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Alf Ross-Diritto e Giustizia

Capitolo primo-I problemi della jurisprudence

1. Terminologia e tradizione
La jurisprudence è una parte della conoscenza giuridica. Questo termine si usa per indicare vari tipi di
ricerche introno al diritto. Esso non è generalmente usato sul continente, al suo posto sono usati
termini come "filosofia del diritto", scienza generale del diritto ecc.
Nell'ambito degli studi riuniti sotto l'etichetta"jurisprudence" si possono distinguere tre indirizzi di
ricerca, a cui si possono far corrispondere tre diverse scuole. Essi sono:
1. Il problema del concetto o della natura del diritto.
Questo indirizzo comprende altri concetti fondamentali che si considerano essenzialmente connessi
col concetto di diritto, per esempio le gonfi del diritto, il soggetto giuridico, il dovere giuridico, la norma
giuridica, la sanzione giuridica ecc.
La scuola di jurisprudence che studia soprattutto questo tipo di problemi, è nota come scuola
analitica. La scuola analitica fu fondata dall'inglese John Austin, che tenne nel 1828-32 un corso di
lezioni all'University College di Londra. Queste furono più tardi pubblicate. In vita Austin non ottenne
gran fama: per ragioni economiche fu costretto a rinunciare all'insegnamento e, al momento della
morte, era quasi del tutto sconosciuto. Solo più tardi la sua fortuna mutò. Nel 1861-63 la vedova
pubblicò una nuova e completa edizione delle lezioni che poi furono più volte ristampate. Il metodo
analitico di Austin ha lasciato traccia su un così largo numero di studiosi inglesi ed americani fino ai
giorni nostri che si può parlare di una scuola analitica; si possono ricordare, per esempio, Markby,
Amos, Holland, Clark, Hearn, Salmond, Gray, Paton. Solo nel XX secolo Austin influenzò gli studiosi
continentali, particolarmente l'ungherese Felix Somló, e lo svizzero Ernest Roguin. La teoria pura del
diritto di Hans Kelsen, il più importante contributo del secolo alla filosofia del diritto, appartiene
parimenti alla suola analitica. Storicamente tuttavia non vi è alcuna connessione fra la teoria pura del
diritto e la scuola analitica. La scuola analitica nel suo complesso porta l'impronta di un formalismo
metodico. Il diritto è considerato come un sistema di norme positive, cioè veramente effettive. La
scienza del diritto mira solamente ad accertare l'esistenza di queste norme nel diritto vigente, senza
occuparsi di valori etici o di considerazioni politiche. La scuola analitica non si pone neppure questioni
relative alle circostanze sociali connesse in qualche modo col diritto: e cioè i fattori sociali che
determinano la creazione del diritto e il suo sviluppo, e gli effetti sociali che sono prodotti o che si
vogliono produrre mediante le norme giuridiche. Questo formalismo ha trovato una radicale
espressione nelle opere di Kelsen. La purezza che egli rivendica alla scienza giuridica, ha un duplice
scopo: da un lato liberare la scienza del diritto da ogni ideologia morale o politica; e dall'altro liberarla
da ogni traccia di sociologia, cioè da considerazioni che si riferiscono all'effettivo corso degli eventi.
Secondo Kelsen la scienza del diritto non è né filosofia morale né teoria sociale, ma una specifica
teoria dogmatica in termini normativi.
2. Il problema dello scopo o dell'idea del diritto.
