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Organizzazione Aziendale

Capitolo 1: Cos’è l’organizzazione aziendale?

L’organizzazione aziendale è il complesso delle modalità di divisione del lavoro e del coordinamento tra
attività interdipendenti tra loro.

Conoscenza: relativa alle conoscenze per fare determinate cose o per progettare determinate attività
lavorative.

Competenze: capacità di sfruttare le proprie conoscenze.

Fiducia e rispetto: consentono agli attori di svolgere attività senza problemi nel team.

Gruppo: prendere decisioni e controllare l’operato degli altri.

Cooperazione: se non c’è non si può parlare di lavoro condiviso.

Motivazione: la performance di un individuo risponde anche alle sue motivazioni, se una persona non è
motivata non svolgerà correttamente o per niente il suo lavoro.

Leadership: autorità per il coordinamento e la direzione del gruppo; il leader deve avere determinate
caratteristiche.

Strategia: serve strategia per le forme organizzative.

Divisione del lavoro: la chiave dell’organizzazione aziendale, chi fa che cosa, individuare quali soggetti
svolgono determinati compito.

Coordinamento: altra chiave, regolazione efficace delle interdipendenze.

Efficacia ed efficienza

Risorse umane: i lavoratori all’interno dell’organizzazione che devono essere soddisfatti all’interno della
stessa.

Tecnologie: servono a ridurre le carenze dei singoli.

La divisione del lavoro consiste nello scomporre un’attività complessa in attività semplici e
successivamente assegnare la responsabilità della loro gestione ad attori diversi (ai lavoratori quindi).

Es. Attività complessa è costruire una sedia, e questa attività va scomposta in tante attività semplici che
faranno sì che la sedia sia costruita, tali attività poi vengono assegnate al lavoratore. La divisione del lavoro,
quindi, genera la specializzazione/differenziazione e le interdipendenze.

La divisione del lavoro crea specializzazione/ differenziazione: la specializzazione/differenziazione consente


di raggiungere economie di apprendimento delle conoscenze esplicite, delle abilità e delle tecniche rilevanti
per lo svolgimento di un compito. È quindi importante dividere il lavoro anche per creare delle economie di
specializzazione, ovvero ogni lavoratore si specializza nella sua fase che diventa come una routine. Quindi il
lavoratore riuscirà a svolgere la sua fase meglio e anche in minor tempo. Inoltre, causa lo sviluppo di
orientamenti cognitivi differenti, quanto ai valori ai tratti culturali, agli assunti e alle ipotesi di fondo, agli
schemi percettivi e ai significati attribuiti.

La divisione del lavoro crea interdipendenza: l’interdipendenza è il rapporto di dipendenza due o più
individui, risorse e/o attività lavorative. Tra due o più perché fondamentale lavorare con gli altri. Esistono
diversi tipi di interdipendenza, divisi in base al livello di complessità e in base alla natura
dell’interdipendenza. In base al livello di complessità, può essere semplice, che si verifica quando le
relazioni tra gli attori sono univoche o ad una via (non desta molta preoccupazione ma deve essere regolata
in modo efficace) o complessa, che si verifica quando le relazioni tra gli attori sono biunivoche o a due vie
(desta più preoccupazioni ai manager e deve essere regalata in modo che non crei troppi problemi). In base
alla natura, ovvero cosa origina l’interdipendenza, abbiamo quella transazionale, che è propria delle
relazioni di scambio: si riferisce al trasferimento di beni o servizi attraverso un’interfaccia tecnicamente
separabile (si genera in base alle transazioni ovvero lo scambio di beni e servizi) o associativa, che è propria
delle relazioni di associazione: si riferisce alla condivisione di risorse e all’unione degli sforzi per il
raggiungimento di uno scopo comune (nasce per il fatto che più persone stanno insieme e devono svolgere
una determinata attività).

Tipologie di interdipendenza Semplice Complessa


Transazionale SEQUENZIALI RECIPROCA
Associativa DA RISORSE COMUNI DA AZIONE COMUNE
L’interdipendenza sequenziale non è particolarmente complessa ed è generata da transazioni; si ha quando
un individuo A svolge una fase di un processo lavorativo e poi passa un semilavorato a un secondo
individuo B e così via, es. catena di montaggio nel passato; sono quindi una serie di step in sequenza, quindi
un rapporto di interdipendenza univoca.

L’interdipendenza reciproca è più difficile da gestire e deriva da transazioni; il rapporto di dipendenza non è
univoco bensì biunivoco; il lavoratore A fa la sua fase e passa al lavoratore B che poi fa la sua fase ma non
passa al lavoratore C bensì di nuovo ad A. es. parrucchiere.

L’interdipendenza da risorse comuni è un tipo di interdipendenza che nasce a seguito della condivisione
della stessa risorsa; più persone che per poter svolgere un’attività lavorativa hanno la necessità di utilizzare
una risorsa condivisa tra le altre persone; è semplice perché è facilmente gestibile; es. stampante condivisa.

Coordinamento

Le interdipendenze generano fabbisogno di coordinamento, ovvero essere devono essere gestite. Il


coordinamento è la regolazione efficace delle interdipendenze tra gli attori/ le attività. un comportamento
individuale e collettivo che risponde a una pluralità di modelli che consente la regolazione efficace delle
interdipendenze tra gli attori/le attività. Quindi la capacità di un’organizzazione di regolare quelle
interdipendenze in maniera efficace e fare fronte a queste.

Nell’organizzazione bisogna coordinare il singolo individuo (analisi micro), le varie attività


dell’organizzazione e tutti gli attori che ne fanno parte (analisi meso) e coordinarla con le altre
organizzazioni al di fuori di essa come, per esempio, rapporti collaborativi con esse (analisi macro). Per
l’organizzazione aziendale, l’unità di analisi elementare è il focus dell’organizzazione aziendale, ciò che
mettiamo sotto la lente d’ingrandimento. Sotto questa lente ci finisce l’attore organizzativo, cioè individui o
gruppi di individui caratterizzati da percezioni omogenee in relazione al problema sotto esame. Sono attori
organizzativi l’individuo o l’insieme di individui, i gruppi di interesse o unità organizzative o, più in generale,
l’azienda, che è oggetto di studio dell’organizzazione aziendale. Quindi si studia perché il singolo individuo
prende determinate decisioni e le loro competenze e conoscenze (analisi micro); studia le dinamiche tipiche
dei gruppi di lavoro appunto di più individui (analisi meso); studia l’azienda nel complesso che al pari dei
precedenti compie delle scelte, anche nei confronti delle altre organizzazioni (analisi macro).

Analisi micro = individuo. Analisi meso = coordinamento. Analisi macro = forma organizzativa.

Diritti organizzativi

L'attore organizzativo è caratterizzato dall’avere una serie di impegni e gode di alcuni diritti, ovvero i diritti
organizzativi:
 diritti di azione: diritto di svolgimento delle attività, cioè il diritto di poter agire e svolgere delle
attività nel perimetro della propria organizzazione;
 diritti di decisione: possibilità di effettuare delle scelte ed essere autonomi della scelta dello
svolgimento di determinate attività, in base al proprio livello appunto di autonomia; più saliamo
nella piramide aziendale più si passa dall’esecuzione delle attività, alla programmazione e controllo
e alle attività strategiche e quindi l’autonomia decisionale aumenta;
 diritti di informazione e comunicazione: diritto di essere informati in merito all’attività da svolgere;
è molto importante perché l’individuo deve essere a conoscenza delle informazioni per prendere
delle decisioni ed eseguire delle attività;
 diritti di controllo: diritto di rilevare le azioni o i risultati e poterli valutare; l’individuo pone in
essere delle azioni all’interno dell’azienda e quindi queste ultime vanno opportunamente valutate.
La valutazione non deve essere considerata una cosa negativa bensì positiva perché è un processo
che fa sì che vengano valorizzati i singoli: chi fa di più deve essere ricompensato rispetto a chi fa di
meno;
 diritto di proprietà: diritto di poter gestire quelli che sono gli strumenti di lavoro che sono
necessarie delle azioni poste in essere nell’azienda per il raggiungimento di determinati risultati;
 diritto di ricompensa: diritto di essere ricompensati in base allo sforzo che hanno posto in essere
per l’ottenimento di un determinato risultato.

L'attore organizzativo svolge delle attività economiche, ma:

o non è uomo economico, ovvero soggetto iper razionale dell’economia, cioè dotato di una
razionalità illimitata e capace di effettuare delle scelte per massimizzare il risultato all’interno
dell’organizzazione e quindi ottenere il massimo profitto, ma non sempre gli individui dispongono
di tutte le informazioni e del tempo per poter identificare e valutare le alternative per risolvere un
problema scegliendone la migliore;
o non è uomo affettivo, modello basato sulle teorie dell’inconscio e dell’affettività, cioè l’attore
organizzativo nello svolgere le attività economiche tiene in considerazione del suo inconscio e della
sua affettività, ma non è così perché l’attore organizzativo utilizza la sua razionalità;
o non è uomo normativo, modello basato su una concezione sovra-socializzata del comportamento
umano, cioè delle regole che spingono l’individuo a compiere delle scelte;
o è uomo amministrativo, modello basato sulla teoria della razionalità limitata; l’ipotesi di fondo è
che le azioni umane derivano da processi di ricerca e di apprendimento. È un individuo che pone in
essere delle scelte basandosi su una razionalità limitata (non illimitata poiché non è a disposizione
di tutte le info e delle possibilità di valutare tutte le alternative); quindi risolve i problemi usando la
razionalità limitata alle informazioni e al tempo che ha a disposizione, trovando delle soluzioni
soddisfacenti.

La teoria della razionalità limitata (Simon) è una teoria della ricerca, secondo cui l’attività di decisione è
un’attività di individuazione e soluzione dei problemi. Simon afferma che i problemi e le alternative sono
potenzialmente infiniti e che i processi di ricerca non possono produrre risultati ottimali, quindi l’individuo
tende ad accettare quelle che per lui sono le soluzioni più giuste per la risoluzione del problema che ha
sotto esame. Si afferma il concetto di accettabilità. Le risorse cognitive dell’uomo sono limitate rispetto alla
specificazione e alla conoscenza completa dei problemi che interessa risolvere.

L’attore organizzativo svolge delle attività economiche. Per definirsi tali non è essenziale che le attività siano
valorizzabili in termini monetari, bensì che esse assorbano risorse per un uso definito, per produrre un
certo tipo di output. Gli output possono essere valutati secondo tre variabili:

1. Efficacia: capacità di raggiungere un determinato obiettivo definito a priori.


2. Efficienza: rapporto tra input/output, capacità di raggiungere un determinato risultato con il
minimo sforzo. Può essere di due tipi: produttiva, che è la capacità di ottenere un output con il
minor spreco di risorse e minor scarti di produzione e minor spreco di tempo; transazionale, che
riguarda i costi di ricerca di informazioni (es. ricerca di un partner) risparmiando il maggior numero
di tempo e risorse.
3. Equità: ricompensare le persone in base ai risultati del loro lavoro secondo il concetto di giustizia (e
non uguaglianza). Può essere distributiva, che fa riferimento a chi e che cosa (dare delle
ricompense agli individui in base al lavoro che questi svolgono), e procedurale, che fa riferimento a
come queste ricompense vengono date nel rispetto delle norme e dei regolamenti interni.

Altrettanto importanti sono le risorse. Le risorse rappresentano un potenziale di azione e di generazione di


valore accumulabile e relativamente indipendente dagli specifici impieghi, quindi fattori utilizzati all’interno
dell’organizzazione per il raggiungimento dei vari impegni. Esistono 3 tipi di risorse secondo Grandori
(1999):

1. umane: riguardano le persone, quindi i lavoratori di un'organizzazione, che detengono conoscenze


e competenze. Infatti, l’azienda deve capitalizzare queste risorse perché se un lavoratore va via si
porterà con sé le sue conoscenze e competenze. Sono risorse difficilmente separabili dai singoli
attori e sono difficilmente trasferibili perché sono diverse da quelle teoriche, ma sono esperienziali
e acquisibili tramite la pratica lavorativa.
2. tecnologiche: strumenti utilizzati per incorporare le conoscenze e competenze che i singoli hanno,
quindi l’insieme delle tecnologie cui l’azienda dispone che consentono al lavoratore di svolgere le
proprie attività. Sono indipendenti dai loro ideatori e progettatori e sono facilmente separabili e
trasferibili.
3. finanziarie: le risorse umane e tecnologiche consentono all’azienda rigenerare risorse finanziarie.
Sono quelle più facilmente trasferibili all’interno di un’organizzazione e laddove presenti possono
sopperire alla mancanza di risorse umane e tecnologiche quando l’azienda appunto decide di
investirle. Sono indipendenti da specifici usi o specifici attori.

Capitolo 2: Le conoscenze e le decisioni

Le conoscenze e le decisioni riguardano sempre l’analisi individuale, ovvero del singolo attore che pone in
essere alcune azioni attraverso delle decisioni che sono correlate alle conoscenze: per poter prendere delle
decisioni c’è bisogno di avere delle conoscenze, poiché le conoscenze costituiscono l’input del processo
decisionale e delle strategie decisionali. Quindi, i tre aspetti più importanti sono: la struttura cognitiva
(sistema delle conoscenze), il processo decisionale, le strategie decisionali. È importante porre il plurale alla
parola conoscenze perché non esiste un’unica conoscenza ma vi sono diversi tipi di conoscenze che un
individuo sfrutta per poter porre in essere una determinata decisione. Il sistema di conoscenze è un insieme
di conoscenze, quindi di elementi quali i dati, le informazioni e le tipologie dei diversi tipi di conoscenze,
che consentono all’individuo di riuscire a prendere determinate decisione per il raggiungimento di un
obiettivo. Il processo decisionale è quello che incorpora le diverse fasi che consentono all’individuo,
partendo dalle conoscenze disponibili, di poter prendere una decisione. Le strategie decisionali sono i modi
che un individuo pone in essere per raggiungere una determinata decisione o un determinato
comportamento.

Il materiale che viene trasformato in un processo di decisione consiste di informazioni, che costituiscono
l’elemento base delle componenti decisionali. È importante effettuare una distinzione tra dati, informazioni
e conoscenze:

 Dati: è la materia prima grezza, cioè è un elemento, per esempio notizie, rapporti e numeri, che
non ha subito nessun processo di sintesi, e la cui trasformazione e aggregazione consente di
ottenere le informazioni. Di solito è un elemento alfanumerico che viene utilizzato per
rappresentare la realtà.
 Informazioni: è un insieme di dati che ha subito un processo di sintesi, trasformandolo e
aggregandolo ad altri dati. Peccano di soggettività.
 Conoscenze: insieme delle informazioni di cui un individuo dispone in un preciso momento, quindi
questo patrimonio di informazioni cambia nel corso del tempo.

L’attore, percependo e valutando le informazioni (in modo ordinato), trae le sue conclusioni acquisendo in
questo modo delle conoscenze per poi dar vita al processo decisionale. Il processo decisionale è
l’eliminazione di alcune possibilità per accoglierne altre. Esso non parte mai da zero, ossia, alla sua base c’è
sempre un patrimonio di informazioni e di conoscenze (interne) che verrà modificato e arricchito nel
processo stesso e costituirà la base di partenza per le fasi successive.

Ci sono 3 tipi di conoscenze:

1. le conoscenze paradigmatiche, che sono quelle che provengono dal passato, che sono più
difficilmente identificabili nei soggetti;
2. le conoscenze esperienziali, che sono collegate all'esperienza, alla pratica lavorativa e a quello che
una persona ha fatto nel corso della propria vita;
3. le conoscenze esplicite, che sono quelle che si acquisiscono e trasferiscono più facilmente tra i
soggetti.

L'insieme delle conoscenze assume il nome di struttura stratificata delle conoscenze: è una struttura perché
prevede un’articolazione in 3 parti, ovvero le 3 tipologie di conoscenze, ed è stratificata perché assume una
forma a strati (gli strati sono i 3 tipi di conoscenze). Nella pratica però, non è facile essere precisi nella
identificazione di confini tra le 3 tipologie, perché nel punto di unione questi confini sono labili.

Si parte dalle conoscenze paradigmatiche, che sono quelle più profonde e meno recenti che l’individuo
acquisisce nei primi anni di vita e poi si porta dietro tutta a vita ponendo in essere delle decisioni basandosi
appunto su di esse. Poi si va a quelle esperienziale che derivano dall’esperienza e poi quelle esplicite che
pure si acquisiscono tramite lo studio e la formazione.

Conoscenze paradigmatiche

Sono quelle conoscenze che derivano dai paradigmi, ovvero degli esempi, dei modelli di riferimento, cioè
derivano da quelle persone che noi prendiamo come esempio nei primi anni di vita e che quindi ci possono
trasferire queste conoscenze anche in maniera involontaria. Sono delle conoscenze acquisite in modo non
critico, cioè sono conoscenze accettate per convenzione, non soggette a discussione o a verifica. Sono delle
conoscenze sedimentate e che si trovano più in profondità nell’individuo, meno visibili e meno
identificabili. Le azioni organizzative che ne derivano saranno più inerti e maggiormente soggette a processi
di selezione naturale e sociale.
Conoscenze esperienziali

Provengono dall’esperienza, quindi sono acquisite dall’attore attraverso la propria esperienza (active
learning) o attraverso l’osservazione di esperienze altrui (vicarious learning). Si acquisiscono quindi tramite
il fare e svolgere una determinata attività, oppure guardando come altri soggetti svolgono una determinata
attività cercando poi di replicare e magari imitare quello che gli altri hanno fatto per poter acquisire quella
determinata conoscenza. Fanno parte di queste anche le conoscenze tacite, ovvero quelle difficilmente
codificabili e trasferibili tra i soggetti. Un esempio importante nella letteratura è quello fatto da Polany,
ovvero le persone sanno fare molto di più di quello che riescono a spiegare. Es. Persone che vanno in
bicicletta. Sono conoscenze non facilmente codificabili e trasferibili tra soggetti. Le azioni organizzative che
ne derivano sono soggette a processi di apprendimento osservativo e vicario.

Conoscenze esplicite

Sono acquisite tramite procedure razionali di ricerca e di apprendimento, cioè conoscenze che l’individuo
può facilmente acquisire e trasferire. Sono conoscenze codificabili e facilmente trasferibili. L'individuo può
acquisirle individualmente, anche semplicemente ascoltando una persona esporre la sua conoscenza
esplicita. Nei contesti organizzativi, sono le conoscenze che preoccupano di meno i manager perché c’è
bisogno di una minore attenzione nel loro trasferimento, magari attraverso una lezione frontale, un libro,
ecc. Le azioni organizzative che ne derivano sono soggette a procedure razionali di ricerca e
apprendimento. Sono acquisibili tramite l’inactive learning e il vicarious learning.

Le conoscenze dell’organizzazione non solo fanno riferimento al patrimonio di conoscenze di un’azienda ma


anche alla capacità che l’azienda ha di capitalizzare le conoscenze dei singoli, quindi, di fare in modo che
queste conoscenze passino all’interno dell’organizzazione in modo che nel momento in cui il singolo va via
dall’azienda queste conoscenze rimangano nel patrimonio di tale.

Percezione e giudizio

Per poter prendere una decisione non basta possedere dati, informazioni e conoscenze, ma è anche
importante come un individuo percepisce e giudica un determinato input del processo decisionale, cioè un
soggetto sfrutta il patrimonio di conoscenze che ha a disposizione per prendere una determinata decisione.
Tuttavia, ogni soggetto percepisce e giudica la realtà in un modo diverso rispetto agli altri, perché
percezione e giudizio sono due variabili molto importanti per definire un input del processo decisionale, ma
sono comunque due variabili soggettive e anche fallibili. Esempio: due individui posti davanti allo stesso
problema, potrebbero percepirlo in maniera diversa. Questa percezione diversa deriva da diversi fattori, tra
cui le diverse esperienze maturate nel corso del tempo e le diverse conoscenze che quella persona ha
acquisito e che l’hanno portato a esprimere un giudizio. Soggettive perché ogni persona percepisce le cose
in modo diverso. Fallibili perché potrebbero indurre il decisore in errore.

La percezione è il processo psicologico che porta un individuo a creare un’immagine interna del mondo
esterno, quindi proiettare al proprio interno un’immagine del mondo esterno in modo soggettivo. È un
processo di internalizzazione. Il giudizio è la conseguenza valutativa della percezione; è un’idea circa
l’oggetto di studio. Entrambe le variabili dipendono dalla struttura cognitiva che quell’individuo ha. Un'altra
variabile importante è l’eurisma: qualunque regola o procedura mentale atta a generare o trovare qualcosa
che si sta cercando, è come se fosse una scorciatoia mentale, o meglio, un metodo di ricerca che viene
utilizzato dal decisore per risparmiare risorse di analisi nel prendere una decisione. Difatti, la decisione
costa tempo e risorse, e quindi anche in maniera inconsapevole può capitare che l’individuo sfrutti
un’eurisma per non sprecare troppe delle sue risorse.
Le fasi del processo decisionale, quindi, sono tutte quelle fasi che partendo dalla struttura cognitiva,
consentono all’individuo di prendere quella decisione per risolvere i problemi organizzativi. Tutte le
persone, a prescindere dal loro ruolo, sono chiamate a prendere delle decisioni, secondo però delle fasi:

1. La definizione dei problemi


2. La ricerca di informazioni per quel determinato problema e l’individuazione di possibili alternative
per risolverlo
3. Il giudizio di probabilità, i giudizi che consentono di attribuire a ogni alternativa un ponteggio in
base alla possibilità o meno che quell’evento si realizzi.
4. L'inferenza basata sull’esperienza, scegliere quindi l’alternativa ritenuta migliore.

È importante soprattutto capire le prime due fasi, capire quali sono gli errori tipici che un decisore incontra,
e quali sono le modalità per risolvere quel determinato problema, ovvero gli antidoti al problema.

