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IL CANTIERE DELLE LOBBY

Capitolo 1, Lobbying, Mass-media, complessità

Paragrafo 1, Lobby è democrazia..?

Le lobby spaventano. Però gran parte della controversia che circonda l’azione
implementata dalle lobby, il lobbying (lobbismo), è in uenzata dal modo in cui tale pratica
viene percepita: c’è chi (la minoranza) considera il lobbismo qualcosa di buono, altri (la
maggioranza) invece come qualcosa di cattivo. Per Ihlen e Van Ruler il lobbying “non è di
per sé buono o cattivo, ma può essere usato per cause buone o cattive”. Un dibattito che
ha origine circa sessant’anni fa quando Milbrath a ermò che le parole lobbista e lobbying
“hanno signi cati così vari che il loro uso quasi inevitabilmente porta a incomprensioni”.
Inoltre, il concetto di lobbying ha una natura interdisciplinare. È chiaro, quindi, che sui
concetti di lobby e lobbying si sia molto dibattuto, o uscando però troppo spesso il reale
supporto che l’azione dei gruppi di interesse può dare al processo decisionale.
In Italia il dibattito è aperto, e non da oggi: nel 1995 Luigi Graziano scrive Lobbying,
pluralismo, democrazia, nel quale ri ette sul ruolo politico degli interessi organizzati.
Graziano a erma che “le lobbies sono un fatto normale della democrazia”, aggiungendo
che il suo studio ha tentato di ssare la siologia della rappresentanza dei gruppi di
interesse, distinguendola in maniera netta dalla corruzione.”
In giorni più recenti, nel paragrafo iniziale del primo capitolo del volume Teorie e tecniche
del lobbying di Pierluigi Petrillo (2019), intitolato Lobby e democrazia, Si legge: “laddove
c’è democrazia, c’è lobby; nei sistemi democratici l’attività di lobbying non solo appare
legittima ma è essa stessa indice di democraticità del sistema”. La natura democratica di
un paese rende indispensabile la presenza e l’azione di gruppi di interesse. L’azione di
gruppi di interesse esterni ai processi decisionali risulta sempre decisiva per trasferire
informazioni, istanze, richieste (anche se di parte) necessarie a chi decide per fare la
scelta più opportuna, soprattutto nei confronti di coloro cui tale scelta è rivolta.
Di fatto, siamo ancora lontani dal riconoscere il lobbismo come un’attività rilevante del
processo di policy making. Un errore più volte ripetuto nel nostro paese è che ancora
troppo spesso politici e cittadini a rontano il tema della rappresentanza degli interessi
considerandola una patologia e quindi concentrandosi su una visione del lobbying come
un’attività corruttiva, quasi come se fosse un fatto spiacevole e ineliminabile. Quando in
realtà è vero il contrario. La rappresentanza dei gruppi di interesse, infatti, è un elemento
costitutivo del processo decisionale di un paese democratico e pluralista, e non una
minaccia. Vittorio Cino sottolinea proprio la centralità del lobbying nei paesi democratici,
partendo da un presupposto: “non esiste attività di lobby in paesi autoritari, a partito
unico o democrazia limitata.”
Non c’è nessun dubbio, però, che nel senso comune la parola “lobby” è associata alla
parola corruzione, e questo è riconducibile soprattutto al signi cato con cui viene
impiegata da parte dei giornalisti. La maggior parte della gente etichetta le lobby con
grande sospetto per il semplice fatto che si è soliti pensare all’azione di potenti imprese,
mentre di cilmente si fa riferimento all’azione di un gruppo di interesse che agisce in
difesa di un interesse pubblico (un’associazione ambientalista,…).
In Italia è la mancanza di trasparenza del processo decisionale che spinge il più delle
volte a identi care le lobby soltanto con soggetti che hanno nalità oscure e pericolose.
Tuttavia, c’è un’incomprensione di fondo sul signi cato della parola lobby che è in gran
parte riconducibile all’uso che ne viene fatto nel racconto giornalistico. La “regola“ dei
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giornalisti è piuttosto chiara: anziché raccontare le di coltà e le debolezze del sistema
politico a giungere a delle scelte condivise, si preferisce accusare le lobby di intralciare il
processo decisionale, facendole passare come il cancro e il male occulti della
democrazia. Spesso, inoltre, sono gli stessi politici che usano la parola lobby per
sottolineare delle azioni deprecabili. Il risultato è che nel gergo giornalistico quando c’è
bisogno di individuare un capro espiatorio la colpa viene spesso additata all’azione
occulta di una lobby.
Un altro esempio di quanto appena detto è un articolo apparso su “Panorama“ il 17 luglio
2013, dal titolo Non abbiate paura delle lobby (parola di lobbista). All’apparenza sembra
un servizio che mira a mettere in discussione la demonizzazione di una parola e di una
professione; eppure, in questo servizio emerge tutta l’anomalia italiana quando si parla di
lobby: la “parola di lobbista“ è quella di Luigi Bisignani, de nito nel pezzo addirittura un
“lobbista doc”. Bisignani non è un lobbista, ma è un faccendiere e lo confermano le
numerose condanne che ha ricevuto. Nel linguaggio giornalistico faccendiere è sinonimo
di lobbista, di conseguenza non suscita nessuna sorpresa il fatto che venga intervistato
proprio Bisignani per tentare di smussare quella connotazione negativa che avvolge la
parola lobby.
L’anomalia italiana è quindi riconducibile al modo in cui i media raccontano, descrivono e
inquadrano il ruolo delle lobby e la pratica del lobbying con un inevitabile impatto sulla
comprensione generale e sul riconoscimento sociale dell’azione di gruppi di interesse. La
stessa anomalia si rintraccia anche in paesi con democrazie più solide della nostra:
Falasca e Helgesson mostrano come anche in Svezia i quotidiani siano tra quei soggetti
che rallentano il radicamento di una cultura delle lobby, perché colpevoli di di ondere una
rappresentazione e un frame del lobbying come pratica illegittima. Un altro risultato
saliente che emerge dalla ricerca di questi due autori, riscontrabile anche nel contesto
italiano, è che nella rappresentazione dei quotidiani si enfatizza eccessivamente un
disegno del lobbying quasi esclusivamente incentrato sul rapporto diretto tra lobbisti e
politici; inoltre, questo incontro è notiziabile quando viene dipinto come un momento in
cui prevalgono comportamenti riprovevoli e oscuri.
L’attività di lobbying è di fatto molto più articolata di come viene descritta nei media;
prevede sempre più azioni nalizzate alla costruzione di un’opinione pubblica favorevole,
alla realizzazione di alleanze, alla necessità di sviluppare le capacità discorsive
indispensabili a far conoscere le proprie istanze e richieste. Il lobbismo è tutto l’insieme di
iniziative utile ai gruppi di interesse per conquistare quella visibilità necessaria per imporsi
all’attenzione del dibattito pubblico e per poi penetrare nelle discussioni e nelle decisioni
delle istituzioni politiche. Inoltre, Nownes arriva ad a ermare che “il lobbying è un
fenomeno complesso ed eterogeneo”, dal momento che si svolge a di erenti livelli di
governo e del processo decisionale, utilizzando tecniche e strategie diverse. E soprattutto
un’ampia varietà di organizzazioni vi ricorrono per promuovere una ancora più vasta
molteplicità di questioni.
L’espressione “laddove c’è democrazia, c’è lobby“ sta a signi care che le lobby, o le
rappresentanze degli interessi, supportano la democrazia. Pritoni dice che oggi più è
ampia e di erenziata la platea di gruppi in grado di incidere sul processo decisionale,
meglio è per la democrazia. La possibilità dei gruppi di accedere al processo decisionale
dipende molto dalle risorse relazionali, organizzative e simboliche, dalla dotazione di
expertises a disposizione per la quotidiana attività di lobbying.
Questo perché, come spiegato da Sartori, la politica è in primo luogo “rapporti di potere“,
nel senso che diversi interessi competono o si alleano in modo da poter in uenzare chi
decide. In parte, è come se stessimo sostenendo che il buon funzionamento di un
processo decisionale è legato al soddisfacimento di quel requisito che Sunstein, nel libro
#Republic, ha de nito “appello alla Serendipity“, considerato un requisito indispensabile
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per garantire la democrazia e de nito come “gli incontri non piani cati e non previsti che
sono centrali per la democrazia stessa“. La proposta di Mazzoni è quella di prendere a
prestito l’appello alla Serendipity per far meglio comprendere il ruolo delle lobby. Le lobby,
infatti, nel loro tentativo di accedere al processo decisionale, si trovano a incontrare,
spesso in situazioni non piani cate, e a mediare punti di vista e proposte con altri gruppi
ed è dalla capacità di saper gestire tali incontri che si determina il livello di salienza e di
in uenza di una lobby. I gruppi di interesse che sanno meglio a rontare le novità, meglio
gestire i rapporti con l’ambiente, meglio cogliere la rilevanza di certi temi sono anche
quelli che hanno più probabilità di accedere ai policymakers, in quanto questi ultimi li
ritengono portatori di un’istanza ampiamente condivisa dai cittadini.

Paragrafo 1.2, Il contesto: il punto di partenza per capire il lobbying

Per arginare questa ambiguità del termine “lobbying” è necessario trattare quei concetti in
grado di mostrarne la rilevanza. Il primo è quello di “contesto”: nel volume Il mestiere del
potere. Dal taccuino di un lobbista Cattaneo ha rilevato la necessità di analizzare e
comprendere il lobbying partendo dall’ambiente (contesto) in cui tale pratica viene
implementata. L’autore è come se stesse indicando l’esigenza di capire il contesto, e per
sottolineare una simile esigenza richiama una storiella (del pesce anziano che chiede ai
due pesciolini “com’è l’acqua?” - “Che cavolo è l’acqua?”) raccontata da David Foster
Wallace. Questa storia rivela come non si possa avere successo nella vita senza un
continuo sforzo di interpretazione del contesto in cui si lavora. Se si vuole andare nella
direzione opposta, essere degli innovatori, è fondamentale interrogarsi sull’ambiente che
ci circonda, partendo dalla conoscenza delle realtà più ovvie, in quanto sono le più di cili
da comprendere. Chi vuole agire sul processo decisionale deve avere la capacità di
conoscere e di leggere l’ambiente sociale, politico e istituzionale per provare a
trasformarlo a favore di un interesse speci co.
Parlare di lobbying richiede un’analisi che prenda in considerazione vari aspetti, tra cui
non si può trascurare l’evoluzione che ha riguardato l’ordine democratico. Dai
cambiamenti conosciuti dal regime democratico si può meglio mettere a fuoco come e
perché il lobbying oggi abbia avuto spazi e attenzioni no a pochi anni fa inimmaginabili.
Nel 19esimo secolo l’Europa ha conosciuto la democrazia dei parlamenti. Nel 20esimo
secolo, con la ne dei totalitarismi, si assiste all’ascesa della democrazia dei partiti, dove
la rappresentanza è espressa dai partiti, dotati di identità strutturate, di un ceto di
professionisti e ben organizzati sul territorio. I cittadini votano per un partito prima che per
una persona in quanto sono legati da un forte senso di appartenenza, conseguenza di
un’identità condivisa, ra orzata mediante l’organizzazione e la partecipazione sociale. La
ne del secolo scorso e l’inizio di questo 21esimo secolo hanno visto emergere la
“democrazia del pubblico” caratterizzata dal declino delle ideologie e conseguentemente
delle culture politiche tradizionali, con l’accentuarsi di un processo di personalizzazione e
mediatizzazione. I cittadini votano sempre più per una persona e sempre meno per un
partito. La democrazia del pubblico è, secondo Manin, “il governo dell’esperto di media”.
In questo contesto cambia anche la natura dell’attività del governo, che necessita di un
potere sempre più discrezionale, giusti cato dal fatto che gli esecutivi sono chiamati a
dovere a rontare degli imprevisti, cui non si riesce sempre a far fronte con leggi
promulgate in anticipo. Gli imprevisti spingono chi abbia intenzione di in uenzare la scelta
del decisore a domandarsi quali fattori, quali cambiamenti stanno determinando
mutamenti nel processo decisionale. Giovanni Diamanti ne I segreti dell’urna, pertinente
alla nostra ri essione in quanto dedica alcune pagine all’importanza dello scenario,
propone un metodo suddiviso in tre fasi:
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1. capire: è la prima fase incentrata sulla conoscenza dettagliata dello scenario. Si tratta
di un’analisi precisa degli attori in gioco, delle tendenze dell’opinione pubblica, del campo
in cui si opera, con una particolare attenzione alle tradizioni politiche. I lobbisti devono
studiare il sistema mediale, gli stakeholders, i gruppi di interesse avversari e quelli vicini,
per comprendere cosa avviene nell’ambiente in cui è chiamata ad agire la lobby.
2. decidere: è la fase delle decisioni strategiche e della redazione di un piano di azione.
3. agire: è la fase dell’azione per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Nel campo delle lobby
questo signi ca intervenire sulle scelte del decisore con azioni dirette e indirette.

La conoscenza e lo studio del contesto per un’azione di lobbying è un momento centrale


