Sei sulla pagina 1di 8

Lezione 2/10 Elena Zinato

Elisabetta Vendramin
Paola Basso

Ieri avete parlato con la prof. Sandei dell’organizzazione del corso e dell’esame, io vi
raccomando di rivolgervi esclusivamente a lei per tutti questi profili perché io non vi
risponderò. La titolare del corso quest’anno è lei ma il contenuto dell’esame non è
cambiato rispetto agli anni precedenti.

Oggi cominciamo ad entrare nel vivo della materia e quindi a parlare del diritto
commerciale. La prima domanda che ci dobbiamo porre è quali sono le ragioni di questo
insegnamento, quali sono le ragioni per cui esiste un insegnamento autonomo di diritto
commerciale.
Per perimetrare la materia diremo che il diritto commerciale è il diritto privato delle
attività produttive.
Nel nostro paese come in tutta l’economia occidentale, i principi su cui si fondano le
dinamiche economiche sono basati su un mercato e su una competizione all’interno del
mercato.

Il diritto commerciale sono un insieme di regole che disciplinano la produzione e lo


scambio di beni e servizi, con finalità economiche.

*Consigli del professore su come approcciarsi allo studio della materia*

Nella misura in cui voi riuscirete intanto adesso come studenti e poi domani come
professionisti a capire il significato e la funzione di una norma di diritto degli affari ( il diritto
commerciale può anche chiamarsi business law), tanto maggiore sarà il grado di
comprensione del significato della realtà economica in cui la norma viene a calarsi, tanto
maggiore sarà la vostra facilità e capacità di apprendimento oggi come studenti e tanto
maggiore sarà la nostra lungimiranza quando dovremo prenderlo in considerazione come
professionisti.
Cercate di studiare non passivamente e con un approccio meramente mnemonico ma con
intelligenza, sforzandovi cioè di capire qual è la realtà economica, il fenomeno economico
che una certa norma vuole regolare e poi cercate di capire quali sono gli obiettivi di
carattere economico che quella norma o complesso di norma vogliono realizzare. Se
cogliete questi aspetti vi sarà molto più facile la memorizzazione e quindi lo studio e la
futura applicazione.
Come aveva accennato la professoressa Sandei, la materia è vasta.
Il nostro compito a lezione non è quello di sciorinare con le stesse parole o con dei
sinonimi tutto ciò che si trova nei manuali fino all’ultima più dettagliata nozione. Siamo tutti
abbastanza adulti per leggerlo in autonomia e perderemmo anche tempo. Il nostro compito
è quello di fornirvi la chiave di lettura e le coordinate per comprendere la ratio e il
significato dei principi che sono sottesi alla materia cercando di guidarvi.
Leggere con molta attenzione l’introduzione serve proprio a darci la chiave di lettura , la
lente di ingrandimento che poi ci sarà utilissima nel corso di tutto il nostro percorso.

Tornando alla domanda in cima alla slide: “perché il diritto commerciale”?


Cioè perché il legislatore italiano ( ma questo vale per tutti i paesi moderni) ritengono
necessario dedicare alla regolazione delle relazioni privatistiche che si instaurano nel
contesto di un’attività produttiva un corpo di norme diverse da quelle che compongono il
diritto privato comune? Voi avete studiato le persone giuridiche, le obbligazioni, i contratti ,
i fatti illeciti, le garanzie e cioè quel sistema normativo che si chiama diritto privato ( o
civile) che presiede alle dinamiche privatistiche interne a una comunità sociale. La
domanda che ora ci dobbiamo porre è: perché non ci possiamo accontentare di queste
norme? Perché avendo studiato l’esame di diritto privato dobbiamo studiare altri corpi
disciplinari specifici dedicati alle relazioni privatistiche nelle attività produttive? Perché il
legislatore non si accontenta delle norme di diritto privato comune?
La ragione è strettamente legata alla circostanza che le attività produttive, per una scelta
di fondo compiuta dalla nostra società, instaurano dinamiche di mercato. Tutti noi, anche
se non abbiamo studiato economia, sappiamo che il nostro paese si basa sui principi
dell’economia di mercato e della concorrenza. Questi principi così molto grossolanamente
descritti determinano la formazione di un contesto di dinamiche relazionali e rapporti
economico- sociali che fanno emergere un mercato.
L’emersione del mercato genera degli interessi specifici che affiorano, dunque, quando
queste relazioni privatistiche si innestano in un contesto di mercato. Si tratta di interessi
che non si manifestano, invece, quando non vi è mercato cioè quando vi è una situazione
di relazione tra membri di una comunità non inserite in una dinamica di mercato.