FASE 1: LA DEFINIZIONE DEI PROBEMI

È forse la più importante delle fasi del processo decisionale perché in caso si commette un errore lo si porta
fino alla fine e che quindi venga presa una decisione sbagliata. Definire un problema significa comprendere
a pieno la natura di quel determinato problema e quindi interrogarsi fin quando non la si comprende.
Questo è un processo soggettivo ed elettivo. È soggettivo in quanto è frutto di un modello mentale, di una
serie di percezioni e interpretazioni di un attore, cioè più persone poste davanti allo stesso problema
potrebbero percepirlo in maniera diversa; la soggettività può essere un problema perché potrebbe farci
vedere un problema solo parzialmente, mentre per comprendere a pieno tale problema c’è bisogno di
capirlo a 360 gradi. È elettivo in quanto il decisore prende in considerazione degli aspetti della realtà
trascurandone altri, in base alle proprie conoscenze ed esperienze; anche questo può essere un problema
nel senso che alcuni aspetti che possono essere fondamentali possono essere trascurati.

In merito ai problemi da definire abbiamo:

 i problemi strutturati: ben definiti, con confini chiari, con un numero finito di potenziali alternative
per risolverlo, con un’unica soluzione; qualcuno se ne è già occupato in passato e quindi quella
soluzione è risultata efficace e può essere ripetuta, il tutto è tradotto quindi nelle routine definite a
priori; sono problemi per chi si trova nella parte bassa della piramide aziendale;
 i problemi non strutturati (e non strutturabili): problemi particolarmente complessi per i quali non
si possono stabilire delle routine anche perché nuovi; non sono chiaramente definiti, con più di una
soluzione; sono problemi per chi si trova nella parte alta della piramide aziendale.

La prima fase si caratterizza anche di distorsioni, cioè quegli errori in cui il decisore può incappare.

o Effetto framing: una volta adottato un punto di vista, ovvero un frame, su un problema, si perde la
capacità di guardarlo nella sua interezza e questo crea una rigidità e un conflitto del decisore di
analizzare un problema a 360 gradi. Per risolvere il problema bisognerebbe abbandonare quel
frame.
o Effetto prospettiva: il linguaggio in cui sono formulati i problemi sui comportamenti di scelta può
generare dei problemi di effetto framing, nel senso che ogni persona ha una maggiore capacità di
interpretare un fenomeno a seconda del linguaggio con cui quel fenomeno è presentato. Più c’è
affinità verso quel linguaggio più il decisore leggerà il fenomeno in maniera corretta e viceversa.

Le distorsioni si risolvono attraverso l’antidoto, ovvero la cura di quell’errore che è stato commesso.
L'antidoto è la comunicazione e l’uso del gruppo: la comunicazione è una spiegazione che ci fa acquisire
delle informazioni diverse; l’uso del gruppo è sfruttare il gruppo attraverso l’analisi del problema anche da
parte di altre persone, eliminando in questo modo le distorsioni del singolo poiché si mettono insieme le
conoscenze e competenze di tutti gli individui del gruppo.
FASE 2: LA RICERCA DI INFORMAZIONI E ALTERNATIVE

È una fase di ricerca di informazioni in merito a quel determinato problema e soprattutto delle alternative,
ovvero le possibili leve a disposizione dei manager per risolvere quel determinato problema, quindi le
modalità che un decisore identifica per poter rispondere a quel problema. Le informazioni che si vanno a
ricercare devono essere utili per andare a generare poi le alternative che dovranno fungere da soluzione a
quel problema. Anche durante questa fase si possono commettere degli errori: la prima tipologia sono le
trappole di ricerca locale. Sono quegli errori più frequenti, cioè delle trappole in cui il decisore può
inciampare durante la ricerca, quindi, una tendenza inconsapevole della nostra mente a indirizzare e
limitare la ricerca in certe direzioni. Sono 3:

1. Disponibilità: un decisore nel prendere la decisione, prende in considerazione quelle che sono le
informazioni di cui dispone essendo guidati appunto da queste nella scelta; il decisore può
attingere a queste informazioni da vari contesti, ma principalmente, soprattutto avendo poco
tempo, prende le informazioni di cui dispone attraverso appunto i mass media che però molte volte
sono delle informazioni superficiali. Se i mass media focalizzano la loro attenzione su un
determinato tema, il messaggio che passa è che quel tema potrebbe essere particolarmente
importante e rilevante ma allo stesso tempo potrebbe passare l’informazione in modo distorto
rispetto a quella che è la realtà. Es. meningite vs morti bianche.
2. Rappresentatività: quando guardando una descrizione di qualcosa mi aspetto che appartenga a
quello stereotipo; ma questo è un errore perché in questo caso io cerco di generalizzare delle
informazioni che non rappresentano però la realtà. Es. Prendo 10 bibliotecari in tutta Italia e
individuo i loro tratti tipici e li associo a tutti i bibliotecari, tuttavia in questo modo vado a
generalizzare dei risultati che però si basano su un campione abbastanza circoscritto e questo va a
creare appunto degli stereotipi.
3. Ancoraggio: un decisore nel prendere le decisioni di solito non parte mai da zero ma parte da
benchmark, ovvero dei riferimenti che ha nella propria testa, e, sulla base di questi costruisce la
propria decisione; l’ancoraggio è quindi quando un decisore prende una decisione utilizzando un
benchmark, cioè un valore di riferimento. Es. definire il budget delle vendite stimandolo sulla base
delle informazioni che ha a disposizione in base agli anni precedenti che si aggiustano per definire il
budget dell’anno in corso, quindi si ancora al benchmark che in questo caso sono i budget degli
anni precedenti.

Gli antidoti a queste trappole sono l’utilizzo delle check list, che sono le liste di controllo che si fanno per
ricordare gli step da seguire per svolgere una determinata attività e quindi guidano nel processo
decisionale; l’altro antidoto è l’uso dei gruppi, anche in questo caso aiuta a ridurre gli errori perché il
gruppo riduce quelle che sono le distorsioni cognitive che sono tipiche del singolo individuo, infatti, quando
ci sono più persone a scambiarsi informazioni, dati e conoscenze su un determinato tema, queste persone
affronteranno il problema a 360 gradi e a generare informazioni che sono prive degli errori sopracitati.

L’altra tipologia di trappola relativa alla fase 2 sono le trappole di apprendimento, che sono quelle trappole
relative ai processi di apprendimento e sono:

 la trappola dell’autoconferma: tendenza a cercare degli esempi confermativi alle proprie ipotesi
d’azione piuttosto che dei controesempi, cioè nella scelta dell’alternativa tra una rosa di varie
alternative ponderate, il decisore cerca degli esempi confermativi della propria ipotesi piuttosto
che cercare degli esempi che andranno ad avvalorare altre ipotesi che non sono le sue, al posto che
scegliere l’ipotesi più idonea alla risoluzione del problema in maniera neutrale.
 errori di attribuzione causale: se i risultati sono positivi, il decisore tende ad attribuirsi il merito; se i
risultati sono negativi, il decisore tende ad attribuire la causa ad altri fattori.
Antidoti alle trappole dell’apprendimento sono la sperimentazione e l’ammissione di errori che non siano
immediatamente puniti, disponibilità di molte teorie e ipotesi, osservare i risultati ricordandosi delle
decisioni, disponibilità di risorse in eccesso rispetto alle esigenze operative, in termini di tempo,
disponibilità e ricompense materiali derivanti dalle sue azioni.

Strategie decisionali

Le strategie decisionali sono strategie sottese ad un attore che effettua delle scelte in maniera razionale;
sono dei modelli di razionalità degli attori che spiegano il comportamento degli individui nel prendere delle
decisioni (come il decisore agisce nel prendere una determinata decisione). Sono scelte razionali in quanto
alla base presuppongono un processo decisionale. Ci sono 3 modelli:

1. Modelli di razionalità deduttiva basati su calcoli di ottimizzazione. La strategia sottesa a questo


modello è la strategia di ottimizzazione, ovvero quella strategia in cui un individuo effettua tutta
una serie di scelte cercando di massimizzare quelli che sono i risultati, ovvero quello che è il
rapporto tra costi e benefici. Questa strategia nel processo decisionale è quella che guida
l’imprenditore a effettuare delle scelte di ottimo, cioè date N alternative poche e definite, idonee a
risolvere un determinato problema, il decisore cercherà quella alternativa che meglio delle altre gli
consentirà di risolvere un determinato problema, quindi cercherà di raggiungere la massima utilità,
cioè la one best choice. Una strategia di ottimizzazione è definita quando il problema è molto
strutturato, cioè le alternative sono finite e definite. Una regola di ottimizzazione prescrive di
scegliere, tra le N alternative, quella che porta al decisore l’utilità massima. Limiti al modello di
ottimizzazione dell’utilità attesa: il limite principale è che per poter risolvere un problema con
questo modello il decisore deve necessariamente conoscere il problema in profondità quindi avere
tutte le informazioni in merito a un determinato problema e soprattutto deve essere in grado di
valutare tutte le diverse alternative, ad esempio riuscire a definire qual è l’alternativa preferibile e
migliore rispetto a tutte le altre, ma appunto non sempre il decisore possiede tutte queste
informazioni e quasi spesso capita che il decisore agisce in condizioni di scarse risorse (scarse
informazioni e poco tempo). Dunque, i limiti sono: complessità computazionale, problema di
conoscenza limitata per la presenza di un problema poco strutturato, la scarsità di risorse che
genera avversione al rischio (effetti di ricchezza), esistenza di più obiettivi in conflitto (l’applicazione
di una regola di ottimizzazione richiede la comparabilità delle alternative). Il modello della
razionalità assoluta postula la padronanza del decisore sul contesto e l’accesso a tutte le
informazioni.
2. Modelli di razionalità euristica basati sulla ricerca di soluzioni accettabili e sull’eurisma. La
strategia sottesa a questo modello è la strategia soddisfacente, cioè non si sceglie la soluzione
migliore ma quella che più soddisfa un determinato decisore. Laddove, appunto c’è una scarsità di
risorse e in presenza di problemi poco strutturati si lascia spazio a una strategia euristica. Si basa
appunto sull’eurisma, cioè una scorciatoia mentale che consente di prendere una decisione nel
minor tempo che non sia la migliore tra tutte ma che sia idonea a risolvere un determinato
problema in modo soddisfacente. Una strategia euristica si afferma in presenza di problemi poco
strutturati in quanto gli obiettivi rilevanti sono molti e poco comparabili, il tempo scarseggia e le
alternative sono potenzialmente infinite. Questo modello si basa sulla teoria della razionalità
limitata di Simon, un economista, psicologo e informatico, premio Nobel per l’economia (1978) che
studiava il processo decisionale nelle organizzazioni. Mosse per primo le critiche al modello di
razionalità ottimizzante, perché il decisore non possiede tutte le risorse necessarie per fare scelte
ottimali e quindi non può avere una razionalità illimitata, bensì una razionalità limitata alle risorse
di cui dispone. L’individuo farà delle scelte soddisfacenti, cioè idonee a risolvere un determinato
problema, e non scelte ottimali. Il modello della razionalità limitata incorpora il problema
dell’incertezza sui fini e sui mezzi, sul contesto e sulle conseguenze delle decisioni.
Razionalità assoluta vs. razionalità limitata

Il modello della razionalità assoluta postula la padronanza del decisore sul contesto e l’accesso a tutte le
informazioni. Il modello della razionalità limitata incorpora il problema dell’incertezza sui fini e sui mezzi,
sul contesto e sulle conseguenze delle decisioni.

Nelle decisioni euristiche tutte le ipotesi sono valutate in termini di accettabilità e non di ottimizzazione. Si
tratta di una strategia di ricerca e di apprendimento che prevede la possibilità da parte del decisore di
modificare tutte le ipotesi nel corso del processo per effetto del controllo empirico. La ricerca può avvenire
ex ante o ex post rispetto all’azione. La ricerca ex ante può essere efficiente se il problema è stabile e le
teorie sono note. La ricerca ex post può essere la strategia migliore se l’affidabilità e la validità delle ipotesi
che si possono costruire ex ante è bassa.

3. Modelli di razionalità automatica e non calcolativa basati sull’esecuzione di programmi di azione.


I modelli di razionalità automatica e non calcolativa prevedono l’adozione di azioni umane ed
economiche guidate da logiche decisionali non calcolative, che non implicano previsioni di costi e
benefici. Utilizzato da coloro che non dispongono di tutti i dati, informazioni e conoscenze
necessarie per poter prendere una decisione ma che comunque trovandosi davanti a un
determinato problema utilizzano una razionalità quasi automatica. Sono modelli che trovano
ispirazione nell’esperienza passata e nelle convenzioni, cioè sono quei modi di agire che
consentono al decisore di prendere delle decisioni basandosi su quella che è la propria esperienza
passata oppure l’esperienza passata di quelle persone che l’hanno preceduto in quella determinata
scelta (convenzioni), posto davanti allo stesso problema. Questi modelli fanno riferimento a quei
problemi che sono semplici e che si presentano con forte presenta nelle organizzazioni. Abbiamo
due modelli: modelli incrementali, che sono adottati da attori sprovvisti di obiettivi precisi e con
esperienze e preferenze piuttosto rudimentali riguardo al problema; prevedono l’adozione di
regole di ricerca come regole di “accettabilità” in quanto si accettano solo alternative che
differiscono molto marginalmente da quelle in corso; le azioni incrementali non sempre producono
risultati incrementali, è possibile infatti, che piccole variazioni provochino “grandi variazioni”; sono
quei modelli che si utilizzano quando il decisore non ha a disposizione tutte le conoscenze e
competenze necessaria per prendere una determinata decisione, e, allora posto davanti al
problema, cerca di affrontarlo guardando magari cosa hanno fatto gli altri che lo hanno preceduto,
es. persona neoassunta che è chiamato a redigere il budget, ma ha scarsa conoscenza, allora
guarderà i budget redatti negli anni precedenti e per redigere quello corrente apporrà delle piccole
variazioni ai precedenti, ovviamente la criticità più grande è il fatto che quella piccola variazione
potrebbe portare a un effetto molto più grande in futuro, anche un effetto devastante. I modelli del
rinforzo e cibernetici, secondo cui il problema viene visto come uno scostamento di uno stato di
“non funzionamento” da uno di “funzionamento”. Si basano sul principio di rinforzo, infatti le azioni
che fanno registrare effetti positivi vengono ritenute in memoria come corrette e ripetute in
successive simili occasioni. Comportano un risparmio di energia cognitiva, ma sono applicabili solo
a situazioni decisionali che si ripetono con caratteristiche simili nel tempo e ad azioni facilmente
reversibili; es. quando abbiamo un guasto e ricerchiamo su internet delle soluzioni già esistenti e
comprovate per risolvere il problema.
La teoria del rinforzo ci dice che le persone tipicamente tendono a replicare le azioni che hanno avuto esito
positivo e a non replicare quei comportamenti che hanno dato vita a un esito negativo.

Non per forza i manager ragionano con la razionalità, bensì con la irrazionalità per i loro bisogni e desideri
inconsci che portano a delle scelte inconsapevoli.

Skinner Burrhus è tra i maggiori psicologi del 20 secolo. Era uno studioso del comportamento umano e ha
introdotto il concetto del “condizionamento operante”. Il condizionamento operante è una forma di
apprendimento che consiste nell’associare uno stimolo a una risposta, affinché la risposta si verifichi
nuovamente. Tutto parte dello stimolo, che spinge le persone ad adottare un comportamento; questo
comportamento ha delle conseguenze, che possono essere positive, per cui le persone tendono a ripeterlo,
oppure negative, per cui le persone tendono a non ripetere tali comportamenti.

Esistono diversi tipi di condizionamento operante:

1. Rinforzo positivo: nel primo esperimento Skinner prende una scatola contenente una leva e delle
luci e inserisce dentro un topo. Se premuta, la leva gli consente di ottenere cibo; la scatola ha anche
una griglia elettrica nella parte bassa, che tramite un generatore di corrente, stimola il topo. Il topo
ha iniziato a girare nella scatola e ha urtato la leva, così gli è arrivato il cibo. Il topo ha capito che
toccando la leva gli arrivasse il cibo, per cui ha ripetuto quel comportamento. Il cibo è un fattore
rinforzatore, che rinforza il comportamento. L’azione di premere la leva è un comportamento
operante e il cibo può essere visto come una ricompensa. Premendo la leva il top affamato veniva
ricompensato con del cibo, che saziava la sua fame. Pertanto, è considerato un rinforzo positivo.
2. Rinforzo negativo: nel secondo esperimento lo stimolo è quello di generare corrente elettrica. Il
topo urta la leva collegata al generatore di corrente elettrica; toccando la leva, non passa più
corrente. L’interruzione della corrente elettrica è un rinforzatore. L’azione di premere la leva è una
risposta/comportamento operante e consente l’interruzione del flusso di corrente elettrica ne era
la ricompensa. La corrente elettrica ha agito come rinforzo negativo e l’interruzione della corrente
elettrica è stata la motivazione per il topo a ripetere il comportamento.
3. Punizione: la punizione fa sì che una risposta (operante), ovvero un certo comportamento, non
venga ripetuta, diminuisca e vada a estinguersi. La punizione non estingue un comportamento, ma
ne riduce l’intensità e la frequenza.

Capitolo 3: Competenze e motivazione

La prestazione dell’individuo è intesa come performance del soggetto, cioè è intesa come la capacità che
un soggetto ha di raggiungere un determinato obiettivo. La prestazione è funzione di due variabili, cioè
deriva dalla motivazione e dalla capacità.

Prestazione= F(Motivazione x Capacità)

La motivazione è un insieme di motivi che spingono gli individui ad agire, che sono in relazione a diversi
obiettivi e interessi che sono guidati dai processi cognitivi ed emotivi. Ci spiega fondamentalmente il perché
l’individuo fa o non fa una determinata cosa.

La capacità comprende l’insieme delle caratteristiche dell’individuo, delle abilità (mentali, meccaniche e
psicomotorie), del livello delle conoscenze e del grado di utilizzo della tecnologia nello svolgimento
dell’attività. Quindi, queste due variabili determinano la prestazione dell’individuo, che, se non abbastanza
performante, compromette la prestazione dell’intera organizzazione. Non bastano solo le capacità
dell’individuo, ma assumono particolare importanza le motivazioni, perché sono quelle che maggiormente
condizionano la prestazione. La performance di una persona molto motivata sarà di un livello più alto
rispetto a chi non ha grandi motivazioni anche se con capacità.
Ai fini della prestazione è molto importante anche la variabile contestuale, cioè il cosiddetto contesto
organizzativo, cioè il luogo dove l’azione viene svolta, perché il contesto influenza la prestazione. Il
contesto è quindi il sistema di fattori situazionali che costituiscono l’ambiente e definiscono le condizioni
all’interno delle quali l’attività lavorativa si svolge. Se una persona non si trova bene in un determinato
contesto, questo influenzerà negativamente la prestazione. A volte il contesto passa sulla motivazione in
base alla capacità della stessa organizzazione di motivare l’individuo.

Dimensioni rilevanti della prestazione:

Task performance: attività richieste per lo svoglimento della propria mansione

Contextual performance: comportamenti che vanno al di là dello svolgimenti dei propri compiti e si
riferiscono a tutte quelle azioni che aumentano l’efficacia organizzativa, migliorano il clima lavorativo
(comportamenti di cittadinanza organizzativa o prosocial organizational behavior)

Ethical performance: fare le cose eticamente corrette

Un altro aspetto importante ai fini della prestazione è il ruolo della tecnologia che si trova nella variabile
della capacità. La tecnologia può sopperire in parte a quelle che sono le carenze delle persone in termini di
capacità, o, può aumentare in generale quelle che sono le capacità dei singoli individui. Possiamo
distinguere:

- Task skill-dominated: il fattore più importante ai fini della prestazione sono le capacità
individuali;
- Task technology-dominated: il fattore più importante ai fini della prestazione è la
tecnologia.

Le competenze

Le competenze sono l’insieme delle caratteristiche strutturali dell’attore, sono delle risorse che l’individuo
ha al proprio interno che può mobilitare, di ciò che è “capace di fare”: la capacità di un individuo di
sfruttare le proprie conoscenze in chiave pratica. Quando si parla di competenze si fa riferimento a due
principali filoni di studio:

1. Stratificazione e combinabilità delle competenze


2. Specificità e specializzazione delle competenze

Stratificazione e combinabilità delle competenze

Secondo questo filone le competenze possono essere rappresentate come una sorta di “iceberg” dove nella
parte più bassa, quella sommersa e che non si vede, ci sono le competenze innate; poi salendo verso l’alto,
ovvero la parte un po’ più visibile, ma che comunque si trova sott’acqua, troviamo le skills e abilità; nella
parte più alta che emerge sopra la superficie c’è la preparazione professionale.

Le competenze innate sono quelle competenze che una persona ha dalla nascita, senza averle acquisite nel
tempo, ma è come se fossero una dotazione iniziale. Esempio chi è predisposto a determinate materie sin
da piccoli, come chi è predisposto alla matematica, al disegno, alle lingue... Sono appunto competenze che
noi non riusciamo a distinguere bene, perché non possiamo sapere se quella persona ha quelle competenze
naturalmente o potrebbe averle acquisito nel tempo. Fanno riferimento alle conoscenze paradigmatiche.

Le skills e abilità sono quelle che fanno riferimento a quelle competenze che gli individui hanno e che gli
consentono di svolgere determinate tipologie di attività, ma che si acquisiscono successivamente alla
nascita, in maniera esperienziale diretta o tramite osservazione. Fanno riferimento alle conoscenze tacite.
La preparazione professionale è quella che si acquisisce sul campo fondamentalmente, di solito tramite la
formazione e/o l’esperienza lavorativa, quindi sono facilmente riconoscibili (ad esempio leggendo il
curriculum di una persona). Fanno riferimento alle conoscenze esplicite. I confini tra le tipologie sono labili
perché le capacità dell’individuo dipendono dalle tre che sono combinabili tra loro.

