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Riassunto Bonazzi.

Teoria dell'organizzazione (Università di Bologna)

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PROVA PARZIALE 26/10/2020 TEORIA DELL’ORGANIZZAZIONE

LEZIONE 1. Lettura Ferrante e Zan “Che cos’è un’organizzazione?” (1994)

Definita classicamente come: insieme di persone unite formalmente per raggiungere degli
obbiettivi comuni.

DECOSTRUZIONE DELLA DEFINIZIONE

1. Persone.

Quante? Che caratteristiche hanno? Hanno un legame concreto? Una coppia, una folla in uno
stadio, passeggeri di un treno… sono organizzazioni?

2. Formalmente costituito.

È necessario un atto formale per creare l’organizzazione, bisogna regolarizzare l’unione ma


allora un matrimonio è un’organizzazione? Invece un esercito rivoluzionario è un’organizzazione
ma non è stato regolarizzato.

Possiamo dire che sia una creazione artificiale, non sappiamo quando nasce, soltanto è possibile
formalizzarla.

3. Obbiettivi e fini.

Fine: stato futuro atteso. Quello delle imprese è stato tradizionalmente il profitto.

Cyert e March: le organizzazioni non hanno fini, ma sono gli individui chi ne hanno e ognuno ne
ha di diversi (manager, proprietario, operaio…) raramente esiste una congruenza di fini. Di solito
confondiamo i fini dell’organizzazione con quelli dei suoi attori più importanti
(manager/proprietario).

La definizione classica quindi può considerarsi vera ma banale.

Le organizzazioni sono tutte uguali?

Se fossero tutte uguali basterebbe studiarne una per capire tutte, ma ognuna ha una
motivazione o leadership diversa: economica, legale, sociale…

Tratti distintivi:

1. Attività (beni e servizi, guerra…).


2. Lavoratori (operai, volontari, avvocati…).
3. Remunerazione.
4. Tempo richiesto all’individuo (parziale o totale).
5. Controllo dell’organizzazione sull’individuo (imprigionare, sanzionare, pagare…).

Tutte coincidono, invece, in avere dei metodi per vincolarsi all’organizzazione:

1. Come si entra: ci vuole un rito, divisa…


2. Rapporti interni nell’organizzazione: rango, rispetto…
3. Rapporti esterni dell’organizzazione: confidenzialità, l’immagine…
4. Rapporti con le tecnologie: conoscenza e uso del macchinario.

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Di nuovo, cos’è un’organizzazione?

Forma di azione collettiva reiterata, basata su processi di differenziazione e di integrazioni


tendenzialmente stabili e intenzionali. .

Due elementi chiave:

1. Differenziazione: definita da A. Smith come “specializzazione o divisone del lavoro


dentro del compito generale”. Esiste sia a livello locale (fabbrica) che sociale, mediante
questo processo il gruppo può ottenere risultati superiori a quelli della somma di sforzi
individuali attraverso un corretto uso di un sistema di ruoli (la persona giusta pel posto
giusto).
2. Integrazione: unità di sforzi prodotti, reciprocamente coerenti e coerenti con quello che
si fa nell’organizzazione (modello piramidale, gerarchia). Ci sono diversi metodi
integrativi:
a. Norme: integrano i comportamenti senza dovere fare ricorso del capo.
b. Tecnologia e procedure: permettono a chi dirige non dovere dare tante ordini
simultanee, gli schemi rendono notabile cosa e come deve fare ognuno.
c. Strategia: presuppone comportamenti attivi.
d. Valori: possono orientare il comportamento dell’impresa o valori che si sperano
da chi è nell’organizzazione.

L’organizzazione come meccanismo di influenza dei comportamenti.

Ogni individuo modifica il proprio comportamento a seconda del ruolo che ha: ogni ruolo
aspetta un comportamento, è una delle premesse di accesso all’organizzazione. Si deve capire
quanto influenza questo ruolo nel comportamento naturale dell’individuo a seconda della
necessità di differenziazione e integrazione dell’organizzazione. È anche importante capire
l’esistenza di legami tra ruoli e diversi gradi di interdipendenza dei quali J. Thompson ne
identifica tre:

1. Interdipendenza generica: l’errore di un settore affetta l’altro.


2. Interdipendenza sequenziale: c’è bisogno di creare i pezzi prima di creare il prodotto.
3. Interdipendenza reciproca: il risultato finale è costituito dall’input.

Considerazioni finali.

Differenziazione e integrazione modificano il comportamento. Chi ha i migliori processi non ha


la migliore organizzazione in termini relativi. È basico che le strutture interne siano coerenti tra
loro.

LEZIONE 2. Cos’è un’organizzazione? + Analisi lettura Ferrante e Zan.

Ferrante e Zan, definizione di organizzazione: forma di azione collettiva e reiterata basata sui
processi di differenziazione e integrazione tendenzialmente stabili e intenzionali (1998).

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Atto formale di costituzione: non è necessario un documento, basta mettersi d’accordo, per
tanto basta che ci sia intenzionalità. L’evento che rende le organizzazioni diventare tali è la
previa deliberazione, infatti ci possono essere organizzazioni informali da non confondere con
collettività (per esempio la folla di uno stadio).

Fini/obbiettivi: devono essere espliciti, consapevoli e condivisi. L’organizzazione deve essere il


metodo per raggiungere i fini che, Ferrante e Zan, considerano dell’organizzazione non degli
individui. È necessario differenziare tra funzione e fine.

A. Funzione: compito specifico assegnato.


B. Fine: obbiettivo dell’organizzazione.

Confondiamo solitamente il fine dell’organizzazione con quello dell’attore più distaccato,


solitamente questo è il profitto mentre, per esempio, l’operaio cerca soltanto ricevere uno
stipendio in cambio del suo lavoro. Il sistema dei ruoli deve prevedere che la differenza dei fini
non vada contro l’interesse dell’azienda, ossia il fine generale.

Meccanismi di integrazione e differenziazione: questi meccanismi distinguono le organizzazioni


da altri gruppi sociali. L’inizio delle organizzazioni segue tre passi:

1. Creare un gruppo (integrazione).


2. Suddividere i ruoli (differenziazione).
3. Cercare/avere un obbiettivo comune.

Fini organizzativi: Etzioni e Gross (1985) gli definiscono come il risultato della somma dei fini di
tutti i suoi membri e considerano che alcuni sono predominanti. Zan e Ferrante gli considerano
la funzione finale dell’organizzazione.

Sistema dei ruoli: deriva dalla differenziazione, è quel processo dove il manager deve essere
capace di dividere i ruoli e funzioni in un modo efficace (la persona giusta nel ruolo giusto).
L’integrazione che divide questi ruoli può presentarsi in modi diversi: gerarchia, norme…

Il pensiero organizzativo: insieme delle teorie sulle organizzazioni che includono ambiti
disciplinari diversi che guardano l’organizzazione con prospettive diverse. Ci sono due tipi di
contributi:

1. Prescrittivi: modelli ottimali (manageriali).


2. Interpretativi: per interpretare le dinamiche. Taylor ne fu il primo teorico (1911) seguito
da Barnard (1938) controllando il processo di lavoro.

LEZIONE 3. Organizzazione scientifica del lavoro (OSL) e taylorismo.

1. Tre punti preliminari

La OSL pensata da Taylor venne conosciuta come taylorismo. Analizzare oggi il sistema
tayloristico richiede tre punti preliminari.

1. Il successo del metodo ha fatto usare in modo corrente il termino taylorismo: le persone
ne hanno mostrato solo il lato oppressivo e non ne hanno apprezzato il lato
razionalizzatore e progressista. Taylor propone l’OSL nel 1911 dove studia i processi di
lavoro (giornata degli operai) in un contesto di grande potenzialità dell’industria ma con

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metodi arcaici di gestione, dove la gerarchia intermedia (capi reparto) assumeva tanto
controllo mediante l’arbitrarietà in un sistema di contrattisti, manodopera poco
qualificata. Mancava la figura del manager e i proprietari erano all’oscuro.
2. L’abbandono delle forme più aspre di taylorismo si accompagna all’attenuarsi del
dibattito sul suo superamento.
3. Intendere che Taylor fosse un ingegnere impegnato in innovazioni tecnologiche che
sviluppò una teoria di management scientifico che non fu ideato soltanto da lui solo ma
da un intero movimento di manager che cercavano un metodo simile.
2. Contesto storico in cui nacque il taylorismo

Momento di contradizione tra le potenzialità produttive alle soglie della produzione di massa e
i metodi arcaici della sua conduzione. Il taylorismo segue tre obbiettivi interconnessi:

1. Accentrare e razionalizzare le linee di autorità all’interno dell’impresa.


2. Aumentare la produzione e il rendimento attraverso la riorganizzazione, la trasparenza
dei costi, procedure, tempi e metodi di lavoro.
3. Usare la scienza come unico criterio di azione e base legittimante delle proposte.

All’epoca di Taylor, nella fine dell’800 e inizio del 900, l’industria presentava i requisiti materiali
che permetterebbero la modernizzazione.

2.1. I progressi tecno-scientifici.

Fase matura del macchinismo industriale. Si distinguono tre dimensioni fondamentali per una
produzione industriale moderna: standardizzazione dei prodotti e i mezzi di produzione,
abbassamento dei prezzi per una produzione di larga scala e la specializzazione delle macchine
utensili.

2.2. Crescita quantitativa dei complessi industriali.

L’espansione produttiva e la fusione di fabbriche portò a un aumento esponenziale delle grandi


fabbriche portando al gigantismo industriale degli anni ’20.

2.3. Offerta di forza lavoro non qualificata e alta mobilità.

L’allargamento delle fabbriche rendeva il proletariato insufficiente e si ricorse al reclutamento


di masse di estrazione contadina. Questo fenomeno assunse dimensioni imponenti negli USA
dovuto all’elevata immigrazione. La manodopera era estremamente mobile perché le imprese
non garantivano alcuna sicurezza di impiego e perché i lavoratori cercavano sempre un lavoro
migliore, questo provocava una certa difficoltà per l’apprendimento di elementari procedure di
lavoro.

2.4. Le percepite potenzialità espansive del mercato.

La produzione di massa permetteva una riduzione di costo dei prodotti (e viceversa) consentiva
una espansione praticamente illimitata del mercato.

3. I sistemi tradizionali di conduzione aziendale: empiria e arbitrio.

L’intera gestione del processo produttivo era delegata alle gerarchie intermedi, quasi sempre di
origine operaia (Nelson nel 1975 parla di impero dei capireparto), questi avevano la

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responsabilità di diversi campi fondamentali: stabilire tempi e metodi di produzioni, accertare i


costi e la qualità del lavoro, usare e licenziare la manodopera. Questo provocava atti di arbitrio
e assenza totale nei rapporti tra capi e operai.

La produzione si otteneva mediante il sistema drive system (sistema della spinta): controllo
stretto, abuso, irriverenza e minacce. Gli operai erano continuamente spinti a muoversi più in
fretta e lavorare più duramente.

Era anche molto diffusa la figura dei contrattisti, operai qualificati e di grande esperienza che
lavoravano all’interno delle officine con il doppio ruolo di dipendenti e piccoli imprenditori:
stabilità una quantità di denaro l’impresa forniva i materiali e l’energia mentre i contrattisti si
impegnavano a una quantità di lavoro ad un prezzo fisso ed entro una data stabilita.

Il metodo scientifico permette opporsi all’empiria dei capireparto visto che discende
direttamente dalla direzione generale che deve assumere l’iniziativa strategica di centralizzare
il potere, razionalizzare i metodi produttivi e stabilire una gerarchia.

4. La lettura tayloriana delle fabbriche alla fine del S. XIX.

La nuova concezione teorica riguarda la natura storica del rapporto che lega gli uomini al lavoro.
Finora l’attenzione si è rivolta alla divisione del surplus prodotto con il lavoro, ne deriva un
conflitto tra operai-imprenditori per la divisione di questo surplus. Taylor assicura che esiste la
possibilità di superare questa tensione seguendo la via che marca l’OSL. Trova l’essenza in una
completa rivoluzione mentale: entrambe parti si dimenticano della divisione surplus e
concentrano il loro interesse a aumentarlo tanto che diventerà cosi grosso da non essere più
necessario litigare per la sua divisione. L’abbondanza porterà la fine dei conflitti sociali. Ma per
aumentare la produttività ci vuole un aumento nel rendimento della manodopera e quindi
affidarsi all’OLS.

Taylor identifica tre cause per cui gli uomini non hanno compreso che la via del benessere e del
progresso passa attraverso la collaborazione tra le parti sociali:

A. Errata convinzione che l’aumento della produttività provochi la perdita del lavoro per
un numero notevole di persone.
B. I sistemi imperfetti di organizzazione che costringono a lavorare più lentamente al fine
di conservare i propri interessi. Imputa questo rallentamento all’ignoranza e natura
dell’uomo e agli inadeguati metodi organizzativi.
C. Inefficienza dei metodi empirici.
5. La scienza come via di salvezza. Elementi di un’antropologia tayloriana.

Taylor dichiara capire le ragioni operaie per rallentare la produzione e afferma che in certi casi
sia una forma legittima di difesa contro l’arbitrio sistematico della direzione, anche se dice che
se questi amassero il proprio impiego lavorerebbero con l’intensità necessario per non
costringere la direzione a prendere misure di pressione. Cerca convincere gli imprenditori che
ciò che lui propone è lo strumento più efficace per ottenere dagli operai produzione e consenso.
L’organizzazione può riscattare gli uomini dalla loro naturale pigrizia facendo leva sul desiderio
di maggiore guadagno. Come possiamo sapere che essi non subordineranno l’organizzazione?
Legittimazione etica del capitalismo: gli imprenditori conducono la propria impresa mediante
l’uso del metodo scientifico.

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6. Principi essenziali e meccanismi organizzativi dell’OSL.

L’obbiettivo del taylorismo è conseguire un aumento della produzione tale de passare a un altro
ordine di grandezza rispetto agli standard precedenti. Quattro principi:

1. Studio scientifico dei metodi di lavorazione.


2. Selezione e addestramento del personale.
3. Cordiale collaborazione dirigenti-manodopera.
4. Ristrutturazione dell’apparato direttivo.

6.1. Studio scientifico dei metodi di lavorazione.

Formulazione originaria dell’MTM (misurare tempi e metodi), dove si misurava ogni azione del
processo produttivo e si analizzava il tempo per realizzarla per calcolare i movimenti inutili che
si mettevano in atto. Si voleva standardizzare il lavoro per progettare il task management e
premiare i lavoratori legando il salario all’esecuzione del lavoro o mediante ricompense
materiali.

