SOMMARIO
1. Lezione introduttiva 4
2. Le teorie dell’organizzazione e sviluppo dei modelli organizzativi 5
Ø Approfondimento sul concetto di organigramma 7
3. La teoria generale dei sistemi 10
4. Nuovi paradigmi esplicativi 13
Ø Approfondimento sul concetto di potere: il modello dei circoli del potere 15
5. Il carattere polisemico del concetto di organizzazione 17
Ø Approfondimento sul concetto di delega 18
6. La classificazione delle diverse tipologie di organizzazioni 20
7. Il concetto di governance 26
Ø Approfondimento: le organizzazioni e il concetto di globalizzazione 26
8. L’organizzazione scientifica del lavoro: il Taylorismo 32
Ø Approfondimento: il concetto di Neotaylorismo e il caso McDonald’s 34
9. Il Taylorismo 36
Ø Approfondimento: la teoria organizzativa classica 37
10.La scuola delle human relations e quella comportamentista e motivazionale 42
Ø Approfondimento: Barnard e la parabola del masso 43
Ø Approfondimento: la teoria dei bisogni di Maslow 46
11.L’approccio motivazionalista e comportamentista: Herzberg e Likert 48
Ø Approfondimento: Rensis Likert e gli stili di leadership 50
12.Simon e Mintzberg 52
Ø Approfondimento: Henry Mintzberg e la teoria della “contingenza” 53
13.Questionario 58
1. Lezione introduttiva
Com’è ricordato dalla letteratura sociologica più evoluta, nel corso della storia del pensiero
organizzativo il termine “organizzazione” ha assunto un contenuto sempre più polisemico; infatti,
nelle scienze sociali viene utilizzato in diverse accezioni; pertanto, occorre prendere coscienza
dell’impossibilità di una definizione di organizzazione “come da manuale”, o meglio che ogni
manuale ha la propria definizione di “organizzazione”.
Ciò premesso, come primo passo verso la conoscenza di un mondo tanto variegato quanto
complesso, possiamo definire, secondo un percorso euristico, “le diverse tipologie di
organizzazioni di lavoro come costituite da un insieme di risorse umane che interagiscono tra di
loro secondo obiettivi prescritti, sulla base di una divisione di ruoli e di compiti per il
raggiungimento di risultati predefiniti”.
A supporto di tale definizione, è interessante analizzare il modello delle 7 S, sviluppato nel 1979 da
Richard Pascale, in collaborazione con Anthony Athos dell’Harvard Business School, Robert
Waterman e Tom Peters che, all’epoca, erano colleghi di Pascale in McKinsey.
Dalla metà degli anni ’80 il modello delle 7 S è diventato uno degli strumenti manageriali più
significativi e adottati dalle aziende per monitorare la propria coerenza strategica e il proprio
funzionamento.
Infatti, il principale contributo che questo modello ha apportato alla gestione d’impresa deriva
proprio dalla sua concezione olistica e sistemica dell’organizzazione. Anziché limitarsi a definire la
struttura organizzativa più coerente alla realizzazione operativa della strategia aziendale, il
modello delle 7 S ci invita a pensare in modo globale alla strategia, dando evidenza alle
interconnessioni esistenti tra tutte le principali variabili aziendali, che interagendo e influenzandosi
reciprocamente, danno vita ad un vero e proprio sistema.
L’insieme dei fattori rappresentati nello schema delle 7 S, determina il modo in cui un’azienda deve
operare. Sette sono le principali variabili che tale modello prende in considerazione, tre variabili
“hard” e quattro “soft”.
Le Variabili “hard” sono:
1. La Strategia è una variabile che deve diventare hard, nel senso che deve essere definita,
comunicata e realizzata attraverso modalità organizzative e gestionali coerenti e tendenti al
risultato. Esistono strategie di breve, medio e lungo periodo, ma la maggior parte delle
strategie poste in essere sono tendenzialmente di breve periodo in quanto le organizzazioni
sono chiamate a rispondere sempre più celermente e proattivamente alle sfide e alle
sollecitazioni che di volta in volta si presentano e che provengono dall’ambiente esterno,
ma non solo.
2. La Struttura si riferisce al mondo in cui un’azienda è organizzata: in breve a come “le
caselle” sono sistemate all’interno dell’organigramma. Negli ultimi anni il concetto di
struttura ha perso di centralità, in quanto essendo le organizzazioni sempre più dinamiche,
l’organigramma non può essere rigido e fisso ma flessibile, cioè in grado di adeguarsi alle
esigenze organizzative e gestionali dell’azienda.
3. I Sistemi attengono alle procedure, ai processi, alla tecnologia in uso nell’organizzazione.
Essi devono indicare il modus operandi per il raggiungimento di adeguate performance.
Le variabili “soft” sono:
4. Lo Style si riferisce al modo di concepire, di proporre e di gestire l’azienda. Dunque, allo
stile di leadership tenuto dai manager dell’organizzazione.
5. Lo Staff attiene al dato effettivo delle risorse umane presenti in azienda. E’ strettamente
legato alla struttura: sulla base degli individui che popolano l’organizzazione, occorre
distribuirli in maniera ottimale affinché possano esprimere al meglio le loro professionalità
e potenzialità. Ciò è interrelato e correlato alle skills.
6. Le Skills indicano le competenze e le conoscenze delle risorse umane, che le distinguono
effettivamente dalla concorrenza. Costituiscono il patrimonio intangibile dell’organizzazione
nel suo complesso.
7. Il centro di interconnessione del Modello di McKinsey è rappresentato dai Valori condivisi,
che indicano la “filosofia” adottata dall’organizzazione. Già per il fatto di essere gruppi di
individui, anche le organizzazioni producono “cultura”. Si parla così di cultura organizzativa
come l’insieme degli «artefatti» (simboli, riti, cerimoniali, immagini, ecc.), dei «valori»
(principi e credenze che appartengono alla filosofia dell’organizzazione) e degli «assunti di
base» (valori appresi che si sono trasformati nella nostra mente in categorie implicite sullo
stato di cose) che guidano ed orientano il comportamento di tutti coloro che ne fanno
parte.
Per le organizzazioni, i valori sono allo stesso tempo presupposto e punto d’arrivo: quanto più sono
condivisi e diffusi, tanto più riusciranno ad influenzare ed interagire positivamente con le altre
variabili del modello. Per tale ragione, vengono considerati una metavariabile che genera e
racchiude tutte le altre. In definitiva, la cultura organizzativa tende a “muovere i cuori degli
individui” e ad unire gli scopi degli uomini con quelli dell’organizzazione.
Il valore di uno schema come quello delle 7 S risiede, quindi, nel fatto che esso impone un’analisi
delle organizzazioni di lavoro da tutti i punti di vista, sia quelli “duri” (strategia, struttura e sistemi),
sia quelli “morbidi” o più precisamente intangibili (style, skills, staff e shared values).
Occorre precisare, inoltre, che la definizione che prima abbiamo dato di organizzazione non
include la dimensione della cultura organizzativa, in quanto si riferisce all’organizzazione di lavoro
formalmente costruita, la cui rappresentazione principale è data dalla struttura dell’organigramma
(vedi approfondimento). Ma, oltre all’universo formale esiste un universo informale in cui regole e
comportamenti non sono prescritti, ma sono il risultato di una serie di interazioni e scambi, che
partono, o talvolta prescindono, dalla struttura formale strategicamente pre-definita.
È proprio questo il punto dal quale Chris Agyris, esponente dell’”Action Science”, parte per
sostenere che nelle organizzazioni possono coesistere, non senza conflitti, due diverse tipologie di
teorie alla base dei progetti di azione: la “teoria dichiarata” (“expoused theory”) che esprime
valori, credenze e atteggiamenti ufficiali, espliciti, conclamati e formalizzati dall’organizzazione, e la
“teoria effettiva”(“theory in use”), quella che viene seguita nella realtà di tutti i giorni e che,
invece, è rappresentativa dell’universo informale.
Mentre la prima richiede un’adesione rituale e cerimoniale, nel senso che deve essere ribadita e
rispettata formalmente, la seconda implica un’adesione sostanziale ancorché non esplicita,
formalizzata o addirittura inconsapevole.
Sulla base di quanto appena illustrato, possiamo affermare che quanto più un’organizzazione riesce
a ridurre lo scarto tra l’universo formale e quello informale, tanto più risulterà elevata la
probabilità di raggiungere gli obiettivi programmati.
A tal proposito, Miles e Snow nel 1996 delineavano, in prospettiva, la fisionomia delle
organizzazioni del XXI secolo: particolarmente snelle (minimali), con poche persone, che
tenderanno ad interagire in una logica di self management (imprenditori di se stessi), e saranno
capaci di svolgere una molteplicità di iniziative e di ruoli.
Da ciò si evince con estrema chiarezza che l’ampio bagaglio di regole, norme e contratti di lavoro
risulta essere un elemento necessario ma mai sufficiente a costruire e mantenere nel tempo
un’organizzazione coerente, responsabile, innovativa, efficiente ed efficace.
Infine, l’applicazione della logica sistemica alle dinamiche che si sviluppano nelle organizzazioni
non può assolutamente prescindere da un apparato teorico multidimensionale, capace di prendere
in esame le culture e le strategie organizzative (oggettive) e quelle individuali (soggettive) se
s’intende comprendere adeguatamente ed approfonditamente la crescente complessità insita
nell’evoluzione delle varie tipologie di organizzazioni.
Approfondimento sul concetto di organigramma
Il caso di studio riguarda una scuola di formazione di una grande impresa di servizi con un
organigramma di tipo gerarchico-funzionale formato da quattro aree. Tale organizzazione avverte
dei problemi orizzontali, cosiddetti di line.
Direzione
Commerciale & Sviluppo
Amministrazione
Gestione
Progettazione
Più precisamente, la scuola accusa problemi di comunicazione, in quanto ciascuna area riferisce
sull’espletamento delle attività alla Direzione, conseguentemente quest’ultima si ritrova a svolgere
funzioni di smistamento di attività e processi. Ciò ha determinato la necessità di un cambiamento,
non solo per la situazione disagevole che di volta in volta si presenta ma anche per l’esistenza di
seri problemi organizzativi, quali le ripetizioni di attività, le sovrapposizioni o i vuoti di presidio.
Si è pensato, quindi, che il punto dal quale partire per risolvere tale problematica fosse il processo
formativo. In effetti, con interventi mirati si è modificato l’agire organizzativo facendo leva su una
strutturazione per processi.
Vediamo come.
La letteratura ci suggerisce che il processo formativo si articola in quattro fasi:
Valutazione
(4)
Analisi
(1)
Progettazione
(2)
Erogazione
(3)
Direzione
1 5
Progettazione
23 5
Gestione
4
Amministrazione
4
Nella prima fase, la scuola di formazione svolge l’analisi del bisogno formativo, incontrando la
Direzione e l’Area Commerciale & Sviluppo per illustrare la tipologia di intervento che intende
sviluppare. In seconda battuta l’area Progettazione si occuperà, attraverso l’acquisizione di dati,
informazioni e indicazioni che partono dalle esigenze dell’organizzazione, della rilevazione e
realizzazione del fabbisogno formativo con metodiche socio-analitiche.
Nella seconda fase di progettazione, sono i tecnici dell’area Progettazione a programmare e
definire i contenuti veri e propri da trattare, i programmi didattici da seguire ed il corpo docenti.
Nella terza fase, poi, si dà vita al cuore del processo, ovvero all’attuazione dell’attività didattica
nonché alla rendicontazione di tutti gli oneri e le spese da sostenere. Fondamentale, a tal
proposito, risulta il coinvolgimento dell’area Gestione e l’area Amministrazione per l’espletamento
di tali attività.
La quarta ed ultima fase attiene alla valutazione da parte dell’area Progettazione:
dell’efficacia dell’intervento formativo;
del gradimento dell’intervento formativo;
della possibilità di sviluppare ulteriori progetti formativi. In tal caso la valutazione effettuata
va ad alimentare, sulla base dei dati acquisiti e dei risultati raggiunti, la primordiale fase di
analisi dei bisogni formativi. In questo modo, l’area Direzione e l’area Commerciale &
Sviluppo ritornano ad interessarsi di nuovi processi e progetti di formazione.
A ben vedere, l’aver introdotto all’interno di un’organizzazione tradizionale una realtà nuova come
quella della gestione per processi ha richiesto cambiamenti strutturali, ma anche culturali.
L’approccio per processi non è certo cosa facile perché si utilizzano risorse condivise, il processo è
trasversale all’organizzazione e, quindi, più difficile da gestire.