Queste erano delle hard skill (competenze tecniche che si acquisiscono tramite la formazione), ma esistono
delle competenze dette soft skills. Le soft skills sono delle competenze trasversali; rappresentano i tratti
della personalità della persona e servono a carpire proprio com’è una persona. Ci sono appunto dei tratti
che l’organizzazione tende a preferire quando sono più sviluppati rispetto ad altri, ad esempio l’ottimismo,
la capacità di lavorare in gruppo, l’apertura mentale, problem solving. Sono molto importanti perché le
attività dell’azienda sono interdipendenti tra loro, non si ragiona più in termini individuali ma in termini di
output di gruppo.

Big Five

I big five rappresentano un modello atto a rilevare i tratti della personalità di un individuo. Esistono diversi
modelli per misurare questi tratti, il big five è tra i modelli più noti.

 Estroversione: il polo positivo di questo fattore è rappresentato dall’emozionalità positiva e dalla


socialità, laddove quello negativo è rappresentato dall’introversione, ossia dalla tendenza ad «esser
presi» più dal proprio mondo interno che da quello esterno.
 Amicalità: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperatività; il
polo negativo da ostilità, insensibilità ed indifferenza.
 Coscienziosità: questo fattore contiene nel suo polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla
scrupolosità, alla perseveranza, alla affidabilità ed alla autodisciplina e, nel suo polo negativo, gli
aggettivi opposti.
 Nevroticismo: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza ed
instabilità emotiva. Il polo opposto è rappresentato dalla stabilità emotiva, dalla dominanza e dalla
sicurezza.
 Apertura all’esperienza: il polo positivo di questo fattore è rappresentato da creatività,
anticonformismo ed originalità. Il polo opposto è, invece, identificato dalla chiusura all’esperienza,
ossia dal conformismo e dalla mancanza di creatività ed originalità.

Specificità e specializzazione delle competenze

La specificità di una competenza rispetto ad un uso o ad un’attività esprime la differenza tra il valore dei
servizi resi in quell’attività rispetto al migliore impiego alternativo. Una competenza è specifica quando il
valore di un servizio reso nello svolgimento di una data attività è maggiore rispetto a qualsiasi altro impiego
alternativo: quando un individuo svolge una determinata attività, se nello svolgere quell’attività riesce a
ottenere un maggiore valore rispetto a qualsiasi altra attività che lo mettiamo a svolgere quella competenza
nello svolgimento di quell’attività è una competenza specifica. Cosa diversa è la specializzazione di una
competenza. La specializzazione di una competenza esprime il grado di divisione del lavoro
nell’organizzazione, così che più il lavoro è diviso più la competenza dell’individuo sarà specializzata poiché
quest’ultimo svolgerà quell’attività più frequentemente e sarà specializzato in quella.
Quando sia la specificità che la specializzazione sono basse, l’esempio tipico è quello del segretario/a
d’azienda, cioè l’individuo non ha una competenza specifica rispetto a quell’attività che svolge e che
quest’ultima è polivalente, cioè fa più cose e quindi c’è anche poca specializzazione.

Quando invece c’è un’alta specificità delle competenze e una bassa specializzazione possiamo prendere
come esempio il segretario/a personale di un Ceo. La specializzazione è bassa perché ovviamente i compiti
sono polivalenti come quelli della segreteria d’azienda. Sono invece compiti caratterizzati da un’alta
specificità perché rispetto a quel Ceo quel segretario/a è specifico/a, poiché quel Ceo non vuole un altro
segretario d’azienda ma uno specifico che ha dei valori aggiunti che sono stati acquisiti nel tempo.

Per quanto riguarda un livello basso di specificità e alto di specializzazione abbiamo l’esempio del word
processing, che è un software per i linguaggi di scrittura. La specificità è bassa perché una persona può
decidere un linguaggio di scrittura qualsiasi, ma è specializzata perché quel software consente di fare solo
una cosa, ovvero scrivere.

Quando sia specificità sia specializzazione sono a un livello alto, abbiamo come esempio i servizi grafici su
misura. La specificità è alta perché lo svolgimento di questi servizi richiede delle competenze specifiche
magari poiché l’azienda sceglierà qualcuno con chi ha già lavorato in passato. La specializzazione è alta
perché sono appunto delle aziende che si occupano solo dei servizi grafici e non di altro.

Quando si parla di competenze bisogna fare attenzione perché il possesso di competenze non implica
automaticamente il loro utilizzo: è importante, infatti, la percezione delle proprie competenze e il grado di
fiducia nelle proprie capacità. Lo sviluppo delle proprie capacità deriva da 3 fattori:

1. l'auto-efficacia: è il giudizio che un attore ha della propria capacità di organizzare ed eseguire i corsi
d’azione richiesti per tipi definiti di performance, cioè quanto una persona si ritiene efficace nello
svolgere una determinata azione: come un individuo si percepisce nello svolgimento di un’attività;
2. l’autostima: è la percezione media o globale di sé che un attore sviluppa attraverso una miriade di
esperienze su attività specifiche, cioè la stima che un individuo ripone in sé stesso;
3. self-confidence: è la percezione della probabilità di successo che un attore sviluppa sulle proprie
azioni, dalla quale deriva il grado di propensione al rischio.

Nel momento in cui si verifica la condizione di tutte e tre le variabili, le competenze saranno sfruttate e
poste in azione; cosa diversa è quando l’individuo, anche se particolarmente capace, non ha un elevato
giudizio rispetto alle sue capacità, si verificherà che le persone non sfrutteranno le proprie competenze e
non le porranno in azione.

Processi di governo dell’auto-efficacia

 Sperimentazione diretta: si ha quando l’individuo si cimenta nello svolgimento di una determinata


attività così da verificare se è capace o meno di svolgere una determinata azione. L’accesso
regolare al feedback sulla propria prestazione è il fattore più sistematico di calibratura dei giudizi di
probabilità e confidenza.
 Sperimentazione vicaria: le persone “aggiustano” i propri giudizi di auto-efficacia osservando altri
attori, dotati di risorse e competenze comparabili, che sono “riusciti” in quell’azione.
 Modeling: implica l’uso dell’esperienza per costruire modelli generali sui comportamenti che
possono essere di successo in un dato campo

La motivazione

La motivazione è l’insieme di motivi che spingono l’individuo ad agire, che sono in relazione a diversi
obiettivi e interessi e che sono guidati da processi cognitivi ed emotivi (Pilati 1995). La motivazione è un
processo perché si collega alla variabile tempo, nel senso che nel corso del tempo la motivazione
dell’individuo varia: esempio un individuo a neo entrato in un’azienda ha più motivazione poiché ha voglia
di farsi conoscere e di farsi notare dai suoi superiori e ha appunto voglia di imparare, col passare del tempo
il livello motivazionale scende e se il manager non p in grado di prevenire questa cosa si passa a un livello
motivazionale bassissimo, ovvero amotivazione, cioè l’assenza di motivazione, in cui una persona non ha
nessuna ragione per porre in essere determinate azioni. Bisogna quindi tenere alto il livello di motivazione
attraverso delle leve, quali i sistemi di incentivi (esempio le retribuzioni di tipo variabile che si basano sugli
obiettivi raggiunti dall’individuo, al contrario una mancata di ricompensa in caso in cui non siano stati
raggiunti quegli obiettivi); i sistemi di controllo, ovvero l’organizzazione controlla i suoi dipendenti e questo
fa accendere una luce sugli stessi che aumenteranno le loro performance per farsi notare.

Esistono varie teorie della motivazione.

Le teorie del contenuto sono le meno recenti: sottolineano l’importanza delle cause che originano il
comportamento in quanto spiegano gli aspetti del comportamento stesso, in base ai bisogni umani e ai
fattori specifici che lo guidano.

1. La gerarchia dei bisogni di Maslow: siamo motivati dalla necessità di soddisfare dei bisogni innati.
In questa teoria si mette in relazione il concetto della motivazione con quello del bisogno: il bisogno
consiste nella percezione di un gap esistente tra una situazione (presente o futura) e uno stato
delle cose desiderato, e si comincia a percepire uno stato di tensione che si cercherà di ridurre. Il
collegamento tra il bisogno e la motivazione sta proprio nel concetto di quest’ultima: la
motivazione non è altro che quella forza che spinge l’individuo a soddisfare un determinato
bisogno, maggiore sarà il bisogno tanto più sarà la motivazione a soddisfarlo. I bisogni sono
classificati in cinque classi di contenuto: fisiologici e di sicurezza, che sono quelli che l’individuo
tende a soddisfare per primi poiché i primi sono legati alla vita e i secondi riguardano la sicurezza di
un individuo in un determinato luogo; di appartenenza, secondo cui bisogno di essere parte di
qualcosa; di stima, cioè il bisogno dell’individuo di avere stima di se stessi ma anche da parte degli
altri; di auto-realizzazione, per cui l’individuo si sentirà soddisfatto e auto-realizzato quando avrà
soddisfatto i 4 bisogni precedenti. Inoltre, dopo aver identificato questi bisogni, bisogna ordinarli
gerarchicamente: i bisogni sono gerarchicamente ordinati da “bisogni di ordine inferiore” a “bisogni
di ordine superiore”. L'ordine gerarchico è: 1. fisiologici, 2. di sicurezza, 3. di appartenenza/affetto,
4. di stima, 5. di auto-realizzazione. I bisogni di ordine inferiore devono essere sufficientemente
soddisfatti prima che i bisogni di ordine superiore possano essere concepiti in modo
sufficientemente forte da spingere all’azione e orientare il comportamento. Non per tutti gli
individui però la gerarchia dei propri bisogni è uguale. Quindi il problema di questo modello è che
non si può definire una gerarchia dei bisogni perché i bisogni non seguono una gerarchia dei
modelli prestabiliti bensì quelle che sono le percezioni dei singoli individui. L'altra critica a questo
modello è relativa al fatto che non tutti i bisogni che esistono sono innati come ipotizzava Maslow,
bensì bisogni che si acquisiscono nel corso del tempo.
2. Il modello di McClelland (modello dei bisogni appresi): siamo motivati dalla necessità di soddisfare
dei bisogni culturalmente appresi oltre a quelli innati. Le persone acquisiscono o apprendono certi
bisogni piuttosto che altri, sia dalla cultura della società in cui vivono, sia in modo diretto in base
alle proprie esperienze. Secondo McClelland esistono 3 tipi di bisogni: successo-riuscita (need for
achievement), cioè il bisogno di portare a termine un compito con successo; potere (need for
power), cioè il bisogno di imporsi all’attenzione altrui, di stabilire, mantenere o ristabilire il proprio
prestigio o potere; affiliazione (need for affiliation), cioè il bisogno di interazione sociale e bisogno
di stringere relazioni con altre persone, da non confondere con il bisogno di stima di Maslow.
3. Il modello dei fattori duali di Herzberg: non tutti i bisogni ci motivano allo stesso modo. Noi non
dobbiamo tenere conto quindi solo dei bisogni innati o appresi, ma ci sono dei bisogni da tenere in
conto nel posto di lavoro. Herzberg li classifica in due classi di contenuto: fattori igienici,
identificano bisogni percepiti come un deficit rispetto a uno standard e generano insoddisfazione se
non trovano risposte, sono esigenze materiali, di consumo, di sicurezza e non nocività ambientale
(esempio: stile di supervisione, retribuzione, politiche aziendali, infrastrutture fisiche, relazioni
sociali, sicurezza sul lavoro); fattori motivanti, identificano bisogni percepiti come surplus rispetto a
uno standard e sono generative di spinte positive all’azione per conseguire un’elevata
soddisfazione piuttosto che per correggere una situazione negativa, sono esigenze di crescita,
sviluppo professionale (esempio: opportunità di promozione, opportunità di crescita personale,
riconoscimenti, responsabilità, raggiungimento dei risultati). Uno standard rappresenta appunto
qual è la condizione che esiste in un determinato contesto lavorativo e che la maggior parte delle
persone vivono: al disotto dello standard percepiamo i fattori igienici che generano insoddisfazione
se non trovano risposte, demotivando gli individui; al disopra dello standard vengono percepiti i
fattori motivanti che generano spinte positive all’azione per conseguire un’elevata soddisfazione
piuttosto che per correggere una situazione negativa.

Le teorie del processo sono le più recenti: spiegano il modo in cui i comportamenti cambiano e il modo in
cui una persona comincia ad agire differentemente. Le decisioni inerenti la motivazione a partecipare
(entrare-rimanere-uscire) dipendono dalle alternative ritenute raggiungibili. Le decisioni inerenti la
motivazione a produrre (livello di contributo da fornire) dipendono dall'equità percepita tra incentivi
ottenibili e contributi richiesti.

1. La teoria dell’aspettativa-valenza: valuto i costi-benefici delle diverse alternative che si presentano


scegliendo quindi la più vantaggiosa. È una teoria che si caratterizza per un’analisi costi-benefici,
dove fondamentalmente un individuo pone in essere una determinata azione se la valutazione dei
benefici è maggiore rispetto ai costi. Le persone cercano di valutare costi (sforzo) e i benefici
(risultato) delle diverse alternative che si presentano scegliendo quindi la più vantaggiosa. Lo sforzo
è collegato con l’aspettativa così come il risultato è collegato con la valenza. L’aspettativa è la stima
o giudizio sulle probabilità che si hanno nel raggiungere un determinato risultato. Ce ne sono due
tipologie: l’aspettativa di sforzo-prestazione, che è la probabilità che un individuo attribuisce circa
la possibilità che lo sforzo che pone in essere porterà al raggiungimento di una determinata
prestazione, l’aspettativa prestazione-risultato, che è la probabilità che l’ottenimento di una
determinata prestazione consenta all’individuo di ricevere un determinato risultato. La valenza è la
valutazione personale sulla soddisfazione/insoddisfazione che un determinato risultato può
generare; può essere intrinseca (si svolge una determinata azione per il piacere che ne deriva) o
estrinseca (si svolge una determinata azione per il risultato che ne deriva).
Sforzo -> Aspettativa -> risultato -> Valenza
Motivazione = aspettativa x valenza (x strumentalità)
La valenza può essere positiva (quando il soggetto vuole qualcosa) o negativa (quando non la
vuole). L’aspettativa ha valori positivi. Se la persona non riconosce alcuna probabilità di conseguire
l’obiettivo, l’aspettativa sarà pari a 0.
La strumentalità è la ricompensa derivante dal conseguimento dell’obiettivo.
2. La teoria del goal setting: agisco nel tentativo di raggiungere un obiettivo. Gli obiettivi sono
concepiti come livelli di aspirazione, traguardi da raggiungere che orientano la scelta delle azioni
come mezzo per raggiungerli. La motivazione, quindi, non è altro che la forza che guida l’individuo
al raggiungimento di un determinato obiettivo che si è prefissato. Il problema centrale affrontato
da questi modelli è stato di capire quale livello degli obiettivi si correli a performance più elevate.
Nel goal setting il livello delle performance realizzate dipende dal grado di difficoltà degli obiettivi
(livelli di aspirazione troppo bassi riducono la ricerca; livelli di aspirazione troppo alti conducono a
non agire), dal grado di precisione degli obiettivi (obiettivi troppo generici che non sono precisi
lastricano la strada a far meno bene rispetto a quanto un individuo potrebbe fare, quindi gli
obiettivi devono essere ben formalizzati per portare l’individuo a prestare più attenzione e riflettere
bene su ciò che fa), dal grado di autodeterminazione degli obiettivi (gli obiettivi autodeterminati
possono essere più bassi di quelli che fisserebbero gli altri; d’altro lato essi possono essere accettati
con maggior convinzione e impegno). Anche il feedback è un momento importante per l’individuo
per capire come ha svolto la sua attività anche per un apprendimento futuro.
3. La teoria del rinforzo: agisco in base all’esito delle mie esperienze passate. La motivazione è
influenzata dalla gestione delle conseguenze dei propri comportamenti. Le conseguenze possono
essere intese in termini di premi detti anche rinforzi che danno conferma all’individuo e fanno sì
che questo attore ponga di nuovo in essere questo comportamento, o viceversa, le punizioni che
sono dei fattori che riducono la probabilità che il comportamento si ripeta.
I modelli cibernetici e del rinforzo definiscono il problema come scostamento di uno stato di “non
funzionamento” da uno di “funzionamento”. Si basano sul principio del rinforzo. Infatti le azioni che
fanno registrare effetti positivi vengono ritenute in memoria come corrette e ripetute in successive
simili occasioni. Comportano un risparmio di energia cognitiva ma sono applicabili solo a situazioni
decisionali che si ripetono con caratteristiche simili nel tempo ed azioni facilmente reversibili.

Tra conoscenze,
competenze e motivazione
c’è un collegamento. Una persona prende una decisione partendo da quelle che sono le conoscenze,
ovvero dalla struttura cognitiva, intesa come una serie di dati, informazioni e conoscenze, che
rappresentano l’input del processo decisionale. Partendo da questo input, l’individuo prende una decisione
elaborando quelle che sono le conoscenze di cui dispone ricercando ulteriori informazioni e alternative e
scegliendo quella che ritiene migliore o più idonea tra le tante. Ci sono diverse forme di razionalità che
l’individuo utilizza per prendere decisioni. Una persona che prende decisioni lo fa per porre in essere
determinate azioni. La prestazione lavorativa è funzione di almeno due fattori, la capacità degli individui,
espressa in competenze, e, la motivazione. Esiste una relazione tra conoscenze e competenze poiché le
competenze sarebbe la messa in pratica delle proprie conoscenze: le conoscenze esplicite di legano alle
competenze professionali; le conoscenze esperienziali o tacite si legano alle competenze che sono chiamate
skills e abilità; infine sono legate tra loro le conoscenze e le competenze paradigmatiche. Un ulteriore
collegamento si può fare tra le forme di razionalità e motivazione: la razionalità ottimizzante si lega ai
modelli di motivazione basati sull’aspettativa/valenza; la forma di razionalità euristica si collega al modello
del goal setting che si basa sul satisficing; la forma di razionalità automatica si lega ai modelli di motivazione
di rinforzo e cibernetici.

Capitolo 4: Meccanismi di comportamento

L'attore organizzativo non è più il singolo individuo che fa delle scelte e pone in essere una determinata
attività, ma gli individui che tra di loro collaborano scambiandosi le informazioni per raggiungere un dato
obiettivo. In questo caso sorgono delle interdipendenze, ovvero gli individui dipendono tra di loro per poter
svolgere un’attività. È la divisione del lavoro che divide quest’ultimo in fasi che sono interdipendenti tra
loro, quindi, la divisione del lavoro crea interdipendenze che generano un fabbisogno di coordinamento,
che è la regolazione efficace delle interdipendenze tra gli attori/attività.

La teoria dei giochi fa parte di un filone di teorie utili per spiegare i diversi meccanismi di coordinamento,
ovvero quando utilizzare una tipologia di coordinamento che si basa sulla presenza della comunicazione
oppure che si basa sull’assenza della comunicazione. Il gioco in questo caso è la rappresentazione
semplicistica della realtà, in cui ci sono i giocatori ovvero gli attori, che hanno delle possibilità di scelta. Ogni
attore decide la propria “mossa” tenendo conto delle possibili azioni degli altri attori e di ciò che essi
possono pensare che egli farà. La versione più semplice è quando ci sono solo 2 giocatori con solo 2
possibilità di scelta. La letteratura ha identificato diversi tipi di giochi:

1. giochi a somma zero: è quel gioco che si caratterizza per la presenza di due giocatori e un solo
esito, ovvero un giocatore vince la partita e l’altro la perde, la vittoria di uno comporta la sconfitta
dell’altro e inevitabilmente, per massimizzare l’utilità il giocatore deve per forza provare a vincere.
L'esito finale per ciascun giocatore è il minore dei mali. La soluzione di equilibrio è 0,0, ma questo
non da utilità a nessuno dei giocatori. La comunicazione non solo non è necessaria ma è anche
inutile: non vi è nessun esito su cui le parti possano accordarsi per migliorare i risultati per entrambi
(estrazione a sorte).
2. giochi puramente integrativi/cooperativi: la comunicazione non è necessaria perché anche se i
giocatori comunicassero tra loro, l’utilità dei singoli non migliora. Il miglior risultato per una parte
genererà anche la massimizzazione dell’utilità dell’altra parte: ognuno persegue il proprio risultato
migliore e, anche non comunicando con l’altra parte, questa scelta potrà generare il risultato
migliore anche per l’altra parte che è in gioco. Il migliore risultato per una parte è ottenibile se
anche le altre parti in gioco ottengono il migliore risultato per sé.

Entrambi sono dei giochi che si caratterizzano per l’assenza della comunicazione tra i players, in alcuni casi
non è necessaria, in altri è inutile.

3. giochi con potenziale di comunicazione: la comunicazione è necessaria, perché permette ai players


di ottenere un vantaggio e massimizzare l’utilità. Il fabbisogno di comunicazione è generato dal
potenziale errore (battaglia dei sessi). La comunicazione consente ai giocatori di ottenere risultati
migliori.
4. giochi con potenziale di opportunismo: si caratterizza da una struttura mista ovvero composta da:
potenziale di cooperazione, che si ha quando le parti comunicano e cooperano per trovare un
accordo che contempli gli interessi di entrambi; potenziale di opportunismo, qualora si negoziasse
un accordo che prevederebbe incentivi a eluderlo per poter appunto ottenere un vantaggio
diverso; qualora non si comunicasse (decisione unilaterale) i benefici ottenibili sarebbero maggiori
del cooperare. Questi comportamenti sono detti free-riding. L'opportunismo, è di indole umana,
quindi soprattutto nei contesti economici se rompere un accordo porta a dei benefici. Ci sono
appunto dei sistemi di disincentivazione (pegni e impegni) che hanno come finalità evitare che si
eludano e rompano gli accordi. Inoltre, ci sono anche i sistemi di controllo attraverso un’autorità
arbitrale per cercare di redimere le controversie ed eliminare i conflitti (dilemma del prigioniero).

Entrambi si caratterizzano per la presenza di comunicazione, che è un elemento importante per far sì che i
players ottengano benefici maggiori.