per i mutamenti che hanno riguardato il processo decisionale, quindi è bene capire
perché questo processo è legato a decisioni contingenti. Abbiamo risposte da Sorrentino
e Mancini. Sorrentino illustra il passaggio dalla sfera pubblica strati cata alla sfera
pubblica densa. La sfera pubblica ha una dimensione relazionale dove punti di vista
diversi si incrociano al punto che gli individui possono trasformare, rimodellare, trarre
conseguenze diverse, prendere spunto per formare nuove idee. Se ne può trarre che la
sfera pubblica è un processo comunicativo dinamico in cui gli interlocutori interagiscono
tra di loro. Sorrentino inizialmente parla della sfera pubblica strati cata, contraddistinta
dall’azione di mediazione svolta da un ceto intellettuale vasto (maestri, parroci, militanti di
partito, professionisti,…), chiamato a tradurre informazioni e conoscenze nei mondi di vita
quotidiana, tramite relazioni dirette e conversazioni giornaliere. L’opinione pubblica che si
forma è caratterizzata dal fatto che ogni individuo esprime le proprie appartenenze sociali
e culturali attraverso reti di relazioni corte, dirette e gerarchiche, in cui c’è un forte
controllo sociale grazie alla funzione socializzatrice svolta in particolare dagli attori
tradizionali della sfera politica (partiti e sindacati).
Il passaggio alla sfera densa è dovuto alla fusione dei circuiti informativi favorita dai media
elettronici che costringe ogni soggetto sociale a essere costantemente sulla scena
pubblica elaborando strategie comunicative che consentano la costruzione di un’identità
riconoscibile nel dibattito pubblico. I mass media permettono a ciascun individuo di
conoscere nuovi mondi sociali, di allargare lo spazio pubblico frequentato, di avere a
disposizione un più ricco e articolato usso di informazioni, di gestire una più ampia rete
di relazioni sociali. La pervasiva di usione di internet e delle piattaforme digitali ha fornito
a tutti gli attori sociali e politici intenzionati a far sentire la propria voce nel dibattito
pubblico una risorsa di notevole valore: sono stati resi possibili processi di
disintermediazione che stanno permettendo di bypassare la mediazione e il ltro
giornalistico.
Di conseguenza, la relazione tra media e politica è oggi cambiata sotto la spinta delle
tecnologie digitali: si aprono nuove occasioni e possibilità che agevolano la nascita di
organizzazioni collettive in grado di in uenzare l’azione dei media e l’azione che porta ad
una scelta politica. Nel campo dei media i cittadini possono da un lato agire sul processo
di newsmaking grazie agli strumenti digitali, discutendo, di ondendo, criticando le notizie
prodotte perlopiù dai media tradizionali, i quali sono costretti ad adeguare il contenuto
delle notizie a queste “voci”, reazioni e comportamenti che provengono dal basso; e,
dall’altro, i cittadini possono essere coinvolti collettivamente nella produzione di canali di
informazione che si oppongono alla logica e al usso di notizie prodotte dai media
mainstream, creando forme di comunicazione alternative. Inoltre, lo sviluppo di pratiche
come il citizen journalism è oggi sempre più importante. Gli e etti descritti si ri ettono sui
temi posti dai media all’attenzione del dibattito pubblico (agenda setting) e sulle loro
chiavi interpretative prevalenti (frames); il risultato è che nell’ambiente mediale si creano
delle forme di lotta tra attori delle élite tradizionali e quelli non appartenenti a nessuna
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élite per la de nizione delle issues. Stiamo assistendo ad una forma di lobbying che è la
grassroots participation.
Si delinea quindi una sfera pubblica formata da numerose e diversi cate arene pubbliche
(Habermas). La complessità è di conseguenza la principale caratteristica della società in
cui viviamo dove si realizza una sfera pubblica aperta, perché la densità e la popolarità
permettono continue manifestazioni di nuove forme simboliche e la nascita di nuove
istanze grazie alla circolazione incessante di informazioni. Sul processo decisionale
premono nuove issues sostenute da organizzazioni che rendono manifeste preferenze che
maturano nella società civile ed esprimono il loro assenso o dissenso alle scelte
pubbliche. Le organizzazioni esterne al sistema politico interagiscono per assicurarsi
quella visibilità (publicity) indispensabile per sostenere un’istanza in una sfera pubblica
densa in cui si intensi ca la natura negoziale dei processi comunicativi.
La contingenza di una decisione pubblica è legata al fatto che costantemente cambiano
gli interlocutori, i rappresentanti di interessi e le modalità di intervento.
La contingenza della decisone pubblica è anche legata, richiamando Mancini, alla crisi di
rappresentanza di quei soggetti (partiti) che per la maggior parte del secolo scorso hanno
svolto la funzione di raccogliere e trasmettere la domanda politica. Con il processo di
secolarizzazione si assiste alla ne delle grandi narrazioni, venendo meno quelle ideologie
che tenevano insieme milioni di persone intorno a un’idea. Il paradosso dei tempi attuali è
che mentre si in ttisce il tessuto organizzativo della vita pubblica che ra orza la società
densa, si indebolisce proprio l’organizzazione pubblica espressa dai partiti.
L’allentamento della loro presa sulla società crea nuovi spazi per l’azione di
organizzazioni esterne alla sfera politica. Due sono le ragioni: la prima è il processo di
secolarizzazione che ha determinato anche la scomparsa dei cleavages sociali (fratture
sociali) che avevano creato con itti tra gruppi sociali, religiosi e culturali determinando
una frammentazione degli interessi sociali. La seconda ragione è che oggi viviamo nell’era
dell’abbondanza informativa nella quale il partito viene soppiantato quasi del tutto e
inserito in un’arena politica in cui il ruolo principale viene svolto dalle organizzazioni post-
burocratiche.
Le nuove formazioni, a parere di Mancini, sono, rispetto alle precedenti, più essibili, si
adattano facilmente e con maggiore velocità a diversi contesti e a diverse contingenze
temporali. Il risultato è che si assiste a un incremento della complessità sociale, con
forme nuove di negoziazione, con nuovi attori che si presentano in forme diverse e più
volatili.

Paragrafo 1.3, La complessità decisionale

Un elemento che contraddistingue la società complessa è che lo spartiacque tradizionale


tra pubblico e privato oggi è molto meno marcato. Ci troviamo in una situazione nella
quale alcune organizzazioni che provengono dal basso, di natura privata, agiscono in
modo da rendere pubbliche le problematiche che nascono nella società civile,
acquisendo delle responsabilità collettive. A tal proposito Davis parla della necessità di
ricorrere alla pratica delle relazioni pubbliche (intesa come attività organizzata della
comunicazione) da parte delle organizzazioni che agiscono a livello di società civile (non-
o cial organizations), come le lobby, i comitati, le associazioni, con il desiderio di
consolidare la loro posizione in uno spazio pubblico (mediatizzato). Attraverso una
piani cazione della propria comunicazione, anche un semplice comitato può sperare di
far emergere le proprie richieste nel dibattito pubblico e riuscire a richiamare l’attenzione
del decisore.
Diego Ceccobelli, nella rivista “Comunicazione politica”, analizza la pratica del grassroots
(lobbying indiretto) in alcuni paesi del sud Europa. La sintesi della ricerca è ben espressa
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nel titolo: “Dobbiamo essere ascoltati da quante più persone possibile”. Oggi per ogni
organizzazione che mira a muoversi pubblicamente, che desidera agire sul decisore, è
indispensabile essere ascoltati, visibili e riconosciuti da un vasto pubblico, e per farlo non
è su ciente l’organizzazione di un evento o poter contare su una buona copertura da
parte dei media, ma è necessario agire ricorrendo a diverse forme di comunicazione
(devices digitali/elettronici, interazioni faccia a faccia) sia in tempi ordinari sia quando si
devono a rontare situazioni straordinarie. Le organizzazioni riescono con più facilità ad
attuare un’azione di grassroots quando ra orzano la loro visibilità attraverso la
combinazione di media diversi (media hibridity) nel loro agire quotidiano. Un’azione
comunicativa quotidiana agevola poi la gestione di situazioni straordinarie.
All’interno di una società complessa e altamente specializzata, quando lo Stato decide,
non decide da solo; i soggetti sociali, in varie forme - attraverso la rappresentanza, la
consulenza, l’expertise, le azioni di comunicazione - prendono parte al processo
decisionale e si può dire che essi decidano insieme ai rappresentanti dell’amministrazione
pubblica.
Uno degli aspetti principale del lobbying: intervenire, in uenzare l’azione del decisore
pubblico è strettamente legato alla conoscenza che si ha di un processo decisionale che
nel contesto attuale appare in costante evoluzione.

I caratteri tipici del processo decisionale vengono individuati da Bruno Dente, che
de nisce le 3 caratteristiche dei processi che portano a prendere una decisone pubblica:
1) esplosione della complessità decisionale, 2) l’aumento dell’incertezza sugli esiti delle
decisioni assunte, 3) la competizione tra gruppi sociali per raggiungere visibilità nel
dibattito pubblico.
La prima è l’esplosione della complessità decisionale. Dante ritrova una grande
complessità anche nell’azione che porta alla scelta della soluzione di un problema
collettivo. Oggi diventa ancora più di cile e necessario rispondere al noto quesito di
Dahl, “chi governa?”. Diviene essenziale chiedersi chi ha e ettiva capacità di in uenzare
le scelte chiare, le politiche pubbliche. La conclusione di Dahl è il passaggio dalla
dominazione di un’oligarchia a un sistema aperto e pluralista, proponendo il modello della
poliarchia, all’interno del quale viene riconosciuta la capacità di gruppi esterni al sistema
politico di in uenzare le scelte delle istituzioni pubbliche.
Nella fase in cui viviamo si assiste a una dilatazione della rete decisionale sia sull’asse
verticale (dal livello europeo al locale) sia su quello orizzontale (rapporti tra pubblico e
privato).
La dilatazione verticale ha spinto verso un governo multilivello caratterizzato dal fatto che
agli esiti nali di una decisione partecipano istituzioni appartenenti a livelli territoriali
di erenti, con l’inevitabile risultato che è sempre più di cile identi care il decisore.
L’allargamento dell’asse orizzontale mostra come sia sotto gli occhi di tutti che nuovi tipi
di attori entrano nei processi decisionali. Non solo più i gruppi economici giocano un
ruolo importante nella de nizione della scelta pubblica, ma entrano a far parte della
partita anche i gruppi de niti per una causa. In questi ultimi rientrano le organizzazioni
post- burocratiche (organizzazioni volontarie, aperte a tutti i cittadini, i cui membri
condividono un interesse comune), a volte anche gruppi di interesse pubblico
(organizzazione per tutela ambiente, difesa diritti umani); tra questi gruppi vanno segnalati
anche i NIMBY, i quali attraverso forme di protesta clamorose chiedono, per esempio, che
la costruzione di un impianto di incenerimento ri uti venga realizzato “ovunque tranne
qui”. C’è stato il cambiamento del sistema dei valori politici nella direzione dei “valori
post-materiali”, con l’a ermazione di un’etica civica non convenzionale imperniata
sull’autorealizzazione, sulla qualità delle relazioni interpersonali, sulla qualità della vita
sociale, su ampi spazi di partecipazione dal basso, sulla libertà di espressione e sulla
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difesa dell’ambiente. Si tratta di uno spostamento, nella cultura politica, dell’attenzione
verso gli interessi all’attenzione verso i diritti, il che implica la ride nizione delle forme di
solidarietà e civic engagement.

Paragrafo 1.4, L’incertezza e la con ittualità del processo decisionale

La seconda caratteristica del processo decisionale nell’era contemporanea individuata


da Dente riguarda l’aumento di incertezza sugli esiti delle decisioni assunte. Non c’è più
certezza da parte di chi prende le decisioni di essere in grado di risolvere i problemi e di
far fronte alle richieste che provengono dai cittadini. I fattori che hanno prodotto questa
incertezza sono: 1) la complessità decisionale già accennata; 2) l’accelerazione delle
trasformazioni dovute ai processi di globalizzazione che producono situazioni di cili non
solo da risolvere ma anche da prevedere; 3) il progresso scienti co che ha aumentato la
capacità di interpretazione di nuovi fenomeni senza che sia aumentata anche la capacità
di a rontarli; 4) in ne, l’ammissione dell’esistenza di nuovi problemi intrattabili, cioè di cui
non si ha la minima idea di come risolverli.
Questa ri essione di Dente merita di essere ricondotta al processo di
deistituzionalizzazione che porta al deterioramento delle istituzioni sociali e statuali
(pubbliche). Si assiste a una di deistituzionalizzazione della vita sociale con la
conseguente crisi degli assetti societari che fa sì che l’individuo contemporaneo si trovi a
vivere in un ambiente nel quale valori comuni di riferimento stabilizzati in strutture
istituzionali appaiono molto più confusi, mentre gli apparati normativi non riescono a
essere su cientemente restrittivi e a o rire schemi protettivi su cientemente forti. Ciò
porta a una accentuazione dei gradi di autodeterminazione individuale
(individualizzazione) che determina uno stato di incertezza - perché l’individuo è più solo,
deve a rontare nuove problematiche - che inevitabilmente si ripercuote anche sull’attività
dei processi decisionali.
La terza e ultima caratteristica distintiva del processo decisionale riguarda i con itti, la
competizione tra gruppi sociali nel loro tentativo di raggiungere visibilità nel dibattito
pubblico no a giungere all’attenzione del decisori.
La sociologia può aiutarci a comprendere meglio quanto a ermato. Luhmann propone
l’idea di una sfera pubblica in cui i temi organizzano e rendono possibile la discussione
pubblica, ossia sono strutture di riduzione della complessità che delimitano le possibilità
di discussione. All’opinione pubblica, grazie all’azione dei mass-media, spetta dunque il
compito di destare l’attenzione su alcuni problemi di rilevanza pubblica sui quali il sistema
della politica deve esplicitare la propria responsabilità decisionale.
Habermas, nella sua teoria deliberativa, de nisce la sfera pubblica una rete per
comunicare informazioni, prese di posizioni, opinioni; è una “cassa di risonanza“. La
società civile costituisce l’infrastruttura di tale sfera pubblica. Habermas parla anche del
ruolo delle lobby all’interno dei processi comunicativi di un sistema politico ordinati
sull’asse centro/periferia: è nella periferia, infatti, che agiscono lobby, gruppi professionali
e culturali, che forniscono “espressione linguistica ai problemi sociali, avanzano
rivendicazioni politiche, articolano interessi o bisogni, in uenzando in tal modo la
formulazione dei progetti legislativi e degli indirizzi politici”.
Nel dibattito pubblico la competizione è tra attori che de niscono la propria azione in
relazione alla propria identità. L’identità è una costruzione composta di quegli aspetti,
valori su cui un attore decide di investire per essere identi cato, che vengono messi alla
prova nel momento in cui agisce in uno spazio pubblico, cercando di imporli agli altri
attori sociali. In questo senso, l’identità è ciò che de nisce un’organizzazione: ogni
organizzazione deve innanzitutto comunicare la propria identità ed è compito di un
esperto in comunicazione individuare le modalità comunicative che siano facilmente
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traducibili nelle logiche dei media. L’obiettivo nale è proiettare verso l’esterno una
determinata identità di sé stessi e fare in modo che venga recepita. L’identità è il frutto di
un processo di costruzione nalizzato a realizzare un “controllo espressivo” di ciò che si
vuole comunicare all’esterno, perché solo in questo modo si può creare e forgiare la sua
public perceptions of legitimacy. Qualsiasi organizzazione non si limita solo a far
conoscere i risultati conseguiti, ma punta anche a valorizzare l’identità e a in uenzare il
comportamento e le opinioni dei pubblici esterni per rendere e cace l’attuazione delle
sue politiche e la sua capacità di in uenza sulle scelte dei decisori. Alberto Alemanno, a
tal proposito, disegna il brand Cycle. Da questo modello emerge che un’identità e
un’immagine ben allineate posizionano il gruppo in modo da poter garantire una coesione
interna e la costruzione di una ducia con gli attori esterni, che a loro volta ra orzano la
reputazione, l’ingrediente principale dell’identità.
Il lobbying è ormai inteso come “insieme di tattiche e strategie con le quali i
rappresentanti dei gruppi di interesse - lobbisti sia interni che esterni - cercano di
in uenzare a bene cio dei gruppi rappresentati la formazione, attuazione ed
implementazione delle politiche pubbliche“. Strategie e tattiche che il più delle volte si
traducono in un trasferimento dal gruppo di interesse ai policymakers (lobbying diretto) di
informazioni rilevanti che riguardano un certo tema soprattutto nel momento in cui tale
tema è entrato nell’agenda pubblica. L’approccio teorico al quale facciamo riferimento è
quello dell’agenda building, all’interno del quale può rientrare il lobbying in quanto tale
teoria pone particolare attenzione alla capacità di attori diversi da quelli abituali (i politici e
i partiti) di inserirsi, grazie soprattutto alle loro abilità di costruire relazioni, all’interno di
quel usso di comunicazione che si riproduce a livello di sfera pubblica. Rolando Marini
chiarisce che tale teoria riguarda il modo in cui la società seleziona alcuni temi per
consegnarli alle istituzioni politiche, a nché prendano decisioni in merito. I temi però
sono in competizione tra loro e non tutti ottengono l’accesso all’agenda pubblica: il
successo di un tema è legato alle abilità delle organizzazioni che lo sostengono di
misurarsi con le barriere simboliche poste dai media. Tutto questo rientra nelle strategie
del lobbying indiretto. Inoltre, tra le strategie di lobbismo va ricordata anche la capacità
comunicativa del lobbista, la quale non si limita al saper imporre un tema al centro del
dibattito pubblico, ma comprende pure le abilità nel de nirne la chiave di lettura (frame).
La costruzione del frame di un tema è un processo di costruzione discorsiva che mira a
“inquadrare“ il tema, scegliendo la prospettiva o le prospettive da cui guardare e
interpretare gli eventi connessi al tema stesso. Si parla di strategic and game frame,
perché si tratta di una competizione in cui diverse organizzazioni tentano di far prevalere
la propria “idea organizzante“ del tema. Chi la spunta, chi vince il gioco, attiva l’e etto
framing, ossia trasferisce la prevalente interpretazione sul tema al pubblico. Tutto ciò non
è altro che il primo passo verso quell’azione nalizzata a in uenzare le scelte dei decisori,
che tutti riconoscono come lobbying.