In estrema sintesi:
1. i compiti delle persone che collaborano all’interno di un processo sono noti a tutti i
colleghi, c’è una condivisione degli impegni e delle conoscenze, e non più una rigida
suddivisione tra aree;
2. ogni area esercita un autocontrollo sul proprio lavoro senza appoggiarsi a supervisori ad
ogni livello gerarchico; la Direzione, quindi, non è più centro di smistamento di attività e
funzioni ma area che interviene nelle diverse fasi attraverso i centri di responsabilità di
ogni fase del processo;
3. si lavora per perseguire obiettivi ben definiti e chiari a tutti;
4. le informazioni circolano più velocemente, il tempo d’attraversamento diminuisce. C’è un
ritorno costante di informazioni da parte di tutti i collaboratori;
5. si evitano le attività ridondanti;
6. i manager diventano dei leader. Possono essere assimilati a dei coach che cercano di
migliorare costantemente le performance del proprio team;
7. ci si focalizza sul cliente (esterno o interno), assicurando servizi ad alti standard qualitativi e
maggiore chiarezza sui referenti delle varie fasi del processo.
Negli ultimi anni nelle scienze sociali si tende ad accostare il concetto di organizzazione a quello di
“organismo animato”, così da avvicinare le scienze sociologiche a quelle biologiche. Nel mondo
della biologia gli organismi, nel riprodurre esseri simili a se stessi (autopoiesi), hanno una tendenza
innata alla sopravvivenza ma, non senza processi di trasformazione funzionali e/o strutturali negli
stadi di crescita e sviluppo dell’organismo, dovuti alla loro continua interazione con l’ambiente in
cui vivono.
Parallelamente, i teorici delle scienze dei sistemi concordano nel sostenere che se un organismo
vivente possiede capacità di adattamento all’ambiente in cui vive in termini di sopravvivenza,
crescita e sviluppo, lo stesso possa valere per i fenomeni organizzativi in senso stretto.
Più precisamente, se è vero che le organizzazioni di lavoro sono assimilabili agli organismi viventi,
allora anch’esse saranno in grado di trasformarsi ed evolvere nel contesto in cui operano.
Quanto appena sottolineato, viene approfondito dalla teoria generale dei sistemi. Concetti chiave
di tale modello teorico sono:
“sistema aperto”: i sistemi organici si trovano in uno stato di continuo interscambio con
l’ambiente. Questo interscambio è fondamentale per la conservazione della vita e della
forma del sistema, dal momento che l’interazione ambientale è il fondamento della
sopravvivenza. Se volessimo fare dei parallelismi, prendendo sempre in prestito le scienze
biologiche, avremmo:
Molecole Individui
Cellule Gruppi
Organismi complessi Organizzazioni
cooperazione
organigramma attività esercitata da una struttura capacità di attribuire funzioni diverse a strutture diverse
Riassumendo quanto appreso nelle lezioni precedenti, possiamo formulare tre considerazioni
utili:
Ciò premesso, si rileva che solo grazie al contributo di alcuni importanti autori classici del
pensiero sociologico, si cominciano ad analizzare le organizzazioni mediante il ricorso ad una
classificazione dicotomica.
Infatti, Durkheim, precursore del pensiero sociologico francese, è il primo (1893) a basare lo
studio dell’evoluzione dell’organizzazione della società sul binomio solidarietà meccanica –
solidarietà organica. La prima è espressione delle società rurali pre-industriali, dove non vi è una
significativa divisione del lavoro e la coscienza collettiva prevale su quella individuale. La società
premoderna non conosce spazi per le differenze e per le individualità, le unità sociali stanno
insieme perché sono tutte simili e ugualmente sottoposte all’unità di grado superiore di cui
fanno parte (l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan, il clan alla tribù). L’essenza di tali società,
quindi, risiede nella coesione collettiva. Al contrario, nelle società industriali in cui fortissima è la
divisione sociale del lavoro, ogni individuo e ogni gruppo svolge compiti diversi: la solidarietà
non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla diversificazione di funzioni specializzate che implica la
cooperazione cosciente e libera degli agenti sociali, quindi, lo sviluppo della propria personalità e
la conseguente concezione dell’individuo come persona. Tale tipologia di solidarietà viene
definita da Durkheim come “organica”. Leggendola con occhio critico, la solidarietà organica può
indurre alla spersonalizzazione del lavoro e, dunque, all’alienazione dell’individuo.
Anche Tönnies, padre della sociologia tedesca, nel 1887 distingue due diversi tipi di relazioni
sociali: le relazioni sociali che danno luogo alla comunità (Gemeinschaft) e quelle che danno vita
alla società (Gesellschaft). Per comunità s’intende un insieme organico, organizzato sulla base di
rapporti di sangue e di luogo (relazioni sociali primarie), fondato su presupposti di convivenza
durevole, intima ed esclusiva, dunque sul sentimento di solidarietà e sul senso di appartenenza.
La forma comunitaria predomina in epoca pre-industriale. La società, invece, è una forma di
aggregazione sociale di natura funzionale, alla quale si aderisce volontariamente, in cui i rapporti
sono essenzialmente di scambio (relazioni sociali secondarie) che trovano nel contratto la loro
espressione tipica. Nelle moderne organizzazioni di lavoro, la società è il modello organizzativo
predominante, ciò nonostante nelle ONP (Organizzazioni Non Profit), dove meno preponderante
è la caratterizzazione economica e contrattuale, il modello di riferimento è quello della
comunità, dove prevale invece la componente solidaristica; ciò comporta, però, per queste
ultime, la necessità di coniugare l’aspetto sociale con quello economico.
La problematica dell’evoluzione delle organizzazioni è centrale anche nel pensiero di Max Weber
(1864-1920), il quale, seguendo un’impostazione dicotomica, costruisce degli idealtipi, ovvero
dei modelli teorici (puri) di riferimento che nella realtà assumono forme espressive molteplici,
ma che sono fondamentali per la comprensione dei sistemi di governo delle organizzazioni. Egli,
nel saggio Economia e società, distingue il potere (= possibilità per un comando di trovare
obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini) in tre diverse tipologie, sulla base dei
differenti criteri di legittimazione:
POTERE DI RIFERIMENTO
POTERE DI POSIZIONE
POTERE DI COMPETENZA
il potere di competenza giustifica e “protegge” il potere di posizione, posto nel nucleo
dei circoli. Più precisamente, lo ribadiamo, il presupposto ineludibile per esercitare il
potere di posizione è il potere di competenza, ossia l’insieme delle capacità, delle abilità,
delle conoscenze e competenze che il manager deve possedere e che devono essere
riconosciute dai vertici dell’organizzazione per ricoprire quella specifica posizione. Di
fondamentale importanza, inoltre, sono i risultati conseguiti dal manager stesso come
parametro per la sua legittimazione a detentore del potere di posizione. E’ possibile che
non si possa ambire al potere di posizione pur avendo quello di competenza, poiché le
il potere di riferimento a sua volta legittima e “protegge” il potere di posizione e va ben
oltre quello di competenza. Il potere di riferimento scaturisce dalla:
si parla di autorevolezza (capacità di influenza del manager riconosciuta dai suoi collaboratori, e
più in generale, da tutti coloro che interagiscono con lui. In questo caso, è corretto parlare di
leadership). Se non si procede nel modo appena delineato, il manager, non essendo autorevole,
non potrà detenere il potere di riferimento; pertanto per conservare il potere di posizione farà
leva sul potere di competenza. Ma, si può verificare (succede molto spesso per non dire sempre
ed è un processo fisiologico di distacco dalla componente tecnico-specialistica per approdare alla
componente manageriale) il caso in cui, col trascorrere del tempo, i suoi colleghi acquisiscano
competenze e capacità di natura specialistica superiori alle sue, per cui il manager non potrà più
contare sul suo potere originario di competenza. Il manager, a questo punto, si troverà
inevitabilmente in difficoltà e l’unico modo per gestire ed esercitare il suo potere di posizione,
ormai svuotato di autorevolezza e di competenza, è fare ricorso all’autorità, al potere su (o
potere coercitivo). Ciò decreta la fine della managerialità.
Come ricordato dalla letteratura sociologica più evoluta, in particolar modo da Gallino, il termine
organizzazione nel corso della storia del pensiero organizzativo ha acquisito un carattere sempre
più polisemico, infatti nelle scienze sociali viene usato in almeno tre differenti accezioni:
1. per indicare l’attività diretta intenzionalmente a stabilire mediante norme esplicite,
relazioni durevoli tra un complesso di persone e di cose in modo da renderlo idoneo a
conseguire razionalmente uno scopo. Per esemplificare quanto appena affermato, il
sociologo succitato fa l’esempio del servizio di rilevazione catastale e di imposizione fiscale
nell’Egitto dei Faraoni, prima forma rilevante di organizzazione nella sua accezione di
attività;
2. per designare il sistema sociale ovvero l’entità concreta tipica (quand’anche similari, le
organizzazioni di lavoro differiscono geneticamente le une dalle altre) socialmente rilevante
che deriva dalla gestione razionale dell’attività (ospedale, ministero, azienda etc.). A tal
proposito Gallino fa notare come l’esercito romano che diede luogo ad una delle migliori
organizzazioni militari del mondo antico (precursore della decodificazione del concetto di
delega: v. approfondimento) rappresenti una valida organizzazione intesa come sistema
sociale;
3. per definire la struttura (= potere) delle principali relazioni formalmente previste e
codificate entro il contesto organizzativo di riferimento. Il fenomeno organizzativo nel
significato di struttura che viene portato alla nostra attenzione è l’organizzazione politica
della città di Atene che divenne molto efficiente grazie all’introduzione della Costituzione di
Clistene nel VI secolo a.C. e alla particolare enfasi data all’interno della Carta ai principi di
democraticità, rappresentatività e partecipazione del popolo alla vita governativa.
Il carattere polisemico del concetto di organizzazione è strettamente collegato al concetto di
razionalità di governo, che caratterizza e distingue una determinata organizzazione (sistema
sociale) rispetto ad un’altra, sulla base di tre ambiti specifici:
le credenze, ovvero la cultura organizzativa diffusa e condivisa dai membri di un’azienda;
le azioni, quanto viene effettivamente svolto all’interno di un contesto organizzativo;
il sapere scientifico (Know how), che si riferisce a quell’universo così vasto che va dalle
competenze e conoscenze possedute dal personale impiegato presso una determinata
organizzazione di lavoro alla massima espressione simbolica del sapere scientifico
medesimo rappresentata dal brand di un’organizzazione.
In base a tale impostazione teorica, nello studio dell’evoluzione delle organizzazioni si è fatto
spesso ricorso al concetto di complessità e di organizzazione complessa per delineare quella
particolare trasformazione dei modelli organizzativi (dei loro sistemi sociali) interessati da un
mutamento qualitativo oltre che quantitativo.
Fu lo studioso nonché dirigente di grandi organizzazioni Chester Barnard, alla fine degli anni Trenta,
ad introdurre il concetto di organizzazioni complesse, riferito principalmente alle organizzazioni di
grandi dimensioni che si differenziano da quelle di piccole dimensioni per il tipo, la varietà e
l’intreccio delle relazioni socio-tecniche che le costituiscono.
Uno dei fattori più rilevanti che distingue e caratterizza questo tipo di organizzazioni è dato dal
fatto che, per gestire la complessità organizzativa, al loro interno vi sono strutture e persone che
svolgono funzioni diverse, sia per quanto attiene alle attività e ai compiti professionali, sia il per
livello di responsabilità (gerarchica) che svolgono nel governo dell’organizzazione, ovvero nella
definizione e gestione dei processi decisionali, organizzativi e lavorativi. Pertanto vi sono strutture
che svolgono attività operative (devono fornire il prodotto e/o il servizio dell’organizzazione di
lavoro), altre che svolgono attività direttive, di coordinamento e programmazione ed infine di
servizio, ovvero di supporto, a favore delle une e delle altre.
Approfondimento sul concetto di delega
Utilizzando un parallelismo, possiamo affermare che come l’esercito romano, per governare gli
enormi spazi territoriali comprendenti l’impero, faceva ricorso allo strumento della delega, così il
manager si serve del processo di delega per competenza per perseguire gli obiettivi individuati dal
suo superiore gerarchico.
A ben vedere, la delega è un vero e proprio processo che si compone di due diversi momenti:
il dare la delega;
l’acquisire la delega.
Partiamo, quindi, dal concetto di culpa, intesa come responsabilità. Distinguiamo a tal proposito la
culpa in eligendo e la culpa in vigilando. La prima fa riferimento alla responsabilità nella scelta della
persona maggiormente idonea ad acquisire il processo di delega, la seconda, invece, attiene al
controllo. Si può, pertanto, sostenere che non si configura delega se non vi è un’attività di vigilanza
da parte del manager (delegante) sull’operato del collaboratore (delegato).