Meccanismi di coordinamento (in base alle teorie del gioco):

Gli attori decidono unilateralmente e non comunicano: prezzo, voto.

Gli attori decidono congiuntamente e comunicano: autorità e agenzia, gruppo e negoziazione.

Gli attori non decidono, ma si adeguano a norme, regole, procedure, consuetudini.


Prezzo e voto

Prezzo e voto si caratterizzano per l’assenza di comunicazione tra le parti, ma ci sono delle informazioni
condivise tra loro e le decisioni sono unilaterali.

Il prezzo

Nella prospettiva organizzativa, il prezzo rappresenta un’informazione altamente codificata (cioè poche
cifre, contengono tutta una serie di informazioni che hanno portato alla definizione di quel determinato
numero) e sufficientemente rappresentativa degli aspetti rilevanti nelle condizioni di offerta e di domanda.
Il prezzo è anche un meccanismo di coordinamento perché consente di raggiungere un’efficiente
allocazione delle risorse con un minimo di scambio di conoscenze e informazioni (per esempio consente a
due aziende di coordinarsi con un minimo scambio di informazioni quale il prezzo).

Esistono due tipologie di prezzi:

1. Prezzi liberi: praticati nei mercati concorrenziali. Consentono all’organizzazione di coordinarsi con
le altre aziende. Sono definiti in seguito a un processo di ricerca intrapreso dai produttori e/o dai
consumatori. Dal lato dell’offerta, l’aggiustamento dei prezzi avviene in modo incrementale nella
direzione indicata dal tipo di squilibrio osservato tra domanda e offerta. Se la domanda supera
l’offerta, è ovvio pensare che il prezzo tenderà a salire sequenzialmente; viceversa, se è l’offerta a
superare la domanda, il prezzo tenderà ad abbassarsi sequenzialmente fino a incontrare una
situazione di equilibrio. Dal lato della domanda, l’aggiustamento dei prezzi avviene con un segnale
di uscita da parte dei consumatori: l’uscita deve avvenire in modo incrementale e libero, infatti il
segnale di uscita deve essere comunque graduale perché, se tutti i consumatori uscissero
improvvisamente, l’impresa verrebbe messa in condizione di non sopravvivenza.
2. Prezzi amministrati: praticati nei mercati più stretti, esempio oligopoli o nella stessa organizzazione
tra le varie divisioni. Consento all’organizzazione di coordinarsi al suo interno. Sono amministrati
perché sono a priori stabiliti e cioè non sono frutto di una contrattazione. Esistono due tipi di prezzi
amministrati: i prezzi di trasferimento, che rappresentano il valore monetario assegnato ai beni e
servizi scambiati tra centri di responsabilità all’interno di una struttura divisionale o di un gruppo
aziendale; gli incentivi, che sono i premi economici offerti per diversi livelli di prestazione, cioè si
definiscono obiettivi e se il lavoratore raggiunge un risultato maggiore di quello prestabilito
dall’obbiettivo riceverà un premio economico stabilito a priori. Le prestazioni devono poter essere
osservate e misurate.

Scorte e code

Scorte e code sono due meccanismi che si creano in base a quelle che sono le dinamiche di mercato; sono
meccanismi del coordinamento che consentono l’aggiustamento tra domanda e offerta. Quanto più vi è la
possibilità di costituire scorte di prodotti che possono essere consegnati nei tempi in cui si manifesta la
richiesta, tanto più facile è l’aggiustamento.

Le scorte si hanno quando i beni che vengono prodotti dall’azienda sono maggiori rispetto ai beni che
vengono poi venduti sul mercato: cioè quando l’azienda non riesce a collocare sul mercato la sua
produzione, ma inevitabilmente gli resta una parte di questi beni prodotti che rappresenta l’invenduto,
quindi un accumulo di prodotti finiti di cui i consumatori non hanno alcun interesse. Per l’azienda
rappresentano un problema perché sono un costo che riguardano, oltre al costo della produzione, anche
costi relativi allo stoccaggio delle merci nel magazzino. Le code sono l’esatto contrario delle scorte: si hanno
quando il numero delle persone che vuole quel determinato bene è maggiore rispetto al numero di beni
che vengono prodotti.

Il voto
Il voto è un meccanismo di coordinamento che viene utilizzato per coordinare un grande numero di attori.
Il voto coordina e controlla le azioni utilizzando l’uscita. Si può utilizzare innanzitutto quando le alternative
sono note, nel senso che a priori le persone che esercitano il voto devono conoscerle; inoltre, devono
essere predefinite e strutturate, nel senso che le alternative devono consentire a coloro che esercitano il
voto di esprimere la loro preferenza escludendo le altre alternative.

Differenza tra prezzo e voto

Il prezzo è quel meccanismo di coordinamento che viene utilizzato per coordinare lo scambio, risolvendo
problemi di interdipendenze da transazione. Invece, il voto viene utilizzato per coordinare le
interdipendenze da azione comune, cioè che nasce quando ci sono più persone insieme la cui volontà deve
essere coordinata

Il voto ha due forme di costo:

 Costi esterni: costi di mancata rappresentanza, cioè costi che si sostengono per il fatto che non
tutte le idee possono trovare rappresentazione all’interno di un determinato organo. Sono i costi
che sopportano le minoranze e sono relativi alla democraticità del voto: più sono le persone
coinvolte più i costi diminuiscono perché aumenta la rappresentanza.
 Costi interni: costi di processo, cioè quelli che l’azienda sostiene per poter utilizzare il voto come
meccanismo di coordinamento. Più sono le persone che votano, maggiori saranno questi costi.
Quindi bisogna stabilire un quorum, un numero di persone che votano, che sia tale da consentire
un ricorso all’utilizzo del voto efficace ed efficiente, e che garantisca costi non elevati sia interni che
esterni. Il quorum è quindi l’intersezione tra la curva dei costi interni e la curva dei costi esterni.

Il principio del voto ponderato

Il voto ponderato è una particolare tipologia di voto, che esprime un peso proporzionale al numero di
persone che costituiscono l’attore collettivo votante o alle risorse da esso conferite. Ad esempio, è
utilizzato nell’assemblea degli azionisti.

Capitolo 5: Autorità e agenzia

L’autorità

L'autorità è uno dei meccanismi di coordinamento che consente ai manager di regolare le interdipendenze
in maniera efficace all’interno delle organizzazioni. È uno dei meccanismi che viene utilizzato di più,
soprattutto nelle imprese piccole dimensioni. Fa parte della seconda classe dei meccanismi di
coordinamento, che si caratterizzano per la presenza di comunicazione, che è necessaria e fondamentale.
Inoltre, la decisione non è unilaterale, ma riguarda più attori.

Una relazione di autorità è caratterizzata dalla sospensione o cessione di alcuni propri diritti di decisione da
parte di un attore e l’accettazione delle decisioni prese da un altro attore. Da un lato c’è l’individuo che
esercita l’autorità (ad esempio il manager) e dall’altro lato abbiamo l’individuo che si trova più in basso
nella gerarchia aziendale, che accetta le decisioni prese dal primo e sospende il proprio diritto di autonomia
decisionale o addirittura li cessa i propri diritti decisionali. L'autorità, quindi, prevede una relazione di
potere asimmetrica, per la presenza di due attori: uno che esercita il potere e un altro che lo subisce. È
anche una relazione di potere legittima, poiché la sospensione, cessazione e accettazione sono legittime in
quanto previste da un contratto di lavoro che contempla i diritti e i doveri delle parti all’interno delle
organizzazioni. Esistono diverse forme di autorità:

 Autorità basata sulle competenze: l’autorità nasce dal fatto che esistono delle persone all’interno
di un contesto organizzativo che hanno maggiori competenze. Affinché vengano riconosciute quelle
competenze a quell’individuo, gli viene riconosciuta anche un’autorità che esercita. Il leader,
quindi, ha maggiori competenze rispetto ai propri follower. La base della relazione di autorità è
esclusivamente la competenza, tecnica o sociale, del leader. Quest’ultima deve essere considerata
non solo maggiore di quella di chi accetta di subire la sua influenza, ma anche sufficientemente
grande in assoluto per risolvere con successo il problema in questione. L'autorità può essere
riconosciuta anche in maniera non formale, cioè il riconoscimento è fatto dai suoi stessi colleghi che
seguono i compiti dati da questa persona che ha maggiori competenze nel risolvere i problemi con
successo.
 Autorità basata sull’efficienza decisionale: in alcuni casi è necessario prendere delle decisioni in
maniera tempestiva, senza avere troppe competenze, ma l’autorità potrebbe nascere in base
all’esigenza di saper risolvere tempestivamente un determinato problema che si è creato, quindi in
base all’efficienza decisionale. È legata all’opportunità di allineare le azioni di un numero elevato di
attori interdipendenti con un numero minimo di impiego di risorse (tempo e numero di
comunicazioni tra gli attori). In questo caso si prende un lavoratore dell’azienda, che non abbia per
forza determinate competenze, e gli viene affidato il compito di governare un determinato
processo, quindi il leader, sospendendo il potere decisionale degli altri attori. Tuttavia, sebbene
questo tipo di autorità consenta all’azienda di risolvere problematiche in un lasso breve di tempo, è
anche vero che quando invece si verificano delle situazioni diverse ovvero che magari il problema
organizzativo da risolvere non ha una bassa complessità oppure che è la prima volta che si è
presentato in azienda oppure un problema particolarmente complesso, quest’autorità non è uno
schema preferibile. Di fronte a problemi complessi o completamente nuovi, un confronto di tutti
con tutti produce risultati migliori che non la decisione di un solo attore, anche qualora
quest’ultimo avesse consultato a d uno ad uno tutti gli altri. Un caso significativo al riguardo è
rappresentato dalle reti di Bavelas.
Lo studio di Bavelas ci dice che esiste un trade-off tra efficienza decisionale e necessità di affidarsi a
una decisione congiunta. Lo studioso Bavelas realizzò nel 1951 un esperimento per verificare quale
schema di comunicazione fosse più efficiente nella risoluzione di problemi che presentavano un
diverso grado di difficoltà.
Quando esiste un problema non troppo difficoltoso è meglio affidare questo problema a un solo
individuo cioè uno schema di comunicazione di tipo accentrato, a stella o a catena perché si
caratterizzano per una maggiore efficienza, che si caratterizzano per meno tempo e costi minori.
Quando invece si presentano problemi non strutturati e più difficoltosi con più soluzioni possibili,
una sola persona non basta e quindi meglio uno schema di comunicazione decentrato, cioè a rete
totale o a cerchio, perché in questo caso il potere è diviso in più persone che si scambiano
informazioni e possono prendere insieme una determinata decisione, in maniera efficace.
Schema decentrato: - rete totale, caratteristica del gruppo; - rete a cerchio, meno attori rispetto alla
rete totale.
Schema accentrato: - rete a catena, numero pari di relazioni che sono 4, c’è un soggetto che in
maniera diretta esercita autorità su 2 soggetti e in maniera indiretta esercita autorità anche sugli
altri due soggetti; - rete a stella, 4 relazioni, abbiamo un tipo di relazione diretta, cioè un leader e 4
follower che seguono l’autorità che esercita il leader.
 Autorità arbitrale: nasce dal fatto che all’interno dell’azienda vi sono dei conflitti e per risolverli si
nomina un arbitro, il quale esercita l’autorità. Trova la sua ragion d’essere nella necessità di
regolare conflitti per eccezione, quando essi non vengono efficacemente risolti dai diretti
interessati o non possono essere convenientemente risolti per via legale. L'arbitro deve avere
alcune caratteristiche: elevata competenza d’autorità sulla materia del contendere e neutralità
dell’autorità rispetto alle parti in conflitto.
 Autorità basata sullo scambio: è l’autorità tipica delle relazioni di lavoro, in quanto coinvolge più
soggetti che presentano interessi diversi. È caratteristica delle relazioni di lavoro, poiché in queste
ultime abbiamo da una parte l’azienda che mette a disposizione il capitale e il lavoro, e dall’altra i
lavoratori che rappresentano la forza lavoro (mette quindi in relazione la domanda con l’offerta di
lavoro). I lavoratori prestano le loro competenze in cambio di un corrispettivo economico richiesto
all’azienda che appunto richiede manodopera. Quindi, un individuo può cedere a un altro il diritto
di “dirigere” un certo insieme o classe determinata di propri comportamenti in cambio di una
ricompensa. In questo tipo di autorità viene appunto giustificata la legittimità come caratteristica
dell’autorità in generale.
 Autorità basata sull’efficienza nel controllo: nasce dalla necessità di controllare le prestazioni
lavorative poste in essere, utilizzata per ridurre l’incentivo al free riding, ovvero l’incentivo a
rompere l’accordo per un proprio beneficio, o anche, a cercare di ridurre i propri sforzi se questo
può essere fatto senza ridurre significativamente i propri benefici. Serve proprio per fare in modo
che i lavoratori all’interno dell’azienda non pongano in essere dei comportamenti opportunistici. I
comportamenti del free-riding si verificano quando non c’è osservabilità dei contributi individuali
all’interno di un output collettivo, i comportamenti opportunistici vengono quindi eliminati con il
controllo.

La relazione di agenzia

La relazione di agenzia è una relazione di scambio che si ha tra un attore (il principale) che delega a un altro
attore (l’agente) il potere discrezionale di agire nell’interesse del principale. Il potere discrezionale è
proprio la capacità di poter prendere delle decisioni. È un tipo di relazione che esiste in diversi contesti,
esempio quando l’imprenditore nomina un manager cedendogli parte del proprio potere discrezionale e
così via. Altro esempio è l’agente di vendita, oppure la relazione tra l’avvocato e il suo cliente. I soggetti
sono due, il principale che cede il suo potere discrezionale all’altro soggetto, l’agente che svolge l’attività
lavorativa. Nell’autorità basata sullo scambio i diritti di decisione e controllo rimangono al principale; nella
relazione di agenzia l’agente contrae anche il diritto e l’obbligazione di scegliere i propri comportamenti nel
miglior interesse del principale.

Nella relazione di agenzia la più grande criticità è l’asimmetria informativa tra principale e agente: si
suppone che i comportamenti dell’agente non siano osservabili dal principale, quindi le informazioni che
arriveranno al principale potrebbero essere filtrate dall’agente che avrà dei comportamenti free-riding, e,
che i risultati dipendano anche a fattori esogeni. Ciò significa che il principale può fare un controllo ex post
sull’agente valutando i suoi risultati, ma comunque questi ultimi non dipendono solo da quell'individuo
quindi fattori endogeni ma anche da fattori esogeni.

Meccanismi per il rispetto della relazione di agenzia

 Sistema di incentivi contingenti ai risultati: l’azienda stabilisce degli obiettivi in base ai risultati
raggiunti, così che all’aumentare dei risultati aumentano gli incentivi che gli agenti potrebbero
ottenere. Serve ad allineare i comportamenti dell’agente in base agli obiettivi prefissati e a ridurre il
rischio derivante da asimmetria informativa.
 Sistemi di controllo delle performance: siccome il principale non è in grado di osservare e quindi
rilevare quello che è lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte di un agente, lo può fare ex post
controllando la sua prestazione lavorativa. Servono sempre ad allineare i comportamenti
dell’agente rispetto agli obiettivi dell’organizzazione.

Le patologie dell’autorità

La patologia è una situazione non ordinaria nel funzionamento di un’attività, che dev’essere curata. Per
quanto riguarda la relazione d’autorità, a volte capita che la situazione tra i due soggetti possa sfociare in
una situazione patologica, cioè una condizione anormale che deve essere modificata per rientrare nella
modalità giusta. Le patologie dell’autorità sono 4:
1. Autoritarismo: è quella patologia in cui il leader pone in essere un comportamento particolarmente
aggressivo verso i subalterni e pretende di essere servito, quindi le sue non sono richieste ma
pretese; l’autorità a dirigere un certo comportamento di una persona diventa un diritto generale a
dirigere qualsiasi comportamento. Si trascurano gli scambi sociali di un’organizzazione che
necessariamente si accompagnano all’esercizio dell’autorità, per questo le persone possono
trovarsi male e non riescono a svolgere correttamente la loro attività lavorativa. Il compito
dell’organizzazione è quello di rilevare determinati comportamenti autoritari e se è possibile o
ridurli o eliminarli per permettere alle persone di lavorare con più serenità ed essere più
performanti.
2. Manipolazione: è quella patologia che si verifica quando, in nome e in virtù di un rapporto di
amicizia e di stima tra leader e follower, si chiede al subalterno di accettare azioni che vanno al di là
dell’accordo di cooperazione: è un comportamento socialmente illegittimo. La manipolazione può
avvenire anche da parte del subalterno che, in virtù di un rapporto di stima e di amicizia, chiede al
superiore trattamenti privilegiati.
3. Paternalismo: è quella patologia in cui il superiore evita di far svolgere alcune attività lavorative ai
propri subalterni limitandoli nella loro autonomia e impedendogli di acquisire quelle conoscenze e
competenze che si acquisiscono sul campo. Si confonde la relazione di lavoro dipendente con una
relazione padre-figlio in cui il padre è il decisore competente e lungimirante che provvede agli
interessi del figlio non ancora in grado di giudicare. Si basa su condizioni di grande disparità nei
livelli di istruzione, autostima e maturità delle persone. Il subalterno ne perde nel fatto che può
mostrare le proprie capacità all’interno dell’organizzazione, nella possibilità di mettersi in gioco e di
acquisire quelle conoscenze e competenze che gli consentirebbero di poter svolgere meglio la sua
attività lavorativa e quindi di essere più performante sia a livello individuale che collettivo.
4. Permissivismo: si tratta di una patologia di origine prevalentemente affettiva, in cui il principale è
particolarmente permissivo nei confronti dei subalterni, talmente tanto che gli consente di
prendere delle decisioni al suo posto e di svolgere delle attività lavorative al posto del principale
stesso. Se le relazioni sociali e interpersonali sono buone, può essere difficile dare feedback negativi
e rilevare inadempienze, in questo caso c’è la criticità perché manca una persona di polso e quindi
una guida. Nel momento in cui manca una guida, i subalterni possono dirigersi come meglio
credono e questo può incidere nelle loro performance. È una patologia opposta a quella della
manipolazione, in quanto prevedere l’imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive.

I costi dell’autorità e dell’agenzia includono:

 Costi di informazione e comunicazione: ci sono molti scambi informativi e di comunicazione


necessari, a seconda dello schema di comunicazione che si utilizzano: gli schemi accentrati costano
di meno, mentre gli schemi decentrati costano di più poiché ci sono più persone;
 Costi di influenza: intesi anche come potere-influenza, maggiore è questo rapporto maggiori
saranno i costi;
 Costi di struttura: maggiore è il numero di persone coinvolte nelle relazioni di autorità, maggiori
saranno i costi, e viceversa.
 Perdita di controllo e inerzia
 Indifferenza, indulgenza e alienazione

La leadership

La leadership è una forma di problem solving organizzativo che mira a raggiungere gli obiettivi organizzativi
attraverso l’influenza altrui. È quindi un processo, collegato con la variabile tempo, di influenza sugli altri,
ovvero una persona diventa un leader agli occhi di persone che lo seguono in maniera consequenziale, cioè
step by step, poco alla volta. È la capacità di influenzare, che alcuni individui hanno, e farsi seguire senza
imposizioni. Infatti, si distingue sia dall’autorità che invece è quando una persona esercita un potere
conferitogli dall’organizzazione. Si distingue anche dall’imposizione in quanto le persone scelgono
liberamente chi è il loro leader senza che l’organizzazione glielo imponga.

Distinzione tra leadership e headship

Leadership= leader che guida i seguaci in nome dell’autorità che gli stessi gli hanno conferito, senza
imposizioni, non previsto dal contratto lavorativo.

Headship= il capo (boss) che guida i subordinati in virtù dell’autorità che ha ricevuto a un’autorità
superiore, quindi c’è imposizione ed è legittimata dal contratto lavorativo.

Caratteristiche di un buon leader:

Motivazione; essere un esempio per gli altri; ispirazione; osservazioni degli altri; supporto delle persone che
lavorano con lui; incoraggiamento; comunicazione chiara; integrità morale; essere stimolante; avere una
vision ben chiara da veicolare ai suoi seguaci; focus sul team.

Teorie della leadership

Individui in posizioni organizzative con l’autorità legittima di prendere decisioni che condizionino gli altri.

1. Teoria dei tratti della personalità, leader naturali: un leader che è tale in base alle caratteristiche
naturali della propria personalità o in base alla genetica della persona, quindi anche leader naturali.
La personalità dei leader efficaci è diversa da quella di chi non è leader. Caratteristiche generali dei
leader:
 Capacità: abilità individuale a risolvere problemi, esprimere giudizi in generale, a lavorare
duramente;
 Achievement: i leader efficaci tendono ad avere risultati universitari migliori, maggiori conoscenze e
ad essere atleti migliori rispetto a leader inefficaci;
 Responsabilità: i tratti specifici sono l’affidabilità, l’iniziativa, la persistenza, l’aggressività, la fiducia
in se stessi e il desiderio di eccellere;
 Partecipazione e coinvolgimento: i leader efficaci tendono ad essere più attivi e più socievoli, ad
aver maggior capacità di adattarsi alle diverse situazioni e a mostrare un più alto livello di
cooperazione rispetto ai leader inefficaci;
 Status: i leader efficaci hanno un più alto status socio-economico e sono più popolari di quelli
inefficaci.