MTM secondo Taylor:

1. Selezione di 10-15 operai particolarmente abili nel lavoro da analizzare.


2. Scomposizione e analisi dei singoli movimenti.
3. Correzione ed eliminazione dei movimenti falsi, inutili e/o pigri.
4. Ricomposizione del comportamento mediante movimento razionali.
5. Standardizzazione dei materiali.
6. Fissazione del tempo teorico di lavoro.
7. Addestramento del gruppo.
8. Osservazione sistematica dei tempi effettivamente impiegati.
9. Calcolare i coefficienti di correzione del tempo teorico.

Ogni giorno verrà stabilito un ammontare di lavoro esatto che verrà fatto seguendo il ritmo
ottimale di lavoro.

6.2. Selezione e addestramento del personale.

Massima importanza per la regola del “trovare l’uomo giusto pel posto giusto” mediante l’uso
di test psico-fisici che permettano selezionare operai di prima categoria che verranno
adeguatamente addestrati. Vuole evitare l’uso di giornalieri e degli uomini-bue.

6.3. Cordiale collaborazione tra dirigenti e operai.

Il meccanismo per ottenere il consenso operaio all’OSL è la ricompensa economica, ma da sola


questa non è sufficiente. Devono essere portati opportuni rapporti personali tra dirigenti e
operai, ascoltando quello che hanno da dire per evitare scioperi. Taylor propone il paternalismo,
cercando di restituire la dimensione umana al lavoro ormai disumanizzato per i metodi scientifici
e cercare di produrre sempre di più. Il contatto dirette provoca il sentimento di prossimità che,
alla sua volta, permette controllo.

6.4. Ristrutturazione dell’apparato direttivo.

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Elemento chiave per l’andamento dell’OSL. Taylor fa una diagnosi delle fabbriche tradizionali:

A. Grande penuria di personale dirigente, costretti a svolgere i progetti a costi non


economici o fuori tempo.
B. I capi scaricano le responsabilità sui propri subalterni che hanno già le proprie
responsabilità.
C. Struttura gerarchica di tipo militare.

L’unico modo di risolvere la scarsità di uomini con alte capacità di comando è organizzare
l’azienda in modo di restringere le responsabilità dei singoli, cioè aumentare il numero di quadri
intermedi per aumentare l’autorità e restringere i campi di competenza mentre ci si ancora le
prestazioni a norme e procedure prestabilite dalla direzione centrale.

La grande novità, però, è che la gerarchia di tipo militare viene sostituita dalla direzione
funzionale, cioè: gli operai ricevono ordini e sono controllati da diversi superiori, ciascuno dei
quali si occupa di un aspetto del lavoro. Ogni direttivo comunicherà al suo superiore come va
tutto, in modo che le novità/problematiche che arrivino al padrone della fabbrica siano già
filtrate mediante questo principio di eccezione o principio del filtro gerarchico. In questo modo
al livello più basso vi è l’esecuzione materiale della produzione, a livello intermedio l’analisi
dettagliata delle procedure lavorative e la ricerca di possibili miglioramenti tecnici e, il terzo
livello dove troviamo la massima dirigenza, deve occuparsi unicamente della scelta strategica.

7. L’one best way e il primato dell’impresa.

Presume che per ogni problema esiste sempre una sola soluzione ottimale raggiungibile soltanto
con l’uso del metodo scientifico di ricerca che dà alla one best way autorità perché è una
soluzione neutrale diventando così un imperativo universale sia per lavoratori che dirigenti.

LETTURA. Il modello fordista e la sua crisi (M. Ricciardi)

Fordismo viene usato per prima volta in Germania nel 1924, ispirato nel modello produttivo e
aziendale delle fabbriche Ford basate sul metodo proposto da Taylor (1911), ricercando la
massima efficacia. Ma mentre il taylorismo si fissa sul comportamento dell’individuo e la
meccanizzazione dei movimenti, il fordismo crede che l’abilità sia nella macchina e che l’uomo
agisce secondo i bisogni della macchina.

Il fordismo porta una nuova configurazione sociale con la creazione della società salariale
fordista eliminando l’alta mobilità della manodopera mediante il 5$ a day (specializzazione e
firm specific). Crea un rapporto di dipendenza tra capitale e lavoro, cioè, la sussistenza del
lavoratore dipende dal lavoro che, a sua volta, dipende dall’aumento di capitale.

Quattro caratteristiche distinguono il fordismo nei suoi primi anni.

1. Standardizzazione del prodotto: abbate i costi fissi di produzione, fatto che comporta la
produzione di scala per stimolare un aumento della domanda.
2. La produzione di massa porta un consumo di massa: gli operai diventano i consumatori
e produttori del prodotto. Con l’aumento di stipendio e la riduzione della giornata
lavorativa (8 ore) gli operai hanno le risorse e il tempo per godere del prodotto.
3. Controllo sociale: un nuovo mondo con l’accesso femminile in fabbrica.
4. Introduce il marketing e la pubblicità.

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Il fordismo divenne così il sistema autoritario di produzione e si crea una nuova concezione di
fabbrica che modifica le relazioni sociali. Detta gli orari, funzioni e movimenti anche fuori dalla
fabbrica detta, tra altre cose, un nuovo ruolo femminile.

LEZIONE 4. Dopo Taylor. Nascita e fortuna delle “Relazioni Umane”.

1. Critica e superamento del taylorismo. Tre chiavi di lettura.


1.1. Il taylorismo come sfruttamento.

Critica del marxismo sviluppate nella corrente operaia della sociologia del lavoro che considera
il taylorismo un metodo per sfruttare il lavoratore. H. Braverman (1974) lo considera
l’espressione organica del capitalismo monopolistico che determina la tendenza storica verso la
progressiva degradazione tra lavoro umano che passa attraverso la crescente separazione tra
lavoro manuale e lavoro intellettuale. Dalla parte umanistica, G. Friedmann (1946), fondatore
della scuola francese del lavoro, la soluzione ai problemi umani causati dal taylorismo si trova
nella conquista del potere da parte della classe operaia. Tutte le forze imprenditoriali e sociali
devono operare perché il lavoro sia una triplice valorizzazione: intellettuale, morale e sociale.

1.2. Il taylorismo come utopia tecnocratica.

Il ricorso eccessivo al metodo scientifico non contempla che gli uomini conservano margini non
controllabili di soggettività. M. Crozier (1963) ritiene che l’oggetto di analisi non debba essere
soltanto il lavoro operaio ma quello burocratico.

1.3. Il taylorismo come formula contingente.

Punto fondato sulla storicità del movimento al cui vede come un episodio interno al più generale
sviluppo dell’industria e dell’impresa moderna: studia gli effetti che lo sviluppo tecnologico ha
sul lavoro operaio (A. Touraine, 1955), tra l’altro, nell’ambito della teoria della contingenza, si
critica l’esistenza di una sola one best way immutabile e universale.

2. Limiti tecnici e concettuali del taylorismo.

L’imposizione di un flusso di lavoro uniforme, frantumato e impersonale offerse agli psicologi


del lavoro una situazione quasi di laboratorio per studiare i rapporti tra sforzo psico-fisico e curve
di rendimento.

Critiche dall’analisi di Friedmann (anni ’20).

Primariamente si criticano le lacune che derivano dalla mancata attenzione agli aspetti
psicologici del lavoro:

• Errore nel considerare i movimenti elementari dell’azione lavorativa anziché la sua


totalità.
• Errore di imporre dall’esterno ritmi, pause e modalità di lavoro che prescindono dalla
fisio-psicologia umana.
• L’inattendibilità dei tempi.
• Stabilire norme standardizzate uguali per tutti.
• Trascurare gli effetti psicologici del lavoro monotono e ripetitivo.

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La seconda critica riferisce la semplicistica antropologia tayloriana che sta alla base dello
scambio tra semplice incentivo monetario ed esecuzione di un lavoro senza senso.

3. Fatica e monotonia. I primi studi di psicologia industriale.

La pretesa di stabilire una soglia standard di fatica valida per tutti contrastava con la scoperta
che la reazione dei soggetti agli stessi sforzi è notevolmente differente. Queste scoperte portano
ad estendere l’analisi al problema della monotonia, intendendo che questa è legata alla fatica.
Wyatt, Fraser e Stock (1929) studiano gli effetti della monotonia è dimostrano che la noia può
evitarsi in due condizioni non etiche: quando il lavoro è provvisto di un alto significato e
responsabilità da concentrare la totale attenzione oppure quando il lavoro è talmente
meccanico da richiedere la minima attenzione. La noia è massima quando il lavoro richiede
attenzione ma è troppo ripetitivo. Propongono 5 metodi per evitare la noia:

1. Rotazione di attività nel corso lavorativo.


2. Retribuzione a cottimo.
3. Organizzare il lavoro in modo da favorire nell’operaio la percezione della propria attività
come esecuzione di compiti conclusi, separati e dotati di senso.
4. Evitare l’isolamento e favorire la formazione di gruppi spontanei.
5. Introdurre periodi di riposo nei turni di lavoro.

Queste pratiche però non furono adottate quasi mai.

4. La nascita della scuola delle Relazioni Umane.

USA, anni ’40-’50: propensione ad abbracciare un sistema di convinzioni che attenuasse il


contrasto tra la durezza delle prescrizioni che regolavano il lavoro subalterno in una economia
di mercato e la nobiltà dei valori umani della democrazia nord-americana. Questo bisogno viene
soddisfatto dalla Scuola delle Relazioni Umane. Il principale esponente della Scuola fu Elton
Mayo (1880-1949), un psicologo australiano, emigrato negli USA, professore di Harvard, che fu
il primo in comprendere l’importanza, nel contesto organizzativo, del fattore umano e
l’organizzazione sociale del lavoro analizzando il “gruppo di lavoro” o team work.

Le prime ricerche di Mayo. Western Electric Company, 1923-1924.

Le prime ricerche, conformi allo spirito del scientific management sono un programma di studio
sperimentale sul grado di connessione esistente tra illuminazione e rendimento o produttività
dei lavoratori. Per ciò useranno due gruppi di operaie: uno sperimentale (aumento progressivo
dell’illuminazione) e uno di controllo (mantenendo le condizioni già esistenti). I risultati
disorientano i tecnici della Western: sebbene il gruppo sperimentale aumentò la produttività,
anche lo fece il gruppo di controllo, pel cui avevano dedotto che le operaie interpretavano la
diminuzione della luce come una sfida alle loro capacità. Il risultato di questi sperimenti viene
noto come “Effetto Hawthorne” e si comincia a ipotizzare la rilevanza di altri fattori oltre a quelli
di tipo materiale.

Le seconde ricerche di Mayo, 1927-1932.

In questo periodo vengono effettuate tre ricerche: sui fattori che favoriscono il rendimento
operaio, sui motivi di lamentela e di soddisfazione, sui fattori di solidarietà o antagonismo
informale.

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1. Primo esperimento: Fattori formali e informali nel rendimento operaio. Montaggio dei
relè.

Lo scopo fu accertare se i fattori più efficaci nello stimolare il rendimento operaio erano di natura
economica oppure di natura psico-sociale, cioè miglioramenti di natura psicosociale o delle
condizioni materiali. Il gruppo era stato formato da 6 operaie (cinque addette al montaggio e
una addetta al rifornimento dei materiali) che vennero spostate in un locale apposito con tavoli
di lavoro muniti di un congegno per la registrazione automatica dei relè prodotti, a loro ci si unì
una osservatrice in rappresentanza della direzione che aveva due funzioni: registrare quanto
avveniva nella sala e favorire un’atmosfera cordiale nel gruppo. Il cottimo venne modificato,
sarebbe stato calcolato sulla produzione. L’esperimento fu articolato in tredici periodi ognuno
caratterizzato da una modifica dell’orario.

Alla conclusione dell’esperimento gli esperti assicurano che la produzione media oraria sia
aumentata circa il 30% (passando da 2400 relè/settimana in condizioni normali a 3000 nella
dodicesima settimana) ma tale aumento era avvenuto in un modo lento e continuo senza
correlazione stretta alle modifiche introdotte. La spiegazione fornita dai ricercatori era che
l’elemento più capace di spiegare il maggior rendimento è la creazione di affiatamento tra le
operaie e la cooperazione tra esse e il supervisore, un secondo fattore era anche l’incentivo
economico del gruppo ha avuto certo effetto, anche se modesto, per ultimo l’effetto derivato
dall’introduzione delle pause di riposo fu positivo, ma non troppo importante.

Ci sono però importanti critiche al lavoro di Mayo dovuto a certe scorrettezze di metodo e
orientamento preconcetto: si sottovaluta la sostituzione iniziale di due operaie dopo otto mesi,
l’adozione di parametri e misurazione diversi, l’influenza di fattori esterni in forma di crisi
economica (1929) e l’orientamento preconcetto delle analisi (gli autori respingono le ipotesi non
gradite e accettano quelle predilette).

Dopo queste critiche si conclude che il 97% delle variazione di produzione vanno imputate (in
ordine di maggiore a minore importanza) a: gli interventi disciplinari del management, gli effetti
del crack del ’29, l’introduzione delle pause di riposo.

2. Seconda ricerca: interviste sui motivi di lamentela e soddisfazione.

Il programma parte da 1600 interviste riguardanti i motivi di lamentela e soddisfazione che,


inizialmente, duravano circa 30’ ma poi si prolungarono fino essere colloqui in profondità.
L’intervista dunque cambio la sua funzione originaria e diventò un mezzo di intervento
consulenziale esteso ai 40.000 impiegati della Western. Il programma si fermò quando se ne
avevano fatto 21.000 nel 1930 dovuto alla situazione di depressione economica.

I risultati che ne derivano, però, sono poco utili per l’azienda dovuto alla prevalenza di commenti
negativi, specialmente relativi ai bassi salari, la stretta sorveglianza, gli orari e lo stato disagevole
degli armadietti, si verificano infatti sintomi di scarsa integrazione degli operai. Questo è stato
il motivo di critica al metodo, si intende che l’impresa soltanto cercasse le soddisfazioni.

Gli osservatori stabiliscono la gerarchia di affidabilità, considerando unicamente razionali le


lamentele basate su fatti direttamente controllabili come poteva essere lo stato degli armadietti.

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3. Terza ricerca: i fattori di solidarietà e di antagonismo informale.

Delle tre ricerche è quella più corretta a livello metodologico. Lo scopo della ricerca era verificare
le dinamiche informali di un piccolo gruppo di lavoro rispetto all’attività produttiva mediante
l’osservazione di un gruppo sperimentale di 14 operai addetti al montaggio dei quadri telefonici,
questo derivava dalle conclusioni dei primi due sperimenti che suggerivano l’importanza dei
gruppi informali che, peraltro, non ha sempre conseguenze positive per la produzione potendo
rallentare intenzionalmente la produzione stessa fissando la produttività dei singoli operai.

Scoprono che le attività dei lavoratori sono regolate da norme informali che prescrivevano
solidarietà interna:

1. Non produrre troppo, se lo fai sei un “guastacottimo”.


2. Non produrre troppo poco, se lo fai sei un imbroglione.
3. Non dire nulla ai superiori che possa danneggiare un compagno, se lo fai sei una spia.
4. Non evitare le distanze sociale ma non essere troppo invadente.

