Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Le lobby spaventano. Però gran parte della controversia che circonda l’azione
implementata dalle lobby, il lobbying (lobbismo), è in uenzata dal modo in cui tale pratica
viene percepita: c’è chi (la minoranza) considera il lobbismo qualcosa di buono, altri (la
maggioranza) invece come qualcosa di cattivo. Per Ihlen e Van Ruler il lobbying “non è di
per sé buono o cattivo, ma può essere usato per cause buone o cattive”. Un dibattito che
ha origine circa sessant’anni fa quando Milbrath a ermò che le parole lobbista e lobbying
“hanno signi cati così vari che il loro uso quasi inevitabilmente porta a incomprensioni”.
Inoltre, il concetto di lobbying ha una natura interdisciplinare. È chiaro, quindi, che sui
concetti di lobby e lobbying si sia molto dibattuto, o uscando però troppo spesso il reale
supporto che l’azione dei gruppi di interesse può dare al processo decisionale.
In Italia il dibattito è aperto, e non da oggi: nel 1995 Luigi Graziano scrive Lobbying,
pluralismo, democrazia, nel quale ri ette sul ruolo politico degli interessi organizzati.
Graziano a erma che “le lobbies sono un fatto normale della democrazia”, aggiungendo
che il suo studio ha tentato di ssare la siologia della rappresentanza dei gruppi di
interesse, distinguendola in maniera netta dalla corruzione.”
In giorni più recenti, nel paragrafo iniziale del primo capitolo del volume Teorie e tecniche
del lobbying di Pierluigi Petrillo (2019), intitolato Lobby e democrazia, Si legge: “laddove
c’è democrazia, c’è lobby; nei sistemi democratici l’attività di lobbying non solo appare
legittima ma è essa stessa indice di democraticità del sistema”. La natura democratica di
un paese rende indispensabile la presenza e l’azione di gruppi di interesse. L’azione di
gruppi di interesse esterni ai processi decisionali risulta sempre decisiva per trasferire
informazioni, istanze, richieste (anche se di parte) necessarie a chi decide per fare la
scelta più opportuna, soprattutto nei confronti di coloro cui tale scelta è rivolta.
Di fatto, siamo ancora lontani dal riconoscere il lobbismo come un’attività rilevante del
processo di policy making. Un errore più volte ripetuto nel nostro paese è che ancora
troppo spesso politici e cittadini a rontano il tema della rappresentanza degli interessi
considerandola una patologia e quindi concentrandosi su una visione del lobbying come
un’attività corruttiva, quasi come se fosse un fatto spiacevole e ineliminabile. Quando in
realtà è vero il contrario. La rappresentanza dei gruppi di interesse, infatti, è un elemento
costitutivo del processo decisionale di un paese democratico e pluralista, e non una
minaccia. Vittorio Cino sottolinea proprio la centralità del lobbying nei paesi democratici,
partendo da un presupposto: “non esiste attività di lobby in paesi autoritari, a partito
unico o democrazia limitata.”
Non c’è nessun dubbio, però, che nel senso comune la parola “lobby” è associata alla
parola corruzione, e questo è riconducibile soprattutto al signi cato con cui viene
impiegata da parte dei giornalisti. La maggior parte della gente etichetta le lobby con
grande sospetto per il semplice fatto che si è soliti pensare all’azione di potenti imprese,
mentre di cilmente si fa riferimento all’azione di un gruppo di interesse che agisce in
difesa di un interesse pubblico (un’associazione ambientalista,…).
In Italia è la mancanza di trasparenza del processo decisionale che spinge il più delle
volte a identi care le lobby soltanto con soggetti che hanno nalità oscure e pericolose.
Tuttavia, c’è un’incomprensione di fondo sul signi cato della parola lobby che è in gran
parte riconducibile all’uso che ne viene fatto nel racconto giornalistico. La “regola“ dei
ffi
ff
fi
fi
fi
ff
fl
fi
fi
ff
ff
fl
fi
fi
giornalisti è piuttosto chiara: anziché raccontare le di coltà e le debolezze del sistema
politico a giungere a delle scelte condivise, si preferisce accusare le lobby di intralciare il
processo decisionale, facendole passare come il cancro e il male occulti della
democrazia. Spesso, inoltre, sono gli stessi politici che usano la parola lobby per
sottolineare delle azioni deprecabili. Il risultato è che nel gergo giornalistico quando c’è
bisogno di individuare un capro espiatorio la colpa viene spesso additata all’azione
occulta di una lobby.
Un altro esempio di quanto appena detto è un articolo apparso su “Panorama“ il 17 luglio
2013, dal titolo Non abbiate paura delle lobby (parola di lobbista). All’apparenza sembra
un servizio che mira a mettere in discussione la demonizzazione di una parola e di una
professione; eppure, in questo servizio emerge tutta l’anomalia italiana quando si parla di
lobby: la “parola di lobbista“ è quella di Luigi Bisignani, de nito nel pezzo addirittura un
“lobbista doc”. Bisignani non è un lobbista, ma è un faccendiere e lo confermano le
numerose condanne che ha ricevuto. Nel linguaggio giornalistico faccendiere è sinonimo
di lobbista, di conseguenza non suscita nessuna sorpresa il fatto che venga intervistato
proprio Bisignani per tentare di smussare quella connotazione negativa che avvolge la
parola lobby.
L’anomalia italiana è quindi riconducibile al modo in cui i media raccontano, descrivono e
inquadrano il ruolo delle lobby e la pratica del lobbying con un inevitabile impatto sulla
comprensione generale e sul riconoscimento sociale dell’azione di gruppi di interesse. La
stessa anomalia si rintraccia anche in paesi con democrazie più solide della nostra:
Falasca e Helgesson mostrano come anche in Svezia i quotidiani siano tra quei soggetti
che rallentano il radicamento di una cultura delle lobby, perché colpevoli di di ondere una
rappresentazione e un frame del lobbying come pratica illegittima. Un altro risultato
saliente che emerge dalla ricerca di questi due autori, riscontrabile anche nel contesto
italiano, è che nella rappresentazione dei quotidiani si enfatizza eccessivamente un
disegno del lobbying quasi esclusivamente incentrato sul rapporto diretto tra lobbisti e
politici; inoltre, questo incontro è notiziabile quando viene dipinto come un momento in
cui prevalgono comportamenti riprovevoli e oscuri.
L’attività di lobbying è di fatto molto più articolata di come viene descritta nei media;
prevede sempre più azioni nalizzate alla costruzione di un’opinione pubblica favorevole,
alla realizzazione di alleanze, alla necessità di sviluppare le capacità discorsive
indispensabili a far conoscere le proprie istanze e richieste. Il lobbismo è tutto l’insieme di
iniziative utile ai gruppi di interesse per conquistare quella visibilità necessaria per imporsi
all’attenzione del dibattito pubblico e per poi penetrare nelle discussioni e nelle decisioni
delle istituzioni politiche. Inoltre, Nownes arriva ad a ermare che “il lobbying è un
fenomeno complesso ed eterogeneo”, dal momento che si svolge a di erenti livelli di
governo e del processo decisionale, utilizzando tecniche e strategie diverse. E soprattutto
un’ampia varietà di organizzazioni vi ricorrono per promuovere una ancora più vasta
molteplicità di questioni.
L’espressione “laddove c’è democrazia, c’è lobby“ sta a signi care che le lobby, o le
rappresentanze degli interessi, supportano la democrazia. Pritoni dice che oggi più è
ampia e di erenziata la platea di gruppi in grado di incidere sul processo decisionale,
meglio è per la democrazia. La possibilità dei gruppi di accedere al processo decisionale
dipende molto dalle risorse relazionali, organizzative e simboliche, dalla dotazione di
expertises a disposizione per la quotidiana attività di lobbying.