Le dimensioni della personalità dei leader efficaci sono le seguenti (McClelland, 1975; 1985):

 bisogni di potere predominanti sui bisogni di affiliazione: un basso desiderio di affiliazione implica
che l’individuo non necessita né di interazione con gli altri, né tanto meno di accettazione positiva;
 alta inibizione al potere: l’inibizione significa che la persona è disciplinata ed ha un forte
autocontrollo nell’uso del potere.
2. Teoria comportamentale: si basano sui comportamenti che un buon leader dovrebbe avere. Il
comportamento dei leader efficaci è diverso da quello di chi non è leader.
Principali classi di comportamento: distribuzione del potere decisionale (leadership autocratica,
leadership partecipativa, leadership laissez-faire) e compiti e comportamenti sociali (ricerche della
Ohio State University, ricerche della University of Michigan).
L’Ohio State University sostiene che un buon leader instaura relazioni di lavoro basate sulla fiducia
reciproca e sul rispetto per le idee dei collaboratori. Il comportamento del leader definisce e
struttura il rapporto di lavoro attraverso schemi e modelli organizzativi. The University of Michigan,
invece, suppone che un buon leader debba basare i suoi comportamenti sulla leadership di
produzione: un capo è principalmente interessato ad avere alti livelli di produzione e per ottenerli
esercita forti pressioni. Un buon leader deve anche basare i suoi comportamenti sulla leadership di
relazione: è tipico dei capi interessati ai sentimenti dei collaboratori e che tentano di creare
un’atmosfera di mutua e reciproca fiducia.
3. Teorie contingenti: l’efficacia degli stili di leadership dipende dalle condizioni di contesto. Il
modello di Fiedler spiega come l’orientamento della leadership, la composizione del gruppo e le
caratteristiche del compito interagiscono nell’influenzare le performance di gruppo. Il modello di
Fiedler è la prima teoria che abbia sistematicamente tenuto in considerazione fattori istituzionali.
Viene considerato l’orientamento del leader e non il suo comportamento, orientamento che è la
funzione dei bisogni e della personalità del leader. Essendo l’orientamento di leadership
relativamente stabile, non è probabile che un leader cambi orientamento confrontandosi con
situazioni diverse, anche se può cambiare il proprio comportamento. Un elemento di debolezza del
modello di Fiedler è che non viene considerata l’abilità del leader. La teoria della risorsa cognitiva
integra la teoria contingente di Fiedler con un insieme di dimensioni, denominate risorse cognitive.
Presupposto: i leader più intelligenti e con maggiore esperienza possono prendere decisioni migliori
di quelli meno intelligenti e con minore esperienza.
La teoria del percorso-obiettivo collega il comportamento del leader alla performance utilizzando la
teoria motivazionale dell’aspettativa-valenza. Per raggiungere i risultati organizzativi desiderati,
alcuni compiti vengono eseguiti: i risultati sono l’obiettivo ed i compiti sono il percorso. Il ruolo del
leader è di assicurare che il percorso verso l’obiettivo risulti chiaro ai collaboratori e che non vi
siano barriere al conseguimento dell’obiettivo.
4. Teorie del processo: spiegano i processi attraverso i quali si sviluppa la relazione tra i leader e i
collaboratori o potenziali follower. La teoria della leadership trasformazionale spiega come i leader
sviluppino e aumentino il coinvolgimento dei follower. Il leader trasformazionale è diverso dal
leader transazionale. La teoria del leader trasformazionale si basa sugli effetti del leader sui valori,
sull’autostima, sulla fiducia dei follower e sull’impatto motivazionale ad avere una performance al
di là del proprio dovere. Lo stile del leader trasformazionale consiste nell’utilizzare il proprio
carisma, creare ispirazione, utilizzare la considerazione, stimolare intellettualmente. Nella teoria del
leader transazionale, il leader e i collaboratori sono agenti di negoziazione, che trattano per
massimizzare la propria posizione relativa. Lo stile del leader transazionale consiste nell’utilizzare
ricompense contingenti, gestire per eccezioni e assumere un approccio permissivo.
La teoria della relazione verticale diadica si concentra sulla relazione tra il leader dei collaboratori,
considerando le risposte di entrambi gli attori rispetto alla loro stessa relazione. Secondo la teoria
della relazione verticale diadica, la leadership può essere analizzata in termini di relazioni di ruolo
tra manager e collaboratori. I manager devono assicurare che le relazioni di ruolo superiore-
collaboratore siano ben definite. Manager e collaboratori negoziano queste relazioni di ruolo
attraverso una serie di processi formali ed informali. L’accordo tra il leader ed i collaboratori viene
misurato con riguardo al grado di fiducia nella relazione, la competenza dei collaboratori, la lealtà
ed altri fattori analoghi. Le relazioni leader e collaboratori sono classificate in due tipi di categorie:
 Le relazioni in-group, per cui il leader dedica molto tempo ed energia in esse; i componenti del
team hanno atteggiamenti più positivi nei confronti del lavoro e vi sono meno problemi che nelle
relazioni out-group.
o Le relazioni out-group, per cui i leader spendono minor tempo nel prendere decisioni, non si
candidano volontari per attività extra e hanno valutazioni basse da parte dei collaboratori.

Stili di direzione:

o Orientamento positivo verso le persone


o Capacità di dare feedback
o Consapevolezza delle fonti da cui deriva l’autorità
o Capacità di discernere il grado di delega efficace nello svolgimento delle attività.
Classificazione dei comportamenti del leader

La
Managerial Grid di Blake e Mouton (1964)
Stile autoritario, forte ricorso al compito (9) e basso livello sulle relazioni (1). Stile partecipativo, basso
ricorso al compito (1) e forte ricorso alle relazioni (9). Questi due sono agli antipodi. Stile laissez-faire,
assenza sia il compito (1) che in relazioni (1). Stile team, elevato orientamento al compito (9) ma anche alle
relazioni (9).

Gli stili più efficaci sono quelli che si trovano nel secondo quadrante, orientamento al compito da 1 a 4,5,
orientamento alle relazioni da 5 a 9. Lo stile a metà strada è quello che si trova facilmente in tutte le
organizzazioni. Si trova a metà strada perché si caratterizza per un medio orientamento al compito e un
orientamento intermedio alle relazioni.

Capitolo 6: Il gruppo

Il gruppo è un insieme di due o più individui che interagiscono e dipendono gli uni dagli altri per il
raggiungimento di un obiettivo comune. I requisiti che fanno un gruppo sono 3:

1. numerosità: il gruppo può essere di due persone (diade), tre persone (triade) oppure piccoli gruppi
(7-8 persone) o grandi gruppi (più di 8 persone) (almeno due persone);
2. scambio: sull’interazione che hanno i membri del gruppo tra di loro. Secondo lo schema di Bavelas,
è uno schema totale proprio perché tutti devono interagire con gli altri come condizione necessaria
poiché dipendono gli uni dagli altri.
3. finalità comune: tutti i membri devono avere la stessa finalità.

I motivi che spingono gli individui ad aggregarsi sono diversi. I principali sono 4:

1. Caratteristiche personali: condivisione di valori, bisogni di sicurezza (per sentirsi più al sicuro
essendoci più persone), bisogni di affiliazione (sentirsi parte integrante di qualcosa).
2. Interessi e obiettivi: confronto intellettuale (confrontarsi appunto con altre persone su quello che è
il tema del gruppo che rappresenta il comune denominatore delle persone che ne fanno parte).
protezione (il gruppo fa da scudo tra il singolo individuo e il mondo esterno), attenzione e amicizia
(consente a una persona di creare nuove amicizie o potenziare quelle già esistenti).
3. Potere di influenza: potere negoziale (rispetto al singolo, il gruppo ha maggior potere di influenza
perché rappresenta più persone), influenza reciproca (ci si può influenzare a vicenda tra i membri
del gruppo).
4. Opportunità di interazione: prossimità fisica (le persone si conoscono per prossimità e che quindi
ha sviluppato un’interazione tra i membri del gruppo), previsione di interazioni future (fare amicizia
con una persona oggi perché penso e prevedo che in futuro quella relazione mi potrebbe essere
utile per raggiungere altre finalità).

Si può costituire un gruppo o entrare a far parte di un gruppo anche per l’insieme di più motivi sopracitati. Il
gruppo possiamo vederlo sottoforma di una duplice veste. Il gruppo in generale è un insieme di persone
che interagiscono e dipendono gli uni dagli altri per raggiungere una finalità comune; non per forza un
gruppo è un gruppo di lavoro. Infatti, i gruppi di lavoro sono quelli che si costituiscono all’interno di
un’organizzazione, e quindi, dove si inseriscono gli individui che devono raggiungere una determinata
finalità. Questi gruppi di lavoro, che si chiamano team, si possono formare in maniera spontanea, anche se
non avviene molto spesso. Un esempio sono i gruppi di ricerca: non è l’organizzazione che decide la
creazione di questi gruppi, ma gli individui stessi per condividere lo stesso interesse. Nella maggior parte
dei casi sono le stese organizzazioni che decidono i gruppi, quindi il team e le persone che ne fanno parte
viene definito dall’alto. In questo caso le dinamiche sono diverse: nel gruppo spontaneo le persone,
conoscendosi e trovandosi bene, saranno molto motivate e il grado di performance sarà molto elevato.
Quando è il manager a creare i gruppi di lavoro e a inserire le persone, possono crearsi delle problematiche
di tipo socio-emotivo e funzionale tra le persone che ne fanno parte le quali potrebbero non essere molto
compatibili fra di loro, Questo crea delle difficoltà nella comunicazione, interazione e anche nei rapporti
sociali; di conseguenza, anche la performance del gruppo potrebbe risentirne.

Il gruppo come strumento di comunicazione e decisione

Viene formato o si forma per poter prendere una decisione all’interno dell’organizzazione. Nascono quando
c’è un problema particolarmente importante e complesso, che il singolo manager non è in grado di
risolvere. Si decide, quindi, di creare un gruppo di lavoro e assegnare la risoluzione di quel problema a più
persone che, avendo conoscenze e competenze diverse, riescono a ottenere un vantaggio in termini
cognitivi e motivazionali rispetto al singolo individuo che in quel caso sarebbe meno performante.

Il gruppo come strumento di controllo

Si forma per poter controllare lo svolgimento di attività lavorative all’interno di un contesto. Poiché ci sono
dei comportamenti di free-riding che potrebbero compromettere la performance del gruppo, si può
utilizzare il gruppo anche come strumento di controllo, ovvero si chiede ai membri del gruppo di valutare
quello che hanno fatto tutti gli altri. Questo consente di rilevare i comportamenti opportunistici
correggendoli e ci si rimette in carreggiata.

Caratteristiche del gruppo:

- Rete di comunicazione totale: secondo lo schema di Bavelas è uno schema totale quello a cui fa
riferimento il gruppo, per questo tutti i membri devono interagire tra loro per raggiungere
l’obiettivo.
- Parità di condizione e capacità di influenza equilibrate: tutti i membri del gruppo devono avere
l’opportunità di poter influenzare gli altri allo stesso modo, cioè per avere un gruppo efficace devo
inserire delle persone di pari grado.
- Non c’è conflitto di interessi, comuni o compatibili: non deve esserci conflitto di interessi che si ha
quando l’obiettivo del singolo diverge rispetto all’obiettivo del gruppo, e quindi quel singolo
persegue un suo obiettivo personale. Quindi gli interessi devono essere comuni o compatibili ma
non in conflitto tra di loro. Il meccanismo centrale del gruppo è il confronto, cioè lo strumento che
nasce con l’obiettivo di prendere decisioni che serve appunto come risoluzione di problemi
complessi. Il confronto, quindi, è importante perché in questo modo si crea una somma di quasi-
competenze individuali produce una competenza collettiva.

Vantaggi del gruppo

- Vantaggi cognitivi: il gruppo riduce le distorsioni cognitive tipiche della razionalità individuale
(distorsioni di framing) perché si vedono più prospettive del problema.
- Vantaggi motivazionali: la partecipazione ai processi decisionali è spesso un fattore di accettazione
e convinzione sulle azioni da compiere. Infatti, il gruppo può dare più motivazione alle persone che
preferiscono lavorare con altre persone e in questo modo le persone saranno più soddisfatte e
quindi anche più performanti a vantaggio delle organizzazioni.

Efficacia del gruppo

Il gruppo è efficace quando non ci sono conflitti di interesse, quando gli interessi sono utilizzati per fissare
obiettivi generali e non parametri di valutazione, quando la differenziazione cognitiva e la pressione sui
tempi e sui risultati assumono valori intermedi. La differenziazione cognitiva riguarda l’omogeneità del
gruppo perché le persone hanno un background diverso tra loro: più omogeneo è il gruppo, meno c’è
differenziazione e viceversa.
Condizioni di efficacia del gruppo

Se la differenziazione cognitiva è bassa, ci troviamo in una parte bassa del gruppo e questo dà una patologia
al gruppo, “group-think”. Se ci sono persone con background troppo diversi tra loro ci saranno problemi di
comunicazione e di scambio, rendendo così il gruppo inefficace. Se la differenziazione cognitiva invece è
alta ci troviamo nell’altro lato del grafico; l’efficacia è bassa e ci troviamo nell’area dell’”impasse”
informativo, altra patologia del gruppo. Se tutte le persone hanno background uguali tra di loro, quindi
uguali a quelle del singolo, è inutile perché è come se ci fosse solo l’efficacia del singolo.

Se la pressione sui tempi e sui risultati è troppo forte, metto il gruppo di risolvere il problema in poco
tempo e quindi il gruppo sarà inefficace. Se non esercito alcuna pressione sui tempi, le persone non si
concentrano sullo svolgimento del lavoro ma sulle relazioni.

Patologie della decisione di gruppo

Il gruppo si trova in una situazione patologica quando è inefficace. Bisogna sanare la situazione e
intervenire identificando le patologie del gruppo.

 Pressioni di gruppo sul singolo fenomeno dell’omologazione (esperimenti di Asch): all’interno dei
gruppi, soprattutto all’interno dei gruppi di lavoro, inevitabilmente ci sono dei membri del gruppo
che esercitano delle pressioni sugli altri, in maniera consapevole o inconsapevole. La pressione che
uno o più membri del gruppo esercitano sul singolo individuo spinge quest’ultimo ad adattare e
omologare la propria decisione a quella che è la decisione presa dalla collettività per evitare anche
che si creino conflitti all’interno del gruppo. Tra i diversi studi su questo tema, quelli più noti sono
quelli fatti da Asch, per esempio l’esperimento sulla scelta della lunghezza delle linee.
 Gruopthink (cecità e mancanza di senso critico): groupthink significa come parola “pensiero di
gruppo”. Si ha quando il bisogno di consenso e coesione nel gruppo prevale sull’importanza di
prendere la decisione corretta e di attivare un processo decisionale efficace. Nasce dalla pressione
cognitiva di gruppo, di solito esercitata dall’esterno, ad esempio quando c’è qualche manager o
dirigente d’azienda che effettua pressione sul gruppo di lavoro e sui suoi membri, soprattutto su
quelli che sono i tempi o risultati. Il problema sta nel fatto che quando si esercita un’elevata
pressione sui componenti del gruppo, spingendoli a prendere in poco tempo una determinata
decisione, può capitare che queste persone pur di soddisfare quelle che sono le richieste della
dirigenza di fatto prenderanno una decisione che non è la più idonea a risolvere quel problema.
Alcune caratteristiche delle decisioni prodotte in regime di groupthink sono la propensione al
rischio, pressione al conformismo e illusione di invulnerabilità del gruppo.
Questa patologia ha provocato diverse volte dei disastri nella storia: è il caso di alcune aziende
automobilistiche che hanno lanciato sul mercato dei veicoli ancor prima che fossero di fatto pronti,
per non andare contro la dirigenza, ma che poi sono state ritirate dal mercato per terminare il
processo di ‘creazione’ dell’automobile. Un altro esempio è quello dello shouttle durante la guerra
fredda, che forse non era ancora pronto e c’erano delle criticità ancora da risolvere; infatti, dopo
pochi secondi dal lancio, lo shouttle esplose e le persone che stavano a bordo morirono.
 Produzione di squadra e deresponsabilizzazione dei singoli: quando si lavora in gruppo, l’output
prodotto è comune. Quando ci troviamo di fronte a una produzione di squadra non siamo in grado
di capire qual è stato il contributo del singolo a quello che è la produzione di squadra, ovvero
quanto ha contribuito per il raggiungimento dell’output collettivo. Questo si lega all’effetto della
deresponsabilizzazione del singolo, che, consapevole che nessuno sarà mai in grado di definire qual
è stato il suo contributo e la sua partecipazione all’output del collettivo, potrebbe
deresponsabilizzarsi e quindi non impegnarsi a pieno nelle capacità che ha. Se le persone si
deresponsabilizzano il gruppo diventa quindi inefficace.
 Tendenza da parte dei membri di un gruppo a rafforzare il proprio punto di vista dominante e
iniziale in seguito alla decisione di gruppo (polarizzazione): è la conseguenza all’impasse di gruppo,
ovvero quando si crea un gruppo troppo eterogeneo la comunicazione è inefficace. Proprio in base
a questa difficoltà di comunicazione, alcune persone si polarizzano su un’alternativa, altre su
un’altra, e quindi se nessuno cambia idea tramite il confronto, e quindi se non si va su una
posizione tutti insieme, ci troviamo in una situazione di stallo. È necessario il confronto per cercare
di risolvere questo problema per far sì che qualcuno converga nell’alternativa degli altri.

Supporti alla decisione di gruppo

Si tratta di condizioni o situazioni che consentono al gruppo di prendere una decisione in maniera efficace,
cioè supporti che favoriscono il gruppo come strumento di comunicazione e decisione.

 Coinvolgimento nella definizione dei problemi: è molto importante che vi sia un adeguato
coinvolgimento di tutti i membri del gruppo in tutte le fasi sia di decisione che di definizione del
problema. Affinché il gruppo sia efficace bisogna definire bene il problema per ridurre al minimo le
distorsioni cognitive tipiche della razionalità limitata.
 Generazione di alternative libera e indipendente: le alternative che i membri del gruppo devono
generare devono essere generate in maniera libera e indipendente, cioè una persona deve avere la
capacità e deve essere messo nelle condizioni di generare delle alternative senza nessun tipo di
vincolo e influenza.
 Conflitti su problemi, non con le persone: bisogna creare le condizioni in cui all’interno del gruppo
se ci sono conflitti devono essere sul task, ovvero sul problema da risolvere, perché in questo caso
le persone si impegnano a trovare delle soluzioni, ma non ci devono essere conflitti interpersonali.
Inevitabilmente si vanno a creare tutta una serie di dinamiche che porta il gruppo in una condizione
di inefficacia poiché le persone non comunicheranno correttamente tra di loro.
 Differenziazione dei ruoli: all'interno dei gruppi spesso vi sono dei ruoli diversi, ed è giusto che sia
così. L’importante è che questi ruoli siano ben differenziati, cioè che nessuno all’interno del gruppo
abbia più ruoli perché altrimenti questo creerebbe dei conflitti.

Costi e limiti applicativi della comunicazione e decisioni di gruppo

 Dimensioni del gruppo: al crescere del numero degli attori da coordinare, i costi crescono in
ragione del numero di connessioni possibili tra le parti.
 Importanza delle decisioni: il gruppo deve essere utilizzato come meccanismo di coordinamento
solo se le decisioni sono non strutturate, perché l’importanza delle attività giustifica i costi di
processi decisionali ampi. Se sono decisioni routinarie e non ampie è meglio utilizzare il
meccanismo dell’autorità poiché costa di meno.
 Conflitti tra interessi: l’obiettivo del gruppo deve essere comune per prendere la decisone giusta in
comune. Questo ovviamente è possibile quando non ci sono conflitti di interesse, cioè gli quando gli
interessi del gruppo devono essere gli stessi del singolo individuo, cioè quando vi è un allineamento
tra obiettivi di gruppo e obiettivi di singoli individui. I costi, quindi, sono tanto più alti quanto più vi
sono interessi in conflitto tra i componenti del gruppo.

Gruppo come meccanismo di controllo

Per l’efficacia del gruppo come sistema di controllo c’è bisogno sia di una pressione su risultati e tempi, ma
anche una rappresentazione cognitiva dei membri del gruppo che sia intermedia. Qualcosa cambia quando
si crea il gruppo come strumento di controllo perché corrisponde a una logica diversa: l’obiettivo è quello di
cercare di valutare il contributo dei propri membri alla produzione di squadra laddove ci si trovi in due
particolari situazioni, ovvero: -quando i contributi individuali non sono discernibili nel senso che il gruppo
produce un output collettivo e quindi non ho tanti output individuali e il manager non può valutare il
contributo del singolo; -situazione di produzione di gruppo o di squadra. E allora quando un manager non è
inserito in un gruppo di lavoro dove vi sono altre persone che dovrebbero essere valutate, come fa ad
individuare il contributo del singolo nella produzione di squadra? Quando si decide di inserire una persona
in un gruppo si hanno delle aspettative e se quella persona si impegna di meno rispetto a quanto
preventivato conseguentemente quel gruppo sarà meno efficace da quanto si prospettasse all’inizio quindi
una situazione non idilliaca di patologia del gruppo che va risolta. Per poter appunto valutare i singoli
individui all’interno dei gruppi, si utilizza il gruppo come strumento di controllo, perché il manager che non
è inserito all’interno del gruppo non è in grado di osservare i comportamenti dei singoli che invece fanno
parte di quel gruppo di lavoro né tantomeno è in grado di valutare. Quindi cosa fa il manager? Chiederà agli
altri membri del gruppo di valutare i propri componenti. Es. Triade che ha come membri del gruppo A, B e
C: il manager chiederà ad A cosa hanno fatto B e C osservandoli e valutandoli; dopodiché chiederà a B di
valutare A e C; e poi infine chiederà la stessa cosa a C per quanto riguarda la valutazione di A e B. Alla fine il
valutatore che all’interno di quel gruppo non c’è avrà comunque una panoramica generale del contributo di
questi tre membri alla produzione di squadra. Il problema per i gruppi piccoli può risultare quando un
membro del gruppo abbia un conflitto con un altro membro e conseguentemente avrebbe una valutazione
negativa dal primo. Esempio nella triade sopracitata, se B è in conflitto con A, quest’ultimo potrebbe
valutare il primo male, ma non perché si impegna poco ma perché magari il conflitto che è interpersonale
porta A a valutare male B, che però mentre avrebbe la valutazione negativa di A, potrebbe avere una
valutazione negativa da parte di C; nel momento in cui il manager si trova davanti queste due valutazioni
senza sapere del conflitto tra A e B, avrà dei problemi. Altro problema sorge quando i membri del gruppo
sanno di essere valutati in base ai colleghi potrebbero mettersi d’accordo tra di loro falsificando la
valutazione. Me nei gruppi un po’ più grandi es. 6 persone o più queste dinamiche si verificano di meno
perché comunque sarà difficile mettersi tutti d’accordo sul falsificare la valutazione e, inoltre, laddove ci
siano conflitti tra due membri del gruppo, questi si evincono chiaramente poiché se un membro avrà tutte
valutazioni positive e solo una negativa, si capisce che c’è un conflitto tra quelle due persone. Quindi, al
crescere della numerosità dei gruppi le valutazioni tendono ad essere un poco più obiettive, ma comunque
frutto della percezione soggettiva dei membri del gruppo.

