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COSA SIGNIFICA COMUNICARE?

Introduzione

Molte delle parole che compongono il nostro vocabolario hanno vari signi cati, a volte piuttosto
diversi tra loro e a volte invece, molto simili. Le di erenze possono essere così sottili da sfuggire o
creare di coltà anche ad un italiano madrelingua. Ad esempio “Comunicazione”.

Questa parola indica un atto, o un processo, del quale, a partire dal secolo scorso, sono state
proposte numerose de nizioni.

Secondo la teoria formulata dal linguista Roman Jakobson negli anni 60 del 900, la
comunicazione è un passaggio di informazioni da un individuo (l’emittente) a un altro
(destinatario): processo unidirezionale in cui il messaggio viene inviato dall’uno e ricevuto
dall’altro.
Il messaggio è organizzato secondo un codice il quale deve essere almeno pensato come
comune ai due soggetti; tra questi deve esserci un contatto ( sico o psicologico) a nché il
messaggio inviato possa arrivare a destinazione, ovvero un canale che li colleghi. Ogni
comunicazione avviene in un determinato contesto che include gli oggetti cui il messaggio si
riferisce.

Il modello di Jakobson individua il nucleo centrale della comunicazione nel lavoro di codi ca dei
messaggi: il loro signi cato letterale.

La comunicazione include, però, anche contenuti che non vengono espressi in modo
esplicito,;rilevante non è il signi cato letterale del messaggio, ma quello implicito che il
destinatario può comprendere a partire dalle proprie conoscenze.

Un’altro senso di “comunicazione” trae spunto dal signi cato etimologico della parola
“comunicare”, dal latino communis (comune) che signi ca mettere in comune, condividere; quindi,
interagire.

È proprio nell’interazione tra individui che consiste la comunicazione secondo la teoria


dello psicologo e losofo Paul Watzlawick. La sua teoria non si fonda, dunque, su un
processo lineare, ne unidirezionale, bensì circolare. Gli individui che comunicano hanno tutti
parte attiva nello scambio, in quanto ogni messaggio successivo a quello con cui la
comunicazione inizia è in uenzato dalla reazione di chi lo riceve, ed i ruoli di emittente e
destinatario vengono svolti, a turno, da tutti coloro che sono coinvolti nel processo.
De nire la comunicazione con questi termini vuol dire sottolineare la funzione pragmatica, ossia
un mezzo per compiere altre azioni e scambiare messaggi e caci, adeguati al raggiungimento di
determinati scopi.

Comunicare, quindi, non signi ca semplicemente trasmettere informazioni: la comunicazione è


anche un mezzo per informare.

Da questa teoria si può evincere che non è unicamente attraverso le parole che interagiamo con
gli altri, il linguaggio verbale è solo uno degli strumenti che gli esseri umani dispongono per
comunicare; i linguaggi non verbali, come ad esempio la gestualità o le espressioni del volto,
possono essere altrettanto signi cativi.

Quello comunicativo, dunque, è un processo piuttosto complesso, tanto da diventare oggetto di


indagine per molte discipline. Tra le tante, di nostro particolare interesse è l’etica della
comunicazione; un ramo dell’etica loso ca rivolto all’analisi degli interrogativi e dei problemi
morali che emergono in vari ambiti e luoghi della comunicazione.

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CAPITOLO 1
Etica e vita quotidiana

Distinzione tra Etica e Morale

Il termine “morale” ricorre in molti contesti della vita quotidiana e spesso lo si usa come sinonimo
di “etica”. Questa sinonimia ha una giusti cazione etimologica: “etica” deriva dal greco ethos
come “morale” deriva dal latino mos ed entrambe le parole sono traducibili in “costume”,
indicando cioè un modo abituale di agire.

Nel linguaggio loso co invece, i due termini, sono distinti: “etica” indica lo studio dei
fenomeni morali, “morale” invece denota l’oggetto dell’etica (per esempio i principi e i
doveri morali).

Come ogni de nizione, quella di etica e di morale, sono frutto di convenzioni linguistiche utilizzate
per indicare speci ci fenomeni racchiusi in tali termini.

È proprio nella di coltà di stabilire con chiarezza qual’è l’oggetto del discorso ha origine
quella di tracciare una distinzione esatta tra l’etica e la morale. Non ci sono, infatti, una
sola etica ed una sola morale ma varie, a seconda del contesto di volta in volta rilevante e i
problemi cui si tenta di dare una soluzione.

Problemi morali e contesti speci ci:


Le etiche applicate.

La ri essione loso ca novecentesca sull’etica si è concentrata prevalentemente su vari aspetti.


Una prima ri essione indaga su questioni formali riguardanti le questioni della metaetica, ovvero:
il signi cato dei termini morali ( che sono “dovere”, “buono” e “giusto”), lo statuto semantico degli
enunciati morali e la giusti cazione degli stessi enunciati.

Un’altro aspetto da trattare e quello che concerne l’etica normativa, che si occupa di questioni
“sostanziali”, che sono: i criteri di valutazione morale, i principi che devono guidare l’azione, i
doveri e le virtù. Sia la metaetica che l’etica normativa riguardano, quindi, questioni di natura
teorica.

Sul nire degli anni sessanta sia per vari fattori di carattere sociale e politico sia in seguito alle
nuove possibilità aperte dal progresso scienti co e tecnologico, nel mondo anglosassone la
loso a morale trovò nuovi ambiti d’indagine nei problemi che l’epoca gli o riva. Nacque così
l’etica applicata.

Quella predominante nel dibattito loso co, ma anche al di fuori di esso, è la bioetica, ovvero lo
studio etico (secondo principi e valori morali) del comportamento umano sui problemi della vita: il
suo inizio (contraccezione, aborto, fecondazione assistita, ecc), la biotecnologia umana (l’insieme
delle tecniche mediante cui è possibile applicare le scoperte della genetica) e la ne della vita (ad
esempio le questioni legate all’eutanasia, del suicidio assistito o del trapianto degli organi, ecc).

Fin qui la bioetica è umana, ma in un’accezione più ampia la parola “vita” include anche quella
degli animali e dei vegetali; per questo, infatti, la bioetica si estende ai problemi morali che li
riguardano. Si tratta di problemi che si sono imposti all’attenzione loso ca in seguito alla nascita
di movimenti animalisti, che assieme agli studi di etologia hanno ridotto la distanza tra l’uomo e
gli altri esseri viventi, e all’analisi dei problemi ambientali causati in larga parte dal comportamento
umano (ad esempio l’inquinamento, surriscaldamento dell’atmosfera, ecc). Tutti questi fattori
hanno portato all’estensione di quella che è chiamata comunità morale e in particolare della
sfera dei pazienti morali, ovvero destinatari di attenzione morale e di doveri speci ci da parte
dell’uomo senza che loro non ne abbiano alcuna nei confronti dell’essere umano.

