotto al mondo dei fatti e non a quello dei valori. In questo
senso sarà necessario riprendere alcuni aspetti delle teorie macrosociologiche funzionalsitiche
perché sono la tradizionale area teorica della sociologia che più di altre ha messa a fuoco il
concetto di funzione.
Il concetto di funzione è molto ampio e viene usato in più contesti, assumendo signi cati diversi:
nella siologia umana la funzione dello stomaco è digerire i cibi; possiamo parlare della funzione
in relazione ad un evento che si svolge in una chiesa; in matematica la funzione è una legge che a
ogni elemento di un insieme associa uno e un solo elemento di un altro insieme.
Nelle scienze sociali si adotta comunemente il concetto di funzione per indicare l’apporto
conferito da un elemento ad un sistema. Vedremo però che questo apporto, in relazione al
diritto, può essere visto adottando diverse prospettive.
Distinguiamo in particolare due prospettive: una che riconduciamo al paradigma funzionalista, che
intende per funzione del diritto un contributo allo stato oggettivo del sistema (Uno dei tratti dei
funzionalisti classici, come Parsons, è l’idea che questa funzione sia una eu-funzione: è un’idea di
un contributo positivo che gli elementi del sistema apportano al sistema per il mantenimento
dell’equilibrio sociale); l’altra vede il diritto come un contributo al progetto d’azione dell’attore
sociale (Noi abbiamo adottato un’idea di diritto inteso come mezzo di azione sociale: la persona
agisce giuridicamente per raggiungere uno scopo o viene orientato dal diritto. Ecco che questa
visione ci pone in una prospettiva diversa da quella funzionalistica).

La funzione intesa come contributo allo stato oggettivo di quel sistema la troviamo in Talcott
Parsons. Per lui il sistema giuridico serve proprio a “mitigare gli elementi potenziali di con itto e a
lubri care i meccanismi dei rapporti sociali”. Nella sua importantissima opera “The Social
System” del 1954, egli distingue tra struttura e funzione ed attribuisce a quest’ultima l’idea che si
tratti di una “attività destinata a rispondere ai bisogni essenziali del sistema e alla vita e al
mutamento del suo equilibrio”. Intende invece la struttura come una “componente relativamente
stabile delle modalità di organizzazione del sistema”.
A partire da questa de nizione di funzione, Parsons delinea quelle che sono le funzioni principali
dei singoli sottosistemi sociali: il sistema economico ha funzione di adattamento; il sistema
politico svolge funzione di raggiungimento dei ni; il sistema educativo, religioso, familiare che
svolgono essenzialmente una funzione di mantenimento della struttura, dei valori da parte degli
individui; il sistema giuridico che svolge una funzione di integrazione, cioè di coordinamento delle
relazioni, di risoluzione degli elementi potenziali di con itto.
Dunque, secondo questa visione funzionalistica, il sistema giuridico, rendendo meno con ittuali i
rapporti fra i ruoli, favorisce la coesione e l’equilibrio sociale.
Con una teoria molto complessa, Luhmann indica come principale funzione del diritto la riduzione
della complessità sociale. Il diritto svolge questa funzione attraverso un meccanismo selettivo
basato sul codice binario lecito/illecito. Dice Luhmann che, in un mondo caratterizzato da una
in nita possibilità di comportamenti ed azioni, ci deve essere e c’è un meccanismo, che lui
individua nel diritto, che riduce la complessità sociale stabilendo ciò che è lecito e ciò che è
37
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fl
fl
illecito. Questo meccanismo orienta e rende più agevoli le nostre scelte e meno contingenti le
nostre aspettative normative, poiché esse trovano stabilità e conferma in una norma. Questo
aspetto è molto importante perché noi di cilmente abbandoniamo le nostre aspettative
normative, proprio perché trovano la loro conferma in una norma giuridica.
Come è possibile però stabilire qual’è il migliore stato di un sistema e collegare delle funzioni del
diritto?; come è possibile sostenere che il diritto svolga funzioni per il mantenimento di un
equilibrio?; chi stabilisce qual’è il miglior stato di un sistema? Anche nelle teorie funzionaliste
viene messo in luce che vi sono elementi nel sistema che non svolgono funzioni di mantenimento
dell’equilibrio sociale. Qualche autore, come Merton per esempio, ha scardinato questa visione in
cui il benessere del sistema è un qualcosa di preordinato rispetto alla realtà e alle funzioni che i
singoli elementi del sistema svolgono. Allora, può essere opportuno adottare una prospettiva
diversa che, innanzitutto, scinde il funzionalismo dall’analisi funzionale.

Un esempio ci viene dato dal realismo giuridico nord-americano, da un autore in particolare,


Llewellyn (1893-1962), che individua alcune funzioni universali del diritto, nel tentativo di fornire
una ipotesi neutrale. Le individua per esempio nella soluzione dei con itti, nell’orientamento
preventivo, nell’allocazione dell’autorità e nella predisposizione delle procedure legittimanti: ritiene
che tutte le prestazioni siano rivolte a fornire alla società una guida generale attorno a qualcosa e
verso qualcosa.
Ci sono diverse teorie che riconducono ad una funzione generale, quella di controllo sociale, le
varie funzioni più speci che che il diritto svolge. Questa funzione si rifa a teorie sociologiche
molto diverse tra loro, alcune delle quali riconducibili a quelle di ispirazione marxista, le quali
riconducono la funzione di controllo sociale all’attività volta a indirizzare gli individui a tenere
determinati comportamenti secondo la visione di coloro che, in un determinato momento,
detengono il potere.

In una prospettiva che legge e interpreta la funzione come contributo al progetto di azione
dell’attore sociale, Ferrari propone tre funzioni. Questa prospettiva è molto diversa rispetto a
quella che vede nella funzione del diritto il contributo per il mantenimento di un buono stato di un
sistema sociale, che non si può dare per scontato una volta per tutti.
Le tre funzioni proposte da Ferrari sono:
• La funzione di orientamento delle aspettative e dei comportamenti
• La funzione di trattamento dei con itti
• La funzione di legittimazione del potere
Si tratta di funzioni neutre, non sono funzioni che portano necessariamente ad una buona riuscita
del progetto di azione, non sono funzioni che portano ad un qualche equilibrio necessario e
prestabilito del sistema sociale.
L’espressione orientamento sociale sta a designare una funzione del diritto che deriva dalla sua
natura di regola persuasiva. A livello generale il diritto non è semplicemente regola, ma è un
sistema che indica dei modelli, che attribuisce signi cato alle azioni e ai comportamenti. Ciò non
signi ca che il diritto orienti i comportamenti in modo chiaro, coerente, univoco e conveniente per
il bene generale della società.
La seconda funzione è quella del trattamento dei con itti dichiarati. Non tutti i con itti entrano
nell’area del diritto, potenzialmente possono entrare ma il con tto tra due fratelli, per esempio,
non interessa in se per se il diritto. Allora alcune teorie hanno proposto questa de nizione per
individuare i con itti che interessano il diritto: “de niamo con itti dichiarati o dispute quei con itti
in cui le pretese incompatibili sono pubblicamente proclamate”. Dunque, ogni tipo di con itto,
purché sia proclamato (cioè per esempio quando un avvocato invia una lettera ad un altro), può
incanalarsi nelle vie giuridiche, trovare sulla propria strada modelli normativi ai quali gli antagonisti
sono indotti o costretti a rapportarsi. La funzione del trattamento dei con itti dichiarati sta proprio
in questo, cioè che il sistema giuridico o re canali nei quali i con itti dichiarati pubblicamente
possono incanalarsi. Questo non signi ca che tutti i con itti trattati attraverso i canali del diritto
38
fi
fl
fi
fl
fi
ff
ffi
fi
fi
fl
fl
fl
fi
fl
fl
fl
fi
fl
fl
fl
risolvano il con itto stesso, potrebbero anzi incrementarlo (per esempio una sentenza). La
di erenza tra trattamento e risoluzione sta proprio nella prospettiva che noi adottiamo, in cui non
diamo per scontato il mondo del dover essere, ma ci concentriamo sul mondo dell’essere dei fatti.
La terza funzione è quella di legittimazione del potere, che riprende l’idea del potere come
partecipazione alla presa di decisione. Dicendo che una funzione del diritto è quella della
legittimazione del potere, indichiamo che, riprendendo una citazione di Ferrari, “Tutti i soggetti
che dispongono di capacità decisionale o desiderano ampliarla possono fare uso – e
normalmente fanno uso – del diritto per attrarre consenso sulle decisioni che assumono o
intendono assumere”. In questa prospettiva il diritto è elemento legittimante del potere, così come
anche dell’azione dell’attore sociale. L’elemento importante qui è che il diritto legittima l’azione, e
dunque la possibilità di un progetto di azione. Questa funzione, così intesa, la possiamo riferire nel
senso che non solo i soggetti politici sono legittimati ad usare il diritto, ma anche qualunque
attore sociale che ricorre al diritto per sostenere le proprie decisioni.

Max Weber distingue due concetti: quello di macht, inteso come qualsiasi possibilità di far valere
entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la
base di questa possibilità; e quello di herrschaft, cioè la possibilità di trovare obbedienza, presso
certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto. Riconduciamo il diritto in
uno Stato di diritto a questo secondo concetto di herrschaft, in cui appunto il diritto svolge una
funzione di legittimazione del potere.
Così delineate, queste funzioni sono veri cabili nei fatti e diverso è il terreno dei valori. Tutti infatti
vorremmo un “buon diritto” e tutti certamente pensiamo che debba tendere alla giustizia, ma
questo è il terreno dei valori, di ciò che noi vorremmo dal diritto. La prospettiva sociologica
dovrebbe in qualche modo aiutare a capire cosa di fatto produce il diritto, cosa l’attore sociale
può fare attraverso il diritto e quali possono essere i meccanismi per far si che il diritto si avvicini a
ciò a cui deve tendere, cioè alla giustizia.
È importante ri ettere sulla distinzione tra funzioni e ni del diritto; sulla distanza tra legalità e
giustizia, che ci porta a interrogarci su quanto il nostro diritto sia giusto e di come sia di cilmente
sovrapponibile il concetto di legalità con quello di giustizia.

39
ff
fl
fl
fi
fi
ffi
12. Diritto e pluralismo giuridico
Il rapporto tra diritto e pluralismo giuridico non è solo una questione, ma è proprio una
prospettiva, una lente attraverso la quale guardare al diritto e che oggi è particolarmente presa in
considerazione poiché grazie ad essa si leggono i mutamenti del nostro diritto nell’epoca
contemporanea.
Quando parliamo di pluralismo giuridico, parliamo di una prospettiva, di una concezione del
diritto, che si oppone all’idea che l’unico produttore di diritto e detentore del potere politico sia lo
Stato. Da un punto di vista storico contrapponiamo proprio la prospettiva monistica a quella
pluralistica del diritto (Monismo giuridico vs. Pluralismo giuridico).
Dobbiamo però sottolineare subito un aspetto: quando parliamo di pluralismo giuridico parliamo
sì di una prospettiva, ma anche di cose diverse. Infatti, di pluralismo giuridico si può parlare per
identi care una prospettiva fattuale che ritiene che, nell’ambito di una stessa società, non sia solo
lo stato a produrre il diritto, ma esista una pluralità di sistemi ed ordinamenti giuridici; oppure una
pluralità di fonti; o anche una pluralità di meccanismi giuridici diversi che si applicano alla
medesima situazione (per es. in Egitto le norme di diritto di famiglia sono diverse in base
all’appartenenza religiosa e per questo si applicano meccanismi giuridici di erenti).
Abbiamo poi una visione, che potremmo chiamare soggettivistica, del pluralismo giuridico che
non si concentra tanto sulla giuridicità delle fonti, e dunque sulla loro pluralità, che producono le
norme ma sulla pluralità di norme (si parla di pluralismo normativo piuttosto che di pluralismo
giuridico).
Comune alle teorie pluralistiche è allora la critica all’idea dello Stato come produttore unico del
diritto e dell’ordine sociale. Possiamo individuare le radici storiche di questa concezione in due
momenti: nei movimenti di lotta contro il formalismo di inizio ‘900 e nelle politiche coloniali e la
scoperta del pluralismo giuridico, sotto il fenomeno delle colonizzazioni.
Facciamo però alcuni esempi di pluralismo giuridico:
• Le norme religiose che talora sono in contrato con altre norme, come nel caso dei testimoni di
Geova ai quali una norma religiosa impone di ri utare le trasfusioni di sangue.
• Il sistema non scritto, ma cogente e particolarmente sentito, di regole che, all’interno del
carcere, regola i rapporti tra detenuti e personale di custodia, o tra gli stessi detenuti. Queste
norme sono sentite come fortemente vincolanti all’interno di un sistema regolato formalmente in
altra maniera.
• I regimi di esenzione scale o erti dai diritti stranieri, che pongono la persona in una situazione
di scelta, dal punto di vista fattuale, rispetto a quali regole seguire per una determinata
regolamentazione del fenomeno.
• Il diritto creato ed utilizzato dalle minoranze etniche, dai popoli autoctoni.
Quelli riportati sono esempi che ci fanno capire come il diritto dello Stato sia evidentemente, da
un punto di vista dogmatico, il Diritto, ma che questo Diritto sia soltanto una parte di quello che è
un sistema di norma particolarmente vincolanti, e che alcuni autori e teorici hanno de nito come
giuridiche.

È evidente che le politiche coloniali hanno portato a scoprire sul campo il pluralismo giuridico.
Questo perché nel momento in cui l’europeo occupa un particolare territorio e lo colonizza, porta
con sé un determinato diritto che lo fa rendere conto che in realtà, nel luogo che sta
colonizzando, esistono già altri diritti spontanei (spesso di natura orale) che no ad allora avevano
40
fi
fi
ff
fi
ff
fi
fi
permesso ai popoli di regolarsi. Pluralismo giuridico signi ca proprio convivenza, con ittuale o
meno, tra sistemi, meccanismi e norme che provengono da fonti di erenti.
I movimenti di lotta contro il formalismo alla ne del ‘800, ma sopratutto all’inizio del ‘900, sono
movimenti molto importanti proprio per la fondazione storica della sociologia del diritto, proprio
perché sono movimenti di pensatori (giuristi in particolare) che, in un determinato periodo storico
ed in vari Paesi, hanno opposto ad una concezione dogmatica una concezione del diritto più
legata ad un concetto di diritto inteso come fenomeno sociale. Questi movimenti di lotta si
sviluppano in maniera diversa tra i vari paesi: in Germania contro il formalismo concettuale; in
Italia e Francia contro il formalismo legale; negli Stati Uniti contro il formalismo giurisprudenziale.

I punti fondamentali della concezione formalistica del diritto coincidono con “la norma generale
ed astratta”; si crede che l’ordinamento giuridico prodotto dallo Stato sia completo e privo di
lacune; l’idea del monismo giuridico cioè che lo Stato sia l’unico detentore del potere di produrre
diritto e da qui l’idea che il giudice non sia altro che un soggetto che si limita ad applicare la
normativa e che la sua funzione sia dunque meramente dichiarativa.
Diversamente, la concezione anti-formalistica del diritto, al di là dei diversi ambiti speci ci dei
movimenti, ritiene che il diritto non sia completo, lo è da un punto di vista dogmatico ma non lo è
dal punto di vista fattuale; l’idea di pluralismo giuridico; in ne, dato che l’ordinamento giuridico
non è completo, al giudice spetta una funzione creativa.

Eugen Ehrlich (1862-1922) è un autore tedesco molto importante in quanto ha contribuito alla
nascita della sociologia del diritto. Egli abbraccia un’idea di diritto che lui stesso de nirà come
“vivente”: secondo lui il diritto non può essere pensato se non in relazione alla sua applicazione e
al suo uso e dunque, ciò che è diritto è ciò che e ettivamente viene creato, usato e praticato nella
società. A dimostrazione di ciò scrive nella sua opera “I fondamenti della sociologia del diritto”
che: “Nel principato della Bucòvina vivono attualmente, in parte in perfetta concordia tra loro,
nove gruppi etnici: gli armeni, i tedeschi, gli ebrei, i romeni, i russi, i ruteni, gli slovacchi, gli
ungheresi, gli zingari. Un giurista di indirizzo tradizionale sosterrebbe certamente che tutte queste
popolazioni hanno un solo e unico diritto: quello che vige in tutto l’impero austriaco. Tuttavia gli
basterebbe anche una rapida occhiata per accorgersi che ognuna di queste etnie osserva nei suoi
rapporti giuridici quotidiani regole giuridiche completamente diverse”.
Ecco allora la de nizione di diritto vivente: il diritto può essere sia di origine statuale che
extrastatuale e quelle statuali che regolano le relazioni sociali sono in nitamente meno di quelle
non statuali che regolano il medesimo fenomeno. Dice ancora Ehrlich che “Il nostro moderno
diritto di famiglia è, prima di tutto, un ordinamento sorto non dai precetti di un codice ma dai
bisogni degli individui che vivono nella famiglia ed è quindi destinato a cambiare e a svilupparsi in
conformità a questi bisogni”.
Implicazioni della teoria di Ehrlich:
1. il diritto positivo, scritto nei codici e nelle leggi, pur essendo u cialmente quali cato come
giuridico in virtù della sua origine statuale, risulta “invisibile” per il sociologo che studia la
realtà sociale se non viene riconosciuto nei comportamenti e ettivamente tenuti dai
consociati.
2. lo Stato si pone, di fronte all’individuo, come una fra le tante forme di raggruppamento sociale
che producono diritto.
Detto questo e da questa idea di diritto vivente, Ehrlich trae una conseguenza:
3. La sociologia del diritto è l’unica vera scienza del diritto, che osserva la realtà e con un
metodo induttivo costruisce la teoria.
Questa posizione di Ehrlich si ricorda perché tra lui ed un autore, Hans Kelsen, ha avuto luogo
una contrapposizione storica. Da una parte c’è Ehrlich che ritiene la sociologia del diritto l’unica
scienza del diritto (sociologia>tutte le altre scienze che studiano il diritto); dall’altra c’è Kelsen che
ritiene che la sociologia del diritto sia la scienza che si occupa dell’”essere del diritto”, ma

41
fi
fi
ff
fi
fi
ffi
ff
ff
fi
fi
fi
fl
fi
accanto ad una scienza giuridica che si occupa del “dover essere del diritto” (sociologia=scienza
giuridica, nel senso che sono sullo stesso piano ma si occupano di aspetti diversi).

Tra gli altri autori che hanno sposato la concezione anti-formalistica del diritto, in Italia troviamo
Santi Romano, che presenta la sua teoria a partire dal concetto di istituzione. Lui de nisce
l’istituzione come “qualsiasi corpo sociale che abbia un’esistenza obbiettiva e concreta,
visibilmente esistente ed unitario, superiore rispetto agli individui che in un dato momento ne
fanno parte, e che si caratterizza nella sua organizzazione attraverso un complesso di norme, e
quindi un ordinamento giuridico-normativo”. Romano applica questo concetto di istituzione ad
una serie di corpi sociali, che possono essere l’ordinamento internazionale, la Chiesa, le istituzioni
che lo Stato ignora, o ancora istituzioni private riconosciute dallo Stato, che si sono dotate di un
proprio sistema di norme (come le associazioni, fondazioni etc…), e che in qualche modo
competono e vivono nel medesimo ambito sociale ma non per forza nel medesimo corpo
normativo prodotto dallo Stato.