Paragrafo 1.5, Dal digitale alla governance: come cambia il processo decisionale

L’uso del web ha permesso nuove forme di partecipazione dal basso, grazie al fatto che
inizialmente ha facilitato la di usione di informazioni e in un secondo momento ha
alimentato il desiderio di partecipazione e soprattutto di intervento sulle scelte e ettuate a
livello governativo.
La tecnologia ha cambiato radicalmente sia il numero che la qualità delle connessioni tra
cittadini e pubbliche amministrazioni. Nuove iniziative e progetti di utilizzo delle tecnologie
digitali si a acciano per migliorare la qualità del processo decisionale: una di queste
iniziative è CrowdLaw, creata con l’obiettivo di promuovere la progettazione di istituzioni
di governo più aperte, e caci e collegate in rete per mezzo dell’utilizzo di dati, tecnologie
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e crowdsourcing. Le grandi imprese economiche (Amazon e Google) fanno ricorso alle
tecnologie digitali per raccogliere, elaborare e poi anche rivendere grandi quantità di
informazioni e dati sui cittadini; stessa capacità di gestione e di raccolta manca ancora
alle istituzioni pubbliche: da qui la necessità di ra orzare il processo decisionale
favorendo la partecipazione dei cittadini per mezzo delle piattaforme digitali. Da questi
presupposti nasce l’iniziativa di CrowdLaw, mirata a censire e a far conoscere quelle
pratiche che ra orzano il processo decisionale dei governi attraverso azioni dal basso
supportate dal digitale.
Gli elementi che caratterizzano tali prassi sembrano essere in primo luogo l’utilizzo di
tecnologie digitali da parte dei cittadini, ma anche da parte delle pubbliche
amministrazioni di qualsiasi livello. In secondo luogo, si ricerca una partecipazione su
larga scala degli attori che si muovono perlopiù a livello di società civile, i quali non si
limitano a far conoscere la loro opinione al decisore, ma o rono contributi e soluzioni utili
per permettere di giungere a scelte migliori. Il risultato è quello di favorire l’intelligenza
collettiva, ossia l’idea secondo cui un gruppo di persone su cientemente vario prenda
decisioni migliori rispetto a un singolo soggetto informato.
Nel modello partecipativo Policy making 3.0, ideato da Accordino, le parti interessate e i
decisori politici formano una rete sociale per coprogettare politiche sulla base di due
fattori ben distinti: 1) il primo fattore deriva dalla “saggezza collettiva“: è la dimensione
razionale in cui decisori e stakeholder de niscono le proprie azioni in base alle reali
esigenze (raccolta di dati, numeri: “fattori misurabili”); 2) il secondo fattore è riconducibile
alle aspirazioni collettive, raccolte per mezzo dei social network, riconducibili alla
dimensione più emotiva e fantasiosa delle parti coinvolte (“fattori non misurabili”). È
l’aspetto negoziale, favorito dalle tecnologie digitali, che porta a de nire politiche
congiuntamente sviluppate, derivanti dalla raccolta di dati, numeri (fattori misurabili), ma
anche di opinioni, interessi, valori (fattori non misurabili) di cittadini e organizzazioni di
vario tipo purché interessate alla questione su cui bisogna decidere.
Gianluca Sgueo va a individuare i tre vantaggi provenienti dall’impiego delle tecnologie
digitali nel processo decisionale. Il primo bene cio è un ra orzamento dell’e cienza delle
pubbliche amministrazioni: le istituzioni pubbliche hanno scarsa capacità di raccogliere le
numerose e diverse istanze dei cittadini, e i media digitali possono aiutarli a colmare le
lacune esistenti. Il secondo bene cio è la maggiore e cacia delle politiche pubbliche. Il
terzo vantaggio apportato dalle tecnologie digitali è quello di realizzare un processo
decisionale più trasparente, accessibile e partecipativo.
In de nitiva, la tecnologia è il mezzo attraverso il quale le pubbliche amministrazioni e gli
attori sociali possono impegnarsi in un processo reciprocamente vantaggioso di
cocreazione di politiche pubbliche.
La partecipazione all’elaborazione e all’attuazione delle politiche pubbliche di un numero
via via crescente di soggetti pubblici e privati - favorita dalle tecnologie digitali - è stata
una degli elementi centrali del passaggio dal modello del government a quello della
governance, che viene intesa come un processo di elaborazione, di determinazione, di
realizzazione e di implementazione di azioni di policies. Risulta essere in parte
accantonata la logica gerarchica che in generale fa dello Stato l’attore regolatore o
decisore sovraordinato a tutti gli altri. L’aspetto che si vuole sottolineare è la rilevanza che
in questa dinamica è assegnata al coinvolgimento della società civile. L’idea di
governance nasce, infatti, dalla convinzione che gli assetti di governo di una società
complessa come quella attuale possono derivare da un processo Bottom-up più che da
una logica top-down.
In questo modo, la governance cerca di trasformare in opportunità quelli che a prima vista
si de niscono come problemi; le di coltà delle istituzioni statali diventa l’occasione per
l’evoluzione della democrazia, con la moltiplicazione dei luoghi di governo e l’introduzione
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di una essibilità che rende meno lontane le istituzioni dalla dinamica dei processi sociali.
Ne è una prova la gami cation (ludocroazia), ossia il ricorso all’uso di strategie ludiche
(un sistema a premi, incentivi per gli utenti, etc..) da parte di istituzioni pubbliche al ne di
rendere alcuni servizi pubblici più godibili e usufruibili attraverso un maggior
coinvolgimento dei cittadini. La gami cation si basa sul concetto di “invitare” i cittadini a
collaborare all’erogazione di un servizio prevedendo l’inclusione di situazioni “divertenti”
simili a quelli di un gioco. Questo approccio incentrato sull’uso di strategie ludiche
consente una migliore conoscenza delle questioni prioritarie per i cittadini, le quali, in
questo modo, entrano nell’agenda del decisore (e etto agenda setting); nella de nizione
della soluzione di un problema, la gami cation concede al decisore la possibilità di poter
contare sul contributo dato da quei cittadini e quelle organizzazioni che hanno speci che
competenze (e etto expertise) sulla questione trattata; in ne, la gami cation dà
l’opportunità al cittadino di valutare (e etto accountability) la scelta presa dal decisore.
Sgueo indica i principali fattori che hanno prodotto un crescente interesse verso la
gami cation: il principale è ovviamente la crescente di usione delle tecnologie digitali nel
settore pubblico; il secondo è l’espandersi della s ducia verso la politica e il processo
decisionale e i conseguenti tentativi delle istituzioni pubbliche di riavvicinare i cittadini e
gli altri attori sociali alla vita pubblica; il terzo è legato ai vincoli nanziari e alla
complessità normativa che spinge le pubbliche amministrazioni a rivolgersi a soggetti
esterni e privati. Riepilogando, la gami cation ha la capacità di migliorare la
consapevolezza e l’impegno civico; gli attori della società civile, coinvolti attraverso
giochi, sono maggiormente motivati a dare “indizi sociali” e a far sentire la propria voce
contribuendo in maniera attiva al miglioramento del processo decisionale.

Sgueo sottolinea le potenzialità dirompenti delle tecnologie sul lobbying. Da un lato,


l’innovazione tecnologica assicura ai rappresentanti di interessi un drastico abbattimento
dei tempi e costi di preparazione di strategie di pressione sui decisori. Dall’altro, la
tecnologia garantisce maggiori probabilità di successo all’azione di pressione dei gruppi
di interesse, dato che sempli ca e migliora la possibilità di individuare chi decide cosa, in
quale fase del processo intervenire e con quale esito, “adattando di conseguenza la
propria strategia di in uenza”.
L’innovazione tecnologica sembrerebbe migliorare un concetto centrale dei sistemi
democratici, ovvero quello di rappresentanza, in quanto l’ampia platea dei gruppi di
interesse pare avere uguali condizioni di accesso alle risorse salienti per intervenire nel
processo decisionale. Tuttavia, Sgueo evidenzia anche gli aspetti controversi generati
dall’impatto dell’innovazione tecnologica sui processi decisionali. Il primo dubbio che
l’autore si pone è quello di capire se le piattaforme digitali siano realmente inclusive: se
diamo uno sguardo ai dati, infatti, emerge subito che il numero di aderenti alle campagne
promosse attraverso le tecnologie digitali è modesto, mettendo in discussione quella
rappresentanza che sembrava dover crescere grazie al web. Anche quando si mobilita un
ampio numero di individui è più probabile arrivare a orientare il dibattito pubblico,
indicando dei temi salienti, piuttosto che il processo decisionale.
La conclusione cui giunge Sgueo è che le tecnologie digitali possono soprattutto favorire
un’azione di agenda setting, dato che a prevalere non sono i “legami forti”, ma è piuttosto
la capacità di incrementare esponenzialmente il numero di “legami deboli”, generati da
interesse, adesione e condivisione (anche se volatili e temporanee) in segmenti di
opinione pubblica, a facilitare il buon esito delle strategie di in uenza.
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Capitolo 2, Il lobbying “erudito”

Paragrafo 2.1, Lobbying della comunicazione

La rappresentazione del lobbying come “un’arte di persuasione politica” pare essere


quella tra le più convincenti, dato che il lobbying comprende molteplici e diverse tattiche
e strategie. Il punto saliente dell’attività di lobbying, presente in tutte le sue fasi, è la
comunicazione. Ciò che caratterizza il lobbying è il dialogo con gli altri gruppi, con gli
attori sociali e politici, l’interazione con i professionisti dell’informazione, la mobilitazione
dei cittadini attraverso campagne e, soprattutto, il trasferimento di informazioni verso il
decisore. In sintesi, il lobbying, da quando viviamo nell’era della politica post-moderna, in
cui le istituzioni tradizionali (partiti, sindacati,…) hanno perso gran parte della capacità di
rappresentanza, va interpretato non solo come quel processo con cui si cerca di
in uenzare chi decide, ma anche (innanzitutto) come un vero e proprio processo di
comunicazione.
The Washington Lobbyists, scritto nel 1963 da Lester Milbrath, è riconosciuto come uno
dei capisaldi per tutti gli studi sul lobbying. Milbrath, Illustrando il contesto americano,
indica gli aspetti salienti dell’attività di lobbying: “In primo luogo, il lobbying riguarda il
processo decisionale; in secondo luogo è incentrato sul desiderio di in uenzare le
decisioni governative; in terzo luogo implica la presenza di un intermediario o di un
rappresentante per garantire un collegamento di comunicazione tra i cittadini e i decisori.
In quarto luogo, è comunicazione.” L’idea proposta da Milbrath è basata sulla convinzione
che i decisori pubblici hanno necessità, per giungere a una scelta, di informazioni e
documenti che possono arrivare soltanto dall’esterno. Da qui nasce l’intuizione di un
lobbying inteso come un’azione comunicativa attraverso la quale si trasferiscono dati,
rapporti, indagini da un’organizzazione ai policymakers.
Il lobbying è un’arte che “richiede essibilità, intuizione, capacità di attendere o di
accelerare“. E, soprattutto, va inteso come un’azione benigna, al servizio dei bisogni del
policymaker. Fare lobbying, di conseguenza, prevede delle precise azioni: 1. costruire
relazioni. È fondamentale poter contare su una tta rete di contatti per far circolare o per
raccogliere informazioni; 2. fornire informazioni; 3. conoscere e studiare il processo
decisionale. Il gruppo di interessi (o il lobbista) monitora costantemente il processo
decisionale per individuare quando, come e con quali tecniche e strategie intervenire. Il
monitoraggio è legato alla conoscenza di fonti interne al processo decisionale da cui
trarre i dettagli indispensabili per agire nel modo più strategico e per comprendere quali
informazioni fornire.
Tre fasi durante la progettazione di azioni di lobbying: 1 Fase della mappatura; 2 Fase
nominale; 3 Fase della pressione.
Per quanto riguarda il contenuto dell’informazione fornita dal lobbista, Nownes ne
individua tre tipi: 1) political information, nalizzate a modi care una scelta del decisore
politico; 2) career-relevant information, necessarie per supportare l’azione scelta dal
decisore e utile a quest’ultimo per mantenere e/o avanzare la sua posizione; 3) policy-
analytic information, rivolte a evidenziare al decisore le potenziali conseguenze
economiche, sociali e politiche della possibile scelta elaborata.

Paragrafo 2.2, Il lobbying racconta storie

Il successo di un gruppo di interesse è legato anche alla sua capacità di a ermarsi nel
dibattito pubblico e di intervenire, poi, nel processo decisionale grazie all’identità
costruita. Un’identità che è sempre più legata alle strategie di immagine adottate e
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indispensabili per raggiungere un’empatia e una riduzione delle distanze con gli attori
esterni. Le principali strategie in questione, che determinano come un’organizzazione
venga percepita dai suoi pubblici di riferimento, secondo Gili e Panarari, sono:
1)l’umanizzazione: la strategia attraverso la quale un’organizzazione (o gruppo di
interesse) mira a essere percepita più vicina alle persone rivelando i propri “tratti umani”;
2) la sempli cazione: tenta di rendere comprensibile attraverso il linguaggio, i signi cati e i
valori trasmessi l’istanza sostenuta; 3) l’emozionalizzazione: permette di costruire un
legame emozionale con i propri pubblici.
La visibilità, che sostiene la crescita e lo sviluppo di un’organizzazione, è strettamente
connessa a una strategia narrativa: attraverso la narrazione si è in grado di esaltare i tratti
umani, di emozionare e sempli care. Chiaro il riferimento al concetto di Storytelling. Ciò
che proponiamo è una visione di lobbying e di Storytelling rappresentati e considerati
come due azioni complementari: un gruppo di interesse ha più probabilità di premere sui
policymakers quando è in grado di narrare storie abilmente impiegate per ra orzare la sua
identità. Christian Salmon propone un’idea di Storytelling che oscilla tra la persuasione
occulta e la spudorata propaganda. Appare, in altre parole, come uno strumento
pericoloso nelle mani delle multinazionali e di politici senza scrupoli. La strada da
intraprendere è invece proprio quella proposta da Perissinotto nel libro Raccontare.
Strategie e tecniche di Storytelling, in cui sostiene che lo Storytelling di un’organizzazione
è la garanzia del suo esistere sociale e del suo perdurare nel tempo. Non va dimenticato,
infatti, che ogni attore sociale (un gruppo di interesse, una lobby) si trova “a competere
nel marketplace of opinion e dalla circolazione delle notizie dipende la propria
reputazione”. Un gruppo di interesse nel momento in cui mira a rendere pubblica una
nuova issue deve concentrarsi anche sulla propria reputazione, che dipende dalla
rappresentazione sociale prevalente. Si attribuisce alla narrazione la funzione di
costruzione del Sé (dell’identità). L’obiettivo è realizzare e comunicare un’immagine
completa dell’organizzazione, che tenga conto anche del suo back o ce; lo Storytelling
permette di fornire ordine all’universo che circonda un attore sociale e consente di
richiamare circostanze ed esperienze conosciute che facilitano la comprensione nella
comunicazione. Le storie appaiono come dei dispositivi ordinatori, ovvero degli strumenti
che mettono in ordine e sistematizzano gli eventi di un’organizzazione, dando loro senso
e direzione. Di conseguenza, lo Storytelling è una produzione di senso. La narrazione
quindi spinge un’organizzazione alla costruzione di un rapporto empatico con i propri
pubblici, incentrato sulle emozioni che la prima è in grado di indurre sui secondi.
L’uso delle parole nello Storytelling (come nel lobbying) è un’azione decisiva. La forza
delle parole, però, dipende dal modo in cui vengono interpretate dalle persone;
un’interpretazione che è strettamente connessa con la trama della storia che viene
raccontata. Deborah Stone a erma che “le de nizioni di policy problems hanno tutte una
propria struttura narrativa: cioè, sono storie con un inizio, una metà e una ne, che
comportano qualche cambiamento o trasformazione. Ci sono gli eroi, i personaggi cattivi
e le vittime innocenti”. Di solito, quando si ha a che fare con questioni che riguardano il
campo sociale (un esempio è quello della sanità), dove è richiesta e necessaria una scelta
politica, prevalgono narrative del tipo story of helplessness and control, vale a dire storie
che prendono spunto da contesti iniziali complessi con un alto rischio che escono dal
controllo della politica, ma che terminano il più delle volte con la risoluzione del problema
grazie alla scelta e ettuata da parte del decisore.
Raccontare storie assume un ruolo rilevante nell’ambito del lobbismo. Il lobbying
coinvolge i decisori pubblici (politici, dirigenti), i quali inevitabilmente sono maggiormente
predisposti a interagire con quegli attori sociali (gruppi di interesse o lobby) in grado di
produrre narrazioni che appaiono coerenti con quelle di vasti settori di pubblici. Parlando
di Storytelling si rientra a pieno titolo nel campo del lobbying indiretto. Lo Storytelling per
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un’organizzazione è uno delle principali strategie per costruire consenso e per mobilitare i
cittadini, condividere con loro un’istanza proponendo una visione (il frame), formulando un
quadro generale che dia signi cato alla tematica sostenuta al punto da non poter
rimanere inosservato da parte degli attori interni al processo decisionale. Sviluppare la
narrazione di un’organizzazione signi ca seguire alcuni suggerimenti elencati da
Perissinotto: 1. comunicare la propria missione ai pubblici di riferimento; 2. essere attivi e
riconosciuti nel contesto sociale (o ambiente) in cui l’organizzazione agisce; 3.
promuoversi sostenendo costantemente la propria visibilità; 4. narrare storie amichevoli,
vicine e accessibili in cui ognuno può riconoscersi; 5. rendere noti i propri valori; 6.
condividere e trasferire le proprie esperienze; 7. raccontare storie che si calano in
esperienze concrete, reali, umane e memorabili.