Dall’ampliamento della comunità morale hanno avuto origine la bioetica animale e la bioetica
ambientale.

La bioetica animale a ronta i problemi relativi al comportamento ed ai doveri verso gli esseri
senzienti, ovvero gli animali. Chi assume una posizione radicale sostiene la parità degli interessi
dell’uomo e degli altri animali; chi assume un orientamento moderato, invece, a erma la
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distinzione tra i due tipi e la prevalenza dell’uomo e propone “un’etica della responsabilità verso
gli animali”.

Al centro della bioetica ambientale invece ci sono i doveri dell’uomo verso la natura: degli esseri
animati non senzienti (vegetali) e quelli inanimati(terra, rocce, corsi d’acqua, ecc). Si tratta di
doveri “indiretti”, di cui la natura è destinataria perchè è un mezzo di sopravvivenza per l’uomo,
oppure di doveri “diretti”, ovvero doveri che l’uomo ha indipendentemente dai propri interessi?

La prima tesi presuppone una forma antropocentrica, secondo cui la natura ha un valore
meramente strumentale. La seconda tesi invece, invece, funziona al contrario; è fondata su una
posizione non antropocentrica, secondo cui gli interessi umani non sono prioritari rispetto a quelli
della natura. La si deve rispettare e proteggere perchè ha un valore intrinseco.

Entrambe le tesi presuppongono una distinzione tra interessi umani e quelli della natura che viene
negata dall’ecologia profonda che a erma la simbiosi tra uomo e natura: l’uomo è parte dell’altra.

Se la sfera dei pazienti morali viene considerata dal punto di vista temporale, il problema che si
pone è se le generazioni presenti di esseri umani abbiano responsabilità e doveri morali nei
confronti di quelle che esisteranno o potrebbero esistere in futuro e se li hanno, di quali doveri si
tratti. Lo a ronta l’etica delle generazioni future, frutto della ri essione sulle conseguenze
negative che avranno (o potrebbero avere) sulle generazioni future certe scelte e azioni di quelle
presenti (per esempio la produzioni di sostanze nocive o l’abuso di risorse naturali).

Tra le etiche applicate vale la pena menzionare la neuroetica, nata all’inizio del XXI secolo dalla
convergenza tra ri essione etica e neuroscienze, le discipline che studiano il sistema nervoso.
Altre, minori, etiche applicate sono: l’etica sessuale (a ronta questioni morali riguardanti vari
aspetti e fenomeni della sessualità umana; come l’adulterio, la pedo lia, la pornogra a, ecc),
l’etica del territorio (etica ambientale), etica degli a ari. Quest’ultima include l’etica
dell’impresa e l’etica delle professioni.

In ne, ma non meno importante, c’è l’etica della comunicazione, che indaga i problemi morali
riguardanti i diversi ambiti della comunicazione e ricerca i principi ai quali questa deve attenersi.

Che cos’è l’etica applicata?

Sulla questione “che cos’è l’etica applicata?” esiste ormai un’ampia scelta di studi che sono
giunti a moltissime risposte. Quelle principali sono tre:

una semplice applicazione degli strumenti concettuali propri delle etiche tradizionali a speci ci
campi d’indagine, una nuova forma di etica capace di modellare e modi care i suoi principi in uno
scambio continuo con la problematicità della vita morale contemporanea, il punto d’approdo
dell’intera storia culturale e morale del mondo moderno e al tempo stesso una forma di pensiero
adatta all’epoca nella quale viviamo o verso la quale ci avviamo.

La denominazione stessa di quest’ambito è controversa. Alcuni preferiscono “etica applicata”


perchè corrisponde meglio di altre al contenuto di quest’ambito; a parere di altri invece, essa
suggerisce “un’applicazione meccanica” della teoria a questioni pratiche, da qui la scelta di etica
pratica.

Accettando la prima espressione (la più di usa), si può concordare sulla problematicità della
de nizione dell’etica applicata come applicazione di teorie generali a problemi morali particolari.
Ci sono, infatti, molte obiezioni a questa de nizione.

Una delle tante a erma, per esempio, che anche se disponiamo di principi che possono guidare
le nostre scelte di fronte a problemi di un certo tipo, le singole situazioni hanno caratteristiche
spesso non riconducibili ad un principio, a meno che non lo si rimoduli per renderlo applicabile a
ciascuna di esse.

Altre obiezioni possono essere rivolte alla tesi secondo cui i principi morali costituiscono un punto
d’arrivo nell’a rontare i problemi morali in contesti speci ci: è dai singoli casi che occorre
muovere per formulare principi.

Entrambe le tesi esaminate risultano insoddisfacenti: se, da un lato, occorre rendere i principi
su cientemente speci ci per poterli applicare ai singoli casi, dall’altro è necessario analizzare
ogni caso alla luce di principi morali generali.

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Ambedue le condizioni sembrano essere soddisfatte da un terzo modello di etica applicata: quello
dell’equilibrio ri essivo che consiste nella ricerca di un equilibrio, o coerenza, tra un insieme di
giudizi morali ponderati, frutto di conoscenza dei fatti e ri essione, e un complesso di principi che
li rispecchi.

L’equilibrio va di volta in volta raggiunto, non è mai de nitivo: anche i giudizi morali accettati in un
certo momento devono essere rivalutati. Altrettanto vale per i principi: nemmeno quelli formulati
nell’etica applicata sono immutabili, la ricerca di possibili incoerenze non ha mai ne e resta
costantemente aperta la possibilità che casi nuovi mettano in discussione i principi applicati in
precedenza.

Nemmeno il modello dell’equilibrio ri essivo, tuttavia, appare privo di problemi. La coerenza tre
principi e giudizi morali non costituisce un criterio su ciente di giusti cazione, come si raggiunge
la coerenza? Come si è sicuri di averla raggiunta?

Tali quesiti richiedono una risposta, la poca chiarezza è data dalla vaghezza del modello di
discussione e, quindi l’impossibilità di applicarlo ai singoli casi per i quali occorre esprimere una
valutazione e decidere come agire.

Da quanto si è appena detto risulta evidente la di coltà di de nire un metodo di giusti cazione
per l’etica applicata, di coltà che emerge anche negli altri ambiti della ri essione etica.

Dai Principi alle Norme:


Le Deontologie professionali

In precedenza si è accennato all’etica delle professioni, che riguarda i doveri a esse connessi e si
suddivide nell’etica professionale e nella deontologia professionale.

La prima è il complesso dei valori che guidano il comportamento del professionista e presuppone
l’idea per cui la pratica di ogni professione è tesa a realizzare un valore o un bene speci co (la
salute nel caso di quella medica ad esempio); la seconda è l’ insieme delle norme, o regole
formali, relative ad ogni professione, ossia quelle che ne ri ettono i valori.