Vediamo ora in che modo questa lente del pluralismo giuridico, condivisa dalla maggior parte
degli studiosi e dei sociologi, può aiutare a comprendere le dinamiche del diritto contemporaneo.
Non c’è dubbio che negli ultimi decenni la prospettiva del pluralismo giuridico ha ricevuto un
nuovo impulso dal fenomeno riconducibile alla crisi della sovranità statale, con lo Stato-nazione
inteso come ordinamento accentrato e monopolizzatore del potere normativo. Questo perché la
crisi dello Stato produce due dinamiche che interessano il diritto: da un lato l’a ermazione di una
normatività oltre lo Stato, in una dimensione transnazionale; dall’altro l’a ermazione di una
normatività infra-nazionale, costruita da soggetti che si pongono al di sotto dello Stato (per
esempio i movimenti Baschi in Spagna, o i Catalani).

«Il pluralismo giuridico veicola l’idea…che il sociale non sia più concepibile come un ambito che il
politico possa plasmare mediante la relazione verticale Stato-cittadino, ma debba piuttosto essere
visto come un sistema complesso, irriducibile a un unico modello giuridico. Solo un discorso
capace di tracciare i luoghi decentrati dell’autorità e di guardare alla varietà di forme in cui si
danno modelli alternativi di guida delle condotte, così come di intercettare istituzioni sommerse e
dare conto della sostanziale molteplicità della legge, può raccogliere la s da di una
contemporaneità non più decifrabile con gli strumenti concettuali delle teorie politico-giuridiche
nate nell’alveo della statualità moderna».
Questa ri essione di Croce, Vassalle e Venditti ci fa capire bene che la prospettiva pluralistica
può essere abbracciata tanto da chi riconduce il diritto a quelle norme del diritto dello Stato, ma è
una lente che ci fa capire che i nostri tempi vivono di trovare attori, istituzioni sommerse che ci
permettono di complicare, e allo stesso tempo di rendere più intellegibili, le relazioni sociali del
nostro tempo.

E allora, per esempio, il francese Francois Ost ci propone un nuovo paradigma del diritto che
supera proprio l’idea verticale Stato-società: propone di passare da una lettura del diritto di tipo
piramidale (dove lo Stato sovrano è all’apice della produzione del diritto), ad un paradigma che
veda il diritto attraverso, come una rete, in cui si intersecano attori diversi, nazionali, locali,
internazionali, tutti impegnati a produrre il diritto. C’è dunque nella sua visione una proliferazione
di attori che producono diritto.

Che cosa signi ca normatività oltre il diritto dello Stato? Pensiamo ovviamente ai poteri
transnazionali, come quelli dell’Unione Europe o della Comunità Europea, e il diritto che
producono, pensiamo alla lex mercatoria, pensiamo a tutti quei modelli contrattuali tipizzati
(franchising, leasing, factoring) che sono elaborati da attori diversi dallo Stato, molto più vincolanti
ed utilizzati da quei soggetti economici forti che hanno bisogno di un diritto che vada al di fuori e
che sia comune, al di là dell’appartenenza allo Stato. Proprio l’idea di questi modelli contrattuali
42
fl
fi
ff
ff
fi
fi
tipizzati ci fa capire sia quanti attori diversi dallo Stato producano norme giuridiche concorrenti
anche alle norme dello Stato, sia che si tratta di norme utilizzate per avere un diritto che uni chi le
relazioni, che permetta a soggetti di stati diversi di parlare e di portare avanti con minor dispendio
e maggio successo le proprie relazioni. Riassumendo c’è una vera e propria tendenza ad
uni care il diritto, voluta prevalentemente dai soggetti economici forti.

Se guardiamo invece al localismo (normatività infra-nazionale) troviamo molti esempi di


rivendicazioni locali (movimenti regionalistici, localistici, etnici), troviamo una serie di movimenti
che sono frutto di una forte spinta alla di erenziazione, alla tutela dei particolarismi, alle
rivendicazioni delle identità. C’è dunque una tendenza a costruire diritti che siano applicabili a
gruppi di persone, ad aree geogra che delimitate.

Le teorie pluralistiche del diritto si sviluppano anche nella visione soggettivistica del pluralismo
giuridico, che richiama tendenzialmente il concetto di pluralismo normativo. Tra queste
prospettive accomuna il fatto che l’attenzione venga posta sull’attore sociale, cioè sull’individuo.
Queste prospettive soggettivistiche partono dall’idea che gli individui sono in uenzati, nelle loro
scelte e nelle loro azioni, da una molteplicità di norme che derivano da fonti di erenti.
La visione soggettivistica del pluralismo parte proprio da quella che Boaventura de Sousa
Santos, sociologo del diritto portoghese, identi ca come caratteristica molecolare: una
caratteristica dei soggetti che si trovano coinvolti in dinamiche di pluralismo. Ogni spazio, ogni
contesto, ogni a liazione di gruppo (la famiglia, la nazione, l’etnia, la classe sociale) produce la
sua normatività. L’individuo appartiene a più gruppi e si trova per questo nel mezzo di una rete di
interlegalità. Il pluralismo non si basa più sull’idea dell’esistenza di diversi ordinamenti come
entità separate ma considera l’intreccio e le interrelazioni tra i diversi tipi di norme, che da un
punto di vista dogmatico non de niremmo tutte giuridiche, ma che è troppo di cile e neanche
necessario de nire giuridiche o non giuridiche per capire la complessità dell’orizzonte normativo
delle persone e delle società contemporanee.

Proviamo a pensare da un punto di vista descrittivo-critico-sociologico il diritto nelle società


multiculturali contemporanee ed il pluralismo che le rappresenta. Noi potremmo individuare delle
norme statuali dei paesi di provenienza delle persone straniere che vivono oggi in Italia, delle
norme statuali italiane, troveremo poi norme consuetudinarie, religiose e familiari che si
intrecciano innanzitutto e costituiscono l’orizzonte normativo della persona, ma ciò che più
interessa è l’in uenza che tali norme, riconducibili a fonti diverse, producono nelle scelte e nelle
azioni. Si tratta ovviamente di un complesso di norme ampio ed eterogeneo. Non si individuano
due o più ordinamenti giuridici, diventa di cile de nire tutte queste norme come giuridiche, ma
sono certamente vincolanti.

Per concludere possiamo certamente a ermare che la lente del pluralismo sia diventata utilizzata
e accolta sia dalla sociologia del diritto sia dalle altre scienze “esterne” al diritto, così come anche
da molti rami del diritto stesso. Questa lente interpreta e vede la realtà sociale e giuridica come
una realtà complessa, caratterizzata dal fatto che gli attori sociali sono avvolti in una rete
scon nata di relazioni giuridiche, e sono simultaneamente partecipi di sistemi normativi diversi a
seconda delle loro singole azioni e relazioni. Questo disordine nella concezione del diritto deriva
dalla messa in discussione della coincidenza tra diritto e diritto dello Stato.

13. Istituzioni nella prospettiva della sociologia del diritto

Noi prendiamo il concetto di istituzione proposto da Luciano Gallino, importante sociologo


italiano.Tra i vetri modi di concepire le istituzioni lui propone di intenderle come: “complesso di

43
fi
fi
fi
fl
ffi
fi
fi
ff
ffi
ff
fi
fi
ff
fl
ffi
fi
PARLAMENTO PARLAMENTO GOVERNO REGIONE COMUNE
EUROPEO ITALIANO

1° posto
22 63 65 20 17

4° e 5°
103 23 39 94 117
posto

valori, norme, consuetudini che con varia e cacia de niscono e regolano durevolmente, in modo
indipendente dall’identità delle singole persone e di solito al di là della durata della vita di queste:
a. I rapporti sociali e i comportamenti reciproci di un determinato gruppo di soggetti la cui attività
è volta a conseguire un ne socialmente rilevante (per esempio un’associazione).
b. I rapporti che un insieme non determinabile di persone hanno e avranno con tale gruppo senza
farne parte (una istituzione come il matrimonio de nisce e regola da un lato i rapporti tra i coniugi,
dall’altro i rapporti che altri devono tenere con i coniugi ogni volta che abbiano a che fare con loro
- anagrafe, giudici → questa è un’idea di istituzione molto feconda nello studio sociologico
dell’istituzione stessa perché tiene insieme tanto una dimensione statica quanto una dinamica).
Per estensione è detta istituzione un insieme di persone la cui attività è così de nita e regolata
(scuola, università, ospedale, impresa)”.
L’istituzione è al centro dello studio sociologico giuridico. Lo studio delle istituzioni per la
sociologia del diritto è tanto uno studio sincronico, tanto uno studio diacronico; cioè tanto uno
studio “fotogra co” di una istituzione, la sua composizione, le sue caratteristiche, come si forma.
Abbiamo una formazione spontanea, attraverso dei lenti processi che tipizzano i comportamenti
e che producono norme che possono subire, alla ne, una normazione di tipo giuridico; abbiamo
anche istituzioni intenzionali, cioè che vengono create attraverso il diritto per esempio (es. il
divorzio).
La sociologia del diritto studia quindi le istituzioni analizzando la nascita e l’istituzionalizzazione,
la struttura e i mutamenti: in questo senso parliamo di analisi diacronica e sincronica.

Istituzione della famiglia


La famiglia è un’istituzione particolarmente importante, ma non soltanto da un punto di vista
culturale, sociale (la famiglia è una delle istituzioni fondamentali della società). È particolarmente
importante anche da un punto di vista sociologico-giuridico perché è l’istituzione che, più di altre,
ci racconta il rapporto tra mutamento sociale e mutamento giuridico, e ce lo racconta sia nel
senso del mutamento giuridico a partire dal mutamente sociale, sia al contrario del mutamento
giuridico che in uenza il mutamento sociale. La famiglia, come istituzione sociale, ci racconta
molto del mutamento della società; il mutamento della società incide sulla struttura, sulla
composizione ed anche sul signi cato della famiglia, e tutto questo produce sollecitazioni verso il
diritto che a sua volta viene modi cato a partire dal mutamento che la famiglia vive nella società.
Questo non esclude però il procedimento contrario: può essere anche il diritto a farsi promotore di
mutamento (creando istituzioni, promuovendo dei cambiamenti nel diritto, che vanno poi ad
incidere sulla famiglia come istituzionale sociale).
Guarderemo oggi la famiglia con la lente diacronica: cercheremo di mettere in luce il rapporto tra
diritto della famiglia e società. Tenere distinti gli aspetti ci permette vedere quando, come e
attraverso quali soggetti sociali c’è stato un mutamento dell’istituzione della famiglia e come
viceversa il diritto ha promosso mutamenti nella famiglia.

44
fi
fl
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
Ma cosa si intende per famiglia? Si intendono moltissime cose, ma poniamo ora l’attenzione su
quattro concezioni di famiglia:
• Concezione laica: intesa come una relazione caratterizzata da un minimo di stabilità.
• Concezione cristiana: veicola e lega il concetto di famiglia all’istituzione del matrimonio.
• Concezione sociologica e antropologica: possiamo parlare di famiglia nucleare, composta da
genitori ed eventualmente gli; sappiamo bene che in certi momenti storici e in certe società, la
famiglia nucleare è un’istituzione sociale molto meno importante della famiglia estesa (pensiamo
alle società contadine).
• Concezione giuridica: da un punto di vista diacronico, ma anche leggendo documenti giuridici
diversi, abbiamo una concezione di famiglia fondata sul matrimonio, ma abbiamo anche
sviluppato, in certi paesi più che in altri, un’idea giuridica di famiglia di fatto o monogenitoriale
(sono diversi tipi di famiglia che ritroviamo però tutti nel diritto).

Da un punto di vista diacronico, e concentrandoci particolarmente sul nostro paese, possiamo


delineare alcuni mutamenti che hanno investito la famiglia tradizionale in Italia.
In un’analisi ad ampio raggio noi potremmo certamente sostenere che si sia passati:
• da una famiglia estesa ad una nucleare, che ha acquisito nel tempo una crescente importanza
sino a sostituire il valore e l’importanza della famiglia estesa;
• abbiamo un mutamento della famiglia che, da fondata sul matrimonio, passa ad essere
semplicemente fondata sulla relazione;
• da una concezione sociale di famiglia composta da coniugi e gli, ad una concezione di famiglia
composta da uomo e donna, in cui i gli non rappresentano più una componente essenziale per
concepire una relazione a ettiva nel senso di famiglia;
• si è passato dalla concezione di famiglia uomo donna alla famiglia composta da donna-donna/
uomo-uomo.
Dunque l’idea di famiglia cambia nel tempo, con variazioni sensibili da una società all’altra, che
sono in uenzate da fattori di tipo sociale, politico etc. A seconda del luogo e del tempo tutte
queste relazioni sono rilevanti socialmente, e/o giuridicamente.

Il rapporto tra società-famiglia-diritto è complesso perché la famiglia è innanzitutto


un’istituzione sociale, con la propria cultura e la propria normatività, che va a relazionarsi con un
mondo giuridico che è formato da norme che non stanno, se non molto di cilmente, al passo con
i tempi e i cambiamenti → rapporto tra famiglia e diritto è sempre molto complesso, fatto di
rivendicazioni e tendenze altalenanti del diritto nella famiglia tra astensione e intervento.
Tendenze altalenanti, in cui le variabili che incidono sono diverse (variabili politiche, variabili
sociali), tra mutamento sociale che precede e muta il diritto e invece tra un diritto che si impone,
modi cando la cultura familiare. Abbiamo due tematiche che dimostrano bene queste due
tendenze: i gli nati fuori del matrimonio sono infatti un perfetto esempio di come il mutamento
sociale ha preceduto un intervento giuridico, che si è reso necessario in nome dell’uguaglianza tra
gli e della libertà. Il recepimento dell’idea del glio nato fuori del matrimonio come glio legittimo,
quindi pari cato al glio nato in una famiglia fondata sul matrimonio, è stata una conquista lente
ma necessaria della nostra civiltà giuridica. Dall’altra parte, l’interesse del minore è una classica
questione che mostra come il diritto, che interviene a partire da convenzioni internazionali,
stabilisce dei principi fondamentali che, rispetto alla maggior parte delle società, si pongono
come antesignani di una cultura sociale del glio e della famiglia ancora non presente nella
società.

Se rimaniamo nell’ambito di un’analisi diacronica, il mutamento della famiglia come istituzione


giuridica è stato interpretato, per esempio da due sociologi del diritto italiani (Pocar e Ronfani),
come passaggio da “famiglia fondata sullo status” a “famiglia fondata sul contratto”, riprendendo
una teoria di Sumner Maine che applicava quest’idea del passaggio da status a contratto alle
evoluzioni delle società. Leggiamo che “da un punto di vista diacronico possiamo leggere i
45
fi
fi
fl
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
mutamenti nelle relazioni familiari, anche attraverso l’intervento del diritto, come un passaggio da
status (la posizione dell’individuo ne determina i diritti e i doveri - tipo l’essere moglie) al contratto
(i diritti e i doveri sono basati sulla decisionalità, l’autonomia, l’uguaglianza)”.

La famiglia fondata sullo status è una famiglia connotata giuridicamente da identità forti,
costruite sui doveri e diritti prestabiliti in base alla posizione e all’età della persona; è una famiglia
che presenta gerarchi e rapporti di potere forti (pensiamo al pater familias). Pocar e Ronfani in
merito scrivono che “Lo status rappresenta l’elemento portante del modello della famiglia, che si
traduce nell’istituzione, caratterizzata dalla continuità nel tempo e dal sovraordinamento delle sue
funzioni e della sua stessa ragion d’essere rispetto agli individui che la compongono”. La famiglia
fondata sullo status, come istituzione sociale, ha nel diritto un riconoscimento in quanto famiglia,
e questa famiglia è più rilevante dei diritti e dei membri che ne fanno parte.