CULPA (= responsabilità)
Delegante
Culpa in eligendo compiti
Culpa in vigilando Delegato
Come si evince dallo schema, sulla base del processo di delega, il delegante assegna lo svolgimento
di determinati compiti al delegato, dai quali scaturiscono delle responsabilità in capo a
quest’ultimo. In caso di mancato raggiungimento dei risultati attesi, il delegato dovrà rispondere di
ciò al soggetto delegante. In questa fase, è anche possibile che quest’ultimo, a fronte di un’attenta
analisi degli obiettivi e dei compiti assegnati, palesi perplessità o muova critiche e obiezioni
rispetto alla chiarezza o alla congruità (e relativa raggiungibilità) degli stessi.
Dei riflessi negativi che inevitabilmente si ripercuoteranno sugli stakeholder interni ed esterni ne è
responsabile il soggetto delegante (responsabilità verso l’esterno).
E’ a questo punto, dunque, che si configura la culpa in eligendo (responsabilità nella scelta) o la
culpa in vigilando (responsabilità nel controllo). Il delegato sarà, in ogni caso, responsabile delle
conseguenze negative nei confronti del delegante, nell’ambito del rapporto sottostante
(responsabilità verso l’interno).
Se, invece, il delegato realizza positivamente i compiti assegnati, raggiungendo gli obiettivi correlati
al contenuto della delega, dovranno essergli ascritti i conseguenti meriti, con possibilità di ottenere
un’incentivazione rapportata al raggiungimento dei risultati di performance. Di conseguenza, il
delegante – se buon manager – non si approprierà dei successi del delegato, ma otterrà per via
naturale i benefici che gli deriveranno da una corretta gestione del processo di delega (scelta e
controllo).
In conclusione, ritornando all’esempio calzante dell’esercito romano e facendo nuovamente ricorso
alla figura retorica del parallelismo, possiamo affermare che così come per vincere una guerra non
è sufficiente saperla combattere ma essere capaci di organizzarla, un buon manager non è colui
che si limita alla sola fase di implementazione e di esecuzione delle politiche definite dai vertici
bensì colui che riveste un ruolo proattivo nella definizione e nella gestione delle politiche
organizzative, in una logica di diretta correlazione con il raggiungimento degli obiettivi strategici o
di business dell’organizzazione di lavoro in cui si trova ad operare.
Prima di addentrarci nello studio delle diverse tipologie di organizzazioni, riprendendo in esame il
saggio di Gareth Morgan (“Images”), occorre opportunamente ribadire che “se si vuole veramente
capire un’organizzazione conviene partire dalla premessa che le organizzazioni sono fenomeni
ambigui, complessi e paradossali”.
Quanto appena affermato si coniuga con la necessità di chiarire che la classificazione delle varie
tipologie di organizzazioni è un’operazione molto complessa, diretta ad individuare una specifica e
diversa caratterizzazione delle varie tipizzazioni, sulla base di una data variabile esplicativa
privilegiata. Solo dopo aver individuato la variabile indipendente, quindi, è possibile avviare il
processo tassonomico.
A tal proposito, Morgan non ricorre alla figura retorica della metafora solo per descrivere e
spiegare le differenti realtà organizzative, ma anche per classificarle in base a come viene
distribuito il potere al loro interno. Quando si parla di potere, si parla di politica e quindi, da questo
particolare ma estremamente significativo angolo di visuale, le organizzazioni possono essere
osservate come sistemi politici. Se all’autorità corrispondesse l’autorevolezza, per conoscere la
distribuzione del potere in un’organizzazione sarebbe sufficiente analizzare l’organigramma che la
rappresenta. Ma, come ben sappiamo, è molto frequente che nelle organizzazioni, accanto ad un
organigramma formale sia possibile individuare anche un organigramma informale, per così dire
parallelo.
Si fa presente, inoltre, che raramente nei contesti organizzativi aziendali, operanti in mercati ad
alto tasso di concorrenzialità, sono palesi influenze politiche, essendo dominanti i valori correlati
alle competenze e alla meritocrazia. Ciò non toglie che, di fatto, nelle stesse siano presenti quelle
relazioni e comportamenti tipici della politica, come le alleanze, i conflitti non di tipo tecnico e la
costituzione di “cordate” per l’acquisizione di posizioni di maggior potere.
Le organizzazioni, al pari degli stati, creano e mantengono l’ordine tra i loro membri seguendo stili
diversi. La scienza politica, a tal fine, può offrire un contributo alla teoria dell’organizzazione
attraverso l’individuazione di forme di governo tipiche e spesso miste. Queste sono:
l’autocrazia (“lo faremo così”): forma di governo di tipo assolutistico, per cui il potere può
essere detenuto da un singolo individuo o da un gruppo limitato di individui (oligarchia
autocratica) e si fonda sul controllo di risorse critiche (es. risorse umane), sul controllo dei
diritti di proprietà, sulla tradizione, sul carisma e su altri asseriti privilegi personali. Forma di
governo, questa, tipica di molte imprese familiari, all’interno delle quali il potere assume
una connotazione esclusiva;
la burocrazia (“dobbiamo farlo così”): forma di governo esercitata attraverso l’uso della
parola scritta (norme, prassi, procedure); essa rappresenta la base dell’autorità razionale-
legale o, in altre parole, il “governo delle leggi”;
la tecnocrazia (“è meglio farlo così”): forma di governo esercitata attraverso l’uso della
conoscenza, il potere degli esperti e la capacità di risolvere problemi specifici importanti. E’
una forma di governo orientata al fare bene, nonostante ciò comporti il rischio
rappresentato dall’essere troppo circoscritta, efficientista e protesa esclusivamente
all’ottimizzazione di un dato problema;
la coogestione (“facciamolo insieme”): forma di governo in cui parti contrapposte si
accordano per una gestione congiunta in considerazione degli interessi reciproci (es:
partnership tra aziende). E’ propria dei governi di coalizione o corporativi, nei quali ogni
parte in gioco è caratterizzata da una specifica fonte di potere;
la democrazia rappresentativa (“come dobbiamo farlo?”): forma di governo esercitata
attraverso l’elezione di rappresentanti demandati ad agire in nome dell’elettorato. Durano
in carica per il periodo di tempo previsto e, comunque, fino a quando riscuotono
l’approvazione dei votanti.
Allo stesso modo, appropriato e rilevante per la classificazione delle organizzazioni è il parametro
della loro specifica e tipica razionalità di governo.
In linea con tale impostazione, grazie al contributo fornitoci da Bottomore, Gellner, Nisbet,
Outhwaite, Touraine, Jedlowki (1997) è stato possibile creare una tassonomia di otto distinte
tipologie di organizzazioni, ciascuna con una peculiare razionalità di governo. Tali organizzazioni
presentano le seguenti caratteristiche distintive (per un maggior approfondimento v. pag. 28 e ss.
del libro “Direzione risorse umane”, oggetto di studio):
le organizzazioni con finalità economiche (imprese private) del settore agricolo,
industriale o del terziario, la cui azione è orientata essenzialmente dai principi di
mercato. All’interno di questa tipologia una particolare variante organizzativa è
rappresentata da quelle organizzazioni cooperative che hanno origine da una
matrice culturale che si richiama a logiche imprenditoriali improntate ad uno spirito
mutualistico, alla cooperazione (la forma di governo tipica è la coogestione) ed alla
partecipazione dei dipendenti al capitale sociale (la regione italiana con una spiccata
tradizione di organizzazioni cooperative è il Trentino Alto Adige, seguito dall’Emilia
Romagna).
A tal riguardo, un quesito sorge spontaneo: come si può coniugare efficacemente lo
spirito sociale con le esigenze di economicità? A ben vedere, occorre
necessariamente trasformare il concetto di giustizia commutativa in giustizia
sociale. Per la prima s’intende che nelle dinamiche di mercato si stabilisce un
equilibrio tra offerta di vendita e prezzo d’acquisto. Il margine derivante da tale
differenza altro non è che il profitto per gli operatori economici (bene privato).
Quindi, la giustizia commutativa regola i rapporti giuridici fra le persone fisiche e
giuridiche (operatori economici) e si basa su criteri di equilibrio quali/quantitativo.
La giustizia sociale, invece, orienta tutta la comunità di riferimento e non solo gli
operatori economici al bene comune, inteso come beneficio derivante da criteri di
maggior equità distributiva della ricchezza prodotta e non come mero profitto,
spingendo così ciascuno a dare volentieri il proprio contributo per uno sviluppo
economico socialmente sostenibile;
le organizzazioni che forniscono servizi sociali di pubblica utilità (sanità, scuola,
assistenza sociale, etc.), negli ultimi anni sono state protagoniste di un processo
evolutivo particolarmente complesso tendente all’attivazione di politiche gestionali
orientate ai principi di qualità, efficacia, economicità, efficienza e personalizzazione
dei servizi. Infatti, in alcuni comparti come quello della scuola con la cosiddetta
legge Bassanini (l. 59/97) si è dato avvio ad un processo di riforma improntato al
raggiungimento dell’autonomia dell’intero sistema scolastico italiano. Essa si profila
come autonomia didattica, progettuale e gestionale di ogni istituzione scolastica,
limitatamente alle politiche predisposte dal Ministero dell’istruzione. La ratio legis
risulta dettata da esigenze di economicità nella gestione degli istituti stessi. Ciò
significa, dunque, che le scuole sarebbero dovute diventare aziende pubbliche, i
presidi dei manager e i docenti dei professionals (collaboratori con competenze e
conoscenze specifiche nell’esercizio del proprio ruolo). Nel processo
d’implementazione della riforma, è emersa una profonda criticità: il contesto
scolastico è risultato essenzialmente governato da logiche burocratiche e
istituzionali difficilmente convertibili, nel breve periodo, in ambiti manageriali.
Quanto appena sottolineato denota la necessità di cambiamenti che siano in linea
con i dati culturali di riferimento. In effetti, l’attivazione di un processo di
cambiamento all’interno di un’organizzazione può determinare conflitti e crisi
d’identità qualora non si attribuisca importanza alla tradizione, alla cultura, ai
linguaggi e alle pratiche già esistenti nel contesto organizzativo di riferimento che,
come tali, vanno rispettati ed opportunamente trasformati .
All’interno di questa categoria, si collocano le organizzazioni not for profit, molto
diffuse nel settore dell’assistenza sociale e della cooperazione internazionale;
le pubbliche amministrazioni, sono organizzazioni che assolvono ad una funzione
istituzionale. Forniscono servizi direttamente alla collettività o concedono
autorizzazioni burocratiche ad altre amministrazioni. La logica gestionale prevalente
è di natura gerarchica e burocratica. Non mancano però esempi di pubbliche
amministrazioni italiane innovative e virtuose soprattutto sotto il profilo
dell’economicità, dell’efficienza e della qualità dei servizi erogati;
le organizzazioni di rappresentanza sindacali e professionali, la cui forma più nota è
rappresentata dai sindacati dei lavoratori ma anche delle associazioni
imprenditoriali, svolgono una funzione di rappresentanza e di tutela degli interessi
collettivi. Le associazioni professionali, invece, sono specializzate nella
rappresentanza e nel sostegno degli associati in diversi campi come la previdenza, la
formazione etc.;
i partiti e le organizzazioni politiche, sono le principali organizzazioni/associazioni
volontarie della società civile, che per mezzo di libere elezioni democratiche
detengono una determinata quota di potere; in più sono tenute a mantenere
l’impegno nei confronti della collettività nello sviluppo della società civile. Una
variante organizzativa appartenente a questa tipologia sono i movimenti politici,
che si propongono di rinnovare i processi di rappresentanza politica e di
testimoniare tale rinnovamento presentandosi come una possibile alternativa ai
partiti (es. Lega nord);
le organizzazioni per la difesa degli interessi ambientali, locali o dei consumatori
sono strutturate come associazioni private collettive (Wwf, Associazione dei
consumatori, etc.) che si battono per la tutela dell’equilibrio eco-ambientale, la
conservazione del patrimonio artistico-culturale, la difesa dei consumatori e così via;
le organizzazioni religiose, che a loro volta si differenziano in comunità di base e
movimenti religiosi (molto spesso questi si pongono in una logica di critica alle
prime), hanno un duplice scopo: la rappresentanza e la testimonianza
dell’istituzionalizzazione della fede e dei processi di rinnovamento delle pratiche e
delle istituzioni religiose;
le organizzazioni militari e le organizzazioni totali (le carceri), di matrice
autocratica, registrano una stretta subordinazione gerarchica dei subordinati
rispetto ai comandanti.