Coniato da Jeremy Bentham nell’opera Deontology or the Sience of Morality, il termine


“Deontologia” deriva dal greco “denota” ( che signi ca “doveri”, “ciò che è dovuto o richiesto) e
nell’uso del losofo inglese indicava la sua teoria utilissima dei doveri.

Successivamente questa parola cominciò a designare ciò che si deve fare in determinate
situazioni sociali: per la precisione, i doveri legati all’esercizio di una professione. I doveri relativi
alle professioni non coincidono con quelli morali, i doveri stabiliti o riconosciuti dalla morale
dominante in una società sono attribuiti ad ogni individuo indipendentemente dalla sua
professione. I doveri professionali, infatti, vengono stabiliti in base al ruolo che la persona svolge
nel proprio settore lavorativo e possono contrastare con quelli morali.

Per esempio un avvocato decide di assumere le difese di un individuo accusato di un certo reato
ha nei confronti del suo cliente determinati doveri indipendentemente dalla sua innocenza o
colpevolezza, e può legittimamente compiere azioni ritenute sbagliate dal punto di vista morale.

Il professionista agisce allora in un universo morale diverso da quello in cui vive. In altre parole i
ruoli professionali sono guidati da principi diversi e talvolta opposti rispetto a quelli della morale. I
principi enunciati nei codici deontologici sono complessi di regole o norme formali o esplicite la
cui funzione è guidare l’esercizio delle professioni.

Le norme deontologiche si distinguono dai principi morali per la loro natura giuridica: sono
fondate cioè su norme giuridiche e di tipo giuridico è la rilevanza delle sanzioni recate a chi le
viola. Il codice deontologico de nisce i limiti dell’esercizio legittimo del potere del professionista e
regola i suoi rapporti con i soggetti esterni alla sua professione, quelli tra le persone che
appartengono alla stessa categoria professionale e i modi di accedere ad essa.

Data la loro funzione, e poiché le professioni mutano nel tempo in seguito ai cambiamenti sociali e
culturali, i codici deontologici non hanno una natura statica: le norme che vi sono enunciate
devono essere aggiornate costantemente per adattarle alle nuove situazioni che quei
cambiamenti producono e ai nuovi problemi che ne derivano.

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CAPITOLO 2
Sfere e forme di comunicazione

Le sfere della comunicazione

Oggigiorno l’uomo è de nito un essere comunicante, pervaso cioè dalla comunicazione e


dall’esigenza di farlo.

Comunicare non signi ca per forza farlo parlando, le parole non sono l’unico non sono l’unico
mezzo di comunicazione. Non tutti gli esseri umani sono in grado di farlo; si pensi ad esempio ai
neonati o ai muti. Dunque l’incapacità di parlare non coincide con quella di comunicare, ne la
implica.

Anche se non si è in grado di parlare si può comunicare attraverso quelli che vengono chiamati i
linguaggi non verbali; come ad esempio i gesti, i movimenti del corpo o le espressioni del volto,
ecc. Non di rado sono altrettanto, e a volte anche di più, e caci del linguaggio verbale come
strumenti della comunicazione.

Tuttavia la comunicazione verbale è molto più di usa; difatti è per questo che ci concentreremo
per lo più sulla comunicazione verbale, la quale si può distinguere in tre sfere in cui avviene: la
sfera personale, interpersonale e pubblica.

Sfera personale
La sfera personale è quella in cui è racchiuso tutto ciò che riguarda l’individuo: la sfera privata.
L’idea che la comunicazione possa avvenire (e avvenga) all’interno della sfera personale può
apparire in contraddizione con il signi cato etimologico di “comunicare”, che signi ca
“condividere” o “mettere in comune”. Il termine indica qualcosa che comporta almeno due
individui. È possibile allora che una forma di comunicazione inizia e si conclude in una
dimensione privata?

La risposta è si, ed ora capiamo perchè. Dal punto di vista psicologico l’individuo non è un’entità
monolitica, ma una pluralità di individui coesistenti più o meno armonicamente nello stesso sico.

Sul piano personale la comunicazione consiste nell’elaborazione di informazioni, ovvero in una


serie di processi mentali (come ad esempio memorizzare o rimuovere le cose).

Inoltre può anche assumere la forma di “dialogo interiore”, quello che uno dei diversi “io” di una
persona intrattiene con un altro suo “io”. È un dialogo che spesso avviene in silenzio ed in
qualche caso ad alta voce.

Il dialogo interiore è una forma interiore di comunicazione personale, ma può tradursi in forma
scritta. È così nel caso dei diari, che costituiscono anche un genere letterario, ma per lo più
vengono scritti per non essere pubblicati. Come i diari personali ci sono molti al altri casi di
dialogo interiore in forma scritta; come ad esempio appunti, annotazioni, ecc.

Nel dialogo la comunicazione rivolta a se stessi è bidirezionale, procede cioè in due direzioni:
dall’io che parla (o scrive) all’io che ascolta (o legge) e viceversa.

È, inoltre, simmetrica perchè i due “io” si trovano in una condizione di parità: a turno parlano (o
scrivono) e ascoltano (o leggono) entrambi.

La comunicazione rivolta a se stessi in forma scritta potrebbe apparire unidirezionale e


asimmetrica, com’è quando ciò che è scritto fosse indirizzato ad altri: qualcuno scrive e
qualcun’altra legge senza avere la possibilità di replicare o modi care in modo diretto e immediato
quanto è stato scritto.

Sfera interpersonale
La sfera interpersonale della comunicazione coinvolge due o più individui, sicamente distinti. Lo
scambio di messaggi presuppone un emittente ed un ricevente: il primo invia il messaggio, il
secondo lo riceve.

Ciò suggerisce che l’emittente ha un ruolo attivo id il ricevente un ruolo passivo, ovvero che la
comunicazione è unidirezionale. Non sempre però lo è, perchè i ruoli possono cambiare: in molte
situazioni comunicative chi riceve il messaggio, risponde, e diviene così l’emittente di un
messaggio nuovo, di cui l’emittente precedente è il nuovo destinatario. La comunicazione
interpersonale è quindi bidirezionale e simmetrica, ovvero, c’è una relazione paritaria dal punto di
vista di prendere parola tra chi invia il messaggio e chi lo riceve.

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La comunicazione che avviene nella sfera interpersonale è, inoltre, diretta, priva di intermediari.
L’emittente del messaggio si rivolge direttamente al destinatario e ne riceve in modo parimenti
diretto il messaggio di risposta.

Come si è accennato gli scambi di messaggi non avvengono solamente attraverso le parole: la
comunicazione interpersonale, oltre che verbale, è anche non verbale.