Lobbying, nella proposta di Alemanno, signi ca interagire con almeno tre diversi attori: i
policymakers, i mass-media e l’opinione pubblica. Per questo lo studioso parla di un
lobbying plan, cioè il bisogno di redigere un piano in cui va indicato non solo con chi
parlare, ma anche come e quando farlo. Il piano di lobbying deve prevedere speci ci
passaggi necessari per rendere pubblica (visibile) la propria istanza, che includono: 1) Il
target: quali sono i pubblici di riferimento? 2) Il contenuto: quali informazioni condividere?
3) Il contesto; 4) l’obiettivo: a chi devo far conoscere l’istanza? 5) Il disegno: quali sono gli
strumenti più adatti per promuovere l’istanza? Lo Storytelling, quindi, “è un modo e cace
per attirare l’attenzione sulla proposta sostenuta”. È uno strumento essenziale per
coinvolgere sostenitori, costruire alleanze, e, per questo, deve essere una delle
componenti chiave del piano di lobbying.

Sembra opportuno paragonare chi è in grado di attuare un’azione di lobbying e di


Storytelling (gruppo di interesse, lobbista) all’imprenditore cognitivo di cui parla Giorgio
Grossi. Nel libro L’opinione pubblica Grossi illustra come il processo di opinione pubblica
non possa generarsi spontaneamente, ma richieda, sia nella sua attivazione dall’alto (élite
di potere) sia dal basso (gruppi, associazioni, lobby), la presenza di un promotore,
denominato appunto imprenditore cognitivo, che svolga due compiti speci ci:
a)selezionare e porre all’attenzione alcuni temi; b) promuovere su questi temi la chiave di
lettura, il punto di vista sostenuto. Grossi non parla mai né di lobbying né di Storytelling;
l’imprenditore cognitivo, però, tentando di tematizzare determinate Issues è chiamato a
produrre narrazioni in grado di attrarre l’attenzione delle persone e dei decisori.
In sostanza il ruolo dell’imprenditore cognitivo nel processo di opinion building è quello di
assolvere “la funzione di priming (stimola l’accessibilità collettiva a certi temi), e di
esercitare la funzione di framing (fornisce la chiave interpretativa della controversia,
istruisce le alternative e le possibili soluzioni)”. L’imprenditore cognitivo, per concludere,
ricorre alle narrazioni in modo da poter in uenzare anche il processo decisionale.

Paragrafo 2.3, Il lobbista secchione

Chi è il lobbista? Il lobbista è “più politico dei politici e più documentato di un u cio
studi”. Al lobbista è richiesto un ventaglio di competenze diversi cate tra l’economia, il
diritto e la comunicazione. Il lobbista, in altri termini, è un esperto; la sua azione è
incentrata su una competenza applicata e la relazione che lo lega al suo committente
(l’organizzazione per cui lavora) e il conseguente rapporto di potere che si può instaurare
tra i due è a vantaggio del secondo che individua e de nisce l’istanza da sostenere e
l’obiettivo da raggiungere, mentre al lobbista spetta di fornire le risposte tecniche per
raggiungere quanto stabilito dal committente.
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La gura del lobbista rimanda nello speci co alla funzione strumentale, di cui parla
Caselli, in base alla quale una determinata organizzazione o istituzione politica impiega
una certa conoscenza per risolvere un problema. Il lobbista, attraverso la propria attività,
raccoglie ed elabora, infatti, quelle conoscenze per poi metterle a disposizione dei
decisori politici o al contrario, come spesso avviene soprattutto nel contesto europeo con
l’apertura, ad esempio, di un libro verde, è lo stesso decisore a sollecitare il lobbista a
elaborare le necessarie conoscenze. Caselli osserva che all’interno della categoria
funzione strumentale è possibile distinguere diverse funzioni tra le quali va annoverata
quella informativa, cui fanno capo le attività di analisi, di identi cazione e di segnalazione
di un determinato problema al decisore pubblico. Altre funzioni sono quella operativa, che
include attività essenziali per supportare il decisore nella individuazione delle possibili
azioni di risposta e di soluzione del problema; quella politico-strategica, che raggruppa le
attività incentrate sull’analisi del campo politico (costruzione di alleanze,…) nalizzate alla
legittimazione di determinate decisioni politiche. Il lobbista, di fatto, con le sue
informazioni corrette assiste il decisore nel giungere a una scelta consapevole e lo aiuta a
costruire un consenso intorno alla decisione presa. Ovviamente, essendo un portatore di
interessi particolari, evidenzierà gli aspetti che maggiormente lo riguardano.

Cattaneo scrive che i migliori lobbisti con cui ha lavorato sono divoratori di libri,
solitamente libri che permettono di comprendere il potere e il contesto in cui le scelte
politiche vengono prese. Un libro che va in questa direzione, focalizzato sul dietro le
quinte della politica italiana dalla nascita della seconda Repubblica no all’arrivo del
governo Conte, è Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, nel quale viene
spiegato come nell’attività del lobbista sia centrale la conoscenza del dettaglio, e inoltre vi
si trovano le indicazioni sulle relazioni da costruire e sul lessico da impiegare in certi
momenti e con certe persone; in ne, si spiega come il potere sia fatto anche di luoghi e di
momenti informali: “oggi l’Italia è una Repubblica fondata sul padel”.
Il lobbista deve saper analizzare il contesto oltre l’apparenza, prevedendo e
comprendendo i ritmi e le tempistiche della politica che risultano essere poco codi cate e
spesso stravolte da emergenze. Egli è dunque chiamato: a) a interpretare le richieste
spesso confuse o poco chiare dell’organizzazione per cui opera; b) ad aggiornarsi
costantemente sugli sviluppi e le innovazioni che riguardano il campo della politica e della
pubblica amministrazione, con uno sguardo sempre attento anche ai cambiamenti che
avvengono a livello micro e macro economico. Il lobbista non può permettersi di non
conoscere alla perfezione l’ambiente politico dove si trova ad agire e, grazie al bagaglio di
conoscenze possedute, riesce a monitorare attentamente e costantemente la mappa del
potere decisionale. La velocità con cui vanno decise le mosse da e ettuare e con cui si
identi cano i decisori che incidono sugli obiettivi della propria organizzazione è un altro
attributo del rappresentante di interessi. E poi c’è la scrittura, un’altra abilità del lobbista:
scrivere implica avere le competenze per trasferire le proprie idee in un dossier al ne di
agevolare il più possibile il lavoro del decisore.
Le qualità indispensabili al lobbista sono: 1) l’intelligenza di contesto, per poter
interpretare non solo il quadro politico ma anche l’ambiente sociale dove i vari gruppi di
interesse entrano in competizione; 2) l’intelligenza relazionale, per poter costruire rapporti
stabili con gli interlocutori; 3) la competenza sugli aspetti formali e informali del processo
decisionale.
È di cile costruire l’identikit del “bravo lobbista”, dato che ognuno ha la sua storia di
formazione e vicende professionali e percorsi di carriera molto personali: la norma è che
non esiste un percorso standard per diventare lobbisti.

Le relazioni costruite dal rappresentante di interessi si caratterizzano per due aspetti.


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Primo aspetto: va costruita una relazione continuativa e di ducia con i decisori e con tutti
i pubblici di riferimento; più frequente e costante è la relazione con i propri interlocutori,
innanzitutto quelli istituzionali, più aumenta l’intensità del rapporto e la ducia. Di fatto, se
si ra orza la ducia, gran parte della relazione sarà incentrata sull’emotività e sulla
volontà di entrambi gli interlocutori di rispettare questo rapporto con denziale. Il lavoro
per giungere al rapporto di ducia si basa sull’identi cazione di una lista di potenziali
decisori riguardo una determinata tematica e l’organizzazione di incontri one to one di
reciproca conoscenza. La fase del farsi conoscere è importante e si può assimilare alle
relazioni che si instaurano in un’aula universitaria tra il professore e gli studenti: gli
studenti che si siedono nelle prime le (i secchioni) sono anche quelli più attivi e curiosi
durante le lezioni; con questo loro comportamento riescono non solo a farsi riconoscere,
ma entrano anche più in con denza con il docente. Il lobbista si comporta alla stessa
maniera dello studente secchione che ricerca l’attenzione del Prof. Lo fa partecipando a
conferenze, convegni, seminari, sedendo ai primi posti e ponendo domande al decisore
che interviene sulle questioni di interesse per il lobbista. È decisivo essere visti ed essere
riconosciuti. In questo modo il lobbista diviene un punto di riferimento riconoscibile (una
fonte) per il decisore, che sa a chi rivolgersi quando ha bisogno di informazioni. Si crea
una sorta di “complicità relazionale” (esempio di Ketty Tabakov, la signora delle cinture di
sicurezza).

Le relazioni costruite dal lobbista, e così arriviamo al secondo aspetto, si caratterizzano


anche per l’attendibilità e credibilità di ciò che viene comunicato. Il lobbista che in più
occasioni ha fornito contenuti a dabili ha buone probabilità di essere di nuovo
interpellato, no a divenire un interlocutore regolare per il decisore. Il lobbista deve
mostrarsi preparato, in questo modo il decisore prenderà in considerazione le sue
informazioni e avrà ducia nel suo operato, se dunque dimostrerà di conoscere in
maniera molto approfondita (il lobbying erudito) le questioni rappresentate. Per questo
viene richiesto al lobbista un aggiornamento costante. L’autorevolezza del lobbista
dipende dalla sua credibilità, che, a sua volta, è connessa alle conoscenze possedute.
Per lobbying erudito si intende un’azione di pressione che si basa su argomenti solidi e
dettagliati, sulla capacità di de nire un interesse particolare in modo che possa essere
compreso dal decisore; un lobbying erudito comprende anche la capacità di scegliere su
quali relazioni investire, quanto e come ampliarle. Questo signi ca anche conoscere a
fondo il proprio interlocutore (il decisore).

Lobbisti possono essere suddivisi in tre categorie: i lobbisti in-house; gli hire lobbyists; i
lobbisti civici.
1) I lobbisti in-house sono dipendenti dell’organizzazione il cui scopo prevalente è
monitorare e piani care; sono strutturati in una divisione o direzione dedicata agli
a ari istituzionali o public a airs e si occupano di fare da cerniera tra tutte le divisioni
dell’organizzazione per cui operano e i molteplici soggetti con cui essa interagisce.
Lavorano a stretto contatto con il vertice dell’organizzazione.
2) Gli hire lobbyists sono lobbisti di agenzie di consulenza o lobbying o comunicazione
che ricevono incarichi per rappresentare speci ci interessi. Si ricorre a queste agenzie
per le attività di back e front o ce: si va dal monitoraggio del processo decisionale
no alla costruzione di rapporti con il decisore e al presidio dei corridoi decisionali. La
loro struttura interna prevede gure con diversi livelli di esperienza: si va dai fondatori,
lobbisti di grande visibilità maturata dopo anni di esperienza che si occupano
soprattutto di front O ce, ai senior consultants, lobbisti con circa cinque anni di
esperienza che si occupano sia di back che di front O ce di speci che questioni, ai
consultants, con pochi anni di esperienza che si occupano prevalentemente di back
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O ce, per nire con gli analysts, statisti che si occupano esclusivamente di back
O ce.
3) In ne, i lobbisti civici fanno riferimento all’attivismo civico, che ha preso piede negli
ultimi anni e che vede i cittadini in prima linea per difendere un tema, un interesse che
li riguarda. In pratica si tratta di alzare il telefono, inviare un’e-mail o attivare un
account Twitter per raggiungere il decisore, di presentare una petizione o creare un
gruppo di Facebook per promuovere una causa. Sono le motivazioni e la capacità
organizzativa che contraddistinguono il “cittadino lobbista”, alla costante ricerca di
altre persone con cui allearsi e condividere il raggiungimento di un obiettivo. Le
caratteristiche che lo distinguono da qualsiasi altra forma di attivismo sono: a) il Target
(la pubblica autorità o il decisore); b) il metodo (la tecnica di lobbying implementata);
c) l’obiettivo (cambiamento di una norma,…).I lobbisti civici in genere agiscono sul
processo politico monitorandolo, identi cando le questioni importanti per loro,
sviluppando una strategia e impegnandosi in una varietà di attività per raggiungere
l’obiettivo stabilito, spesso anche raccogliendo un supporto esterno (esempi calzanti
sono quelli di Greta Thunberg, ma anche tutti quei comitati che nascono per
sostenere e difendere o contrastare un’istanza). A bene ciare del risultato ottenuto
non saranno soltanto i membri del comitato ma l’intera comunità.