Questo indirizzo di ricerche si occupa di quel principio razionale che conferisce al diritto la sua
specifica validità o forza vincolante, e che è il criterio per giudicare della "giustezza" di una norma
giuridica. In generale, l'idea del diritto è concepita come giustizia. Sorgono a questo proposito
questioni fondamentali circa il contenuto e la giustificazione del principio di giustizia; il rapporto fra
giustizia e il diritto positivo; e il posto che al principio di giustizia spetta nella legislazione,
nell'amministrazione del diritto e simili. Quella branca di jurisprudence che si occupa essenzialmente
di problemi di questo tipo, è nota come jurisprudence etica o filosofica del diritto naturale. Nei tempi
moderni il termine "filosofia del diritto" è spesso riservato esclusivamente a questo particolare ramo.
Tale indirizzo di pensiero, che è strettamente connesso col punto di vista religioso o metafisico
filosofico, ha una lunga storia. La filosofia del diritto naturale si estende dal tempo dei primi filosofi
greci fino ai giorni nostri. Questa filosofia raggiunse il suo classico apice nei grandi sistemi
razionalistici del XVII e XVIII secolo. Dopo la reazione storicistica e positivistica del XIX secolo, la
filosofia del diritto naturale ha di nuovo guadagnato terreno nel nostro secolo. Se ne parla come una
rinascita del diritto naturale. La sua base filosofica è, in primo luogo e soprattutto, la filosofia
scolastica cattolica che si è perpetuata nel giusnaturalismo tomistico; nonché vari sviluppi di Kant e di
Hegel che hanno trovato aderenti specialmente in Germania e in Italia. Le teorie del diritto naturale
hanno pure trovato una base in altre scuole filosofiche (l'utilitarismo, la filosofia del solidarismo,
l'intuizionismo di Bergson, la filosofia di Husserl e altre).
3. Il problema dell'interferenza fra diritto e società.
Questo indirizzo di ricerca include i problemi relativi all'origine storica e all'evoluzione del diritto; ai
fattori sociali che ai nostri giorni determinano il contenuto variabile del diritto; al suo rapporto di
dipendenza e di influenza con l'economia e con la coscienza giuridica popolare; agli effetti sociali di
certe norme o di certi istituti giuridici; al potere del legislatore di dirigere l'evoluzione sociale; al
rapporto fra il diritto "vivente" e il diritto dottrinario o libresco; e alle forze che di fatto reggono
l'applicazione del diritto in contrasto con gli argomenti razionali cui le sentenze fanno ricorso. Questa
scuola di jurisprudence è nota come scuola storico-sociologica. Essa può poi a sua volta essere
divisa in due rami, uno prevalentemente storico e uno prevalentemente sociologico e psicologico. Al
pari della jurisprudence analitica è di data recente. Con pochi precursori nel XVIII secolo (Vico,
Montesquieu), una considerazione storica del diritto nasce con la scuola romantica tedesca (Savigny
e Puchta). In Inghilterra Maine fondò una scuola di jurisprudence storica che si occupò del rapporto
fra diritto e società nei tempi antichi. Egli fu poi seguito da Bryce, Vinogradoff, Allen e altri. Il punto di
vista sociologico rappresentato da studiosi come Durkheim, Duguit, Pound, Timasheff e Llewellyn è
stato predominante in Francia e negli Stati Uniti. Interpretazioni psicologiche si trovano nelle opere di
Frank, Robinson e alti.