Nelle situazioni in cui le persone che comunicano si trovano l’una di fronte all’altra, o hanno la
possibilità di vedersi o ancora di sentire l’una la voce dell’altra, la comunicazione coinvolge anche
le espressioni del volto, i toni della voce, i gesti ed i movimenti del corpo.

Tutto ciò ovviamente accompagna le parole pronunciate ra orzandone, attenuandone,


modi candone o completandone il signi cato.

La pluralità di linguaggi che intervengono nella sfera interpersonale è una risorsa per la
comunicazione; allo stesso tempo però la rende complessa e può essere all’origine di problemi
nello scambio di messaggi.

Per poter comunicare in maniera e cace, infatti, non è su ciente possedere almeno un certo
grado di competenza linguistica. Occorrono anche varie competenze extralinguistiche, ovvero, è
necessaria la capacità di comprendere ed usare i linguaggi non verbali di cui si è accennato.

Sono necessarie anche competenze di tipo socioculturale: ovvero la capacità di comprendere ed


applicare le regole sociali e culturali che governano le situazioni in cui avvengono gli scambi di
messaggi. La competenza linguistica e quelle extralinguistiche e socioculturali che occorrono per
riuscire a comunicare nella sfera interpersonale costituiscono, insieme, la competenza
comunicativa: ovvero la capacità di usare un repertorio di atti linguistici, prendere parte a eventi
linguistici, comprendere come gli altri li valutano.

Sfera pubblica
La competenza comunicativa è necessaria anche nella sfera pubblica. L’aggettivo “pubblico” può
indicare sia ciò che riguarda lo stato e le sue istituzioni, sia ciò che concerne la collettività.

I due signi cati si sovrappongono solo in parte: nella società contemporanea lo stato coincide
con la collettività ma non tutte le attività rivolte ad essa vengono svolte dalle istituzioni statali; le
svolgono anche organizzazioni private quali le associazioni no pro t, le cooperative sociali e le
fondazioni di vario genere, ovvero “il terzo settore”.

Le attività di questo settore assicurano i beni e i servizi di pubblica utilità, tesi cioè a soddisfare gli
interessi della collettività in numerosi ambiti: ad esempio in quello sanitario, nell’ambito sociale,
nell’ambito dell’istituzione e così via.

Alla sfera pubblica appartengono, dunque, tutte le forme di comunicazione riguardanti attività,
iniziative e problemi che coinvolgono gli individui in quanto cittadini e incidono sull’interesse
generale.

CAPITOLO 2
Modelli di etica della comunicazione

Una delle numerose discipline che studiano la comunicazione è l’etica della comunicazione. Ne
sono stati elaborati 5 modelli, ognuno fondato su un certo concetto della comunicazione, che
vengono assunti come punto di riferimento per delineare i principi morali che devono guidarla. I
modelli riguardano: la natura umana, il paradigma dialogico, il pubblico possibile, l’utilità e l’etica
del discorso.

La natura umana

Il primo modello che prendiamo in considerazione è fondato sul concetto di natura umana. I
principi ai quali ognuno deve attenersi nel comunicare sono individuati sulla base delle
caratteristiche peculiari degli esseri umani, che li contraddistinguono dagli animali.

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Questo modello presuppone una de nizione di “natura umana” ed una risposta che identi chi
quale caratteri la contraddistinguono.

Una prima risposta si trova nel pensiero loso co antico, in particolare in quello aristotelico.
L’uomo, sostiene Aristotele, è un “animale razionale”; è nella razionalità, ovvero la capacità di
ragionare, che può essere individuato il tratto distintivo degli esseri umani rispetto a tutti gli altri
animali. Questa tesi ha conservato a lungo la sua forza.

Un’etica della comunicazione che sia fondata su questa componente della natura umana coglie
nell’uso della ragione l’elemento essenziale per comunicare. Ciò sembra suggerire che la
comunicazione non debba coinvolgere componenti “emozionali” dell’uomo e debba servirsi del
solo ragionamento e di un linguaggio emotivamente neutrale.

Questo ci suggerisce una scissione dell’idea di natura umana secondo la quale essa si divide in
due parti, una emozionale ed una razionale, contrapposte l’una all’altra senza la possibilità di
convergenza.

Sostenere che la comunicazione debba fondarsi sulla razionalità di chi comunica e di quella di chi
recepisce il messaggio presuppone una valutazione negativa delle emozioni, ovvero che siano
l’ostacolo della comunicazione stessa.

Ci sono però eccezioni signi cative; a cominciare, ad esempio, dallo stesso Aristotele, che nella
Retorica riconosce l’importanza delle emozioni per l’e cacia della comunicazione. Sostiene che è
sugli stati emozionali che l’oratore deve fare leva a nché i suoi discorsi possano esercitare
un’in uenza sugli ascoltatori ed orientarne i comportamenti, poiché tali stati motivano una
persona ad agire.

Inoltre le emozioni non hanno un ruolo soltanto pratico, limitato ad in uenzare il comportamento;
l’analisi loso ca attuale ha messo in luce la relazione tra gli stati emozionali e la sfera cognitiva e
la loro funzione di guidare l’attenzione.
Svolgono questo compito grazie a due caratteristiche: la qualità e l’intensità.

La qualità di un’emozione può essere positiva o negativa in vari gradi, a seconda che sia più o
meno piacevole oppure dolorosa. Le emozioni negative restringono la sfera dell’attenzione, quelle
positive la espandono.

L’intensità di uno stato d’animo produce invece produce “movimenti” dell’attenzione; ovvero
orientandola verso un certo oggetto, mantenendola su di esso o distogliendola.

La capacità di in uenzare l’attenzione rende le emozioni componenti della natura umana


signi cative non solo per l’e cacia pratica della comunicazione; ma anche per la sua funzione
cognitiva, dato il legame che c’è tra attenzione e conoscenza. La prima, infatti, è una condizione
necessaria per la seconda: si può conoscere solo ciò a cui si presta attenzione.

Alla luce di queste considerazioni, per stabilire i principi morali della comunicazione, la sola
razionalità risulta insoddisfacente: la componente emozionale della natura umana è altrettanto
rilevante.

Alcuni studiosi invece, come Otis Walter e Henry Wieman, individua la peculiarità degli esseri
umani nella capacità di usare i simboli, ovvero nella capacità di trasformare i dati dell’esperienza
in elementi in grado di suscitare nella mente idee astratte e di usare certi simboli per riferirsi ad
altri (per esempio valori o ideali).