Osservano anche che nello stesso gruppo ci sono sottogruppi: quello centrale, composto da
coloro che si uniformavano alla norma e uno marginale di operai che non riuscivano a tenere i
ritmi di produzione. I risultati che ne derivano di questo studio sono:

• I soggetti di un gruppo di lavoro vanno considerati membri di un sistema sociale dotato


di norme in parte elaborate dal gruppo stesso.
• La distinzione tra aspetti formali e informali è fondamentale per comprendere le
dinamiche di gruppo.
• Il gruppo attiva meccanismi di autodifesa contro pressioni esterne.
5. L’ideologia delle Relazioni Umane. Temi più rilevanti:
5.1. L’importanza del fattore umano.

Mayo sottolinea la necessità di una visione più completa del rapporto uomo-azienda che
recuperi il fattore umano, cioè il complesso dei fattori psicologici latenti che condizionano il
comportamento manifesto dei soggetti. Molti aspetti della condotta umana non possono essere
spiegati in termini logici e richiedono il ricorso a fattori alogici, di natura emozionale. Partendo
da questa idea possiamo affermare che una maggiore attenzione dell’azienda alle esigenze
psicologiche dei soggetti può essere più efficace per il rendimento lavorativo che un aumento
della remunerazione, il fattore umano viene soddisfatto con la creazione di un ambiente di
lavoro socialmente gradevole.

L’uomo di Mayo non è un individuo isolato (come ipotizza Taylor) ma possiede una dimensione
sociale in cui si radica la struttura psico-emotiva della sua personalità.

5.2. L’anomia della società industriale e l’azienda come istituzione regolatrice.

Per Mayo la società industriale è turbata da crisi e tensioni (delinquenza, alcoolismo…) ossia
espressioni della medesima disgregazione sociale e morale che negli anni ’30 colpiva gli USA. Per
spiegare questi fenomeni si affida al concetto di anomia (Durkheim): condizione di allentamento
delle norme morali che regolano il funzionamento sociale, si manifesta quando il primitivo
ordine sociale viene alterato da fenomeni innovativi come la brusca introduzione di nuovi
metodi di produzione.

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La società non anomica tipicamente è una comunità piccola dove i membri hanno una chiara
identità sociale, conoscono il proprio ruolo e le tappe che questo ha. In questo tipo di società gli
interessi individuali non contrastano con quelli generali. Questo modo di vivere è stato distrutto
con l’industrializzazione del mondo moderno, è stato il costo sociale e morale a pagare dovuto
alla visione degli imprenditori fissata nella finalità economica. Il rimedio che Mayo trova è quello
di tornare a istituzioni secondarie dotare di forti funzioni integratici (quella più tipica era la
fabbrica), scartando l’intervento pubblico statale. Bisogna impegnarsi in programmi sociali
destinati a allontanare gli operai da tentazioni conflittuali, permettendo sviluppare una
relazione emozionale con la fabbrica: attività integrative, servizi…

5.3. Il primato degli aspetti informali nell’organizzazione produttiva.

I rapporti non istituzionalizzati sono di fondamentale importanza se questi sono collaborativi e


danno luogo a una atmosfera generale che favorisce l’integrazione sociale e la produzione. Mayo
raccomanda che li lavoro sia riorganizzato riunendo gli operai in piccoli gruppi mediante lo
sviluppo dell’adatta professionalità delle gerarchie di officina.

6. Conclusioni. Le Relazioni Umane come lubrificante del taylorismo.

Con gli esperimenti nella Western Electric si apre l’interesse per precisare il significato e
connessione tra le principali variabili poste in luce dalle ricerche Hawthorne: il morale dei
dipendenti, le motivazioni al lavoro, le relazioni informali, i fattori psico-sociologici di
integrazione e conflitto. Più tardi, infatti, viene messa in crisi da successive indagini l’esistenza
di una connessione positiva tra morale e rendimento.

Nei decenni centrali del S.XX il progresso tecnologico si manifestò in processi di crescente
meccanizzazione intensiva, queste innovazioni portarono certi cambi nel controllo del lavoro
umano: aumentò la rigidità ed integrazione delle varie fasi del flusso produttivo con il
conseguente spostamento dell’attenzione al mantenimento della massima regolarità produttiva
e, in secondo luogo, il declino del cottimo individuale e la comparsa di cottimi collettivi di
squadra. Queste tendenze significano il superamento di due prescrizioni del taylorismo, cioè:
l’incorporazione nelle macchine di tempi e modi di esecuzione attenuava la necessità di ricorrere
alla pura disciplina gerarchica come mezzo di controllo; dall’altro lato il lavoro di squadra prevale
su quello solitario, fatto che andava d’accordo con la proposta umanistica di creare gruppi
armonici di lavoro.

Altro punto importante era l’insistenza sull’importanza dei rapporti informali, affinare la
sensibilità psicologica dei quadri intermedi per sapere ascoltare. Di fronte alla
spersonalizzazione del processo produttivo è urgente che il manager recuperi il consenso
operaio puntando sulla personalizzazione dei rapporti gerarchici di officina.

LEZIONE 5. Chester Barnard (1886-1961). L’azienda come sistema cooperativo.

1. Fondazione etica della società e management non proprietario.

Chester Barnard, un dirigente-manager di compagnie telefoniche, riflette nel suo pensiero


due cambiamenti importanti: declinare l’individualismo concepito come una lotta tra
individui a favore di una filosofia che considera la società come un’entità cooperativa da
principi morali e una progressiva distinzione tra fini organizzativi e movimenti personali, la

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ricerca di consenso anziché decisioni autocratiche. Barnard è il primo a distinguere la


proprietà dal management.

2. La parabola del masso. I fondamenti dell’azione cooperativa.

Barnard scrive nel 1938 La funzione del dirigente dove cerca mostrare, mediante la parabola del
masso, la transizione dallo sforzo individuale a quello cooperativo, ossia la creazione di
organizzazioni formali mettendosi una domanda: come è possibile che persone tra loro estranee
creino un’organizzazione?. L’uomo è caratterizzato dal fatto di proporsi degli scopi per
trasformare l’ambiente in cui vive ma che sperimenta continuamente l’esistenza di limiti, ma nel
momento in cui cominciano a cooperare per conseguire fini comuni, gli uomini entrano in una
realtà sociale qualitativamente diversa da quella definita dal loro agire isolato, entrano nelle
realtà di organizzazioni formali. L’ambizione di Barnard è sviluppare una teoria valida per
qualsiasi tipo di organizzazione: il fine organizzativo non è mai uguale alla somma dei movimenti
individuali, le nuove persone accetteranno di cooperare solamente se otterranno una
ricompensa maggiore.

La parabola del masso: «Un uomo sta viaggiando su una strada isolata. Ad un certo punto, egli
si imbatte in un grande masso che gli impedisce di proseguire il cammino. La prima soluzione
possibile è tentare di spostare il sasso da solo. Se il masso è talmente grande da non poterlo fare,
il nostro uomo potrebbe aspettare che arrivi qualche altro viandante per rimuoverlo insieme.
Potrebbe accadere che, nonostante siano arrivati altri individui, essi non riescano a spostare il
masso e qualcuno decida di tornare indietro senza proseguire. Dopo aver vagliato varie ipotesi,
alcuni decidono di chiedere aiuto ad un contadino che guida il trattore in un campo vicino. Egli,
però, non ha alcun interesse a spostare il masso, fino a quando i viandanti non decidono di
offrirgli una somma di denaro.»

2.1. Livello formale e informale dei rapporti umani.

I rapporti informali creano le condizioni in cui può sorgere l’organizzazione, ma si limitano


unicamente a favorire atteggiamenti, di conseguenza finché si resta nell’ambito di un rapporto
informale, non è possibile stabilire un sistema cooperativo. Barnard sottolinea, però, che
l’organizzazione informale esige un certo ammontare di formalità e non può durare senza
l’emergere di organizzazione formale, dove il successo dell’uno diventa la premessa per il fiorire
dell’altro.

Nel caso della parabola, l’elemento informale si distingue nella comunicazione tra le persone,
mentre quelli formali si verificano quando decidono cooperare. Se uniamo la comunicazione con
la cooperazione possiamo generare un’organizzazione mediante un sistema cooperativo.

2.2. Fini dell’organizzazione e movimenti personali.

Nel momento in cui il fine comune viene perseguite tramite l’organizzazione formale diventa il
fine organizzazione e da esso vanno analiticamente distinti i moventi per cui gli uomini
partecipano all’organizzazione. Strettamente parlando, per Barnard il fine dell’organizzazione
non ha alcun significato per l’individuo, ma a lui importa la relazione che ha con l’organizzazione,
questa deve incentivarlo per seguire il fine organizzativo.

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Dalla distinzione tra fini organizzativi e movimenti individuali consegue che non si può limitare
a perseguire soltanto i fini impersonali dell’organizzazione, ma che vanno tenuti presenti anche
i movimenti dei singoli. Ogni singolo è dotato di una duplica personalità: quella organizzativa
(modalità delle sue prestazioni) e quella individuale (l’equilibrio tra il suo contributo
all’organizzazione e i benefici che ne ricava).

3. Efficacia ed efficienza.

Per efficacia intende la misura in cui l’organizzazione raggiunge i propri obbiettivi, definita dal
grado con cui essa coordina le risorse umane e tecnologiche per garantire quelle specifiche
prestazioni. Barnard non assume il profitto come fine ma la produzione di un dato bene o
servizio.

Con efficienza intende la misura in cui si soddisfano le motivazioni individuali a far parte di un
sistema cooperativo: retribuzioni, profitti, gratificazioni morali… che si traggono dal cooperare.

Efficienza ed efficacia sono due dimensioni del sistema cooperativo che non sono
necessariamente correlate, tra entrambe di solito ci sono tensioni e dilemmi.

4. L’economia degli incentivi.

Per prima volta si parla di incentivi, materiali e non, per motivare al lavoratore. Barnard infatti
da tanto valore a quelli non materiali (gratificazioni morali, stima…) per cambiare il desiderio dei
lavoratori mediante iniziative di persuasione fino che gli incentivi diventino adeguati.

Ricorre alla terminologia di “economia del rapporto tra contributi ed incentivi” (W. Pareto) che
stabilisce che le soddisfazioni che inducono un uomo a contribuire con i suoi sforzi ad una
organizzazione derivano dal confronto fra i vantaggi positivi e gli svantaggi che comporta”.

4.1. Il primato degli incentivi non materiali.

Non parla soltanto della gradevolezza psicologica dei rapporti informali, ma anche quella
fondata sulla dimensione morale dell’agire collettivo. Considera infatti che quando le necessità
sono soddisfatte, la pura forza degli incentivi materiali è estremamente debole, l’efficienza
significa dare denaro fino al punto in cui diventa di maggior valore per il datore di lavoro e di
minimo valore per il dipendente.

4.2. La generalità astratta della condizione di membro cooperatore.

Qualsiasi categoria di membro è concettualmente unificata nella medesima categoria di


membro cooperatore. Questo costituisce un limite nella sua analisi visto che non offre strumenti
per esaminare le differenze che il contributo dei membri assume a seconda del tipo di
organizzazione.

4.3. La fondazione soggettiva del valore e l’effetto complessivo della cooperazione.

L’uomo di Barnard calcola, giudica e confronta, oggetto dei suoi giudizi, il significato complessivo
che ricava dalla cooperazione e i benefici materiali. Per affrontare l’obiezione che un sistema
cooperativo ha bisogno per sopravvivere ed espandersi di una somma di risorse il cui valore
economico sia superiore alla somma degli incentivi distribuiti, Barnard usa l’economia degli
incentivi.

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5. La teoria dell’autorità.

Quanto più l’autorità è discreta, di basso profilo, conforme a procedure e rituali, maggiori sono
le sue probabilità di essere accettata e di raggiungere i suoi obiettivi. Non richiede l’uso di forza
o coercizione, deve essere capace di comunicare e comandare secondo un codice di valori
riconosciuti.

5.1. Caratteristiche formali dell’autorità.

L’autorità non risiede nell’occupare una posizione gerarchicamente superiore ma nel fatto che i
sottoposti riconoscono un carattere di ordine alle comunicazioni che arrivano da certe posizioni.
Per essere efficace, gli ordini de parte dell’autorità devono essere:

• Le linee di autorità devono essere chiaramente stabilite per fare capire l’ordine.
• Il contenuto dell’ordine non deve contrastare con i fini generali.
• Il contenuto deve essere compatibile con gli interessi individuali.
• Gli individui a cui si dirige l’ordine devono essere in grado di seguirlo.
5.2. L’oggetto dell’autorità: estensione delle aree di disponibilità.

L’oggetto su cui si esercita l’autorità nella distinzione tra fini dell’organizzazione e moventi
dell’individuo. Il traguardo dunque è quello di gestire il rapporto tra contributi e incentivi in
modo tale che i sottoposti allarghino la sfera della propria disponibilità ad obbedire ai comandi
che servono agli scopi dell’organizzazione. Possiamo introdurre il concetto di area di
indifferenza, ovvero la disponibilità ad eseguire degli ordini in modo indiscutibile, più ampia è
più efficace rende al sistema di autorità, per tanto più ampia è l’efficienza, più ampia diventa
l’area di indifferenza.

Su questo versante Barnard si distingue dalla Scuola delle Relazioni Umane. Mentre la Scuola
afferma che la creazione di un clima sociale gradevole ha per scopo di ottenere l’adesione
emotiva dei dipendenti ai fini dell’impresa, Barnard elabora una teoria più sottile: l’agire
cooperativo si fonda sul primato degli incentivi morali; tale primato non conduce a sussumere i
movimenti individuali ai fini, bisogna riconoscere che gli individui hanno spazi privati e lealtà
molteplici, che si sottraggono alla dimensione esclusiva di un’organizzazione.

6. Le funzioni del dirigente.

Possiamo incontrare tre funzioni principali:

1. Assicurare un efficiente sistema di comunicazioni.

Assicurare che le comunicazioni fluiscano e costruire una struttura generale di ruoli e collocarvi
persone adatte a garantire il flusso ottimale delle comunicazioni.

2. Garantire l’ acquisizione regolare e costante delle risorse necessarie per il funzionamento


dell’organizzazione.

Risorse rappresentate dai membri da portare in relazione cooperativa con l’organizzazione e i


servizi che questi possano fornire.

3. Determinare i fini dell’organizzazione.

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I processi che coinvolgono tutti i membri attraverso un’articolazione progressiva in obiettivi


sempre più specifici fino che definire il lavoro non sia più che specificare il lavoro che c’è da fare.

Un buon dirigente è quello chiamato il dirigente in grigio: garantisce l’equilibrio attraverso atti
discreti e poco visibili con una personalità caratterizzata dal senso di responsabilità e coerenza
rispetto ai valori e principi dell’organizzazione.