Possiamo, dunque, sostenere che ciascuna delle otto tipologie di organizzazioni è caratterizzata da
una sua peculiarità, che a sua volta è correlata ad una corrispondente razionalità di governo, o
meglio di governance.
principi/valori
compiti/procedure
norme/autorità
Know how
organizzazioni professionali
organizzazioni ideologiche
organizzazioni burocratiche
organizzazioni tecnocratiche
Alle due classificazioni fin qui proposte, se ne aggiunge una terza (potremmo dire riassuntiva delle
prime due) la cui variabile esplicativa privilegiata è rappresentata dalla particolare cultura
organizzativa presente in ogni realtà organizzativa.
Dal grafico possiamo evincere una tassonomia costituita da quattro differenti tipologie di
organizzazioni:
1. le organizzazioni ideologiche;
2. le organizzazioni burocratiche;
3. le organizzazioni tecnocratiche;
4. le organizzazioni professionali.
1. Le prime fanno leva sull’aspetto valoriale che acquista una connotazione inderogabile. In
altre parole, la condizione necessaria per l’adesione alle organizzazioni ideologiche
(l’accezione non è negativa) è la condivisione dei principi e dei valori alla base delle stesse,
pena l’esclusione. Per evitare il rischio della disaggregazione, questo tipo di realtà
organizzative presuppone, altresì, la previsione di norme a tutela di quel sistema culturale e
valoriale alla base della loro ragion d’essere. Coloro che fanno parte di tali organizzazioni
non vivono, peraltro, come coercitiva l’appartenenza poiché ne condividono i valori
assiomatici fondativi. In caso contrario, non potranno far parte della comunità: dovranno
scegliere di andarsene o ne saranno espulsi;
2. l’organizzazione burocratica, grande imputato della modernità, è da intendersi come
l’insieme funzionale delle norme e delle procedure mirate a governare le azioni degli attori
organizzativi. Il termine burocrazia si riferisce dunque al "potere degli uffici", ad una forma
di esercizio del potere che si struttura intorno a regole impersonali ed astratte,
procedimenti, ruoli definiti una volta per tutte e immodificabili dall'individuo che ricopre
una data funzione. Oggi il termine è spesso usato in senso più ampio, per indicare in modo
generico l'insieme della struttura amministrativa e del personale di ogni organizzazione
complessa, sia pubblica sia privata. Negli ultimi decenni esso ha acquisito anche
un'accezione negativa, che si ascrive alla lentezza e agli sprechi tipici della pubblica
amministrazione.
Tre sono le critiche fondamentali che si muovono all’organizzazione burocratica:
è eccessivamente rigida;
reprime e soffoca la componente umana e le sue potenzialità;
è più attenta al compito che al risultato, tant’è che il rischio che molto spesso si profila è il
mancato funzionamento sostanziale in quanto viene privilegiato quello formale;
3. le organizzazioni tecnocratiche sono essenzialmente imperniate sul concetto di efficienza,
di efficacia e di razionalizzazione, sulla valorizzazione delle conoscenze tecniche,
sull’estrema ottimizzazione del processo produttivo e sui criteri di standardizzazione del
lavoro. In altre parole, il lavoro nelle organizzazioni tecnocratiche poggia su di un unico
fondamentale concetto: quello della meritocrazia specialistica, legittimato proprio dal ruolo
degli esperti, ossia dalla competenza e dalla capacità di saper fare le cose giuste. Ciò non
senza l’imprescindibile orientamento ai compiti e alle procedure (“è meglio farlo così”);
4. le organizzazioni professionali, come si desume dalla rappresentazione grafica, puntano
sulle professionalità (know how: reticolo di conoscenze, competenze e capacità possedute
dal personale operante presso un determinato contesto organizzativo) congiuntamente al
sistema valoriale presente nelle organizzazioni e al raggiungimento degli obiettivi (fissati
dal vertice organizzativo o derivanti dalle aspettative degli interlocutori esterni). Questo,
indipendentemente da quella schiera di norme, prassi e procedure che, invece,
caratterizzano le realtà burocratiche. L’importante è realizzare i compiti necessari
mantenendo sempre un alto livello di attenzione rispetto ai valori di riferimento, allo scopo
di rafforzare l’identità organizzativa. Ciò implica, però, che vi sia una forte condivisione di
ciò che s’intende per professionalità. Si richiede, cioè, un processo di introiezione del modo
giusto e corretto di esercitare il mestiere (deontologia professionale), con ampi margini di
discrezionalità. Esempi di tale tipologia di organizzazioni possono essere ravvisati negli studi
professionali, nelle imprese di consulenza e in molte organizzazioni del settore non profit.
7. Il concetto di governance
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organizzazioni sindacali
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Il concetto di governance è stato introdotto nello studio delle organizzazioni, a seguito della
notevole importanza che ha progressivamente assunto la c.d. stakeholders theory, in cui si mette
in evidenza il ruolo svolto da una pluralità di soggetti (individui e gruppi) dai quali dipende la
possibilità dell’impresa (una delle tipologie di organizzazioni di lavoro analizzate) di operare
efficacemente, di evolversi e di perpetuarsi nel tempo e nello spazio. Si tratta di due grandi
tipologie di gruppi sociali che danno vita, rispettivamente, all’ecosistema dell’impresa che
comprende gli azionisti, i lavoratori, le organizzazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali, i
fornitori, i distributori, le pubbliche amministrazioni, e alla comunità et large rappresentata dai
consumatori (o meglio dai clienti), dalle associazioni dei consumatori, dalle associazioni
ambientaliste e dai mass-media e opinione pubblica (v. figura).
consumatori
azionisti
Mass-media
e opinione pubblica
associazioni di consumatori
Associazioni ambientaliste e di
difesa del patrimonio
culturale
pubbliche
amministrazioni
distributori
fornitori
lavoratori
impresa
Il rapporto che si viene a creare e l’insieme delle interazioni che possono intercorrere tra l’impresa
e i propri stakeholders sono ben rappresentati nella figura: l’impresa per poter vivere e svilupparsi
adeguatamente ha bisogno di attivare un costante interscambio, sia con gli attori che determinano
l’ecosistema di riferimento, sia con quelli che sono portatori di istanze diversificate, espressione
della comunità sociale e culturale in cui è inserita.
Approfondimento: le organizzazioni e il concetto di globalizzazione
Oggi, ogni organizzazione per muoversi all'interno di un contesto dominato dalla globalizzazione
(processo macroeconomico e sociale che produce inevitabilmente delle ricadute sulle realtà
organizzative), deve imparare a presidiare una serie di aspetti. Prima di tutto la “varietà”, che deve
essere salvaguardata attraverso una precisa attitudine a reagire ad ogni forma di omologazione,
poi la “permeabilità”, che deve tradursi in un'abilità specifica di fare network, di comunicare, di
scambiare esperienze e know-how. Terzo elemento è l'“instabilità”, che richiede di sapersi
mantenere vicini alla soglia del caos, senza essere inghiottiti, oppressi da gerarchie e percorsi
precostituiti. Queste qualità, peraltro, non si esprimono se il management non dimostra elasticità e
lungimiranza, ovvero se non riesce a gestire il rischio, dell’omologazione dell’identità e della cultura
organizzativa e la conseguente rigidità dei processi
Se ci riferiamo, quindi, al contesto globale all’interno del quale un’organizzazione agisce ed
interagisce non possiamo prescindere da considerazioni di tipo storico-sociali riconducibili a due
correnti di pensiero apparentemente, e per molti versi, effettivamente antitetiche: stiamo
parlando dei principi teorizzati da Marx ne “Il Manifesto del Partito Comunista” e da Benedetto
XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”.
Si passano, di seguito, brevemente in rassegna alcuni passi de “Il Manifesto” su cui s’intende
focalizzare maggiormente l’attenzione per una più approfondita analisi delle organizzazioni e del
pensiero filosofico e sociologico alla base delle stesse:
“la società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli
antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove
condizioni di oppressione, nuove forme di lotta”;
“il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il
globo terrestre. Dappertutto essa deve annidarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto
stringere relazioni”;
“col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni
infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I
bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie
cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa
costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono
perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In
una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza”;
“le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la
borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte;
essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi - i moderni operai, i proletari”;
“quanto meno il lavoro manuale richiede abilità e forza, cioè quanto più si sviluppa
l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene sostituito da quello delle donne e
dei fanciulli”.
Riassumendo quanto appena elencato, possiamo affermare che per Marx l’epoca della borghesia,
si caratterizza, anche rispetto all’età feudale, per una progressiva disumanizzazione dei rapporti
(“non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in
contanti»”) e la conseguente cristallizzazione delle contrapposizioni di classe. L'intera società si
divide sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano
direttamente: borghesia e proletariato.
L'attività industriale fino ad allora vincolata a moduli feudali o corporativi non poteva più
fronteggiare le crescenti aspettative prodotte dai nuovi mercati. Al suo posto comparve la
manifattura. I maestri artigiani vennero soppiantati dal ceto medio industriale; la divisione del
lavoro tra le varie corporazioni scomparve di fronte alla divisione del lavoro nella stessa singola
officina.
Origini della globalizzazione
Ma i mercati continuavano a crescere e con essi le aspettative. Anche la manifattura non bastava
più. Il vapore e le macchine rivoluzionavano la produzione industriale. Al posto della manifattura si
affermò la grande industria moderna, al posto del ceto medio industriale apparvero gli industriali
capitalisti, i comandanti di intere armate industriali, i moderni borghesi.
La grande industria ha creato il mercato mondiale, questo ha dato uno smisurato impulso
allo sviluppo del commercio, della navigazione, delle comunicazioni terrestri. Tale sviluppo
ha a sua volta retroagito sulla crescita dell'industria. E nella stessa misura in cui crescevano
industria, commercio, navigazione, ferrovie si sviluppava anche la borghesia.
La necessità di uno sbocco sempre più vasto per i suoi prodotti lanciava la borghesia alla
conquista dell'intera sfera terrestre. Bisogna annidarsi dappertutto, dovunque occorre
consolidarsi e stabilire relazioni. La borghesia ha strutturato in modo cosmopolitico la
produzione e il consumo di tutti i paesi grazie allo sfruttamento del mercato mondiale. Essa
trascina verso la civiltà persino le nazioni più barbariche, grazie al rapido miglioramento di
tutti gli strumenti di produzione, grazie al continuo progresso delle comunicazioni.
“Ma nella stessa misura, in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa anche il
proletariato, la moderna classe dei lavoratori, i quali vivono solo fin quando trovano lavoro e
trovano lavoro solo in quanto il loro lavoro accresce il capitale. Il lavoro dei proletari ha perso ogni
tratto di autonomia e quindi ogni stimolo per il lavoratore a causa dell'espansione delle macchine e
della divisione del lavoro. Il lavoratore diventa un mero accessorio della macchina. Da lui si
pretende solamente il più facile, il più monotono, il più elementare movimento Quanto meno il
lavoro manuale richiede abilità e forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il
lavoro degli uomini viene sostituito da quello delle donne e dei bambini. Per la classe operaia le
differenze di sesso e di età non hanno più alcuna rilevanza sociale. Non esistono ormai che
strumenti di lavoro, distinti per il diverso costo relativo all'età e al sesso”.
Dal quadro delineato, si evince con estrema chiarezza come alla base della dottrina marxista vi sia
una concezione capitalistica delle organizzazioni di lavoro e non solo; esse, infatti, vengono
considerate, alla stregua del periodo storico cui si riferiscono (prima rivoluzione industriale), dei
veri e propri sistemi chiusi, assimilabili all’elaborazione morganiana delle organizzazioni intese
come macchine. Queste puntano su un accrescimento della produttività attraverso una divisione
del lavoro molto accentuata e un coordinamento di tipo militare fondato sulla subordinazione,
sulla disciplina e sulla centralizzazione dell’autorità. A ciò si aggiunge che è invalso tra i maggiori
studiosi delle organizzazioni il pensiero che Marx ed Engels siano stati i primi veri antesignani della
globalizzazione, seppur non propriamente definita, e che la sua descrizione ne “Il manifesto del
partito comunista” del 1848 è, per la sua estrema sintesi e vis narrativa, insuperata.
Il secondo paradigma che ci fornisce un’ulteriore chiave di lettura delle organizzazioni e della loro
interconnessione con il fenomeno della globalizzazione è “Caritas in veritate” (in italiano La carità
nella verità), lettera enciclica della Chiesa cattolica firmata da papa Benedetto XVI il 29 giugno
2009. Il testo dell’enciclica ripercorre l'insieme dei principi e delle direttive emanate dal magistero
cattolico in ordine ai problemi di natura sociale ed economica manifestatisi nella società moderna,
meglio definita come dottrina sociale della Chiesa cattolica. Tale dottrina – è opportuno rilevarlo -
non si configura come una generica e multiforme espressione del pensiero cattolico sviluppatosi
nel corso dei secoli di fronte alle diverse congiunture storiche che si sono via via susseguite, bensì
come la risposta, dotata di rilevante autorevolezza istituzionale ed espressa in termini dottrinali,
attraverso la quale il papato romano ha preso posizione di fronte alla realtà sociale ed economica
di una data stagione storica.