Questo perché, come spiegato da Sartori, la politica è in primo luogo “rapporti di potere“,
nel senso che diversi interessi competono o si alleano in modo da poter in uenzare chi
decide. In parte, è come se stessimo sostenendo che il buon funzionamento di un
processo decisionale è legato al soddisfacimento di quel requisito che Sunstein, nel libro
#Republic, ha de nito “appello alla Serendipity“, considerato un requisito indispensabile
ff
fi
fi
ff
ffi
fi
fi
ff
fl
ff
per garantire la democrazia e de nito come “gli incontri non piani cati e non previsti che
sono centrali per la democrazia stessa“. La proposta di Mazzoni è quella di prendere a
prestito l’appello alla Serendipity per far meglio comprendere il ruolo delle lobby. Le lobby,
infatti, nel loro tentativo di accedere al processo decisionale, si trovano a incontrare,
spesso in situazioni non piani cate, e a mediare punti di vista e proposte con altri gruppi
ed è dalla capacità di saper gestire tali incontri che si determina il livello di salienza e di
in uenza di una lobby. I gruppi di interesse che sanno meglio a rontare le novità, meglio
gestire i rapporti con l’ambiente, meglio cogliere la rilevanza di certi temi sono anche
quelli che hanno più probabilità di accedere ai policymakers, in quanto questi ultimi li
ritengono portatori di un’istanza ampiamente condivisa dai cittadini.
Per arginare questa ambiguità del termine “lobbying” è necessario trattare quei concetti in
grado di mostrarne la rilevanza. Il primo è quello di “contesto”: nel volume Il mestiere del
potere. Dal taccuino di un lobbista Cattaneo ha rilevato la necessità di analizzare e
comprendere il lobbying partendo dall’ambiente (contesto) in cui tale pratica viene
implementata. L’autore è come se stesse indicando l’esigenza di capire il contesto, e per
sottolineare una simile esigenza richiama una storiella (del pesce anziano che chiede ai
due pesciolini “com’è l’acqua?” - “Che cavolo è l’acqua?”) raccontata da David Foster
Wallace. Questa storia rivela come non si possa avere successo nella vita senza un
continuo sforzo di interpretazione del contesto in cui si lavora. Se si vuole andare nella
direzione opposta, essere degli innovatori, è fondamentale interrogarsi sull’ambiente che
ci circonda, partendo dalla conoscenza delle realtà più ovvie, in quanto sono le più di cili
da comprendere. Chi vuole agire sul processo decisionale deve avere la capacità di
conoscere e di leggere l’ambiente sociale, politico e istituzionale per provare a
trasformarlo a favore di un interesse speci co.
Parlare di lobbying richiede un’analisi che prenda in considerazione vari aspetti, tra cui
non si può trascurare l’evoluzione che ha riguardato l’ordine democratico. Dai
cambiamenti conosciuti dal regime democratico si può meglio mettere a fuoco come e
perché il lobbying oggi abbia avuto spazi e attenzioni no a pochi anni fa inimmaginabili.
Nel 19esimo secolo l’Europa ha conosciuto la democrazia dei parlamenti. Nel 20esimo
secolo, con la ne dei totalitarismi, si assiste all’ascesa della democrazia dei partiti, dove
la rappresentanza è espressa dai partiti, dotati di identità strutturate, di un ceto di
professionisti e ben organizzati sul territorio. I cittadini votano per un partito prima che per
una persona in quanto sono legati da un forte senso di appartenenza, conseguenza di
un’identità condivisa, ra orzata mediante l’organizzazione e la partecipazione sociale. La
ne del secolo scorso e l’inizio di questo 21esimo secolo hanno visto emergere la
“democrazia del pubblico” caratterizzata dal declino delle ideologie e conseguentemente
delle culture politiche tradizionali, con l’accentuarsi di un processo di personalizzazione e
mediatizzazione. I cittadini votano sempre più per una persona e sempre meno per un
partito. La democrazia del pubblico è, secondo Manin, “il governo dell’esperto di media”.
In questo contesto cambia anche la natura dell’attività del governo, che necessita di un
potere sempre più discrezionale, giusti cato dal fatto che gli esecutivi sono chiamati a
dovere a rontare degli imprevisti, cui non si riesce sempre a far fronte con leggi
promulgate in anticipo. Gli imprevisti spingono chi abbia intenzione di in uenzare la scelta
del decisore a domandarsi quali fattori, quali cambiamenti stanno determinando
mutamenti nel processo decisionale. Giovanni Diamanti ne I segreti dell’urna, pertinente
alla nostra ri essione in quanto dedica alcune pagine all’importanza dello scenario,
propone un metodo suddiviso in tre fasi:
fi
fl
ff
fl
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
fl
ffi
1. capire: è la prima fase incentrata sulla conoscenza dettagliata dello scenario. Si tratta
di un’analisi precisa degli attori in gioco, delle tendenze dell’opinione pubblica, del campo
in cui si opera, con una particolare attenzione alle tradizioni politiche. I lobbisti devono
studiare il sistema mediale, gli stakeholders, i gruppi di interesse avversari e quelli vicini,
per comprendere cosa avviene nell’ambiente in cui è chiamata ad agire la lobby.
2. decidere: è la fase delle decisioni strategiche e della redazione di un piano di azione.
3. agire: è la fase dell’azione per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Nel campo delle lobby
questo signi ca intervenire sulle scelte del decisore con azioni dirette e indirette.
I caratteri tipici del processo decisionale vengono individuati da Bruno Dente, che
de nisce le 3 caratteristiche dei processi che portano a prendere una decisone pubblica:
1) esplosione della complessità decisionale, 2) l’aumento dell’incertezza sugli esiti delle
decisioni assunte, 3) la competizione tra gruppi sociali per raggiungere visibilità nel
dibattito pubblico.
La prima è l’esplosione della complessità decisionale. Dante ritrova una grande
complessità anche nell’azione che porta alla scelta della soluzione di un problema
collettivo. Oggi diventa ancora più di cile e necessario rispondere al noto quesito di
Dahl, “chi governa?”. Diviene essenziale chiedersi chi ha e ettiva capacità di in uenzare
le scelte chiare, le politiche pubbliche. La conclusione di Dahl è il passaggio dalla
dominazione di un’oligarchia a un sistema aperto e pluralista, proponendo il modello della
poliarchia, all’interno del quale viene riconosciuta la capacità di gruppi esterni al sistema
politico di in uenzare le scelte delle istituzioni pubbliche.
Nella fase in cui viviamo si assiste a una dilatazione della rete decisionale sia sull’asse
verticale (dal livello europeo al locale) sia su quello orizzontale (rapporti tra pubblico e
privato).
La dilatazione verticale ha spinto verso un governo multilivello caratterizzato dal fatto che
agli esiti nali di una decisione partecipano istituzioni appartenenti a livelli territoriali
di erenti, con l’inevitabile risultato che è sempre più di cile identi care il decisore.