7. La personalità del dirigente. Conclusioni.

Le doti di comando consistono in una complessità morale e un senso di responsabilità superiore


alla media, capendo complessità morale come una pluralità di codici di comportamento che
presiedono a diversi ambiti di realtà. Il senso di responsabilità è una sorta di “meta-codice” che
nei dilemmi morali garantisce l’affidabilità e coerenza ad un principio della persona.

Capiamo dunque per responsabilità direttiva la capacità dei leaders che li obbliga a legare la
volontà degli uomini alla realizzazione di fini che vanno oltre i loro fini immediati.

Barnard affronta anche l’avvento dei manager-non proprietari: mediatore tra proprietà e
lavoratori in ricerca di consenso piuttosto che di decisioni autocratiche, per potere scontrarsi
con entrambe parti ha bisogno di una legittimazione per portare avanti, con autonomia, le sue
decisioni.

LEZIONE 6. Max Weber (1864-1920): la burocrazia come apparato del potere legale.

Sociologo tedesco che scrive le sue opere più rilevanti tra 1903-1920. Il suo analisi è
contemporaneo a quello di Taylor ma in un ambiente sociale e culturale diverso, quello delle
scienze sociali europee. Il suo metodo consiste nell’elaborazione di tipi ideali, derivati
dall’osservazione dei fenomeni storici attraverso un processo di astrazione, e la loro
proposizione come modelli di riferimento per la conoscenza della realtà. Una seconda differenza
con Taylor l’ambito di applicazione: mentre il taylorismo osserva l’industria, Weber mette in
primo luogo l’organizzazione degli apparati amministrativi.

1. La sociologia comprendente. Oggetto e strumenti della ricerca sociologica.

Lo scopo di fondo è la risposta che Weber da alla domanda “quale deve essere l’oggetto e lo
scopo di conoscenza delle scienze storico-sociali, e quale metodo devono adottare?”. I positivisti
sostenevano ricondurre le scienze sociali al grande modello delle scienze naturali in modo da
scoprire leggi universali. Gli storicisti, invece, sostenevano che tutto ciò non è possibile perché
non esistono leggi del divenire umano.

Di fronte a questo dibattito Weber rifiuta le tesi positiviste ma vuole riformulare radicalmente
quella delle tesi storicistiche. Non solo non esistono leggi universali della storia umana ma non
è neppure fondato privilegiare alcune sfere dell’attività umana indicandole come capaci di
spiegare in ogni caso ciò che avviene in altre sfere, come per esempio fa il marxismo con
l’economia.

Rifiuto al positivismo di Durkheim: secondo Durkheim la società va considerata come una realtà
morale che viene prima dei singoli individui, la sociologia deve studiare i fatti sociali come se
fossero esterni e indipendenti delle coscienze individuali.

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Rifiuto delle conclusioni storiciste: affermano che il carattere irripetibile dei fenomeni umani
nega la possibilità di generalizzazioni e di confronti e negano alla sociologia uno spazio
autonomo rispetto alle discipline storiografiche.

Weber sostiene che sia possibile pervenire a delle conoscenze basate su generalizzazioni e
confronti sistematici e studiare le influenze, e connessioni, che esistano tra ogni fenomeno
sociale.

Oggetto della sociologia è l’agire dotato di senso: l’atteggiamento umano a cui l’individuo che
agisce attribuisce un suo senso soggettivo, in riferimenti all’atteggiamento di altri individui. La
sociologia deve essere una conoscenza scientifica, empiricamente verificabile e dotata di
significati generali cuoi scopo sia comprendere e spiegare l’agire sociale in modo da pervenire a
conclusioni il più oggettive possibili. Comprendere e spiegare devono integrarsi in un unico
processo di spiegazione comprendente facendo riferimento alle cause oggettive che possono
avere indotto gli individui ad agire in un dato modo e motivazioni soggettive che gli individui
danno al loro agire.

2. L’agire dotato di senso.

Non sono oggetto di interesse sociologico le azioni umane prive di senso intenzionato nei
confronti di altri individui. L’oggetto è l’agire sociale dotato di senso, Weber studia i fondamenti
di questo agire:

• L’agire razionale rispetto allo scopo: il soggetto agisce in un modo razionale al fine di
conseguire un determinato scopo nel mondo esterno. Lo scopo viene perseguito con
costanza e metodo, valutando i costi che comporta.
• L’agire razionale rispetto al valore: il soggetto è determinato dalla credenza consapevole
di un determinato valore in sé che viene testimoniato nell’agire indipendentemente
dalle conseguenze che ne possono derivare. Il soggetto agisce razionalmente
accettando tutti i rischi.
• L’agire affettivamente: determinato da impulsi, emozioni e stato d’animo per soddisfare
un bisogno.
• L’agire tradizionalmente: in base ad un’abitudine. Reazione a stimoli abitudinari.

Questi tipi di agire non formano una classificazione rigida, sono distinzioni analitiche: sono tipi
ideali. L’agire razionale rispetto allo scopo può essere anche del tutto irrazionale.

La diffusione della forma burocratica.

La burocrazia è la forma organizzativa che enfatizza la precisione, chiarezza, velocità, regolarità


ed efficienza ottenute attraverso una rigida divisione dei compiti, supervisione gerarchica e
regole dettagliate.

3. Il tipo ideale.

È ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la


connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e
là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente
posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo
quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro

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storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza
della realtà da quel quadro ideale.

Dobbiamo capire che il tipo ideale non è una media statistica, ma un concetto eminentemente
qualitativo, non serve a scopi classificatori e non è un modello morale.

4. Procedimenti concreti di costruzione del tipo ideale.

Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente
nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso
singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale.

Considera il potere la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un


determinato gruppo di persone, dando tre tipi puri diversi di potere legittimo

• Potere carismatico: fa leva sulle emozioni, il carisma è una qualità eccezionale attribuita
ad una persona che viene riconosciuta come capo.
• Potere tradizionale: basata sulla storia e la tradizione. Il potere è una carica ereditata.
• Potere legale: il potere si legittima mediante la legge. Democrazia.

Il potere è esercitato mediante la burocrazia, l’apparato amministrativo che deve essere:


permanente, organizzato in modo gerarchico e regolato da norme generali e astratte.

Il modello idealtipico di burocrazia è quello che presenta i seguenti elementi:

• Principio delle competenze disciplinate da leggi e regolamenti: divisione dei poteri.


• Gerarchia degli uffici: sovraordinanzione e subordinazione rigide.
• Segreto d’ufficio: separazione tra vita privata e professionale.
• Preparazione specializzata e specifica: esami e studi per diventare funzionario pubblico.
• Attività a tempo pieno: non è una professione secondaria o occasionale.
• Chi gestisce questa funziona deve essere un funzionario, non qualcuno nominato dal
sovrano.

Le conseguenze di questo modello ideale di burocrazia sono:

• L’ufficio diventa una professione.


• Prestigio di ceto.
• La carica è vitalizia e si configura in una carriera.
• Lo stipendio monetario è fisso.
• Il funzionario non è il proprietario degli strumenti di lavoro.

Questo modello viene favorito nelle società moderne dove lo sviluppo di una economia
monetaria e l’esistenza di problemi tecnici di carattere pratico ne hanno provocato la sua
necessità e utilità.

LEZIONE 7. Dopo Weber. Le conseguenze inattese della burocrazia nell’analisi di Robert


Merton (1910-2003).

Merton studia tra 1940 e 1960 la società piuttosto che il singolo usando modelli alternativi a
quello democratico. È un funzionalista che non cerca teorie generali della società ma teorie di
mezzo raggio (Taylo ne cerca di breve e Weber di largo). Propone una limitata revisione del

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funzionalismo: non crede che ci sia una funzione per una istituzione, ogni azione può avere varie
istituzioni. Si considera un funzionalista debole.

1. Sviluppi post-weberiani degli studi sulla burocrazia.

Weber lascia in eredità un presupposto ed un problema aperto. Il presupposto è che non è


possibile concepire le organizzazioni razionalmente orientate ad un fine se come burocrazie: la
burocrazia è l’unica forma in cui possono prendere corpo le organizzazioni razionali. Il problema
aperto è quello della razionalità definita in base al senso dei soggetti che agiscono ma che appare
insufficiente per affrontare l’effetto complessivo delle azioni sociali nelle organizzazioni.

Durante il periodo tra 1940 e 1960 ci sono diversi studi sulle ambivalenze della burocrazia e sulle
sue conseguenze inattese. Queste analisi sono caratterizzate da un doppio revisionismo.

• Revisionismo esplicito: sviluppato applicando un approccio funzionalistico ai temi


weberiani della burocrazia, che mette a fuoco gli scarti tra l’intenzione razionale e le
conseguenze non attese che ne derivano. Questi scarti vengono chiamati “funzioni
latenti”. Il modello di Weber richiede articolare e differenziare il modello d’analisi della
burocrazia. Le normative nelle organizzazioni appaiono troppo complessi per avere un
solo modello burocratico, Gouldner ne proporrà una tipologia formata da una pluralità
di modelli burocratici. Sleznick, inoltre, ne studierà l’influenza di gruppi di potere esterni
sul funzionamento e fini delle organizzazioni.
• Revisionismo funzionalista debole: rifiuta le ipoteche organicistiche. È un superamento
dell’idea di burocrazia come unica forma di organizzazione razionale. Recuperano la
dimensione weberiana del senso che i soggetti conferiscono alle loro azioni.

Entrambi revisionismi sono collegati: prendono distanze da Weber mediante un approccio di


ispirazione funzionalista e si prendono distanze dalle versioni più pesanti del funzionalismo
recuperando l’intenzionalità del soggetto che è al centro della riflessione weberiana.

Dagli anni ’60…

La ricerca organizzativa comincia a porre in questione il presupposto weberiano che la


burocrazia sia la forma unica e specifica in cui prendono forma le organizzazioni razionali
orientate ad un fine. Crozier ha una proposta basata sulla necessità di contare con le nuove
tecnologie e la crescente autonomia e sofisticazione culturale come soluzioni post-burocratiche.
Mintzberg propone il management per obiettivi intendendo le organizzazioni come una pluralità
di configurazioni interne ispirate a diverse logiche di funzionamento. Per ultimo, Williamson e
Ouchi danno vita alla “Teoria dei Costi di Transazione” che percepisce le organizzazioni come
modello stabile di transazioni tra individui.

2. Funzionalismo forte e funzionalismo debole nella sociologia americana: Parsons e


Merton.

Il paradigma egemonico della sociologico nella sociologia nordamericana a metà del XX secolo,
il funzionalismo, ha le sue origini nell’opera di Durkheim (1895) che aveva teorizzato la necessità
di:

• Considerare i fatti sociali come cose dotate di potere di coercizione sulla condotta dei
singoli individui (oggettivizzazione della società).

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• Distinguere tra la causa del fenomeno e la funzione sociale al di là delle intenzioni e dalle
rappresentazione dei soggetti.
• Concepire la società come un sistema: ogni mutamento in una parte si riverbera sulle
altre.
• Visione organicistica della società: un sistema sociale unitario composto da parti
interdipendenti, con un funzionamento in qualche modo assimilabile agli organismi
biologici.

Questo modello teorico consentiva considerare riti, cerimonie, religione… come componenti
organiche del sistema sociale necessarie per mantenerlo in vita con i suoi equilibri interni.

Talcott Parsons.

Il funzionalismo appariva congeniale per sostituire la fondazione utilitaristico-individuale della


convivenza sociale con una fondazione basata sulla natura morale delle norme; sottolineare le
funzioni integrative svolte dalle istituzioni sociali e considerare la società come un sistema
sociale dotato di meccanismi interni per auto-mantenersi e considerare ogni forma di conflitto
come una patologia. Il funzionalismo forniva a Parsons le basi teoriche per una sottointesa
operazione conservatrice di legittimazione dell’ordine sociale esistente.

Ricezione del funzionalismo di Robert Merton.

Opera una assunzione “debole” delle tesi funzionaliste, costruendo tesi di medio raggio formate
da una serie di ipotesi molto specifiche da verificare con metodo empirico su una gamma
limitata di fenomeni. Formulare ipotesi di medio raggio è porre l’analisi sul rapporto tra teoria e
ricerca empirica. Rifiuto di una teoria generale, ci deve essere sempre una interazione attiva tra
teoria e ricerca sul campo. La ricerca svolge quattro funzioni nei confronti della teoria: suscitarla,
riformularla, riorientarla e chiarificarla. La teoria invece retroagisce sulla ricerca fornendola di
ipotesi di lavoro da verificare sul campo.

3. Critica di Merton ai postulati funzionalisti.

Rifiuta l’unità funzionale della società che assume che le funzioni assunte da una data istituzione
sono sempre omogenee e diffuse nell’intero sistema sociale. Merton pensa che la società non
può considerarsi un organismo vivente in cui le parti sono tutte interconnesse, l’integrazione
varia col tempo.

Il secondo postulato è quello del funzionalismo universale secondo cui ogni istituzione
consolidata svolge necessariamente una funzione dentro della società. Non c’è sempre una
corrispondenza biunivoca.

Il terzo punto della critica di Merton proclama una corrispondenza necessaria e biunivoca tra
istituzioni e funzioni, ma uno stesso elemento o istituzione può avere diverse funzioni.

4. Funzioni manifeste e funzioni latenti.


• Funzioni manifeste: funzioni che contribuiscono all’adattamento del sistema, volute ed
ammesse dai membri che fanno parte del sistema.
• Funzioni latenti: funzioni con conseguenze oggettive non volute né ammesse dai
membri che fanno parte del sistema.

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L’analisi delle funzioni manifeste delle organizzazioni sociali (come ad es. le istituzioni pubbliche)
caratterizza frequentemente gli studi commissionati allo scienziato sociale, che dà un
importante contributo nel mettere in luce e valutare le conseguenze di determinati fenomeni •
È però l’analisi delle funzioni latenti che caratterizza l’attività dell’intellettuale “libero”, e che
maggiormente può aiutare al miglioramento della società e del suo funzionamento: – Funzione
critica e illuministica: scoprire aspetti non noti della società e andare oltre il senso comune per
una costruttiva critica sociale e per un aumento della consapevolezza.

Le conseguenze note e volute sono le funzioni manifeste, quelle non volute e non note sono le
funzioni latenti.

Dice Merton: “sono funzioni manifeste quelle conseguenze oggettive che contribuiscono
all’adattamento e adeguamento del sistema, le quali sono volute e ammesse dai membri che
fanno parte del sistema. Correlativamente sono funzioni latenti quelle conseguenze oggettive
che non sono volute né ammesse”.

Il concetto di funzioni latenti serve a Merton per spiegare le disfunzioni della burocrazia:

1. Incapacità addestrata (deformazione professionale): i funzionari non sanno adattarsi a


quello che sta al di fuori della norma.