Paragrafo 2.4, Il lobbista e le strategie dirette e indirette

Back e front o ce sono due forme di attività di lobbying che solitamente rimandano al
soft lobbying (il back o ce) e all’hard lobbying (il front o ce).
Si parla di soft lobbying per indicare un’attività nalizzata a: 1) de nire l’interesse
rappresentato; 2) mappare gli interessi vicini e costruire delle alleanze (o coalizioni); 3)
mappare gli interessi opposti e contrastarne l’azione; 4) mappare e monitorare i decisori
pubblici e prendere contatti con i suoi assistenti e altri membri del suo sta ; 5)
predisporre scale di analisi/documenti, rapporti di ricerca, position papers o policy briefs.
Il soft lobbying rientra nella fase della mappatura, quando cioè si mira a capire cosa si
vuole ottenere, per quale motivo e con quale nalità. Questa fase è cruciale per il
prosieguo dell’attività di lobbying: “se sbaglio questa fase, sbaglierò in sequenza tutte le
successive perdendo molto tempo”. È a questo stadio che il lobbista valuta la fattibilità
della sua azione confrontandosi col cliente o datore di lavoro. Una volta compreso cosa
bisogna rappresentare, e percepito l’orientamento della gente, il passaggio successivo
del lobbista impegnato in un’azione di soft lobbying è ra orzare la posizione dell’istanza
attraverso la costruzione di una coalizione. Una coalizione è un’alleanza tra gruppi di
interesse dello stesso o di diversi settori, nalizzata a perseguire un obiettivo condiviso.
L’azione che porta alla formazione di un’alleanza è chiamata coalition building ed è
considerata dal lobbista un lavoro delicato e di cile. In compenso, poter contare su una
coalizione di supporto è un vantaggio indiscutibile: il decisore, infatti, è sensibile alle
istanze sostenute da un largo consenso, perché le sue scelte hanno bisogno, per essere
convincenti, di essere fatte nel nome di un interesse il più ampio possibile; in secondo
luogo, può ra orzare, nel caso di un politico, il suo consenso e visibilità nell’ambiente
esterno. Un esempio di coalizione è Legambiente, che, per essere ascoltato nel contesto
europeo, ha creato un network ambientalista transnazionale.
Di pari importanza è la mappatura degli interessi opposti, nalizzata a individuare di
ciascun avversario la struttura interna, le competenze, il know how a disposizione e la
percezione esterna. Compito del lobbista è quello di capire quale potrebbe essere il punto
di mediazione con i gruppi di interesse avversari. L’intento è quello di tenere basso il
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livello dello scontro per evitare che il decisore si trovi in con itto con interessi
contrapposti.
Il soft lobbying comprende anche la mappatura del processo decisionale, basata
sull’individuazione del livello di intervento nella gerarchia dei decisori (il livello di intervento
può essere europeo; all’interno dei con ni, e dunque a livello centrale; in ne regionale o
locale).

Position paper, hard lobbying, lobbying diretto e indiretto, eccetera si trovano


nell’altro libro.

È di cile stabilire quando è preferibile ricorrere al lobbying diretto o a quello indiretto. Di


regola, quando il lobbista agisce per conto di gruppi che i governanti considerano
legittimi e consultano in modo regolare (insiders) ricorre prevalentemente al lobbying
diretto; quando invece si ha a che fare con gruppi di interesse che non sono in grado di
stabilire rapporti privilegiati con il decisore (outsiders) è più probabile che ci si muova, ad
esempio, con campagne di protesta per sensibilizzare l’opinione pubblica nella speranza
di condizionare così l’operato del decisore. Tuttavia, l’incertezza del policy making e la
pluralità dei luoghi decisionali spingono il lobbista a combinare le due strategie di
lobbying.

Capitolo 3, Facile da vedere, di cile da catturare: regolare il


lobbying

Paragrafo 3.1, Dal lato delle regole: a proposito del diritto di pressione

Nonostante la presenza del lobbying sia palese e riconosciuta, in Italia manca ancora una
legge sulle lobby. Il fatto è che, negli ordinamenti democratici, le norme faticano a
disciplinare un fenomeno così complesso ed articolato. Sicuramente solo in democrazia il
lobbying è a un tempo risorsa e problema, manifestazione di diritti fondamentali e
pericolo per la buona amministrazione.
Già James Madison, uno dei padri della costituzione americana, aveva colto bene questa
ambivalenza: gli interessi parziali, le “fazioni”, cercano di condizionare le scelte delle
istituzioni pubbliche a proprio vantaggio, ma proprio nella pressione di una molteplicità di
posizioni “particolari” si compone e de nisce lo stesso interesse generale.
Tornando ad oggi, è chiaro che l’apporto, di ciascuno e quindi di tutti, al formarsi della
scelta è un valore ineludibile in democrazia. Resta allora la possibilità di provare a
regolare il lobbying, cercando di contenerne i rischi ed esaltarne i vantaggi: in questo si
sono cimentati molti ordinamenti. Resta però una indubbia di coltà nel costruire una
cornice normativa proprio per il carattere mutevole e scivoloso del fenomeno. Mutevole,
perché al pari (ma più) di molti altri fenomeni sociali risente appunto dei cambiamenti che
interessano la società, ma anche perché si adatta ai suoi mutamenti (istituzionali, politici).
Scivoloso perché spesso tende ad adattarsi per sfuggire alle gabbie entro le quali si
intende contenerlo. Scivoloso anche perché può tentare di rifugiarsi nell’informalità, in
occasioni e situazioni che diventa più complesso regolare.
Nel contesto statunitense il diritto a in uire sui decisori pubblici si riconduce in primo
luogo al diritto di petizione: è un diritto strettamente intrecciato con lo stesso diritto di
parola e con quello di stampa, già nella stessa formulazione del Primo emendamento (del
1791) alla Costituzione statunitense. Quindi, il lobbying si con gura come una libertà
costituzionale, quale diritto di rappresentare le proprie ragioni, e in questi termini è stato
riconosciuto dalla Corte suprema. Con la precisazione che, quando parlava di “petizioni”,
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il legislatore costituzionale del Primo emendamento intendeva esattamente l’attività di
rappresentanza di interessi, in sostanza il lobbying.
Quanto al diritto di “petizione”, nella sua forma più circoscritta lo troviamo sia a livello
nazionale che europeo: in tutti i casi rientra tra i diritti che conformano l’impianto
democratico quello di potersi rivolgere ai propri rappresentanti e quindi intervenire nel
processo decisionale pubblico. In questo senso va la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, che prevede, all’articolo 44, che “qualsiasi cittadino, o qualsiasi
persona giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro dell’Unione
Europea ha il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo”.
Il quadro costituzionale europeo fornisce nel suo complesso un chiaro fondamento per il
riconoscimento e la valorizzazione della rappresentanza degli interessi, de nendo un
modello di democrazia partecipativa, nel quale “le istituzioni danno ai cittadini e alle
associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere
e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’unione” ed è
mantenuto “un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative
e la società civile”. Né va trascurato il fatto che lo stesso trattato prevede che “la
Commissione europea procede ad ampie consultazioni delle parti interessate”.
Una situazione parzialmente ancora diversa è rinvenibile nel sistema italiano: il
fondamento del “diritto al lobbying” è stato rinvenuto negli articoli 2,3, 18 e 49 della
Costituzione, singolarmente e nel loro combinarsi. Dal combinarsi di queste a ermazioni
la Corte ricava il diritto dei corpi sociali di organizzarsi per in uire sulle dinamiche
politiche, in forme e modi che la legge può regolare ma non escludere in via generale.
D’altra parte, sarebbe paradossale se il popolo “sovrano” non potesse incidere sul
formarsi delle decisioni politiche, come confermano il diritto di iniziativa legislativa (da
parte di 50.000 elettori) e il diritto di richiedere l’abrogazione di leggi (referendum
abrogativo, richiesto da 500.000 cittadini): prerogative, queste, che esprimono il diritto del
popolo anche di “partecipare con appositi istituti alla decisione pubblica”. Né può tacersi
la rilevanza che, più recentemente, va riconosciuta al principio di sussidiarietà e quindi al
“paradigma sussidiario”, sancito dall’art 118 della Costituzione, che impone a tutti i livelli
di governo di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nel prendersi
cura di interessi generali.

Paragrafo 3.2, La legge sulle lobby: lo stato dell’arte e i “modelli”

In molti paesi il lobbying è oggetto di una disciplina diretta e la questione è piuttosto


quella della e cacia di queste normative. Il caso italiano risalta, invece, se poniamo
attenzione al rapporto tra “tentativi” e “risultati”: è di cile anche solo tenere il conto delle
proposte di legge che hanno mirato a disciplinare il fenomeno. I tentativi falliscono uno
dopo l’altro, ma producono un’accresciuta conoscenza del fenomeno, una ra orzata
attenzione al tema, che favorisce il radicarsi di alcuni frammenti di regolazione, prima che
il dibattito scemi e con questo l’attenzione al “problema”. I vecchi tentativi, e i vecchi
disegni di legge, sono poi la base da cui spesso si riparte, come nel caso del disegno di
legge Santagata del 2007.
È attualmente in discussione un nuovo progetto di regolazione delle lobby, di iniziativa
parlamentare: si confrontano impianti legislativi diversi, più ampi e più “leggeri”, promossi
tutti da gruppi politici che sostenevano il governo Conte II - si tratta dei progetti di
Fregolent, Madia e Silvestri - , in materia di disciplina dell’attività di rappresentanza di
interessi; tre onorevoli, due donne e un uomo, di Italia Viva, del PD, del M5S, che hanno
presentato progetti con a nità, ma anche con di erenze. Nei progetti in discussione
ricorre sempre l’istituzione di un registro obbligatorio, mentre variano altri contenuti: ad
esempio, la previsione di un’agenda di incontri pubblica non è sempre presente, varia la
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nozione di “decisori pubblici” che è comunque in linea di massima ampia, variano
sensibilmente i meccanismi di controllo e sanzione. Il problema però non è tanto nei
contenuti, quanto nelle prospettive: dal primo tentativo, del 1976, di “relitti” mai giunti a
destinazione se ne contano a decine (ben 79 disegni di legge).
Un obiettivo di cile da catturare, perlomeno in Italia, dove non a caso sin qui si è
preferito aggirare in parte l’ostacolo, regolando “indirettamente” il fenomeno. Altrove, al
contrario, non mancano però esperienze di diretta disciplina del lobbying, quindi la
“cattura” è possibile, e anzi necessaria.
Una regolazione è possibile, tanto è vero che in letteratura si discute di come classi care
le diverse esperienze. La letteratura scienti ca ci propone una modellistica che tende a
polarizzarsi a partire da due modelli, quello statunitense e quello dell’istituzioni europee,
de niti anche “modello Washington” e “modello Bruxelles”.

Nel primo caso (modello Washington) il lobbying è avvertito quale elemento in grado di
mettere a rischio i meccanismi decisionali democratici ed è quindi oggetto di una
regolazione hard (con obblighi e sanzioni) che mira, specie attraverso obblighi di
trasparenza, a contenerne i potenziali e etti patologici; questo approccio di regolazione
comporta una disciplina diretta del fenomeno lobbistico, ma non trascura una disciplina
“di contorno” rivolta a ra orzare l’integrità e l’imparzialità dei decisori pubblici. Il
baricentro della regolazione è la trasparenza. La normativa canadese, che ha forti
similitudini con quella statunitense, ssa l’attenzione su un punto cardine dei meccanismi
di trasparenza, l’obbligo di registrazione dei lobbisti e delle attività di lobbying. Obblighi
(sanzionati) di disclosure e registration, legati gli uni agli altri; trasparenza e registrazione
delle lobby sono le pietre angolari del modello.

Un diverso modello è quello fatto proprio dalle istituzioni europee (modello Bruxelles):
qui il baricentro è la partecipazione, ossia l’idea che il lobbying sia un’opportunità per le
stesse istituzioni oggetto delle “pressioni” lobbistiche, sia in termini di miglioramento della
decisione (che emerge dal confronto con soggetti esperti in grado di rappresentarne
l’impatto su settori, territori, categorie di persone) che di legittimazione della stessa
governance europea. Anche in questo caso la trasparenza è la chiave di volta per
consentire il corretto sviluppo dei processi decisionali, ma è una trasparenza centrata
sull’attività (normativa o amministrativa) e orientata a favorire la partecipazione: “il luogo
della decisione è una stanza con le pareti di vetro cui, però, i portatori di interesse hanno
diritto ad entrare e a sedere al tavolo della decisione”.

Si può parlare di un modello di trasparenza-controllo e di un modello di trasparenza-


partecipazione, volto a favorire l’inclusione nei percorsi decisionali.

Paragrafo 3.3, Imparare dall’esperienza: la capitale mondiale delle lobby

L’esperienza statunitense merita un approfondimento per 3 ragioni: perché è quella in cui