Questa capacità è legata alla natura biologica dell’uomo: il cervello umano non è solo un
trasmettitore di dati, ma un potente trasformatore. Alla base di tale modello, che fa riferimento alla
capacità di usare (o di creare), c’è l’ipotesi che questa appartenga solo agli esseri umani. Si tratta
però, come osserva lo studioso Richard Johannesen, di un’ipotesi controversa. Non mancano,
infatti, i dati per contraddirla; derivati da studi su gorilla e scimpanzé che hanno appreso linguaggi
non orali.

Peculiare all’uomo, invece, può essere invece la capacità di persuadere o di essere persuasi
attraverso l’uso della parola.

A questo proposito, alcuni interpreti del pensiero di Aristotele, sottolineano che è proprio la
tendenza a persuadere e a lasciarsi persuadere ciò che, secondo il losofo greco,
contraddistingue gli esseri umani: tra tutti gli esseri viventi essi sono gli unici a possedere il
linguaggio, di cui la capacità di persuasione è una diretta conseguenza.

È sulla base di questa capacità che il losofo Henry Johnstone ha elaborato “un’etica per la
retorica”, un insieme di principi fondati sull’imperativo che impone di agire sempre in modo tale di
favorire la capacità di persuadere e di essere persuasi propria e degli altri.

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Da questo imperativo discendono doveri speci ci verso se stessi e verso gli altri. I primi sono il
dovere di risolutezza, ovvero accettare le argomentazioni degli altri in modo critico e ri essivo, e
il dovere di apertura, cioè ascoltare con attenzione le opinioni e le idee dei propri interlocutori e
non concentrarsi solo con le proprie.

Verso gli altri, invece, ciascuno ha il dovere di astenersi dalla violenza sia sica che psicologica,
e il dovere di comprensione, ovvero il dovere di ascoltare l’interlocutore per il loro interesse più
che per il proprio.

L’etica proposta da Johnstone implica, così, l’esclusione degli usi della comunicazione e i
comportamenti tesi ad impedire o ad ostacolare l’espressione delle proprie opinioni da parte di
coloro ai quali ci si rivolge, per esempio il ri uto prestare loro ascolto.

La retorica può essere considerata uno strumento però, non solo di persuasione, ma anche di
conoscenza. Tale la ritengono alcuni studiosi contemporanei, che ne sostengono una concezione
fondata sulla tesi secondo cui la conoscenza non è indipendente dalla mente umana ma ne è il
frutto.

Robert Scott indica la peculiarità della natura umana nella capacità di creare conoscenza nel
processo di comunicazione: essa, inclusa la retorica, non si riduce alla trasmissione di
conoscenze o di verità ritenute fondamentali, ma è anche mezzo attraverso il quale gli esseri
umani costruiscono la conoscenza della realtà. Non esistono verità assolute e necessarie: ogni
verità ha un carattere transitorio, poiché è il risultato di una ricerca che gli esseri umani
conducono comunicando gli uni gli altri.

Sulla base dell’idea che l’uomo sia capace di creare conoscenza, Robert Scott formula alcuni
principi da osservare nella comunicazione. In primo luogo c’è il principio che impone di accettare
le divergenze delle opinioni e rispettare il diritto di ogni individuo all’espressione delle proprie:
violarlo signi cherebbe compromettere la possibilità di acquisire conoscenza, dato che questa è il
risultato dell’interazione comunicativa tra due o più individui.

In secondo luogo c’è il principio secondo il quale ognuno deve impegnarsi nel promuovere la
massima partecipazione possibile alla comunicazione e alla discussione.

In ne troviamo il principio secondo il quale ogni individuo deve assumersi la responsabilità delle
conseguenze indesiderate o indesiderabili della propria comunicazione.

Sulla responsabilità di chi comunica richiama l’attenzione anche Christoper Lyle Johnstone. Fa
notare che le parole hanno delle conseguenze: il fatto che una persona parli e la maniera in cui
lo fa incidono, in una certa misura, sulla vita di altre. Ciascuno è responsabile di ciò che dice e di
come lo dice perché solitamente il nostro discorso è una forma “scelta” di attività.

La creatività è al centro di un’altro modello fondato sul concetto di natura umana. In questo caso
l’ambito preso in considerazione è quello “valutativo”. Ralph Eubanks indica la capacità di creare
valori e di valutare quale caratteristica peculiare all’uomo. L’uomo è una creatura che valuta,
ovvero è in grado di attribuire valore a stati di cose, oggetti, esseri viventi, idee e così via, ed è
capace di formulare giudizi valutativi su di essi.

Eubanks, peraltro, formula alcuni principi che devono guidare la comunicazione, in particolare
quello della veridicità. Occultare la verità, falsi care le prove citate a sostegno della posizione che
difendiamo e ricorrere ad argomenti non validi a favore delle nostre vedute, sono atti moralmente
sbagliati perchè ledono il processo comunicativo, grazie al quale la conoscenza non viene solo
trasmessa ma generata.

So ermiamoci ora sui problemi che si pongono a chi tenti di fondare questo tipo di etica sulla
natura umana. Il primo è quello di giusti care la scelta di una sola determinata caratteristica
come sola peculiare all’essere umano. Perché privilegiare, ad esempio, la razionalità rispetto la
capacità di persuadere?

Ciascuna delle teorie presentate assume una sola capacità come caratteristica dell’essere umano,
ha ciò un carattere monistico. Le caratteristiche dell’uomo però possono essere molteplici, ed è
proprio per questo che il fondamento dell’etica dovrebbe essere ricercato in un insieme di
caratteristiche compresenti.

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Il problema appena accennato emerge solamente, però, se si accetta la tesi alla base delle varie
teorie: quella secondo cui i principi morali che devono guidare la comunicazione hanno il loro
fondamento nella natura umana.

Innanzitutto, per poter stabilire i principi morali sulla base di una descrizione umana è necessario
dare una de nizione precisa di questo termine. Che cosa si intende con “natura”? Ed invece, a chi
si riferisce l’aggettivo “umana”?

Oltre che ambiguo, il concetto di natura umana è ambivalente: nessuna caratteristica ha un’
intrinseco valore morale positivo; che lo abbia dipende dall’ uso che ne viene fatto.

Le teorie che fondano i principi morali della comunicazione su una qualsiasi delle caratteristiche
umane sembrano, però, ignorarne l’ambivalenza; presuppongono infatti la tesi della bontà della
natura umana dando cioè per scontato che essa abbia un valore positivo e che, quindi, la
comunicazione debba preservarla e favorirla.

In altri termini, ciò che viene presentata come la constatazione di un fatto (il fatto che gli esseri
umani sono razionali o che sono in grado di usare simboli e così via) contiene un implicito giudizio
valutativo. Ciò richiede tuttavia una giusti cazione e, più in generale, è necessario giusti care
l’assunzione di una certa caratteristica come quella peculiare degli esseri umani: si tratta di una
scelta non a atto neutrale sul piano valutativo.