Weber fa notare la complessa normativa che regola l’apparato burocratico. Le funzioni


manifeste di ciò sono diverse: trattamento equo ed imparziale degli utenti, eliminazione attriti
tra membri della burocrazia, maggiori capacità di esecuzione… ma per realizzare queste funzioni
manifeste, i funzionari devono specializzarsi nelle procedure (standardizzate) ed attenersi
strettamente ad esse. Secondo Merton le conseguenze inattese sono l’incapacità ad adattarsi a
condizioni mutate e la mancanza di duttilità nell’applicazione delle norme.

2. Ritualismo burocratico (adesione alla regola fine a se stessa): fedeltà alla norma
perdendo il fine dell’organizzazione, il funzionario pensa che il fine dell’organizzazione
sia la norma stessa.

La funzione manifesta iniziale, cioè, l’adesione alle regole come mezzo per garantire
l’imparzialità di trattamento diventa fine a se stessa generando un processo di “trasposizione
delle mete”.

3. Spirito di corpo e orgoglio di mestiere.

Secondo Weber i funzionari hanno coscienza che un destino comune gli unisce, con limitata
competizione interna e minima lotta interna. La funzione manifesta che ne deriva è che lo spirito
di corpo dovrebbe generare lealtà verso il proprio ufficio e verso l’organizzazione nel suo
complesso mentre l’orgoglio di mestiere dovrebbe scoraggiare atteggiamenti opportunistici e
spingere al servizio verso i cittadini. Le funzioni latenti possono essere suddivise in due:

• Spirito di corpo: i burocrati difendono i propri interessi piuttosto che assistere gli utenti.
• Orgoglio di mestiere: resistenza ai mutamenti della prassi stabilita percepiti come
imposti dall’esterno.
4. Contrastanti aspettative di burocrazia e utenza.

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Per assicurare l’imparzialità di trattamento (funzione manifesta) il burocrate segue la norma


dell’impersonalità e la categorizzazione dei problemi in macro-gruppi. L’utente però si aspetta
una personalizzazione dell’intervento ed è preoccupato di mettere in luce la peculiarità del
proprio problema. Il progressivo scollamento tra utenti e istituzioni pubbliche intese come
organizzazioni deputate a risolvere i problemi, provocando così disaffezione e un calo di
legittimazione.

LEZIONE 8 E 9. Alvin Gouldner (1920-1980): la pluralità dei modelli burocratici.

1. Il contributo di Gouldner al dibattito post-weberiano.

Gouldner si colloca nella corrente progressista e liberal della sociologia americana, adotta un
funzionalismo critico che lo rende sensibile ad individuare le funzioni latenti di provvedimenti,
norme e istituzioni. Rispetto a Merton, Gouldner da un passo avanti nel processo di revisione
critica del modello weberiano di burocrazia: non si limita a identificare e analizzare i limiti e
conseguenze inattese del modello ma cerca dimostrare che il modello unitario burocratico
weberiano è mina da una contraddizione insanabile tra i principi di disciplina e di competenza,
per cui conviene abbandonarlo e pervenire ad una pluralità di modelli. Il suo oggetto di indagine
sono una miniera e una fabbrica di gesso dove vengono studiati i rapporti tra minatori, operai,
gerarchia intermedia e dirigenza.

2. I presupposti teorici della ricerca.

Secondo Weber l’efficacia delle norme significa che queste sono instaurate per imposizione
oppure per consenso. Me è proprio l’alternativa tra imposizione e consenso a determinare
regole differenti per ottenere l’efficacia delle norme e, quindi, produrre modelli diversi a quello
burocratico (Gouldner). Weber cercava di delineare un modello sui principi della gerarchia e la
competenza professionale, cosciente che la compresenza di entrambi può portare tensioni.

Gouldner crede che queste tensioni possano creare problemi interiori e conseguenze
sociologiche. Una persona preposta ad un ruolo che comporta alte competenze e responsabilità
tende a comportarsi con l’autonomia derivante, un intervento esterno sarà visto come una
interferenza che possa minacciare questa autonomia.

Non in tutte le organizzazione esiste il dilemma tra l’agire di propria iniziativa ed il seguire la
prescrizione non adeguata proveniente dal superiore gerarchico: situazioni caratterizzate da una
forte professionalità in cui il principio di competenza è istituzionalmente riconosciuto come
superiore a quello di disciplina (esempio: medicina). Questa differenza di situazioni lavorative
suggerisce l’opportunità di abbandonare l’ipotesi di Weber di un modello burocratico uniforme.

3. La discesa sul campo: dal modello di indulgenza alla burocratizzazione.

1948: azienda dove vi ci lavorano 225 persone (150 nei reparti di superficie e 75 nella miniera).
Gouldner vi ci arriva giusto dopo la morte del direttore Dough e con l’arrivo di un direttore
giovane chiamato Peele.

Dough: modello di indulgenza. Antico miniere senza titolo di studi che capiva come funzionava
la fabbrica e i suoi lavoratori: esisteva un ambiente sociale ristretto dove tutti si conoscevano.
Mai aveva licenziato nessuno, l’orario non andava rispettato (si lavorava per obbiettivi),
movimento dentro della stessa azienda a livello professionale… tutto era regolato da Dough

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mediante un tratto amichevole. I risultati sono scadenti con perdite, ma non troppo elevate. La
sede centrale non conosce questo modello.

Peele: stabilisce orari, controllo del personale, richiamo disciplinare. È un modello burocratico e
stabislice, dunque, una gerarchia che provoca l’ostilità operaia (fronte comune) che provoca il
fallimento totale del modello. i

4. Gli aspetti inattesi della burocratizzazione.

In fronte a questa resistenza diffusa Peele ha due soluzioni:

1. Leadership carismatica: creare un gruppo di seguaci e demolire il vecchio carisma di


Dough. Ma questa soluzione appare difficile perché Peele era arrivato dall’esterno in
base ad un provvedimento burocratico. Poi, in secondo luogo, lottare con carisma
contro un altro carisma sarebbe stata una contraddizione.
2. Avvalersi delle qualità formali del suo ruolo: scendere a patti coi lavoratori, cerca alleati
convinti mediante promozioni (in base all’antichità), licenziamenti di quelli meno
favorevoli… si crea attorno delle solidarietà capaci di controllare l’esecuzione dei suoi
ordini e di informarlo di quanto avveniva in fabbrica. I risultati sono scarsi.

Dopo questi scarsi risultati Peele decide prendere una nuova strada, alterò i criteri di
promozione, in questo modo sapeva di crearsi altre inimicizie da parte delle persone scavalcata
ma, allo stesso tempo, la gratitudine e solidarietà dei beneficiati. L’occasione per allargare il
nucleo si presentò con l’arrivo di nuovo macchinario: col preteso delle nuove necessità derivate
dallo sviluppo tecnologico licenziò i capi più ostili.

Possiamo considerarlo una vittoria della burocrazia? Secondo Gouldner la realizzazione di un


processo di burocratizzazione non obbedisce soltanto alla finalità impersonale di aumentare il
perseguimento razionale degli scopi, ma è sempre condizionata e filtrata dalla particolare
situazione-problema del gruppo dirigente. La sua analisi parte dalla premessa che l’adattamento
di un’organizzazione ad una minaccia è determinato dagli individui che detengono il potere.
Quindi Gouldner arriva alla conclusione: “definire la burocrazia come la forma tipica di
legittimazione razionale del potere non significa che essa sia uno strumento imparziale al
servizio di una autorità impersonale.

5. I limiti della burocratizzazione: la situazione nella miniera.

Il successo della battaglia di Peele non fu completo. Verificò una sconfitta quando tentò di
burocratizzare la miniera perché le ragioni tecniche e sociali ne impedivano la razionalizzazione:
i minatori e gli operai formavano due gruppi sociali molto diversi, infatti i minatori disprezzavano
chi lavorava in superficie. I minatori erano un gruppo compatto in modo estremo con forte
solidarietà interna e una forte organizzazione informale. Diffidavano il progresso e avevano un
rispetto quasi mitico per i puntellatori, la gerarchia formale, pur essendoci, era ignorata: hanno
riti di iniziazione e prendono decisioni autonome sul suo orario e i giorni di lavoro (dopo 3-4
giorni di lavoro, si riposava uno). Sapevano essere gli unici con le conoscenze tecniche per
realizzare il suo lavoro.

Per raddirizzare la situazione, Peele pensò di adottare gli stessi metodi provati con successo in
superficie ma fallisce clamorosamente: i minatori promossi non accettarono la promozione

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oppure non la contraccambiarono nel modo aspettato da Peele. I motivi furono chiari: le
competenze tecniche necessarie per realizzare quel lavoro gli davano un vantaggio essenziale,
la profonda solidarietà tra minatori e il disprezzo alle regole gerarchiche.

Gouldner esamina le situazioni diverse e perché il modello di Peele fallisce in uno scenario e ha
esito nell’altro arrivando a una conclusione: le norme non hanno funzioni e obiettivi universali,
ma possono richiedere l’esercizio di funzioni diverse in base alle diverse situazioni. Ricordiamo
che Gouldner rimarcava che nelle situazioni con forte professionalità (miniera) in cui le
competenze sono ufficialmente riconosciute prevale la competenza, mentre in quelle più povere
di contenuti professionali (fabbrica) il principio di gerarchia è quello che si impone.

6. Funzioni manifeste e funzioni latenti delle norme.

Gouldner si pone la domanda: “in che modo una dirigenza può combattere l’apatia dei
dipendenti ed ottenere da loro la quantità e la qualità prevista dal lavoro? La risposta più
semplice è instaurare una rigida supervisione, ma questa non è sufficiente perché richiede un
controllo continuo e non farebbe che demotivare i dipendenti che la vedrebbero come una
punizione. Per rompere questo cerchio vizioso, si ricorre alle norme, stabilite con lo scopo di
garantire sufficiente certezza nell’esecuzione del lavoro subalterno. Le sue funzioni manifeste
sono:

1. Funzioni esplicative: sostituiscono con precisione gli ordini personali diretti. Rendono
esplicito il compito dei lavoratori e precisano il suo rapporto coi superiori.
2. Funzioni di schermo: evitano la ripetizione di ordini da parte dei superiori.
3. Funzioni di controllo a distanza: consentono di esercitare una supervisione indiretta e
pubblica, eliminando controlli personali che potrebbero essere arbitrari.
4. Funzioni di legittimazione delle punizioni: consentono di rendere prevedibili e
spersonalizzare le sanzioni inflitte in caso di infrazione.

Quelle latenti, invece, sono:

1. Funzioni di deriva: l’esistenza di norme formali dà ai superiori la possibilità di


contrattarne informalmente con i dipendenti l’applicazione al fine di ottenere la loro
cooperazione. Cioè, la tolleranza su alcune norme meno importanti può essere usata
come mezzo per ottenere in cambio l’osservanza rigorosa di altre norme importanti.
2. Conservazione dell’apatia: le norme sono lo strumento formale per l’ottenimento di un
risultato che si suppone ottimale ma che nella realtà si rivela solamente un minimo
tollerabile, ma legittimato. Ciò avviene dovuto alla mancata partecipazione dei
dipendenti, privi di motivazione. La soluzione può venire trovata nella leadership
carismatica.
7. Il modello teorico, tipologia dei modelli normativi.

Ponendo la distinzione tra norme operanti per coercizione e norme operanti per consenso con
la dicotomia tra dirigenza e dipendenti (capendo che e norme possono nascere anche su
iniziativa dei dipendenti oppure essere imposte da autorità esterne alla fabbrica), Gouldner
individua tre principali modelli normativi burocratici:

1. Burocrazia apparente: quando direzione e subordinato hanno un atteggiamento di


indifferenza o contrario verso le norme imposte dall’esterno. Per esempio: fumare nei

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locali di lavoro. Questa indifferenza svolgeva due funzioni latenti: rafforzò la solidarietà
tra direzione ed operai ed una funzione di deriva per stare più attenti ad altre norme.
2. Burocrazia rappresentativa: quando dirigenti e operai concordano nell’osservare norme
determinate come, per esempio, la norme anti-infortunistiche, di conseguenza le
tensioni nascevano dalla mancata osservanza a queste norme da una delle due parti.
3. Burocrazia impositiva: si verifica quando le norme sono imposte da una parte contro
l’altra. È la situazione potenzialmente più conflittuale perché il rispetto della norma può
essere ottenuto soltanto attraverso sanzioni disciplinari (direzione), oppure la minaccia
di agitazioni (dipendenti).
8. Conclusioni. Modello razionale e modello naturale.

Il modello di Gouldner presenta tre aspetti di rilevante novità:

1. Versante del dibattito sulla burocrazia: sforzo per il superamento del paradigma di
Weber individuando una pluralità di modelli adeguati ad interpretare la crescente
complessità organizzativa.
2. Versante del dibattito industrialistico: il modello di Gouldner cerca di leggere
l’intrecciarsi di collaborazione e antagonismo nel quotidiano funzionamento di
un’organizzazione di diverse teorie (marxismo, scuola delle RU…) mediante un modello
parsimonioso spiegato ricorrendo alla molteplicità delle norme che regolano il lavoro
organizzato.
3. Pone le basi per una analisi che vada al di là del modello razionale meccanico, nel quale
l’organizzazione è strumento per raggiungere scopi in base a criteri di razionalità ed
efficienza. A questo verrà contrapposto il modello naturale sistemico nel quale la
realizzazione di scopi dichiarati è uno dei molti bisogni da soddisfare, ed il principio di
razionalità è solo una delle possibili risposte cumulative con cui il sistema si adatta
all’ambiente.

LEZIONE 10 E 11. Michel Crozier (1922-2013): sistema burocratico e strategie degli attori.

Crozier è un sociologo francese che fonda il Centre de Sociologie des Organisations, società di
grande importanza specialmente nei 1960’s. Nel 1963 pubblica Le phénomène bureaucratique,
un’analisi “clinica” di due importanti amministrazioni pubbliche durante gli anni ‘50- ’60: un
Istituto di contabilità del Ministero delle Finanze e un Monopolio di produzione dei tabacchi.

Il modello culturale e storico francese è un elemento fondamentale per comprendere l’analisi di


Crozier e i suoi risultati, è consapevole che i suoi risultati non hanno validità universale. La storia
di una nazione plasma le sue istituzioni politico-amministrative.

Non considera le disfunzioni della burocrazia solo come effetti inattesi di un modello, ma le vede
come componente fondamentale di un modello gestionale errato, statico e incapace di cambiare
Per capire i funzionamenti della burocrazia bisogna tener conto delle strategie dei soggetti
all’interno dell’organizzazione, una frase rivelatrice del suo pensiero è: “l’uomo non è soltanto
un braccio e non è soltanto un cuore. L’uomo è una mente, un progetto, una libertà.”