il lobbying viene regolato per la prima volta; perché è quella in cui l’esperienza concreta
ha messo maggiormente alla prova la legislazione e i suoi adattamenti; perché le scelte
assunte a Washington condizionano tuttora l’ordine globale in modo non comparabile con
quanto può avvenire in altre capitali.
Il lobbying trova negli Stati Uniti una prima regolazione, nel 1946, successivamente
modi cata nel 1995 con il Lobbying Disclosure Act e poi riformata in senso ulteriormente
restrittivo nel 2007 con l’Honest Leadership and Open Government Act. La regolazione
della materia è ora contenuta nello US Code, capitolo 26: Disclosure of Lobbying
Activities, dove rinveniamo dunque una regolazione molto esigente, che fa perno sul
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dovere di registrazione dei lobbisti, di dichiarazione sulle attività di lobbying, di
trasparenza sugli interessi rappresentati e sui fondi utilizzati a questo ne.
La costruzione teorica nordamericana si appoggia su fondamenti che si ricollegano alle
teorizzazioni dei “padri costituenti” e in particolare di James Madison, che sottolineò
l’esigenza di ssare delle precauzioni ausiliarie, considerate utili e necessarie.
La prima vera legge riferita alle lobbies in sostanza è quella del 1995, che ha innanzitutto
cercato di tratteggiare con maggior precisione la gura del lobbista, da considerarsi ora
come ogni individuo “impiegato o stipendiato, tramite compensi nanziari o non, per
servizi che includano più di un contatto lobbistico” Per “contatto lobbistico” si intende
“ogni comunicazione orale o scritta indirizzata a un pubblico u ciale appartenente a un
u cio esecutivo o legislativo, svolta per conto di un cliente, e riguardante una serie di
azioni”. Il senso delle riforme che hanno modi cato l’impianto del 1946 è stato soprattutto
quello di allargare il perimetro del fenomeno del Lobbying preso in considerazione dalla
legge e le misure di controllo ed enforcement: proprio l’assenza di una chiara ed e cace
delimitazione dei lobbisti tenuti a iscriversi al relativo registro e la mancanza di un e cace
sistema di controlli della veridicità del registro erano infatti considerati limiti importanti
della precedente normativa.
Nel 2007, a seguito del celebre scandalo Abramo , la disciplina è stata ulteriormente
ra orzata tramite una legge “bipartisan” (l’Honest Leadership and Open Government
Act), con la previsione, in particolare, di più ampie e tempestive dichiarazioni periodiche
sulle attività lobbistiche svolte. La riforma ha puntato però soprattutto sulla
responsabilizzazione del personale e dei decisori pubblici, secondo un approccio che
possiamo de nire “duale” al rapporto lobbistico. In questo senso va l’introduzione di
ulteriori obblighi di dichiarazione in capo agli stessi decisori pubblici, ai quali è inoltre
fatto divieto di accettare regali da lobbisti; la riforma ha poi cercato di impedire il
fenomeno del revolving doors, il passaggio, nei due sensi, dei lobbisti nei ruoli dei decisori
e di questi in quello dei lobbisti.
Il tentativo di “boni care la palude” (il provvedimento di Trump è così chiamato) è stato
poi sviluppato dai presidenti statunitensi, con propri Executive Orders rivolti al personale
dell’esecutivo: l’ordine esecutivo di Trump prevede in particolare il divieto (sanzionato) per
le gure con ruoli direttivi di svolgere attività di lobbying per ben cinque anni dal termine
dell’incarico, oltre al divieto di accettare doni e un sistema di controlli che fa capo a un
apposito u cio federale che segue le questioni etiche e del personale.
Questo è un modello di regolazione del lobbying molto esigente e articolato, che si fonda
sul valore della trasparenza, intesa in particolare come conoscenza delle attività di
pressione esercitate sul processo decisionale, parlamentare e governativo.
C’è anche, tuttavia, chi vede in questa eccessiva trasparenza un rischio per la stessa
legittimazione delle istituzioni democratiche. Va detto che la capacità di questa
regolazione di contenere entro con ni accettabili la pressione degli interessi organizzati è
comunque controversa.
Nel sistema statunitense la disciplina del rapporto tra decisori pubblici e gruppi di
interesse non ignora la questione della regolamentazione delle campagne elettorali:
fondamentale strumento d’azione per i gruppi di pressione è il nanziamento politico e il
sostegno elettorale. Questo chiama in causa l’e etto distorsivo dei nanziamenti elettorali
da parte di portatori di interessi: un pericolo da più parti avvertito, che si ri ette
negativamente sia sul processo democratico che sul successivo sviluppo delle politiche
pubbliche. Con sviluppi che, qui, paiono maggiormente problematici, frutto di due
importanti, e controverse, sentenze della Corte suprema che hanno complessivamente
reso più ampia, e quasi incontrollabile, la possibilità per individui e imprese di nanziare
campagne elettorali: “la corte suprema ha trasformato il nostro sistema rappresentativo in
un parco giochi per milionari e miliardari americani“.
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Una serie di evidenze:
1. Le lobby non sono solo le lobby. Il lobbying è oramai chiaramente uscito dalle
anticamere delle assemblee parlamentari e la legislazione è solo una delle “decisioni”
da in uenzare. Nel regolare l’attività di lobbying la legge statunitense ricomprende sia
organi politici che amministrativi, sia scelte normative che atti amministrativi, per no
nomine a cariche pubbliche. Ricadono nel campo di applicazione della legge una
serie di soggetti “rilevanti”: tra questi il presidente e il suo vice, i loro u ci, nonché i
vertici e funzionari delle agenzie federali. L’esperienza statunitense ci dimostra che è
sbagliato far coincidere la nozione di decisore pubblico con quella di decisore politico,
perché ciò che conta è il potere di decidere e non sempre chi ha questo potere è stato
eletto.
2. I lobbisti non sono solo i lobbisti. Il lobbying è al tempo stesso un diritto di
ciascuno, e ciascuno di noi può trasformarsi in lobbista, nei limiti delle sue
competenze, per sostenere una questione che gli sta particolarmente a cuore
(telefonando o cercando di contattare un parlamentare, stimolando i politici locali a
prendere una posizione,…), e una professione, svolta da persone che fanno questo di
mestiere, anche se in modo non necessariamente esclusivo: solo ai secondi risulta
possibile applicare una serie di regole di registrazione, dichiarazione e trasparenza,
pena frustrare il diritto di pressione dei primi. Una questione apparentemente
secondaria è stata quella di de nire il con ne tra l’attività professionale, regolata, e
quello occasionale, più libera, la cui presenza consente evidentemente margini di
elusione a tutto vantaggio di lobbisti e faccendieri part-time.
3. Per regolare le lobby non basta regolare le lobby. Il contatto lobbistico coinvolge
quantomeno due individui, il lobbista e il decisore, quindi una buona strategia di
regolazione può, e deve, puntare a regolare le condotte di entrambi gli attori. La
protezione del buon andamento della cosa pubblica è a data in misura non
secondaria a regole di condotta e di dichiarazione in capo a funzionari, politici,
collaboratori dei decisori.
4. Per regolare il contatto lobbistico non basta regolare il contatto lobbistico. Un
momento fondamentale di costruzione della disponibilità del decisore a contribuire a
valorizzare certi interessi e sostenere certe posizioni “particolari” è, ad esempio,
quello dell’elezione: la questione non è tanto lo speci co impegno ad assumere una
determinata decisione, quanto più il fatto di porsi “al soldo” di speci ci interessi che si
fanno promotori del nanziamento elettorale. I meccanismi di nanziamento delle
campagne elettorali sono decisivi nel determinare le successive scelte puntuali e i
successivi atti, sia di tipo normativo che amministrativo. Questo versante, peraltro, è
forse quello nel quale il sistema americano mostra le maggiori di coltà, specie in virtù
del fatto che il sostegno (anche economico) politico attiene non solo al diritto di
petizione, ma in modo più stretto al diritto di espressione e su questa base la Corte
suprema americana ha ridimensionato i limiti ai nanziamenti politico-elettorali.
Finanziamenti che si sviluppano specie attraverso i PACS (raccolte di fondi per
sostenere politicamente certi temi), che sono dunque l’arma elettorale dei gruppi di
pressione.
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Paragrafo 3.4, La via europea degli incentivi e la sua evoluzione

Diversa è la prospettiva propria del modello delle istituzioni europee: la pressione degli
interessi non è intesa come “pericolo”, ma come “opportunità” per il miglioramento dei
processi decisionali pubblici.
La giurisprudenza delle corti europee ha speci camente dichiarato il nesso strettissimo
tra democrazia e pluralismo: un pluralismo che va inteso non solo come tolleranza delle
idee e dei punti di vista ma anche come attenzione alle voci degli interessi coinvolti nei
processi legislativi e politici.
Il formidabile spostamento delle attività di lobbying al livello delle istituzioni europee è
forse una delle conferme più evidenti dell’importanza del ruolo dell’Unione per la garanzia
dei diritti e la soddisfazione degli interessi: è un processo che ha un’accelerazione a
partire dagli anni 80, con il trasferimento dell’attività di lobbying a Bruxelles.
Secondo l’approccio prevalente a livello delle istituzioni europee, quindi, è nel proprio
interesse che i gruppi di pressione forniscano informazioni e consigli. Questo approccio
verrà ribadito e consolidato con il fondamentale Libro bianco sulla governance
(commissione europea, 2001), un documento che sancisce l’apertura della Commissione
ai gruppi, dei quali è riconosciuto il ruolo, sul piano tecnico, in quanto essenziale nel
fornire informazioni tecniche, dati e consigli costruttivi, ma non meno sul piano politico.
Questo approccio è alla base del sistema normativo eurounitario e si traduce in una forte
attenzione alla prospettiva del supporto all’interazione tra interessi (economici) organizzati
e decisori, nel tentativo di promuovere l’economia e l’adozione di regolazioni funzionali
allo sviluppo. Seguendo questa logica, la disciplina del fenomeno è stata tradizionalmente
mantenuta a un livello di minore cogenza, con registri attivati presso speci che istituzioni,
ad adesione volontaria o comunque assistiti da un sistema di sanzioni attenuato.
Si vede bene, in questi contesti, l’importanza di favorire l’ingresso dei lobbisti nelle sedi
istituzionali e il loro intervento nelle procedure decisionali, in un approccio inclusivo. Da
questa di erente prospettiva discende l’approccio rispetto alle misure di regolazione:
l’iscrizione del lobbista europeo ai registri diviene dunque più un’opportunità, da
incentivare, che un obbligo, e in quanto tale il modello appare tradizionalmente meno in
grado di rispondere a esigenze di trasparenza e controllo da parte dei cittadini. In questo
senso, il modello europeo si inserisce tra i modelli orientati alla “partecipazione” anziché
al controllo, nonché tra i modelli di soft regolation a di erenza di modelli di matrice
nordamericana, e anglosassone, di regolazione hard: il carattere “morbido” della
regolazione è duplice. Discende, da un lato, da provvedimenti delle singole organizzazioni
che decidono di dotarsi di una disciplina del fenomeno; si lega, dall’altro, al carattere
volontario della stessa sottoposizione al regime previsto.
Le lobby possono fornire elementi indispensabili per la comprensione dell’impatto di
determinate scelte, per quanto da questo processo decisionale derivino spesso
normative oscure, per “addetti ai lavori”: di non facile interpretazione e perciò riservate ai
portatori di speci che competenze, in quello che rischia di essere un circuito opacizzante.

Il modello europeo è in evoluzione, perché si avvertono i limiti e i rischi di un approccio


troppo morbido, che tende a consentire a numerosi lobbisti di non iscriversi ai registri.
Un’accelerazione nella regolazione del fenomeno si collega nell’Unione alla IET, avviata
nel 2005 e articolata già nel Libro verde. Nel Libro verde la Commissione per la prima
volta introduce una de nizione di “lobbismo”, termine con il quale “si intendono tutte le
attività svolte al ne di in uenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale
delle istituzioni europee”. È poi nel quadro di questa iniziativa che sono stati previsti tanto
un codice di condotta per i lobbisti quanto un registro ad adesione volontaria per i gruppi
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di pressione. A partire da questo momento, l’approccio europeo matura verso una
regolazione diretta.
A rapido coronamento della IET, con la Comunicazione della Commissione europea è
stato istituito un registro, cui è collegato un codice di condotta. Il codice è
particolarmente scarno, bilanciato dalla presenza di più solidi doveri di comportamento in
capo ai commissari europei e ai funzionari dell’Unione. In seguito a un accordo
interistituzionale, nel 2011 si è giunti all’adozione di un registro comune, sempre ad
adesione volontaria, da parte di Commissione e Parlamento. L’accordo regola le modalità
di partecipazione dei gruppi di pressione ai processi di produzione normativa europea,
che coinvolgono le due istituzioni rmatarie. L’obiettivo del registro è quello di ra orzare la
trasparenza sul sistema di lobbying, permettendo un controllo pubblico su una serie di
informazioni (chi sono i lobbisti, quali interessi rappresentano, quali sono gli eventuali
clienti,…).Il Parlamento europeo nel gennaio del 2019 ha adottato delle regole vincolanti
in materia di trasparenza delle attività di lobbying, in coerenza con quanto previsto dal
registro per la trasparenza. Il Consiglio, invece, non ha ancora aderito al registro.
Il fatto di trovarci di fronte a un sistema di incentivazioni, ad adesione volontaria, fa sì che
questo invito possa essere ignorato non solo dai “faccendieri“, ma anche dai lobbisti che
rappresentano poteri economici rilevanti, i quali preferiscono mantenere “opaca“ la
propria modalità di relazione con i decisori: l’insoddisfazione rispetto alla disciplina
vigente giusti ca, più recentemente, la spinta alla sua revisione. Riprendendo queste
sollecitazioni, la nuova commissione europea ha espresso l’intenzione di promuovere un
registro delle lobby obbligatorio per tutte le istituzioni dell’UE.
La di usione del fenomeno lobbistico nello scenario eurounitario è direttamente legata ai
caratteri della costruzione istituzionale europea, che in sintesi può essere de nita come “il
paradiso del lobbying”.
I processi decisionali, anche quando formalmente trasparenti, si svolgono in forme
articolate e di di cile leggibilità fatti di dialoghi istituzionali, specie attraverso comitati. A
questi, si accompagnano peraltro procedure informali ormai consolidate (quali i “triloghi”,
soluzioni informali e scarsamente trasparenti volte al raggiungimento del consenso tra
parlamento, consiglio e commissione), il che contribuisce a ra orzare il ruolo dei soggetti
meglio in grado, per competenze e relazioni, di rapportarsi con i reali decisori.
L’importanza del rapporto con i portatori di interessi si lega strettamente alla questione
del de cit democratico dell’Unione e della debolezza dei partiti nello scenario europeo,
per quanto il ra orzamento del Parlamento quale codecisore abbia portato a uno
spostamento di attenzione dei lobbisti anche verso l’assemblea.
Si ritiene che le procedure della Commissione tendano a essere più trasparenti rispetto a
quelle del Parlamento, per quanto questo sia vero se si confonde trasparenza e
prevedibilità: certo i percorsi decisionali della Commissione sono molto formalizzati,
prevedibili nel loro sviluppo, e i documenti sono di norma pubblici; nondimeno proprio la
complessità delle procedure determina un’inevitabile opacità di cui bene ciano gli attori
più organizzati.
I gruppi di interesse si collocano non solo a livello di Commissione e Parlamento, potendo
intervenire sia a livello nazionale sia a livello europeo in sedi quali lo stesso Consiglio e i
suoi gruppi di lavoro. La presenza “a più livelli“ consente un condizionamento del
processo decisionale tanto più e cace perché graduale: si tratta di un comportamento di
cosiddetto venue shopping nel quale i portatori di interessi individuano in modo
“modulare“ le sedi e le strategie di intervento tenuto conto non solo dello speci co
oggetto, ma di aspetti quali i caratteri della decisione, il tipo di competenza legislativa di
cui dispone l’Unione, le relazioni già esistenti e le risorse disponibili. In un sistema
complesso come quello dell’Unione, e perciò stesso poco trasparente per i cittadini,
risultano inevitabilmente favoriti gli interessi maggiormente organizzati e più solitamente
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rappresentati, quindi in grado di intervenire con più strumenti e leve: “un ristretto numero
di voci con maggiori risorse e rapporti può arrivare a dominare il processo decisionale
politico”.
Per quanto il fenomeno sia oggetto di attenzione in termini positivi, è interessante notare
la tendenza a ricorrere a sinonimi (attività di in uenza, rappresentanza di interessi,…),
mentre il termine “lobbying” è utilizzato raramente, il che ne tradisce la percezione in
termini comunque negativi per il collegamento che evoca con la corruzione.

Paragrafo 3.5, Lo zen e l’arte della regolazione delle lobby

Questi due approcci (per la trasparenza-partecipazione l’uno, per la trasparenza-