Nel capitolo II (“lo sviluppo umano nel nostro tempo”), al punto 21, l’attuale Pontefice sottolinea
come “Paolo VI aveva una visione articolata dello sviluppo. Con il termine «sviluppo» voleva
indicare l'obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie
endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro
partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di
vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il
consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace”.
E prosegue con una critica: “dopo tanti anni, mentre guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e
alle prospettive delle crisi che si susseguono in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative
di Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che è stato adottato negli ultimi decenni.
Riconosciamo pertanto che erano fondate le preoccupazioni della Chiesa sulle capacità dell'uomo
solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli
strumenti a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli
fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del
profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza
e creare povertà”. È vero, dunque, che lo sviluppo c'è stato e continua ad essere un fattore positivo
che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi la possibilità di
diventare attori efficaci della politica internazionale ma va, tuttavia, riconosciuto che lo stesso
sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi,
messi ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi”.
A proposito della globalizzazione, Papa Benedetto XVI sostiene che “talvolta nei riguardi della
stessa si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da
anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana. È bene ricordare a
questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa come un processo socio-economico,
ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità
che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo
deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della
collettività delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale,
ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la
globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere
a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della
globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della
famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per
favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del
processo di integrazione planetaria. Nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno
negate ma nemmeno assolutizzate, la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò
che le persone ne faranno”.
Pertanto adeguatamente concepita e gestita, la globalizzazione offre la possibilità di una grande
ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se
mal gestita, può invece accentuare i livelli di povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una
crisi l'intero mondo (come abbiamo, infatti, potuto verificare alla luce dell’attuale crisi finanziaria
globale e delle ricadute inevitabili sull’economia reale).
Strettamente connesso a quanto esposto, è utile osservare come per il Pontefice l'imprenditorialità
abbia e debba sempre più assumere un significato plurivalente: prima di avere un’accezione
professionale, ne ha una umana. “Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come «actus personae», per
cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli
stesso «sappia di lavorare in proprio». Non a caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un
creatore». Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società,
esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra «privato» e «pubblico». Ognuna
richiede ed esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che
nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno
tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia -
prosegue papa Benedetto XVI - favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse
tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e
viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie
avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo”. Tale visione, pur originata da presupposti culturali ed
ideologici profondamente diversi dal pensiero marxista, è, tuttavia, espressione, mutatis mutandis,
di un analogo approccio critico allo sviluppo incotrollato della società e, soprattutto, non ispirato
da valori di riferimento riconducibili non solo all’economia ma, ancor prima, alla giustizia sociale e
alla cooperazione.
In conclusione, ripercorrendo il sentiero fin qui esplorato, possiamo affermare che il nucleo della
nostra analisi è, ancora una volta, la centralità dell’individuo, la sua cultura, i suoi bisogni, le sue
aspirazioni. La storia delle organizzazioni, in definitiva, non è altro che la storia degli individui che si
sono, per ragioni socialmente rilevanti, aggregati tra loro, dandosi di conseguenza delle regole
finalizzate alla convivenza e al funzionamento dell’organizzazione.
Sulla base di tale considerazione, e in una prospettiva di analisi delle possibili dinamiche dei
rapporti tra individuo e società e individuo e organizzazione, si può argomentare che gli obiettivi
dell’organizzazione possono essere perseguiti tanto più proficuamente quanto più vengono
soddisfatte le esigenze di crescita personale degli individui. A questo proposito, è interessante
richiamare la teoria di Douglas McGregor (The Human Side of Enterprise 1960), con la quale
l’autore descrive due differenti, o meglio antitetiche, concezioni che i manager tendono ad avere
nei confronti dei loro collaboratori:
la teoria X che rappresenta gli assunti tayloristici (che approfondiremo nelle prossime
lezioni) sulla natura dell’uomo:
l’individuo mediamente ha un’avversione innata per il lavoro;
per questo gli individui vanno guidati e minacciati di punizioni affinché collaborino
agli scopi organizzativi;
normalmente l’individuo preferisce essere guidato piuttosto che avere
responsabilità;
nel ribaltare la logica tayloristica, lo studioso di organizzazioni formula la teoria Y:
il lavoro può essere anche fonte di soddisfazione e gratificazione;
l’individuo sa esercitare anche l’autoguida e l’autocontrollo;
in condizioni idonee l’individuo non disdegna forme di responsabilità;
l’individuo è in grado di mettere in pratica la propria immaginazione e creatività.
La teoria proposta rappresenta un ambito di riflessione ai fini del nostro studio esplorativo
all’interno delle organizzazioni anche in chiave di stile di gestione aziendale. Al riguardo, ci sembra
stimolante concludere la lezione con una domanda: è la natura umana a determinare certi
differenti comportamenti in ambito lavorativo e a generare, di conseguenza, inevitabili valutazioni
e un certo stile di direzione (direttivo o partecipativo) da parte dei datori di lavoro oppure è lo stile
di direzione a determinare certi comportamenti dei collaboratori, generalizzando il modo di
interpretare il lavoro e influenzando negativamente o positivamente la stessa natura umana?
Nel capitolo 2 “La meccanizzazione va in cattedra: ovvero le organizzazioni come macchine” del
testo “Images”, Gareth Morgan illustra le caratteristiche di uno dei principali approcci all’analisi dei
sistemi organizzativi: lo scientific management, elaborazione ascrivibile al famoso studioso ed
ingegnere americano Frederick Winslow Taylor (1911). Per scientific management (organizzazione
scientifica del lavoro) o taylorismo s’intende lo studio scientifico di ogni fase del processo
produttivo industriale al fine della massimizzazione della produttività delle risorse impiegate,
ottenuta attraverso la scomposizione e la parcellizzazione dei processi lavorativi nei singoli
movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. Storicamente questo modo
di organizzare il lavoro ha implicato l’affermazione di nuovi sistemi di organizzazione aziendale ed
un ruolo specializzato della direzione d’impresa nella razionalizzazione del processo produttivo.
Cinque, sono, i principi cardine su cui si fonda il taylorismo secondo Morgan:
1. far slittare tutta la responsabilità relativa all’organizzazione del lavoro dal lavoratore che
esegue al dirigente che guida e controlla. Sulla base di questo presupposto, ovvero della
divisione ed organizzazione del lavoro, il manager non solo è l’unico a doversi fare carico
della pianificazione e progettazione del lavoro ma ne è anche responsabile;
2. usare metodi scientifici per individuare il modo di più efficiente di fare il lavoro: la
mansione dell’operaio deve essere progettata scientificamente, specificando
dettagliatamente come il lavoro debba essere svolto;
3. selezionare la persona più adatta per espletare la mansione così progettata
(un’organizzazione di lavoro di stampo taylorista punta l’accento soprattutto sull’impegno e
l’obbedienza delle persone impiegate nella stessa);
4. addestrare l’operaio a fare il lavoro in modo efficiente;
5. tenere sottocontrollo la produttività dell’operaio per assicurarsi che vengano rispettate le
procedure lavorative predeterminate e che vengano ottenuti risultati adeguati (a tal
proposito si parla di fattori “metodi” e “tempi”).
Nell’applicazione di questi principi Taylor promosse l’impiego dello studio di “tempi” e “metodi”,
inteso come mezzo per analizzare e standardizzare le attività lavorative; tale approccio, dunque,
prevedeva che ogni azione, anche la più semplice e ripetitiva, dovesse essere osservata nel
dettaglio e misurata con la massima precisione allo scopo di rintracciare la modalità lavorativa più
efficiente.
L’impatto delle teorizzazioni di Taylor sui singoli luoghi lavorativi è stato epocale, così come gli alti
costi umani per ottenere gli aumenti di produttività e le critiche espresse da numerosi studiosi. A
tal proposito, il principio di separare la pianificazione e la progettazione del lavoro dalla sua
esecuzione viene, infatti, considerato dai più critici come l’elemento maggiormente pervasivo e
pericoloso del taylorismo, in quanto comporta una scissione del lavoratore nella sua mano e nel
suo cervello. Inoltre, secondo coloro che non condividono tale modello l’immagine meccanicistica
tenderebbe a sottovalutare gli aspetti umani dell’organizzazione e la complessità dei compiti che le
organizzazioni sono chiamate a svolgere.
D’altro canto, nonostante le forti critiche provenienti da più fronti, dobbiamo farci portavoce di una
considerazione molto importante, dalla quale non si può prescindere se si vuole comprendere
l’organizzazione scientifica del lavoro secondo Taylor: lo scientific management nasce e si sviluppa
in America come risposta alla richiesta di aumentare l’efficienza produttiva del sistema industriale
americano, chiamato allo sforzo bellico del primo conflitto mondiale.
Detto questo, secondo Gareth Morgan le potenzialità e i limiti della metafora meccanicistica
dell’organizzazione sono speculari ai limiti e alle potenzialità che l’organizzazione meccanicistica
trova nella sua concreta realtà. In particolare, gli approcci organizzativi di tipo meccanicistico
funzionano solo in presenza di alcune condizioni:
quando si è in presenza di un compito molto chiaro (l’organizzazione scientifica del lavoro è
legata alla concezione della produzione “elementare”, parcellizzata e descrivibile: solo così il
manager può controllare l’operato dei lavoratori in modo che questi svolgano
efficientemente la propria mansione);
quando l’ambiente è sufficientemente stabile da garantire che i risultati prodotti siano
appropriati;
quando si vuole produrre esattamente lo stesso prodotto più volte;
quando la precisione gioca un ruolo fondamentale;
quando le “componenti umane” della macchina sono docili e rispettano i compiti loro
assegnati: l’operaio è l’ingranaggio intelligente della macchina.
Dall’altro lato, Morgan elenca i limiti insiti nella concezione meccanicistica dell’organizzazione, i
quali stanno proprio nella difficoltà che le organizzazioni meccanicistiche incontrano nell’affrontare
ambienti mutevoli, in quanto vengono a svilupparsi forme organizzative caratterizzate da una
notevole resistenza laddove risulti necessario adattarsi proprio ad un ambiente mutevole (1°
limite).
Quando sussiste una forte meccanizzazione le possibili condizioni ambientali sono presunte (cioè
come se fossero tutte già note) così come i comportamenti da adottare nel caso si verifichino. Di
conseguenza, e questo è il secondo limite, l’individuo è sollevato dal dare un senso a quanto
accade, in quanto tale senso è già scritto nei manuali e nei mansionari, salvo poi scontrarsi con la
complessità imprevedibile della realtà.
In generale, la difficoltà maggiore che incontrano le organizzazioni concepite come macchine sta
proprio nell’adattarsi ai mutamenti che avvengono nell’ambiente esterno, data la loro scarsa
flessibilità e capacità di mettere in opera processi creativi. Semplificando quanto appena detto il
terzo limite consiste nel dar luogo ad effetti non previsti e non desiderabili come nel caso in cui gli
interessi di coloro che lavorano nell’organizzazione abbiano il sopravvento sugli obiettivi per cui
l’organizzazione è stata creata.
D’altronde le macchine sono delle entità monofunzionali progettate per realizzare obiettivi
predefiniti, con risorse determinate, per cui il loro utilizzo in attività diverse presuppone una
procedura di modifica e riprogettazione per i nuovi scopi. Detto ciò, è facile capire come in un
ambiente mutevole che richiede sempre azioni e reazioni di tipo diverso, le organizzazioni
meccanicistiche, soprattutto di grandi dimensioni, incorrano in inevitabili difficoltà dovute anche al
processo di segmentazione che tende a creare delle barriere e dei blocchi insuperabili nel grembo
stesso della struttura.
In ultima analisi, come accennato, la problematica più discussa riguardo alla visione meccanicistica
dell’organizzazione è quella relativa alle conseguenze umane dell’adozione di simili modelli:
l’approccio meccanicistico tende a limitare, piuttosto che a favorire, lo sviluppo delle capacità
umane modellando gli esseri umani in modo da renderli adatti ai requisiti propri
dell’organizzazione piuttosto che a costruire l’organizzazione attorno alle potenzialità degli
individui. Tale approccio scoraggia le iniziative e incoraggia ad obbedire agli ordini e a rimanere al
proprio posto piuttosto che ad identificarsi e a tentare di migliorare ciò che si sta facendo.
Ribadiamo, però, che il modello teorizzato da Taylor va analizzato ed inserito nel suo contesto di
riferimento, solo così si può comprendere la ratio alla base degli assunti meccanicistici imperniati
sull’affermazione di nuovi sistemi di organizzazione aziendale.