1. Le principali novità teoriche del modello di M. Crozier.

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Con Crozier l’analisi della burocrazia indaga la burocrazia dell’Amministrazione Pubblica,


interloquendo con Weber, i post-weberiani, Taylor e la scuola delle relazioni umane. Gli aspetti
più rilevanti della ricerca di Crozier sono:

1. Interpretazione peggiorativa del termine burocrazia: la intende come un apparato lento,


pesante, inutilmente complicato e poco efficiente. Aggiunge che è incapace di correggere i
propri errori, per Crozier le conseguenze inattese di cui parlano i post-weberiani, sono
componenti fondamentali e tipiche della burocrazia, dei circoli viziosi relativamente stabili
che garantiscono l’equilibrio e il funzionamento del sistema burocratico.
2. Analisi strategica dei comportamenti burocratici: l’uomo è una mente, un progetto, una
libertà, non soltanto un braccio. L’analisi deve studiare gli attori, individuali e collettivi,
adottando quotidiani rapporti reciproci dentro il quadro delle regole formali
dell’organizzazione studiare le funzioni di un sistema burocratico è importante ma a patto
di vederle come effetto delle strategie che i soggetti mettono in atto all’interno del sistema.
3. Potere come controllo dei margini di incertezza: in un sistema burocratica dove tutto deve
essere impersonale e prevedibile si sfuoca la definizione weberiana di potere come
possibilità legittimata di ottenere obbedienza ad uno specifico comando.
4. Importanza dei modelli culturali nazionali: analizza modelli culturali francesi ed è
consapevole che i risultati non avranno una validità universale. Per studiare una burocrazia
pubblica si deve tenere conto dei tratti nazionali specifici del paese.
2. L’esame di due burocrazie statali.

Crozier si domanda cosa significa dal punto di vista della logica dell’azione sociale il passaggio da
un mondo di piccoli imprenditori, dominato dall’incertezza, ad un mondo di grandi unità
economiche più stabili e capaci di previsioni a lunga scadenza. Si interessa in particolare alla
sicurezza, la regolarità, l’impersonalità del funzionamento. Per ciò sceglie organizzazioni dove
questi tratti sono sviluppati al massimo: enti della pubblica amministrazione. Allora si domanda:
come funzionano? Quali rapporti sociali esistono? Ci sono ambizioni, strategie? Possibilità di
cambiare e adattarsi alle novità della società esterna?

2.1. L’istituto contabile parigino.

Il personale era quasi tutto femminile e il lavoro era estremamente regolare, omogeneo e
autonomo: ogni gruppo compie ogni giorno le stesse operazioni senza bisogno di cooperare con
altri gruppi e i carichi di lavoro sono definiti. I compiti della dirigenza sono molto limitati:
garantire la regolarità del servizio e far osservare la disciplina, ripartire i carichi di lavoro e
segnalare al Ministero le necessità dell’istituto. Il dominio delle regole impersonali, con poche
tensioni aperte ma anche poche occasioni di comunicazione e contatto sociale provocano:

• I dipendenti danno lo stretto necessario all’istituto e sviluppano la propria vita sociale


fuori del lavoro.
• Mancanza di rapporti sociali, si cerca di evitare qualsiasi conflitto con i superiori e
inferiori diretti.
• Lo stile di conduzione, impersonale e autoritario ottiene dai singoli impiegati basso
assenteismo ed elevata intensità di lavoro; tuttavia c’è una scarsa efficienza
complessiva.

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• Insoddisfazione si esprime nel forte avvicendamento annuo e nella bassa anzianità


aziendale, dopo non molto tempo cercano un nuovo lavoro.
• Tra i dirigenti intermedi c’è frustrazione dovuta a lunghi anni di servizio senza
responsabilità importanti.

La chiave interpretativa va trovata nella ripugnanza che a tutti i livelli i membri


dell’organizzazione provano per le situazioni che li porrebbero in condizioni di dipendenza e di
controllo diretto da parte dei superiori.

2.2. Il monopolio industriale (tabacchi).

La produzione non segue criteri di mercato e do profitto ma è fissata da un ufficio ministeriale.


Il posto di lavoro è garantito a vita, le retribuzioni sono egualitarie e vige il principio generale di
anzianità. La maggioranza dei dipendenti sono donne e la gerarchia è in mano di uomini.
Esistono dunque diversi gruppi:

1. Le operaie di produzione: sono categorie protette (vedove o orfane, mogli di mutilati…),


prive di vere abilità, ma difese dai sindacati secondo il principio della carriera garantita
dall’anzianità. Consapevoli dei privilegi ottenuti e interessati a mantenerli e avversione
al nuovo. Sono un gruppo molto numeroso.
2. I manutentori: importante componente tecnico-professionale, il sindacato esercita un
notevole ruolo, questo ha un accordo che permette il monopolio e l’autonomia di questi
contro ogni ingerenza della direzione: “nessun operaio può intervenire in caso di
guasto”. La sua posizione di forza gli offre notevoli margini di libertà nello stabilire
priorità, tempi e procedure di intervento.
3. Quadri intermedi: componente più frustrata. La rigida applicazione del principio di
anzianità toglie ai capi lo strumento della discrezionalità del disporre dei dipendenti.
Sono ridotti a guardiani delle norme, privi di reali competenze tecniche, con un ruolo
svuotato.
4. Direzione centrale: svolge un ruolo di basso profilo perché non ha competenza su campi
che la qualificherebbero strategicamente: gli obbiettivi vengono definiti dall’esterno, i
metodi e processi sono stabili e non è possibile gestire il personale. La unica competenza
reale è la logistica dei padiglioni. Hanno il massimo potere, ma è un potere vuoto: “il
direttore è prigioniero di un sistema che decide al suo posto”.

Tratti in comune tra le due istituzioni:

• Dominio di regole impersonali e astratte.


• Mancanza di contatti organici tra le varie categorie professionali.
• Mancanza di competizione in termini di competenza professionale.
• Incapacità di mutamento, di adattamento al nuovo.
3. Il potere come controllo dei margini di incertezza.

L’intento di Crozier è costruire un modello teorico del fenomeno burocratico dove gli aspetti
presentati fossero il risultato tra i vincoli posti dal sistema e le logiche di azione dei soggetti.
Compie un’analisi in termini di potere dei rapporti sociali trovati nelle due organizzazioni.
L’esercizio di potere, distinto dall’autorità formale, è sempre personale. Il sistema dei
regolamenti crea inattesi rapporti tra le persone che vanno visti come termini di potere.

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Per comprendere questo punto, partiamo dalle considerazioni di Crozier sul taylorismo. Il
taylorismo è un progetto razionalistico integrale in base al quale ogni gesto produttivamente
rilevante deve essere standardizzando secondo la one best way, il taylorismo si presenta come
la burocrazia perfetta. Ma è anche un’utopia: se ci fosse questa one best way il comportamento
di ogni membro diventerebbe del tutto prevedibile, non ci sarebbe nessun mezzo per farsi valere
nell’ambito dell’organizzazione, nessun mezzo per negoziare la sua partecipazione , neppure
rischio di essere obbligato a cedere alle pressioni (formali o informali). Se il taylorismo fosse
realizzato la discrezionalità sarebbe soppressa: ogni persona avrebbe un percorso
predeterminato da compiere, le scelte sarebbero abolite. Nella realtà esistono sempre margini
dovuti all’imponderabile, situazioni in cui le procedure previste non sono sufficienti e,
soprattutto, gli esseri umani non sono sempre riconducibili a comportamenti predeterminati.

Quanto avviene nel monopolio industriale (tabacchi) è significativo: da un lato regna l’ideologia
razionalistica di eliminare ogni rapporto di potere personale, regole precise; ma dall’altro nelle
aree come la manutenzione il comportamento degli addetti non è prevedibile e si è sviluppato
una rete di negoziazioni e pressioni interpersonali. Crozier fonda la possibilità di una sociologia
dell’iniziativa umana nelle grandi organizzazioni: imprevedibilità, liberta e anche potere. Più
rigida è la gabbia burocratica più quelli che sfuggono alla predeterminazione assumono libertà
e potere.

Il potere consiste nella possibilità di controllare i margini di incertezza di un sistema fortemente


codificato come quello burocratico. Non è lo stesso che l’autorità (come sostiene Weber). Le
lotte di potere sono quindi comportamenti strategici in cui alcuni cercano di sottrarre margini di
incertezza al controllo del prossimo.

Questa definizione ha una rilevante conseguenza teorica: lascia alle spalle la concezione
weberiana di potere come possibilità legittimata di ottenere obbedienza. Il potere è
essenzialmente scelta, iniziativa, strategia, possibilità di condizionare il comportamento altrui al
di fuori delle regole previste.

4. Lotte di potere e strategie dei soggetti.

La definizione di potere di Crozier consente di spiegare motivi e dinamiche delle lotte di potere
all’interno delle organizzazioni, ossia lotte per conquistare o mantenere il controllo delle forti di
incertezza. Quanto maggiore sia il livello di carenza di razionalizzazione maggiori saranno gli
scontri. Più incerta è la regolamentazione di un ruolo, maggiore è il potere del soggetto che
occupa quel ruolo. Queste lotte vengono avvengono in situazioni altamente strutturate, dove
esistono dei vincoli e regole sottointese, vincoli che attenuano l’asprezza delle lotte: quanto
meno un’organizzazione ha bisogno di competere per garantirsi la sopravvivenza meno
importanti sono le poste in gioco nelle lotte di potere.

Nella lotta per il controllo dei margini di incertezza si sviluppano condotte strategiche. Per
comprendere ciò che avviene non basta la scuola classica. L’analisi strategiche (mente, progetto,
libertà) è un’analisi adeguata delle condotte umane nelle organizzazioni.

5. Il problema del mutamento nella burocrazia.

Crozier osserva che l’incapacità di trasformarsi non è una conseguenza inattesa ma una
prerogativa accettata e intrinseca al modo di essere della burocrazia.

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È costruita in modo da non avere al suo interno nessuno strumento istituzionale per potere
correggersi. Di conseguenza le pressioni per il cambiamento sono paradossalmente destinate a
provocare solo ulteriori rigidità, Il sistema burocratico tende a rispondere alle lotte di potere
tramite un aumento delle norme ed alimenta un circolo vizioso.

Circolo vizioso: inefficienza derivante da lotte interne di potere →aumento delle norme →
meccanismi di difesa della propria discrezionalità →inefficienza derivante da lotte interne di
potere→…

Per Crozier ci sono 4 aspetti costanti in ogni burocrazia pubblica, che provocano distacco,
frustrazione…:

1. Impersonalità delle norme.


2. Centralizzazione di decisione al vertice.
3. Isolamento di ogni categoria gerarchica.
4. Sviluppo di poteri paralleli nei margini di incertezza.

La dirigenza non ha né gli strumenti né la cultura o potere per cambiare, rinvia i problemi a livelli
gerarchici superiori che conoscono il problema soltanto per via indiretta e reagiscono con nuove
norme contro ogni tipo di favoritismo. Nell’assenza di una politica che favorisca il
decentramento decisionale, le difficoltà di funzionamento del sistema sono sfruttate dagli
individui e dai gruppi per migliorare la loro posizione nella lotta per il potere all’interno
dell’organizzazione.

La risposta a questo problema è, dunque, che il cambiamento burocratico può arrivare soltanto
con l’avvenimento di una crisi traumatica e rara che paralizzi il funzionamento normale e che
liberi tensioni e inaspettati modelli di azione e di potere. Crozier considera la crisi il solo mezzo
per giungere gli adattamenti necessari.

6. Burocrazia e contesto nazionale.

Crozier si domanda se i risultati ottenuti hanno una validità generale oppure si limitano a
rispecchiare la specificità francese, si chiede, dunque, quali sono i rapporti tra organizzazione
burocratica e contesto culturale.

Crozier osserva tratti culturali francesi da indagini antropologiche e osservazioni di scrittori


politici classici che sono in risonanza con il modello burocratico che emerge dalla sua ricerca.
Scarsità di relazioni informali tra diverse categorie sociali, l’acuto senso dell’autorità centrale e
la gelosa tutela della propria indipendenza sono i caratteri tipici della personalità di base.
L’origine di questi caratteri va ricercata in due elementi: l’interiorizzazione nelle coscienze di
un’autorità assoluta e diffusa e l’incapacità di sopportare le relazioni faccia a faccia.

Quanto è efficiente l’organizzazione burocratica?

• Weber: Il modello ideale di burocrazia è il più efficiente rispetto agli scopi.


• Gouldner: La burocrazia genera conflitto e abbassamento di efficienza soprattutto se le
norme sono imposte e non condivise.
• Crozier: L’efficienza della burocrazia è minata dalle lotte di potere. Il sistema non è in
grado di apprendere dai suoi errori.

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Punti rilevanti di Crozier:

• La burocrazia non è quel modello tipico-ideale di amministrazione razionale proposto


da Weber.
• Le disfunzioni non sono solo “deviazioni” dal modello razionale; in realtà, la burocrazia
è un’organizzazione incapace di correggere i propri errori.
• Gli attori organizzativi non sono soltanto braccia (Taylor), non sono nemmeno solo
braccia e cuore (Mayo) ma sono soprattutto mente, progetto, libertà. Definiscono
strategie per muoversi dentro le rigide norme della burocrazia.
• “Potere” è diverso da “autorità”. IL potere non è la possibilità legittimata di ottenere
obbedienza ad uno specifico comando. Ma la capacità di rendere imprevedibile agli altri
il proprio comportamento aumentando la propria discrezionalità.
• Quanto più “perfetto” è il complesso di regole della burocrazia più vuoto è l’esercizio
del potere.
• La cultura plasma il funzionamento delle organizzazioni burocratiche. L’amministrazione
pubblica di un Paese rispecchia i tratti sociali e culturali di quel Paese.

LEZIONE 12. Seminario

LEZIONE 13. Philip Selznick (1919-2010): logiche organizzative e leadership.

1. L’influenza di Michels e le differenze da Merton.

Selznick è un funzionalista critico, afferma che ogni organizzazione per sopravvivere deve
soddisfare alcuni bisogni fondamentali (avvicinamento a Parsons) e che il compito della
sociologia è quello di studiare le conseguenze inattese che si generano nel soddisfacimento di
questi bisogni (avvicinamento a Merton). Selznick si differenzia da Crozier nel fatto di individuare
le origini del processo degenerativo non nelle strategie dei singoli soggetti operanti all’interno
delle organizzazioni, bensì nell’azione di centri di potere esterni.

Tema centrale dell’opera di Selznick è lo studio dei meccanismi degenerativi nel funzionamento
delle organizzazioni , le scelte orientate alla tutela dello strumento piuttosto che al
perseguimento dei fini.