Questi interessi sono :


- effettività della competizione tra imprenditori
- sana concorrenza
- equilibrio dei rapporti tra imprenditore e destinatario dei prodotti e dei servizi,
equilibrio che richiede un’adeguata informazione e distribuzione delle informazioni
tra le parti e un’adeguata possibilità di entrambe le parti di vagliare le condizioni che
regoleranno la relazione negoziale.
- regolazione di rapporti fondati sul perseguimento di obiettivi finanziari
- necessità di gestire eventuali crisi di determinati soggetti in modo che questi non
abbiano ripercussioni su uno spettro più ampio di soggetti che agiscono o
interagiscono con l’imprenditore in crisi.

Li vedremo di volta in volta emergere questi interessi che qui possiamo solo
sommariamente anticipare.
Questi sono interessi che il diritto privato comune non prende in considerazione e
quindi non soddisfa o non soddisfa in modo adeguato. Questa è la ragione
fondamentale della esistenza di istituti, principi normative e disposizioni legislative
dirette a regolare le relazioni inter-privatistiche all’interno di un’attività produttiva che
sono proprio finalizzati a perseguire gli interessi inerenti al mercato che altrimenti non
sarebbero adeguatamente soddisfatti.

Dobbiamo fare degli esempi per capire:


Prendiamo in considerazione una aggregazione di più soggetti per il perseguimento di un
obiettivo comune. Partiamo da un fenomeno che voi dovreste avere già studiato.
Immaginiamo più soggetti ( 10 persone) amanti della montagna o interessate a diffondere
un determinato orientamento politico per sensibilizzare la società in relazione alla tutela
dell’ambiente e ai cambiamenti climatici. Queste 10 persone intendono dare vita a una
formazione che consenta di perseguire insieme questi interessi.
Per quanto riguarda gli amanti della montagna l’organizzazione di giornate dedicate alle
escursioni, l’organizzazione di serate per la proiezione di diapositive o l’invito di esperti
alpinisti. Per quanto riguarda le persone che intendono promuovere la sensibilizzazione
dell’opinione pubblica in materia ambientale, l’organizzazione di attività e iniziative
convegnistiche, di produzione di opuscoli etc…
Domanda: quale è l’istituto giuridico che fa al caso di tali soggetti? L’associazione, che è
disciplinata nel libro I del codice civile.

Ci possiamo porre due domande. La prima è: qual è il principio normativo che presiede
alla formazione delle decisioni interne alla associazione? Mi spiego meglio. Quando si
tratta di deliberare il programma sociale e quindi il calendario delle uscite in montagna (per
la prima associazione) e la lista delle iniziative di sensibilizzazione ( per la seconda
associazione) , questa decisione che supponiamo essere demandata all’assemblea degli
associati come viene presa? Come votano i vari associati? Quanto pesa il voto di ciascun
associato? I voti sono pari, cioè si applica quello che si chiama il principio del voto per
teste/del voto capitario. Qual è la ragione di tale principio? Cioè, questo principio
normativo è una scelta, la legge avrebbe potuto optare per altre scelte (ad esempio una
scelta basata sul reddito dichiarato di ciascun associato. Perché, secondo voi, si applica il
principio capitario?
[Questo non vale solo per il diritto commerciale, ma vale per tutto l’ordinamento giuridico:
ogni norma è una regola destinata a disciplinare un preciso fenomeno della realtà sociale
e a perseguire uno specifico obiettivo].