C’è anche un’altra ragione per contestare il tentativo di fondare i principi morali della
comunicazione sulla natura umana, e riguarda la relazione tra i fatti e i valori di carattere morale.
Alle varie teorie etiche che deducono conclusioni valutative o normative da premesse descrittive
può essere rivolta l’accusa di violazione della “legge di Hume”, principio secondo cui non è
logicamente possibile dedurre il “dovere” dall’ “essere”. I due piani devono essere tenuti distinti
ed il passaggio dal secondo al primo è considerato errato dal punto di vista logico.

Il paradigma dialogico

Al centro del secondo paradigma dell'etica della comunicazione c'è il concetto di dialogo. La
comunicazione è intesa come scambio di discorsi tra due (o più) individui, ovvero come relazione
che procede in due direzioni.

In quanto forme o metodi della comunicazione, il monologo e il dialogo non hanno un valore
morale positivo né negativo: il loro valore dipende, piuttosto, dall'uso che di volta in volta ne viene
fatto ovvero dall'atteggiamento o dalla disposizione mentale. Non sempre si escludono
reciprocamente né sono del tutto separate.

Nella ri essione etica sui modelli di comunicazione la concezione dialogica viene contrapposta
nettamente a quella monologica. Chi difende la prima vede nel monologo un modo di comunicare
equiparabile alla persuasione o alla propaganda, cui attribuisce un valore negativo: la persona che
comunica si concentra infatti sul contenuto del proprio discorso per raggiungere determinati
obiettivi persuadendo, manipolando o ingannando coloro ai quali si rivolge.

Uno dei principali punti di riferimento per la difesa del paradigma dialogico e il losofo Martin
Buber, che distingue due relazioni fondamentali degli esseri umani: quello espresso dalla coppia
di parole «io-esso», ossia l'atteggiamento monologico nella sua forma estrema, manipolativa ed
egocentrica, e quello che trova espressione nella coppia «io-tu» e raggiunge nel dialogo la sua
compiutezza.

Nel monologo, sostiene Buber, gli altri vengono trattati come semplici oggetti da sfruttare per i
propri ni e dominare; l'atteggiamento pienamente dialogico è invece schietto, diretto, non
manipolativo e inclusivo, teso cioè a «vedere» gli altri in quanto persone. I due atteggiamenti
sono, peraltro, due estremi tra i quali Buber individua alcuni gradi intermedi: nella comunicazione
umana sono presenti tanto gli atteggiamenti monologici quanto quelli dialogici, mentre sono rari i
casi di dialogo «autentico».

Il paradigma dialogico presuppone, lo si è accennato, una valutazione radicalmente negativa della


persuasione: questa viene equiparata a una forma di manipolazione e strumentalizzazione delle
persone alle quali chi parla (o scrive) si rivolge. Non si tratta però di una valutazione
unanimemente condivisa dai sostenitori. Alcuni ritengono infatti che il valore morale della
persuasione dipenda dall'atteggiamento mentale della persona che comunica e dalle sue nalità:
il discorso persuasivo non ha, in sé, un valore positivo né negativo.

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Di questo avviso è Richard Weaver, che analizza la comunicazione, e speci camente la retorica,
attraverso la metafora dell’amore.

Weaver distingue tre possibili atteggiamenti di chi comunica versoi suoi destinatari: il primo é
l’atteggiamento neutrale, caratterizzato da oggettività, moderazione e razionalità; poi c’è
l'atteggiamento spregevole proprio di chi cerca di controllare coloro ai quali si rivolge, di
dominarli e utilizzarli come mezzi per i propri ni servendosi di un linguaggio non chiaro facendo
un uso distorto del ragionamento e analizzando in modo parziale le questioni a rontate; in ne,
l'atteggiamento nobile, quello propriamente dialogico: assumerlo signi ca rispettare l'individualità
dei propri interlocutori e la loro capacità di ri essione autonoma.

A una metafora ricorre anche Wayne Brockriede, che propone una classi cazione delle forme di
retorica e distingue tre tipi di retore: lo «stupratore», che verso il proprio uditorio ha un
atteggiamento di superiorità teso al dominio; il «seduttore», che non impone esplicitamente le
proprie vedute alle persone cui parla, ma tenta di in uenzare le loro per mezzo dell'inganno;
in ne, il retore «amante», che al contrario dei primi due ha un atteggiamento realmente dialogico:
è aperto al confronto con le opinioni degli altri e alla possibilità di modi care le proprie.

Da ciò che si è appena detto risulta evidente la rilevanza, del modo in cui chi comunica si pone
verso le persone a cui si rivolge, cioè il suo «pubblico».

Il paubblico possibile

Il paradigma dialogico, lo si è appena visto, è incentrato sul rapporto tra chi comunica e
destinatari del suo discorso; tale rapporto viene inteso come relazione tra individui che
interloquiscono.

Secondo un diverso paradigma, invece, il soggetto primario della comunicazione è la persona o il


gruppo che ne sono destinatari: il pubblico.

Benché anche questo paradigma sia stato teorizzato in età contemporanea, ad Aristotele è
nuovamente utile tornare per chiarirne il signi cato. Nel libro secondo della Retorica, infatti, i
destinatari del discorso sono indicati come una delle sue tre componenti e come il suo stesso
ne. Ma non solo.

Nella trattazione aristotelica la rilevanza dei destinatari della comunicazione emerge anche dalla
scelta del ruolo degli ascoltatori come criterio di classi cazione dei generi oratori: quello
deliberativo (teso all'esortazione o alla dissuasione), quello giudiziario ( nalizzato all'accusa o
alla difesa) e quello epidittico (il cui scopo è la lode o il biasimo); ogni discorso si di erenzia dagli
altri per la sua nalità, che Aristotele identi ca con le persone alle quali è rivolto. Ovviamente ciò
vale anche per il discorso scritto.

Ora, il pubblico varia da un contesto all'altro. Ad esempio: i lettori di un articolo giornalistico sulla
politica estera di un paese possono non essere (non tutti, almeno) gli stessi di un saggio di storia
medievale o di un volume di poesie; ed è altrettanto ovvia la diversità del pubblico di una
conferenza stampa rispetto a quello di un corso di musica antica.

Questa diversità dipende da fattori di varia natura: il luogo o l'ambiente in cui si svolge la
comunicazione, l'argomento a rontato da chi parla o scrive, la lingua in cui si esprime e il
linguaggio che usa, e così via.

Perciò, dall'idea che i principi morali della comunicazione debbano essere stabiliti facendo
riferimento ai suoi destinatari consegue che tali principi sono relativi al contesto: la loro validità
non è universale, ma dipende dalle caratteristiche delle singole situazioni in cui la comunicazione
avviene e, in particolare, dai destinatari stessi.