Quell’idea di concezione di famiglia contenuta nel codice civile del 1942 (che parlava di interesse
superiore della famiglia rispetto ai diritti e ai doveri dei suoi membri) viene in parte superata.
La storia della famiglia come istituzione sociale e politica è una storia di lenta e progressiva
rivendicazione e riconoscimento dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Parliamo appunto
di un processo molto lungo che è frutto di lotte di movimenti e rivendicazioni che hanno portato,
nel tempo, a delle riforme importanti del diritto e ad un lento ma inesorabile continuo mutamento
nella concezione di famiglia (in particolare ci riferiamo alla concezione dei diritti e dei doveri dei
membri come concezione volta all’idea dell’uguaglianza uomo-donna).
Sarà un percorso lento e complicato perché il fatto di riconoscere come famiglia soltanto la
formazione fondata sul matrimonio (il problema del divorzio non venne a rontato dai nostri padri
costituenti) non ha cancellato nella nozione di famiglia quel carattere istituzionale per cui l’unità
familiare viene mantenuta come valore fondamentale di portata pubblicistica, sovra-ordinata alle
aspirazioni individuali e posto come limite del principio di uguaglianza tra i coniugi.
Ci sono delle conseguenze in questa concezione costituzionale della famiglia. Per esempio
Calamandrei, un giurista fondamentale nella cultura giuridica del nostro paese, sostenne che “la
diseguaglianza giuridica dei coniugi è un’esigenza di quella unità della famiglia, di quella società,
che, per poter vivere, ha bisogno di essere rappresentata e diretta da una sola persona”.
Il principio di uguaglianza tra i coniugi rimane a lungo, e rimase a lungo anche per mezzo della
giurisdizione, che sarà però poi, negli anni ’70, l’istituzione attraverso la quale verrà
de nitivamente promossa tale uguaglianza. Fino agli anni ’70 le donne non potevano entrare in
magistratura, ci furono poi molte ricerche sociologiche che mostrarono gli e etti di tale mancanza
(magistratura tutta al maschile e concezione giuridica di famiglia fondata sulla disuguaglianza dei
coniugi). A lungo la magistratura ha riconosciuto maggior rilevanza all’unità familiare rispetto al
principio di uguaglianza: abbiamo molte sentenze, no agli anni ’70, in cui viene negato il diritto al
lavoro della donna, molte sentenze sul comportamento della donne e l’onore familiare,
sull’adulterio etc. In diverse pronunce della giurisprudenza troviamo, per esempio, riconosciuto il
diritto del marito di vietare alla moglie lo svolgimento di un lavoro che potesse distrarla dalle cure
della famiglia; il diritto di vigilanza del marito sulla moglie; pronunce sull’adulterio in cui il punto
fondamentale è proprio quelle del bene tutelato, cioè la procreazione e la certezza della paternità
piuttosto che la relazione tra i coniugi. Tutte queste posizioni sono state superate attraverso lotte
di donne per la completa uguaglianza tra coniugi e tra uomo e donna. Anche il codice penale,
all’art. 559 cp, punisce la moglie adultera con la reclusione.
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, con due sentenze fondamentali del ’68
(sentenze 126/127 del 1968 C. Cost.), abbiamo dei mutamenti signi cativi che danno il via a un
progressivo mutamento dell’istituzione giuridica nella famiglia. La Corte Costituzionale avvia un
vero e proprio processo di revisione della legislazione. La sentenza 126 pone ne alla di erenza
di trattamento in tema di adulterio, e vi si legge anche che “Il principio che il marito possa violare
impunemente l'obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita - più o
meno severamente - rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata per no
46
fi
fi
fi
ff
ff
fi
ff
fi
giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà
maritale”. La Corte riprende anche, in una prospettiva se vogliamo sociologica, questa necessità
di portare il diritto ai tempi del mutamento sociale vissuto dalla famiglia. La sentenza 127
sancisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 cpp e, in questa decisione, la Corte ritiene che il
legislatore non può collegare ad un’identica violazione della fedeltà coniugale conseguenze
giuridiche diverse, a seconda che i fatti siano posti in essere dal marito o dalla moglie.
Anche queste pronunce della ne degli anni ’60, caratterizzati da movimenti sociali, da un
movimento femminista e da un panorama politico molto attivo, hanno in realtà origine a partire
dalla ne degli anni ’50 e sono trasformazioni che non si limitano al diritto, ma arrivano al diritto a
partire da mutamenti sociali. In primis il processo di urbanizzazione: il fatto che la famiglia
nucleare acquisti terreno a discapito di quella estesa dipende anche da questo fattore, che porta
ad una vita, anche dal punto di vista della abitazioni, molto diversa rispetto a quella delle
campagne. Poi c’è anche da tener conto di una contrazione delle nascite, dovuta al fatto che la
donna iniziava ad inserirsi nel mondo del lavoro; della secolarizzazione della società e delle
relazioni familiari, che tra gli anni ’50 e ’70 si incrocia con rivendicazioni politiche importanti; ci fu
un aumento ed una sedimentazione di relazioni familiari di coppia connotati dall’a ettività,
indipendentemente dal tipo di relazione giuridicamente fondata; idea che matura nel tempo della
dissolubilità del matrimonio.
Tutto questo porta al passaggio dalla famiglia fondata sullo status a quella fondata sul
contratto; da una società piramidale, basata sull’autorità strati cata, ad una orizzontale,
basata su scelte individuali e su mutamenti di ruoli.
Abbiamo dei momenti fondamentali nei quali possiamo riconoscere il recepimento da parte del
diritto dei mutamenti che l’istituzione sociale della famiglia ha vissuto e ha sedimentato:
• introduzione del divorzio nel 1970;
• riforma del diritto di famiglia nel 1975;
• tutela della maternità e interruzione volontaria della gravidanza nel 1978;
• legge di modi ca della disciplina del divorzio (3 anni invece di 5 o 7 nel caso di opposizione
dell’altro coniuge) nel 1987.
Questi rappresentano i momenti di maggiore cambiamento giuridico, ma ce ne sono anche altri.
Riforma del diritto di famiglia (1975): è importante ricordare i quattro punti fondamentali.
I. Passaggio dalla potestà del marito alla potestà dei coniugi
II. Eguaglianza dei coniugi, estendendo alla moglie i diritti relativi al governo della famiglia
III. Mutamenti nell’ambito del regime patrimoniale della famiglia
IV. Istituzione della separazione dei coniugi
È chiaro che questa riforma è frutto di un compromesso, come spesso accade, tra diverse
posizioni e diverse concezioni politiche della famiglia. Nelle discussioni parlamentari ogni partito
ha cercato di far con uire la propria idea di famiglia in una riforma, ed abbiamo avuto una
polarizzazione tra sfera di autonomia e interesse sociale. Da una parte la visione cattolica ha
cercato di mantenere e di forti care un’idea di famiglia come comunità, con sì un’uguaglianza dei
coniugi, ma anche con una gerarchia di responsabilità; dall’altra il partito socialista proponeva
un’idea di famiglia che deve godere di una piena autonomia, caratterizzata dalla piena
uguaglianza dei coniugi, e in cui l’intervento pubblico sulla famiglia deve avvenire solo in caso di
regolazione della separazione (idea della famiglia come sfera privata in cui il diritto può entrare
solo in certe situazioni).

Un’altra questione di grande interesse è quella della tutela del minore e dei suoi diritti. Abbiamo
qui un vero e proprio percorso che parte dal diritto e va verso la società, e che parte
convenzionalmente con la Convenzione ONU del 1989, che a erma una serie di diritti che
pongono il “fanciullo”, all’interno della famiglia, in una posizione primaria. Domina l’idea che il
minore sia un soggetto di diritto pieno, che deve a ermare la sua posizione, il proprio stato.
Questa convenzione ONU a erma proprio questo diritto del minore di partecipare in prima

47
fi
fi
fl
ff
fi
fi
ff
ff
fi
ff
persona alla propria formazione e alle scelte che lo riguardano. Si tratta di un documento molto
importante poiché portò una serie di mutamenti nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali.

Da questa analisi possiamo tratte alcuni spunti di ri essione: da un lato chiederci, di fronte ai
mutamenti della società, che tipo di rapporto ci sia tra famiglia sociale e giuridica. Si tratta di un
rapporto peculiare tra la normativa che nasce e si consolida spontaneamente dentro la famiglia e
la normativa politica sulla famiglia. A volte la prima si impone alla seconda, perché resiste ai
mutamenti o li provoca anticipandoli. Altre volte il diritto si impone. Le riforme del diritto di famiglia
degli anni settanta hanno spesso recepito mutamenti già in atto nella società. L’idea che il minore
sia soggetto di diritto, il principio di interesse del minore, attraverso la sua partecipazione,
protezione è nata prima nel dibattito politico e giuridico che nella cultura familiare.
Se osserviamo il rapporto tra diritto e famiglia nella prospettiva della astensione dell’intervento
politico, possiamo certamente notare la tendenza di uno spazio sempre maggiore dell’autonomia
delle persone nella scelta delle relazioni a ettive: c’è un incremento delle coppie non sposate, nel
controllo delle nascite, nella tendenza di regolare la separazione e il divorzio in maniera negoziale
e non contenziosa. Al contrario, nel campo dei diritti dei minori notiamo che l’intervento del diritto
si è accentuato: il diritto interviene attraverso il giudice, operatori giuridici, psicologi ed assistenti
sociali.

48
ff
fl
14. I diritti
I diritti sono:
• in senso soggettivo → right: parliamo di pretese legittime fondate su una norma morale o
giuridica, a seconda della concezione dei diritti che facciamo nostra.
• in senso oggettivo → law: avere un diritto, possiamo dire che si tratta di avere aspettative che
trovano giusti cazione in una norma.

Il consolidamento dei diritti è frutto della loro istituzionalizzazione: i diritti, dunque, possono
essere pensati come istituzioni, oppure, in relazione all’idea delle istituzioni, come complesso di
valori, di norme che de niscono e regolano, indipendentemente dall’identità delle singole
persone, e se vogliamo indipendentemente dai diritti associati a singole persone, che regolano i
rapporti sociali e i comportamenti nell’ambito di uno spazio sociale.
Abbiamo evidentemente molte teorie sociologiche, e non solo, di analisi sincronica e diacronica
dei diritti. Vediamo ora, con una prospettiva diacronica in particolare, di analizzare il processo di
istituzionalizzazione dei diritti, inteso come a ermazione e positivizzazione, nel senso di diritti che
sono una norma che giusti ca delle nostre pretese.
Una posizione certamente interessante nell’analisi del processo di istituzionalizzazione dei diritti è
quella assunta da Gregorio Peces-Barba Martinez, teorico del diritto e uno dei padri della
Costituzione Spagnola, che nella sua ‘Teoria dei diritti fondamentali’ del 1996 spiega come i diritti
fondamentali nascano innanzitutto come pretese morali, rivendicate a livello sociale attraverso tre
processi storici:
Positivizzazione: primo processo che trasforma le pretese morali in diritti. Questo processo
rappresenta la progressiva consapevolezza della necessità di dotare l’idea del diritto soggettivo,
inizialmente concepito come diritto naturale, di uno statuto giuridico che permetta la loro
applicazione e cace, la loro tutela e la concreta protezione dei soggetti che ne sono titolari.
Questo processo fa sì che a partire dal XIX secolo la positivizzazione diventi condizione
essenziale a nché i diritti abbiano e cacia sociale. Non è un caso che tutte le Costituzioni li
recepiscano come aspetti fondamentali della cultura giuridica e dell’idea del diritto stesso. È
importante tale processo, nell’idea del diritto soggettivo, perché senza positivizzazione il diritto
resta incompleto, rimane un’idea morale e non un concetto giuridico.
Generalizzazione: secondo processo che fa riferimento ad un progressivo, benché non de nitivo,
superamento dell’opposizione tra l’idea che i diritti siano naturali, e dunque che spettino a tutti gli
esseri umani, e una pratica storica restrittiva che limitava il godimento di tali diritti ad una sola
classe sociale (la borghesia) e ad un solo sesso (gli uomini). Questo processo equivale dunque
all’estensione dei diritti.
Internazionalizzazione: terzo processo che, come il secondo, e ettua una estensione dei diritti.
Si tratta di un superamento dei con ni territoriali nell’ambito dei quali l’idea dei diritti soggettivi e
la loro proclamazione è stata maturata e sancita: è l’idea che qualunque essere umano in
qualunque luogo si trovi sia titolare, per il fatto stesso di essere un essere umano, di determinati
diritti. Quest’ultimo processo rappresenta un’importante a ermazione giuridica, attraverso le
Carte che tutti conosciamo, di dichiarazione e a ermazione dell’universalità dei diritti.

49
ffi
fi
ffi
fi
fi
fi
ffi
ff
ff
ff
ff
fi
Un altro autore che viene spesso considerato e citato nelle analisi sociologiche di tipo diacronico
relative ai diritti, cioè le analisi che vanno a vedere le ragioni e la fasi attraverso le quali i diritti si
sono a ermati, è Thomas Marshall (1939-1981). Quest’ultimo scrisse un testo, ‘Citizenship and
Social Class’ nel 1950, nel quale associa il diritto di cittadinanza al concetto di libertà, e collega lo
sviluppo e l’a ermazione dei diritti con il concetto di libertà. Marshall delinea l’a ermazione dei
diritti fondamentali attraverso l’a ermazione di tre diversi tipi di diritti: prima i diritti civili, poi i
diritti politici ed in ne i diritti economico-sociali. Il riconoscimento di questi tre gruppi di diritti è
legato secondo Marshall all’evoluzione delle istituzioni dello stato moderno e, in qualche modo,
l’a ermazione di ciascuna di queste categorie di diritti corrisponde alla creazione di istituzioni o di
ideologie nalizzate alla loro tutela. L’idea di Marshall è che la storia rivela un lento processo in cui
il concetto di cittadinanza come condizione giuridico-sociale di piena a ermazione dei diritti del
cittadino, assorbe progressivamente i principi civili (nel XVIII sec.), politici (nel XIX sec.) e sociali
(XX sec.) arricchendosi dei corrispondenti tipi di diritti: i diritti civili necessari alla libertà
individuale, quelli politici per la partecipazione all’esercizio del potere e in ne quelli sociali, cioè
tutta quella gamma di diritti che mirano a garantire il benessere e la sicurezza.
«(...)L’elemento civile è composto dai diritti necessari alla libertà individuale: libertà personali, di
parola, di pensiero e di fede, il diritto di possedere cose in proprietà e di stipulare contratti validi,
e il diritto a ottenere giustizia...
(...)Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all’esercizio del potere politico, come
membro di un organo investito di autorità politica o come elettore dei componenti di un tale
organo...
(...)Per elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza
economici no al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona
civile, secondo i canoni vigenti nella società…»
I. La fase dei diritti civile ri ette il concetto più profondo della libertà: la libertà da. Può essere la
libertà dalle interferenze non giusti cate da parte di soggetti pubblici e privati e quindi la
libertà di coscienza, di pensiero, di associazione, di espressione, di religioni e di movimento. A
questi diritti corrisponde un dovere che si realizza nell’astensione. L’idea che sta dietro
all’a ermazione di tali diritti è quella del liberalismo.
II. La fase dei diritti politici vede implicitamente una concezione attiva della libertà: la libertà di. I
diritti politici corrispondono ai diritti del soggetto memento di una comunità politica e quindi
parliamo dei diritti di partecipazione, di eleggere i propri rappresentanti e di farsi eleggere. Qui
il dovere corrispondente grava sui poteri pubblici: si tratta di un dovere attivo che consiste
nel permettere ai cittadini di partecipare alla cosa pubblica. L’idea che sta dietro

Tensioni interne Tensioni esterne

Entrano nel diritto e nelle istituzioni dello Stato Normatività prodotta non dagli Stati ma da altri
istanze, pratiche, principi di carattere globale che attori che si collocano dentro, oltre, attraverso gli
snaturano la tradizionale autoreferenzialità e Stati
autonomia.
→ diritto infranazionale (pensiamo alla rilevanza
Gli attori della globalizzazione chiedono agli Stati crescente della normatività locale), sovranazionale (UE),
di farsi portatori di interessi che vanno oltre la transnazionale (indifferente al territorio).
misura dei loro tradizionali territori

→ forum shopping (ricorso a diritti ‘stranieri’ per regolare


rapporti privati

all’a ermazione di questi principi è quella di democrazia.


50
ff
ff
ff
ff
fi
fi
ff
fi
fl
ff
fi
ff
fi
ff
III. Il godimento della libertà da interferenze e della partecipazione dipende dal godimento dei
diritti economico-sociali. Qui abbiamo una visione attiva della libertà: una libertà di diritto alla
salute, al lavoro, all’istruzione. L’attuazione di questi diritti implica un intervento/dovere
ancora più attivo da parte dei pubblici poteri, senza il quale il godimento dei primi non può
essere possibile (pensiamo per esempio all’art. 4 Cost.: la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro - nel momento in cui lo riconosce signi ca che si rende parte attiva
ed ha un dovere attivo a nché si possa godere di tale diritto). L’idea che sta dietro a tali diritti
è quella dell’a ermazione del Welfare State-socialismo.

Dobbiamo però interrogarci ora, coniugando ad un’analisi concettuale una prospettiva diacronica
(storica), su chi è il soggetto di diritto. Chi è il titolare dei diritti? Chi è l’attore di diritto?
Per rispondere a questa domanda estremamente complessa utilizziamo le parole di un grande
giurista: Stefano Rodotà. Egli a erma che è chiaro che partiamo da un’idea di chi è il soggetto
universale del diritto: il soggetto universale del diritto è il soggetto astratto e neutrale che
rappresenta uno dei fondamenti della teoria moderna del diritto. Rodotà ci dice che: “attraverso la
costruzione del soggetto astratto (riprendiamo qui l’idea del processo di generalizzazione di
Peces-Barba) […] era stato possibile liberare formalmente la persona dalle servitù del ceto, del
mestiere, della condizione economica, del sesso, che fondavano la società della gerarchia e della
diseguaglianza (l’idea che il soggetto di diritto è universale ed è la ‘persona’ al di là ed
indipendentemente dalla sua condizione economica, dal ceto e dal sesso, è una conquista
grandissima per il diritto)”. Lo stesso Rodotà aggiunge poi che “per una lunga fase storica, il
bene ciario in realtà della pienezza della soggettività giuridica (non è stato qualunque uomo libero
e sganciato dalla sua condizione economica, dal sesso etc.) è stato soltanto l’uomo borghese
maschio, maggiorenne, alfabetizzato, proprietario”. Oggi noi potremmo aggiungere certamente
che questo uomo è bianco, eterosessuale, normodotato e cittadino. Ciò sta a signi care che il
soggetto di diritto pieno, e destinatario della norma giuridica e al tempo stesso del diritto, è stato
a lungo non un soggetto astratto, è una falsa neutralità quella del soggetto astratto del diritto
perché il diritto ha a lungo avuto in mente un soggetto situato particolare che è esattamente
quello descritto da Rodotà, e che ci consegna non solo lui ma che ricaviamo anche da quelle che
vengono chiamate ‘teorie critiche del diritto’, dalle teorie post-moderne e da tutte quelle che sono
in parte frutto di movimenti sociali e in parte di elaborazione critica del diritto proveniente da più
prospettive e studi (es. Critical Race Theories, Teorie dei Law and Economics, Femminismo
giuridico, Studi post-colonial etc.). Tutti questi studi spostano dal margine al centro dei soggetti
che a lungo sono stati tenuti fuori dal discorso giuridico, con un ruolo marginale: l’idea è proprio
quella di porre al centro, di far vedere ed emergere le soggettività situate, le persone che allo
stesso modo dell’uomo borghese, maschio etc. sono soggetti di diritti in quanto persone.
Dunque l’idea di soggettività astratta è stata ormai ampiamente messa in discussione ed in parte
superata e, a partire dalla metà del Novecento, sono state progressivamente riconosciute delle
soggettività diversa da quella solo astrattamente universale. Vi è stata una emersione e una
rilevanza dei cd. soggetti di diritto ‘situati’: è proprio l’idea di sostituire un concetto astratto con
uno concreto, di dare forza alle soggettività che le persone e gli attori sociali rappresentano e che
solo attraverso la loro soggettività possono indicare e mostrare le di erenze e dunque la necessità
di una considerazione particolare da parte del diritto. Alcuni esempi possono chiarire questa
presa di coscienza e questa modi cazione nell’ambito del diritto: si tratta di esempi che ci
portano indietro nel tempo e che ci fanno capire come il mondo del diritto sia estremamente
intrecciato a quelli che sono i movimenti sociali, di rivendicazione etc. Quando parliamo di un
diritto che viene sollecitato tanto dai movimento sociali quanto dalle teorie critiche che
nell’ambito giuridico e delle scienze sociali vanno via via a ermandosi, possiamo pensare per
esempio ai movimenti femministi e, insieme a loro, agli studi critici, quindi al femminismo ed al
femminismo giuridico, che insieme hanno portato dal margine al centro la donna come soggetto
situato che va a porsi accanto a quello che è un’altrettanto soggetto situato che è l’uomo
maschio, il soggetto falsamente neutrale. Possiamo poi pensare ai movimenti per i diritti civili
51
fi
ff
ffi
ff
fi
ff
fi
ff
fi
negli Stati Uniti degli anni Sessanta, un movimento fondamentalmente di denuncia di
discriminazione e di rivendicazione dei diritti dei neri, che insieme allo sviluppo di teorie critiche,
che riconduciamo alle Critical Race Theories, hanno portato dal margine al centro la gura di un
altro soggetto situato che è la persona nera che diventa soggetto visibile, esce dai margini
entrando nel discorso giuridico ed acquisisce soggettività. Ancora i movimenti dai paesi
colonizzati e con loro le teorie critiche cd. Post-colonial Studies e Subaltern Studies, portano
dal margine al centro e danno la parola ad un soggetto prima escluso dal mondo del diritto, cioè
la persona e il popolo colonizzato dalla potenza straniera. Questo discorso è molto rilevante per la
nostra prospettiva sociologica perché ci pone di fronte alla ricchezza e alla profonda necessità di
non separare il diritto dalla società, vista sia nel suo presente che nella sua storia, e ci permette
anche di aprire i nostri orizzonti da una prospettiva occidentale ad una mondiale.