L’allargamento dell’asse orizzontale mostra come sia sotto gli occhi di tutti che nuovi tipi
di attori entrano nei processi decisionali. Non solo più i gruppi economici giocano un
ruolo importante nella de nizione della scelta pubblica, ma entrano a far parte della
partita anche i gruppi de niti per una causa. In questi ultimi rientrano le organizzazioni
post- burocratiche (organizzazioni volontarie, aperte a tutti i cittadini, i cui membri
condividono un interesse comune), a volte anche gruppi di interesse pubblico
(organizzazione per tutela ambiente, difesa diritti umani); tra questi gruppi vanno segnalati
anche i NIMBY, i quali attraverso forme di protesta clamorose chiedono, per esempio, che
la costruzione di un impianto di incenerimento ri uti venga realizzato “ovunque tranne
qui”. C’è stato il cambiamento del sistema dei valori politici nella direzione dei “valori
post-materiali”, con l’a ermazione di un’etica civica non convenzionale imperniata
sull’autorealizzazione, sulla qualità delle relazioni interpersonali, sulla qualità della vita
sociale, su ampi spazi di partecipazione dal basso, sulla libertà di espressione e sulla
ff
fi
ffi
fi
ff
fl
ff
fi
fi
ffi
ff
fi
ffi
fl
ff
fi
fl
difesa dell’ambiente. Si tratta di uno spostamento, nella cultura politica, dell’attenzione
verso gli interessi all’attenzione verso i diritti, il che implica la ride nizione delle forme di
solidarietà e civic engagement.
Paragrafo 1.5, Dal digitale alla governance: come cambia il processo decisionale
L’uso del web ha permesso nuove forme di partecipazione dal basso, grazie al fatto che
inizialmente ha facilitato la di usione di informazioni e in un secondo momento ha
alimentato il desiderio di partecipazione e soprattutto di intervento sulle scelte e ettuate a
livello governativo.
La tecnologia ha cambiato radicalmente sia il numero che la qualità delle connessioni tra
cittadini e pubbliche amministrazioni. Nuove iniziative e progetti di utilizzo delle tecnologie
digitali si a acciano per migliorare la qualità del processo decisionale: una di queste
iniziative è CrowdLaw, creata con l’obiettivo di promuovere la progettazione di istituzioni
di governo più aperte, e caci e collegate in rete per mezzo dell’utilizzo di dati, tecnologie
fl
fl
ff
fi
ffi
fi
ff
fi
fl
ffi
fi
fi
fi
fl
ffi
fl
ff
ff
ff
e crowdsourcing. Le grandi imprese economiche (Amazon e Google) fanno ricorso alle
tecnologie digitali per raccogliere, elaborare e poi anche rivendere grandi quantità di
informazioni e dati sui cittadini; stessa capacità di gestione e di raccolta manca ancora
alle istituzioni pubbliche: da qui la necessità di ra orzare il processo decisionale
favorendo la partecipazione dei cittadini per mezzo delle piattaforme digitali. Da questi
presupposti nasce l’iniziativa di CrowdLaw, mirata a censire e a far conoscere quelle
pratiche che ra orzano il processo decisionale dei governi attraverso azioni dal basso
supportate dal digitale.
Gli elementi che caratterizzano tali prassi sembrano essere in primo luogo l’utilizzo di
tecnologie digitali da parte dei cittadini, ma anche da parte delle pubbliche
amministrazioni di qualsiasi livello. In secondo luogo, si ricerca una partecipazione su
larga scala degli attori che si muovono perlopiù a livello di società civile, i quali non si
limitano a far conoscere la loro opinione al decisore, ma o rono contributi e soluzioni utili
per permettere di giungere a scelte migliori. Il risultato è quello di favorire l’intelligenza
collettiva, ossia l’idea secondo cui un gruppo di persone su cientemente vario prenda
decisioni migliori rispetto a un singolo soggetto informato.
Nel modello partecipativo Policy making 3.0, ideato da Accordino, le parti interessate e i
decisori politici formano una rete sociale per coprogettare politiche sulla base di due
fattori ben distinti: 1) il primo fattore deriva dalla “saggezza collettiva“: è la dimensione
razionale in cui decisori e stakeholder de niscono le proprie azioni in base alle reali
esigenze (raccolta di dati, numeri: “fattori misurabili”); 2) il secondo fattore è riconducibile
alle aspirazioni collettive, raccolte per mezzo dei social network, riconducibili alla
dimensione più emotiva e fantasiosa delle parti coinvolte (“fattori non misurabili”). È
l’aspetto negoziale, favorito dalle tecnologie digitali, che porta a de nire politiche
congiuntamente sviluppate, derivanti dalla raccolta di dati, numeri (fattori misurabili), ma
anche di opinioni, interessi, valori (fattori non misurabili) di cittadini e organizzazioni di
vario tipo purché interessate alla questione su cui bisogna decidere.
Gianluca Sgueo va a individuare i tre vantaggi provenienti dall’impiego delle tecnologie
digitali nel processo decisionale. Il primo bene cio è un ra orzamento dell’e cienza delle
pubbliche amministrazioni: le istituzioni pubbliche hanno scarsa capacità di raccogliere le
numerose e diverse istanze dei cittadini, e i media digitali possono aiutarli a colmare le
lacune esistenti. Il secondo bene cio è la maggiore e cacia delle politiche pubbliche. Il
terzo vantaggio apportato dalle tecnologie digitali è quello di realizzare un processo
decisionale più trasparente, accessibile e partecipativo.
In de nitiva, la tecnologia è il mezzo attraverso il quale le pubbliche amministrazioni e gli
attori sociali possono impegnarsi in un processo reciprocamente vantaggioso di
cocreazione di politiche pubbliche.
La partecipazione all’elaborazione e all’attuazione delle politiche pubbliche di un numero
via via crescente di soggetti pubblici e privati - favorita dalle tecnologie digitali - è stata
una degli elementi centrali del passaggio dal modello del government a quello della
governance, che viene intesa come un processo di elaborazione, di determinazione, di
realizzazione e di implementazione di azioni di policies. Risulta essere in parte
accantonata la logica gerarchica che in generale fa dello Stato l’attore regolatore o
decisore sovraordinato a tutti gli altri. L’aspetto che si vuole sottolineare è la rilevanza che
in questa dinamica è assegnata al coinvolgimento della società civile. L’idea di
governance nasce, infatti, dalla convinzione che gli assetti di governo di una società
complessa come quella attuale possono derivare da un processo Bottom-up più che da
una logica top-down.
In questo modo, la governance cerca di trasformare in opportunità quelli che a prima vista
si de niscono come problemi; le di coltà delle istituzioni statali diventa l’occasione per
l’evoluzione della democrazia, con la moltiplicazione dei luoghi di governo e l’introduzione
fi
fi
ff
fi
ffi
fi
fi
ff
ffi
ff
ff
ffi
fi
ffi
di una essibilità che rende meno lontane le istituzioni dalla dinamica dei processi sociali.
Ne è una prova la gami cation (ludocroazia), ossia il ricorso all’uso di strategie ludiche
(un sistema a premi, incentivi per gli utenti, etc..) da parte di istituzioni pubbliche al ne di
rendere alcuni servizi pubblici più godibili e usufruibili attraverso un maggior
coinvolgimento dei cittadini. La gami cation si basa sul concetto di “invitare” i cittadini a
collaborare all’erogazione di un servizio prevedendo l’inclusione di situazioni “divertenti”
simili a quelli di un gioco. Questo approccio incentrato sull’uso di strategie ludiche
consente una migliore conoscenza delle questioni prioritarie per i cittadini, le quali, in
questo modo, entrano nell’agenda del decisore (e etto agenda setting); nella de nizione
della soluzione di un problema, la gami cation concede al decisore la possibilità di poter
contare sul contributo dato da quei cittadini e quelle organizzazioni che hanno speci che
competenze (e etto expertise) sulla questione trattata; in ne, la gami cation dà
l’opportunità al cittadino di valutare (e etto accountability) la scelta presa dal decisore.
Sgueo indica i principali fattori che hanno prodotto un crescente interesse verso la
gami cation: il principale è ovviamente la crescente di usione delle tecnologie digitali nel
settore pubblico; il secondo è l’espandersi della s ducia verso la politica e il processo
decisionale e i conseguenti tentativi delle istituzioni pubbliche di riavvicinare i cittadini e
gli altri attori sociali alla vita pubblica; il terzo è legato ai vincoli nanziari e alla
complessità normativa che spinge le pubbliche amministrazioni a rivolgersi a soggetti
esterni e privati. Riepilogando, la gami cation ha la capacità di migliorare la
consapevolezza e l’impegno civico; gli attori della società civile, coinvolti attraverso
giochi, sono maggiormente motivati a dare “indizi sociali” e a far sentire la propria voce
contribuendo in maniera attiva al miglioramento del processo decisionale.