Questo paradigma etico può essere considerato un’applicazione alla sfera comunicativa del
situazionismo etico, teoria secondo cui non si può giudicare ciò che è giusto o sbagliato sulla
base di principi o norme universali: possiamo formulare giurdizi morali solo considerando le
caratteristiche del contesto in cui di volta in volta ci troviamo, e nessuno è mai esattamente
uguale agli altri, da qui l'impossibilità di stabilire principi universalmente validi.

L'attenzione nei confronti dei destinatari di un discorso è importante sia dal punto di vista pratico
sia, in particolare, da quello morale; è improbabile infatti che chi non tiene conto di coloro ai quali
si rivolge riesca a far comprendere o accettare quanto sostiene.

Per esempio, se un medico usa un linguaggio tecnico per illustrare al proprio paziente il tipo di
terapia necessario date le sue condizioni di salute, e il paziente non ha conoscenze mediche
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adeguate, ciò che gli viene detto gli risulterà incomprensibile; questo potrebbe spingerlo a ri utare
la terapia indicata, ma se anche acconsentisse a sottoporvisi il suo consenso non sarebbe
realmente informato: la comunicazione del medico violerebbe così un principio morale cui
chiunque svolga la sua professione deve attenersi, ovvero il principio del consenso informato dei
pazienti.

Tuttavia la tesi dell'importanza dei destinatari della comunicazione è discutibile se si a erma che
l'attenzione di chi comunica deve essere rivolta esclusivamente alle perso ne cui si rivolge. In
questo caso si creerebbe un'evidente asimmetria tra le due parti della relazione comunicativa: chi
parla o scrive assumerebbe un ruolo secondario rispetto a quello dei suoi destinatari e ciò
potrebbe avere ricadute non irrilevanti su quanto viene comunicato.

L'attenzione esclusiva al pubblico può portare chi comunica a concentrarsi interamente sulla
forma del discorso trascurandone il contenuto: attribuire al pubblico un ruolo centrale comporta
cioè il rischio di subordinare ciò che si dice o si scrive al modo in cui lo si fa. Per esempio,
sempli cando eccessivamente un argomento complesso no a banalizzarlo.

C'è poi il rischio di un uso della comunicazione volto a ottenere il favore dei destinatari, di nuovo a
danno del suo contenuto e quindi, indirettamente, anche del diritto all'informazione, un uso di
questo genere è caratteristico della comunicazione pubblicitaria e della propaganda politica.

L'attenzione esclusiva a coloro cui il discorso orale o scritto è rivolto può essere dovuta a quello
di rendere la comunicazione strumentale rispetto ai soli interessi e scopi di chi parla o scrive.
Anche in questo caso il rapporto tra la persona che comunica e il suo pubblico risulta
asimmetrico: a svolgere un ruolo dominante nella relazione comunicativa è chi parla o scrive.

L’utilità

La comunicazione è uno degli strumenti attraverso i quali gli individui perseguono scopi di varia
natura: qualunque impiego ne venga fatto è cioè strumentale: la comunicazione non è mai ne a
sé stessa, ma sempre un ne per qualcos'altro. Nemmeno quando qualcuno «parla tanto per
parlare», come a volte si dice, il suo discorso è ne a sé stesso: lo fa per fare qualcos'altro; ad
esempio per far sentire la propria voce o attirare l'attenzione su di sé, o magari colmare un
silenzio che è fonte di disagio. Anche in questo caso, insomma, la comunicazione è un mezzo per
raggiungere un ne. La questione rilevante sul piano morale non è, allora, se la comunicazione
venga usata per un determinato scopo, ma qual è lo scopo per il quale la si usa.

Ed è su questa che si concentra il paradigma utilitaristico, teoria etica che ha avuto la sua prima
formulazione nell'Introduzione ai principi della morale e della legislazione di Bentham.
L'utilitarismo assume quale criterio di valutazione di un atto le conseguenze che esso ha dal
punto di vista del valore o del bene, e come valore o bene da promuovere l'utilità di tutti gli esseri
senzienti coinvolti da quell'atto; dunque, un atto è giusto se produce altrettanta utilità di quella
prodotta da qualunque altro atto possibile ed è moralmente obbligatorio se ne produce una
quantità maggiore.

Quale che sia il modo in cui l'utilità viene de nita, tutte le forme di utilitarismo sono
universalistiche: comune a tutte è infatti la tesi per cui l’utilità che ogni azione deve produrre nel
massimo grado non è quella del soggetto agente, ma quella del maggior numero possibile di
individui coinvolti (tra cui l'agente stesso).

Questa prescrizione riguarda qualsiasi azione, incluse quelle relative alla comunicazione; quindi
anche il paradigma dell'etica della comunicazione fondato sul concetto di utilità ha un carattere
universalistico: in base a esso, infatti, la comunicazione deve rispettare un principio universale,
quello dell'utilità. Ciò signi ca che in tutti i casi l'utilità della comunicazione è il principio al quale
ci si deve attenere e quello da applicare nel valutarla.

Un esempio di questa impostazione è la teoria etica di Winston Brembeck e William Howell, che
individuano appunto nell'utilità sociale il ne da perseguire: nella comunicazione si deve tenere
conto delle sue conseguenze positive e negative, a breve e a lungo termine, sul gruppo sociale
coinvolto; ciò vuol dire che gli atti comunicativi devono essere tesi a produrre il maggior bene cio,
o ad arrecare il minor danno, possibile alla maggior parte delle persone interessate.

Il problema che si pone all'etica della comunicazione fondata sul concetto di utilità sociale è
quello del possibile con itto tra gli interessi della collettività e quelli dei singoli individui che la
compongono.

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La teoria utilitaristica non sembra in grado di tenere conto del punto di vista dell'individuo, rivolta
com'è a promuovere la massimizzazione dell'utilità collettiva.

Questa obiezione è stata espressa con chiarezza da Bernard Williams, che accusa l'utilitarismo di
alienare l'individuo da sé stesso proprio perché trascura l'importanza dei suoi progetti e interessi.
E diverse sono le soluzioni proposte. Una di esse consiste nell'ammettere che le singole persone
possono allontanarsi dalla ricerca della massima utilità collettiva possibile se ciò è necessario
a nché possano perseguire i loro progetti o interessi e non comporta una diminuzione dell'utilità
sociale superiore all'incremento di utilità individuale che in tal modo viene prodotto.

La disattenzione dell'utilitarismo nei confronti degli individui riguarda anche la sfera dei diritti
morali, i diritti individuali la cui validità è indipendente da qualsiasi riconoscimento giuridico. Il
problema è stato posto n dal XIX secolo, e in risposta a esso sono state elaborate diverse
versioni dell'utilitarismo ritenute in grado di conciliare utilità e rispetto dei diritti morali.