Tra Merton e Selznick esistono alcune differenze sostanziali:

1. Merton analizza la burocrazia della pubblica amministrazione a cui spettano compiti


ordinari al servizio della comunità. Selznick allarga l’analisi a tutte le organizzazione che
per realizzare i propri programmi hanno bisogno di un apparato burocratico-
amministrativo.
2. Merton non parla di bisogni fondamentali dell’organizzazione e ritiene che le
conseguenze inattese siano una possibilità. Selznick sostiene che il progressivo
scostamento dai fini originari provocato dalla tirannia dei mezzi sia una tendenza
universale e solo in parte contrastabile.
3. Merton cerca l’origine del processo degenerativo nelle logiche ritualistiche interne alla
burocrazia. Selznick la cerca nei compromessi che l’organizzazione deve accettare con
forze tangenziali che interferiscono nella sua linea d’azione.

Per Selznick il contesto esterno è l’insieme dei centri di potere che condizionano le strategie.

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2. Ideologia e prassi nella TVA.

Ricerca compiuta tra il 1942 e 1943 riguardante il successo e i limiti dell’azione compiuta dalla
Tennessee Valley Authority (TVA) nel programma di opere pubbliche nella valle del Tennesse,
esplorò il materiale disponibile negli archivi e fece interviste in profondità con diverse decine di
persone, dai dirigenti e dal personale della TVA ai maggiorenti locali. Questa è inserita nel new
deal del presidente Roosevelt per riprendere l’economia del paese dopo il crack del ’29. Nasce
investita di poteri pubblici ma provvista della flessibilità e dell’iniziativa di un’impresa privata,
aveva il fine di pianificare più adeguatamente la conservazione e lo sviluppo delle risorse naturali
del bacino di drenaggio del Tennessee e del territorio contiguo, per il benessere economico e
sociale della popolazione. Alla TVA fu affidata la costruzione di dighe, centrali elettriche,
produzione/distribuzione di fertilizzanti a basso prezzo, assistenza tecnica ed economica ad
agricoltori, promozione di scuole professionali e di centri di vita sociale. La TVA doveva
comportarsi con la libertà di una impresa privata ma senza assumere la massimizzazione del
profitto come criterio dominante della sua azione. Queste caratteristiche cosi specifiche si
ritenevano una concorrenza sleale da parte dei produttori locali di fertilizzanti. Nel suo intento
di realizzazione di opere pubbliche per il miglioramento delle condizioni di vita locali, la dirigenza
TVA si trovò nella necessità di sviluppare una strategia per superare le opposizioni e conquistare
la fiducia degli enti locali. Il suo manifesto ideologico, dunque, cercava la collaborazione in nome
degli interessi della popolazione.

La TVA decise perseguire una politica basata su due caposaldi: dare una grande autonomia
decisionale ai suoi dipartimenti interni decentralizzandone le strutture sul territorio e sviluppare
un fitto reticolo di relazioni con gli organismi locali. La collaborazione con le istituzioni legate alla
popolazione locale doveva diventare il manifesto ideologico della TVA: l’ente doveva adattarsi
non tanto alla popolazione in genere, quanto alle istituzioni effettivamente esistenti che hanno
il potere di spianarle o sbarrare le strade (Selznick), in altre parole, la TVA doveva scegliere con
chi schierarsi.

3. Cooptazione formale e cooptazione informale.

La cooptazione viene definita da Selznick come il processo di assorbimento di nuovi elementi


nella direzione o nella struttura che determinano la politica di un’organizzazione, come mezzo
per prevenire minacce alla sua stabilità o esistenza.

• Cooptazione formale: quando l’organizzazione assorbe ufficialmente nuovi elementi


negli organi direttivi. Non vi è trasferimento di potere. L’obiettivo è allargare il consenso.
Si interagisce coi soggetti ma non si da nessun tipo di potere. Questa è necessaria
quando: il carattere legittimo di un ente viene messo in dubbio da una componente
rilevante della popolazione interessata oppure quando il bisogno di promuovere la
partecipazione è essenzialmente amministrativo. L’obbiettivo è quello di allargare la
base sociale del consenso alle decisioni.
• Cooptazione informale: quando l’organizzazione inserisce nuove forze nei centri
decisionali o recepisce interamente nuove istanze. L’obiettivo è fronteggiare minacce
esterne, salvaguardare la vita dell’organizzazione, anche se si modifica il fine per evitare
una lotta faticosa e incerta.

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Mentre quella formale trova facile legittimazione in base ad elementi già rinvenibili
nell’ideologia dell’organizzazione, quella informale contraddice quasi sempre i valori e gli
orientamenti ideologici dichiarati. La distinzione tra cooptazione formale e informale è lo
strumento con cui Selznick sviluppa l’esame delle iniziative palesi e dei compromessi nascosti
che la TVA compì nella sua azione nel Tennessee. Non tardarono in prendere forza le cooptazioni
informali ad opera delle pressioni esercitate dalla lobby dei grandi proprietari terrieri
imponendo un’estensione minima all’ampiezza delle proprietà agricole da agevolare e di
conseguenza una soglia minima nel consumo di fertilizzanti.

I progressivi compromessi con le fonti locali di potere provocarono una tale involuzione della
TVA da porla in contrasto con altri enti federali. Mentre la parte tecnica fu compiuta secondo le
previsioni, quella sociale diede luogo a conseguenze impreviste: l’ideologia localista con cui la
TVA si preoccupò di legittimare la sua linea di condotta portò l’ente a mettersi in contrasto con
altri organi federali e vi fu un decentramento decisionale, per ultimo la difesa della democrazia
localista condusse a cooptazioni formali delle associazioni locali e cooptazioni informali delle
lobby.

4. Gli imperativi funzionali di adattamento e conservazione.

Le risultanze dalla ricerca sulla TVA sono oggetto di riflessione teorica nel saggio Foundations of
theory of organizations (1948). In questo scritto Selznick presenta un modello teorico valido per
tutte le organizzazioni formali dotate di burocrazia interna. I passaggi fondamentali del
ragionamento sono:

1. Ipotesi di lavoro che tutte le organizzazioni formali sono plasmate da forze tangenziali
alle loro strutture razionalmente costruite per raggiungere determinati scopi. Le forze
tangenziali sono di duplice origine: interna all’organizzazione in quanto provengono dai
soggetti che vi lavorano e non vogliono essere usati come pezzi o esterna sviluppate da
enti e soggetti dell’ambiente circostante (quelle più comuni).
2. Analisi dell’organizzazione in termini strutturalfunzionali. Questo deve partire dal
presupposto che l’organizzazione per sopravvivere deve soddisfare alcuni bisogni
fondamentali dei quali Selznick ne identifica cinque:
a. Sicurezza dei confini dell’organizzazione nei confronti delle forze operanti
all’esterno.
b. Stabilità delle linee di autorità e di comunicazione.
c. Stabilità delle relazioni informali interne.
d. Continuità della politica e delle fonti che la definiscono.
e. L’omogeneità dell’immagine con riferimenti al significato e al ruolo della sua
azione.
3. L’adattamento dell’organizzazione va esaminato in rapporto al grado e al modo in cui
vengono soddisfatti i bisogni suddetti. Da un lato gli imperativi di sopravvivenza
impongono all’organizzazione un continuo processo di adattamento alle forze
tangenziali, dall’altro tale adattamento non può essere illimitato.
4. Una delle fonti più tipiche di tensioni si trova nella “recalcitranza dei mezzi di azione”.
L’organizzazione viene vista come uno strumento indispensabile per raggiungere un
obbiettivo, e al contempo come uno strumento imperfetto che deforma l’obbiettivo a
cui tende. La conseguenza di ciò è lo sviluppo di conseguenze inattese.

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5. L’analisi strutturale-funzionale deve avere come oggetto le conseguenze inattese che


scaturiscono dall’azione organizzativa.
6. L’analisi funzionale delle conseguenze inattese deve partire dall’osservazione
dell’impegno concreto che l’organizzazione nel raggiungimento di uno scopo. L’impegno
viene inteso come una linea di azione necessitata che si riferisce a decisioni dettate dalle
forze di circostanza.
5. L’accusa di “patos metafisico” e la distinzione tra organizzazione e istituzione.

La visone di organizzazione fortemente pessimista e ambivalente di Selznick viene parzialmente


rivista da Gouldner (1955) che lo accusa di patos metafisico: spesso l’adesione a una teoria non
avviene per le ragioni razionali addotte nel discorso, ma per il fascino esercitato dai sentimenti
che circonda quella teoria. Si chiede Gouldner, perché supporre che l’impegno democratico è
sempre destinato a degenerare e fallire? Assumere che la legge di ferro dell’oligarchia è sempre
destinata a prevalere nasce dal patos del pessimismo e non da un’analisi rigorosa.

Attraverso la duplice prospettiva di oggetto condizionato da forze e vincoli strutturali ed al


contempo in grado di intervenire attivamente sull’ambiente, si arriva alla distinzione tra due
differenti realtà: l’organizzazione e l’istituzione, quando Selznick abbandona la perspettiva
pessimista nel 1957:

• L’organizzazione: strumento razionale concepito per svolgere un lavoro. Prevalgono


logiche di efficienza amministrativa, ruoli, strumenti e procedure tecniche. Prevale la
logica dell’efficienza amministrativa, la definizione di ruoli e di procedure razionalmente
orientate. Ne è un esempio un servizio tecnico offerto alla cittadinanza.
• L’istituzione: organismo adattivo e reattivo. Incorpora valori ed acquisisce una identità
distintiva. Su questo livello si verifica la volontà politica. Esempio: comune.

L’acquisto di una identità permette alle organizzazioni essere riconosciute come fonte diretta di
gratificazioni personali e come veicoli di integrazione di gruppo. tuttavia non sono due realtà
concrete che si contrappongono potendo coesistere nel medesimo ente concreto.

6. Punti rilevanti di Selznick:


• L’idea dell’organizzazione plasmata da forze tangenziali esterne e sottoposta a costi di
adattamento all’ambiente.
• Il caso della TVA come esempio di organizzazione che tradisce il suo fine/scopo
originario a causa dell’adattamento all’ambiente esterno.
• Differenza tra cooptazione formale e cooptazione informale.
• La distinzione tra organizzazione e istituzione.

LEZIONE 14. Cultura, significato e risorse: approcci duri e approcci morbidi alle organizzazioni.

1. Dal paradigma delle contingenze agli approcci morbidi.

Verso le metà dei ’70 un senso di disagio cominciò a diffondersi nella comunità scientifica degli
studiosi di organizzazione. La teoria delle contingenze era divenuta il paradigma dominante
eppure i metodi si sofisticavano e il fronte delle indagini si allargava provocando che fosse
minore il valore aggiunto delle ricerche. Tendenza delle grandi imprese a passare da strumenti
di controllo classici (burocratici) a nuovi strumenti più raffinati basati sull’interiorizzazione e
adesione dei dispendenti ai valori e obiettivi delle aziende. Prime critiche ai risultati delle

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ricerche basate sulle teorie delle contingenze: molti dati, ottime metodologie, ma le conoscenze
sui nessi tra struttura e ambiente non sempre chiare, Non tengono conto dei margini di
discrezionalità delle scelte manageriali.

Le ricerche sulle contingenze si erano sviluppate sul presupposto che fosse possibile individuare
delle connessioni strutturali “dure” e necessitate al di là delle strategie umane. Ma ora la
debolezza dei risultati raccolti obbligava a fare autocritica e riconoscere che anche i fattori a
prima vista più oggettivi sono in larga parte il prodotto di scelte e convinzioni umane (Child),
queste conclusioni ripropongono l’importanza della soggettività dell’azione.

Una seconda sfida agli approcci duri proveniva dai frequenti confronti tra le diverse culture
nazionali. Quanto più si sviluppa un processo di industrializzazione, tanto più le strutture
organizzative tendono a omogeneizzarsi in tutti i paesi. Questa tesi della convergenza
tendenziale accese un gran dibattito, è stata criticata decisamente da una ricerca di stabilimenti
di proprietà giapponese negli USA (Ouchi e Wilkins, 1985) dove risultava che tanto gli
stabilimenti con maggioranza di personale giapponese quanto quelli con maggioranza
americana avevano strutture organizzative simili.

Nel dibattito organizzativo si cominciò a diffondere il dubbio che le conoscenze di natura


quantitativa servissero poco per affermare la vera identità delle organizzazioni. Si maturò un
nuovo “movimento morbido” con un nuovo paradigma organizzativo alla cui formazione ci fu
una forti contribuzione dell’incontro del discorso organizzativo con due filoni di ricerca fino
allora considerati estranei: l’antropologia culturale (studi di tribù primitivi) mostrò che i suoi
studi potevano applicarsi alle società più sofisticate, il secondo furono le ricerche etnografiche
in seno alla sociologia urbana negli anni ’30 e ’40 (studi di quartieri poveri, prigioni, polizia…).
Dunque si da importanza agli approcci qualitativi come l’osservazione partecipante e la
ricostruzione di eventi significativi nella storia organizzativa.

Per disegnare la mappa di quel movimenti possiamo incrociare due dimensioni concettuali:
l’asse oggetto/soggetto distingue due sociologie: le prime cercano spiegare ordinamenti sociali
e condotte individuali partendo da un insieme di fattori sociali oggettivi. Le seconde invece,
ricostruire l’ordine sociale in cui i soggetti sono coinvolti partendo dal senso che i soggetti
conferiscono al proprio agire.

L’asse risorse/materiali è composto dalle sociologie che privilegiano i fattori materiali come
principale fonte di spiegazione dei fenomeni sociali e quelle che privilegiano invece i fattori
simbolici.

Approccio oggettivistico Approccio soggettivistico

Risorse simboliche Culturalismo, funzionalismo Cognitivismo, fenomenologia.


normativo. (1) (2)

Risorse materiali Strutturalismo, marxismo. (3) Individualismo metodologico.


(4)

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Casella 1. Approccio culturalista.

Sociologie che individuano nelle norme morali e culturali il fondamento dell’ordine sociale e la
spiegazione delle condotte individuali. Durkheim e Parsons. Pensiero organizzativo: attenzione
sulla cultura organizzativa vista come la principale fonte di spiegazione dei fenomeni
organizzativi.

Casella 2. Approccio cognitivista.

Mettono al centro della riflessione l’attività del soggetto nella costruzione sociale della realtà e
nel conferimento di senso al proprio agire. Pensiero organizzativo: attenzione sui processi
cognitivi e sul conferimento di senso da parte dei soggetti.

Casella 3.

Sociologie che spiegano l’assetto della società in base ad alcune caratteristiche strutturali
(marxismo)

Casella 4.

Sociologie orientate alle scelte degli attori nel perseguire ciò che essi ritengono i propri interessi.

Possiamo chiamare approcci morbidi quelli che sono nelle caselle 1 e 2 in quanto centrati su
aspetti culturali e cognitivi e duri quelli nelle caselle 3 e 4 centrati su fattori e interessi materiali.

2. Edgar Schein: il primato della cultura organizzativa.

Schein (1984-1985) ha l’idea centrale che l’analisi di un’organizzazione consiste nello studiare la
sua cultura, questo consente spiegarne la struttura, strategie, reclutamento e la condotta dei
singoli. Siccome la cultura è creata dai leader, cultura e leadership possono vedersi come le due
facce della stessa moneta.