Il successo di un gruppo di interesse è legato anche alla sua capacità di a ermarsi nel
dibattito pubblico e di intervenire, poi, nel processo decisionale grazie all’identità
costruita. Un’identità che è sempre più legata alle strategie di immagine adottate e
fl
fl
fi
fi
fi
fl
ff
indispensabili per raggiungere un’empatia e una riduzione delle distanze con gli attori
esterni. Le principali strategie in questione, che determinano come un’organizzazione
venga percepita dai suoi pubblici di riferimento, secondo Gili e Panarari, sono:
1)l’umanizzazione: la strategia attraverso la quale un’organizzazione (o gruppo di
interesse) mira a essere percepita più vicina alle persone rivelando i propri “tratti umani”;
2) la sempli cazione: tenta di rendere comprensibile attraverso il linguaggio, i signi cati e i
valori trasmessi l’istanza sostenuta; 3) l’emozionalizzazione: permette di costruire un
legame emozionale con i propri pubblici.
La visibilità, che sostiene la crescita e lo sviluppo di un’organizzazione, è strettamente
connessa a una strategia narrativa: attraverso la narrazione si è in grado di esaltare i tratti
umani, di emozionare e sempli care. Chiaro il riferimento al concetto di Storytelling. Ciò
che proponiamo è una visione di lobbying e di Storytelling rappresentati e considerati
come due azioni complementari: un gruppo di interesse ha più probabilità di premere sui
policymakers quando è in grado di narrare storie abilmente impiegate per ra orzare la sua
identità. Christian Salmon propone un’idea di Storytelling che oscilla tra la persuasione
occulta e la spudorata propaganda. Appare, in altre parole, come uno strumento
pericoloso nelle mani delle multinazionali e di politici senza scrupoli. La strada da
intraprendere è invece proprio quella proposta da Perissinotto nel libro Raccontare.
Strategie e tecniche di Storytelling, in cui sostiene che lo Storytelling di un’organizzazione
è la garanzia del suo esistere sociale e del suo perdurare nel tempo. Non va dimenticato,
infatti, che ogni attore sociale (un gruppo di interesse, una lobby) si trova “a competere
nel marketplace of opinion e dalla circolazione delle notizie dipende la propria
reputazione”. Un gruppo di interesse nel momento in cui mira a rendere pubblica una
nuova issue deve concentrarsi anche sulla propria reputazione, che dipende dalla
rappresentazione sociale prevalente. Si attribuisce alla narrazione la funzione di
costruzione del Sé (dell’identità). L’obiettivo è realizzare e comunicare un’immagine
completa dell’organizzazione, che tenga conto anche del suo back o ce; lo Storytelling
permette di fornire ordine all’universo che circonda un attore sociale e consente di
richiamare circostanze ed esperienze conosciute che facilitano la comprensione nella
comunicazione. Le storie appaiono come dei dispositivi ordinatori, ovvero degli strumenti
che mettono in ordine e sistematizzano gli eventi di un’organizzazione, dando loro senso
e direzione. Di conseguenza, lo Storytelling è una produzione di senso. La narrazione
quindi spinge un’organizzazione alla costruzione di un rapporto empatico con i propri
pubblici, incentrato sulle emozioni che la prima è in grado di indurre sui secondi.
L’uso delle parole nello Storytelling (come nel lobbying) è un’azione decisiva. La forza
delle parole, però, dipende dal modo in cui vengono interpretate dalle persone;
un’interpretazione che è strettamente connessa con la trama della storia che viene
raccontata. Deborah Stone a erma che “le de nizioni di policy problems hanno tutte una
propria struttura narrativa: cioè, sono storie con un inizio, una metà e una ne, che
comportano qualche cambiamento o trasformazione. Ci sono gli eroi, i personaggi cattivi
e le vittime innocenti”. Di solito, quando si ha a che fare con questioni che riguardano il
campo sociale (un esempio è quello della sanità), dove è richiesta e necessaria una scelta
politica, prevalgono narrative del tipo story of helplessness and control, vale a dire storie
che prendono spunto da contesti iniziali complessi con un alto rischio che escono dal
controllo della politica, ma che terminano il più delle volte con la risoluzione del problema
grazie alla scelta e ettuata da parte del decisore.
Raccontare storie assume un ruolo rilevante nell’ambito del lobbismo. Il lobbying
coinvolge i decisori pubblici (politici, dirigenti), i quali inevitabilmente sono maggiormente
predisposti a interagire con quegli attori sociali (gruppi di interesse o lobby) in grado di
produrre narrazioni che appaiono coerenti con quelle di vasti settori di pubblici. Parlando
di Storytelling si rientra a pieno titolo nel campo del lobbying indiretto. Lo Storytelling per
fi
ff
ff
fi
fi
ffi
fi
ff
fi
un’organizzazione è uno delle principali strategie per costruire consenso e per mobilitare i
cittadini, condividere con loro un’istanza proponendo una visione (il frame), formulando un
quadro generale che dia signi cato alla tematica sostenuta al punto da non poter
rimanere inosservato da parte degli attori interni al processo decisionale. Sviluppare la
narrazione di un’organizzazione signi ca seguire alcuni suggerimenti elencati da
Perissinotto: 1. comunicare la propria missione ai pubblici di riferimento; 2. essere attivi e
riconosciuti nel contesto sociale (o ambiente) in cui l’organizzazione agisce; 3.
promuoversi sostenendo costantemente la propria visibilità; 4. narrare storie amichevoli,
vicine e accessibili in cui ognuno può riconoscersi; 5. rendere noti i propri valori; 6.
condividere e trasferire le proprie esperienze; 7. raccontare storie che si calano in
esperienze concrete, reali, umane e memorabili.
Lobbying, nella proposta di Alemanno, signi ca interagire con almeno tre diversi attori: i
policymakers, i mass-media e l’opinione pubblica. Per questo lo studioso parla di un
lobbying plan, cioè il bisogno di redigere un piano in cui va indicato non solo con chi
parlare, ma anche come e quando farlo. Il piano di lobbying deve prevedere speci ci
passaggi necessari per rendere pubblica (visibile) la propria istanza, che includono: 1) Il
target: quali sono i pubblici di riferimento? 2) Il contenuto: quali informazioni condividere?
3) Il contesto; 4) l’obiettivo: a chi devo far conoscere l’istanza? 5) Il disegno: quali sono gli
strumenti più adatti per promuovere l’istanza? Lo Storytelling, quindi, “è un modo e cace
per attirare l’attenzione sulla proposta sostenuta”. È uno strumento essenziale per
coinvolgere sostenitori, costruire alleanze, e, per questo, deve essere una delle
componenti chiave del piano di lobbying.
Chi è il lobbista? Il lobbista è “più politico dei politici e più documentato di un u cio
studi”. Al lobbista è richiesto un ventaglio di competenze diversi cate tra l’economia, il
diritto e la comunicazione. Il lobbista, in altri termini, è un esperto; la sua azione è
incentrata su una competenza applicata e la relazione che lo lega al suo committente
(l’organizzazione per cui lavora) e il conseguente rapporto di potere che si può instaurare
tra i due è a vantaggio del secondo che individua e de nisce l’istanza da sostenere e
l’obiettivo da raggiungere, mentre al lobbista spetta di fornire le risposte tecniche per
raggiungere quanto stabilito dal committente.