In questo panorama di analisi dei diritti nelle scienze sociali, e nella sociologia in particolare,
dobbiamo ricordare una posizione molto importante: quella proposta da un grande giurista quale
Norberto Bobbio. Lui parla, sempre in questa prospettiva diacronica, di due processi molto
importanti: quello di moltiplicazione dei diritti e quello di speci cazione.
Il processo di moltiplicazione indica un aumento di istanze e di beni che sono stati considerati
meritevoli di tutela da parte del diritto (pensiamo al diritto alla privacy -di cui si sente la necessità
che venga riconosciuto come diritto soggettivo in un particolare momento della nostra storia
(perché prima non era necessario), cioè quando la comunicazione e la tecnologia pongono una
serie di problemi relativi alla riservatezza dei nostri dati-, il diritto di solidarietà, quello allo
sviluppo, ad un ambiente sano etc.).
Il processo di speci cazione è riferito da Bobbio soprattutto al tema della eguaglianza formale e
sostanziale, partendo dall’idea che ogni status sociale rivela di erenze speci che che non
consentono uguale trattamento e eguale protezione. Ci dice Bobbio che i diritti, originariamente
reclamati in nome dell’uguaglianza di trattamento malgrado le di erenze fra i singoli (di erenze di
sesso, razza, religione, condizione sociale) vengono sempre più rivendicati in nome delle
di erenze, cioè come diritti a un trattamento particolare in corrispondenza delle originarie
di erenze tra titolari: ecco allora la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, dei diritti delle donne,
degli anziani e molti altri; ma pensiamo anche ai diritti riconosciuti ad esseri ‘non-umani’ quali
l’ambiente o gli animali.

La moltiplicazione dei diritti e la situazione nella quale ci troviamo oggi è de nita, per esempio da
Ferrari, il paradosso dei diritti. Il processo di moltiplicazione conduce cioè ad un paradosso: i
diritti umani (la categoria di diritti che riconosce e tutela i beni ritenuti particolarmente importanti)
entrano incessantemente in con itto tra loro:

diritto alla privacy diritto alla salute;


diritto di manifestare la propria religione diritto alla sicurezza;
diritto della donna di interrompere la gravidanza diritto alla vita;
in tutti questi casi è di cile sostenere che un diritto prevale sull’altro ed abbiamo rivendicazioni e
con itti basati sui diritti che possono trovare e trovano riconoscimento nel mondo giuridico, nelle
Carte, nei Codici e nel diritto vivente.

52
ff
ff
fl
fi
ffi
fl
fi
ff
ff
fi
fi
fi
ff
15. Diritto e globalizzazione
Il processo di globalizzazione è estremamente complesso e su di esso esiste una letteratura
molto vasta che si occupa di tutti i ‘rami’ (giuridico, economico etc.).
Danilo Zolo propone una de nizione di globalizzazione nell’opera “Globalizzazione. Una mappa
di problemi”: si tratta di una de nizione abbastanza generale ma certamente puntuale. Infatti
leggiamo che, secondo Zolo, la globalizzazione è quel “processo sociale -in uenzato dallo
sviluppo tecnologico, dalla straordinaria riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti, dalla
rivoluzione informatica- che ha dato vita ad una estesissima rete di connessioni spaziali e di
interdipendenze funzionali”. Questo processo si è sviluppato fondamentalmente a partire dagli
anni Settanta del Novecento solo in tre macro-regioni del mondo -America settentrionale,
Europa occidentale e Giappone- con in più alcune aree della Cina, dell’India e dell’America latina
(tre aree molto delimitate e nelle quali la ricchezza economica è particolarmente importante).
Altra de nizione caratterizzante di globalizzazione è quella proposta dal sociologo Antony
Giddens, il quale fa riferimento “all’intensi cazione delle relazioni sociale mondiali che da un lato
collegano tra loro località molto lontane, dall’altro fanno sì che gli eventi locali vengano modellati
da eventi che si veri cano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa”. Ciò signi ca che
queste relazione hanno evidentemente degli e etti sui sistemi, sulle dinamiche e sulle dimensioni
locali; e etti come il fatto che si modi cano le distanze, si modi ca la rilevanza dello spazio
territoriale e i con ni del mondo vengono ridisegnati. Giddens sottolinea il legame tra
globalizzazione e mondo occidentale nel senso che la globalizzazione sarebbe espansione della
modernità (economica, giuridica, politica) dall’ambito europeo-occidentale al mondo intero.

Secondo Zolo, ma potremmo anche parlare genericamente, da un lato la globalizzazione ha


assunto una funzione di categoria esplicativa, un nuovo paradigma del mondo contemporaneo,
attraverso il quale oggi si spiegano e si interpretano molti fenomeni e mutamenti in tutti gli ambiti.
Assumere una funzione di categoria esplicativa signi ca proprio ricondurre al fenomeno e al
processo di globalizzazione la spiegazione di tutta una serie di processi più circoscritti e più
limitati. Sempre seguendo Zolo vediamo come in questo amplissimo ed estremamente
specializzato dibattito ci siano tanto dei sostenitori e critici della globalizzazione, quanto delle
posizioni che si pongono in una posizione intermedia.

Gli apologeti della globalizzazione vedono la globalizzazione come uno sviluppo coerente
dell’industrialismo e della modernizzazione occidentale, ma soprattutto vedono la globalizzazione
come prodotto di un modello vincente, cioè quello occidentale, e se l’occidente è allora un
modello positivo, la sua espansione signi ca promozione di un aumento di benessere economico,
una di usione del liberalismo, della secolarizzazione, della formalizzazione giuridica e della
proclamazione dei diritti dell’uomo. In questo senso la globalizzazione è vista come un fenomeno
positivo che è in fondo una proiezione di un fenomeno occidentale oltre i con ni dello stesso
occidente: si tratta dunque di un fenomeno bene co e certamente inarrestabile.

I critici della globalizzazione ne evidenziano gli aspetti negativi, in particolare: la polarizzazione


della distribuzione della ricchezza; l’utilizzo irrazionale di risorse-beni comuni (es. acqua); da un
53
ff
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fl
fi
punto di vista culturale l’occidentalizzazione degli stili di vita e dei modelli di consumo con la
conseguente distruzione del pluralismo culturale (che è elemento identitario molto importante). I
critici sottolineano quanto una parte del mondo decida sull’altra parte (e la globalizzazione non fa
che enfatizzarlo ancora di più) e, da un punto di vista statistico, l’aumento delle spese militari e
delle morti per denutrizione; una proclamazione dei diritti, sì sempre maggiore, ma altrettante
violazione sistematica che si veri ca mediante l’uso della forza delle grandi potenze occidentali
nel resto del mondo; per non parlare del disastro ecologico-ambientale dovuto in gran parte
all’accelerazione dello sviluppo scienti co e tecnologico. Per concludere, questi critici vedono
nella globalizzazione un processo di strategie decise dalle grandi potenze politiche ed
economiche di una parte del pianeta che in realtà non espandono un modello vincente, o
perlomeno non vincente per tutti in quanto si rivela poi positivo solo per la stessa parte del mondo
che lo propone e lo rende possibile. Autori come Pierre Bourdieu, Luciano Gallino ed altri
sottolineano proprio questo carattere inclusivo che produce e etti devastanti di concentrazione
spaziale, di selezione restrittiva sempre in termini economici, politici e comunicativi: questo per i
critici è dimostrato proprio dal fatto che la globalizzazione in realtà non è a atto un processo
planetario, bensì è settoriale sotto il pro lo geopolitico e geo-economico (pensiamo all’Africa che
non è assolutamente inserita nel processo di globalizzazione).

Vi sono poi delle posizioni intermedie, come quella del premio Nobel per l’economia E. Stiglitz,
per cui la globalizzazione ha sì e etti negativi, come la povertà la disoccupazione, causa squilibri
ecologici, ma certamente anche aspetti positivi, come un più facile accesso ai mercati e alla
tecnologia, la di usione dell’informazione così come il miglioramento della salute. Ciò che occorre
fare per questi autori, in particolare per Stiglitz, è, in primis, non pensare di poter arrestare un
processo certamente inarrestabile, e poi occorre modi care i modi con cui la globalizzazione
viene gestita: servirebbe un riformismo globale che porti ad una gestione ‘più democratica’ della
globalizzazione per far sì che tutti i paesi abbiano diritto alla parola e alle decisioni, difatti tutto ciò
renderebbe la globalizzazione senza dubbio più bene ca per tutto il pianeta.

Globalizzazione e diritto
I cambiamenti portati dalla globalizzazione hanno certamente avuto delle ripercussioni molto forti
sul mondo del diritto. Prima di parlare di questi cambiamenti occorre fare una premessa: il mondo
del diritto è radicalmente cambiato, ma è cambiato anche il modo di guardare e interpretare il
diritto. Abbiamo, dunque, anche all’interno della scienza giuridica la presa di coscienza di quella
necessità di guardare al diritto oltre ad una visione formalistica: serve adottare una visione critica
ed interdisciplinare, ed in questo senso arricchita da una prospettiva propria delle scienze sociali.
Si supera la concezione di monismo giuridico e si fa più urgente la necessità di sistemi pluralisti. I
mutamenti che la globalizzazione ha portato fanno ripensare al rapporto tra law in book e law in
action; tra una visione formale, che guarda al soggetto astratto, ed una critica, che guarda invece
al soggetto situato.
In questo senso, un sociologo francese, François Ost, parla proprio di un cambiamento di
paradigma che viene facilitato da questi processi di globalizzazione, e ci dice che “possiamo
leggere i cambiamenti nel diritto sia come trasformazione del mondo giuridico, sia come
cambiamenti nel modo di leggere e interpretare il mondo del diritto” → non più una concezione
monistica, ma un’apertura al pluralismo; non più un diritto come qualcosa che è espressione di
sovranità dello Stato, ma come un’esigenza di sottolineare e considerare il rapporto tra società e
diritto. Questo paradigma supera l’idea verticale Stato-società, l’idea di ordine, creata dallo Stato
sovrano dentro i suoi con ni e principale attore nelle relazioni internazionali.
Ost propone allora una visione del diritto di erente che chiama ‘dalla piramide alla rete’, dove si
passa da una visione verticale ad un paradigma di tipo reticolare, richiamando la rete che è la
società: infatti oggi il diritto è una realtà giuridica complessa, fatta di soggetti plurali, di diverse
identità, con diverse nalità. In questo senso, passare dal paradigma verticale a quello della rete

54
ff
fi
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
ff
ff
signi ca andare a vedere e scoprire che il comando autoritario e centralizzato dello Stato lascia
spazio ad un normazione “più debole, frammentata, contestuale, spesso negoziata”.

«Globalizzazione — per il giurista — signi ca rottura del monopolio e del rigido controllo statuale
sul diritto (consapevolezza che oggi il mondo del diritto è cambiato). Se ieri il legame, il vincolo,
tra diritto e volontà politica aveva quasi i caratteri della necessità, ora la virulenza e la capacità di
imperio delle forze economiche impongono altre fonti di produzione. Il legislatore statale è lento,
distratto, bassamente prono alle voglie dei partiti politici; la giustizia statale non è in grado di
corrispondere alle esigenze di rapidità e di concretezza della prassi economica (rapporto
strettissimo ed urgente tra economica e diritto) . Si aggiunga che Stato e giustizia statale si
collocano ancora in un'ottica territoriale, che è as ttica per la circolazione capitalistica ormai
globale. La prassi economica si fa produttrice di diritto: la nuova economia e le nuove mirabolanti
tecniche esigono arnesi giuridici nuovi irreperibili nel solco della bimillenaria tradizione romanistica
radicata fondamentalmente sulla nozione di cosa corporale, una nozione che a ne novecento
appare paleolitica ai contemporanei uomini di a ari. Ci sono esigenze giuridiche nuove e si
«inventano» strumenti giuridici nuovi atti a ordinare la nuova circolazione globale (è proprio questo
che signi ca e etti della globalizzazione sul diritto: necessità di pensare di costruire strumenti
giuridici nuovi, diversi da quelli classici)».
Continua Grossi «La vecchia immagine della piramide, speculare al vecchio sistema normativo,
viene sostituita da un'immagine che non evochi necessariamente una sgradita scansione
gerarchica; e i sociologi del diritto — ma anche i giuristi più all’avanguardia sulle nuove trincee —
parlano di rete … nel senso cioè di sostituire l'immagine piramidale potestativa autoritaria quella di
un sistema di regole non poste l'una sopra o sotto l'altra, bensì sullo stesso piano, legate l'una
all'altra da un rapporto di reciproca interconnessione (14). Regole che non troveranno la loro
legittimazione in un'unica fonte suprema immedesimata da chi detiene il supremo potere politico,
ma il più delle volte in un moto spontaneo di quella realtà varia e mobile che è il mercato»
Queste sono parole di Paolo Grossi, nell’opera Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, 2002.

Una delle protagoniste del dibattito sul rapporto tra diritto e globalizzazione è Maria Rosaria
Ferarrese, la quale riprende e parte nella sua analisi dalle interconnessioni strette che la
globalizzazione e i suoi e etti sul diritto devono a processi di globalizzazione economica. Parta
dunque dall’idea che lo Stato, il diritto e il mercato siano oggi istituzioni fondamentali della
società. A partire da questa asserzione, la Ferrarese ci suggerisce il fatto che la globalizzazione
cambia il ruolo svolto dagli stati: viene superata la sovranità statale (sia interna, cioè lo Stato
come soggetto interno, che esterna, cioè lo Stato inteso come soggetto di diritto internazionale,
capace di pensare e decidere in assoluta autonomia) intesa come istanza assoluta, incontrollabile
originaria. Nel modello giuspositivistico le norme sono certamente frutto di una decisione che
potremmo ascrivere ad una ‘volontà sovrana’. Questo è un modello che si è imposto nel mondo
occidentale, ma non solo, e non è un caso che Weber veda nello Stato il risultato dell’impresa di
concentrazione del potere e di assunzione in monopolio dell’uso legittimo della forza. Duqnue, in
questo modello, la legislazione dello Stato rappresenta il culmine istituzionale della storia
moderna occidentale. Cosa cambia con il processo di globalizzazione? Cambia il rapporto tra
diritto e territorio; quello tra diritto e ‘ratio’ pubblica; quello tra diritto e ‘ratio’ politica. Abbiamo
una nuova dimensione della giuridicità, sia sotto il pro lo dello spazio giuridico, sia sotto il pro lo
degli attori del diritto, sia, in ne, sotto il pro lo della normatività prodotta. Questi tre pro li li
ritroviamo nella prima delle tre questioni che la Ferrarese pone, cioè il cambiamento del rapporto
tra diritto e spazi. Ma in che modo il rapporto tra diritto e territorio cambia? È evidente: abbiamo
come conseguenza della globalizzazione una tendenziale de-territorializzazione del diritto, nel
senso che si modi ca (ma non viene meno del tutto) l’idea del territorio come ‘misura’ non solo
del potere, ma anche del diritto → il diritto non coincide più necessariamente con il territorio.
Infatti, allo spazio della giuridicità occupato dagli Stati, e quindi al rapporto perfetto tra Stato e
territorio (sovranità interna: nel proprio territorio, godevano di un monopolio come legislatori -
55
fi
fi
ff
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
spazio internazionale che veniva via via disegnato da alcuni Stati i quali, in accordo con altri Stati,
stringevano patti, accordi e trattati, secondo modalità stabilite dal diritto internazionale) la
globalizzazione fa emergere nuovi spazi, che non sempre coincidono con la somma dei territori
di alcuni Stati, ma molto spesso li attraversano, e sono le comunicazioni che lo attraversano,
mobili e variabili (contingenti o duraturi), che danno misura a questo spazio.
Prima di analizzare questi spazi in profondità, vediamo quali sono le tensioni che questo
cambiamento nel rapporto tra diritto e territorio produce.

Andiamo a vedere in concreto queste diverse normatività che hanno modi cato il rapporto tra
diritto e territorio e quindi anche la normatività e il mondo giuridico.
Il diritto sovranazionale mantiene un forte legame con lo Stato, ma i con ni e la cultura della
sovranità statale vengono in qualche modo toccati dal fatto che il diritto no è più necessariamente
espressione della volontà del singolo Stato. L’esempio è certamente quello dell’Unione Europea.
Ancora, il diritto sovranazionale modi ca l’assetto e il mondo giuridico per un protagonismo
crescente delle istituzioni giudiziarie: esempio la Corte europea. Inoltre si a erma un diritto non
necessariamente prescritto e obbligatorio (hard law), si a erma dunque un diritto che ha la forma
della raccomandazione, che non impone ma suggerisce agli stati di seguire determinate norme
(soft law→libri bianchi, raccomandazioni, in certa misura le direttive).
Il diritto transnazionale è il diritto che più modi ca il senso del diritto, il modo di fare diritto e
quelli che sono i soggetti tipici che creano la legge in una prospettiva giuridica. Questo perché si
caratterizza proprio per una estraneità alla ratio della sovranità e indi erenza verso il territorio.
Quando parliamo di diritto transazionale l’esempio più classico è quello della lex mercatoria, la
quale ci porta a quelle forme contrattuali e pratiche in ambito commerciale create da ‘nuovi’ attori
giuridici (grandi studi legali) che danno vita ad una cultura giuridica nuova collegata, producendo
un diritto che essenzialmente riesca a sopperire da una parte a quelle che sono le lentezze della
legislazione della stato e dall’altra che superi quelli che possono essere ostacoli, come
l’appartenenza di soggetti a diversi stati, che invece si pongono come strumenti che facilitino e
rendano più veloce e certo il rapporto -di tipo prevalentemente economico- che certi soggetti
possono avere. Esempi sono forme contrattuali come il leasing, franchising o factoring: normative
create da soggetti che non hanno niente a che vedere con gli stati e che vengono utilizzati
indipendentemente dal territorio. Dunque, il diritto transazionale nasce e si a erma per
assecondare soggetti economici forti, per facilitare scambi e regolazioni attraverso norme comuni,
che oltrepassano gli Stati.
Quello che allora molti studiosi propongono è una visione del diritto che passa dall’idea di
regolamentazione (modo di fare diritto verticale) ad un’idea di regolazione (spazio complesso e
mutevole) [regolamentazione → regolazione]; poi si passa dall’idea di governo (inteso in senso
più circoscritto come istituzione) ad un’idea di governance (processo, inteso come una serie di atti
e procedimenti che vanno a regolamentare, con una regolamentazione che può sempre cambiare,
questo spazio complesso e mutevole del diritto) [governo → governance].