*Il professore legge alcune risposte degli studenti in chat (principio di uguaglianza, perché
tutti i consociati sono in posizione di parità etc…)*

Le risposte sono tutte corrette. La ragione è il fatto che l’associazione persegue uno
scopo ideale, essendo l’associazione una formazione, un istituto giuridico, per mezzo del
quale le persone umane realizzano propri interessi ideali in forma aggregata. Non è un
caso che la disciplina delle associazioni sia contenuta nel I libro del c.c. Com’è intitolato il
primo libro del c.c.? “Delle persone e della famiglia”. L’associazione cos’è? È un istituto
giuridico che è funzionale a permettere alla persona di estrinsecare/manifestare un profilo
della propria personalità in forma aggregata (la passione per la montagna, la
fede/convinzione in principi che meriti tutelare l’ambiente). Questi sono interessi della
persona e l’associazione è lo strumento giuridico tramite cui si permette la manifestazione
della persona in forma aggregata.

Allora, il voto per teste ha una sua logica: nella chat si accennava al principio di
uguaglianza, in quanto, ad esempio, la mia passione della montagna non vale più o meno
della vostra oppure la mia sensibilità ai temi ambientali non merita di valere più o meno
della vostra.
Da questo punto di vista il voto capitario esprime in modo lineare la tipologia di interesse
che ha mosso i componenti ad unirsi in associazione.

Immaginiamo, invece, che un gruppo di persone decida di aggregarsi al fine di investire


del denaro, delle risorse finanziarie per la realizzazione di un profitto, per l’esercizio di
un’attività produttiva di beni e di servizi e il conseguimento di un guadagno. Quindi i
soggetti investono del denaro (ci sarà chi investe 100.000 euro e chi investe 1.000 euro) e
attraverso tali risorse si forma la dotazione patrimoniale, per mezzo della quale questa
formazione organizzativa creata esercita un’attività di elaborazione e commercializzazione
di software aziendali per la realizzazione di un profitto.
L’obiettivo è quello di realizzare dei ricavi superiori ai costi e quindi di conseguire un
incremento del valore delle risorse finanziarie investite.
Immaginiamo poi che tali persone siano chiamate ad assumere una certa decisione
relativa all’attività produttiva intrapresa o da intraprendere (ad esempio se acquistare o
meno la licenza di un determinato marchio o se conseguire in leasing un determinato
macchinario funzionale alla produzione). Bisogna votare. Secondo voi, il principio del voto
per teste andrebbe bene qui o no? No. Perché? Qui, il principio del voto capitario non
sarebbe idoneo a calarsi in modo funzionale e adeguato sulla realtà da regolare: chi
ha investito di più assume un rischio maggiore e quindi è giusto che, in linea di principio,
abbia una più forte voce in capitolo sulle decisioni da assumere. Se io ho investito 100.000
euro e uno ha investito 50 euro, è naturale che il mio voto debba pesare di più e
proporzionalmente di più. Questo, non per una logica antidemocratica, ma per una logica
democratica basata sul c.d. principio plutocratico. Cosa differenzia questa aggregazione
di soggetti da quella precedente che abbiamo esaminato? L’interesse perseguito, che non
è un interesse ideale, ma è uno scopo di lucro, che è un interesse egoistico/finanziario.

Qui iniziamo a vedere il significato delle prime due righe della slide, “il mercato e gli
interessi che vi emergono, l’insufficienza del diritto privato comune”. Cioè, riusciamo a
intravedere che la disciplina dell’associazione, col suo principio del voto capitario, non
sarebbe adeguata a regolare funzionalmente tale realtà, in cui l’interesse perseguito non è
ideale ma egoistico, di carattere finanziario: per regolare questo secondo tipo di realtà
occorre una regola diversa, il principio plutocratico, principio per cui il peso del voto si
commisura alla entità dell’investimento effettuato. Dopo naturalmente, nel corso delle
nostre lezioni, saremo più precisi e rigorosi sulla declinazione di questo principio, per il
momento può bastare quanto stiamo dicendo.