Approfondimento: il concetto di Neotaylorismo e il caso McDonald’s
Oggi non si parla più di taylorismo, bensì di neotaylorismo, per il quale s’intende quel fenomeno
di razionalizzazione produttiva tipico del settore dei servizi. Esempi di neotaylorismo si verificano
nei settori dei/della:
I. Call center: schema rigido e impostato d’istruzioni, monitoraggio e valutazione da parte di
supervisori;
II. Ristorazione veloce: moderna catena di montaggio, procedimenti standardizzati e ripetitivi
per realizzare prodotti in serie (v. McDonald’s).
Il caso MCDonald’s:
Organizzazione del lavoro ispirata ai principi del management scientifico:
scomposizione di ogni attività in compiti semplici e facili da programmare e gestire;
massimizzazione del controllo manageriale;
Prevedibilità e uniformità del servizio;
Formazione dei dipendenti;
Selezione e controllo dei fornitori;
Gestione integrata dei macchinari, delle specifiche di produzione e delle ispezioni
periferiche.
9. Il Taylorismo
La teoria organizzativa classica sviluppatasi verso la fine del secolo XIX si concentra su due
principali approcci teorici:
lo scientific management di F. Taylor;
la teoria dell’amministrazione generale d’impresa di Henry Fayol e Mooney.
Quest’ultima teoria fa, per così dire, da anello di raccordo tra la scuola classica e la scuola
behaviorista (che approfondiremo nelle prossime lezioni) e si propone di dare indicazioni sui
principi e sulle funzioni di governo dei dirigenti, da utilizzare come linee guida per la
razionalizzazione delle attività organizzative, procedendo al contrario del taylorismo, dall’alto verso
il basso.
Principali esponenti di questa corrente di pensiero sono studiosi con una forte componente
operativa: Fayol (1949), industriale francese e capostipite, Mooney (1931) e Reiley (1931),
dirigente della General Motors, e Urwick (1937).
Similarmente alla teoria di Taylor, la teoria di Fayol si basa su una visione meccanicistica della realtà
aziendale. L’enfasi, tuttavia, non è posta sul miglioramento della performance del lavoratore in
termini di efficienza, ma piuttosto sulle capacità gestionali dei manager e sugli aspetti più
propriamente amministrativi ed organizzativi.
Gli autori della teoria dell’amministrazione generale concordano sull’importanza del contenuto di
due attività della direzione d’impresa: il coordinamento e la specializzazione. Il primo si basa su
alcuni principi fondamentali che sanciscono i rapporti tra i membri dell’organizzazione e i compiti
previsti nell’organizzazione del lavoro. I membri sono legati da una struttura piramidale di tipo
gerarchico in cui l’autorità formale, ovvero la direzione, esercita il controllo. Ai livelli più bassi di
tale struttura sono affidate mansioni esecutive; a quelli intermedi lo studio dei metodi di lavoro e il
controllo di produzione; mentre al livello apicale della piramide spetta la responsabilità delle
strategie e delle scelte aziendali. Ogni membro della piramide deve ricevere ordini da un solo
superiore, che a sua volta, deve coordinare un numero non elevato di lavoratori a lui subordinati.
La specializzazione del lavoro, invece, riguarda le modalità con le quali le attività produttive ed
amministrative e i ruoli lavorativi che le svolgono, sono aggregati per massimizzare l’efficienza e
l’efficacia del’organizzazione.
Ciò detto, Fayol individua cinque funzioni chiave del management industriale:
la programmazione (predeterminare gli obiettivi e pianificare le attività);
l’organizzazione (organizzare la divisione del lavoro per formare strutture di tipo gerarchico
che contemplino una specializzazione in campo operativo);
il comando (guidare le risorse umane);
il coordinamento (armonizzare le diverse attività aziendali);
il controllo (verificare l’attuazione dei programmi e l’esecuzione degli ordini).
Basandosi sulla lunga esperienza maturata in azienda, Fayol espone dettagliatamente i principi
generali di amministrazione, che di seguito proponiamo rielaborando, a nostra volta, la
classificazione proposta da Morgan (pag. 31 di “Images”):
1. unità di comando: ogni dipendente deve ricevere ordini da un solo superiore gerarchico
(non devono esistere dualità di comando);
2. catena di comando: è la linea gerarchica che lega superiori e subordinati, in quanto canale
di trasmissione delle comunicazioni e delle decisioni (logica top-down: tale catena di
comando va dal vertice alla base dell’organizzazione piramidale);
3. ambito del controllo: il numero di persone che fanno capo ad un superiore non deve essere
tale da causare problemi di comunicazione e coordinamento (aspetto innovativo rispetto
alle teorizzazioni di Taylor: tenendo sempre ben chiara l’unità di comando, si iniziano ad
intravedere forme di interazione e di relazione tra i lavoratori e tra questi e i propri
superiori gerarchici);
4. disciplina: l’obbedienza, l’assiduità, l’impegno, il comportamento rispettoso, insieme a tutta
una serie di atteggiamenti di sottomissione, devono corrispondere a regole e prassi diffuse
(così si va pian piano sostituendo il potere legittimato al potere “brutale”);
5. divisione del lavoro: l’organizzazione deve aspirare ad un livello di specializzazione (si
supera così il paradigma della one best way) tale da permetterle di proseguire
efficacemente al raggiungimento dei propri obiettivi (produrre più e meglio con il
medesimo sforzo);
6. autorità e responsabilità: i diritti di impartire disposizioni e i doveri di obbedienza devono
essere pianificati correttamente; è opportuno ricercare un giusto equilibrio tra autorità e
responsabilità: non ha senso dare delle responsabilità senza accompagnarle ad un
appropriato livello di autorità;
7. subordinazione dell’interesse individuale all’interesse generale: i mezzi che consentono di
realizzare questo obiettivo sono la fermezza, il buon esempio mostrato dai superiori,
l’esercizio di una costante supervisione e la maggiore equità garantita da accordi franchi;
8. giustizia: giusta remunerazione dello sforzo e incoraggiamento del personale nell’esercizio
dei propri doveri (il concetto di giustizia sociale inizia a farsi largo anche all’interno delle
organizzazioni di lavoro);
9. rapporto di lavoro di lungo periodo: stabilità del personale per favorire lo sviluppo delle
competenze (valori premianti alla base della teoria classica sono elementi quali: l’anzianità
di servizio, la fedeltà alla causa, lo spirito di abnegazione sul lavoro);
10. spirito di corpo: lo spirito aziendale è fondamentale per favorire l’armonia che, a sua volta,
rappresenta una potenzialità per l’organizzazione (aspetto innovativo rispetto al
taylorismo);
11. iniziativa: l’iniziativa di tutti che va ad aggiungersi a quella del capo è una grande forza per
le organizzazioni, seppur piramidali.
Dai principi esposti, caratterizzanti la funzione direttiva, si desume come Fayol critichi, per molti
versi, il modello di management teorizzato da Taylor, in quanto fondato su di una molteplicità di
comando e sulla accentuata separazione delle attività decisionali e gestionali da quelle
prettamente operative e, se ne discosti, sostenendo la superiorità di un ordinamento gerarchico
basato sull’unità e sulla catena di comando ma in una prospettiva di maggior responsabilizzazione
e partecipazione di tutti i lavoratori alle attività e al risultato finale.
Fayol privilegia, dunque, una struttura organizzativa di tipo piramidale e, pur considerando
necessaria la specializzazione in azienda, sostiene l’opportunità di ricorrere ad organi di staff da
inserire stabilmente nella struttura d’azienda (specialisti con funzioni di coordinamento e controllo,
di assistenza, consulenza, e servizi alla linea, cioè agli organi di esecuzione e direzione), e a organi
di line (articolati in modo strettamente gerarchico che hanno l’autorità e la responsabilità di esigere
determinati comportamenti dai subordinati, configurandosi come soggetti direttamente coinvolti
al perseguimento degli obiettivi aziendali), non abbandonando mai il principio dell’unità di
comando.
Se si applicano i principi generali della teoria dell’organizzazione classica, si ottiene il tipo di
L’organigramma A offre una macrorappresentazione di una organizzazione individuandone le
principali strutture funzionali. Ogni reparto funzionale ha la sua organizzazione gerarchica.
L’organigramma B rappresenta un reparto di produzione in dettaglio. Si noti la catena del comando
che scende dal vertice verso la base dell’organizzazione. Ogni punto della base può raggiungere il
vertice solo attraverso un unico percorso, in omaggio al principio dell’unità di comando (la linea in
grassetto evidenzia quanto appena esposto). Il presidente dell’organigramma A ha un ambito di
controllo pari a sette. Il caposquadra responsabile della fonderia del reparto di produzione ha un
ambito ci controllo pari a dodici. Il responsabile della produzione ha un ambito di controllo pari a
tre. Si noti che i reparti di staff (ad es. Finanza, Personale, Affari legali, R&S) non hanno nessuna
autorità sui reparti di line quale il reparto di produzione.
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Fonte: Morgan, 2002
organizzazione rappresentato nella figura 2.3: si tratta di un modello caratterizzato da mansioni
definite con precisione, organizzate in senso gerarchico attraverso linee di comunicazione e di
comando definite con altrettanta precisione. E se esaminiamo questi principi con attenzione –
sostiene Morgan – ci possiamo rendere conto che i teorici classici progettavano le organizzazioni
esattamente come se stessero progettando delle macchine. Infatti, gli esponenti della teoria
organizzativa classica concepivano l’organizzazione come un insieme di parti: si tratta di reparti
funzionali (produzione, marketing, finanza, personale, ricerca e sviluppo, etc.), che a loro volta
sono ulteriormente sottoarticolati in una serie di mansioni definite nel dettaglio. Le responsabilità
delle diverse mansioni si incastrano tra di loro in modo da completarsi reciprocamente in maniera
tendenzialmente perfetta e sono tenute insieme dalla catena scalare del comando che si basa sul
noto detto “un uomo un capo”.
Il nocciolo della teoria dell’organizzazione classica e delle sue versioni moderne - asserisce Morgan
- si basa sull’assunto che le organizzazioni possono, o quanto meno, dovrebbero essere sistemi
razionali che funzionano nella maniera più efficiente possibile. Se è vero che molti sono propensi
ad accettare questo principio come un ideale cui tendere, è altrettanto vero che «è più facile dirlo
che farlo», dal momento che un’organizzazione è formata da persone e no da ingranaggi e rotelle.
Da questo punto di vista, continua l’autore di “Images”, è significativo il fatto che i teorici classici
abbiano prestato scarsa attenzione agli aspetti umani delle organizzazioni. Anche se tali autori
hanno a più riprese riconosciuto il bisogno di leadership, l’importanza della capacità d’iniziativa dei
singoli dipendenti, l’importanza di atteggiamenti paternalistici, l’importanza di gestire i dipendenti
con giustizia, l’importanza dello spirito di corpo e di altri fattori suscettibili di avere una qualche
influenza sulla motivazione, questi stessi autori hanno sempre concepito l’organizzazione
fondamentalmente come un problema tecnico. I teorici dell’approccio classico si rendevano conto
che è importante raggiungere un certo equilibrio o addirittura una vera e propria armonia tra gli
aspetti umani e quelli tecnici, particolarmente facendo perno su opportune metodiche di selezione
e addestramento; ad ogni buon conto la tendenza di questi autori è quella di adattare - conclude
Morgan - le persone ai requisiti dell’organizzazione meccanicistica.
Buona parte degli studi organizzativi a partire dalla fine degli anni Venti hanno tentato di superare i
limiti della prospettiva taylorista attribuendo, al contrario dello scientific management, sempre più
importanza alla natura sociale e relazionale dell’individuo.
Iniziamo con l’illustrare gli studi di Elton Mayo, a partire dai quali si inizia a prendere coscienza
della rilevanza delle motivazioni e del bisogno di sicurezza insito in ogni individuo; tale concezione
contribuirà a trasformare l’azienda da apparato esclusivamente tecnico a sotto-sistema sociale più
flessibile ed equilibrato.
Nel 1924 presso le Officine Hawthorne dello stabilimento della Western Electric Company di
Chicago fu avviato un programma di ricerche sperimentali sul grado di connessione esistente tra
illuminazione e rendimento. Dopo una serie di indagini effettuate basandosi sul livello di
produttività raggiunto in diverse condizioni d’illuminazione, i risultati si rivelarono inaspettati tanto
da far pensare all’esistenza di una variabile interveniente, il cosiddetto “fattore umano”, ovvero il
complesso dei fattori psicologici latenti che condiziona il comportamento manifesto dei soggetti. La
dimostrazione dell’esistenza del “fattore umano” si ebbe nella rilevazione di un effetto particolare
che fu poi denominato “effetto Hawthorne”. Questo fenomeno consisteva nel comportamento che
i lavoratori, consci di essere soggetti ad osservazione, mettevano in atto. Tale comportamento
induceva un miglioramento delle prestazioni lavorative e di conseguenza un aumento della
produttività; quindi presumibilmente le trasformazioni positive rilevate non sarebbero derivate
tanto dagli effettivi miglioramenti delle condizioni lavorative, bensì dagli esperimenti stessi. In
pratica, i lavoratori erano presi in considerazione non esclusivamente in termini di controllo ma
venivano coinvolti in quello che oggi, nelle moderne aziende, chiameremmo “progetto di
miglioramento”.