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
ffi
La gura del lobbista rimanda nello speci co alla funzione strumentale, di cui parla
Caselli, in base alla quale una determinata organizzazione o istituzione politica impiega
una certa conoscenza per risolvere un problema. Il lobbista, attraverso la propria attività,
raccoglie ed elabora, infatti, quelle conoscenze per poi metterle a disposizione dei
decisori politici o al contrario, come spesso avviene soprattutto nel contesto europeo con
l’apertura, ad esempio, di un libro verde, è lo stesso decisore a sollecitare il lobbista a
elaborare le necessarie conoscenze. Caselli osserva che all’interno della categoria
funzione strumentale è possibile distinguere diverse funzioni tra le quali va annoverata
quella informativa, cui fanno capo le attività di analisi, di identi cazione e di segnalazione
di un determinato problema al decisore pubblico. Altre funzioni sono quella operativa, che
include attività essenziali per supportare il decisore nella individuazione delle possibili
azioni di risposta e di soluzione del problema; quella politico-strategica, che raggruppa le
attività incentrate sull’analisi del campo politico (costruzione di alleanze,…) nalizzate alla
legittimazione di determinate decisioni politiche. Il lobbista, di fatto, con le sue
informazioni corrette assiste il decisore nel giungere a una scelta consapevole e lo aiuta a
costruire un consenso intorno alla decisione presa. Ovviamente, essendo un portatore di
interessi particolari, evidenzierà gli aspetti che maggiormente lo riguardano.
Cattaneo scrive che i migliori lobbisti con cui ha lavorato sono divoratori di libri,
solitamente libri che permettono di comprendere il potere e il contesto in cui le scelte
politiche vengono prese. Un libro che va in questa direzione, focalizzato sul dietro le
quinte della politica italiana dalla nascita della seconda Repubblica no all’arrivo del
governo Conte, è Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, nel quale viene
spiegato come nell’attività del lobbista sia centrale la conoscenza del dettaglio, e inoltre vi
si trovano le indicazioni sulle relazioni da costruire e sul lessico da impiegare in certi
momenti e con certe persone; in ne, si spiega come il potere sia fatto anche di luoghi e di
momenti informali: “oggi l’Italia è una Repubblica fondata sul padel”.
Il lobbista deve saper analizzare il contesto oltre l’apparenza, prevedendo e
comprendendo i ritmi e le tempistiche della politica che risultano essere poco codi cate e
spesso stravolte da emergenze. Egli è dunque chiamato: a) a interpretare le richieste
spesso confuse o poco chiare dell’organizzazione per cui opera; b) ad aggiornarsi
costantemente sugli sviluppi e le innovazioni che riguardano il campo della politica e della
pubblica amministrazione, con uno sguardo sempre attento anche ai cambiamenti che
avvengono a livello micro e macro economico. Il lobbista non può permettersi di non
conoscere alla perfezione l’ambiente politico dove si trova ad agire e, grazie al bagaglio di
conoscenze possedute, riesce a monitorare attentamente e costantemente la mappa del
potere decisionale. La velocità con cui vanno decise le mosse da e ettuare e con cui si
identi cano i decisori che incidono sugli obiettivi della propria organizzazione è un altro
attributo del rappresentante di interessi. E poi c’è la scrittura, un’altra abilità del lobbista:
scrivere implica avere le competenze per trasferire le proprie idee in un dossier al ne di
agevolare il più possibile il lavoro del decisore.
Le qualità indispensabili al lobbista sono: 1) l’intelligenza di contesto, per poter
interpretare non solo il quadro politico ma anche l’ambiente sociale dove i vari gruppi di
interesse entrano in competizione; 2) l’intelligenza relazionale, per poter costruire rapporti
stabili con gli interlocutori; 3) la competenza sugli aspetti formali e informali del processo
decisionale.
È di cile costruire l’identikit del “bravo lobbista”, dato che ognuno ha la sua storia di
formazione e vicende professionali e percorsi di carriera molto personali: la norma è che
non esiste un percorso standard per diventare lobbisti.
Lobbisti possono essere suddivisi in tre categorie: i lobbisti in-house; gli hire lobbyists; i
lobbisti civici.
1) I lobbisti in-house sono dipendenti dell’organizzazione il cui scopo prevalente è
monitorare e piani care; sono strutturati in una divisione o direzione dedicata agli
a ari istituzionali o public a airs e si occupano di fare da cerniera tra tutte le divisioni
dell’organizzazione per cui operano e i molteplici soggetti con cui essa interagisce.
Lavorano a stretto contatto con il vertice dell’organizzazione.
2) Gli hire lobbyists sono lobbisti di agenzie di consulenza o lobbying o comunicazione
che ricevono incarichi per rappresentare speci ci interessi. Si ricorre a queste agenzie
per le attività di back e front o ce: si va dal monitoraggio del processo decisionale
no alla costruzione di rapporti con il decisore e al presidio dei corridoi decisionali. La
loro struttura interna prevede gure con diversi livelli di esperienza: si va dai fondatori,
lobbisti di grande visibilità maturata dopo anni di esperienza che si occupano
soprattutto di front O ce, ai senior consultants, lobbisti con circa cinque anni di
esperienza che si occupano sia di back che di front O ce di speci che questioni, ai
consultants, con pochi anni di esperienza che si occupano prevalentemente di back
fi
ff
ff
fi
fi
fi
fi
ffi
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
O ce, per nire con gli analysts, statisti che si occupano esclusivamente di back
O ce.
3) In ne, i lobbisti civici fanno riferimento all’attivismo civico, che ha preso piede negli
ultimi anni e che vede i cittadini in prima linea per difendere un tema, un interesse che
li riguarda. In pratica si tratta di alzare il telefono, inviare un’e-mail o attivare un
account Twitter per raggiungere il decisore, di presentare una petizione o creare un
gruppo di Facebook per promuovere una causa. Sono le motivazioni e la capacità
organizzativa che contraddistinguono il “cittadino lobbista”, alla costante ricerca di
altre persone con cui allearsi e condividere il raggiungimento di un obiettivo. Le
caratteristiche che lo distinguono da qualsiasi altra forma di attivismo sono: a) il Target
(la pubblica autorità o il decisore); b) il metodo (la tecnica di lobbying implementata);
c) l’obiettivo (cambiamento di una norma,…).I lobbisti civici in genere agiscono sul
processo politico monitorandolo, identi cando le questioni importanti per loro,
sviluppando una strategia e impegnandosi in una varietà di attività per raggiungere
l’obiettivo stabilito, spesso anche raccogliendo un supporto esterno (esempi calzanti
sono quelli di Greta Thunberg, ma anche tutti quei comitati che nascono per
sostenere e difendere o contrastare un’istanza). A bene ciare del risultato ottenuto
non saranno soltanto i membri del comitato ma l’intera comunità.
Back e front o ce sono due forme di attività di lobbying che solitamente rimandano al
soft lobbying (il back o ce) e all’hard lobbying (il front o ce).
Si parla di soft lobbying per indicare un’attività nalizzata a: 1) de nire l’interesse
rappresentato; 2) mappare gli interessi vicini e costruire delle alleanze (o coalizioni); 3)
mappare gli interessi opposti e contrastarne l’azione; 4) mappare e monitorare i decisori
pubblici e prendere contatti con i suoi assistenti e altri membri del suo sta ; 5)
predisporre scale di analisi/documenti, rapporti di ricerca, position papers o policy briefs.