Cioè la norma in materia di associazioni persegue un obiettivo. Il principio di voto capitario


ha un senso: è concepito in quanto destinato a calarsi nella realtà delle aggregazioni per il
perseguimento di interessi ideali e quindi è coerente con questa realtà.
Prima si diceva che bisogna abituarsi a studiare sempre cogliendo qual è la realtà sociale
a cui è destinata la norma e quali sono le funzioni che persegue, ecco il punto è proprio
questo! Il principio del voto capitario è coerente con una realtà in cui l’interesse perseguito
è ideale, è estrinsecazione della persona umana tale per cui tutte le persone valgono in
misura uguale alle altre.

Quando invece l’interesse è di carattere finanziario, l’applicazione di quel principio non


sarebbe coerente. Non solo la troveremmo astrattamente incoerente ma sarebbe anche
una norma pericolosa, che se applicata potrebbe produrre degli effetti e delle esternalità
negative (es: ciò potrebbe disincentivare gli investimenti). Se io devo valutare la
convenienza di investire 100.000 euro unendomi a un soggetto che è disposto a investire
100 euro, se poi la prospettiva fosse che poi con il suo voto lui può condizionare ogni
decisione, io non investo! Quindi l’applicazione di questa norma non solo suonerebbe
astrattamente incoerente ma sarebbe anche dannosa. Ecco che allora il legislatore deve
intervenire con una norma di tipo diverso. L’esempio che abbiamo trattato fino ad ora ci
introduce a tutta la disciplina delle società. La seconda parte (più di ⅔ del nostro percorso,
saranno dedicati allo studio della disciplina delle società le quali sono le formazioni
organizzative deputate all’esercizio di una attività produttiva con scopi di carattere
egoistico/finanziario). C’è un corpus disciplinare di grande peso e rilevanza diverso da
quello delle associazioni perché la disciplina delle associazioni non sarebbe funzionale,
non sarebbe coerente, serve qualcosa di diverso. Non sarebbe funzionale o coerente non
perché sia scritta male, ma perché persegue altri scopi, è pensata per una realtà diversa e
quindi per perseguire scopi diversi.

Possiamo fare anche un altro esempio sempre rimanendo ai rapporti fra associazione e
società. Il prof chiede se qualcuno di noi è iscritto ad un’associazione e se venga da noi
versata una quota associativa annua per aderire a questa associazione. Le risposte sono
affermative. Altra domanda, quando un domani si deciderà di non rinnovare l’adesione,
pensiamo di aver diritto alla restituzione delle quote associative versate negli anni
precedenti? No, perché in questi anni abbiamo fruito dei benefici forniti dall’associazione,
se dall’anno venturo non dovessimo più partecipare all’associazione, non verseremo
ulteriori quote ma non ci vedremo restituite quelle precedenti. C’è una logica dietro questa
regola! Se siamo d’accordo con la coerenza di questa regola, adesso passiamo all’ultimo
caso che abbiamo preso in considerazione.