Da queste ricerche, dunque, nacque una scuola di pensiero organizzativo molto importante, quella
delle human relations, destinata ad incidere profondamente sulle diverse realtà organizzative.
Questi studi sono tuttora famosi perché hanno messo in luce l’importanza sul posto di lavoro dei
bisogni sociali e come individui e gruppi di lavoro siano in grado di soddisfare tali bisogni anche
diminuendo la produzione e mettendo in atto tutta una serie di attività non pianificate.
Avendo messo in evidenza – asserisce Morgan – il fatto che può esistere una «organizzazione
informale» basata su gruppi di amici e su interazioni non pianificate parallelamente
all’organizzazione formale rispecchiata nella documentazione aziendale e risultante dai progetti
della direzione, questi studi hanno inferto un colpo fortissimo alla teoria dell’organizzazione
classica secondo cui ogni fenomeno era e doveva essere prevedibile e pianificabile.
Ad ogni buon conto, gli esperimenti di Mayo hanno posto al centro dell’attenzione le
problematiche relative alla motivazione al lavoro e alle relazioni tra individui e gruppi. In questo
modo ha cominciato a farsi strada un nuovo approccio allo studio delle organizzazioni, basato
sull’assunto che gli individui ed i gruppi, al pari degli organismi biologici, danno il meglio di loro
stessi quando i loro bisogni sono soddisfatti. Per tali ragioni, si comprese che la creazione di un
clima relazionale sereno e collaborativo tra i capi e i collaboratori favorisce l’incremento della
produttività aziendale, mentre quello improntato ad una logica esclusivamente gerarchica, che non
riconosce uno spazio di socializzazione delle persone (v. taylorismo e teoria dell’organizzazione
classica), pregiudica eventuali possibilità di miglioramento della stessa.
Quindi, se volessimo schematizzare le principali caratteristiche teoriche della scuola delle relazioni
umane, potremmo dire che:
l’azione del lavoratore deve essere vista nel suo complesso, ovvero dev’essere analizzata la
sua cultura di provenienza;
il tempo standard previsto dal modello tayloristico non tiene conto delle diversità
individuali, quindi, è difficilmente applicabile su larga scala;
vi è una relazione tra il clima relazionale e l’andamento della produttività, per cui le
motivazioni e le aspettative dei lavoratori influenzano le modalità di esecuzione e i risultati
del compito che gli è stato assegnato;
a seguito della scoperta della natura sociale del lavoro, ne consegue che il lavoro
individuale non è più produttivo del lavoro dove sono coinvolti diversi membri del gruppo.
Questo schema teorico sarà poi sviluppato meglio dalle teorie organizzative successive e
influenzerà fortemente la teoria della cooperazione organizzativa elaborata da Chester Barnard
(1938).
Verso la fine degli anni Trenta, Chester Barnard (studioso e manager di un’azienda telefonica
americana) modificherà sostanzialmente la tesi di Mayo restituendo all’organizzazione formale la
funzione di sede privilegiata in cui gli uomini stabiliscono relazioni e rapporti di cooperazione.
Rispetto al taylorismo, l’approccio delle relazioni umane ritenne, invece, la cooperazione
strettamente connessa alle motivazioni del singolo e del gruppo.
Per spiegare la necessità di attivare comportamenti cooperativi nell’organizzazione, allo scopo di
garantire integrità organizzativa e risultati produttivi accettabili Barnard ricorre alla “parabola del
masso” (1938).
Approfondimento: Barnard e la parabola del masso
Per illustrare efficacemente la necessità della cooperazione in azienda, l'autore ricorre, infatti, ad
una parabola assai lontana dal mondo della fabbrica ma molto efficace: come dicevamo, “la
parabola del masso”.
Un viandante mentre cammina su una strada s’imbatte ad un certo punto in un grande masso che
gli blocca il cammino. Da solo non riesce a spostarlo, così aspetta qualcun altro che debba passare
come lui in modo che insieme possano rimuoverlo. Nonostante arrivino ad essere in 4, a dover
passare, non riescono a spostare il masso. Poco dopo arriva un contadino, con il suo trattore. Egli
non ha interessi comuni alle altre 4 persone, fino a quando non riceve una somma di denaro per
spostare il masso, solo a questo punto l’obiettivo di tutti coincide (ci sarebbe ancora un'altra
possibilità: rinunciare allo spostamento del masso e ritornare indietro. Ma, questa è un’alternativa
che un'organizzazione di lavoro non può scegliere in quanto significherebbe rinunciare ai propri fini
e scopi).
La parabola esemplifica esaurientemente questo concetto: nel momento in cui il viandante, non
riuscendo a smuovere il masso, aspetta fino a che arrivano altre persone che vogliono passare
s’instaura la più semplice forma di cooperazione (detta “informale”) in cui il fine comune sembra
coincidere con quello personale. Ma Barnard ci mette in guardia da questo errore e consiglia di
guardare non a quello che smuovere il masso significa per ciascun individuo personalmente, bensì
a ciò che ciascuno di essi pensa significhi per l’organizzazione (un’organizzazione nasce quando vi
sono persone in grado di comunicare tra di loro (aspetto informale) e collaborare (aspetto formale)
per perseguire un obiettivo comune.
Il fine dell’organizzazione, in generale, non si può quindi considerare come la somma dei fini dei
singoli membri; infatti, se anche tutte le persone interessate a smuovere il masso non fossero nelle
condizioni di farlo aspetterebbero ancora qualcun altro che, seppur non interessato al fine
proposto, si renderà disponibile a cooperare a condizione di una ottenere una ricompensa
(obiettivo diverso dalla rimozione del masso) capace di motivarlo a sufficienza. Pertanto, il fatto
che il fine non vada inteso come la somma dei fini dei soggetti costituenti l’organizzazione e che
vada tenuto anche distinto dai moventi personali dei soggetti, qualora dovesse coincidere, ha una
valenza molto importante. In altri termini, ciò che spinge i singoli individui ad aderire ad
un’organizzazione non è tanto conoscere e condividere la mission dell’organizzazione stessa,
quanto conoscere quali sacrifici impone l’adesione a quell’organizzazione e quali benefici assicura.
Il problema, pertanto, è quello di mobilitare un insieme di individui per raggiungere un fine che
non è loro, offrendo incentivi tali da soddisfare la loro motivazione personale a partecipare.
Di qui, l’introduzione dei concetti di efficacia ed efficienza, secondo un’accezione originale:
l’efficacia è la misura in cui un’organizzazione realizza i propri obiettivi (non il profitto ma la
produzione di beni o servizi cui è deputata); l’efficienza è la misura in cui i moventi personali sono
soddisfatti. La mediazione tra efficienza ed efficacia è un problema tanto fondamentale quanto
complesso per il management.
Un soggetto, quindi, sarà spinto a produrre un maggiore o minore sforzo in favore del
raggiungimento dei fini dell’organizzazione a seconda degli incentivi che riceverà in cambio.
Barnard giunse addirittura ad un più ampio livello di generalizzazione dimostrato nella particolare
importanza accordata agli “incentivi non materiali”.
Gli incentivi non materiali comprendono diversi tipi di presupposti tra i quali quelli che Barnard
chiama “condizioni di comunione”, ovvero “…quel sentirsi a proprio agio nei rapporti sociali che è
talvolta chiamato solidarietà, integrazione sociale, socievolezza o sicurezza sociale (nel senso
originale, non nel suo presente svilito senso economico)….” . La “condizione di comunione” di cui
parla Barnard si riferisce al vivere positivamente i propri rapporti con gli altri, la propria condizione
lavorativa.
Quest’importanza data all’aspetto individuale, alle percezioni dei singoli che costituiscono,
insieme, l’organizzazione, ci avvicina sempre di più al concetto di clima organizzativo. I rapporti
sociali sono messi al centro delle percezioni individuali, sono considerati il principale elemento
determinante la positività del vissuto lavorativo. Per rapporti sociali in ambito organizzativo non
s’intendono, infatti, le relazioni amicali, ma s’intende soprattutto la modalità di relazione che
costantemente si adotta nelle proprie ore di lavoro per rapportarsi con colleghi, superiori o
dipendenti.
Il contesto in cui Barnard colloca gli incentivi non materiali è più ampio di quello delle relazioni
umane in quanto non si riferisce soltanto alla gradevolezza psicologica dei rapporti informali, ma
all’importanza di appagamenti fondati sulla dimensione morale dell’agire cooperativo. Il che
travalica l’aspetto ontico (che si riferisce al dato fenomenologico, nella sua concretezza e
singolarità) per approdare a quello ontologico (che ha per oggetto l’assimilazione degli individui in
quanto tali alla dimensione organizzativa).
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La parentesi della seconda guerra mondiale interrompe gli studi e le sperimentazioni in campo
organizzativo, ma in quest’ambito e sulla scia della scuola delle HR (Human Resources) si situano
diverse teorie e scuole di riferimento; in particolare, si sviluppano teorie orientate ad analizzare il
ruolo del comportamento e della motivazione nella progettazione e nella gestione dei nuovi
modelli organizzativi.
Tra i diversi contributi è utile richiamare quello fornito dalla scuola comportamentista e
motivazionale, i cui maggiori esponenti sono Maslow ed Herzberg negli anni Cinquanta e Sessanta,
Argyris e Drucker negli anni Sessanta-Settanta e Mintzberg negli anni Settanta-Ottanta.
I presupposti generali della posizione volontaristica (agire cooperativo per il perseguimento di un
fine comune superiore) consistono nel favorire lavori più ricchi di contenuti intelligenti (o
intrinseci) e che procurino maggiori soddisfazioni coinvolgendo di più il lavoratore.
La scuola motivazionalista si concentrò sull’importanza dell’individuo, di conseguenza ritenne
fondamentale subordinare le esigenze dell’organizzazione ai bisogni dell’uomo e in particolare al
suo bisogno di autorealizzazione. Da ciò si desume che - secondo i teorici della predetta scuola -
l’organizzazione non è più una macchina ma un insieme di individui, ciascuno mosso da
motivazioni tanto singole quanto accomunabili; in effetti, le possibilità di gestione efficiente di
un’organizzazione di lavoro all’interno di una simile prospettiva passano attraverso una concezione
collettiva delle motivazioni individuali.
La motivazione, dunque, si riferisce all’attivazione, alla direzione e alla persistenza del
comportamento, quindi, è importante per comprenderne la natura, per predire il suo manifestarsi
e poterlo eventualmente influenzare.
Lo studio della motivazione sul lavoro ha le stesse ragioni: predire la prestazione rispetto ad una
certa attività e la risposta ad un certo ambiente di lavoro, avere informazioni su come selezionare e
addestrare i lavoratori e su come predisporre l’ambiente.
Le teorie motivazionali, quale quella antesignana elaborata da Abraham Maslow, rappresentano
l’individuo nella sua dimensione psicologica, costantemente in lotta per soddisfare i suoi bisogni,
alla ricerca di una crescita e di uno sviluppo completi.
Approfondimento: la teoria dei bisogni di Maslow
La teoria dei bisogni di Maslow tratta empaticamente gli esseri umani (si pone cioè in sintonia con
l’individuo e ne accoglie le emergenze aspirazionali) ed esercita un richiamo sugli specialisti del
mondo del lavoro, poiché spiega perché alcuni incentivi materiali non possono essere considerati
veramente tali e quanto sia importante capire se l’ambiente lavorativo si rivela efficace nel
soddisfare i bisogni individuali di realizzazione.
Pertanto, la motivazione di un comportamento nasce dalla tendenza a soddisfare un particolare
bisogno e può essere definita come la spinta interiore che porta l'individuo ad applicarsi con
impegno nel lavoro. Si tratta di una sorta di forza interna, un’intima energia, che stimola, regola e
sostiene le principali azioni compiute dalla persona e può essere descritta in modo ciclico:
dall'origine del bisogno, avvertito come una tensione interiore, l'individuo ricerca i mezzi per
poterlo soddisfare; quando il soggetto riesce a soddisfare il proprio bisogno rivaluta la situazione e
verifica la presenza di nuovi ed ulteriori bisogni. Essa è intrinseca all'individuo e non può essere
indotta mediante interventi esterni con i quali si riesce, al più, a sollecitarla.