Ferrarese diceva che cambia il rapporto tra diritto e ‘ratio’ pubblica: il diritto sovranazionale e
transnazionale contaminano distinzione tra diritto pubblico e diritto privato.
Il diritto sovranazionale, che è sostanzialmente un diritto pubblico, si apre certamente a istanze
private: si pensi alla giurisprudenza della corte europea di giustizia, l’istituzionalizzazione di forme
di lobbyng che autorizzano soggetti privati a intervenire nell’elaborazione della normativa
pubblica.
Il diritto transnazionale, che è essenzialmente privato, può fare proprie istanze di istituzioni
pubbliche (quando i con itti tra privati vengono risolti da giudici statali).
Cambia inoltre il rapporto tra diritto e ‘ratio’ politica: il diritto sovra e transazionale non è più (solo)
modellato dalla politica, come era il rapporto tra diritto, politica e Stato, ma è sempre la ‘ratio’
economica a legarsi con la normazione di tipo giuridico.
56
fl
fi
fi
ff
ff
fi
ff
fi
ff
Abbiamo quindi ora un mondo del diritto certamente più complesso rispetto a quello del passato
e anche rispetto al modo in cui la scienza giuridica pensava e interpretava il mondo del diritto. Ai
vecchi attori giuridici se ne aggiunti molti nuovi: si tratta di attori che si muovono in maniera
diversa, in un rapporto tra diritto e spazio estremamente cambiato, “sono sia privati che pubblici,
mettono in discussione questa distinzione tra pubblico e privato, e partecipano tutti alla redazione
di ‘regole globali’, in cui l’idea di fonte del diritto cambia e spesso diventa nebulosa la distinzione
tra fonti e attori del diritto” (M. R. Ferrarese)
16. Diritto e opinioni

Il rapporto tra diritto ed opinioni è circolare. Ma come arrivano le opinioni al diritto? Come
riusciamo noi a informare l’ambito giuridico-politico di quelle che sono le nostre opinioni in senso
ampio (nostre opinioni su un fenomeno che è stato regolamentato p. e.)?

Quello del rapporto tra diritto ed opinioni è dunque un tema centrale per la sociologia del diritto
teorica e, soprattutto, empirica nello studiare quelli che sono detti KOL (Knowledge and Opinioni
about Law). Queste ricerche KOL sono un ramo di ricerca della sociologia (non sono europea ma
mondiale) che caratterizza questo ambito di studi. Un lone nella storia della sociologia italiana ha
visto un protagonista, Vincenzo Tomeo, che ha compiuto ricerche relativamente alla percezione
che le persone hanno del diritto attraverso un particolare tipo di messaggio, che è p. e. la
rappresentazione del diritto nella letteratura, nei mezzi di comunicazione (cinema, cd. humanities),
che rappresenta senz’altro uno dei meccanismi di rappresentazione del diritto mediante il quale le
persone si formulano e fanno un’opinione del diritto stesso.

Il diritto in uenza le opinioni


Nell’analizzare come il diritto in uenza le opinioni torniamo certamente ad elementi già analizzati.
Sappiamo infatti che:
• il diritto in uenza le opinioni, può orientare i comportamenti, veicola l’idea che una norma ‘è
giusta’ e ovviamente questo è un aspetto fondamentale e più generale dal quale può discendere
il fatto che lo stesso essere guida di orientamento e comportamenti può produrre un’opinione
del diritto stesso.
• l’in uenza che il diritto può avere nelle opinioni è un aspetto che incide sull’e cacia della
norma: è chiaro che se le persone hanno un’opinione positiva di una norma posta in essere,
evidentemente positiva in senso ampio, che si pensa possa portare al raggiungimento di certi
obiettivi etc., tutto questo porterà ad una probabile conformità degli atteggiamenti rispetto al
contenuto della norma stessa e, in questo senso, vediamo l’importanza tra opinione ed
e cacia.
• sostenere che il diritto in uenza le opinioni ci riporta a quella dimensione della norma intesa
come messaggio. La norma intesa come messaggio veicola un’idea, un contenuto e in questo
senso può in uenzare (sempre in ottica sociologica, cioè non con assoluta certezza) il nostro
comportamento.
• nell’analisi del rapporto tra diritto ed opinioni, aspetto importante è quello che riguarda il
concetto di cultura giuridica.
Possiamo in linea generale de nire la cultura giuridica come la conoscenza, l’opinione delle
persone in relazione al diritto. Tra gli studiosi che hanno dedicato la loro ricerca a questo tema
(David Nelken, Carlo Pennisi), Lawrence Friedman distingue tra una cultura giuridica interna ed
una esterna.

57
ffi
fl
fl
fl
fl
fl
fl
fi
fi
ffi
• Interna • Esterna
Conoscenza, opinioni, idee, percezioni degli Opinioni, percezioni, consapevolezza,
operatori del diritto e che influenzano la conoscenza delle persone riguardo al diritto.
formazione e la pratica del diritto; «l’insieme
dei valori, delle ideologie, dei principi propri La cultura giuridica, secondo Friedman,
«determina quando, perché e dove le
di avvocati, giudici e di altri che lavorano persone cercano aiuto dal diritto, da altre
all’interno del cerchio magico del sistema istituzioni, o decidono di rassegnarsi»
giuridico» (Friedman, (Il sistema giuridico nella
prospettiva delle scienze sociali, 1978) dove il
Abbiamo ‘cerchio magico’ racchiude un gruppo molto soprattutto
n e l l a più ampio rispetto a quello dei giuristi letteratura
n o r d - americana
u n a distinzione
ulteriore e l’utilizzo di
un termine, legal consciousness, che è di cilmente traducibile in italiano. Riprendiamo l’idea
espressa da Patricia Ewick e Susan S. Silbey, che hanno compiuto molta ricerca empirica sulla
legal consciousness, secondo le quali: “Se con il concetto di cultura giuridica la ricerca tende a
concentrasi ad un livello macro, di gruppo (operatori, la cittadinanza etc.), con il concetto di legal
consciousness ci si riferisce solitamente ad un micro livello, per indicare i modi in cui gli individui
interpretano e mobilitano signi cati e segni giuridici; i modi in cui il diritto è ‘vissuto e interpretato’
dalle singole persone. Questa ‘attenzione empirica’ alle comprensioni popolari del diritto in uenza i
dibattiti teorici sulla cultura giuridica.”

La percezione del diritto è fortemente legata alla capacità, alla volontà di chi comunica il
messaggio giuridico: abbiamo già visto come i mass media si interpongono nella comunicazione;
gli esperti del diritto, che traducono e sempli cano il diritto, il linguaggio tecnico, informano sui
comportamenti di altri in relazione al signi cato della norma (in particolare coloro che si
interpongono tra istituzione e cittadini: notai, avvocati); altri media individuali nel corso della vita
informano sui principi e valori sottostanti ad una cultura giuridica in senso ampio (genitori,
insegnanti che veicolano idee di giusto, sbagliato, molti dei quali direttamente legati al diritto e
che contribuiscono alla formazione di una coscienza giuridica).
Il giornalista, già analizzato, rimane fondamentale nella comunicazione del messaggio della
norma. Questo perché non si tratta necessariamente di un giurista, ma il giornalista è un
professionista che utilizza un proprio, specialistico linguaggio: quello giornalistico. Nel dare una
notizia, i giornalisti agiscono necessariamente seguendo alcune regole, non autoimposte ma
‘subite’: la selettività delle cose da riferire (che cosa riferiamo?) [esempio sulle istituzione europee:
il fatto che molto spesso i giornalisti non ne parlino porta a provare una certa ‘indi erenza’ verso
quest’ultime; o il fatto che ne parlino in un determinato modo può portare a guardare alle
istituzioni europee in maniera critica e non positiva]; c’è poi il tema della trasformazione dei fatti in
notizia, che per esempio nell’ambito della notizia in ambito penale produce una serie di
cambiamenti nel fatto stesso che possono incidere sull’opinione generale delle persone; che cosa
fa notizia? legato evidentemente al tema della selettività; qual è la notizia che interessa
maggiormente?, legato al ‘cosa fa notizia?’.
Quali notizie, quale posto, quale giornale? Questi tre sono elementi che certamente in uiscono:
sul diverso rilievo che viene dato alle notizie che rientrano nell’ambito del diritto penale rispetto a
quelle che riguardano la normativa europea; il posto che occupa la notizia (prima pagina o
successive/posizione centrale o non centrale); come viene data la notizia, da quale giornale (dal
media specialistico alla rivista sensazionalistica: la scelta ha conseguenze rilevanti sulla
percezione).
Un posto tutto speciale e centrale occupa l’ambito penale, in particolare la cronaca nera e
l’informazione giudiziaria. Vediamo dunque il legame tra il modo in cui viene data una notizia, la
‘di erenza’ tra ciò che accade nella realtà e ciò che viene rappresentato dai media di quel fatto.

58
ff
fi
ffi
fi
fi
ff
fl
fl
Possiamo dunque vedere come il processo vero e la presentazione del processo nei media siano
due dimensioni diverse. Infatti:
Processo giudiziario Processo mediatico
Si svolge in luoghi determinati: procura e aule Non ha un solo luogo, è delocalizzato: si svolge nei
dei Tribunali salotti televisivi, programmi di approfondimento, organi
Segue precise fasi di stampa, social
Ha una ne Non ha alcun ordine, ogni informazione vi entra senza
Segue, formalmente, delle regole ltri e gerarchie
Può non nire mai, mette in discussione anche
sentenze de nitive
Ha regole aperte: non esistono testimoni falsi, non c’è
argine per le domande suggestive, vale tutto

Si crea così un’interferenza tra i due processi che non è indi erente perché i soggetti che operano
sono due: da una parte i giornalisti, che seguono continuamente gli scoop che interessano la
gente, e dall’altra gli organi inquirenti che agiscono nel processo giudiziario ma che, attraverso
loro indiscrezioni, diventano uno strumento di pressione a danno di quello che è il diritto al giusto
processo (art. 111 Cost.). Come mettiamo insieme il diritto al giusto processo con la
manifestazione del pensiero attraverso l’uso degli strumenti divulgativi disponibili?
Erich Auerbach, nel 1947, parlava di ‘Tecnica del ri ettore’ che è esattamente ciò che accade
nel processo mediatico, in cui si illumina una piccola parte, ma tutto il resto, che potrebbe servire
a spiegare il fatto nel suo complesso, viene lasciato al buio, per poter seguire meglio quello che
maggiormente interessa al pubblico. “In questo modo vien detta apparentemente la verità, poiché
quanto è detto è incontestabile, e tuttavia tutto è falsato, essendo che la verità è composta di tutta
la verità e del giusto rapporto fra le singole parti” (Auerbach, Mimesis, 1947).

Per comprendere meglio il tema proviamo a vedere il rapporto tra processo giudiziario e
mediatico nel caso di Yara Gambirasio. Sul caso venne detto tutto: la stampa, seguendo le
indagini della Procura di Bergamo, si accanisce prima contro un muratore di origini marocchine
che viene sbattuto in prima pagina, ma che poi dimostrerà di non essere in Italia al momento del
fatto e molto molto altro. Fu fatto un esame del DNA a tappeto nella zona dell’omicidio, fu
identi cato un potenziale assassino il cui arresto, mentre stava lavorando in cantiere, fece il giro di
tutti i canali: la persona arrestata è Massimo Bossetti. A un certo punto, sempre nei media, viene
mostrato un video che sembrerebbe incolpare Bossetti proprio sulla base della sua presenza in un
determinato momento. Che cosa viene
consegnato perché si possa procedere
ad un processo mediatico? Il video
consegnato è in realtà un collage di
immagini. Ad ammettere che si trattava
di un collage è il colonnello che,
durante un’udienza, dice che si tratta di
un video confezionato, “fatto per
esigenze comunicative”. Ecco allora
che capiamo come, a partire da questo
video e dal modo in cui viene data la
notizia, si costruisce un fatto che in
realtà ha solo parzialmente ha a che
vedere con il fatto reale.
Il caso è un esempio di questo intreccio pericoloso e questa rappresentazione falsata che si può
creare attraverso i media. È chiaro che il messaggio giuridico attraverso i media rappresenta uno
dei canali più comuni di conoscenza del diritto e, a conclusione di questo ragionamento, che la

59
fi
fi
fi
fi
fi
fl
ff
libertà di stampa e di comunicazione mediatica deve seguire delle norme, per fare il modo che le
notizie vengano date in modo più vicino alla funzione di informare sui fatti.

Diverse ricerche hanno ipotizzato, e in parte dimostrato, quanto la comunicazione possa in uire
sull’opinione pubblica in materia di diritto in senso ampio. Prendiamo per esempio un rapporto
dell’istituto Demos sull’insicurezza e la sicurezza sociale del 2017, in cui si attesta come l’Italia
dedichi alla cronaca nera, e di conseguenza a quella giudiziaria correlata, tantissimo spazio. Il
rapporto ci dice che:
• la televisione pubblica ha tre volte in più notizie legate alla criminalità rispetto ai tg inglesi come
quello di BBC1 e addirittura 44 volte in più rispetto a quelli tedeschi.
• gli omicidi sono i reati più trattati: quasi la metà dei servizi si occupa sia dei casi più eclatanti
che di quelli che si esauriscono in una sola edizione.
• l’informazione italiana prende le distanze dalla realtà, dando visibilità a crimini che, come dice
l’Istat e come evidenziano gli ultimi rapporti del Viminale, sono in calo.
Secondo lo stesso rapporto, infatti, il 79% degli italiani ritiene che i reati siano
aumentati nell’ultimo anno. La percezione si discosta dunque profondamente dalla realtà. Ed
è di cile non mettere in relazione questo fatto con la persistenza della cronaca nera sui media
italiani.Tutti questi dati sono poi stati messi a confronti con quelli degli altri Stati europei.

Le opinioni in uenzano il diritto


Andiamo ora a vedere come la cittadinanza riesce a comunicare all’apparato giuridico-politico
quelle che sono le proprie opinioni rispetto ad un fenomeno ed alla sua regolamentazione, cioè
come facciamo noi a far pervenire le nostre opinioni all’apparato giuridico-politico.
Questo può essere necessario perché, se da un punto di vista giuridico nelle norme e nei principi
fondamentali ogni sistema giuridico ri ette la storia, la culturale ed in parte anche la morale
collettiva, è altrettanto vero che le decisioni assunte in ambito politico-giuridico possano ri ettere
alcune opinioni e non altre. Dunque, il rapporto tra opinioni e diritto è imprescindibile nei sistemi
democratici.
In che modo le opinioni in uenzano il diritto? Come si forma un’opinione sociale del diritto e come
si di onde in modo da ottenere ascolto e riscontro presso il sistema politico? Si tratta di un tema
estremamente ampio che investe soprattutto la sociologia politica. Certamente c’è una relazione
tra istanze, idee ed opinioni nella società e recepimento di tali da parte di alcuni gruppi organizzati
che, in qualche modo, solidi cano tali istanze in opinioni formali che vengono poi proposte ai
soggetti che operano nell’ambito politico-istituzionale.
Questi gruppi (che fungono da mezzi) possono essere movimenti sociali, come i partiti politici.
Oltre ai partiti, lo strumento per eccellenza della democrazia partecipativa è il referendum, ma ci
sono anche altri mezzi meno formali come i sondaggi o il web, quest’ultimo rappresenta al giorno
d’oggi uno strumento potentissimo.

Il referendum è uno strumento nato appositamente per questo scopo e, se pensiamo alla sua
storia, ci rendiamo conto di quanto sia stato utilizzato e di quanto abbia e ettivamente funzionato

60
ffi
ff
fl
fl
fi
fl
ff
fl
fl
come veicolo di comunicazione tra opinioni e diritto. Numerose in Italia sono state le questioni
sottoposte a referendum: a partire dalla scelta tra Monarchia e Repubblica, no all’interruzione
volontaria della gravidanza, al divorzio, alla responsabilità dei magistrati, tecniche di fecondazione
assistita, no alla riforma della Costituzione del 2016. Il referendum mette in rilievo gli attori che
in uenzano l’opinione, dai partiti ad altri gruppi, il modo in cui vengono presentati i contenuti dei
referendum e le spiegazioni dei contenuti. Dai risultati dei referendum si può desumere l’opinione
del pubblico sul diritto, anche se le motivazione che spingono la persona a rispondere in un modo
piuttosto che in un altro possono dipendere da tanti motivi.
Dal 1947 ci sono stati 62 referendum, il quorum viene raggiunto 35 volte. Questo è un dato
sociologicamente molto interessante perché ci si può chiedere quali furono i fattori che incisero
nella storia nella maggiore o minore partecipazione ai referendum, quali le variabili che incisero
sulle partecipazioni come: la retta comprensione dei quesiti, l’interesse per le tematiche, il
condizionamento derivante dai partiti politici in cui la persona crede etc.

Vedremo come un referendum complesso nella sua formulazione può produrre risposte non
rispondenti alla vera opinione della persona: è stato infatti dimostrato che più quesiti nello stesso
referendum possono produrre il cosiddetto ‘e etto traino’ (stessa risposta per tutti i quesiti
indipendentemente dall’opinione). Il referendum poi, in senso ampio, può certamente essere una
spia del consenso o del dissenso verso il diritto

Questa immagine rappresenta la cartella utilizzata per il


primo referendum il 2 giugno del 1946, data in cui gli
italiani vennero chiamati a votare per la scelta tra
Repubblica e Monarchia. Nel 1946 questa cartella doveva
rispondere ad una condizione generale della popolazione,
che per esempio poteva prevedere il fatto che la persona
non fosse alfabetizzata: notiamo infatti che è presente sia
una parte scritta sia una parte rappresentata da due
gure, per indicare alla persona non in grado di leggere
l’alternativa prevista per il suo voto.

Ci sono stati poi referendum che hanno segnato un punto storico e di non ritorno: uno di questi è
il referendum abrogativo del 1974. La storia del divorzio in Italia è particolarmente complessa.
Nonostante i mutamenti nella società a partire dal dopoguerra, l'Italia (soprattutto grazie
all'in uenza delle gerarchie della Chiesa cattolica sul potere politico) rimase a lungo senza una
legislazione sul divorzio. Di fatto le persone facoltose potevano rivolgersi al Tribunale ecclesiastico
della Sacra Rota, oppure far riconoscere in Italia sentenze di divorzio pronunciate da tribunali di
Paesi dove la legislazione locale consentiva il divorzio anche di cittadini stranieri (il Messico, la
Repubblica di San Marino), ma tutti gli altri coniugi che si separavano non potevano regolarizzare
le unioni con i/le loro nuovi compagni/e ed i gli nati da esse. Il divorzio venne introdotto in Italia
con la legge n. 898 del 1970, cd. Legge Fortuna-Baslini e, nel 1974, gli italiani vennero chiamati
a decidere se abrogare la legge o meno dalla Democrazia Cristiana. La partecipazione fu altissima
(parteciparono al voto l’87,7% degli aventi diritto) e votarono no il 59,3%, sì il 40,7%: la legge sul
divorzio rimase dunque in vigore.