Immaginiamo di costituire noi tutti (367 persone) una formazione organizzativa, ciascuno
di noi versando 10.000 euro ciascuno con l’obiettivo di realizzare un profitto, quindi di
esercitare un’attività produttiva con lo scopo di conseguire ricavi superiori ai costi e quindi
ottenere una remunerazione finanziaria del nostro investimento. Vi sono dei casi in cui si
può abbandonare la formazione organizzativa, si può recedere. Se un soggetto recede, si
aspetta che gli venga restituito qualcosa o se ne va e basta? Applicare la regola per cui io
ho versato questi 10.000 euro e li ho versati a fondo perduto, nel senso che poi questa
attività cesserà o quando io deciderò di abbandonare questa formazione organizzativa io
non rivedrò questi 10.000 euro, sarebbe una regola coerente? No, non sarebbe corretto
che non venisse restituito ciò che uno ha investito. Io ho partecipato, ho investito 10.000
euro, con l’obiettivo di ottenere una remunerazione finanziaria di questo investimento. Se
questo investimento cessa o perché viene sciolta la formazione organizzativa o perché io
la abbandono, voi dite è coerente che io mi veda rimborsato il valore del mio investimento,
non solo i 10.000 euro ma magari di più perché se nel frattempo l’esercizio dell’attività ha
prodotto dei guadagni io vorrei avere la mia parte di remunerazione. Quindi nuovamente
emerge un interesse opposto rispetto a quello che sta alla base della disciplina delle
associazioni. Applicare quest’ultima al caso appena descritto risulterebbe non solo
stridente con la logica della formazione di questa organizzazione produttiva, ma
risulterebbe addirittura dannoso perché io non investirei. Per quale ragione dovrei investire
i miei risparmi con lo scopo di ottenere una remunerazione finanziaria di questi miei
risparmi sapendo che non li rivedrò mai più? Non avrebbe senso! Se la logica che mi
muove al versamento di queste somme non è fruire dei servizi di una associazione ma è
ottenere un guadagno, io devo potermi attendere, quando procederò al disinvestimento,
che il valore attuale di quell’investimento che avevo effettuato mi venga restituito.
Esattamente come quando una banca presta del denaro ad un cliente applicando un certo
tasso di interesse e si attende che il denaro le venga restituito con il tasso di interesse che
rappresenta la remunerazione.
Questo secondo esempio ci conferma il fatto che la disciplina delle associazioni non è
adeguata a risolvere problemi e soddisfare interessi di carattere economico/finanziario
perché è concepita per essere funzionale ad una realtà diversa e ci conferma l’intelligente
scelta del legislatore di dedicare a queste organizzazioni con scopi economici un corpo di
norme diverso e autonomo, la disciplina delle società.

Noi gli esempi potremmo moltiplicarli per ciascuno degli istituti che andremo a studiare, lo
stesso vale per la disciplina dei rapporti tra imprenditore e consumatore. Voi sapete che
esiste una disciplina sui contratti con i consumatori, voi sapete anche che esiste una
disciplina antitrust cioè a tutela della concorrenza.
Anche qui, facciamo un ultimo esempio, normalmente la stipulazione di accordi, di contratti
tra le parti per il perseguimento di un qualche interesse è libera (art 1322 c.c.).
Immaginiamo un accordo di questo genere: immaginiamo che tutti i principali operatori di
telefonia mobile che erogano servizi sul territorio italiano, stipulino tra di loro un contratto
per coordinare e concordare il prezzo di offerta dei servizi di telefonia. Quindi un contratto
tra tutti i principali operatori per stabilire un prezzo uniforme, omogeneo che verrà d’ora in
poi applicato da tutti gli operatori per l’erogazione di servizi di connessione dati, traffico
telefonico ecc. Questo è un contratto in virtù del quale le parti assumerebbero l’obbligo di
tenere un determinato comportamento coordinato, concordato con l’obiettivo di limitare la
concorrenza. Se si concordano i prezzi significa “non facciamoci del male”.

L'economia di mercato determina, secondo gli studi economici, l'instaurarsi di dinamiche in