Il problema del concetto o natura del diritto è indubbiamente uno dei problemi principali della
jurisprudence. Su questo punto non vi è possibilità di dissenso. Sia quelli che accentrano la loro
attenzione soprattutto sulla validità ideale del diritto, sia quelli che si occupano dell'esistenza del
diritto in una società, devono necessariamente fondare le loro teorie su una concezione della natura
generale del diritto. Sembrerebbe quindi impossibile indicare l'oggetto proprio della jurisprudence
finché non sia stato risolto uno dei suoi principali problemi.

2. La natura del diritto


Il diritto è prima di tutto un linguaggio. Ross fa una digressione linguistica. Per enunciato linguistico,
secondo Ross, va inteso un consapevole impiego del linguaggio in un uso effettivo, orale o scritto.
Dall'enunciato in quanto fenomeno linguistico va distinto il suo significato. Questa distinzione è
necessaria, perché diversi enunciati possono avere lo stesso significato, proprio come lo stesso
enunciato può, secondo le circostanze, avere diversi significati. Il significato può essere di due tipi e
cioè espressivo o rappresentativo. Ogni enunciato linguistico ha un significato espressivo, cioè è
espressione di qualche cosa. Questo significa che, come parte di una situazione psicofisica, esso si
riferisce a quell'esperienza che ha dato origine all'enunciato. Qualunque cosa si dica, l'enunciato deve
essere stato causato da circostanze emotivo-volitive che hanno indotto a esprimersi, da una spinta a
comunicare idee ad altri oppure da un emozione che spontaneamente esige di essere manifestata.
In più certi enunciati linguistici hanno un significato rappresentativo, cioè l'enunciato "indica",
"simbolizza" o "rappresenta" uno stato di cose (es. "mio padre è morto").
Posti questi preliminari, si possono ora delineare le seguenti distinzioni concettuali:
a) enunciati che hanno insieme un significato espressivo e rappresentativo (es. "mio padre è morto").
Il significato espressivo sarà normalmente espressione di un bisogno di comunicare il fatto ad altre
persone. Il suo significato rappresentativo è detto "asserzione"; l'asserzione che lo stato di cose è
come segue. Questa asserzione può essere esaminata astraendo dall'enunciato e dal contesto di
esperienza che vi è associato. La sua verità o falsità può essere provata.
b) enunciati che hanno soltanto un significato espressivo. (es. "Ahi" o "Chiudi la porta"). Questi
enunciati non asseriscono niente, non simbolizzano nulla, non hanno un significato rappresentativo,
ma sono direttamente portatori di una "carica" emozionale o intenzionale. Il loro significato espressivo
non può essere separato dall'esperienza. Talvolta, (es. quando grido "Ahi"), l'enunciato non è emesso
con intenzione ed esso non mira ad influenzare altri, ma ha il carattere di riflesso automatico. Tali
enunciati sono detti esclamazioni. D'altra parte, (es. "Chiudi la porta"), l'enunciato è emesso con
l'intenzione di influire direttamente su un'altra persona in un certo modo. L'aspetto caratteristico di
esso è che l'influenza è diretta, cioè che essa è esercitata mediante la forza di suggestione, o
pressione contenuta nell'enunciato stesso e non trasmessa mediante la comunicazione di
un'asserzione. E' chiaro che si possono suscitare impulsi all'azione anche tramite il secondo metodo.
Non c'è un termine generale per indicare le espressioni portatrici    di intenzione ed aventi carattere
emotivo-volitivo. In tale categoria rientrano fenomeni eterogenei quali comando, dirtettiva,
suggerimento, desiderio, ammonimento, supplica, richiesta. "Direttiva".

Di conseguenza si possono distinguere tre tipi di enunciati linguistici:


1) enunciati di asserzioni, cioè enunciati con significato rappresentativo
2) esclamazioni, cioè enunciati senza significato rappresentativo e senza alcun intento di esercitare
un'influenza
3) direttive, cioè enunciati senza significato rappresentativo, ma con l'intento di esercitare un'influenza
Ora, in questo quadro noi ci poniamo la domanda: a quale categoria appartengono le frasi che
ricorrono nelle norme giuridiche? Sembra ovvio che esse siano direttive. il diritto non è scritto allo
scopo di insegnare verità teoretiche, ma per guidare le persone a comportarsi in un certo modo
desiderato. Il significato logico delle norme non è quello di dare informazioni, bensì di prescrivere
comportamenti. La norma giuridica non è né vera né falsa, essa è una direttiva.
(Prescrizioni contenute in un manuale mirano a descrivere, non a prescrivere. Asserzioni, mostrano
com'è il diritto vigente, non direttive.)
Si è ora in grado di spiegarci perché "la natura del diritto" costituisca un problema e quale significato
esso abbia. Abbiamo visto che ogni proposizione che ricorre nello studio dottrinale del diritto contiene
come parte integrale    il concetto di "diritto valido". Perciò non è possibile descrivere accuratamente e
completamente il significato rappresentativo di tale proposizione finché non viene spiegato il concetto
di "diritto valido". Molte delle apparenti divergenze fra i giuristi possono essere attribuite al fatto che le
loro opere presuppongono tacitamente diversi significati di questo concetto. Questo problema è
specifico dello studio del diritto. Spogliato della sua formulazione metafisica, il problema della natura
del diritto diventa il problema di come interpretare quel concetto di "diritto valido", che è parte
costitutiva di ogni proposizione della scienza del diritto. Quale significato rappresentativo deve essere
assegnato a questo concetto? Questo problema non rientra nella competenza del giurista di
professione, e spetta quindi alla jurisprudence.