Il soft lobbying rientra nella fase della mappatura, quando cioè si mira a capire cosa si
vuole ottenere, per quale motivo e con quale nalità. Questa fase è cruciale per il
prosieguo dell’attività di lobbying: “se sbaglio questa fase, sbaglierò in sequenza tutte le
successive perdendo molto tempo”. È a questo stadio che il lobbista valuta la fattibilità
della sua azione confrontandosi col cliente o datore di lavoro. Una volta compreso cosa
bisogna rappresentare, e percepito l’orientamento della gente, il passaggio successivo
del lobbista impegnato in un’azione di soft lobbying è ra orzare la posizione dell’istanza
attraverso la costruzione di una coalizione. Una coalizione è un’alleanza tra gruppi di
interesse dello stesso o di diversi settori, nalizzata a perseguire un obiettivo condiviso.
L’azione che porta alla formazione di un’alleanza è chiamata coalition building ed è
considerata dal lobbista un lavoro delicato e di cile. In compenso, poter contare su una
coalizione di supporto è un vantaggio indiscutibile: il decisore, infatti, è sensibile alle
istanze sostenute da un largo consenso, perché le sue scelte hanno bisogno, per essere
convincenti, di essere fatte nel nome di un interesse il più ampio possibile; in secondo
luogo, può ra orzare, nel caso di un politico, il suo consenso e visibilità nell’ambiente
esterno. Un esempio di coalizione è Legambiente, che, per essere ascoltato nel contesto
europeo, ha creato un network ambientalista transnazionale.
Di pari importanza è la mappatura degli interessi opposti, nalizzata a individuare di
ciascun avversario la struttura interna, le competenze, il know how a disposizione e la
percezione esterna. Compito del lobbista è quello di capire quale potrebbe essere il punto
di mediazione con i gruppi di interesse avversari. L’intento è quello di tenere basso il
ffi
ffi
fi
fi
ff
ffi
ffi
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
ffi
ff
fi
fi
ff
livello dello scontro per evitare che il decisore si trovi in con itto con interessi
contrapposti.
Il soft lobbying comprende anche la mappatura del processo decisionale, basata
sull’individuazione del livello di intervento nella gerarchia dei decisori (il livello di intervento
può essere europeo; all’interno dei con ni, e dunque a livello centrale; in ne regionale o
locale).
Paragrafo 3.1, Dal lato delle regole: a proposito del diritto di pressione
Nonostante la presenza del lobbying sia palese e riconosciuta, in Italia manca ancora una
legge sulle lobby. Il fatto è che, negli ordinamenti democratici, le norme faticano a
disciplinare un fenomeno così complesso ed articolato. Sicuramente solo in democrazia il
lobbying è a un tempo risorsa e problema, manifestazione di diritti fondamentali e
pericolo per la buona amministrazione.
Già James Madison, uno dei padri della costituzione americana, aveva colto bene questa
ambivalenza: gli interessi parziali, le “fazioni”, cercano di condizionare le scelte delle
istituzioni pubbliche a proprio vantaggio, ma proprio nella pressione di una molteplicità di
posizioni “particolari” si compone e de nisce lo stesso interesse generale.
Tornando ad oggi, è chiaro che l’apporto, di ciascuno e quindi di tutti, al formarsi della
scelta è un valore ineludibile in democrazia. Resta allora la possibilità di provare a
regolare il lobbying, cercando di contenerne i rischi ed esaltarne i vantaggi: in questo si
sono cimentati molti ordinamenti. Resta però una indubbia di coltà nel costruire una
cornice normativa proprio per il carattere mutevole e scivoloso del fenomeno. Mutevole,
perché al pari (ma più) di molti altri fenomeni sociali risente appunto dei cambiamenti che
interessano la società, ma anche perché si adatta ai suoi mutamenti (istituzionali, politici).
Scivoloso perché spesso tende ad adattarsi per sfuggire alle gabbie entro le quali si
intende contenerlo. Scivoloso anche perché può tentare di rifugiarsi nell’informalità, in
occasioni e situazioni che diventa più complesso regolare.
Nel contesto statunitense il diritto a in uire sui decisori pubblici si riconduce in primo
luogo al diritto di petizione: è un diritto strettamente intrecciato con lo stesso diritto di
parola e con quello di stampa, già nella stessa formulazione del Primo emendamento (del
1791) alla Costituzione statunitense. Quindi, il lobbying si con gura come una libertà
costituzionale, quale diritto di rappresentare le proprie ragioni, e in questi termini è stato
riconosciuto dalla Corte suprema. Con la precisazione che, quando parlava di “petizioni”,
ffi
fl
fi
fi
ffi
fl
ffi
fi
fi
il legislatore costituzionale del Primo emendamento intendeva esattamente l’attività di
rappresentanza di interessi, in sostanza il lobbying.
Quanto al diritto di “petizione”, nella sua forma più circoscritta lo troviamo sia a livello
nazionale che europeo: in tutti i casi rientra tra i diritti che conformano l’impianto
democratico quello di potersi rivolgere ai propri rappresentanti e quindi intervenire nel
processo decisionale pubblico. In questo senso va la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, che prevede, all’articolo 44, che “qualsiasi cittadino, o qualsiasi
persona giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro dell’Unione
Europea ha il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo”.
Il quadro costituzionale europeo fornisce nel suo complesso un chiaro fondamento per il
riconoscimento e la valorizzazione della rappresentanza degli interessi, de nendo un
modello di democrazia partecipativa, nel quale “le istituzioni danno ai cittadini e alle
associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere
e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’unione” ed è
mantenuto “un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative
e la società civile”. Né va trascurato il fatto che lo stesso trattato prevede che “la
Commissione europea procede ad ampie consultazioni delle parti interessate”.
Una situazione parzialmente ancora diversa è rinvenibile nel sistema italiano: il
fondamento del “diritto al lobbying” è stato rinvenuto negli articoli 2,3, 18 e 49 della
Costituzione, singolarmente e nel loro combinarsi. Dal combinarsi di queste a ermazioni
la Corte ricava il diritto dei corpi sociali di organizzarsi per in uire sulle dinamiche
politiche, in forme e modi che la legge può regolare ma non escludere in via generale.
D’altra parte, sarebbe paradossale se il popolo “sovrano” non potesse incidere sul
formarsi delle decisioni politiche, come confermano il diritto di iniziativa legislativa (da
parte di 50.000 elettori) e il diritto di richiedere l’abrogazione di leggi (referendum
abrogativo, richiesto da 500.000 cittadini): prerogative, queste, che esprimono il diritto del
popolo anche di “partecipare con appositi istituti alla decisione pubblica”. Né può tacersi
la rilevanza che, più recentemente, va riconosciuta al principio di sussidiarietà e quindi al
“paradigma sussidiario”, sancito dall’art 118 della Costituzione, che impone a tutti i livelli
di governo di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nel prendersi
cura di interessi generali.
Nel primo caso (modello Washington) il lobbying è avvertito quale elemento in grado di
mettere a rischio i meccanismi decisionali democratici ed è quindi oggetto di una
regolazione hard (con obblighi e sanzioni) che mira, specie attraverso obblighi di
trasparenza, a contenerne i potenziali e etti patologici; questo approccio di regolazione
comporta una disciplina diretta del fenomeno lobbistico, ma non trascura una disciplina
“di contorno” rivolta a ra orzare l’integrità e l’imparzialità dei decisori pubblici. Il
baricentro della regolazione è la trasparenza. La normativa canadese, che ha forti
similitudini con quella statunitense, ssa l’attenzione su un punto cardine dei meccanismi
di trasparenza, l’obbligo di registrazione dei lobbisti e delle attività di lobbying. Obblighi
(sanzionati) di disclosure e registration, legati gli uni agli altri; trasparenza e registrazione
delle lobby sono le pietre angolari del modello.