Il problema della possibile, e spesso reale, divergenza tra utilità sociale e diritti morali individuali
emerge anche nell'ambito della comunicazione.

Se ne ha un esempio nel gioralismo: qualora rendere noto un certo fatto sia utile alla collettività
ma leda il diritto alla privacy di una delle persone coinvolte in esso, è moralmente legittimo
divulgarlo oppure no?

Un utilitarista dell'atto risponderebbe a ermativamente, poiché sostiene che il ne ultimo da


promuovere sia l'utilità collettiva. La risposta dell'utilitarista della regola sarebbe invece negativa:
quel fatto deve essere taciuto perché rivelarlo comporta violare il principio che impone il rispetto
del diritto di ogni individuo alla privacy; e tale violazione, se fosse generalizzata, causerebbe una
diminuzione dell'utilità sociale superiore all'incremento realizzabile commettendola. L'utilità
sociale resta dunque centrale anche nell'utilitarismo della regola, poiché costituisce il criterio
ultimo di giusti cazione delle norme che prescrivono obblighi e sanciscono diritti.

L’etica del discorso

Negli anni Settanta del Novecento Jürgen Habermas ha delineato un modello di comunicazione o,
più esattamente, dell'«agire comunicativo». Il losofo tedesco propone un'etica che, muovendo
dalla comunicazione, mira a costituire un modello di società giusta: una società fondata sul
dialogo tra individui liberi e uguali volto ad a rontare e dare soluzione ai problemi di interesse
pubblico attraverso l'argomentazione razionale anziché la coercizione e il ricorso alla forza.

Il concetto di agire comunicativo è distinto da quello di atto linguistico: indica un tipo di


interazione che è coordinato da atti linguistici, ma non coincide con essi, e permea la vita

umana in tutti i suoi aspetti.

Altrettanto rilevante è la distinzione tra l'agire comunicativo e I' «agire strumentale»: quest'ultimo è
orientato al successo, mentre nel primo «gli attori si impegnano a concordare internamente l'uno
con l'altro i loro piani d'azione e a perseguire i loro rispettivi scopi soltanto alla condizione di un
accordo, esistente o da patteggiare, sulla situazione e sulle conseguenze che se ne attendono.
L'agire comunicativo non è teso cioè al successo di una delle persone che partecipano al
discorso, ma a raggiungere un'intesa attraverso il linguaggio - la quale non è riducibile alla mera
comprensione di espressioni linguistiche ed enunciati: l'intesa presuppone infatti il riconoscimento
reciproco da parte dei soggetti partecipanti; quindi non è possibile raggiungerla attraverso
l'imposizione delle opinioni di un individuo agli altri, ma solo con una discussione razionale in cui
ognuno argomenta la propria posizione e prevale l'argomento migliore.

L'agire comunicativo e, dunque, il conseguimento dell'intesa presuppongono il soddisfacimento


di condizioni speci che o, come li chiama Habermas, di alcuni presupposti generali: le pretese di
validità che deve avanzare chiunque intervenga nel discorso.

Le pretese sono quattro e riguardano la comprensibilità, la verità, la veridicità e la correttezza


normativa delle espressioni e degli enunciati. La pretesa di comprensibilità deriva dal fatto che chi
parla deve scegliere espressioni comprensibili, cosicché lui stesso e chi lo ascolta possano
capirsi reciprocamente. La pretesa di verità, invece, è quella di comunicare contenuti
proposizionali veri, ed è necessaria perché chi ascolta possa condividere il sapere di chi parla. In
terzo luogo, la pretesa di veridicità: la pretesa da parte della persona che parla di

esprimere le proprie intenzioni in modo veritiero. In ne, la pretesa di correttezza normativa,


derivante dal fatto che chi parla deve scegliere espressioni corrette in riferimento a determinate
norme e valori, in modo che chi lo ascolta possa accettarle e su quanto viene detto entrambi
possano concordare in base a norme e valori condivisi. I modi di soddisfare le quattro pretese non
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sono identici per tutte: quelle di verità e correttezza normativa possono essere soddisfatte
presentando ragioni a sostegno dei propri enunciati, mentre la pretesa di veridicità viene
soddisfatta comportandosi in modo coerente con quanto si dice. Ognuna di esse è però
universale: benché non tutte abbiano la stessa rilevanza nei singoli casi, e di volta in volta una
predomini sulle altre.

La pretesa di comprensibilità ha comunque uno statuto particolare: può essere considerata una
metapretesa, poiché è la condizione necessaria a nché chi ascolta possa comprendere e
accettare o ri utare le altre pretese di validità avanzate da chi parla.

La situazione in cui tutte le pretese di validità sono soddisfatte, e viene perciò raggiunta l'intesa
tra le persone che prendono parte al discorso, è una situazione discorsiva ideale, tale che «per
tutti i partecipanti al discorso è data una ripartizione simmetrica delle possibilità di scegliere e di
compiere atti linguistici”. A nché l'intesa comunicativa sia possibile è però necessaria anche
un'altra condizione: il principio di universalizzazione, la cui funzione nel discorso pratico è analoga
a quella svolta nel discorso teoretico dal principio di induzione, grazie al quale viene colmata la
distanza tra osservazioni particolari e ipotesi generali.

Nell'ambito pratico, e segnatamente in quello morale, il principio di universalizzazione costituisce


la regola argomentativa rispettando la quale gli interlocutori possono raggiungere un accordo che
è espressione di una volontà comune.

È un altro l'autentico principio dell'etica del discorso: quello secondo cui «possono pretendere
validità soltanto quelle norme che trovano il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti
a un discorso pratico». L'etica fondata su questo principio è, dunque, un'etica dialogica: le
questioni a rontate nel discorso vengono discusse da tutti coloro che vi partecipano in una
condizione di parità, nella quale ciascuno esprime liberamente le proprie opinioni e le decisioni
raggiunte sono frutto di argomentazione e confronto, non dell'imposizione di un punto di vista
sugli altri.

Vediamo allora quali sono le caratteristiche dell'etica del discorso. Anzitutto, è un'etica
cognitivistica, poiché presuppone la tesi secondo cui la validità delle norme che sono oggetto del
discorso e quella dei giudizi morali

formulati da chi prende parte a esso non dipendono da stati mentali soggettivi di tipo non
cognitivo.

In secondo luogo, l'etica del discorso è formalistica: stabilisce i principi procedurali che chi
partecipa al discorso deve rispettare.

In ne, l'etica del discorso è deontologica, presuppone cioè la distinzione tra i concetti di «giusto»
e di «bene» e non prescrive un ideale della vita buona né stabilisce quali sono le azioni buone dal
punto di vista morale, bensì il percorso da seguire per formulare le norme o i principi dell'agire
giusto.
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