responsabilità l’altro) sono legati in termini di proporzionalità inversa.
Come evidenzia Transparency International (2017) nel suo rapporto sul Lobbying in
Europa, il lobbying, per quanto non privo di rischi di un condizionamento eccessivo e
fuorviante delle decisioni pubbliche, “è parte integrante di una democrazia in salute,
strettamente collegato a valori universali come la libertà di espressione e il diritto di
petizione”.
La complessità del fenomeno si ri ette sulla sua regolazione, con un duplice impatto: da
un lato, supporta e su raga l’idea (e l’esigenza) di dare una disciplina al lobbying;
dall’altro, mostra però la di coltà nel fornire una risposta adeguata a governarla. Il
lobbying è un fenomeno sociale che muta in relazione al contesto, si modi ca e si adatta
alla sua stessa regolazione per meglio adeguarsi (in termini a volte elusivi) alla disciplina
che ne viene data.
D’altra parte, una serie di fattori esterni, ma strettamente legati, alla diretta regolazione
dell’attività di pressione incidono in modo importante sulle esigenze di una rinnovata
attenzione al tema: sicuramente non ultimo il cambiamento della forma partito, con la crisi
dei partiti di massa e l’emergere di nuovi movimenti politici. Il “peso” delle pressioni
lobbistiche sui processi decisionali pubblici è comunque sempre più avvertito per la sua
rilevanza, ma anche per la molteplicità di valori che entrano in gioco e che ne risultano
toccati.
L’OCSE (2010) ha contribuito a de nire alcuni standard nella regolazione del lobbying;
questo attraverso l’articolazione di una serie di elementi centrali in una disciplina e ettiva:
una de nizione di lobbying priva di ambiguità; misure di trasparenza sulla provenienza dei
fondi; standard chiari di comportamento, in particolare rispetto al revolving doors; misure
di monitoraggio e controllo adeguate.
Analogamente, il Center for Public Integrity statunitense ha individuato otto elementi
chiave per assicurare la “robustezza“ della regolazione del lobbying, tra i quali spiccano:
l’obbligo di registrazione dei lobbisti e dei loro clienti; le garanzie di accesso pubblico al
registro; le misure di enforcement; un periodo di ra reddamento post-employment per i
funzionari pubblici.
Non ultimo, Transparency International (2015) focalizza su tre assi (trasparenza, integrità,
uguaglianza) un decalogo di misure che nel loro insieme compongono una regolazione
completa del lobbying, tra le quali spiccano: politiche aperte e inclusive nella
composizione dei gruppi di esperti; codici etici e forme di autoregolamentazione dei
lobbisti; la presenza di un sistema di controllo e sanzione.
Il dibattito scienti co tende a focalizzarsi in particolare sulla presenza o meno di obblighi
di registrazione per i lobbisti, ed è anzitutto su questa base che si tende a distinguere i
diversi modelli di regolazione. C’è in e etti un ulteriore questione che emerge dall’analisi
del caso americano: la pressione degli interessi, come dinamica di partecipazione, è solo
una manifestazione di un fenomeno più ampio che è dato appunto dalla partecipazione
nei processi decisionali pubblici. In questi termini, una buona regolazione del lobbying è
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anche quella che lo ignora, non perché non ne conosce l’esistenza ma perché, tornando
al diritto di pressione, ciascuno di noi è lobbista di sé stesso, dei propri bisogni, e ha il
diritto di intervenire nelle decisioni che sono destinate a in uire sui propri interessi. Quindi
nel regolare il processo decisionale ne va assicurata la massima apertura e trasparenza, il
fatto che questo si svolga in condizioni di uguaglianza. Se questo avviene, e ciascuno è
posto in condizione di conoscere come si sviluppa un percorso decisionale (dalla
presentazione di un disegno di legge, al passaggio alle commissioni, e così via), sulla
base di quali regole, con quali nestre di intervento, allora il percorso decisionale è in
grado di fornire già di per sé garanzia rispetto ai rischi di “corruzione” delle scelte
pubbliche. Questo ci porta a un’immagine, spesso evocata, della “casa di vetro”
pubblica; la casa dell’amministrazione dovrebbe infatti essere di vetro, possibilmente non
oscurato.
Se il lobbying da cui guardarci è quello delle pressioni “indebite“, dei condizionamenti
eccessivi, della di usione di informazioni riservate, pare chiaro che la prima soluzione
verte proprio sull’integrità del personale pubblico, sulla presenza di usa di persone
consapevoli dei propri doveri all’imparzialità, orientate a trattare le diverse posizioni in
modo uguale, a valutare con competenza i pro e i contro delle diverse opzioni. Come per
la corruzione, la risposta migliore è in istituzioni di qualità.
Nella situazione italiana non mancano ottimi funzionari e amministratori ma questi difetti
sono spesso avvertiti. Se l’idea che propone Petrillo, di un sistema italiano per “interessi
oscuri”, nel quale la pressione è la regola ma questo avviene in condizioni di opacità e
strutturale disuguaglianza, si comprende bene come anche la migliore regolazione delle
lobby rischi di essere comunque inadeguata seppur necessaria.
Il problema dell’opacità del percorso decisionale pubblico nella sua massima espressione
(la legge) è tradizionalmente risolto anzitutto dalle dinamiche rappresentative, dal
principio di pubblicità delle sedute e dei lavori parlamentari: il percorso decisionale, se
incanalato nei suoi binari tradizionali, segue un andamento prevedibile nel quale è
possibile intervenire in condizioni uguali, e la decisione emerge in modo relativamente
trasparente nel rapporto con gli interessi che pure hanno mirato a condizionarla, nelle
sedi formali e in quelle informali. Se, invece, il quadro della procedura legislativa diventa
caotico, si sposta dal parlamento al governo, in questa opacità sguazzano più facilmente
i faccendieri degli stessi lobbisti, e la decisione emerge solo quando già adottata, con
l’intervento di qualche anonima “manina” di cui solo i retroscenisti riusciranno a
rintracciare il proprietario.
Vale, allora, in questo contesto, il suggerimento di Picci e Vannucci sull’approccio zen alla
lotta alla corruzione: è necessario uno sguardo laterale, col quale osservare non la
corruzione ma le istituzioni pubbliche, operando per creare le condizioni perché sia non
solo trasparente ma anche “leggibile”. In questi termini la regolazione del lobbying, che
non perde utilità, è però solo un capitolo di un approccio più complessivo a politiche di
open government (di un sistema istituzionale aperto).

Paragrafo 3.6, Un non-modello? La regolazione in diretta da


“strisciante” ad “avvolgente”

Sì è detto dei due modelli di regolazione del lobby: il più di uso è però un terzo “non-
modello”, quello della regolazione assente. È infatti prevalente la tendenza a non
regolare direttamente il fenomeno del lobbying.
Quello della regolazione indiretta (che nel caso italiano Petrillo de nisce “strisciante ad
andamento schizofrenico“) è forse un terzo modello: così è in particolare per quelle
esperienze, come quella italiana, in cui il rapporto lobbistico arriva a essere oggetto di
attenzione su più versanti, con una tendenza a una regolazione sempre più pervasiva che
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nisce per “avvolgere“ il fenomeno del lobbying, sia pure astenendosi dal fornirne una
regolazione diretta.
Tradizionalmente, in Italia ci troviamo di fronte a un modello nel quale l’azione politica è
stata spesso frutto di accordi di natura informale tra i soggetti istituzionali e le forze della
rappresentanza economica e sociale: questo modello, a partire dalla ne degli anni 80 del
secolo scorso, ha assunto forme degenerative non solo per l’assenza di regole ma anche
per una crisi del sistema dei partiti. Questi caratteri hanno giusti cato a lungo l’assenza di
una regolazione di un tema visto come interno alle dinamiche del sistema politico: ne
discende che il modello italiano è tradizionalmente riconducibile a quello caratterizzato da
una regolazione frammentata e indiretta del fenomeno, e dall’assenza di una disciplina
speci ca e organica del lobbismo. Appare esserci, però, dietro questo vuoto regolatorio,
non solo l’inerzia, ma anche l’ombra di impostazioni ideologiche di fondo. L’idea è quella
di una rappresentanza politica che agisce in nome di una volontà generale. Da ciò deriva
una reticenza ad ammettere (e formalizzare) che “il re è nudo” e che la decisione pubblica,
anche legislativa, è frutto di una negoziazione con i rappresentanti di interessi particolari.
Un approccio, questo, che determina i caratteri di un quadro normativo che a un tempo
ri uta ideologicamente l’idea di una disciplina del lobbismo e, ntanto che i partiti politici
di massa mantengono una forza e ettiva, alimenta la resistenza dello stesso sistema
politico-partitico ad accettare la formalizzazione di canali “paralleli” in grado di mettere in
relazione interessi particolari e decisori pubblici.

L’a ermarsi, proprio in numerosi paesi tradizionalmente legati a questo modello di


regolazione indiretta, di una robusta legislazione volta a contrastare i fenomeni di
corruzione politica e amministrativa produce l’e etto di un avvicinamento dei modelli sia
in termini sostanziali (di contenimento delle degenerazioni che possono accompagnarsi
allo scambio lobbistico), sia di tensione alla diretta regolazione del lobbismo, che resta
però ancora frammentaria e incompleta.

Capitolo 4, I cantieri della regolazione delle lobby

Paragrafo 4.1, Strade provinciali, strade europee

In Italia l’approccio alla regolazione delle lobby manifesta caratteri peculiari: mentre
persiste l’incapacità di fornirne una diretta regolazione, sono continui i tentativi di darne
una disciplina legislativa che risultano però sempre infruttuosi, e d’altra parte questa
assenza è contraddetta, o forse bilanciata, dalla proliferazione di regole indirette,
settoriali, parziali, variamente rivolte a far emergere, circoscrivere, imbrigliare l’attività dei
rappresentanti di interessi “particolari“ o “organizzati“. Una tendenza, quest’ultima, che
conosce una forte accelerazione nella stagione dell’anticorruzione.
Proprio la spinta generata dalle politiche anticorruzione spiega l’accelerazione che la
regolazione del lobbying sta conoscendo in Europa. Pur senza arrivare all’ampiezza
dell’impianto normativo statunitense, si iniziano a ritrovare interessanti regolazioni volte in
particolare a rendere trasparente l’attività dei gruppi di pressione mediante istituti di
accreditamento e obblighi di registrazione: si tratta però di una sviluppo recente.
Nello scenario europeo, una prima esperienza con questi caratteri è quella tedesca. A
partire dal 1972 il Bundestag ha previsto la registrazione di associazioni e dei loro
rappresentanti e quindi la presenza di un registro pubblico nel quale si iscrivono le
associazioni che intendono rappresentare o difendere interessi a livello di organi federali.
Si tratta, in ogni caso, di un impianto considerato poco e cace, con percentuali di
adesione molto ridotte ai registri volontari.
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Soluzioni analoghe sono rinvenibili nei Paesi Bassi, dove è previsto, grazie a un
regolamento parlamentare del 2012, un registro ad adesione volontaria nella camera
bassa del parlamento. Un’esperienza particolarmente ine cace.
Si può ricondurre in questo solco anche la prima esperienza francese, dove un sistema
di registrazione dei lobbisti è stato introdotto nel 2009 attraverso regolamentazioni relative
all’attività delle due camere. La registrazione del lobbista è, anche in questa esperienza,
una scelta volontaria ma incentivata. Dall’iscrizione discendevano infatti diritti di accesso
alle sedi parlamentari. Il modello presentava delle signi cative lacune che ne limitavano
l’e cacia: “le norme sul lobbismo sono ridotte a una questione di accesso e sicurezza e
non di trasparenza della decisione pubblica“. Nel quadro delle riforme anticorruzione
l’approccio francese al tema si è evoluto, con una transizione di modello (da quello
Bruxelles verso quello Washington), grazie alla legge 1691 del dicembre 2016. L’iscrizione
al registro, obbligatoria, comporta doveri di trasparenza e l’adesione a regole
deontologiche, sui quali vigila l’Haute Autorité.
Oltre la manica, la disciplina dell’attività di lobbying è stata introdotta nel 2014 con il
Lobbying Act, che ha introdotto un meccanismo di registrazione obbligatoria dei lobbisti
professionali, prevedendo misure di trasparenza e limiti di spesa per le campagne
elettorali (in Inghilterra previsti obblighi di registrazione e trasparenza per qualsiasi
organizzazione diversa dai partiti politici che voglia spendere più di 20.000 £ in iniziative
riconducibili alle dinamiche elettorali).

Slovenia, Austria e Irlanda, nel quadro di una complessiva disciplina anticorruzione,


hanno adottato una regolamentazione delle lobby che, quanto a speci ci caratteri relativi
alla regolazione del fenomeno, si può collocare nel solco del modello nord americano.
La legge slovena del 2011 si pone l’obiettivo di “ra orzare l’integrità e la trasparenza,
nonché la prevenzione della corruzione e di evitare e combattere i con itti di interesse”:
con questa legge è istruita una commissione speciale per la prevenzione della corruzione.
La registrazione dei lobbisti è obbligatoria per tutti gli individui che lavorano a titolo
privato per in uenzare la normativa. Nell’esperienza slovena un’enfasi speci ca è riposta
sulla necessità per i funzionari di dichiarare i contatti intercorsi con rappresentanti di
interessi.
Questo modello è stato seguito anche dall’Austria, con la legge per la trasparenza delle
attività di lobbying e advocacy approvata nel 2012.
Anche la disciplina irlandese, introdotta nel marzo 2015 con il Regulation of Lobbying
Act, si pone lo scopo di informare il pubblico su chi sono i lobbisti, quali sono le modalità
di relazione con i decisori pubblici e gli obiettivi attesi. La legge disciplina un apposito
registro, gli obblighi di registrazione e un codice di condotta dei lobbisti.
Tra i maggiori paesi europei spiccano per assenza Spagna e Italia, che come la Francia
risentono probabilmente anche di una tradizionale resistenza culturale ad accettare l’idea
della “negoziazione delle norme” che è sottesa alla istituzionalizzazione del lobbying.

Paragrafo 4.2, Cantieri nazionali, regionali e locali

La crescente attenzione al tema in Italia è ben espressa dalla molteplicità di approcci, di


frammenti di un discorso giuridico sulle lobby. È sempre più di usa una
regolamentazione da parte di speci che istituzioni dotate di potestà legislativa, a partire
dalla recente disciplina della Camera dei deputati, collocata tra i modelli di regolazione
morbida.
La Giunta per il regolamento della Camera, con la Regolamentazione dell’attività di
rappresentanza di interessi particolari nelle sedi della Camera dei deputati (2016), ha
posto una disciplina rivolta ad assicurare pubblicità e trasparenza di queste attività se
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svolte nei confronti dei parlamentari e presso le strutture del parlamento. Ci troviamo di
fronte a un registro, volontario, a cui si collegano anche obblighi di dichiarazione annuali
relativi all’attività svolta e ai contatti lobbistici intercorsi, l’adesione al quale è condizione
per l’accesso alla sede della Camera. Con successiva deliberazione dell’U cio di
presidenza sono state de nite nel dettaglio le modalità di iscrizione, le modalità di
accesso e circolazione nella Camera dei deputati dei soggetti iscritti, i contenuti delle
relazioni annuali, le sanzioni e la loro irrogazione. Per quanto si tratti di una regolazione
decisamente morbida (e di limitata e cacia, se non nei termini della regolamentazione
dell’accesso all’edi cio), si segnala qui il periodo di ra reddamento richiesto ai decisori
politici prima dell’iscrizione al registro (12 mesi). Va però detto che un triplice ordine di
motivi rende comunque particolarmente facile aggirare l’obbligo di registrazione (l’attività
può svolgersi fuori dall’edi cio della camera, l’attività può non essere “professionale”,
l’attività può non rivolgersi ai deputati ma ad esempio ai loro collaboratori), e in ogni caso
la normativa non si applica alle audizioni. Una normativa forse “manifesto”, in ogni caso
frammentaria e primordiale.
La disciplina dei rapporti con i lobbisti ricorre d’altra parte con crescente attenzione a
livello regionale: varie regioni hanno emanato da tempo leggi per regolamentare l’attività
di rappresentanza di interessi presso le proprie istituzioni. Guardando la disciplina
legislativa del lobbying, si segnala una prima stagione di regolazione in Toscana, Molise e
Abruzzo (tra il 2002 e il 2010): per quanto il giudizio non sia nel complesso positivo, nuove
leggi in materia sono state più recentemente approvate, tra il 2015 e il 2017, anche la
Calabria, Campania, Lombardia e Puglia. La legge pugliese è la più organica e la più
convincente tra le leggi regionali: prevede tanto un registro d’iscrizione obbligatoria
(collegato a un codice di condotta) quanto un’agenda pubblica relativa agli incontri tra
decisori pubblici e portatori di interesse. Un caso particolare è quello della regione Lazio,
dove la disciplina è solo di tipo programmatico, quale assunzione di un impegno nel
quadro della legge regionale sulla promozione della legalità; impegno, peraltro, sin qui
non rispettato.
Queste discipline regionali si intrecciano, nella stagione più recente, con le sollecitazioni
dell’ANAC e niscono quindi per ri ettere alcuni contenuti e approcci tipici della logica
della prevenzione della corruzione: con l’e etto di un irrobustimento della capacità di
regolazione dei fenomeni lobbistici nella loro dimensione amministrativa. Questo è uno
dei percorsi che, sempre su base decentrata e di singole istituzioni, sta producendo
ulteriori spezzoni di regolazione: una via che matura nel cuore del sistema di
anticorruzione.
Nell’impianto della legge anticorruzione (6 novembre 2012), le amministrazioni devono
dotarsi di piani di prevenzione della corruzione, e nel fare questo sono tenute a seguire le
indicazioni fornite dall’Autorità nazionale attraverso il Piano nazionale anticorruzione.
Questo piano è oggetto di aggiornamenti annuali, ed è in particolare nella delibera di
aggiornamento del primo piano, nel novembre 2015, che l’ANAC individua il tema del
lobbying come ambito speci co su cui intervenire con misure di prevenzione.
L’ANAC ha quindi individuato come misura speci ca di prevenzione quella della
“regolazione dei rapporti con i rappresentanti di interessi particolari (lobbies)”: l’autorità
sollecita le amministrazioni a una regolazione “decentrata” del lobbying. Ne deriva
l’incentivazione di un sistema “fai da te”, che produce soluzioni di erenziate per singole
amministrazioni, che però scontano l’assenza di una legge generale che de nisca il
fenomeno. La stessa ANAC, Autorità Anticorruzione, ha istituito recentemente un’agenda
pubblica, attraverso la quale viene data evidenza dei “contatti” intercorsi tra i vertici
dell’autorità e i suoi dirigenti da un lato, e, dall’altro, i portatori di interessi. A livello
governativo le sollecitazioni dell’ANAC contribuiscono alla di usione, che matura però
anche sulla base di autonome scelte politiche dei diversi ministri, di regolamentazione del
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rapporto con i portatori di interessi: in questo senso, la cornice dell’anticorruzione
agevola la di usione di modelli prima non assenti, ma maggiormente estemporanei ed
episodici. Un registro della trasparenza, ad esempio, accompagnato da un codice di
condotta e da un’agenda pubblica, è stato previsto durante il suo mandato dal ministro Di
Maio. Durante l’incarico del ministro Madia, presso il ministero della pubblica
amministrazione è stata attivata un’agenda pubblica degli incontri (2016) che è durata il
tempo del suo incarico di governo. Il fatto che queste iniziative siano legate alla sensibilità
e all’iniziativa dei vertici politici le rende particolarmente fragili e volatili, e in ciò risiede
forse il principale limite di queste soluzioni, tra le quali si segnala comunque come
ricorrente quella di rendere pubblica l’agenda di incontri del ministro.