Maslow sostiene che il comportamento della persona, anche sul lavoro, tende alla soddisfazione di
bisogni ordinati secondo una precisa gerarchia, che egli ha indicato all'interno di una struttura
piramidale (Fig.1)
Secondo la teoria di Maslow, partendo dal basso si distinguono le seguenti categorie di bisogni
umani:
Fig. 1
bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata (respirare, bere, mangiare, riposare,
muoversi);
bisogni di sicurezza, fisica ed emotiva, relativi alla sopravvivenza a lungo termine (libertà da
pericoli, minacce e privazioni, provocati da danni fisici, difficoltà economiche, malattia);
bisogno di socialità, cioè identificazione con il gruppo o l'azienda, e di un ambiente
socievole e gradevole (relazioni affettive, accettazione da parte dei pari,
riconoscimento come membro del gruppo, stare insieme);
bisogno di stima e autostima (riconoscimento da parte degli altri e rispetto di sé);
bisogno di autorealizzazione (conferma della propria identità attraverso risultati
appaganti: ciò ovviamente in relazione alle diverse aspettative di ciascun individuo).
Il comportamento dell'individuo è finalizzato ad appagare prima i bisogni di livello inferiore,
la cui soddisfazione cessa di renderli motivanti e fa emergere i bisogni gerarchicamente
superiori.
Fig. 2
A proposito della teoria dei bisogni, Gareth Morgan, nel suo testo, individua tutta una serie
di strumenti (schematizzati nella Fig.2) suscettibili di essere utilizzati per motivare i
dipendenti, a seconda del livello cui si collocano i loro bisogni sulla scala relativa.
Premiare il totale impegno nei confronti dell’azienda;
Il lavoro diventa la maggiore espressione del dipendente
Autorealizzazione
Ego
Organizzazione del lavoro che permetta di interagire con i colleghi;
Strutture sociali e sportive;
Riunioni d’ufficio o d’impianto
Sociali
Assistenza sociale e sanitaria;
Sicurezza del posto;
Possibilità di carriera nell’ambito dell’organizzazione
Sicurezza
Salari e stipendi;
Condizioni di lavoro sicure e piacevoli
Fisiologico
In definitiva, la motivazione al lavoro e il senso di appartenenza all
’
o
rganizzazione non si possono sviluppare naturalmente, devono essere stimolati dal
management aziendale, ma soprattutto devono essere create le condizioni
professionali, organizzative e relazionali necessarie a supportare tale fenomeno,
attraverso politiche mirate e coerenti.
11. L’approccio motivazionalista e comportamentista: Herzberg e
Likert
Nella precedente lezione abbiamo illustrato le principali indicazioni teoriche della scuola
delle relazioni umane e dell’approccio motivazionalista, qui di seguito sintetizzate:
la gestione organizzativa si può realizzare più efficacemente, se si tiene conto dei principi
della teoria dei bisogni in chiave evolutiva elaborata da Maslow e perfezionata, per certi
versi da Herzberg;
l’organizzazione della produzione risulta essere più produttiva e la gestione delle risorse
umane più efficace se si introducono i metodi del job enrichment (arricchimento delle
mansioni), job enlargement (ampliamento delle mansioni), job rotation (rotazione delle
mansioni), allo scopo di migliorare il clima organizzativo e la performance aziendale
complessiva;
il management, attraverso la politica di gestione delle risorse umane, assume un ruolo
fondamentale nella gestione della crescente complessità aziendale.
Herzberg, attraverso uno schema più analitico, si concentra soprattutto sui processi che
derivano dalla soddisfazione dei bisogni organizzativi. Egli sostiene che esistono due tipi
di fattori correlati alla motivazione sul lavoro: bisogni correlati strettamente all’attività
lavorativa che un individuo svolge, chiamati “fattori igienici” e bisogni che ruotano
attorno alla crescita e allo sviluppo professionale e personale, detti “fattori
motivazionali”.
Secondo Herzberg le due tipologie di fattori possono influenzare la motivazione in
maniera diversa. A tal proposito, egli distingue tra soddisfazione e non soddisfazione per
il lavoro che, nella sua teoria, non sono antitetici: l’opposto di soddisfatto è insoddisfatto;
allo stesso modo l’opposto di non soddisfatto è non insoddisfatto. Secondo Herzberg, i
“fattori igienici” sono efficaci nell’estinguere la non soddisfazione al lavoro, ma non
possono essere fonti di soddisfazione; i “fattori motivazionali”, invece, motivano la
prestazione al lavoro e possono portare soddisfazione, ma la loro assenza causa
addirittura insoddisfazione.
Dall’analisi della tabella si desume che per Herzberg esistono cinque diverse tipologie di
fattori motivanti per l’individuo, posti in un ordine crescente, che devono essere
soddisfatti in una logica scalare. Egli specifica che la risorsa umana presta attenzione ad
un primo gruppo di fattori ritenuti fondamentali e basilari che sono rappresentati dalla
retribuzione e dalle condizioni di lavoro, solo in un secondo momento s’interessa della
politica del personale posta in essere dall’organizzazione. Dopodiché, una volta assunto
un ruolo di maggiore importanza nell’organizzazione, la risorsa umana è matura per
essere motivata da politiche tendenti a favorire avanzamenti di carriera e riconoscimenti
personali, così come le relazioni con i superiori e le politiche di controllo e coordinamento
(supervisione) attuate in azienda. Soddisfatti questi quattro gruppi di fattori motivanti, il
lavoratore sarà interessato ad elementi come successo, riconoscimento, contenuto del
lavoro e responsabilità.
Allo scopo di chiarire meglio la valenza esplicativa delle elaborazioni dei teorici della
scuola motivazionalista, poniamo a confronto gli elementi analitici indicati da Maslow
nella teoria dei bisogni e quelli previsti nella teoria dei fattori motivanti di Herzberg
(tab.1).
Rensis Likert (1903-1981) è considerato uno dei più importanti studiosi del
comportamento umano e delle organizzazioni. Le tesi da lui elaborate, che rientrano nel
cosiddetto approccio comportamentale, risentono dell'influenza degli studi condotti da
Elton Mayo e da Frederick Herzberg e si soffermano soprattutto sull'evidenziare il
rapporto tra rendimento e stile di leadership.
Riteniamo opportuno, prima di addentrarci nello studio delle diverse tipologie degli stili
di leadership, definire il concetto di leader e di leadership. La parola leader deriva dal
verbo inglese to lead, che significa guidare, condurre, dirigere. Il leader è un individuo in
grado di guidare un gruppo di persone (team) al perseguimento della mission; è colui che
ha ben chiari quali sono gli obiettivi verso cui tendere e sa motivare il suo team affinché
vengano raggiunti. La leadership, quindi, è la capacità, che un individuo possiede, di
ricoprire ruoli di comando ovvero manageriali.
In linea con quest’impostazione si può sostenere che un “buon manager” potrà essere
colui che tende ad essere il leader del gruppo/ufficio/struttura di cui è responsabile, oltre
che il capo gerarchico e burocratico; colui, che, in virtù di questa funzione acquisita e
riconosciuta, può assumere il ruolo di direttore d‘orchestra o di coach, che conosce
singolarmente tutte le risorse umane di cui dispone l’organizzazione, e decide di
“mandare in campo” la persona giusta al momento opportuno.
Nell’immaginario collettivo il leader può essere, a volte, identificato nel capo autoritario
e “dispotico” di una divisione aziendale. In realtà questo è solo uno dei tanti stili di
leadership.
E’ da osservare, al riguardo, che non esiste uno stile «universale», cioè migliore in
assoluto, di leadership, poiché a seconda del contesto organizzativo è preferibile uno stile
piuttosto che un altro, e anche nel medesimo ambiente non può esistere uno stile che
vada bene in ogni circostanza con ciascun collaboratore (leadership situazionale). E’
invece preferibile che il leader sia in grado di modulare il proprio stile a seconda del
contesto e del clima organizzativo peculiare dell’organizzazione presso cui lavora.
Dall'osservazione degli stili di leadership presenti nelle aziende, Likert individua quattro
diversi stili che un manager può adottare:
lo stile autoritario-coercitivo. Il manager adotta tale stile quando decide,
autonomamente e in maniera indipendente, sul da farsi e impone le sue scelte ai
subordinati ricorrendo alla coercizione. Pertanto, egli decide il cosa, il come e il quando
eseguire un dato compito. La comunicazione, in questo caso, è unidirezionale (dall’alto
verso il basso) in quanto il manager/leader interagisce con il team solo per comunicare le
decisioni prese;
lo stile autoritario-benevolo. Meno assolutistico è il manager che adotta uno stile
autoritario-benevolo: egli assume le decisioni più rilevanti e delega ai suoi subalterni la
loro concreta realizzazione, ricorrendo anche a ricompense per incoraggiare la
prestazione. L’approccio è di natura paternalistica e la comunicazione con il gruppo è
presente in misura maggiore rispetto allo stile precedente, ma la maggior parte delle
Di primo acchito sembra quindi che lo stile consigliabile sia l’ultimo, in realtà non sempre
è così. Likert, infatti, afferma che i regimi autoritari possono risultare utili nei lavori
semplici, ripetitivi e poco creativi: in questi casi, infatti, è possibile raggiungere elevati
livelli di rendimento anche in assenza di soddisfazione. Tuttavia esistono anche dei
cosiddetti lavori “variati”, cioè dei lavori creativi (specie in un’era di servizi evoluti come
la nostra attuale), che richiedono un alto grado di responsabilità e di auspicabile ed
inevitabile iniziativa individuale. In questi casi il rendimento aumenta con l'impiego di
forme di leadership partecipative.
Likert, infine, evidenzia come gli stili autoritari ottengano più rapidamente dei risultati
rispetto agli stili partecipativi, ma questi risultati sono meno duraturi nel tempo: dopo un
periodo di circa due anni i rendimenti tendono, infatti, a restare costanti o addirittura a
decrescere, mentre quelli degli stili democratici aumentano.
In altre parole l’uomo, come essere cognitivo, esprime le proprie preferenze anche sulla
base di un proprio sistema di valori, di convinzioni etiche, culturali e di tradizioni familiari,
elementi che tendono a ridurre fortemente il novero delle alternative effettivamente
considerate.
Simon afferma, quindi, che per studiare la razionalità nelle (delle) organizzazioni, non è
necessario studiarne i ruoli, bensì i processi decisionali, che sono determinati dalle
informazioni, dalle procedure in essere ma anche dalle motivazioni soggettive.
Dallo schema teorico di Simon, si possono trarre due conclusioni fondamentali (Bonazzi,
1993):
le decisioni vanno viste non come atti istantanei e unitari, ma come processi in cui fini e
mezzi vengono scelti e confrontati strada facendo;
le decisioni vengono prese solo eccezionalmente seguendo il criterio della efficienza
ottimale; nella normalità dei casi gli uomini si accontentano di soluzioni soddisfacenti,
dove la preferibilità di una soluzione rispetto ad un’altra è sempre soltanto relativa e
rivedibile.
la standardizzazione degli output, cioè la specificazione delle procedure e dei risultati del
lavoro;
la standardizzazione degli input, vista nell’ottica di uno sviluppo del personale delle
capacità e delle conoscenze richieste;
il vertice strategico, il quale assicura che l’organizzazione assolva in modo efficace alla
sua missione e che risponda ai bisogni di coloro che la controllano;
la linea intermedia, vale a dire la gerarchia di manager che collega il vertice strategico al
nucleo operativo;
il nucleo operativo, formato dai dipendenti che svolgono l’attività direttamente collegata
alla produzione dei beni e dei servizi;
I parametri, infatti, corrispondono alle leve che influenzano la divisione del lavoro e i
meccanismi di coordinamento, incidendo sulle modalità di funzionamento
dell’organizzazione, contribuendo così a determinare il ruolo assunto dalle diverse parti
dell’organizzazione stessa.
i collegamenti laterali;
il sistema decisionale.
la tecnologia, intesa come gli strumenti ed i mezzi utilizzati nel nucleo operativo per
trasformare gli input in output;
Appendice
Questionario
Rispondi correttamente alle seguenti domande. Nei quesiti a risposta
multipla le risposte corrette possono essere più di una.
Quali sono le variabili “hard” del Modello delle 7S (sviluppato
nel 1979 da Richard Pascale) e fornisci, di seguito, una
definizione di “sistema organizzativo”?
a) skills
b) sistemi
c) struttura
d) shared values
f) strategia
g) stile di leadership
h) staff
Sistema organizzativo:
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Cosa si intende per “expoused theory” e “theory in use” (Argyris
e Schon)?
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Quali elementi risultano essere costitutivi per il processo di
delega di compiti e funzioni dal capo (delegante) al collaboratore
(delegato)?
a. culpa in vigilando
b. adhocraticità
c. culpa in eligendo
d. governance