Per quanto riguarda la variabile del linguaggio prendiamo come esempio il referendum del 1994,
sull’abolizione dei poteri speciali riservati al Ministro del Tesoro nelle aziende privatizzate. Il
quesito posto nella cartella ci fa rendere conto della distanza che ci può essere tra un fenomeno e
la regolamentazione dello stesso, e la di coltà che il cittadino medio può incontrare nel
comprendere e nel decidere in che modo esprimersi. Quesito: "Volete voi che sia abrogato il d.-l.
61
fi
fl
fl
fi
ffi
fi
ff
fi
31 maggio 1994, n. 332, recante "Norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di
partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni" , convertito in legge, con
modi cazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, limitatamente all'articolo 2?”: la lettura di questo
quesito non ci dice nulla sul contenuto del quesito stesso, a meno di una competenza speci ca
del cittadino.

Il referendum del 12 e 13 giugno 2005 è un altro momento importante, soprattutto perché ci fa


ri ettere sulle interpretazioni che vengono date dei risultati dei referendum, a partire dai messaggi
che diversi soggetti politici danno alla cittadinanza attraverso i media, cercando di indirizzare il
voto dei cittadini. Tra i vari quesiti promossi da Radicali, Associazione Luca Coscioni, Democratici
di Sinistra ed altri, c’è quello sulla fecondazione assistita: un quesito molto complesso ma
descritto e scritto nella stessa cartella in maniera piuttosto chiara (“Garantire la fecondazione
assistita non solo alle coppie sterili ma anche a quelle a ette da patologie geneticamente
trasmissibili; eliminare il limite di poter ricorrere alla tecnica solo quando non vi sono altri metodi
terapeutici sostitutivi; garantire la scelta delle opzioni terapeutiche più idonee ad ogni individuo;
dare la possibilità di rivedere il proprio consenso all’atto medico ogni momento; ristabilire il
numero di embrioni da impiantare”). Il quorum del referendum non venne raggiunto.
→“Progressivo sentimento di delusione (…) Visto che la democrazia rappresentativa funziona
male, ecco allora che la democrazia diretta genera una reazione quasi di inso erenza nel momento
in cui viene avvertita come un surrogato della democrazia rappresentativa” Ilvo Diamanti
→“Il quorum è irraggiungibile quando una pur piccola minoranza decide di usare lo strumento
dell’astensionismo strategico, che si somma all’astensionismo «naturale», progressivamente
incrementato del resto dal fallimento dei referendum precedenti” Istituto di ricerca Cattaneo
→“Il mancato raggiungimento del quorum invece è "frutto della maturità del popolo italiano, che si
è ri utato di pronunciarsi su quesiti tecnici e complessi, che ama la vita e di da di una scienza
che pretenda di manipolare la vita”, Camillo Ruini, Radio Vaticana
Questi sono tre commenti fatti dopo il referendum che ci fanno rendere conto di quanto sia
diversa la percezione del risultato.

È chiaro che oggi abbiamo un’altra serie di strumenti, in particolare il web, che ci permettono di
raggiungere più velocemente le istituzioni politiche anche grazie ad una maggiore facilità di creare
gruppi, petizioni, di mobilitare il pensiero e le opinioni.

Per concludere, il rapporto tra diritto e opinioni, è circolare, di condizionamento e di grande


in uenza reciproca.

62
fl
fl
fi
fi
ff
ff
ffi
fi
17. Le migrazioni come specchio del mutamento del (e nel) diritto
Iniziamo a ri ettere sul rapporto tra immigrazione, diversità cultura e diritto in un’ottica socio-
giuridica. Per fare ciò ci serviamo di uno stralcio del libro “La diversità culturale tra diritto e
società” di Letizia Mancini, in particolare dell’introduzione perchè in questa viene messa a fuoco
la prospettiva attraverso la quale ri ettere sul tema della diversità culturale in relazione al diritto e
con particolare riferimento al contesto italiano. Nel testo troveremo frasi sottolineate le quali
dovrebbero guidarci su quelli che sono i punti attorno ai quali si sviluppa il ragionamento socio
giuridico sul rapporto tra diversità culturale e immigrazione. Lo scritto mette in relazione il
fenomeno migratorio con il pluralismo culturale che caratterizza le nostre società e con il
diritto che è strumento fondamentale, e propone sia una de nizione di diversità culturale che la
necessità di studiare questo tema da una prospettiva macro e micro sociologica. Utilizza il
concetto di uguaglianza, a partire dalla de nizione che ne propone Luigi Ferrajoli e pone
l’attenzione sull’idea di pluralismo, inteso sia come fatto quindi pluralismo culturale che
caratterizza le nostre società, il pluralismo giuridico che caratterizza i sistemi pluralistici di norme
presenti nella società sia come valore, cioè i sistemi democratici di tipo liberale considerano il
pluralismo inteso come pluralità di azioni possibili di comportamento, come un valore da
preservare e tra questi due modi di concepire il pluralismo c’è un nesso molto importante. Il tema
ci porta a ri ettere sui diritti e su chi è il soggetto destinatario e titolare dei diritti, mette in luce
quello che è l’elemento essenziale delle dinamiche che caratterizzano la società anche in
relazione al suo carattere multiculturale che è l’elemento del potere. Insiste anche su altri
concetti, primo fra tutti quello di cultura, la corretta interpretazione del quale ci permette di
provare a evitare quello che è un errore nell’opinione comune e cioè di essenzializzare la cultura.
Le persone non possono essere identi cate con una cultura, tantomeno con un’idea di cultura
statica e anche in questo ci aiuta la prospettiva pluralistica del diritto e cioè pensare alle persone
come attori sociali che si riconoscono in una molteplicità di a liazioni che producono norme,
quindi anche la cultura segue in parte questa molteplicità di a liazioni della persona. Ancora
propone un’idea di integrazione che da un punto di vista sociologico generale sembra
contrapporsi a una visione con ittualistica che la professoressa fa proprio in questo suo studio.
D’altra parte, il concetto di integrazione è fondamentale dal punto di vista sociale proprio come
guida ad una politica pubblica e ad una politica migratoria ma ancora una volta, può essere letto
anche come percorso che la persona fa per integrarsi nella società. Il diritto in tutto questo gioca
un ruolo fondamentale, sia nel classi care la persona come “diversa” sia nel proporre una certa
lettura dell’immigrazione della diversità culturale, sia essere ancora una volta strumento di difesa,
di implementazione di diritti, di istanze e rivendicazioni che, legate alla cultura, sono sempre più
frequenti. Un ruolo particolare in ne lo gioca il giudice in quanto professionista del diritto che più
spesso di altri si trova di fronte a dover decidere e trattare con itti che hanno nella cultura un loro
legame stretto.

63
fl
fl
fl
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fl
ffi
ffi
Nell’estratto della pubblicazione “La diversità culturale tra diritto e società”, l’autrice ha cercato di
mettere in evidenza da un lato la prospettiva nella quale muovono le sue ri essioni, dall’altro il
legame e le implicazioni di questo tra diversità culturale e migrazione con riferimento alla società
italiana. Mettere in relazione i due concetti di diversità culturale e migrazione, richiama molti
concetti analizzati, uno degli ultimi quello di globalizzazione. Adesso vedremo come alcuni di
questi si declinano, guardando soprattutto alcuni elementi che caratterizzano la politica migratoria
e vedremo come le migrazioni possano veramente essere considerate specchio del mutamento
sociale e giuridico.

Riprendendo la intuizione di Abdelmalek Sayad ne “La doppia assenza: dalle illusioni


dell’emigrato alle so erenze dell’immigrato, 2002” il movimento delle persone nello spazio implica
necessariamente una serie di mutamenti che interessano la sfera sociale, politica, economica e
giuridica delle diverse società. Il concetto stesso di immigrazione e movimenti delle persone ci
riporta all’idea della migrazione come un processo transnazionale e come un processo che rientra
in quella che è un’uni cazione, un processo di globalizzazione che ha come seconda faccia non
una liberazione dai con ni geogra ci ma al contrario un inasprimento degli stessi con ni che
rappresentano oggi un panorama giuridico politico e geogra co che caratterizza il nostro mondo.
Quello che Sayad ci dice è proprio questo “Parlare dell’immigrazione è parlare della società nel
suo insieme, nella sua dimensione diacronica, cioè in una prospettiva storica […] e anche nella sua
estensione sincronica, cioè dal punto di vista delle strutture presenti nella società e del loro
funzionamento”. In questo senso possiamo sostenere che lo studio di alcuni aspetti
dell’immigrazione ci permette di ri ettere più in generale sul diritto, sul rapporto tra diritto e
mutamento sociale, sui principi e sugli istituti fondamentali della democrazia – dall’uguaglianza
alla cittadinanza – sul ruolo del diritto, insieme strumento di potere e strumento di garanzia dei
diritti.

E su come siano entrate nel discorso politico giuridico alcuni concetti che rappresentano oggi un
paradigma fondamentale attorno al quale ruota la regolamentazione di molte tematiche: il
concetto di sicurezza, fortemente legato a questi movimenti di persone. L’analisi delle società
multiculturali contemporanee rappresenta perfettamente quel modello di società descritto dal
con ittualismo liberale, in primis da Max Weber, dove appunto i con itti di diversa intensità,
latenti o manifesti, conivolgono una miriade di gruppi che ri ettono a loro volta una miriade di ruoli
sociali; si declinano in modo diverso anche in ragione dell’ambito nel quale si manifestano, gruppi
di erenziati a seconda della lingua, della religione etc. Accogliere questa visione con ittualistica
della società, non signi ca negare le dinamiche di coesione e cooperazione che caratterizzano le
relazioni sociali tra persone e tra gruppi, i processi di istituzionalizzazione e regolazione dei
con itti, il ruolo che giocano la politica e il diritto nell’acutizzare o nel mitigare la con ittualità
sociale legata alla diversità. Anche sotto il pro lo normativo competizioni e con itti sono possibili
in un’ottica inclusiva. La società pluralista è infatti quella società nella quale lo spazio pubblico
include, per lo stesso ambito di agire, diverse opzioni possibili di comportamento, quindi anche
legami, stili di vita, pratiche nuove in una cornice di integrazione sociale. E il pluralismo acquisisce
un signi cato tanto più liberale quanto più le opzioni fornite di valore, tra cui gli individui possono
scegliere, sono di erenti, no al limite dell’incompatibilità. Oggi fare famiglia non signi ca solo
farla nel modo concepito cinquant’anni fa ma permettere più opzioni possibili di legami
attribuendo a tutti questi lo stesso valore e la stessa rilevanza. Legando l’immigrazione al diritto e
a quelli che sono processi che ci riportano al concetto di globalizzazione, possiamo sostenere che
tra gli e etti più rilevanti della globalizzazione vi sia un progressiva erosione dei con ni. In realtà le
migrazioni appaiono sempre di più come un fenomeno che produce, al contrario, un aumento e la
chiusura dei con ni. Alla natura transnazionale del fenomeno migratorio - sia che lo vediamo
come un attraversamento sico che culturale dei con ni - non corrisponde un’apertura degli stati
verso una politica comune - ad esempio europea. Non esiste ancora una politica comune che si
64
ff
fl
fl
ff
fi
fi
ff
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fl
fi
fl
fl
fl
fi
fl
fi
fl
fi
prenda carico del fenomeno migratorio stante il suo carattere di transnazionalità. Secondo la
sociologa americana Saskia Sassen assistiamo ad una ride nizione del moderno regime
con nario, un regime chiamato a gestire in maniera di erente i movimenti di merci e di persone. Il
movimento delle persone costituisce un’attività sospetta in termini di “sicurezza”. Al centro, una
particolare categoria di persona, colore che vengono etichettati come “migranti”, sempre più al
centro di discorsi, politiche, pratiche securitarie. Ciò che diventa transnazionale sono, in de nitiva,
gli strumenti di controllo dei movimenti migratori (pensiamo alla polizia transnazionale, Frontex,
etc).

Il concetto di “securitizzazione” si deve alla Copenhagen School of Critical Security Studies


e indica quel processo mediante il quale un determinato fenomeno viene progressivamente
attratto nella sfera dei problemi e delle questioni relative alla sicurezza anche quando non c’è
evidenza di un legame tra questo fenomeno e la sicurezza. Per esempio: far rientrare nell’ambito
della sicurezza, la regolamentazione della cittadinanza, signi ca leggere la cittadinanza con gli
occhi della sicurezza, cioè legare la cittadinanza ad un problema di sicurezza e anche veicolare
questa idea, se ci pensiamo questa prospettiva ci porta a legittimare delle politiche restrittive di
ocncessione della cittadinanza quando questa venga legata ad un problema di sicurezza.
Riprendendo le parole del sociologo Giuseppe Campesi: “Il concetto indica il processo di
costruzione sociale che spinge un settore ordinario della politica nella sfera delle questioni relative
alla sicurezza per mezzo di una retorica del pericolo che punta a giusti care l’adozione di misure
speciali che eccedono il quadro giuridico e le ordinarie procedure di decisione politica. In altre
parole, la securitarizzazione è il processo attraverso il quale una questione viene trasformata in un
problema relativo alla sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva, o dalla
rilevanza concreta della supposta minaccia”

Che legame c’è tra migrazione e paradigma securitario?


Lo vediamo attraverso quelle che sono delle narrazioni, la migrazione viene spesso narrata come
pericolo per l’ordine pubblico interno dello Stato (disordine ubrano, criminalità comune) e per la
sicurezza dello Stato (sicurezza nazionale: migrazione e terrorismo, criminalità organizzata). È
chiaro che c’è un legame tra migrazione e criminalità organizzata ma se noi leghiamo
completamente i due fenomeni leggiamo la migrazione in una maniera parziale. Ancora la
migrazione viene spesso narrata come minaccia per l’identità culturale delle società europee con
un rischio di frammentazione e di con itto sociale. In ne viene vista come una minaccia di natura
economica, la minaccia dello straniero che in qualche modo viene a mettere in discussione quelli
che sono i diritti fondamentali del cittadino italiano. Il riferimento a Luigi Ferrajoli rispetto al
con itto tra le sfere più basse di tipo economico sociale è questo: il migrante è visto come
minaccia dai ceti sociali meno abbienti. Il processo di securitizzazione ha trasformato le
migrazioni, in particolare quelle “irregolari” (o “clandestine” - espressione che accentua la
pericolosità sociale dell’intero fenomeno) in una questione “meta-securitaria” che attrae cioè su di
sè altri discorsi sulle minacce all’ordina pubblico e alla sicurezza nazionale tipiche del mondo
contemporaneo, quali i tra ci illeciti transfrontalieri, il crimine organizzato, il terrorismo
internazionale, la frammentazione e l’instabilità politico-economica. Il legame immigrazione-
sicurezza si riverbera, in maniera più o meno esplicita, sulla gestione di tutti gli aspetti delle
politiche migratorie, sul riconoscimento dei diritti dei migranti, dai diritti di cittadinanza, al
riconoscimento della cittadinanza in senso formale, ai diritti legati all’identità.

Sempre in termini di sicurezza è interessante fare un approfondimento volto a legare le politiche


migratorie e i ri essi che questo legame tra migrazione e sicurezza ha sulle politiche
implementate, non solo nel nostro paese. Lo facciamo distinguendo tra sicurezza dei diritti e
diritto alla sicurezza e riprendendo un pensiero di Alessandro Baratta, padre della criminologia
critica che abbiamo visto quando abbiamo parlato del tema delle teorie sulla devianza.

65
fi
fl
fl
ffi
fl
fi
ff
fi
fi
fi
fi
Che di erenza c’è tra parlare di diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti? tra il declinare la
sicurezza come bene collettivo e come diritto dell’individuo? C’è una di erenza sensibile:
• la sicurezza è un bene collettivo, lo stato di benessere che deriva dalla tutela dei diritti di tutti,
alla realizzazione del quale concorrono
attori nazionali e locali, politiche penali e
politiche sociali. Lo stato di benessere
rappresenta proprio il nucleo della
sicurezza intesa come bene collettivo. In
realtà questa sicurezza nei diritti alla
realizzazione della quale concorrono molti
attori diversi, politiche diverse, si sta
progressivamente a ermando un’altra
idea di sicurezza.
• la domanda sociale di sicurezza e le
politiche contemporanee, esprimono
un’idea di sicurezza intesa come diritto
alla propria sicurezza, come diritto del
cittadino, ad esempio, alla sua città, dove
il modo più semplice per garantire questa
sicurezza è allontanare o escludere tutto
ciò che mina il suo territorio.
• se la sicurezza è il mio diritto ad essere
sicuro, il mio quartiere, la mia città devono
e s s e re l i b e r i d a t u t t i c o l o ro c h e
minacciano, mettendola a rischio, la mia
sicurezza.
Ecco allora i due modelli di politica a
confronto e diciamo che questi sono
modelli caratterizzati da alcuni principi
fondamentali:
Guardiamo questa tabella che contiene spunti interessanti per leggere politiche nazionali di tipo
securitario.
Un’altra tematica importante nella relazione tra immigrazione politica e mutamento sociale
giuridico è l’analisi degli attori del diritto, che ci riporta a vedere come cambia la produzione
della normativa e quale tipo di normativa emerge più chiaramente quando trattiamo il tema
migratorio e il legame tra migrazione e diversità culturale. Quando abbiamo parlato della relazione
tra diritto, globalizzazione e pluralismo giuridico abbiamo visto come i processi di globalizzazione
intesi nei vari sensi, ci mostrano chiaramente la proliferazione dei soggetti produttori di diritto, dei
tipi di norme che vengono prodotte in una dinamica che oscilla tra uni cazione del diritto e
particolarismo del diritto stesso. Abbiamo una pluralità di soggetti che oggi producono norme in
relazione alle migrazioni, una progressiva compressione del diritto nazionale, schiacciato dall’alto
da normative di produzione transnazionale e internazionale (soprattutto in tema di diritti) e, dal
basso, da normative locali (F. Ost. Dalla piramide alla rete). Nell’ambito che a noi interessa lo
spostamento della regolazione avviene innanzitutto verso il basso, dallo Stato alle istituzioni locali
che hanno sempre più parola e legittimazione a normare alcuni aspetti delle migrazioni. Questo
passaggio, che sta assumendo le dimensioni di una vera e propria sostituzione, non è privo di
conseguenze in termini di diritti delle persone, generando quello che Giovanna Zincone de nisce
nei termini di localismo dei diritti cioè l’idea che oggi gli immigrati possono godere di determinati
diritti nel nostro paese a seconda del luogo nel quale si trovano, quindi il godimento dei diritti e
tante volte anche lo stesso riconoscimento formale non è uniforme all’interno dello stato italiano.
Abbiamo ancora un ruolo crescente, sempre più centrale della giurisprudenza e riprendendo l’idea
di B. De Sousa Santos possiamo interpretare le società moderne come “formazioni o
66
ff
ff
ff
fi
fi
costellazioni giuridiche, costituite non da un unico ordine giuridico, ma da una pluralità di ordini
giuridici, di erentemente interrelati, stati e infrastatali, soprastatali e transnazionali.”
Da cosa deriva questa idea del localismo dei diritti?
• da un lato dal crescente aumento di potere in mano in particolare alla regione, per esempio la
regione Lombardia ha emanato una norma che vieta di entrare negli ospedali con il volto
coperto, questa norma ha scatenato dei ricorsi perchè era una norma che limita la libertà
religiosa delle donne che indossano il burqa. Una donna che indossa il burqa non può entrare
negli ospedali in Lombardia ma può farlo in tutte le altre regioni d’Italia, questa è l’espressione di
ciò che si intende per localismo giuridico.
• Abbiamo localismo a livello di singola città, il potere attribuito al sindaco di adottare “con atto
motivato, provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento, al ne di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità
pubblica e la sicurezza urbana” (art 54 D. lgs. 18 agosto 2000 n.267) questo potere ha dato vita
ad una vera e propria compressione di diritti (anche legati alla identità culturale) motivate
ricorrendo alla sicurezza ( no ad una pronuncia della Corte Costituzionale del 2011).
• Attraverso l’uso - spesso improprio - di altri strumenti giuridici. Quello che accade sempre di
più, in relazione all’immigrazione è che le fonti del diritto sembrano non seguire quella che è una
gerarchia delle fonti, per cui le circolari amministrative, una sorta di infradiritto degli stranieri
rappresentano oggi fonti del diritto particolarmente importanti. Abbiamo inoltre un “labirinto di
regole” di di cile lettura anche per gli addetti ai lavori, a maggior ragione per la persona
immigrata con degli e etti devastanti per il riconoscimento e il godimento dei diritti stessi. Chi
ha approfondito molto bene questo tema è stata la sociologa Iside Gjergji, nel suo testo
“Circolari amminstrative e immigrazione” 2013.