3.Analisi preliminare del concetto di "diritto valido"


Immaginiamo che due persone giochino a scacchi, mentre una terza le sta a guardare. Se lo
spettatore non sa niente di scacchi, egli non comprenderà cosa sta avvenendo. Se conosce altri
giochi probabilmente egli arguirà che si tratta di una specie di gioco. Ma egli non sarà in grado di
comprendere le singole mosse o di vedere qualche connessione fra di esse. Ancor meno avrà
qualche idea circa i problemi implicati in una particolare disposizione dei pezzi sulla scacchiera. Se lo
spettatore conosce le regole degli scacchi, ma oltre a ciò conosce ben poco la teoria del gioco, la sua
esperienza del gioco altrui muta carattere. Egli comprenderà che il movimento "irregolare" del cavallo
è la mossa del cavallo prescritta. Egli è in grado di riconoscere che i movimenti dei pezzi in gioco
sono mosse prescritte dalle regole. Entro certi limiti sarà anzi in grado di prevedere quanto avverrà.
Quel che egli conosce è che i giocatori si avvicendano nel fare le mosse e che ciascuna mossa deve
cadere entro il complesso delle possibilità permesse dalle regole relative ad una data disposizione dei
pezzi. Ma oltre a ciò, specialmente se i giocatori sono più che principianti, gran parte del gioco sarà
per lui un rebus. Egli non comprende la strategia dei giocatori, e non ha alcuna percezioni dei
problemi tattici della situazione. Per un'approfondita comprensione del gioco è importante conoscere
non solo le regole degli scacchi ma anche una certa parte della teoria del gioco. Infine v'è anche da
tener conto dello scopo che guida il gioco dei singoli giocatori. Normalmente si ritiene che un
giocatore gioca per vincere. Ma esistono altre possibilità (far vincere l'avversario, sperimentare o
saggiare il valore di una certa mossa). Codeste considerazioni circa il gioco degli scacchi contengono
un insegnamento particolarmente interessante. Se passiamo ad un altro livello di osservazione e
interpretiamo la serie degli eventi alla luce delle regole e della teoria degli scacchi, certi aspetti
dell'intera serie degli eventi, le mosse dei pezzi, risultano allora azioni rilevanti o significative per gli
scacchi. Il movimento del pezzo non è considerato come un mero cambiamento della posizione di
oggetti nello spazio, ma come una mossa nel gioco, e il gioco diviene un tutto significativo e coerente
perché le mosse si condizionano reciprocamente l'un l'altra e si configurano come attacco e come
difesa secondo i principî della teoria del gioco. Se teniamo d'occhio i giocatori, noi comprendiamo
ciascuna mossa fatta da ciascun giocatore dal punto di vista della loro conoscenza delle regole degli
scacchi insieme con la conoscenza che noi presumiamo che essi abbiano della teoria del gioco e del
fine che essi si sono preposti del gioco. E' necessario sottolineare che la "conoscenza" di cui stiamo
parlando non è quella di tipo causale. Qui non operiamo con leggi di causalità. Le mosse non stanno
in una qualche relazione causale reciproca. La connessione tra esse è stabilita con l'ausilio delle
regole e della teoria degli scacchi. La connessione è quella del significato. Si può inoltre affermare
che la presenza di un compagno è un fatto essenziale del gioco degli scacchi. Ogni giocatore ha la
sua parte da giocare, ma ciascuna parte acquista significato solo quando l'altro giocatore adempie la
propria. La necessità di un compagno si rivela quindi nel carattere intersoggettivo delle norme degli
scacchi. E' essenziale che ad esse debba essere attribuita la stessa interpretazione, quanto meno dai
due giocatori in una determinata partita. Altrimenti non ci sarebbe partita, e le singole mosse