Un diverso modello è quello fatto proprio dalle istituzioni europee (modello Bruxelles):
qui il baricentro è la partecipazione, ossia l’idea che il lobbying sia un’opportunità per le
stesse istituzioni oggetto delle “pressioni” lobbistiche, sia in termini di miglioramento della
decisione (che emerge dal confronto con soggetti esperti in grado di rappresentarne
l’impatto su settori, territori, categorie di persone) che di legittimazione della stessa
governance europea. Anche in questo caso la trasparenza è la chiave di volta per
consentire il corretto sviluppo dei processi decisionali, ma è una trasparenza centrata
sull’attività (normativa o amministrativa) e orientata a favorire la partecipazione: “il luogo
della decisione è una stanza con le pareti di vetro cui, però, i portatori di interesse hanno
diritto ad entrare e a sedere al tavolo della decisione”.
Diversa è la prospettiva propria del modello delle istituzioni europee: la pressione degli
interessi non è intesa come “pericolo”, ma come “opportunità” per il miglioramento dei
processi decisionali pubblici.
La giurisprudenza delle corti europee ha speci camente dichiarato il nesso strettissimo
tra democrazia e pluralismo: un pluralismo che va inteso non solo come tolleranza delle
idee e dei punti di vista ma anche come attenzione alle voci degli interessi coinvolti nei
processi legislativi e politici.
Il formidabile spostamento delle attività di lobbying al livello delle istituzioni europee è
forse una delle conferme più evidenti dell’importanza del ruolo dell’Unione per la garanzia
dei diritti e la soddisfazione degli interessi: è un processo che ha un’accelerazione a
partire dagli anni 80, con il trasferimento dell’attività di lobbying a Bruxelles.
Secondo l’approccio prevalente a livello delle istituzioni europee, quindi, è nel proprio
interesse che i gruppi di pressione forniscano informazioni e consigli. Questo approccio
verrà ribadito e consolidato con il fondamentale Libro bianco sulla governance
(commissione europea, 2001), un documento che sancisce l’apertura della Commissione
ai gruppi, dei quali è riconosciuto il ruolo, sul piano tecnico, in quanto essenziale nel
fornire informazioni tecniche, dati e consigli costruttivi, ma non meno sul piano politico.
Questo approccio è alla base del sistema normativo eurounitario e si traduce in una forte
attenzione alla prospettiva del supporto all’interazione tra interessi (economici) organizzati
e decisori, nel tentativo di promuovere l’economia e l’adozione di regolazioni funzionali
allo sviluppo. Seguendo questa logica, la disciplina del fenomeno è stata tradizionalmente
mantenuta a un livello di minore cogenza, con registri attivati presso speci che istituzioni,
ad adesione volontaria o comunque assistiti da un sistema di sanzioni attenuato.
Si vede bene, in questi contesti, l’importanza di favorire l’ingresso dei lobbisti nelle sedi
istituzionali e il loro intervento nelle procedure decisionali, in un approccio inclusivo. Da
questa di erente prospettiva discende l’approccio rispetto alle misure di regolazione:
l’iscrizione del lobbista europeo ai registri diviene dunque più un’opportunità, da
incentivare, che un obbligo, e in quanto tale il modello appare tradizionalmente meno in
grado di rispondere a esigenze di trasparenza e controllo da parte dei cittadini. In questo
senso, il modello europeo si inserisce tra i modelli orientati alla “partecipazione” anziché
al controllo, nonché tra i modelli di soft regolation a di erenza di modelli di matrice
nordamericana, e anglosassone, di regolazione hard: il carattere “morbido” della
regolazione è duplice. Discende, da un lato, da provvedimenti delle singole organizzazioni
che decidono di dotarsi di una disciplina del fenomeno; si lega, dall’altro, al carattere
volontario della stessa sottoposizione al regime previsto.
Le lobby possono fornire elementi indispensabili per la comprensione dell’impatto di
determinate scelte, per quanto da questo processo decisionale derivino spesso
normative oscure, per “addetti ai lavori”: di non facile interpretazione e perciò riservate ai
portatori di speci che competenze, in quello che rischia di essere un circuito opacizzante.
Sì è detto dei due modelli di regolazione del lobby: il più di uso è però un terzo “non-
modello”, quello della regolazione assente. È infatti prevalente la tendenza a non
regolare direttamente il fenomeno del lobbying.
Quello della regolazione indiretta (che nel caso italiano Petrillo de nisce “strisciante ad
andamento schizofrenico“) è forse un terzo modello: così è in particolare per quelle
esperienze, come quella italiana, in cui il rapporto lobbistico arriva a essere oggetto di
attenzione su più versanti, con una tendenza a una regolazione sempre più pervasiva che
ff
fi
fl
ff
fi
ff
nisce per “avvolgere“ il fenomeno del lobbying, sia pure astenendosi dal fornirne una
regolazione diretta.
Tradizionalmente, in Italia ci troviamo di fronte a un modello nel quale l’azione politica è
stata spesso frutto di accordi di natura informale tra i soggetti istituzionali e le forze della
rappresentanza economica e sociale: questo modello, a partire dalla ne degli anni 80 del
secolo scorso, ha assunto forme degenerative non solo per l’assenza di regole ma anche
per una crisi del sistema dei partiti. Questi caratteri hanno giusti cato a lungo l’assenza di
una regolazione di un tema visto come interno alle dinamiche del sistema politico: ne
discende che il modello italiano è tradizionalmente riconducibile a quello caratterizzato da
una regolazione frammentata e indiretta del fenomeno, e dall’assenza di una disciplina
speci ca e organica del lobbismo. Appare esserci, però, dietro questo vuoto regolatorio,
non solo l’inerzia, ma anche l’ombra di impostazioni ideologiche di fondo. L’idea è quella
di una rappresentanza politica che agisce in nome di una volontà generale. Da ciò deriva
una reticenza ad ammettere (e formalizzare) che “il re è nudo” e che la decisione pubblica,
anche legislativa, è frutto di una negoziazione con i rappresentanti di interessi particolari.
Un approccio, questo, che determina i caratteri di un quadro normativo che a un tempo
ri uta ideologicamente l’idea di una disciplina del lobbismo e, ntanto che i partiti politici
di massa mantengono una forza e ettiva, alimenta la resistenza dello stesso sistema
politico-partitico ad accettare la formalizzazione di canali “paralleli” in grado di mettere in
relazione interessi particolari e decisori pubblici.
In Italia l’approccio alla regolazione delle lobby manifesta caratteri peculiari: mentre
persiste l’incapacità di fornirne una diretta regolazione, sono continui i tentativi di darne
una disciplina legislativa che risultano però sempre infruttuosi, e d’altra parte questa
assenza è contraddetta, o forse bilanciata, dalla proliferazione di regole indirette,
settoriali, parziali, variamente rivolte a far emergere, circoscrivere, imbrigliare l’attività dei
rappresentanti di interessi “particolari“ o “organizzati“. Una tendenza, quest’ultima, che
conosce una forte accelerazione nella stagione dell’anticorruzione.
Proprio la spinta generata dalle politiche anticorruzione spiega l’accelerazione che la
regolazione del lobbying sta conoscendo in Europa. Pur senza arrivare all’ampiezza
dell’impianto normativo statunitense, si iniziano a ritrovare interessanti regolazioni volte in
particolare a rendere trasparente l’attività dei gruppi di pressione mediante istituti di
accreditamento e obblighi di registrazione: si tratta però di una sviluppo recente.
Nello scenario europeo, una prima esperienza con questi caratteri è quella tedesca. A
partire dal 1972 il Bundestag ha previsto la registrazione di associazioni e dei loro
rappresentanti e quindi la presenza di un registro pubblico nel quale si iscrivono le
associazioni che intendono rappresentare o difendere interessi a livello di organi federali.