Un ultimo tema è quello del rapporto tra diritto, integrazione e cittadinanza. Abbiamo un’idea
di integrazione che parte dal Documento sull’integrazione degli immigrati quindi da un
documento politico giuridico. La politica migratoria, non è fatta solo di norme ma anche di
cosiddetti documenti di indirizzo che non hanno una diretta applicazione ma dai quali si capisce
molto bene quella che è la politica di indirizzo rispetto ad un determinato tema. Se leggiamo i
cosiddetti Documenti di indirizzo (Dai documenti programatici relativi alla politica
dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato (Dp) al Piano per l’integrazione nella
sicurezza - identità e incontro (Pi) del 2010) vediamo da un lato un’idea di integrazione che si
sposta sempre di più da un concetto bi-direzionale ad un concetto di integrazione intesa come
sforzo legato e riservato alla persona migrante, uno sforzo di adeguamento alle regole e al
riconoscimento dei valori della società italiana in cambio dell’accesso ai beni e ai servizi
necessari.Scompare il concetto di contaminazione tra culture, soppiantato da una descrizione
della società italiana come culturalmente coesa cioè veicolare l’idea che chi arriva nella nostra
società deve conformarsi ad un cultura presumibilmente coesa. Dall’idea di integrazione come
processo biunivoco si arriva sempre di più al concetto di civic integration (Zincone, Manici,
Joppke) che punta sull’adesione ai valori e ai modelli culturali della società ricevente. Questo
possiamo vederlo molto bene se lo relazioniamo all’idea dell’inclusione o dell’esclusione alla
cittadinanza. La diversità culturale diventa allora un aspetto fondamentale delle politiche di
accesso alla - e di esclusione dalla - cittadinanza (la concessione del permesso di soggiorno per
soggiornanti di lungo periodo e la cittadinanza sono subordinate anche all’adesione da parte dei
migranti a valori e modelli culturali della società ricevente).

67
ff
ffi
fi
ff
fi
18. Con itti ‘multiculturali’

Ci muoviamo ora dalla politica delle migrazioni alla giurisprudenza per vedere cosa signi ca ed in
che senso questa parte di diritto è toccata dal carattere multiculturale delle nostre società e poi
per vedere in che modo questa area del diritto può avere un impatto importante sul
riconoscimento e il godimento dei diritti e delle istanze legate al carattere ‘multi-religioso’ delle
nostre società. Non c’è dubbio infatti che il soggetto che può dare voce a persone e
rivendicazioni, altrimenti esclusi dai canali istituzionali, è proprio il giudice. La rilevanza del
giudice sta anche nel fatto di essere il soggetto che è chiamato a dare una risposta a con itti e
casi concreti e nuovi della nostra società, casi che trovano nel diritto un canale per la loro
trattazione. Una delle funzioni del diritto è infatti trattare i con itti dichiarati ed ecco allora che
vediamo alcuni con itti che entrano nell’area giuridica e di fronte ai quali il giudice deve
esprimersi.
Aree maggiormente toccate dal multiculturalismo che tocca le nostre società sono sicuramente
l’area della libertà religiosa e le sue manifestazione e l’area delle concezioni attorno alla famiglia.
Infatti, quando abbiamo analizzato la famiglia come istituzione, una delle prime cose che abbiamo
detto è proprio come cambia il concetto di famiglia: cambia se consideriamo proprio tante
tradizioni e tante ‘culture familiari’ che arrivano in Italia anche in ragione di movimenti migratori e
della presenza di terze o quarte generazioni di migranti. Aumentano infatti le concezioni attorno ai
rapporti tra coniugi, ai rapporti tra coniugi e gli. Abbiamo una serie di famiglie costituite mediante
riti ‘altri’, non riconosciuti dal nostro ordinamento per altro, abbiamo poi casi di matrimoni precoci
o combinati che indicano, oltre ad essere contrari al nostro ordinamento, la presenza di modi di
concepire il rapporto e la posizione dei soggetti all’interno della famiglia. Molto spesso il
matrimonio precoce non è un matrimonio che è frutto di una costrizione, infatti spesso il
matrimonio di ragazze minorenni nelle comunità rom non è frutto di una forzatura e di un obbligo
da parte di famiglie o soggetti sul minore.
Abbiamo poi una serie di principi, valori e norme che si ri ettono su pratiche sul corpo, che in
certi casi possono collidere con principi, valori e norme del nostro ordinamento, come le
mutilazioni sugli organi genitali femminili, altre volte sono pratiche che ri ettono dei signi cati,
vuoi legati allo sviluppo della persona, vuoi alla religione, culturali. Uno dei casi più recenti portati
in giudizio riguarda un genitore albanese che aveva baciato i genitali maschili del glio: questo
caso ha mostrato, senza arrivare a discutere sulla liceità, un modo di intendere l’a etto e
l’a ettività familiare molto diverso e lontano da quello che è un modo per relazionarsi tra genitori e
gli.

Libertà religiosa

68
fi
ff
fl
fl
fi
fl
fl
fl
fi
fi
ff
fl
fi
Ci concentriamo su questo argomento, soprattutto sulla manifestazione di questa libertà
attraverso i simboli religiosi, che rappresenta un caso signi cativo nella prospettiva sociologica-
giuridica per alcune ragioni: in primis perché la libertà religiosa è uno dei diritti umani per
eccellenza e che meglio ‘si presta’ a quel paradosso tra diritti fondamentali, di cui Bobbio diceva,
che porta ad un con itto tra diritti proprio sulla base della rivendicazione attraverso i diritti
fondamentali (diritto dell’ebreo di non lavorare il sabato, del cattolico di non lavorare la domenica
etc.); poi perché i con itti legati ai simboli religiosi in Italia non necessariamente sono gli stessi in
ogni paese caratterizzato da un pluralismo religioso, legato in Europa ai movimenti migratori.
I principali articoli della Costituzione in questo ambito sono gli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost., i quali
a ermano non un diritto assoluto, ma un diritto che trova un suo fondamento nella Costituzione.
Altri articoli importanti, questa volta a livello europeo, sono gli artt. 9 e 14 Cedu.

Perché i con itti in ragione dei simboli religiosi? In primis il diritto ‘interviene’ quando l’uso dei
simboli religiosi contrasta con principi generali o singole norme dell’ordinamento (a risposta che il
diritto dà attraverso la giurisprudenza non è univoca rispetto alla questione).
Il diritto, inteso come modalità di azione sociale, può essere utilizzato dall’attore sociale come
strumento per chiedere il riconoscimento di una propria pretesa, sia che questo venga fatto con
dei progetti di intesa, sia con l’avvio di un procedimento giudiziario. Attribuendo al simbolo un
certo signi cato, l’attore-individuo o gruppo reclama il riconoscimento e il conseguente
godimento di un particolare diritto, in questo caso di manifestare la propria religione.
È interessante vedere quali sono i simboli che nei diversi paesi europeo hanno maggiormente
causato con itti giudiziari:
• in Italia e in Spagna, perlomeno no a pochi anni fa, la questione dei simboli si muove
prevalentemente attorno alla legittimità dell’esposizione del croci sso, simbolo per eccellenza
della confessione maggioritaria. Questo però non signi ca che ‘ci sia’ meno multiculturalismo in
Italia e in Spagna. Quando infatti questi due paesi hanno come componente stabile della
popolazione persone che vengono da altri paesi, cominciano a nascere con itti attorno
all’esposizione del croci sso: nascono sia per azioni promosse da cittadini o italiani o non
italiani che si riconoscono in confessioni minoritarie, sia da persone atee che chiedono una
liberazione degli spazi pubblici, in particolare dalla scuola, dai simboli religiosi.
• In altri paesi, come la Francia e l’Inghilterra, di ben più lunga immigrazione rispetto a noi, la
questione riguarda prevalentemente l’uso di simboli religiosi riconducibili a confessioni
‘minoritarie’: p.e. la menorah (candelabro ebraico), indumenti femminili riconducibili all’Islam
(chador, hijab, niqab, burqa) o il turbante e il kirpan dei sikh.

Abbiamo dunque diversi casi e non tutti sono arrivati ad avere una de nizione mediante la
giurisprudenza, spesso sono rimasti a livello sociale e sono stati risolti in altro modo. Questi
esempi ci danno l’idea di una con ittualità, non patologica ma divenuta parte della società, legata
alla presenza di una pluralità di confessioni. Pensiamo p.e. il caso del magistrato del Tribunale di
Camerino che chiede di poter porre accanto al croci sso la menorah; il caso dell’infermiera,
italiana convertitasi all’Islam, di un ospedale Milanese che si ri uta di svolgere il proprio lavoro se
non vengono tolti dall’ospedale i croci ssi; il ri uto da parte delle autorità locali di accettare
documenti di identità da parte di donne musulmane, contenenti fotogra e che la ritraggono con
copricapi riconducibili all’Islam (in particolare chador e hijab che non coprono il viso): questo caso
fu risolto attraverso l’emanazione di due circolari del Ministero dell’Interno che sottolinearono, nel
’95 e nel 2000, come il porto di indumenti religiosi che lasciano libero il viso rappresenta una parte
fondamentale dell’identità della persona e dunque anche le fotogra e dei documenti d’identità
possono essere fatte in porto di tali indumenti; altri casi come il porto del kirpan e del burqa nello
spazio comune. Abbiamo diversi casi giurisprudenziali che riguardano l’esposizione dei simboli
nello spazio pubblico e nello spazio comune. Lo spazio pubblico è lo spazio dove vengono svolte
funzioni istituzionali (scuola, tribunale etc.); lo spazio comune è lo spazio attraversato dalle
persone in maniera libera e ‘consuetudinaria’ (piazza, negozio etc.).
69
ff
fi
fl
fl
fl
fl
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
Caso di Ofena: è stato uno dei primi casi ed ha suscitato molto dibattito, non solo a livello
giurisprudenziale. Si tratta di un caso molto importante a livello sociologico: che cosa lo ha
scatenato, quali sono state le ragioni che hanno portato il caso il tribunale etc. Il con itto in
questione trova la sua origine, per lo meno l’origine dichiarata, nel fatto che nella scuola pubblica,
frequentata da bambini che si riconoscono in religioni di erenti, l’esposizione del solo croci sso e
non di altri simboli, propri, nel caso in questione, della fede islamica, verrebbe a ledere la libertà di
religione e di uguaglianza sancite dalla nostra costituzione. La richiesta di rimuovere il croci sso
dalle aule viene avanzata nello speci co da un genitore musulmano, dopo aver chiesto di
a ggere, accanto al croci sso, nelle aule scolastiche frequentate dai gli un quadretto
ra gurante un versetto della Sura 112 del Corano. Tale richiesta viene accolta in prima battuta
dalle insegnanti, ma in seguito rigettata dal dirigente scolastico. Arriviamo così all’ordinanza di
rimozione (Tribunale di l’Aquila, 23 ottobre 2003): nel chiedere la rimozione del croci sso (come
anche di altri eventuali simboli religiosi) il giudice si richiama, tra l’altro, al principio di laicità. In
tale principio può trovare fondamento l’imparzialità che l’istituzione pubblica deve garantire di
fronte al fenomeno religioso. Questa decisione suscitò a livello sociale, nel paesino di Ofena, una
grande insoddisfazione. In realtà poi la decisione venne ribaltata, come altre successive che
hanno portato alla de nizione della non incompatibilità tra principio di laicità ed esposizione del
croci sso.

Abbiamo sentenze molto importanti che attribuiscono al croci sso un signi cato che va al di là del
suo signi cato religioso: è il caso del TAR Veneto (sentenza n. 1110 del 17 marzo 2005). Il
croci sso deve essere considerato “non solo come simbolo di una evoluzione storica e culturale,
e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà,
eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi
questi che innervano la nostra Carta costituzionale. In altri termini, i principi costituzionali di libertà
hanno molte radici, e una di queste indubbiamente il cristianesimo, nella sua stessa essenza.
Sarebbe quindi sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in
nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione
cristiana. È interessante l’attribuzione di signi cato che il giudice da al simbolo per legittimarne
l’esposizione.

Ancora più importante è la sentenza della Grande Chambre (sentenza 18 marzo 2011) in merito
alla causa Lautsi e altri c. Italia. La sentenza de nitiva pronunciò che: è legittima la scelta dello
Stato di riservare maggiore visibilità alla religione maggioritaria del Paese attraverso la semplice
esposizione di un simbolo religioso (quale il croci sso) negli ambienti di scuola, sempre che tale
scelta non conduca al vero e proprio indottrinamento. La sola a ssione del croci sso nelle aule
scolastiche, non accompagnata da insegnamenti obbligatori del cristianesimo né da forme di
intolleranza verso gli alunni di religione diversa, non viola il diritto dei genitori di orientare i propri
gli verso un’educazione conforme alle proprie convinzioni religiose (art. 2 del Protocollo n. 1).

Sikh e porto del kirpan


A partire da alcuni anni fa, i simboli attorni ai quali vengono
portati in giudizio con itti sono sempre più quelli
riconducibili a confessioni minoritarie. Qui vediamo il caso
dei con itti attorno al porto di un simbolo particolare: il
kirpan, un pugnale che rappresenta un dei simboli
fondamentali ed obbligatori della religione dei sikh. Devono
averlo con sé gli uomini adulti, ma anche i bambini possono
portarlo. Uno dei primi casi attorno al porto del kirpan, che si è concluso con la sentenza che
legittima il suo porto nelle aule scolastiche, è quello conclusi dalla sentenza della Corte Suprema
del Canada sul caso Multani c. Commission scolaire Marguerite-Burgeoys. Abbiamo anche altri
70
fi
ffi
ffi
fi
fi
fl
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
paesi come il Regno Unito che col Criminal Justice Act del 1988 prevede una deroga alle leggi in
materia di porto di armi, proprio in relazione al porto del kirpan. È allora chiaro che il
bilanciamento tra diritti (in questo caso il diritto al porto del kirpan) è quello tra la libertà religiosa e
la sua manifestazione e il principio di sicurezza pubblica. Come è possibile bilanciare questi due
diritti? Qual’è la strada percorribile? L’orientamento della giurisprudenza italiana di merito ha
oscillato tra il far prevalere l’argomento della sicurezza, condannando coloro che lo indossavano,
e il riconoscere invece la sussistenza del “giusti cato motivo” derivante dall’appartenenza alla
religione o la sostanziale innocuità del coltello rituale. La Corte di Cassazione invece, nelle tre
pronunce sul porto del kirpan, si è sempre espressa facendo prevalere la sicurezza pubblica sulla
libertà religiosa. Ma quello che è importante sottolineare di tali pronunce è proprio lo slittamento
negli argomenti portati a supporto di questa posizione: se infatti nelle sentenze del 2016 la Corte
di Cassazione si limita a far prevalere, nel bilanciamento dei diritti, la sicurezza pubblica rispetto
alla libertà religiosa; diversa e più ‘discutibile’ è la pronuncia del 2017 in cui la Corte di
Cassazione, oltre a far prevalere la sicurezza pubblica sulla libertà religiosa, introduce un nuovo
argomento su cui si dilunga molto: l’obbligo, per l’immigrato, “di conformare i propri valori a quelli
del mondo occidentale” (sono le parole del giudice nella sentenza n. 24739 del 1.3.2016).
Il giudice si esprime così, anche scegliendo accuratamente i termini che utilizza: “In una società
multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identi cazione di
un nucleo comune (i principi costituzionali, che vanno poi concretizzati in norme speci che, sono
il nucleo comune attorno al quale tutte le persone, al di là che siano cittadini, immigrati o altro, si
riconoscono. Legando questo nucleo comune al porto del kirpan, possiamo vedere se troviamo
una corrispondenza tra porto del kirpan e violazione di un nucleo comune) in cui immigrati e
società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della
cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo
sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica (che
bisogno c’è di parlare di una civiltà giuridica della società ospitante sentendo l’esigenza di
metterla in con itto-contrapposizione, come poi avviene nel seguito della sentenza, con civiltà
‘altre’ diverse ed evidentemente incompatibili) della società ospitante. È quindi essenziale
l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha
liberamente scelto di inserirsi, e di veri care preventivamente la compatibilità dei propri
comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione
all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e
si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza
(queste sono scelte lessicali che veicolano un messaggio di necessaria diversità, di diversità ed
incompatibilità di partenza, rispetto alla quale l’immigrato da solo deve fare uno sforzo: questa
pronuncia può essere criticabile sotto questo aspetto, cioè di partire da un’a ermazione forte che
è quella di ‘mondi separati’. Il pericolo di questa sentenza è proprio quella di veicolare e porsi in
quella scia di opinione sociale, con qualche responsabilità in più rispetto al professionista del
diritto, nel veicolare un’informazione corretta, per cui la società è frutto di un movimento da un
mondo diverso nei principi fondamentali dal nostro e che non trova un fondamento nel nostro
ordinamento) ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure
leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della
società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di
arcipelaghi culturali con iggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del
tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da
tutelare e, a tal ne, pone il divieto del porto di armi e oggetti atti a o endere.” Questa sentenza
rappresenta la con ittualità delle dinamiche di integrazione che costituiscono le società
contemporanee.
Dalla contrapposizione alla ricerca di soluzioni: parliamo di una proposta in eri che la comunità
sikh voleva presentare allo stato italiano rispetto al kirpan, che è stata già la soluzione trovata in
altri stati, ovvero di trasformare il kirpan in modo da eliminare l’oggettiva componente di
pericolosità, per esempio la possibilità di prendere il porto del kirpan incollato al fodero in modo
71
fl
fi
fl
fl
fi
fi
ff
ff
fi
fi
fi
da non poter essere rimosso. Ci auspichiamo che questa soluzione, già adottata in alcuni stati
degli U.S.A. per esempio, possa essere adottata dall’Italia e che rappresenti una ricerca di
soluzioni e, quindi, il superamento di una contraddizione che nel messaggio dei professionisti del
diritto rappresenta una comunicazione non favorevole a quelle dinamiche positive di coesione che
è bene caratterizzino sempre di più le nostre società puri-religiose e multiculturali.

