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Elisabetta Vendramin
Paola Basso
Ieri avete parlato con la prof. Sandei dell’organizzazione del corso e dell’esame, io vi
raccomando di rivolgervi esclusivamente a lei per tutti questi profili perché io non vi
risponderò. La titolare del corso quest’anno è lei ma il contenuto dell’esame non è
cambiato rispetto agli anni precedenti.
Oggi cominciamo ad entrare nel vivo della materia e quindi a parlare del diritto
commerciale. La prima domanda che ci dobbiamo porre è quali sono le ragioni di questo
insegnamento, quali sono le ragioni per cui esiste un insegnamento autonomo di diritto
commerciale.
Per perimetrare la materia diremo che il diritto commerciale è il diritto privato delle
attività produttive.
Nel nostro paese come in tutta l’economia occidentale, i principi su cui si fondano le
dinamiche economiche sono basati su un mercato e su una competizione all’interno del
mercato.
Nella misura in cui voi riuscirete intanto adesso come studenti e poi domani come
professionisti a capire il significato e la funzione di una norma di diritto degli affari ( il diritto
commerciale può anche chiamarsi business law), tanto maggiore sarà il grado di
comprensione del significato della realtà economica in cui la norma viene a calarsi, tanto
maggiore sarà la vostra facilità e capacità di apprendimento oggi come studenti e tanto
maggiore sarà la nostra lungimiranza quando dovremo prenderlo in considerazione come
professionisti.
Cercate di studiare non passivamente e con un approccio meramente mnemonico ma con
intelligenza, sforzandovi cioè di capire qual è la realtà economica, il fenomeno economico
che una certa norma vuole regolare e poi cercate di capire quali sono gli obiettivi di
carattere economico che quella norma o complesso di norma vogliono realizzare. Se
cogliete questi aspetti vi sarà molto più facile la memorizzazione e quindi lo studio e la
futura applicazione.
Come aveva accennato la professoressa Sandei, la materia è vasta.
Il nostro compito a lezione non è quello di sciorinare con le stesse parole o con dei
sinonimi tutto ciò che si trova nei manuali fino all’ultima più dettagliata nozione. Siamo tutti
abbastanza adulti per leggerlo in autonomia e perderemmo anche tempo. Il nostro compito
è quello di fornirvi la chiave di lettura e le coordinate per comprendere la ratio e il
significato dei principi che sono sottesi alla materia cercando di guidarvi.
Leggere con molta attenzione l’introduzione serve proprio a darci la chiave di lettura , la
lente di ingrandimento che poi ci sarà utilissima nel corso di tutto il nostro percorso.
Li vedremo di volta in volta emergere questi interessi che qui possiamo solo
sommariamente anticipare.
Questi sono interessi che il diritto privato comune non prende in considerazione e
quindi non soddisfa o non soddisfa in modo adeguato. Questa è la ragione
fondamentale della esistenza di istituti, principi normative e disposizioni legislative
dirette a regolare le relazioni inter-privatistiche all’interno di un’attività produttiva che
sono proprio finalizzati a perseguire gli interessi inerenti al mercato che altrimenti non
sarebbero adeguatamente soddisfatti.
Ci possiamo porre due domande. La prima è: qual è il principio normativo che presiede
alla formazione delle decisioni interne alla associazione? Mi spiego meglio. Quando si
tratta di deliberare il programma sociale e quindi il calendario delle uscite in montagna (per
la prima associazione) e la lista delle iniziative di sensibilizzazione ( per la seconda
associazione) , questa decisione che supponiamo essere demandata all’assemblea degli
associati come viene presa? Come votano i vari associati? Quanto pesa il voto di ciascun
associato? I voti sono pari, cioè si applica quello che si chiama il principio del voto per
teste/del voto capitario. Qual è la ragione di tale principio? Cioè, questo principio
normativo è una scelta, la legge avrebbe potuto optare per altre scelte (ad esempio una
scelta basata sul reddito dichiarato di ciascun associato. Perché, secondo voi, si applica il
principio capitario?
[Questo non vale solo per il diritto commerciale, ma vale per tutto l’ordinamento giuridico:
ogni norma è una regola destinata a disciplinare un preciso fenomeno della realtà sociale
e a perseguire uno specifico obiettivo].
*Il professore legge alcune risposte degli studenti in chat (principio di uguaglianza, perché
tutti i consociati sono in posizione di parità etc…)*
Le risposte sono tutte corrette. La ragione è il fatto che l’associazione persegue uno
scopo ideale, essendo l’associazione una formazione, un istituto giuridico, per mezzo del
quale le persone umane realizzano propri interessi ideali in forma aggregata. Non è un
caso che la disciplina delle associazioni sia contenuta nel I libro del c.c. Com’è intitolato il
primo libro del c.c.? “Delle persone e della famiglia”. L’associazione cos’è? È un istituto
giuridico che è funzionale a permettere alla persona di estrinsecare/manifestare un profilo
della propria personalità in forma aggregata (la passione per la montagna, la
fede/convinzione in principi che meriti tutelare l’ambiente). Questi sono interessi della
persona e l’associazione è lo strumento giuridico tramite cui si permette la manifestazione
della persona in forma aggregata.
Allora, il voto per teste ha una sua logica: nella chat si accennava al principio di
uguaglianza, in quanto, ad esempio, la mia passione della montagna non vale più o meno
della vostra oppure la mia sensibilità ai temi ambientali non merita di valere più o meno
della vostra.
Da questo punto di vista il voto capitario esprime in modo lineare la tipologia di interesse
che ha mosso i componenti ad unirsi in associazione.