Si tratta, in ogni caso, di un impianto considerato poco e cace, con percentuali di
adesione molto ridotte ai registri volontari.
fi
fi
ff
fi
ff
ff
ffi
fi
fi
fi
Soluzioni analoghe sono rinvenibili nei Paesi Bassi, dove è previsto, grazie a un
regolamento parlamentare del 2012, un registro ad adesione volontaria nella camera
bassa del parlamento. Un’esperienza particolarmente ine cace.
Si può ricondurre in questo solco anche la prima esperienza francese, dove un sistema
di registrazione dei lobbisti è stato introdotto nel 2009 attraverso regolamentazioni relative
all’attività delle due camere. La registrazione del lobbista è, anche in questa esperienza,
una scelta volontaria ma incentivata. Dall’iscrizione discendevano infatti diritti di accesso
alle sedi parlamentari. Il modello presentava delle signi cative lacune che ne limitavano
l’e cacia: “le norme sul lobbismo sono ridotte a una questione di accesso e sicurezza e
non di trasparenza della decisione pubblica“. Nel quadro delle riforme anticorruzione
l’approccio francese al tema si è evoluto, con una transizione di modello (da quello
Bruxelles verso quello Washington), grazie alla legge 1691 del dicembre 2016. L’iscrizione
al registro, obbligatoria, comporta doveri di trasparenza e l’adesione a regole
deontologiche, sui quali vigila l’Haute Autorité.
Oltre la manica, la disciplina dell’attività di lobbying è stata introdotta nel 2014 con il
Lobbying Act, che ha introdotto un meccanismo di registrazione obbligatoria dei lobbisti
professionali, prevedendo misure di trasparenza e limiti di spesa per le campagne
elettorali (in Inghilterra previsti obblighi di registrazione e trasparenza per qualsiasi
organizzazione diversa dai partiti politici che voglia spendere più di 20.000 £ in iniziative
riconducibili alle dinamiche elettorali).
Il lobbying è tutt’altro rispetto alla corruzione, ma in alcune sue forme degenerate può
tradursi in pressioni indebite e quindi, in senso lato, in corruzione. La legge richiede,
perché possa parlarsi di corruzione, un vero e proprio “patto scellerato” tra corrotto e
corruttore, con lo scambio di un’utilità per l’esercizio della funzione.
Più complesso il discorso per il “tra co di in uenze illecite”, la cui disciplina arriva a
lambire in modo più diretto l’attività di lobbying,
La legge 190 del 2012 serve a contrastare il fenomeno della corruzione e punire sia il
“mediatore, che fa commercio della sua in uenza su di un pubblico u ciale, sia
l’acquirente di questa mediazione. Precisamente, è punito ora chi “sfruttando o vantando
relazioni esistenti o asserite con un pubblico u ciale, indebitamente fa dare o promettere,
a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un
pubblico u ciale”. Si può cogliere subito la parziale sovrapponibilità tra questa gura di
reato e l’attività propria e tipica del lobbista. La “salvezza” dell’attività del lobbying sembra
risiedere essenzialmente nel fatto che la mediazione deve essere “illecita”, vale a dire
orientata al compimento di un atto contrario ai doveri di u cio, e questo potrebbe
consentire di circoscrivere il contenuto dell’accordo illecito distinguendolo dalle corrette
condotte lobbistiche: un problema rilevante è dato dal fatto che nel caos normativo che
caratterizza il sistema amministrativo non è così semplice inquadrare quando la condotta
per la quale si è mediato è in contrasto con la legge e che, di conseguenza, manca una
delimitazione delle attività di lobbying lecito. Quella di cui si parla è un’ipotesi di reato non
solo sfuggente e generica, ma che si muove in un contesto nel quale la complessità del
quadro normativo e le dinamiche caotiche della decisione rendono sfumato il con ne tra
corruttori, faccendieri, rappresentanti di interessi leciti. C’è chi vede della strategia in
questo caos: “c’è l’idea che il complesso delle patologie del quadro normativo interno
possa promuovere l’adozione di atti imprevisti che, di fatto, di cilmente potrebbero
quali carsi come illeciti o reati in senso stretto”.
Il problema però principale è proprio il fatto che manca una corrispondente de nizione
del lobbying “lecito”, col che si determina un’area grigia. In assenza di una regolazione
che permetta di tracciare una precisa linea di con ne tra la legittima attività di in uenza e
quella esercitata indebitamente, il rischio è quello di scambiare lobbisti per faccendieri e
viceversa.
Un tema tradizionale è quello del nanziamento della politica, da intendere sia come
nanziamento dei partiti e dei singoli politici, che come speci co sostegno elettorale ai
candidati a cariche pubbliche. Il rischio avvertito è quello di decisori pubblici asserviti a
fi
fi
ffi
fl
fi
fi
ffi
ffi
fl
fl
ffi
fl
fi
ffi
fi
ffi
ffi
fi
fl
fi
fi
interessi già prima del singolo processo decisionale: “a libro paga”, nelle ipotesi peggiori,
comunque fortemente condizionati da debiti di riconoscenza, in quelle migliori.
Con un decreto legge approvato a ne 2013, il governo Letta ha disposto la
soppressione del nanziamento pubblico dei partiti, che è concretamente cessato dal
2017 ed è stato sostituito da forme di contribuzione volontaria (il 2%), detrazioni scali
per le donazioni ai partiti (che non possono comunque superare i 100.000 €) e altre
misure minori. Le regole sul nanziamento privato non solo hanno posto limiti quantitativi,
ma hanno anche previsto obblighi di trasparenza e meccanismi di controllo.
In sintesi, è fatto obbligo ai partiti di trasmettere, entro tre mesi dalla ricezione, alla
presidenza della Camera dei deputati l’elenco dei soggetti che hanno erogato
nanziamenti o contributi di più di 5000 € nell’anno.
Il fatto ormai assodato da vari scandali e inchieste è che per eludere questi limiti e
obblighi di trasparenza si è assistito al proliferare di fondazioni politiche, collegate a partiti
o più spesso a speci ci personaggi pubblici, quale canale alternativo di nanziamento
delle attività politiche.
L’aspetto principale della norma sta proprio nella de nizione di “associazione, fondazione
e comitato politico”, che si ritiene riferirsi a quell’organizzazione i cui organi direttivi o di
gestione sono composti per almeno un terzo da “politici”. Nel complesso, l’impianto
attuale del sistema di nanziamento della politica richiede probabilmente di essere
ripensato a fondo.
Pur riconoscendo l’importanza di una legge sulle lobby, forse la cosa più importante per
assicurare la “giusta” pressione, sono istituzioni “trasparenti”.
Un importante provvedimento del 2013 (detto “codice della trasparenza”) a erma che la
trasparenza si rivolge a “tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all’attività amministrativa e favorire forme di use di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali”: in questi termini la trasparenza è presupposto
per la partecipazione in condizioni di uguaglianza, fattore abilitante della stessa
cittadinanza.
Esporre le decisioni pubbliche e i processi decisionali delle istituzioni all’e ettiva
conoscenza da parte dei cittadini consente di far retrocedere le ombre che si stagliano da
tempo sulle decisioni pubbliche. Il problema è che mentre ai “piani bassi” del sistema
pubblico i meccanismi di trasparenza si moltiplicano, pur restando migliorabili, i processi
decisionali al più alto livello, quello delle scelte di indirizzo politico legislativo, manifestano
una straordinaria opacità. Visto dal lato del lobbying, e delle sue complicazioni, questo
approccio legislativo diventa una sorta di parco giochi senza controlli. In questo senso,
ripristinare un minimo ordine nelle procedure legislative diventa condizione per ripristinare
il buon funzionamento del sistema politico, nonché la ducia dei cittadini nelle istituzioni e
nella legge come espressione della volontà generale.
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
ff
ff
fi