Le fasi che caratterizzano il controllo di gruppo sono 3:

1. Rilevazione: rilevazione del contributo di ogni membro del gruppo alla produzione di squadra
tramite l’osservabilità reciproca, cioè attraverso la visibilità dei risultati o attraverso la visibilità dei
comportamenti. Limiti: dimensione del gruppo (quando il gruppo è piccolo, è facile osservare tutti i
membri; quando il gruppo è grande, al crescere della numerosità si è meno in grado di osservare gli
altri), grado di divisione del lavoro (quanto il lavoro all’interno del gruppo è suddiviso dai membri
che ne fanno parte: tanto più il gruppo è suddiviso al suo interno, tanto più è difficile l’attività di
rilevazione perché sarà difficile da un membro di un sottogruppo di osservare il membro di un altro
sottogruppo), complessità informativa (quando le informazioni sono troppe o troppo scarse: al
crescere della complessità informativa non si è in grado di osservare i comportamenti che gli altri
pongono in essere).
2. Valutazione: è possibile valutare il contributo di ogni membro alla produzione di squadra se alla
base c’è stata una prima attività di osservazione dei comportamenti, cioè di rilevazione. Per
valutare non basta osservare i comportamenti, ma è necessario che ci sia diffusione ed omogeneità
delle competenze e la creazione di aspettative chiare e condivise sul sistema dei ruoli e sui modelli
specifici di comportamento. È necessario che i background siano abbastanza omogenei per riuscire
a valutare quei comportamenti; al contrario, se i background sono troppo eterogenei, i
comportamenti degli altri possono essere rilevati correttamente, ma poi sarà difficile valutarli in
base a ciò che hanno contribuito alla produzione di squadra non avendo quelle conoscenze e
competenze idonee per questo tipo di attività. Ad esempio, un filosofo avrà a difficoltà a valutare
un ingegnere perché i due non hanno conoscenze e competenze affini. Limiti: attività nuove e
innovative (quando le attività non sono mai state svolte in precedenza e si caratterizzano per un
elevato livello di innovatività, allora ci potrebbero essere problemi nella valutazione).
3. Ricompensa o sanzione: gli individui che si impegnano dovrebbero essere ben ricompensati,
mentre quelli che non si impegnano sanzionati. Prescindendo dalle ricompense monetarie,
abbiamo anche delle ricompense sociali, quali: lo status (cioè far parte di un determinato gruppo), il
potere, la stima (da parte dei membri del gruppo ma anche da parte degli altri gruppi e
dell’organizzazione in generale ma anche di se stesso), l’appartenenza (far parte di un gruppo
significa appartenere a qualcosa che fa da scudo a quella persona dal mondo esterno). Limiti: grado
di diversificazione degli impegni di una persona; possibilità di ottenere ricompense in altri gruppi.

Costi e limiti del controllo di gruppo

 Trade-off tra investimento in capacità di decisione e investimento in capacità di controllo: quando


si crea un gruppo, il manager deve effettuare una scelta a priori. Deve decidere se ha bisogno di un
gruppo che prenda delle decisioni: in questo caso investe in capacità di decisione e crea un gruppo
come strumento di comunicazione e decisione e inserisce persone che hanno un background più
eterogeneo. Processi efficaci di decisioni di gruppo richiedono un investimento in varietà e mobilità
dei membri, diversità dei giudizi e conflitto di opinione. Se, invece, vuole avere il controllo
all’interno del gruppo deve creare un gruppo come strumento di controllo e quindi inserire
all’interno un background più omogeneo. Processi efficaci di controllo di gruppo richiedono stabilità
e affinità dei membri, conformità di giudizio e di aspettative sui comportamenti e le azioni del
gruppo dei suoi componenti.
 Perdita di controllo: il gruppo come strumento di controllo è efficace quando riesce a mantenere il
controllo. In alcune situazioni il controllo può venire meno: quando i membri all’interno del gruppo
sono meno capaci di rilevare e valutare il contributo del singolo all’output collettivo. Questo
succede quando: la natura delle attività sta cambiando e quindi il gruppo prima faceva delle cose
adesso ne fa di diverse e quindi innovative e quindi non si hanno benchmark per la valutazione
della produzione di squadra; il sistema sta apprendendo nuovi comportamenti attraverso l’uso degli
spazi di discrezionalità e adattamento lasciati dai processi di controllo; la forma di controllo
adottata sta entrando in crisi e si afferma la necessità di ricorrere ad altri meccanismi del
coordinamento.
 Tensioni di ruolo: si hanno quando ci troviamo di fronte a: incongruenza di ruolo (la formazione di
aspettative nei confronti delle persone che svolgono determinate attività, senza che a queste
persone vengano messi a disposizione i mezzi per assumere quel ruolo), conflitti di ruolo e tra i ruoli
(se un attore appartiene a più gruppi e i diversi gruppi hanno aspettative diverse con riguardo alle
stesse attività, il ruolo risulterà definito in modo conflittuale e ambiguo).
 Devianza: si ha quando i membri del gruppo non accettano deliberatamente ad uniformarsi a
quelle che sono le norme e i ruoli, quindi si crea un certo grado di devianza dalle norme e dai ruoli
attesi. Lo slittamento dei comportamenti rispetto a quelli attesi può essere fonte di apprendimento
per tentativi o errori di nuovi comportamenti.

Team building: i processi di gruppo

I processi sono intesi come quello che normalmente accade quando mettiamo delle persone a lavorare
insieme e queste persone sono interdipendenti gli uni con gli altri per raggiungere una stessa finalità
cosicché il contributo dell’uno è importante per raggiungere la finalità facendo in modo che ognuno agisca
secondo le proprie conoscenze e competenze. I processi possono essere decisionali: cioè riguarda il
processo che permette di prendere una decisione nel momento i cui ci sono più persone e una tra tante ha
un maggior potere inteso come potere di influenza nei confronti degli altri che appunto si accoderanno ad
essa anche se sono tutti colleghi, semplicemente una persona ha una certa attitudine e delle doti particolari
che lo portano a primeggiare all’interno del gruppo. I processi relazionali: quando diverse persone lavorano
insieme e anche per indole umana le persone entrano in competizione che in alcuni casi si tramuta in
conflitti funzionali o anche in conflitti patologici. Spesso la fonte di questi ultimi si basa sul punto di vista
relazionale, cioè alcune persone che non si sopportano e il gruppo diventerà inefficace. Il processo
decisionale si pone l’obiettivo di risolvere un determinato problema, ovvero ha l’obiettivo di per prima cosa
definire il problema, e poi si ricercano le informazioni e le alternative per la risoluzione, e, infine si scegli la
migliore decisione (scelta ottimizzante) o quella più idonea (scelta soddisfacente): si tratta di problem
solving.

Vantaggi e svantaggi del processo decisionale di gruppo

Team building
Per team building si intende un insieme di attività formative, che vengono svolte al fine di aumentare la
coesione dei membri di un gruppo, cioè per consentire al gruppo di formarsi in termini di coesione e
coesione e creare quelle premesse che consentono ai membri del gruppo di svolgere l’attività e superare i
conflitti relazionali ed essere proattivi per raggiungere l’output di gruppo anche attraverso la
comunicazione, la coesione e la cooperazione. sono attività formative definite come team games, team
experience, team wellbeing (ludiche, esperienziali o di benessere). Molte aziende sfruttano le potenzialità
date da questa attività quando si trovano di fronte a un gruppo costituito da poco o quando il gruppo è in
crisi o ancora quando sotto stress o semplicemente non ottiene i risultati attesi.

Le fasi di sviluppo di un team

Forming (costituzione) = il team si forma. È una fase importante perché chi crea un team deve tenere conto
non solo delle conoscenze e delle competenze dei membri ma anche delle capacità relazionali. [Perché
sono qui? Chi sono gli altri?]

Storming (conflitto) = discussione sugli obiettivi, sulle modalità lavorative, definizione “chi fa cosa”. [Quali
relazioni posso intrattenere? Chi mi può essere utile?]

Norming (creare le norme) = si definiscono le modalità lavorative, il gruppo si consolida. Questa fase crea le
premesse sulla performance del gruppo, cioè o molto o poco performante, cioè la capacità del gruppo di
raggiungere un determinato risultato. [Quale obiettivo vogliamo raggiungere? Quali obiettivi possiamo
raggiungere?]

Performing (lavoro) = il gruppo ha acquisito consapevolezza e lavora efficacemente. [È possibile migliorare?


Come possiamo migliorare?]

Adjourning (aggiornamento) = momento conclusivo. L'obiettivo è arrivato a scadenza. [È possibile lavorare


ancora insieme?]

Il grado di maturità e immaturità di un team è funzione di quanto accade all’interno delle diverse fasi di
sviluppo. A seguito della fase del norming il gruppo, inoltre, può prendere tre traiettorie ipotetiche, cioè a)il
gruppo è efficace e la curva è efficace e la curva è rivolta verso l’alto, b)il gruppo è non molto efficace e la
curva è di tipo orizzontale, o, c)il gruppo è inefficace per vari motivi cui qualcuno esce dal gruppo o ci sono
conflitti non risolvibili e infatti la curva è rivolta verso il basso. Quando il gruppo è efficace, l’efficacia cresce,
mentre quando è inefficace ci troviamo davanti alle patologie.

Dimensione del gruppo: diade, triade, piccoli gruppi. L'unità ottimale è di 8 persone ragionando in qualità di
efficacia.

Comunicazione: lo schema di comunicazione del gruppo è lo schema decentrato a rete totale.

Struttura e composizione del gruppo

Le dinamiche primarie di funzionamento del gruppo, cioè le dinamiche tipiche che avvengono all’interno
dei gruppi di lavoro derivano fondamentalmente da una interrelazione che si ha tra un singolo individuo
che porta le proprie conoscenze e competenze e alla predisposizione al lavoro nel gruppo di lavoro, ovvero
i famosi tratti della personalità, che interagisce con altri e in base a ciò, cioè all’interazione con gli altri,
cambia pure la sua capacità nel raggiungere una determinata performance perché non deriva più solo dal
proprio lavoro, ma dal proprio lavoro e da quello degli altri e le relazioni che li caratterizzano; si aggiunge
un terzo elemento, ovvero il compito che è l’obiettivo in comune al singolo individuo e agli altri che è
caratterizzato dallo sforzo profuso da entrambe le parti. Per comprendere il funzionamento del gruppo si
devono considerare due ambiti di comportamento:
 Comportamenti diretti al compito (strumentali), cioè le persone sono orientate al compito, cioè
lavorano per raggiungere quella determinata finalità.
 Comportamenti socio-emozionali (espressivi), in cui le persone sono orientate al mantenimento,
cioè alle relazioni.

Team produttivi e ruoli nel team

Le sole conoscenze e competenze degli individui non fanno in modo che queste persone siano in grado di
lavorare come una squadra, quindi non basta inserire persone brave all’interno del gruppo di lavoro
affinché quest’ultimo sia performante perché è necessario che alla base ci siano anche delle relazioni per lo
scambio di informazioni, il confronto e la coesione. L'abilità o eccellenza individuale dei membri di un team
non è un fattore predittivo dei risultati del team. Il modo in cui i singoli membri si comportano che
contribuisce a migliorare o peggiorare l’efficacia di un team. Un attento bilanciamento delle abilità tecniche
e di modelli di comportamento ottimali, è possibile selezionare team con un più alto livello di successo
prevedibile.

Ruoli nel team

Secondo una ricerca di Belbin, sono individuate tre macroaree:

1. Thinking (orientamento al pensiero): creativo, è quello che identifica delle soluzioni che ad altre
persone sfuggono ma si preoccupa poco alla loro fattibilità; analizzatore, colui che si preoccupa di
definire bene il problema andandone alla profondità della sua natura; innovatore, è colui che sta
sempre alla ricerca di modi nuovi per risolvere il problema.
2. Action (orientamento all’azione): realizzatore, è colui che si preoccupa di implementare nella
pratica le soluzioni trovate nell’area precedente; rifinitore, persona che interviene alla fine e di
solito rifiniscono il lavoro cominciato dal realizzatore; guida, colui che detta i tempi all’interno di un
gruppo di lavoro.
3. Social (orientamento alla relazione): coordinatore, colui che coordina il gruppo di lavoro, ne
organizza le attività; sostenitore, serve a dare la motivazione al team; integratore, è colui che si
pone da interfaccia tra il gruppo e l’esterno, è colui che di solito ha delle buone relazioni con
l’esterno del gruppo anche per procurarsi le risorse necessarie per svolgere determinate attività,
quindi serve anche a risolvere svariati problemi.

Capitolo 7: La negoziazione

La negoziazione è un meccanismo di coordinamento al pari del gruppo, dell’autorità e dell’agenzia, che si


trova nella seconda classe dei meccanismi di coordinamento. Essa si caratterizzano per la presenza di
comunicazione, che è una variabile fondamentale per consentire alle diverse parti di giungere a un accordo
per una decisione collegiale. La decisione non è unilaterale come i meccanismi di coordinamento della
prima classe, ma bilaterale o di tipo congiunto: in questo caso le diverse parti che si siedono al tavolo delle
trattative dovranno giungere a un accordo per risolvere una determinata problematica. La negoziazione
esiste perché ci sono dei conflitti all’interno dell’organizzazione che vanno risolti per consentire il normale
svolgimento delle attività lavorative. Vi sono diversi strumenti, inoltre, per la risoluzione del conflitto, come
ad esempio l’autorità arbitrale o agendo tramite la gerarchia. In altre occasioni si utilizza un approccio più
collegiale, soprattutto quando le parti in gioco hanno lo stesso potere negoziale, cioè di gradazione e
influenza; laddove non è possibile utilizzare l’autorità arbitrale o la gerarchia, si lascia spazio alla
negoziazione, cioè si negozia una possibile soluzione tra le parti in gioco che sono in conflitto tra loro.

Definizioni di conflitto

Non esiste una definizione univoca di conflitto. In maniera semplice, il conflitto può essere visto come un
processo interattivo che si manifesta attraverso l’incompatibilità, il disaccordo o la dissonanza all’interno o
tra entità sociali: il conflitto è un processo poiché è collegato alla variabile tempo (con il passare del tempo
un determinato livello di conflitto può aumentare o diminuire); è un processo interattivo perché si
caratterizza per l’interazione delle parti che entrano in conflitto (esempio due o più colleghi, due o più
gruppi, delle unità organizzative, ma anche delle organizzazioni, ecc.); questo conflitto si crea per
incompatibilità o dissonanza tra due o più parti sulle relazioni, ma anche sui compiti.

Il conflitto può anche essere definito come un’attività che si caratterizza da incompatibilità che impedisce,
ostacola, interferisce, danneggia, rende meno piacevole o meno efficace un’altra attività. Il conflitto viene
visto come qualcosa che lede il regolare svolgimento di un’attività: è compito dell’organizzazione cercare di
eliminare il conflitto ma, laddove non si può eliminare, è necessario ridurlo o saperlo gestire
adeguatamente.

Il conflitto può essere funzionale: si tratta di un conflitto che mette in competizione le persone o le parti
dell’organizzazione (cioè i teams) al fine di raggiungere una determinata finalità. In questo caso il conflitto è
strumentale al raggiungimento di una finalità: grazie alla competizione, il gruppo può essere più motivato e
quindi più efficace al raggiungimento dell’obiettivo finale dell’organizzazione. Questa è un’accezione
positiva, tuttavia il conflitto funzionale potrebbe versare in uno stato di tipo patologico. Quando questo
accade, il gruppo diventa inefficace, peggiorando la performance dei lavoratori, dei gruppi di cui ne fanno
parte e quindi anche dell’intera organizzazione. Il conflitto patologico è un problema, per cui è necessario
redimere la controversia laddove questo sia possibile.

Elementi comuni alle differenti definizioni di conflitto

Conflitto di interessi: si ha conflitto quando le persone sono in conflitto, quando il singolo ha interessi
diversi rispetto all’obiettivo del gruppo.

Convinzione di ogni attore che la controparte vanificherà la realizzazione dei propri interessi: vi è conflitto
quando una persona pensa che l’altra parte vanificherà la realizzazione dei propri interessi. Anche se non si
è verificata la condizione di lesione all’attività, già si è creato il terreno conflittuale, di conseguenza, il
conflitto è anche una variabile percettiva.

Conflitto come processo: è collegato alla variabile tempo, non ha quasi mai con un andamento costante.
L'organizzazione deve far sì che il conflitto rimanga nei confini del conflitto funzionale e che non sfoci in
quello patologico.

Livelli di analisi dei conflitti

 Conflitto intrapersonale: conflitto che si trova all’interno della persona (intrapsichico).


 Conflitto interpersonale: fra persone (diadico) che può essere sui compiti che potrebbe essere
funzionale al raggiungimento di una finalità dell’organizzazione, ma può essere anche sulle relazioni
che però sfocia nel conflitto patologico e difficilmente si riesce a portarlo alla condizione di
normalità.
 Conflitto intragruppo: esiste all’interno dello stesso gruppo di lavoro.
 Conflitto intergruppo: che si crea tra i gruppi di lavoro. Ad esempio, quando il manager crea due
gruppi di lavoro per raggiungere lo stesso obiettivo, si crea competizione tra i gruppi, la quale è
funzionale allo svolgimento delle attività, ma non deve sfociare in uno stato patologico altrimenti
sarebbe molto difficile da gestire.
 Conflitto organizzativo o sistemico: conflitto che evidenzia il livello di insoddisfazione e disaccordo
nei confronti di un processo, un prodotto o un servizio che l’organizzazione realizza.

Come si gestisce un conflitto


 Arbitrato: quando c’è un conflitto tra due più parti e per redimerlo si nomina un arbitro, che è una
persona che si caratterizza per un’elevata competenza e neutralità rispetto alle parti in conflitto.
L'arbitro ha potere decisionale esclusivo alle parti= x/y --> arbitro
 Mediazione: il mediatore è una persona che si pone tra le parti, ma a differenza dell’arbitro non ha
potere decisionale. È un facilitatore, una persona che aiuta le parti a giungere un compromesso= x-
mediatore-y
 Decisione unilaterale: è la decisione che prende una parte delle due (o più) in conflitto= fra x e y,
decide x o decide y. Solo una delle parti ha potere decisionale.
 Negoziazione: quando il conflitto non si può risolvere con le suddette forme e le parti hanno tutte
potere decisionale per giungere a un accordo congiunto tra loro= x<-- -->y

La negoziazione

La negoziazione è un processo di interazione in cui due o più parti cercano di accordarsi su un risultato
reciprocamente accettabile in una situazione di conflitto di interessi. È un processo perché varia con il
tempo; di interazione così come il conflitto perché ci sono più parti che interagiscono tra loro e serve per
risolvere lo stesso conflitto; le parti devono cercare di accordarsi per raggiungere un risultato che è ritenuto
accettabile da tutte le parti. L'obiettivo è quello di giungere a un risultato che mette d’accordo tutte le parti.
I conflitti che sono risolvibili con la negoziazione si caratterizzano per la presenza di un conflitto di interesse
tra due o più persone e per la possibilità di una decisione congiunta tra le parti attraverso la comunicazione,
lo scambio e la ricerca di informazioni e alternative idonee per la risoluzione del conflitto.

Quando negoziare

È necessario negoziare quando ci troviamo in una situazione di insostituibilità delle parti, cioè uno degli
attori controlla risorse scarse e utili non reperibili da altre fonti. Bisogna negoziare quando c’è un
restringimento delle “zone di indifferenza”, che sono zone all’interno del quale un soggetto è indifferente
ad accettare o meno una determinata proposta: si riduce la disponibilità a cedere diritti di decisione. Il
problema è che quando questa zona di indifferenza si riduce ci saranno pochi margini di trattative
utilizzando la negoziazione. Si negozia quando abbiamo equilibrio dell’influenza tra le parti perché la
negoziazione è un processo basato su una relazione più o meno simmetrica tra le parti, cioè le parti hanno
più o meno la capacità di influenzarsi allo stesso modo.