rimarrebbero isolate senza alcun coerente significato. Ora, tutto questo suggerisce l'idea che il gioco
degli scacchi può essere inteso come un modello semplice di ciò che possiamo chiamare un
fenomeno sociale. La vita sociale umana in una comunità non è un caos di azioni individuali isolate
l'una rispetto all'altra. Essa acquista il carattere di una vita di comunità proprio per il fatto che
numerose azioni individuali (non tutte) sono rilevanti ed hanno significato in relazione ad un insieme di
comuni concezioni di regole. Esse costituiscono    un tutto significante, presentando quella stessa
relazione reciproca della mossa e della contromossa. Anche qui c'è un gioco reciproco che è motivato
e acquista il suo significato dalle regole comuni del "gioco" sociale. Ed è la coscienza di queste regole
che rende possibile la comprensione e in qualche misura la previsione del corso degli eventi. Ora,
esaminerò più a fondo cos'è esattamente una regola degli scacchi e in che modo è possibile stabilire
quali regole governano il gioco degli scacchi. Qui penso alle norme elementari degli scacchi, quelle
che determinano la sistemazione dei pezzi, le mosse, il "mangiare" e simili, e non alle regole della
teoria degli scacchi. Quanto a queste ultime basteranno poche osservazioni. Al pari di altre regole
tecniche esse hanno, ovviamente, la natura di giudizi teoretici di tipo ipotetico. Esse partono
dall'esistenza delle regole elementari figli scacchi e indicano le conseguenze che le diverse aperture
e gambetti recheranno al gioco, valutate in relazione alla probabilità di vincere la partita. Come altre
norme tecniche la loro forza direttiva è condizionata dall'interesse, in questo esempio dall'interesse di
vincere la partita. Se un giocatore non ha quest'interesse, allora la teoria del gioco è senza
importanza per lui. Le regole elementari degli scacchi, d'altra è arte, sono direttive. Benché siano
formulate come asserzioni circa la "capacità" o il "potere" dei pezzi di muovere e di "mangiare", è
chiaro che esse mirano ad indicare come il gioco debba essere condotto. Esse mirano direttamente,
cioè senza essere qualificate da un obiettivo sottinteso, a guidare il giocatore; è come se gli
dicessero: "Ecco come si gioca". Queste direttive sono sentite da ciascun giocatore come
socialmente vincolanti; ossia, un giocatore non solo si sente spontaneamente indotto ad un certo tipo
di azione, ma è nello stesso tempo sicuro che una violazione delle regole susciterà subito una
reazione da parte del suo avversario. D'altra parte, le regole degli scacchi non sfumano nella moralità;
questo dipende dal fatto che nessuno normalmente desidera violarle. Il desiderio di barare al gioco
deve essere dovuto al fatto che il giocatore ha uno scopo diverso da quello puro e semplice di vincere
secondo le regole del gioco. Come è possibile poi stabilire quali norme regolano il gioco degli
scacchi? Forse si potrebbe pensare di affrontare il problema dal punto di vista comportamentistico,
limitandoci a quanto può essere accertato mediante l'osservazione esterna delle azioni e rilevando
poi certe regolarità. Ma in questo modo non si potrebbe mai avere conoscenza completa delle regole
degli scacchi. Non sarebbe mai possibile distinguere certe abitudini, o anche certe regolarità
condizionate dalla teoria del gioco, dalle regole vere e proprie degli scacchi. La cosa più semplice,
forse, sarebbe di riferirci a certi regolamenti ufficiali. Ma anche questo potrebbe non bastare, poiché
non è certo che tali dichiarazioni corrispondano alla pratica. Talvolta, alcune partite vengono di fatto
giocate in modi diversi. Il problema di quali norme regolino gli scacchi, deve quindi, a stretto rigore,