19. Diversità culturale, marginalità sociale, con itti


Andiamo ad approfondire un caso che mette insieme una serie di aspetti che abbiamo già trattato
come il tema della diversità culturale, del pluralismo giuridico, della sicurezza, del ruolo del diritto e
della responsabilità del diritto. Quando parliamo di diversità culturale marginale e di con itti c’è un
gruppo sociale che incarna questi aspetti perfettamente e richiama tutta una serie di questioni e
processi che abbiamo analizzato in questo corso: si tratta dei rom, quelli che nella percezione
pubblica e nella classi cazione corrente vengono de niti “zingari”.
Attraverso alcuni approfondimenti che riguardano alcuni aspetti di parte della loro cultura, il
rapporto tra alcuni gruppi e la più ampia società, ci servono come spunto di ri essione per una
serie di considerazioni.

Di chi stiamo parlando quando parliamo di zingari, nomadi, rom e sinti?


• Parliamo di una popolazione composita diversi cata al suo interno, di dif cile classi cazione,
soprattutto con una classi cazione che in buona parte l’abbiamo fatta noi che non facciamo parte
di questo popolo
• Il termine zingaro (e tutti gli equivalenti che troviamo in altre lingue – gypsy, tsigano, tsigane,
cigano, gitano) è un eteronomo, cioè un termine imposto dall'esterno da chi, in una certa fase
storica, ha avuto il potere di farlo, di classi care queste persone con termine che è diventato il
più comune per identi care determinate persone
• L’altro termine più usato è quello di rom che deriva dalla lingua parlata dalla maggior parte dei
gruppi che si riconducono al popolo zingaro e signi ca “uomo libero”. La lingua romanense è
parlata da molti gruppi e Rom è anche il termine che da il nome ad un sottogruppo di questo
popolo

Partiti dall’India, secoli fa, questo popolo si è mescolato con popolazioni in tutte le società del
globo e questa diffusione in tutti i continenti ha determinato la formazione di gruppi, e sottogruppi,
di abitudini, di lingue e costumi diversi, di organizzazione sociale. Sappiamo che le culture non
sono monadi infatti dipendono e sono in uenzate dalle circostanze, dai tempi e dalla situazione
sociale attorno. Abbiamo quindi molti gruppi e sottogruppi, in Italia conosciamo soprattutto i rom e
sinti ciascuno presenta la propria storia e si suddivide a sua volta in altri sottogruppi, per esempio
in Italia abbiamo molti sottogruppi costituiti da persone di cittadinanza italiana che prendono il loro
nome dalla zona nella quale tanti anni fa si sono formati (abbiamo i sinti piemontesi, i sinti emiliani)
oppure ad esempio per quanto riguarda i rom, sottogruppi del sottogruppo rom vengono nominati a
partire dalle attività tradizionali, dal lavoro che questi nel passato svolgevano, quindi i rom
kalderasa (i lavoratori del rame), gli allevatori dei cavalli ecc.

Qual è lo status giuridico dei rom e dei sinti in italia?


• Abbiamo rom provenienti dalla Romania che sono cittadini europe
72
.

fi
fi
fi
fl
fi
.

fi
fi
fi
fl
i

fi
fl
fi
fl
• di nazionalità italian
• provenienti dai Balcani (a seguito del con itto dei balcani negli anni ’80)
a) Apolidi riconosciuti (rarissimi)
b) Apolidi de facto
c) Soggiornanti di breve periodo a rischio di mancato rinnovo o con rinnovo dovuto alle varie
sanatorie
d) Rarissimi soggiornanti di lungo termine (da più di 5 anni)

Abbiamo una galassia anche di statuti giuridici, dove però è importante sottolineare che la maggior
parte dei rom e dei sinti che vivono nei nostri paesi sono cittadini italiani. La questione rom per
molti aspetti è una questione “specchio” di moltissime dinamiche, di moltissimi caratteri tanto della
nostra società quanto del nostro mondo giuridico. Abbiamo rom e sinti che vivono nei campi (noi
infatti tendiamo a classi care i rom e sinti solo con quelli che vivono nei campi). Questo è un dato
molto importante sul quale ri ettere, poichè la nostra percezione ci inganna molto così come coloro
che contribuiscono ad alimentare la nostra percezione. È importante sapere che esistono tanti rom
e sinti che non conosciamo come tali perchè “sono uguali a noi”, perchè studiano e lavorano,
vivono nelle case e sono tanto consapevoli della distanza e del rischio di discriminazione e
pregiudizio che la maggior parte di loro nasconde il fatto di essere Rom o Sinti.
Un altro punto importante è il legame tra cultura e marginalità socio-economica. In questa
lezione ci occupiamo dei rom che vivono nei campi perchè coloro assommano questa duplice
questione della cultura e della marginalità socio-economica.
E altro aspetto, il ruolo del diritto nel creare identità, anche il diritto ha contribuito a veicolare un
certo tipo di immagine del rom che è innanzitutto nomade, tendenzialmente straniero, che dentro
alcuni provvedimenti normativi detti “pacchetti-sicurezza” è de nito come deviante nel momento in
cui associa il campo regolare o irregolare come luogo di alta pericolosità sociale.
E anche il ruolo del diritto nella tutela e riconoscimento dei diritti: il diritto è uno strumento di
potere attraverso il quale, tra le altre cose, il potere si manifesta nella possibilità di creare identità
ed etichette ma il diritto è anche un formidabile strumento di rivendicazione e di tutela dei diritti.

Cosa si intende per Nomadismo?


Il Nomadismo è uno stile di vita caratterizzato da uno spostamento da un luogo all’altro attorno al
quale si sviluppa una cultura, un’organizzazione sociale e anti-giuridica. La maggior parte dei rom
in Italia non ha mai avuto una vita nomade, forse lo era nel passato ed eventualmente oggi è semi-
nomade. La famiglia Orfei, che da generazioni porta il proprio circo in tutte le città, è una famiglia
sinta che ovviamente ha bisogno di spostarsi da un luogo all’altro, in ragione della sua attività, ma
non è una vita nomade è semi-nomade, poichè scandita da dei percorsi che possono essere
funzionali all’attività lavorativa. Non possiamo parlare di nomadismo nel caso di persone rom che
si nascondono perchè coinvolti in attività illecite e neanche parlando di quelle persone che non
hanno il permesso di soggiorno e quindi girano da una parte all’altra pur di non farsi riconoscere.
Questa idea di nomadismo viene portata avanti dal diritto soprattutto dalle leggi regionali che negli
anni ’80 tutelavano quest’identità nomade delle popolazioni rom e sinti e quello che ha
caratterizzato la storia della politica nei confronti dei rom e dei sinti in Italia è la costruzione di
campi. Abbiamo questa duplicità all’interno del mondo giuridico politico: da un lato abbiamo il
perpetuare e il mantenere questa forma di abitare esclusivamente pensata per i rom, che viene
legittimata con molti argomenti e quindi è una legittimazione anti-giuridica di questa politica. Al
tempo stesso abbiamo una serie di pronunce e ne riportiamo una del 2015 del Tribunale civile di
Roma, che a proposito di un campo nomadi, La Barbuta, de nisce “spazio di discriminazione su
base etnica” e impone il trasferimento delle 600 persone (di cui metà bambini) da questo campo a
luoghi più consoni per una vita normale.

«Deve [...] intendersi discriminatoria qualsiasi soluzione abitativa di grandi dimensioni diretta
esclusivamente a persone appartenenti a una stessa etnia, tanto più se realizzata [...] in modo da
73
a

fi
fl
fl
fi
fi
ostacolare l’effettiva convivenza con la popolazione locale, l’accesso in condizione di reale parità ai
servizi scolastici e socio-sanitari e situato in uno spazio dove è posta a serio rischio la salute delle
persone ospitate al suo interno».

Questo testo ci da un’idea dell’ambivalenza di quello che è il mondo giuridico vivente che è un
mondo che può contemplare due modi di procedere esattamente opposti: il mantenimento e la
condanna dei campi. La Barbuta esiste ancora e le sue foto ricordano un campo di
concentramento. La politica italiana dei campi ri ette e si concretizza in una separazione sica e
culturale perchè sempre i rom in Italia sono considerati stranieri, non solo da un punto di vista
giuridico ma anche sociologico, persone che non riconduciamo a nessun luogo, è uno straniero a
prescindere dalla sua condizione giuridica, come abbiamo visto in molte ricerche sull’opinione
pubblica. C’è una sorta di ri uto nell’includere nella cittadinanza italiana delle persone che nel
nostro immaginario sono così diverse da noi, ma il rom è dentro i con ni dello Stato quindi, nella
maggior parte dei casi, viene approntata una politica che permette di separare un gruppo da un
altro, quella separazione che risponde a una domanda di sicurezza, di percezione di dif denza.
Allo stesso tempo è proprio il rom che se si trova in una situazione di precarietà e debolezza si
nasconde, si ferma in un luogo lontano e separato. Questa separazione ha dato luogo ad una
relazione tra rom e sinti e il resto della popolazione che è una relazione di profonda dif denza
reciproca.
Abbiamo una serie di ordinanze, alcune rimosse, da parte di molte città e comuni italiani che fuori
dalle loro province sottolineano il divieto di sosta e di nomadismo ancora una volta identi cando il
nomadismo, ancora una volta, con una certa popolazione. La maggior parte dei rom è stanziale e
la vita semi-nomade è oggi tipica dei giostrai, eppure in Italia a lungo i rom sono una questione
riconducibile al nomadismo e/o all’immigrazione quindi anche l’idea che il diritto cada
volontariamente o meno in questa identi cazione.

Si riportano nelle slides (33) un paio di siti che ci danno un’idea di come ci sia una relazione tra
quelle che sono classi cazione e il modo in cui “la questione rom” viene affrontata nel nostro
paese. Le istituzioni Europee sono state le prime a occuparsi dei rom alla ne degli anni ’60
predisponendo una serie di attività, non obbligatorie, ma di incentivo agli Stati membri di
provvedere a delle politiche inclusive e non discriminatorie nei confronti di questa popolazione.

È importante adesso porre l’attenzione sulla relazione tra diversità culturale e marginalità
sociale. Il diritto uf ciale rappresenta una piccola parte di quello che è il sistema normativo sentito
come vincolante all’interno di molte comunità rom e sinte che hanno elaborato nel tempo le proprie
regole attraverso un’organizzazione sociale fondata su piccoli nuclei, piccole comunità. Hanno
elaborato meccanismi di composizione dei con itti che ricordano i tribunali, o delle procedure di
mediazione. È quindi un classico caso di pluralismo giuridico e di interlegalità perché il rom che
vive in Italia è immerso in sistemi normativi plurali che in uenzano la propria vita e che in qualche
modo la persona segue, siano norme che riconduciamo all’ordinamento giuridico dello Stato sia
che si tratti di norme consuetudinarie, oralmente tramandate che tentano in certa misura di
preservare alcuni aspetti di un’identità collettiva; in particolare questo sistema normativo è incisivo
all’interno di determinate comunità ed è un sistema che riguarda fondamentalmente la famiglia.

Analizziamo adesso un particolare istituto che ben si presta ad essere letto, da un lato come
esempio di pluralismo giuridico della nostra società, esempio di norme non uf ciali ma vincolanti e
seguite all’interno di una comunità per costituire una famiglia e come, al tempo stesso, questo
modo di costituire la famiglia sia tanto vivo quanto non considerato dalla nostra giustizia, dal nostro
diritto e in certi casi anche sanzionato. In diverse comunità il matrimonio segue norme e riti diversi
da quelli previsti dall’ordinamento giuridico e quindi da quest’ultimo non riconosciuto. Moltissimi
rom si sposano seguendo un rito loro che prevede per esempio la fuga dei danzati e molto
spesso questi rom che si sposano secondo i loro riti registrano poi il matrimonio perché abbia
74
fi
fi
fi
fi
fl
fl
fl
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
effetti nell’ordinamento giuridico italiano. Capita però che, in alcuni contesti, i matrimoni non
vengano registrati e vengano celebrati anche tra o con minori di età e questo produce dei
problemi. Il risultato di una ricerca svolta nelle baraccopoli romane mostra come quasi il 50% dei
matrimoni avviene prima di aver compiuto 18 anni, il 72% a un età compresa tra i 16 e i 17, il 28%
tra i 12 e i 15 anni.

Qual è il signi cato? perché? quale apertura il nostro ordinamento prevede a pratiche nuove? è
possibile ipotizzare qualche forma di riconoscimento al matrimonio rom? quali ricadute comporta
questo matrimonio nella giustizia penale?

Le ragione del matrimonio precoce sono evidenti, sposarsi dentro la comunità signi ca
preservarne l’unità, quindi vengono incentivati. Associati al valore della verginità soprattutto
femminile, questi due aspetti promuovono anche questo numero molto alto di matrimoni precoci.
Non è però solo una questione derivante da una sorta di “cultura” del gruppo, infatti nelle interviste
fatte in particolare da un’associazione della difesa dei diritti e delle persone rom e sinte
(associazione 21 luglio) c’è anche il tema del prestigio sociale associato al matrimonio, bisogna
infatti pensare a delle ragazzine nate e cresciute in un campo nella profonda periferia che
evidentemente vede nel matrimonio una realizzazione personale, c’è la possibilità di vedersi
protagonista di una famiglia propria, c’è questo tema che ci richiama quella che è l’età sica e età
sociale e che ci pone la seguente domanda: quali alternative hanno i minori che nascono e vivono
nelle baraccopoli rispetto ad un matrimonio in età precoce o combinato?

Facciamo un piccolo approfondimento soffermandoci su tre sentenze che riguardano il matrimonio:

I. La prima esclude la rilevanza giuridica del matrimonio celebrato secondo il rito rom e il caso è
interessante perchè si tratta di un giovane immigrato irregolare rom, sposato con rito rom, che
viene espulso dal prefetto di Milano, al quale il GdP di Milano, equiparando la convivenza more
uxorio al coniugio, aveva concesso di rimanere in Italia perchè la moglie era incinta (la
disciplina delle immigrazioni prevede, tra le poche eccezioni dell’espulsione dell’immigrato
irregolare, il fatto che sia sposato e che la moglie sia in gravidanza). In questo caso i due
giovani sono sposati, la moglie è incinta ma non sono sposati secondo il rito italiano quindi la
Corte di Cassazione accoglie il reclamo del prefetto richiamando il fatto che la causa di
esclusione (matrimonio e gravidanza) opera a condizione che tale rapporto trovi
riconoscimento nell’ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza dello straniero.

II. È interessante vedere una pronuncia della Corte Europea dei Diritti Umani in una sentenza che
contrappone una signora gitana contro la Spagna. Qui era successo che l’autorità spagnola
non aveva riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità, ad una cittadina di etnia rom,
perchè secondo tali autorità non risultava coniugata avendo contratto il matrimonio con il rito
rom senza mai uf ciare il matrimonio civile dopo la legge di riforma del 1981. Nella
legislazione spagnola no all’81 era permesso solo il matrimonio con rito cattolico, il civile solo
nei casi di apostasia. Tenendo conto di questo background storico, la Corte costituzionale
spagnola aveva riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità ad alcune categorie di
persone che non avevano potuto contrarre matrimonio prima del 1981 per ragioni di libertà
religiosa e di coscienza, così come a persone che avevano in buona fede contratto il
matrimonio e avevano coabitato con la persona assicurata, ma il cui matrimonio era stato
dichiarato nullo. Ugualmente, nel caso in questione le autorità spagnole avevano in
precedenza riconosciuto la quali ca di sposa alla ricorrente ai ni dell'erogazione degli assegni
familiari e di altre provvidenze concesse in favore delle famiglie numerose. In questo caso la
Corte Europea decise invece che il diniego costituisce una violazione dell’art. 14 della
Convenzione e abbiamo una frase interessante “se l’appartenenza di una minoranza non

75
fi
fi
fi
fi
fi

fi
fi
dispensa a rispetto delle leggi che regolano l’istituto del matrimonio, quest’appartenenza può
in uire sul modo di applicare le medesime leggi”

III. L’ultimo è un caso che ha escluso la rilevanza giuridica del matrimonio rom e che ha portato ad
una sanzione di tipo penale, si tratta di un caso che ricade nell’art 609quater (atti sessuali con
minorenne consenziente) causata da questo fatto. Viene fatto ricorso avverso a una sentenza
della corte di Appello di Sassari che aveva condannato a un anno un giovane che all’epoca dei
fatti aveva 22 anni, aveva sposato una minore rom di 15 anni con matrimonio rom ed è stato
accusato per aver compiuto atti sessuali con persona consenziente minore di 16 anni. Nel
ricorso in Cassazione il difensore oppone che non ci fosse nessuna situazione di soggezione
ma la Corte di Cassazione non gli da ragione e sancisce che il matrimonio rom non rileva
perché prima dei 16 anni non sussiste la capacità a contrarre i matrimoni. Vengono tenuti in
considerazione e la condanna è minima rispetto a quanto previsto dall’art 609quater ma questo
è senz’altro un caso di non facile soluzione.

Questo ultimo caso in particolare, ma tutta la questione rom, ci fanno pensare a tante domande: il
giudice avrebbe dovuto tenere maggiormente in conto la cultura dei giovani? La condanna ha
tutelato il superiore interesse della minore?
Possiamo pensare a quella che può essere una tutela dei minori rom che vivono in particolare in
situazioni di marginalità oltre lo strumento penale e qui ci viene in aiuto una ri essione su che cosa
sia una libera scelta, su che cosa signi chi il fatto che una giovane rom decida di sposarsi anche
così presto e se possiamo interpretare come libera questa sua scelta. Se pensiamo a questi
giovani rom possiamo chiederci che cosa il diritto dovrebbe fare, qual è la funzione principale del
diritto e se fosse la difesa e la tutela dei diritti è bene che la politica e il diritto si pongano in una
prospettiva che rendano possibile una vita diversa per loro.

La libera scelta
• è il diritto e la promozione delle condizioni per la libera scelta;
• una scelta non obbligata (una tra più scelte possibili, molte ragazzine intervistate di fronte al
desiderio di sposarsi o al desiderio di proseguire i loro studi hanno risposto che se avessero la
possibilità di studiare, sicuramente si sposerebbero più tardi)
• la possibilità di cambiare idea (una scelta reversibile)
• una scelta consapevole
Tutto questo ci porta a concludere che tutti i discorsi ci devono richiamare all’aspetto dell’accesso
ai diritti economico-sociali perché solo l’accesso e il vero godimento di questi può rendere libera la
scelta di mantenere alcuni aspetti della propria cultura.

76
fl
:

fi

fl

Potrebbero piacerti anche