Paragrafo 4.3, Qualità e apertura dei processi decisionali

Un percorso diverso passa per la costruzione di un processo decisionale di qualità, più


trasparente e inclusivo. In questa direzione di promozione di un modello di processo
decisionale trasparente e inclusivo vanno riforme diverse, alcune di ampio respiro, altre
dal carattere più tecnico.
Le normative dell’AIR (analisi di impatto della regolazione), mirando ad assicurare la
“qualità della regolazione”, potrebbero contribuire alla soluzione di questo problema.
L’esigenza di un’attenzione al contributo dei portatori di interesse nella formazione della
decisione di regolazione è esplicito nella disciplina dell’AIR, e quindi nella direttiva della
presidenza del Consiglio che regola le consultazioni nel quadro dell’AIR, del febbraio
2018. Si tratta di regole che impongono, in sostanza, al decisore di valutare
preventivamente l’impatto delle scelte che si stanno assumendo, svolgendo
un’analisi delle motivazioni che richiedono un intervento normativo, identi cando gli
obiettivi che intende perseguire, elaborando una serie di opzioni (inclusa quella di non
intervento), pre gurando gli e etti attesi sui cittadini e imprese, e motivando dunque la
scelta nale. Ai sensi della normativa richiamata, nel corso dell’AIR l’amministrazione
svolge consultazioni con i vari portatori di interesse al ne di raccogliere dati, opinioni e
suggerimenti. Queste procedure sono spesso valutate con scetticismo misto a
condiscendenza. Pur con i suoi limiti, il percorso dell’AIR va tuttavia continuato e
ra orzato.
Il lobbying si sviluppa in ogni caso in un contesto ricco di altri spezzoni di regolazione, un
contesto fatto di soluzioni e di scorciatoie. Così è per le regole sulla partecipazione alle
decisioni di tipo amministrativo.
Un caso interessante, espressione della tendenza a dare una cornice normativa a queste
esigenze di partecipazione nei procedimenti “generali” è quello della disciplina del
“dibattito pubblico”: si tratta di una soluzione sperimentata in primo luogo in Francia che
prevede il coinvolgimento della popolazione e dei corpi sociali in vista di interventi di
particolare impatto. Il modello del dibattito pubblico prevede che l’amministrazione che
vuole realizzare un’opera (o operare una scelta destinata ad avere un impatto signi cativo
su aree o parti di popolazione), si organizzi per favorire il coinvolgimento e il dibattito,
assecondandolo e cercando di recepirne per quanto possibile i risultati in modo
imparziale. Le occasioni di dibattito pubblico consentono un intervento paritario e
trasparente dei portatori di interessi e in questo senso il meccanismo si può legare alle
dinamiche del lobbying; manca una legge che disciplini in modo generalizzato l’istituto
del dibattito pubblico (previsto però a volte a livello regionale), ma una soluzione di questo
tipo è stata prevista nel campo delle opere pubbliche dal codice dei contratti pubblici.
Nella formulazione che viene data dell’istituto, peraltro, la posizione dei “lobbisti“ viene
posta in risalto, tanto che questa previsione diventa espressamente un “pezzo“ della
regolazione del lobbying. L’articolo 22, comma 1o, regola dunque la Trasparenza nella
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partecipazione di portatori di interessi e dibattito pubblico, e ha previsto che le
amministrazioni aggiudicatrici (chi realizza l’opera) sono tenute a pubblicare “tutti i
contributi ricevuti da portatori di interesse in relazione a lavori pubblici e servizi sia in fase
di programmazione che nelle fasi di progettazione ed esecuzione“, nonché “i contributi ed
i resoconti” degli incontri avvenuti. Come spesso accade per le deleghe più innovative, la
sua attuazione ne ha ridimensionato la portata.

Paragrafo 4.4, Imparzialità dell’amministrazione, integrità dei funzionari

Lo sviluppo di un pezzo importante di percorso nella regolazione del lobbying dipende


sicuramente -non solo in Italia- dallo sviluppo di nuove politiche di contrasto e
prevenzione della corruzione. Si legano a queste riforme numerosi interventi che hanno
inciso sul fenomeno, specie sul lato dei “decisori”, dei quali va ra orzata l’imparzialità
soggettiva e l’integrità.
La legge 190/2012 (la legge anticorruzione) rivolge le sue strategie di prevenzione della
corruzione essenzialmente alle pubbliche amministrazioni: se ne possono ricavare
signi cativi elementi di regolazione del Lobbying rivolto agli apparati amministrativi.
A margine dell’emersione del concetto di “corruzione amministrativa” si evidenzia un
concetto di “lobbying amministrativo”, intendendo con questo un fenomeno che si
concentra nella dimensione burocratica e che quindi risulta direttamente interessato dalle
regole rivolte a ra orzare l’imparzialità, oggettiva e soggettiva, nelle amministrazioni
pubbliche.
Vista dall’angolazione dell’anticorruzione, la pressione degli interessi espone a un rischio
di corruzione in quanto si producono situazioni di con itti di interesse in capo al
decisore: il problema di un decisore che deve essere in posizione imparziale rispetto agli
interessi in gioco è stato tradizionalmente a rontato cercando di evitare il pericolo di un
coinvolgimento di interessi “propri” del “funzionario” (sinonimo di “decisore” nell’impianto
della legge anticorruzione). Da qui istituti come il dovere di astensione, che opera quando
nella decisione sono coinvolti interessi propri, di parenti o congiunti, di persone con le
quali si ha grande familiarità. Il lobbying però chiama in causa interessi diversi, “terzi”
rispetto al decisore ma ai quali questo può essere “sensibilizzato” dall’azione lobbistica:
si tratta allora di contenere entro limiti corretti questa “sensibilizzazione”. Operano in
questo senso i doveri di condotta del funzionario: che però, paradossalmente, in Italia
sono previsti in modo sostanzialmente analogo per tutti i dipendenti pubblici. In sostanza,
mentre nella costruzione statunitense i doveri sono previsti “dal presidente a
scendere“ (scemando man mano che le posizioni diventano meno rilevanti), in Italia la
regolazione delle condotte rimane a data pressoché esclusivamente a meccanismi
pensati per tutti i dipendenti (e quindi che scemano man mano che le posizioni diventano
più rilevanti). Da questo deriva una limitata e cacia di strumenti altrimenti
assolutamente interessanti.
Nel codice di comportamento sono posti una serie di doveri del funzionario: i divieti
relativi a regali e altre utilità, le regole sull’obbligo di astensione, la trasparenza negli
interessi nanziari. Nel disciplinare i rapporti con il pubblico, il codice di comportamento
pone regole sulla di usione di informazioni relative a procedimenti e operazioni
amministrative, sull’assunzione di impegni o l’anticipazione dell’esito di decisioni: tutte
condotte che rientrano tipicamente tra quelle richieste al funzionario pubblico nell’ambito
di un rapporto lobbistico. Per questa via, si pongono a livello normativo regole che
incidono sul lobbying colto però dal lato del decisore pubblico burocratico, ra orzandone
l’imparzialità e l’integrità, limitandone quindi le possibili devianze. A queste regole di
comportamento nel corso della propria attività si a ancano regole che cercano di
prevenire situazioni di con itto di interessi, intervenendo con una logica di tipo oggettivo:
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le norme sulle incompatibilità e inconferibilità (in particolare fa riferimento al divieto di
conferire incarichi a soggetti in ragione delle attività precedentemente svolte), la disciplina
che limita il pantou age (il “mettersi in pantofole”, passando dal pubblico al privato)
guardano a possibili rischi di indebiti condizionamenti del decisore pubblico e cercano di
prevenirli. È nel quadro di questo impianto di regole anticorruzione che viene disciplinato
il fenomeno delle porte girevoli e quindi limitato il passaggio dei decisori pubblici a
lobbisti, e viceversa.
In sintesi, più ancora dei singoli meccanismi di divieto vale la capacità di selezionare,
formare, motivare dei buoni funzionari, come tali meno esposti (o meglio, più refrattari) ai
rischi che discendono dalla pressione degli interessi sui processi decisionali pubblici.

Paragrafo 4.5, Lobbying e tra co di in uenze

Il lobbying è tutt’altro rispetto alla corruzione, ma in alcune sue forme degenerate può
tradursi in pressioni indebite e quindi, in senso lato, in corruzione. La legge richiede,
perché possa parlarsi di corruzione, un vero e proprio “patto scellerato” tra corrotto e
corruttore, con lo scambio di un’utilità per l’esercizio della funzione.
Più complesso il discorso per il “tra co di in uenze illecite”, la cui disciplina arriva a
lambire in modo più diretto l’attività di lobbying,
La legge 190 del 2012 serve a contrastare il fenomeno della corruzione e punire sia il
“mediatore, che fa commercio della sua in uenza su di un pubblico u ciale, sia
l’acquirente di questa mediazione. Precisamente, è punito ora chi “sfruttando o vantando
relazioni esistenti o asserite con un pubblico u ciale, indebitamente fa dare o promettere,
a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un
pubblico u ciale”. Si può cogliere subito la parziale sovrapponibilità tra questa gura di
reato e l’attività propria e tipica del lobbista. La “salvezza” dell’attività del lobbying sembra
risiedere essenzialmente nel fatto che la mediazione deve essere “illecita”, vale a dire
orientata al compimento di un atto contrario ai doveri di u cio, e questo potrebbe
consentire di circoscrivere il contenuto dell’accordo illecito distinguendolo dalle corrette
condotte lobbistiche: un problema rilevante è dato dal fatto che nel caos normativo che
caratterizza il sistema amministrativo non è così semplice inquadrare quando la condotta
per la quale si è mediato è in contrasto con la legge e che, di conseguenza, manca una
delimitazione delle attività di lobbying lecito. Quella di cui si parla è un’ipotesi di reato non
solo sfuggente e generica, ma che si muove in un contesto nel quale la complessità del
quadro normativo e le dinamiche caotiche della decisione rendono sfumato il con ne tra
corruttori, faccendieri, rappresentanti di interessi leciti. C’è chi vede della strategia in
questo caos: “c’è l’idea che il complesso delle patologie del quadro normativo interno
possa promuovere l’adozione di atti imprevisti che, di fatto, di cilmente potrebbero
quali carsi come illeciti o reati in senso stretto”.
Il problema però principale è proprio il fatto che manca una corrispondente de nizione
del lobbying “lecito”, col che si determina un’area grigia. In assenza di una regolazione
che permetta di tracciare una precisa linea di con ne tra la legittima attività di in uenza e
quella esercitata indebitamente, il rischio è quello di scambiare lobbisti per faccendieri e
viceversa.

Paragrafo 4.6, Le regole sul nanziamento della politica

Un tema tradizionale è quello del nanziamento della politica, da intendere sia come
nanziamento dei partiti e dei singoli politici, che come speci co sostegno elettorale ai
candidati a cariche pubbliche. Il rischio avvertito è quello di decisori pubblici asserviti a
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interessi già prima del singolo processo decisionale: “a libro paga”, nelle ipotesi peggiori,
comunque fortemente condizionati da debiti di riconoscenza, in quelle migliori.
Con un decreto legge approvato a ne 2013, il governo Letta ha disposto la
soppressione del nanziamento pubblico dei partiti, che è concretamente cessato dal
2017 ed è stato sostituito da forme di contribuzione volontaria (il 2%), detrazioni scali
per le donazioni ai partiti (che non possono comunque superare i 100.000 €) e altre
misure minori. Le regole sul nanziamento privato non solo hanno posto limiti quantitativi,
ma hanno anche previsto obblighi di trasparenza e meccanismi di controllo.
In sintesi, è fatto obbligo ai partiti di trasmettere, entro tre mesi dalla ricezione, alla
presidenza della Camera dei deputati l’elenco dei soggetti che hanno erogato
nanziamenti o contributi di più di 5000 € nell’anno.
Il fatto ormai assodato da vari scandali e inchieste è che per eludere questi limiti e
obblighi di trasparenza si è assistito al proliferare di fondazioni politiche, collegate a partiti
o più spesso a speci ci personaggi pubblici, quale canale alternativo di nanziamento
delle attività politiche.
L’aspetto principale della norma sta proprio nella de nizione di “associazione, fondazione
e comitato politico”, che si ritiene riferirsi a quell’organizzazione i cui organi direttivi o di
gestione sono composti per almeno un terzo da “politici”. Nel complesso, l’impianto
attuale del sistema di nanziamento della politica richiede probabilmente di essere
ripensato a fondo.

Paragrafo 4.7, Cantieri stradali e cantieri ferroviari

Pur riconoscendo l’importanza di una legge sulle lobby, forse la cosa più importante per
assicurare la “giusta” pressione, sono istituzioni “trasparenti”.
Un importante provvedimento del 2013 (detto “codice della trasparenza”) a erma che la
trasparenza si rivolge a “tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all’attività amministrativa e favorire forme di use di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali”: in questi termini la trasparenza è presupposto
per la partecipazione in condizioni di uguaglianza, fattore abilitante della stessa
cittadinanza.
Esporre le decisioni pubbliche e i processi decisionali delle istituzioni all’e ettiva
conoscenza da parte dei cittadini consente di far retrocedere le ombre che si stagliano da
tempo sulle decisioni pubbliche. Il problema è che mentre ai “piani bassi” del sistema
pubblico i meccanismi di trasparenza si moltiplicano, pur restando migliorabili, i processi
decisionali al più alto livello, quello delle scelte di indirizzo politico legislativo, manifestano
una straordinaria opacità. Visto dal lato del lobbying, e delle sue complicazioni, questo
approccio legislativo diventa una sorta di parco giochi senza controlli. In questo senso,
ripristinare un minimo ordine nelle procedure legislative diventa condizione per ripristinare
il buon funzionamento del sistema politico, nonché la ducia dei cittadini nelle istituzioni e
nella legge come espressione della volontà generale.
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