La cultura organizzativa è l’insieme di idee condivise, implicite e assunte all’interno di un gruppo,


che determina il modo in cui il gruppo percepisce, valuta e reagisce all’ambiente esterno, La
cultura pertanto influenza le premesse decisionali e quindi i comportamenti dei membri
dell’organizzazione. Schein definisce la cultura organizzativa come l’insieme coerente di assunti
fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare
i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna e che hanno funzionato
abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai
nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei temi e a
quei problema. Tre sono gli aspetti chiavi di questa teoria:

1. Concetto di cultura come un insieme di assunti fondamentali, analisi condotta a


differenti livelli di profondità: al livello più visibile troviamo gli artefatti e manifestazioni
osservabili: arredamento, abbigliamento, colori, scritte, modi di comportarsi… sono
visibili ma non per questo facilmente decifrabili.
2. Al secondo livello troviamo i valori dichiarati: ciò che ha un valore particolare per
l’organizzazione. Ideologie e discorsi che indicano i valori a cui ispirare le proprie azioni.
3. Al terzo livello ci sono gli assunti taciti e condivisi: credenze, convinzioni, metodi
imparati insieme e dati per scontati in tale grado che i membri non hanno nemmeno
una chiara consapevolezza.

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Schein fornisce alcune indicazioni di metodo su come andare alla scoperta degli assunti di base
di un’organizzazione. Queste riguardano campi come il rapporto con la natura :di sfruttamento,
di rispetto o di armonia. La percezione del tempo: ciclico, di continui ritorni su se stesso… gli
assunti si combinano variamente tra di loro dando luogo a dei sistemi di convinzioni articolati e
complessi. Un requisito fondamentale che devono soddisfare e quello della coerenza interna, le
incoerenze e contraddizioni portano a sfiducia, tensioni, scetticismo e cinismo, la coerenza
interna non significa che in un’organizzazione debba esistere un solo sistema di convinzione.

3 Schein: la formazione di una cultura

Come si formano gli assunti fondamentali di un’organizzazione? Il primo aspetto da tenere


presente è che una cultura è sempre formata all’interno di un dato gruppo e che non può
esistere al di fuori di esso. Il gruppo è formato da persone che sono state insieme abbastanza da
avere condiviso problemi significativi, averli affrontati, avere tentato di risolverli e avere
osservato gli effetti delle loro soluzioni, inoltre lo stesso gruppo deve avere trasmesso le stesse
soluzioni a dei neo-venuti.

Una cultura non è fatta di idee astratte, ma di risposte a dei problemi concreti che occorreva
risolvere, inventando o scoprendo soluzioni che poi diventano oggetto di apprendimento da
parte dei nuovi membri del gruppo. la validità delle risposte non è data soltanto dall’efficacia
nel risolvere i problemi ma anche dal grado in cui riducono l’ansia dei membri, questo aiuta a
spiegare gli aspetti ritualistici e simbolici. Schein distingue due grandi categorie di problemi:

1. Problemi riguardanti all’adattamento del gruppo all’ambiente esterno: determinano la


sopravvivenza del gruppo.
2. Problemi di integrazione: riguardano la capacità del gruppo per funzionare come
gruppo. c’è un’esigenza di consenso che riguarda il linguaggio e le categorie mentali
comuni; i limiti del gruppo e i criteri di inclusione ed esclusione dei suoi membri…

Questi problemi hanno la specificità che riflette la storia dell’organizzazione e l’ambiente in cui
opera. Per affrontarli l’organizzazione sviluppa degli assunti che devono funzionare abbastanza
bene da potere considerarsi validi, questi assunti formano la cultura dell’organizzazione e hanno
due aspetti vitali: la cultura è sempre il risultato finale di un processo basato sulla ripetizione del
successo e ciò porta a dare certe cose come scontate; e, in secondo luogo, gli assunti non
garantiscono un funzionamento perfetto e definitivo ma ricordando la razionalità limitata di
Simon : sono perfettibili e si evolvono continuamente.

Secondo Schein la cultura è continuamente in formazione perché è sempre in atto qualche tipo
di apprendimento. Si crea così una tensione tra l’esigenza di conservare il patrimonio degli
assunti formatisi con l’esperienza precedente e l’esigenza di verificarli e adattarli alle novità,
questa gestione deve essere compito del manager. La trasmissione può essere delicata e
complessa se i nuovi membri portano con se idee e valori già acquisiti in altre sperienze, in questi
casi i cambiamenti possono essere portati da questi nuovi membri. L’analisi della natura della
cultura dunque deve essere integrata da un approccio che metta a fuoco tre aspetti:

1. I processi di socializzazione dei nuovi membri.


2. Le risposte date ad eventi critici nella storia dell’organizzazione.
3. Le anomalie o tratti sorprendenti osservati o scoperti man mano che la ricerca procede.

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LETTURA 2. Edgar Schein (2000). Culture d’imprese.

1. Perché la cultura aziendale è importante?

Le decisioni prese senza avere consapevolezza delle forze culturali in atto possono produrre
conseguenze inattese e indesiderate.

Qualche lezione di cultura da Atari, Apple, IBM, DEC, Procter & Gamble e Acme Insurance.

Caso Atari: nuovo CEO formatosi nel marketing. Crede che è necessario un sistema di incentivi
individuali e di avanzamento di carriera in un’impresa con un gruppo di ingegneri e
programmatori organizzati in modo generico il cui lavoro era così apparentemente
disorganizzato da rendere impossibile stabilire chi ricompensare per cosa. CEO impiantò chiare
responsabilità individuali e un sistema di premi; identificazione dell’impiegato del mese. Questo
provoca la demoralizzazione del personale e alcuni ingegneri abbandonano l’impresa: la
collaborazione non strutturata era l’essenza della creatività.

Caso Apple: John Sculley provò a ottenere il rispetto della cultura tecnica ma non vi riuscì. Caso
simile a quelli della Atari.

Caso Procter&Gamble (1950): decise diventare un produttore a basso costo. Sviluppò un


concetto di industria che dipendeva molto più dal coinvolgimento dei lavoratori e da un sistema
di premi, ponendo l’enfasi su molteplici capacità, piuttosto che sulla posizione gerarchica o sul
numero di persone poste sotto supervisione. Lo stesso staff si rese conto che non c’era
possibilità di “vendere” un tale concetto al sindacato o al gruppo più tradizionale
dell’amministrazione. Dovevano perciò cominciare con un nuovo impianto, assumere il loro
manager e insegnargli il nuovo concetto di impianto funzionante come un’azienda che si auto-
dirige. Questi nuovi impianti funzionarono bene e, man mano che passavano gli anni, tutti gli
stabilimenti assumevano manager che avevano un’esperienza nella prima fabbrica in cui si usò
questo sistema. Gli impianti sindacalizzati non avevano tale rendimento, . Fino a che il sindacato
non cominciò a fidarsi del management non ci fu alcuna possibilità di discutere i nuovi modi dei
sistemi di produzione, che avrebbero permesso di tenere conto del lavoro commerciale e delle
molteplici capacità.

Caso Acme Insurance: conseguenze di un cambiamento tecnologico senza che si siano analizzati
i vincoli posti dalla cultura. . Una grande compagnia assicurativa decise di accrescere la propria
competitività divenendo rapidamente un'azienda paperless: tutte le maggiori transazioni
avrebbero dovuto essere eseguite, nel prossimo futuro, via computer. Per realizzare questo
cambiamento, venne assunta una manager del settore informatico. Aveva l’obbiettivo di
insegnare allo staff il nuovo sistema nel giro di un anno. non era al corrente del fatto che, allo
stesso tempo, la compagnia stava dando inizio a intensi sforzi produttivi, che mandavano ai
collaboratori il segnale che il lavoro dovesse essere svolto normalmente e che, in aggiunta,
dovessero anche riuscire a farsi carico della formazione. Il risultato fu che la formazione si svolse
fuori dalle ore lavorative, senza entusiasmo. Il risultato dopo un anno fu l’instaurazione del
modello paperless ma con uno staff talmente mal addestrato che necessita più tempo per usare
il computer che la carta.

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Questioni culturali nelle fusioni, nelle acquisizioni e nelle joint venture.

Quando ci sono fusioni (o simili) in grandi organizzazioni il tema culturale è un problema a cui
prestare attenzione prima di creare la nuova organizzazione. Ci sono 3 strade possibili:

1. Culture separate.

Fare che le culture rimangano separate in conglomerati che permettono alle società controllate
di mantenere la propria identità specifica. Le culture devono essere allineata, lavorando con
obbiettivi che non siano opposti l’uno con l’altro.

2. Cultura dominante.

In alcuni casi è esplicito, per esempio quando un’impresa ne acquisisce un’altra. Una cultura è
sempre dominante, ma in realtà può rimanere nascosta per un certo tempo a causa della
retorica.

3. Commistione di culture.

Le culture si mescolano o si integrano. Prendere il meglio da entrambe le culture è solitamente


l’auspicabile risultato cui si dice di aspirare. Ciò che accade in pratica è, di solito, più complesso
e incerto. Un livello di commistione è la creazione di una nuova, sovrapposta serie di valori, e la
sua “vendita” alle varie unità culturali. Questo soltanto funziona in situazioni determinate.

Aziende agli inizi, di mezza età e vecchi dinosauri.

Le giovani organizzazioni sono anche tipicamente sotto il controllo del proprio fondatore, il che
significa che la loro cultura è grosso modo il riflesso delle sue convinzioni e dei suoi valori.

Un’organizzazione di mezza età può essere pensata come se avesse avuto parecchie generazioni
di manager professionisti incaricati dai comitati esterni, i cui membri sono di solito in debito con
diversi azionisti. Con ogni probabilità una tale organizzazione evolve verso unità multiple basate
sulle funzioni, i prodotti, i mercati o le geografie e queste unità sviluppano verosimilmente le
loro subculture. Pertanto il problema della cultura nelle organizzazioni di mezza età è triplice:

1. Come mantenere quegli elementi della cultura che continuano a essere adattabili e collegati
al successo dell’organizzazione

2. Come integrare, mescolare o almeno allineare le varie subculture

3. Come identificare e cambiare quegli elementi culturali che potrebbero divenire via via meno
funzionali a causa del cambiamento delle condizioni dell’ambiente esterno.

Quando le imprese invecchiano, se non si evolvono, non si adattano e non cambiano gli elementi
della loro cultura, divengono via via meno adatte e la cultura diviene un limite all’imparare e al
cambiare. La dirigenza si aggrappa a quello che una volta ha avuto successo. Il processo di
trasformazione è sostanzialmente lo stesso nelle imprese di mezza età in salute, ma il tempo
richiesto e la quantità di cambiamenti necessari spesso affrettano il ricorso a misure drastiche
(svolte).

Dove risiede la cultura?

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La cultura è la proprietà di un gruppo. Ogni volta che un gruppo ha abbastanza esperienza in


comune comincia a formarsi una cultura. Si trovano culture ad ogni livello gerarchico se c’è una
storia sufficientemente condivisa. La chiave per capire se esiste o meno una cultura è cercare la
presenza di esperienze comuni e di un comune bagaglio culturale. La cultura è importante a
questo livello perché le convinzioni, i valori e il comportamento de gli individui sono spesso
compresi solo all’interno del contesto delle identità culturali della gente. Per spiegare il
comportamento individuale bisogna andare oltre la personalità, e cercare l’appartenenza a un
gruppo e le culture che gli sono proprie.

2. Cos’è la cultura, in ogni caso?

Il maggior pericolo nel cercare di comprendere la cultura è di semplificarla eccessivamente. Un


modo per capirla è rendersi conto che esistono diversi livelli e che dobbiamo capire e gestire
quelli profondi.

Tre livelli di cultura.

1. Artefatti.

Livello più immediato di osservazione quando si entra in un’organizzazione: quello che si vede,
si ascolta e si prova quando si va in giro. la cultura è molto chiara e ha un immediato impatto
emotivo. Ma non si sa veramente perché i membri dell’organizzazione si comportino in questo
modo e perché ogni organizzazione sia costruita così.

2. Valori dichiarati.

Scavare più a fondo significa cominciare a fare domande sulle cose che hanno valore per
l’organizzazione. Perché si agisce in un certo modo? Perché la Action crea spazi aperti negli uffici
mentre la Multi colloca tutti dietro porte chiuse? Valori, i principi, l’etica, la visione…

3. Assunti taciti condivisi.

Per comprendere il livello più profondo, si deve pensare a queste organizzazioni con una
prospettiva storica. L’essenza della cultura è costituita da valori, convinzioni e assunti imparati
insieme che divengono comuni e dati per scontati mentre l’impresa continua ad avere successo
risultato di un processo congiunto di apprendimento che in origine erano soltanto nella mente
del fondatore e dei leader. Diventano comuni e scontati solo quando i nuovi membri
dell’organizzazione comprendono che sono state le convinzioni, i valori e gli assunti dei loro
fondatori a condurre al successo organizzativo, e che quindi devono essere “giusti”.

Implicazioni del considerare seriamente la cultura.

La cultura è stabile e difficile da cambiare perché rappresenta le lezioni di vita apprese da un


gruppo che hanno portato al successo. Si comprende che le parti importanti di una cultura sono
essenzialmente invisibili, si può pensare alla cultura come ai modelli mentali che i membri di
un’organizzazione considerano comuni e danno per scontati. Si comincia a capire che non esiste
una cultura giusta, migliore…

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Quindi, cos’è la cultura?

Ciò che realmente guida la cultura sono gli assunti acquisiti, condivisi e taciti su cui la gente basa
il proprio comportamento quotidiano. La vita diviene prevedibile e acquista un significato, ma
fare il percorso inverso è molto difficile: non si possono dedurre gli assunti solo dall’osservazione
del comportamento. Se davvero si vuole comprendere la cultura, si deve cominciare un processo
che comporta l’osservazione sistematica e il parlare con i dipendenti per poter rendere espliciti
gli assunti taciti.

Conclusioni.

1. La cultura è profonda: Se la si considera un fenomeno superficiale, se si pensa di poterla


manipolare secondo la propria volontà si è sicuri di fallirle. Dà significato e prevedibilità
alla vita quotidiana. Quando si impara cosa funziona, si sviluppano convinzioni.
2. La cultura è ampia: Quando un gruppo impara a sopravvivere nel proprio ambiente,
impara qualcosa anche sugli aspetti delle sue relazioni interne ed esterne.
3. La cultura è stabile: .I membri di un gruppo vogliono mantenere i propri assunti culturali
perché essi forniscono significato e rendono la vita prevedibile. Agli esseri umani non
piacciono le situazioni caotiche e imprevedibili e si sforzano di stabilizzarle e
“normalizzarle”. Se si vogliono cambiare alcuni elementi della propria cultura, si deve
riconoscere che si stanno affrontando alcune delle parti più stabili dell’organizzazione.

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