Strutture fondamentali della negoziazione a due parti

Rappresentano delle modalità per giungere alla risoluzione del conflitto:

 La struttura distributiva è caratterizzata da interessi diametralmente opposti con riguardo al


punto di accordo, come per l’esempio dell’orologio. Ad una situazione di maggiore utilità per un
attore corrisponderà una situazione di minore utilità per altri attori.
 Con la struttura integrativa non si riesce a trovare un accordo e le parti cercano di inserire altri
elementi negoziali al fine di giungere a un possibile accordo. È possibile trovare combinazioni di
scambio in cui tutti guadagnano rispetto ad altre configurazioni. Esempio di un venditore di un
immobile a 300000 euro e la controparte voglia acquistarlo per il suo budget totale ha 300000
euro, quindi non ce la farebbe poi a comprare arredamento ecc. nel momento in cui
spenderebbe tutti i soldi per comprare l’immobile; però il venditore non vuole scendere al di
sotto della soglia dei 295000 euro per vendere la casa ma in questo caso l’acquirente non
potrebbe dare quello che il venditore richiede, allora offre al venditore 280000 euro, ma
quest’ultimo non accetta anche perché per lui i 300000 euro non sono quasi per nulla trattabili;
allora il venditore pensa di offrire 290000 euro pensando che forse l’agenzia e il si prenderanno
poco, e così con quello che rimane acquista magari la cucina, ma comunque il venditore lo
ritiene un prezzo troppo basso e non accetta, e così non c’è una zona indifferente di trattativa
perché il massimo per il venditore sarà 295000 mentre per il compratore 290000; quindi magari
si pensa di aggiungere altri elementi per l’accordo, come ad esempio il venditore potrebbe
offrire al compratore la cucina poco usata che c’è già nella casa, perché per spostarla ecc.
dovrebbe pagare qualcuno e comunque questo potrebbe non convenirgli perché potrebbe
anche causare anche danni a mobili ed elettrodomestici, quindi in questo modo l’accordo si
baserà su una combinazione di più elementi, e in questo modo l’acquirente accetterà perché sa
che magari quella cucina costa di più di 5000 euro.
Le parti quindi, si appropriano entrambe di tutta l’utilità derivante dallo scambio.
 La struttura generativa è un’estremizzazione della struttura integrativa: si ha quando l’accordo
genera nuove risorse e nuovo valore. Le parti accordandosi possono ottenere di più che non
accordandosi affatto o che non appropriandosi ognuna di tutta l’utilità.
Esempio: le due aziende farmaceutiche che devono decidere cosa produrre tra multivitaminici e
antibiotici da prendere insieme: se entrambe producono multivitaminici entrano in conflitto e
non vi sarà quasi nessuna utilità; succede lo stesso se entrambe producono gli antibiotici; per
questo dovrebbero raggiungere un accordo in cui un’azienda produce multivitaminici e l’altra
antibiotici facendo sì che entrambe ottengano un’utilità maggiore e quindi un grosso vantaggio
di economia di specializzazione.

Approcci alla costituzione degli accordi

Vi sono diversi modi per procedere con la negoziazione, cioè doversi approcci che consentono di trovare un
accordo.

1. Approccio item per item: le materie da negoziare sono trattate sequenzialmente, cioè uno per
volta e quindi item per item.
2. Approccio a testo unico: le parti lavorano sin dall’inizio su un unico documento, cioè sulla proposta
intera.
3. Approccio per pacchetti: si creano gruppi di materie da trattare congiuntamente, cioè si prende il
testo unico e lo si suddivide in gruppi di materie. Ad esempio, un gruppo si occupa del tema della
sicurezza, un altro sul tema dell’asilo nido ecc.

I limiti alla negoziazione come meccanismo di coordinamento sono il numero di relazioni di


interdipendenza da coordinare, il potenziale di opportunismo delle parti e il costo del processo negoziale (il
tempo e le risorse).

Le distorsioni negoziali sono:

1. effetto di framing: si riferiscono agli schemi interpretativi di che cosa sia un negoziato. Generano
inefficienze per la sottoutilizzazione di risorse e la mancata creazione di valore;
2. effetti di commitment: gli impegni presi e le azioni compiute hanno un effetto di intrappolamento
sulle parti;
3. effetti di ricerca locale: la ricerca di partner potenziali con i quali negoziare può essere un processo
costoso. Ci si limita a ricercare partner potenziali tra i contratti che sono già in essere.

L’azione negoziata ha bisogno di controlli. Il controllo negoziale avviene tramite l’utilizzo di alcuni strumenti
fondamentali come i pegni, garanzie, ostaggi. Essi caratterizzano un indennizzo nel caso in cui le parti
venissero lese o danneggiate da una parte inadempiente. Ostaggi, pegni e garanzie possono anche essere
simbolici e immateriali (non per questo meno efficaci). Ad esempio, le dichiarazioni e gli impegni presi
pubblicamente (tramite i mass media) “legano le mani” esponendo come pegno la reputazione e
l’immagine dell’attore. Quando negoziare: vi è una insostituibilità delle parti; restringimento delle “zone
d’indifferenza”; equilibrio dell’influenza tra le parti.
I quattro pilastri della negoziazione

1. Fai un inventario delle tue abilità ed esperienze, per capire se hai risorse potenziali da attivare che
compensino eventuali punti deboli (take stock);
2. Raccogli tutte le informazioni possibili sulla controparte e sulla situazione per ridurre il livello di
ansia (learn as much as you can): factual and scouting information;
3. Decidere a priori quali possono essere le alternative di azione qualora la negoziazione vada male.
Ciò ti rende flessibile;
4. Ascolta i consigli di persone esperte che orientino in modo più positivo e realistico il tuo pensiero,
per non restare intrappolato nel tuo punto di vista (get fresh perspectives).

Capitolo 8: Norme e regole

Sistema semiparalizzante

Un sistema semiparalizzante è un sistema di azione collettiva in cui è necessario prendere decisioni caso per
caso su ogni azione rilevante ogni volta che essa viene intrapresa. In tal caso, di lì a poco si bloccherebbe
quello che è il normale svolgimento dell’attività lavorativa perché i tempi necessari per prendere la
decisione si dilaterebbero molto e quindi ci sarebbe poco spazio per i processi lavorativi, perché di fatto la
gran parte del tempo a disposizione del lavoratore sarebbe assorbito dal processo di decision making.
Laddove c’è un problema di tipo organizzativo l’azienda deve decidere un meccanismo di coordinamento.
Ad esempio, sceglie di attuare quelli di secondo tipo - autorità, agenzia, negoziazione, gruppo - che si
caratterizzano per la presenza di comunicazione e di conseguenza prendono una decisione di tipo collegiale
o congiunta. Tuttavia, questa classe di meccanismi di coordinamento, rispetto alle altre, è più costosa, anzi
il gruppo e la negoziazione sono anche più costosi rispetto agli altri due, sebbene per i problemi non
strutturati siano molto efficaci. Al contrario quando i problemi sono strutturati, ovvero quando possono
diventare delle routine aziendali, e quando quindi sono problemi poco complessi e facili da risolvere che si
presentano con una certa frequenza all’interno dell’organizzazione, sono più efficaci ed efficienti l’autorità
e l’agenzia. Tuttavia, alcune volte capita invece, che all’interno dell’organizzazione vi siano delle
situazioni/problemi che si presentano con una certa frequenza in maniera tale che poi diventano
nell’ordine aziendale, e quindi sono problemi che sono strutturati che possono essere previsti a priori, in
maniera tale che quando si verificano l’organizzazione può già dire ai propri lavoratori come si devono
comportare di fronte a un determinato problema, e, in questo caso sono le norme e le regole che
consentono all’organizzazione di dire ai lavoratori di doversi comportare in un certo modo al presentarsi di
un problema frequente. Le norme e le regole sono quindi un meccanismo molto importante per allineare
quelli che sono gli obiettivi dei lavoratori e organizzazione, e, soprattutto quelli che sono i comportamenti.
Le norme e le regole sono insiemi di prescrizioni comportamentali accettate come legittime da parte dei
lavoratori di un’organizzazione. Una prescrizione comportamentale è un insieme di step che un lavoratore
deve seguire e che vengono accettate come legittime all’interno dell’organizzazione. La fonte della
legittimazione sono proprio quei documenti e regolamenti aziendali, messi a disposizione dei lavoratori;
sono conoscenze comuni ai lavoratori che consentono loro di risolvere un determinato problema quando si
verifica senza dover comunicare con gli altri, in maniera individuale. Consentono, quindi, al lavoratore di
porre in essere un determinato comportamento e una determinata azione senza doversi concertare con
altri lavoratori all’interno dell’azienda. Consentono di gestire una gran varietà di comportamenti, senza
ricorrere a decisioni ad hoc (non prevedono che un attore o un insieme di attori debbano prendere una
decisione ogni volta che si trovano di fronte a quel determinato problema frequente e poco complesso),
senza ricerca di informazioni idonee a definire il problema e ricerca di soluzioni per risolverlo, senza
previsione e calcolo specifici al singolo problema.

Vantaggi delle norme e le regole


1) Rispetto alla contrattazione o alla decisione congiunta diretta, è meno costoso come meccanismo di
coordinamento.

2) Tutti i partecipanti stanno meglio se viene adottata una regola, qualunque regola, piuttosto che nessuna
regola, perché le regole definisco lo spazio d’azione di un individuo.

3) La scelta tra una regola e l’altra è di solito un gioco meno conflittuale che non la scelta di azioni
all’interno di regole definite.

4) Molte norme che regolano i comportamenti economici sono sedimentazioni di apprendimento su una
serie di decisioni ed esperimenti passati.

5) Nessun sistema di interazione può funzionare se gli attori non istituiscono una norma di reciprocità.

6) Le regole e le norme agiscono come fattori di legittimazione e come agenti selezionatori di modalità
organizzative favorendo la sopravvivenza dei sistemi ad esse isomorfi.

La cultura organizzativa

Quando si parla di norme e di regole, bisogna far riferimento sia a norme scritte che non scritte all’interno
di un’organizzazione: quelle scritte e quelle non scritte nero su bianco (quindi non presenti in documenti
aziendali) consentono di risolvere determinati problemi. Per parlare di cultura organizzativa bisogna prima
parlare di cultura in generale, intesa come gli usi, i costumi, la tradizione, ecc., che vivono in un
determinato contesto, ad esempio un paese, che spinge un individuo a porre in essere dei comportamenti
che sono il frutto di quello che è il passato. Esiste anche una cultura organizzativa, che ha dei confini
ancora più piccoli, di quelli di una cultura nazionale, ed è cioè la cultura che vige all’interno di
un’organizzazione. La cultura organizzativa è un sistema di norme o modelli di comportamenti prescritti e
accettati dai partecipanti di un sistema di azione, e rilevante ai fini dell’azione economica sociale: è quindi la
cultura di quella determinata organizzazione. È importante di parlare di cultura organizzativa poiché
quest’ultima è usata per programmare la mente dei lavoratori come meccanismo di coordinamento, poiché
è l’insieme delle regole scritte e non scritte che sono in vigore in quel determinato contesto. La cultura
organizzativa consentirà di conoscere a priori quelli che saranno i comportamenti e gli obiettivi che i
lavoratori porranno in essere cercando di allineare i comportamenti dei lavoratori a quelli desiderati
dall’organizzazione. Si caratterizza per un basso costo in termini organizzativi, ma che consente di allineare
una gran mole di persone. Il problema della cultura organizzativa è che una volta che viene definita, questa
difficilmente può essere cambiata, c’è bisogno infatti di molto tempo.

Il modello stratificato della cultura organizzativa

La cultura organizzativa si compone principalmente di 3 elementi. Nello strato più profondo, quello che è
meno visibile, abbiamo i valori e principi di un'organizzazione. Poi, salendo, abbiamo i codici di condotta, e,
infine abbiamo le routine.

I valori e i principi sono degli “assunti” fuori discussione, nel senso che non sono suscettibili di critica ma in
quanto tali devono essere presi per buoni, spesso condivisi a livello di intere società. Sono quelli che erano
fondamentalmente i valori e principi del fondatore dell’organizzazione che li ha traslati all’interno della
stessa. Sono degli elementi molto importanti perché lasciano elevata discrezionalità agli attori, nel senso
che non dicono alle persone quello che devono fare in maniera restrittiva. Sono atti a governare attività ad
alto grado di complessità e variabilità. Servono ad allineare gli obiettivi di un lavoratore a quelli che sono gli
obiettivi di un’organizzazione.

I codici di condotta sono rappresentati da eurismi e leggi empiriche che si suppone generino azioni corrette
in specifici campi d’azione. Incorporano conoscenze ”procedurali” (come fare una determinata cosa),
invece che “sostantive” (cosa fare). Anche i codici di condotta, al pari dei valori e principi che abbiamo visto
prima, lasciano un’elevata discrezionalità agli attori. Ne sono esempi i codici di condotta professionale
“corretta” che vincolano il comportamento di medici, avvocati e altri professionisti. I codici di condotta
servono ad allineare i comportamenti dei lavoratori a quelli che desidera l’organizzazione.

Le routine sono delle regole che prescrivono quali azioni intraprendere in presenza di qualche stimolo o
situazione. Sono costituite da programmi, procedure, abitudini, pratiche, sia scritti che non scritti. La loro
efficacia dipende da condizioni di elevata stabilità delle attività anche se non semplicemente da una loro
particolare semplicità. Servono ad allineare i comportamenti dei lavoratori a quella che è la desiderata
dell’organizzazione.

Differenze culturali

Oggi, più che in passato, soprattutto grazie alla globalizzazione, in un’azienda possiamo trovare delle
persone con culture diverse, quindi, esiste una certa diversità culturale. Se io ho persone che hanno una
cultura diversa, queste diversità culturali rappresentano un valore per l’organizzazione, quindi, l’azienda
deve essere capace di sfruttarle per ottenere performance migliori. Questo è un vantaggio, ma potrebbe
essere anche uno svantaggio perché se l’azienda non è pronta e non in grado di gestire le diversità culturali
che esistono all’interno del proprio contesto lavorativo, questo potrebbe inficiare le performance creando
dei problemi. Quindi compito dell’organizzazione, in particolar modo del responsabile delle risorse umane,
è quello di creare le premesse affinché persone che provengono da paesi diversi ma lavorano nello stesso
contesto siano in grado di cooperare tra di loro nel migliore dei modi, creando un clima organizzativo,
positivo, stabile e sereno, consentendo quindi alle persone di essere soddisfatte e di conseguenza più
performanti.

La differenziazione tra culture e sottoculture economiche è efficace se il contenuto e il grado di incertezza


delle attività condotte nei vari sistemi sono differenziati.

I contenuti delle culture

Quelli che sono gli orientamenti culturali che caratterizzano i comportamenti all’interno
dell’organizzazione.

 Orientamento all’innovazione: una persona potrebbe essere più o meno orientata


all’innovazione.
 Orientamento al lungo o al breve termine: alcuni si caratterizzano per pensare più al presente
mentre altri più al domani.
 Orientamento all’esterno o all’interno
 Orientamento proattivo o reattivo: evidenzia come si reagisce a quelli che sono i problemi
organizzativi che vengono rilevati.
 Orientamento ai compiti o alle persone.

Lo studio di Hofstede

Negli anni ‘70 lo studioso Hofstede è stato chiamato dalla IBM, che all’epoca era già una multinazionale, per
condurre uno studio sui problemi di coordinamento che aveva, cioè capire se i problemi culturali
dell’azienda madre potevano essere trasmessi anche alle altre aziende del gruppo che operavano ma che
avevano la sede negli altri paesi. Lo studio di Hofstede inizialmente ha definito 4 dimensioni della cultura
nazionale:

1. Il grado di individualismo o di collettivismo: in alcuni paesi c’è un maggior orientamento verso


l’individualismo, cioè la società pensa innanzitutto al benessere proprio e della propria famiglia e
poi successivamente alle altre persone (tipico dei paesi occidentali); in altri paesi invece c’è un forte
orientamento alla collettività, cioè si predilige molto il gruppo e la comunità e c’è uno più spiccato
senso di appartenenza delle collettività di cui si fa parte (tipico dei paesi orientali).
2. Grado di accettazione della distanza di potere: in alcuni paesi si accetta di più quella che è la
distanza di potere tra il cittadino e le istituzioni o tra il lavoratore e il dirigente; mentre in altri paesi
c’è una ridotta distanza del potere.
3. Grado di avversione all’incertezza: in alcuni paesi le persone hanno una maggior avversione
all’incertezza, cioè quando si trovano davanti a una situazione che si caratterizza per la sua
incertezza effettuano delle scelte in un determinato modo; al contrario, in altri paesi, quando le
persone si trovano in una situazione che si caratterizza per l’incertezza fanno scelte in tutt’altro
modo poiché non si è molto avversi all’incertezza.
4. Mascolinità o femminilità della cultura: la cultura mascolina è quella che si caratterizza per far
riferimento più alla forza e al potere e alla competizione; la cultura femminile è più tipica a
orientarsi alla collaborazione e alle relazioni.
5. Orientamento di breve o lungo termine.

Ovviamente dopo un’analisi comparativa di queste dimensioni si capisce se si può trasferire la stessa
cultura a più organizzazioni in paesi diversi: se ci sono troppe differenze non è possibile poiché questo
creerebbe un “muro” e quindi dei problemi.

Differenze tra i sistemi culturali nei diversi paesi

Ci sono differenze nelle soluzioni organizzative adottate:

 Organizzazione culture-bondend: se le organizzazioni sono culture-bonded significa che all’interno


di quell’organizzazione la cultura prevalente si caratterizza per una sostanziale intrasferibilità del
know-how organizzativo e delle soluzioni organizzative elaborate in una cultura ad un’altra. Ciò
significa che quella cultura è confinata all’interno dei confini dell’azienda e quindi difficilmente può
recepire dei modelli culturali che provengono dall’esterno ed è quindi preferibile non farlo.
 Organizzazione culture-free: se le organizzazioni sono culture-free significa che c’è la possibilità
della condivisione di modelli culturali da un’azienda all’altra e quindi di adottare una varietà di
soluzioni organizzative anche all’interno del medesimo contesto con la probabilità di avere
soluzioni simili in diversi contesti.

Il coordinamento culturale è efficace ed efficiente in attività molto complesse. Complessità organizzativa ->
scarsa osservabilità delle prestazioni.

Sistemi legali-formali

 Sistemi legali esterni: contratti (contratti obbligativi)


 Sistemi legali interni: statuto, organigramma, mansionario e procedure

Lo statuto è il documento contenente tutte le regole di un’azienda e le norme che regolano i rapporti tra gli
attori e le attività. L’organigramma è il documento interno che esprime la struttura organizzativa di
un’azienda e i rapporti di potere-influenza. Il mansionario è il documento interno che contempla tutte le
mansioni di un’azienda e i requisiti necessari per il suo svolgimento. Le procedure sono l’insieme di azioni
ordinate e prestabilite necessarie per poter ottenere un determinato risultato.

Capitolo 9: Analisi e progettazione organizzativa

La progettazione organizzativa è quella parte che si preoccupa di definire la forma organizzativa, ovvero il
modello organizzativo del lavoro, sottesa a una determinata organizzazione. La forma organizzativa è un
particolare modello di divisione del lavoro che consente il coordinamento efficace ed efficiente e la
gestione delle attività che esistono all’interno dell’organizzazione, nonché delle relazioni tra queste attività.
La divisione del lavoro non è altro che la suddivisione di un’attività complessa in attività elementari, in
diverse fasi che poi saranno assegnate ai lavoratori dell’organizzazione. L’obiettivo è quello di progettare il
modello organizzativo partendo da quelli che sono i fabbisogni dell’azienda, organizzativi, gestionali e
informativi: il dirigente dell’azienda disegna un modello ad hoc per quella determinata organizzazione,
quindi c’è una fase di progettazione che poi sarà implementata dall’organizzazione. Oppure si cerca di far
fronte a quelli che sono i fabbisogni organizzativi, gestionali e informativi, non sviluppando un modello ad
hoc per quella determinata azienda, ma partendo da una sorta di semilavorato, cioè da configurazioni già
sviluppate e validate dalla letteratura, partendo da dei modelli organizzativi dalle strutture organizzative
che la letteratura si è preoccupata già di rilevare e mettere a disposizione dei dirigenti che poi
successivamente adatteranno a quella che è la realtà aziendale. Questi modelli già sviluppati assumono il
nome di archetipi. A volte, quando un solo archetipo non è corrispondente a quella realtà aziendale, se ne
integrano due differenti cercando di renderle coerenti con la realtà aziendale. Di solito a creare la forma
organizzativa è il dirigente o l’imprenditore dell’azienda e non un organizzativo, che quindi tenderà a
scegliere la seconda strada, ma partirà da un modello già esistente.

Questa soluzione implica la scelta di un modello di analisi organizzativa “allargato”, che prevede
integrazione tra modelli esistenti: si vagliano i diversi modelli che la letteratura ha sviluppato e poi si
verifica se quel modello sia più o meno rispondente a quelli che sono i fabbisogni organizzativi. A volte
capita che un modello sia completamente corrispondente, così si cercano di integrare diversi modelli
organizzativi che sono stati sviluppati e poi alla fine ottenere un modello proposto che risulta applicabile ad
un livello micro, meso e macro. Il disegno dell’organizzazione è un problema:

 complesso e poco strutturato: complesso perché spesso non si dispone di tutte le informazioni
necessarie per poter prendere una decisione e altre volte non si è in grado di generare alternative
che tra di loro sono comparabili; poco strutturato perché non è strutturabile in maniera tale che
diventi routinaria e si ripeta all’interno dell'organizzazione, ma è qualcosa che avviene una tantum
o meglio prima delle attività lavorative, e difficilmente vanno a rivederlo a meno che non subentra
un elemento traumatico quale una crisi o un’implementazione di una tecnologia particolarmente
complessa o per qualche altro motivo;
 è un momento particolare, perché caratterizzato dall’incontro di diverse visioni contrapposte,
ovvero significative divergenze tra gli interessi degli attori coinvolti.

Il processo di decisione sulle forme organizzative consiste in:

 processi euristici di ricerca di alternative strutturali e di attività cui possono essere


convenientemente applicate;
 processi di negoziazione tra attori con interessi differenziati su quali tra le alternative identificate
sia relativamente migliore.