Qui iniziamo a vedere il significato delle prime due righe della slide, “il mercato e gli
interessi che vi emergono, l’insufficienza del diritto privato comune”. Cioè, riusciamo a
intravedere che la disciplina dell’associazione, col suo principio del voto capitario, non
sarebbe adeguata a regolare funzionalmente tale realtà, in cui l’interesse perseguito non è
ideale ma egoistico, di carattere finanziario: per regolare questo secondo tipo di realtà
occorre una regola diversa, il principio plutocratico, principio per cui il peso del voto si
commisura alla entità dell’investimento effettuato. Dopo naturalmente, nel corso delle
nostre lezioni, saremo più precisi e rigorosi sulla declinazione di questo principio, per il
momento può bastare quanto stiamo dicendo.
Possiamo fare anche un altro esempio sempre rimanendo ai rapporti fra associazione e
società. Il prof chiede se qualcuno di noi è iscritto ad un’associazione e se venga da noi
versata una quota associativa annua per aderire a questa associazione. Le risposte sono
affermative. Altra domanda, quando un domani si deciderà di non rinnovare l’adesione,
pensiamo di aver diritto alla restituzione delle quote associative versate negli anni
precedenti? No, perché in questi anni abbiamo fruito dei benefici forniti dall’associazione,
se dall’anno venturo non dovessimo più partecipare all’associazione, non verseremo
ulteriori quote ma non ci vedremo restituite quelle precedenti. C’è una logica dietro questa
regola! Se siamo d’accordo con la coerenza di questa regola, adesso passiamo all’ultimo
caso che abbiamo preso in considerazione.
Immaginiamo di costituire noi tutti (367 persone) una formazione organizzativa, ciascuno
di noi versando 10.000 euro ciascuno con l’obiettivo di realizzare un profitto, quindi di
esercitare un’attività produttiva con lo scopo di conseguire ricavi superiori ai costi e quindi
ottenere una remunerazione finanziaria del nostro investimento. Vi sono dei casi in cui si
può abbandonare la formazione organizzativa, si può recedere. Se un soggetto recede, si
aspetta che gli venga restituito qualcosa o se ne va e basta? Applicare la regola per cui io
ho versato questi 10.000 euro e li ho versati a fondo perduto, nel senso che poi questa
attività cesserà o quando io deciderò di abbandonare questa formazione organizzativa io
non rivedrò questi 10.000 euro, sarebbe una regola coerente? No, non sarebbe corretto
che non venisse restituito ciò che uno ha investito. Io ho partecipato, ho investito 10.000
euro, con l’obiettivo di ottenere una remunerazione finanziaria di questo investimento. Se
questo investimento cessa o perché viene sciolta la formazione organizzativa o perché io
la abbandono, voi dite è coerente che io mi veda rimborsato il valore del mio investimento,
non solo i 10.000 euro ma magari di più perché se nel frattempo l’esercizio dell’attività ha
prodotto dei guadagni io vorrei avere la mia parte di remunerazione. Quindi nuovamente
emerge un interesse opposto rispetto a quello che sta alla base della disciplina delle
associazioni. Applicare quest’ultima al caso appena descritto risulterebbe non solo
stridente con la logica della formazione di questa organizzazione produttiva, ma
risulterebbe addirittura dannoso perché io non investirei. Per quale ragione dovrei investire
i miei risparmi con lo scopo di ottenere una remunerazione finanziaria di questi miei
risparmi sapendo che non li rivedrò mai più? Non avrebbe senso! Se la logica che mi
muove al versamento di queste somme non è fruire dei servizi di una associazione ma è
ottenere un guadagno, io devo potermi attendere, quando procederò al disinvestimento,
che il valore attuale di quell’investimento che avevo effettuato mi venga restituito.
Esattamente come quando una banca presta del denaro ad un cliente applicando un certo
tasso di interesse e si attende che il denaro le venga restituito con il tasso di interesse che
rappresenta la remunerazione.
Questo secondo esempio ci conferma il fatto che la disciplina delle associazioni non è
adeguata a risolvere problemi e soddisfare interessi di carattere economico/finanziario
perché è concepita per essere funzionale ad una realtà diversa e ci conferma l’intelligente
scelta del legislatore di dedicare a queste organizzazioni con scopi economici un corpo di
norme diverso e autonomo, la disciplina delle società.
Noi gli esempi potremmo moltiplicarli per ciascuno degli istituti che andremo a studiare, lo
stesso vale per la disciplina dei rapporti tra imprenditore e consumatore. Voi sapete che
esiste una disciplina sui contratti con i consumatori, voi sapete anche che esiste una
disciplina antitrust cioè a tutela della concorrenza.
Anche qui, facciamo un ultimo esempio, normalmente la stipulazione di accordi, di contratti
tra le parti per il perseguimento di un qualche interesse è libera (art 1322 c.c.).
Immaginiamo un accordo di questo genere: immaginiamo che tutti i principali operatori di
telefonia mobile che erogano servizi sul territorio italiano, stipulino tra di loro un contratto
per coordinare e concordare il prezzo di offerta dei servizi di telefonia. Quindi un contratto
tra tutti i principali operatori per stabilire un prezzo uniforme, omogeneo che verrà d’ora in
poi applicato da tutti gli operatori per l’erogazione di servizi di connessione dati, traffico
telefonico ecc. Questo è un contratto in virtù del quale le parti assumerebbero l’obbligo di
tenere un determinato comportamento coordinato, concordato con l’obiettivo di limitare la
concorrenza. Se si concordano i prezzi significa “non facciamoci del male”.