virtù delle quali il mercato dovrebbe tendere ad un prezzo dei prodotti basso e tale per cui
il differenziale tra costo sostenuto dagli imprenditori e prezzo di collocamento del prodotto
sia minimo: l'imprenditore lavora comunque per realizzare un profitto, un sistema di
concorrenza perfetta tra imprenditori, il mercato dovrebbe tendere a livellare verso il basso
i prezzi di tutte le imprese sino ad arrivare ad avere un differenziale tra costo del prodotto
e prezzo di collocamento del prodotto stesso, cioè fino ad arrivare ad avere un margine di
profitto dell'imprenditore, il più basso possibile. Questa è la logica. Quindi, la concorrenza
sui prezzi porta all'abbassamento dei prezzi. Poi, ci possono essere mille altre varianti, ci
può essere una concorrenza sulla qualità, una concorrenza sui servizi collaterali, ecc., ma
se ci soffermiamo solo sulla concorrenza sui prezzi, questa è la logica economica cui
tende il mercato. Un accordo del tenore di quello che abbiamo provato ad illustrare è un
accordo destinato a negare la concorrenza, a limitare la concorrenza.
Un accordo, un contratto che, di per sé, potrebbe essere valido (posso mettermi d'accordo
con un mio compagno d'aula per vedere la coppia dei nostri manuali a un prezzo
concordato); quando riguarda le imprese che operano in un determinato settore di
mercato, finirebbe per ledere uno degli interessi tipici del mercato, quello all'effettività della
concorrenza. Ecco che allora, nuovamente, il diritto privato comune, il principio di
autonomia contrattuale deve soccombere, arretrare, di fronte a un'esigenza di proteggere
un interesse, che è quello tipico del mercato, a garantire l'effettività della concorrenza. La
disciplina comunitaria e una legge italiana antitrust vietano le intese restrittive della
concorrenza. Quindi, accordi come quello che abbiamo provato a esemplificare sono nulli
e le imprese che lo avessero stipulato sarebbero soggette anche a sanzioni di carattere
amministrativo pecuniario che potrebbero essere combinate da una autorità creata
appositamente, che è l'AGCM, Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato. Gli
esempi per mostrare l'insufficienza del diritto privato comune e, quindi, la necessità di
avere una disciplina nuova e speciale per la regolazione dei rapporti inter-privatistici,
quando inerenti all’esercizio di un'attività produttiva potrebbero proseguire, perché tutta la
nostra materia si basa su questa insufficienza del diritto privato comune e, quindi, su
questa esigenza di avere delle regole ad hoc. Quindi, tutti gli istituti che andrete a studiare,
dovete studiarli da questo angolo visuale, cioè tenendo sempre presente che questa è la
ragione di fondo della loro presenza nel nostro ordinamento giuridico.
Domanda: quindi l'art. 1322 deve soccombere per l'effettività concorrenziale? Sì, il
principio di libertà negoziale, dell'autonomia contrattuale sancito nell'art. 1322 trova un
limite che è funzionale a garantire l'effettività della concorrenza, limite che, quindi,
giustifica la sanzione della nullità dei contratti che siano finalizzati, che abbiano per
oggetto o per effetto quello di restringere, falsare in modo significativo la concorrenza.
Detto tutto questo, attenzione che il diritto commerciale non è una disciplina speciale
distinta dal diritto privato comune, che regola a 360° le relazione interprivatistiche inerenti
un'attività produttiva, cioè non è una disciplina che si occupa di ogni profilo privatistico, è
una disciplina che, in parte integra, in parte deroga il diritto privato comune per quegli
specifici aspetti, quegli specifici profili in relazione ai quali emerge un interesse di mercato
non adeguatamente soddisfatto dal diritto privato pubblico. Laddove, invece. la dinamica
interprivatistica sia sufficientemente presidiata dal diritto privato comune, il Legislatore si
accontenta della norma di diritto privato comune, non interviene con una norma speciale.
Quindi, in relazione a questo potete tirare un sospiro di sollievo, non dovete studiare da
zero tutto ciò che attiene alle dinamiche privatistiche inerenti all'attività produttiva: il diritto
privato comune è una base che vi serve, sulla quale dovrete innestare, relativamente a