essere inteso come riferentesi alle norme che regolano una partita effettiva tra due persone
determinate. Perciò non possiamo far altro che adottare un metodo introspettivo. Il problema è quello
di scoprire quali norme sono effettivamente sentite come socialmente vincolanti dai giocatori, nel
senso sopra indicato. Il primo criterio è che esse sono di fatto effettive nel gioco e che sono
esternamente accettabili come tali. Ma per decidere se le regole che sono osservate sono qualcosa di
più di un'abitudine o di un'azione motivata da ragioni tecniche, è necessario chiedere ai giocatori da
quali norme essi si sentano vincolati. Perciò possiamo dire: una norma degli scacchi "è valida"
significa che in un certo gruppo questa norma è effettivamente seguita perché i giocatori si sentono
socialmente vincolati dalla direttiva contenuta nella norma. Il concetto di validità (negli scacchi)
implica due elementi. Uno si riferisce alla reale effettività della regola che può essere stabilita
mediante l'osservazione esterna. L'altra si riferisce al modo in cui una regola è sentita come il motivo
della propria azione, cioè come socialmente vincolante.
C'è una certa ambiguità nel concetto di "regole degli scacchi". Le regole degli scacchi non hanno
alcuna realtà e non esistono indipendentemente dall'esperienza dei giocatori, cioè dalle loro idee di
certi modelli di comportamento e, insieme con queste, dall'esperienza emozionale di dovervi
obbedire. E' possibile astrarre il significato di un'asserzione, considerandola nel suo contenuto
puramente concettuale dall'intendimento che di quella abbia una certa persona in un certo tempo; e
proprio nello stesso modo è anche possibile astrarre il significato di una direttiva dalla concreta
esperienza della direttiva. In un'accurata analisi il concetto di regola degli scacchi deve quindi essere
scomposto in due parti: le idee sperimentate di certi modelli di comportamento (con l'elione che le
accompagna) e il contenuto astratto di queste idee, le regole degli scacchi. Così le regole degli
scacchi sono il contenuto ideale astratto (di natura direttiva) che rendono possibile, come schema di
interpretazione, la comprensione del fenomeno degli scacchi (le azioni delle mosse e i modelli
sperimentati di azione) come un tutto coerente di significato e determinazione, un gioco, insomma, di
scacchi; e, insieme ad altri fattori, rendono possibile la previsione entro certi limiti del corso del gioco.
Il fenomeno degli scacchi e le regole degli scacchi non sono reciprocamente indipendenti, come se
ciascuno avesse una realtà propria; essi sono diverse facce della medesima cosa. Il fenomeno degli
scacchi diventa proprio fenomeno degli scacchi solo quando è posto in relazione con le regole degli
scacchi e viceversa.
Lo scopo di questa discussione sugli scacchi è finalmente divenuto chiaro. Essa serve di guida per
stabilire che il concetto di "norma valida degli scacchi" può funzionare come modello per il concetto
"diritto valido". Anche il diritto può essere considerato come consistente in parte di fenomeni giuridici e
in parte di norme giuridiche in reciproca correlazione. "Diritto valido" dunque indica l'insieme astratto
di idee normative che servono come schema di interpretazione dei fenomeni giuridici in azione, il che
poi implica che queste norme siano effettivamente seguite e seguite perché esse sono sperimentate e
sentite come socialmente vincolanti (da parte del giudice e di altre autorità giuridiche che applicano il
diritto).

4. Le branche di studio del diritto

5. Non jurisprudence, ma "problemi di jurisprudence"

6. Discussione

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