taluni profili, alcuni istituti, alcuni principi speciali, i quali talvolta integrano il diritto privato
comune, talvolta lo derogano. Per esempio, il contratto di compravendita che
l'imprenditore stipula con uno dei propri fornitori per l'acquisto di un determinato
macchinario sarebbe un contratto di compravendita soggetto alla disciplina generale dei
contratti e alla disciplina dei contratti di compravendita contenuto nel quarto libro del
Codice civile che avete già studiato. Quindi, in una prima parte del nostro percorso, noi
studieremo il diritto dell'impresa e studieremo alcuni istituti (l'informazione al mercato,
l'organizzazione dell'attività, le dinamiche concorrenziali, la crisi dell'impresa) che non
sono tutto ciò che avviene nelle relazioni interprivatistiche di un'impresa. Sono solo alcuni i
profili dell'attività d'impresa in relazione ai quali emergono quelle esigenze e quegli
interessi di mercato che richiedono l'attivazione di una disciplina speciale. Questi noi
studieremo. Così come studieremo il diritto delle società (rappresenterà il fulcro del corso),
cioè studieremo quel grande, importante complesso di norme che regolano
l'organizzazione e il funzionamento di queste formazioni organizzative, di queste strutture
organizzative deputate all'esercizio di una attività produttiva per il perseguimento di scopi
economico-finanziari. Poi, vi sarebbero anche degli ambiti specifici che, però, noi non
studieremo in questa materia, per esempio quello relativo a tutto ciò che riguarda
l'economia finanziaria, il sistema finanziario.
Il diritto privato delle attività produttive muove dalla base del diritto privato comune e,
quindi, ci torna buona, ma su questa si innesta, a volta per integrarla a volte per derogarvi,
una disciplina speciale, una disciplina ad hoc finalizzata per seguire quegli speciali
interessi di mercato, laddove essi emergano.
Per concludere, dobbiamo anche precisare che il diritto commerciale quale diritto privato
delle attività produttive non esaurisce l'insieme delle norme speciali dedicate alle attività
produttive, perché vi sono molte altre branche dell'ordinamento che si occupano delle
attività produttive: pensate al diritto pubblico e alla fiscalità d'impresa; pensate alla
disciplina delle concessioni amministrative per l'esercizio di determinate attività. In questo
corso, non ci occuperemo, invece né del diritto pubblico delle attività produttive né del
diritto del lavoro, perché sono dei blocchi normativi a sé stanti rispetto al diritto privato
delle attività produttive, cioè al diritto commerciale, che perseguono scopi diversi rispetto a
quelli del diritto commerciale e li perseguono con strumenti diversi. Il diritto commerciale è
quell'insieme di norme che regola i rapporti interprivatistici per il perseguimento degli
interessi tipici del mercato (la trasparenza, la concorrenza, l'equilibrio nei rapporti,
l'efficienza negli investimenti, ecc.); il diritto pubblico delle attività produttive persegue altri
scopi (lo scopo, per quanto riguarda la fiscalità di impresa, di conseguire per lo Stato e gli
Enti pubblici un equo introito funzionale allo svolgimento delle attività di carattere
pubblico), mettendo in campo strumenti del diritto pubblico (strumenti di un rapporto
autoritativo tra Stato o Ente pubblico e il cittadino). Lo stesso vale per il diritto del lavoro,
che appartiene sì all'area privatistica, ma qual è lo scopo che il Legislatore persegue nel
disciplinare i rapporti di lavoro? Non la concorrenza, le dinamiche competitive, favorire gli
investimenti, ecc., ma garantire la tutela della parte debole del rapporto, che è il
lavoratore; garantire una retribuzione dignitosa, garantire la difesa dei diritti della parte
debole (maternità, paternità, organizzazione sindacale, sicurezza nel luogo di lavoro).
Allora, voi capite che non studiamo queste parti perché il diritto commerciale ha una sua
autonomia concettuale non solo rispetto al diritto privato comune, ma anche rispetto a tutti
quegli altri blocchi disciplinari speciali dedicati alle attività produttive che, però, non
perseguono interessi di mercato, legati alle dinamiche di mercato, ma altri interessi. Tutto
questo deve far parte del nostro bagaglio perché ci accompagnerà nella comprensione di
tutta la nostra materia.

Potrebbero piacerti anche