Gli attori economici sono visti come possessori di risorse e di competenze che possono generare fasci
potenziali di attività e servizi. Edith Penrose (1959), per spiegare gli incentivi alla crescita e alla
differenziazione delle attività economiche, svolte da un attore nel corso del tempo, osserva che le risorse
sono strutturate come “bundle” (fasci) di servizi possibili, più ampi rispetto al particolare uso che può aver
originato un fabbisogno per quella risorsa: ci possono essere più modi per utilizzare una fresa o una
macchina ad esempio, così come le competenze e le energie delle persone possono fornire diversi servizi.
La prima distinzione di risorse è la seguente:

1. risorse umane: sono una componente molto importante in quanto possono essere definite come
insiemi di conoscenze e competenze. Non sono, quindi, identificate con le persone, ma esse sono
possedute, incorporate da queste ultime. Inoltre, le risorse umane sono difficilmente separabili e
trasferibili dalle persone che le posseggono, mentre ciò che viene trasferito sono più
frequentemente le attività o i servizi di lavoro erogabili in base alle risorse umane.
2. risorse tecniche: consentono la realizzazione di determinate attività lavorative. Comprendono due
componenti: la tecnologia, o insieme di strumenti, di impianti e di materiali utilizzati in un processo
di trasformazione e conoscenze e competenze (know- how) relativi ad una data attività. Sono
relativamente indipendenti dai loro ideatori e sono capaci di produrre attività e servizi dei quali gli
stessi produttori non sarebbero mai direttamente capaci. Le risorse tecniche sono separabili e
trasferibili, in quanto concorrono a migliorare il grado di meccanizzazione, di complessità e di
specializzazione. La tecnologia può escludere alcuni modi di organizzare, in quanto inefficienti, ma
non determina mai la soluzione organizzativa migliore.
3. risorse finanziarie: sono una componente importante perché sono necessarie se bisogna
intervenire sulle risorse umane o tecniche. Sono quelle più indipendenti da specifici usi o specifici
attori. Sono il tipo di risorse più facilmente trasferibili e separabili dal possessore, per cui anche più
versatili in diversi usi. L’allocazione di risorse finanziarie agli impieghi migliori necessita di
informazioni che possono o non possono essere disponibili o accessibili, in modo da poter creare
fabbisogno di meccanismi di coordinamento e decisione più o meno complessi. La variabile
informativa finanziaria ha altrettanto rilievo come le economie di scala, le specializzazioni e
“scope”. Tali variabili, pesano sulla progettazione, e nei diversi momenti, anche il conflitto fra gli
interessi degli attori, tanto maggiori, quanto saranno le implicazioni.

Le variabili fondamentali dell’analisi e della progettazione organizzativa

Per poter progettare l’organizzazione bisogna tenere in considerazione alcune variabili chiave, che
consentono di organizzare l’organizzazione per poter progettare una forma organizzativa che sia coerente
con i tre modelli di analisi, micro, meso e macro. Queste variabili incidono nelle scelte per il disegno
organizzativo.

1. Economie di specializzazione: rappresentano un vantaggio in merito al risparmio di costi o di


tempo per l’organizzazione. Un forte esponente e supporter della divisione del lavoro fra attori (e
quindi “specializzazione”) fu l’inglese Adam Smith. Secondo lo studioso, la produttività aumenta in
modo spettacolare se si effettua una forte manovra di specializzazione, fino a rendere le singole
attività così focalizzate da non essere più tecnicamente divisibili. Le economie di specializzazione
riguardano l’aumento della produttività tramite la specializzazione degli operatori su attività
sempre più focalizzate, fino al punto da non essere più tecnicamente divisibili. Dalla
specializzazione si ottiene un risparmio: la persona svolge un’attività in maniera ripetitiva e questo
le fa acquisire le conoscenze e le competenze di svolgerla meglio ed anche in minore tempo: la
persona riesce ad acquisire quelle conoscenze tacite (legate alla pratica).
Elementi chiave della specializzazione:
 apprendimento: il grande motore della specializzazione è l’apprendimento. Una persona più svolge
una determinata attività in maniera ripetitiva, più apprende (learning by doing o vicarious learning).
 approfondimento: la profondità della conoscenza di quella attività.
 focalizzazione: le attività sono sempre più focalizzate, nel senso che il perimetro dell’attività che un
individuo svolge è molto ristretto.
 stabilità: svolgere con una certa frequenza quella determinata attività in un lungo periodo.
Esempio: bicicletta
2. Economie di scala: si definisce “economia di scala” la diminuzione dei costi unitari di produzione di
beni o erogazione di servizi al crescere della scala in cui sono impiegati i fattori di produzione. Si ha
economia di scala quando, all’aumentare dei volumi produttivi, cioè del quantitativo che l’azienda
produce, diminuiscono i costi unitari di produzione di un singolo bene o di erogazione di un singolo
servizio. È possibile perché i costi fissi di produzione vengono ripartiti tra i diversi prodotti finiti: se
un’azienda produce di meno, l’incidenza dei costi fissi è maggiore sul singolo prodotto, quindi il
costo unitario di produzione aumenta; se un’azienda aumenta la propria produzione, l’incidenza dei
costi fissi è inferiore poiché ripartita su un volume di produzione più ampio. Il risparmio sta proprio
nella minore incidenza dei costi fissi che possono essere ripartiti su un volume di produzione più
ampio.
Elementi chiave: servizi materiali e servizi immateriali, discontinuità e inseparabilità tecniche,
dimensioni del mercato.
Esempio: Ford che prima era un bene di lusso e poi un bene di massa grazie alla catena di
montaggio
3. Economie di scope: nelle economie di scope (o di “raggio d’azione”) i costi unitari di produzione
diminuiscono allorché più tipi di beni o servizi siano prodotti congiuntamente, utilizzando le stesse
risorse (impianti, know-how, risorse umane), con una data qualificazione. Con le economie di
scope, quindi, risulterà più conveniente produrre due beni con processi congiunti piuttosto che
produrli separatamente. Si hanno economie di scope quando un’azienda riesce a ottenere più
output a parità di input.
Elementi chiave: apprendimento, risorse in eccesso, risorse di base (core), con componenti
relativamente universali, flessibili, potenzialmente comuni a più attività, appropriabilità.
Esempio: azienda che trasforma petrolio in carburanti e con scarti, invece di smaltirli spendendo
tanti costi, produce l’asfalto.
4. Complementarità: si ha complementarità quando risorse e competenze riescono a generare output
di valore diverso da quelli già esistenti o di produrli a minor costo. Quando si utilizzano risorse che
sono tra loro complementari, l’azienda riesce ad ottenere un risparmio, cioè un vantaggio. È una
variabile importante per comprendere la grande espansione del fenomeno delle alleanze che si
sono stipulate tra imprese con competenze diverse orientata alla ricerca, allo sviluppo e alla
realizzazione di nuovi prodotti basati su tali risorse complementari. La ricerca di complementarità
tra risorse può essere sistematizzata e operazionalizzata attraverso strumenti di analisi delle
relazioni tra risorse come matrici risorse/risorse o le matrici risorse/attività.
Ad esempio, come per l’attività di ricerca: un ricercatore può svolgere quest’attività in maniera
individuale, senza fare sinergie con altre persone oppure lo potrebbe fare insieme agli altri: nel
primo caso, ovviamente il ricercatore competenze in materie economico aziendali utilizzerà delle
risorse che ovviamente rappresentano un costo per l’organizzazione di cui fa parte; il secondo
approccio sta sempre nel condurre la stessa ricerca ma cambiano i soggetti coinvolti, oltre al
suddetto ricercatore, si crea un gruppo in cui possono essere inserite altre persone, magari un
economista generale che può capire le implicazioni di questo studio in un ambito sistema-paese e
magari pure uno statistico che potrebbe lavorare sull’analisi dei dati e ottenimento dei risultati e
l’aziendalista si occuperebbe della spiegazione di quei risultati, questo significa che si fa sinergia tra
risorse complementari all’interno dell’organizzazione, riuscendo a ottenere il risultato della ricerca
in minor tempo e anche minori costi, quindi un vantaggio per l’organizzazione
5. Insostituibilità delle risorse: all’interno di un’organizzazione, alcune risorse che vengono utilizzate
per poter svolgere una determinata attività non sono sostituibili. Una risorsa non è sostituibile
quando il possesso concentrato di queste risorse è nelle mani di pochi attori; rapporto tra
dimensione della domanda e dimensione minima efficiente delle imprese; innovazione e
differenziazione del proprio output rispetto a quello dei concorrenti; specificità ad un uso o ad un
utilizzatore delle risorse investite in una relazione. Per l’azienda, le risorse insostituibili
costituiscono un problema laddove il rapporto con le imprese che detengono queste risorse
dovesse inclinarsi o venire meno: le aziende avrebbero un problema relativo
all’approvvigionamento. Tutte queste forme di insostituibilità delle risorse danno luogo sia a
rendite che a costi di transazione. Le rendite sono dei ritorni economici superiori a quelli necessari
per attrarre la risorsa in un dato impiego o attività. I costi di transazione sono costi di ricerca di
partner, di negoziazione delle condizioni di scambio o di cooperazione, di controllo che gli accordi
siano rispettati, che l’azienda deve sostenere per cercare di sostituire la risorsa insostituibile.
L’insostituibilità delle rendite porta a conseguenze organizzative di base. La differenziazione degli
output e la specificità delle risorse ci porta a una conseguente divisione negoziata delle rendite; i
monopoli naturali e il rapporto tra dimensioni di mercato delle imprese ci portano alla regolazione
di tali conseguenze.
6. Complessità informativa e incertezza: a volte le aziende si trovano in difficoltà nel prendere
decisioni quando si trovano di fronte a un problema di complessità informativa. Si ha un problema
di complessità informativa quando non si conoscono i possibili stati del mondo, a causa della
variabilità, non si ha conoscenza delle relazioni causa-effetto, non c’è chiarezza delle preferenze,
osservabilità e misurabilità, se il numero di informazioni è troppo o troppo poco, se sono presenti
asimmetrie informative (adverse selection, moral hazard). Quando si generano queste situazioni, la
decisione diventa difficile per il decision maker, poiché alla complessità informativa si collega
l’incertezza. Le principali implicazioni organizzative che comporta la complessità informativa sono:
complessità computazionale (deriva dai calcoli e dal dover analizzare dei dati e delle informazioni
per poter prendere una decisione); e la complessità conoscitiva (è relativa al fatto che non si
conoscono bene alcuni aspetti, come le preferenze, i possibili stati del mondo, le relazioni causa-
effetto o non è possibile l’osservabilità e la misurabilità, che potrebbero consentire di prendere
delle decisioni.
7. Forme di interdipendenza: l’interdipendenza è una variabile molto usata nei modelli organizzativi.
L’interdipendenza si ha quando c’è una relazione di dipendenza tra due o più attori o attività.
Esistono diverse forme di interdipendenza che possono essere individuate a seconda dei
collegamenti che si hanno tra due variabili.
Possiamo distinguere due fonti dell’interdipendenza:
 transazionale: deriva da transazioni, ovvero dal trasferimento di beni e servizi attraverso
un’interfaccia tecnicamente separabile (l’attività A genera un output che viene trasferito come
input ad un’attività B).
 associativa: unione di sforzi, allineamento dei comportamenti, azione comune.
Possiamo distinguere due tipi di complessità dell’interdipendenza:
 semplice: che non genera difficoltà.
 complessa: che genera particolari difficoltà da parte del manager che dovrà occuparsene.

Interdipendenza sequenziale: è la più semplice da gestire, essa si riferisce alle relazioni di scambio di beni e
servizi tra attori. Quando tale scambio è “unidirezionale” ossia del tipo A -> B si parlerà di interdipendenza
sequenziale. Si ha quando un individuo A svolge una fase di lavorazione di un prodotto, poi
successivamente passa il prodotto a un altro individuo B che effettuerà altre fasi del processo lavorativo che
poi lo passa all’individuo C. C’è uno scambio alla volta, con un rapporto di interdipendenza di tipo univoco.

Interdipendenza reciproca: essa ha le stesse caratteristiche strutturali della sequenziale ed infatti riguarda
lo scambio di beni e servizi tra attori, ma tale scambio è regolato da una relazione reciproca A <- ->B per cui
lo scambio avviene in maniera simmetrica. Il lavoratore A svolge la sua fase del processo di lavorazione e
poi passa al lavoratore B, che svolge la sua fase del ciclo produttivo e poi non passa al lavoratore C, ma
nuovamente al lavoratore A che svolge ancora altre fasi della lavorazione.

Interdipendenza pooled: è facilmente gestibile rispetto a quella reciproca. Tale interdipendenza non ha
come oggetto lo scambio di beni, ma l’unione di sforzi e l’allineamento dei comportamenti da parte degli
attori (uso di risorse comuni). Si ha quando più persone sono tra di loro interdipendenti nell’utilizzo di una
stessa risorsa, anche se le diverse persone svolgono attività tra di loro non collegate.

Interdipendenza intensiva: è sempre una tipologia di interdipendenza che ha per oggetto l’allineamento
dei comportamenti e l’unione degli sforzi, ma è decisamente più complessa. Le azioni, infatti, vengono
svolte in relazione di altre azioni (risorse comuni e attività comuni). In questo caso abbiamo più persone che
hanno un’interdipendenza che deriva dal fatto che devono utilizzare delle risorse comuni e condivise, ma vi
è pure il fatto che queste persone svolgono delle attività che sono tra di loro interdipendenti

Conflitto tra interessi e potenziale di opportunismo

Quando ci troviamo in una situazione di conflitto di interessi, gli attori verosimilmente pongono in essere
comportamenti opportunistici. Un comportamento opportunistico è un comportamento che tradisce gli
accordi di cooperazione presi in precedenza ed è caratterizzato da azioni che accrescono i propri benefici e
danneggiano gli altri: la persona lavorerà per sé stessa e non per l’organizzazione e non contribuisce al
raggiungimento della finalità dell’organizzazione di cui fa parte. Questo genera un problema poiché
l’opportunismo è nella natura umana. Per ridurre o eliminare alla radice questo tipo di criticità, bisogna
ridurre il conflitto di interesse poiché è da quest’ultimo che nasce il potenziale di opportunismo. Si possono
quindi stabilire delle regole per normare i comportamenti dei lavoratori; agire con l’autorità, quando il
leader dice al collaboratore quello che può fare e quello che non piò fare; oppure tramite pegni e garanzie,
per esempio in una rete tra imprese.

Capitolo 10: modelli di organizzazione del lavoro

I modelli organizzativi del lavoro sono dei modelli che esprimono come sono le configurazioni organizzative
o le modalità organizzative del lavoro che l’azienda ha scelto per consentire ai lavoratori di svolgere la loro
attività. Si dividono in:

 modelli intra-impresa: modelli organizzativi che fanno riferimento a come l’azienda organizza il
lavoro dei propri dipendenti al suo interno. Sono delle configurazioni tipo che sono state sviluppate
e validate dalla letteratura che riflettono il modo in cui il lavoro viene organizzato all’interno
dell’azienda consentendo al lavoratore di svolgere le proprie attività. Nello specifico: modello
burocratico o taylorista, modello ricomposto, modello reticolare.
 modelli inter-impresa: modelli organizzativi più recenti che consentono a imprese la cui proprietà è
indipendente e diversa di organizzare il lavoro.

Modello burocratico o taylorista

Il modello burocratico o taylorista è quello meno recente. Assume questo nome perché fa riferimento alla
burocrazia, che sta per governo degli uffici, quindi ha un’accezione positiva e fa riferimento a quel è il modo
per consentire al lavoratore di svolgere una determinata attività. È anche chiamato modello taylorista
perché prende il nome da Taylor, uno studioso di progettazione organizzativa che ha sviluppato dei modelli
di organizzazione del lavoro seguendo un approccio molto scientifico e rigoroso. Il problema era che per
Taylor i lavoratori erano come delle macchine a cui assegnare compiti, in grado di seguire i compiti nei
tempi previsti, senza tenere conto delle loro caratteristiche personali e dei livelli motivazionali. Questo
modello si caratterizza per la massima divisione orizzontale e verticale del lavoro tra diversi operatori:
numero elevato di mansioni e ogni mansione si caratterizza per la presenza di pochissimi compiti.

C’è l’allocazione dei compiti di decisione, coordinamento e controllo ad un’autorità gerarchicamente


sovraordinata: c'è una forte divisione tra quelle che sono le attività di chi si occupa della decisione, chi si
occupa del controllo, e chi si occupa dell’esecuzione: le mansioni sono molto parcellizzate. C'è un’elevata
specializzazione, accentramento e chiara assegnazione formalizzata dei compiti: forte presenza di norme e
regole come meccanismo di coordinamento, lascando ai lavoratori poco margine di manovra.

Vantaggi: economie di specializzazione, essendo tutto standardizzato, formalizzato e parcellizzato;


riduzione dell’incertezza, essendo tutto normato, il lavoratore non si deve preoccupare di cosa fare davanti
a una situazione perché qualcuno lo ha stabilito per loro.
I modelli burocratici si dividono in due tipi:

 Burocrazia meccanica: è quel modello in cui il sistema primario del lavoro è fortemente decentrato,
nel senso che abbiamo la presenza di tante mansioni e ogni mansione si caratterizza per la presenza
di uno o al massimo due compiti, quindi c’è un forte ricorso a quelle che sono le economie di
specializzazione e mansioni parcellizzate. Essa prevede la specializzazione per competenze tecniche
dei principali organi, unita alla depersonalizzazione dei ruoli e delle posizioni organizzative e alla
chiara formalizzazione dei compiti, alla chiara divisione non solo orizzontale tra unità funzionali
operative ma anche verticale tra organi di decisione e controllo e organi operativi. A queste
caratteristiche si devono aggiungere un insieme di meccanismi di coordinamento tra unità,
costituito dalla combinazione di procedure formali di comunicazione, standardizzazione e
programmazione dei processi di trasformazione e di scambio, supervisione ed intervento
gerarchico.
 Burocrazia professionale: sono quei modelli per lo più adottati dalle aziende pubbliche che si
occupano dell’erogazione dei servizi. Essa si distingue dalla precedente perché il coordinamento è
centrato sulla standardizzazione delle conoscenze e delle competenze anziché sulla
standardizzazione dei materiali, dei processi di trasformazione e degli output, oltre che sulla
negoziazione tra unità anziché sulla supervisione. Il nucleo operativo è formato da specialisti
(professionisti). Gli standard si formano largamente all’esterno dell’organizzazione, nelle
associazioni indipendenti che forniscono standard universali utilizzati in tutte le burocrazie in cui la
professione viene praticata.

Il problema dei modelli burocratici o tayloristi è che, caratterizzandosi per una standardizzazione delle
attività, i lavoratori svolgono in maniera ripetitiva sempre la stessa attività; di conseguenza, prima o poi si
demotiveranno, diventando meno produttivi e performanti.

Modello ricomposto

Questo modello è più recente e nasce dai limiti del precedente. L’obiettivo è rendere il modello burocratico
più flessibile. Prevede la ristrutturazione del lavoro (job re-design). 3 interventi:

1. Job enlargement (allargamento della mansione): si rende più varia la mansione.


2. Job enrichment (arricchimento della mansione): non si interviene in senso orizzontale, ma in senso
verticale, aumentando la lunghezza della mansione. Si avrà una mansione più ricca, aumentando
l’autonomia del singolo individuo.
3. Job rotation (rotazione della mansione).

Modello reticolare

Nel modello reticolare, il focus non è sul singolo lavoratore, ma su un insieme di lavoratori che svolge
attività operative o di supporto che sono tra loro collegate. Le aziende organizzano il lavoro all’interno dei
gruppi, che svolgono attività operative, di programmazione e di controllo. Il lavoratore non svolge solo un
compito o una determinata attività, ma più compiti, avendo una mansione più parcellizzata, ma polivalente.
In questo modo, non svolge attività troppo routinarie e il livello motivazionale sarà più alto. Inoltre,
lavorando in gruppo, le persone potrebbero essere più motivate.

Esempio: isole di produzione. Altro esempio: equipe medica. Si chiamano anche reti interne perché sono le
reti interne all’organizzazione.

Capitolo 11: progettazione della microstruttura

La progettazione organizzativa è quella parte dell’organizzazione aziendale che si occupa del disegno
dell’organizzazione: si occupa della definizione di un modello di organizzazione del lavoro che consente il
coordinamento tra le risorse e le attività all’interno dell’organizzazione. Si articola su tre livelli: micro, meso
e macro. Si pone l’obiettivo di organizzare il lavoro delle persone all’interno dell’azienda, facendo
riferimento al livello micro (al singolo individuo che svolge una determinata attività lavorativa all’interno
dell’organizzazione). Difatti, la progettazione della microstruttura risponde a due domande
fondamentalmente: “chi?”, inteso come lavoratore/individuo, e “che cosa?”, inteso come quali sono i ruoli
e i compiti che andrebbero assegnati a quel determinato lavoratore.

Concetti di base

Attività umane elementari: è la singola operazione svolta da un individuo.

Compito: è l’insieme di operazioni unitarie o attività umane elementari collegate tra di loro.

Mansione (job): è l’insieme dei compiti assegnati ad una singola persona nell’ambito di un sistema primario
di lavoro. Ogni lavoratore ha e può avere una sola mansione che si può costituire da uno o più compiti.

Ruolo: è l’insieme dei comportamenti che ci si attende da colui che ricopre una determinata mansione.

Sistema primario di lavoro: è l’insieme di tutte le attività operative (esecutive) e di supporto (regolazione e
controllo) che sono tra loro interdipendenti e che concorrono alla realizzazione di un output comune e
identificabile. Identifica le interdipendenze tra le diverse mansioni.

Attività operative: montaggio di diverse componenti (mansioni operative)

Attività di supporto: programmazione e controllo attività (mansioni direttive)

I comportamenti di un attore potrebbero non coincidere con le aspettative dell’organizzazione. Quando


non c’è una perfetta coincidenza tra quelle che sono le aspettative dell’organizzazione e quelli che sono i
comportamenti delle persone che ricoprono un determinato ruolo si parla di tensioni di ruolo:

 Ambiguità di ruolo: è quando si ha un’incompleta o vaga esplicitazione delle aspettative.


 Distorsioni di ruolo: si ha quando ci si trova in presenza di un’errata trasmissione e ricezione delle
aspettative.
 Incongruenze di ruolo: si ha quando le aspettative che l’azienda trasmette sono diverse rispetto ai
valori e ai bisogni dell’individuo.
 Conflitto fra ruoli: quando un individuo appartiene a gruppi differenti.

La divisione del lavoro

La divisione del lavoro riguarda quali compiti svolge un individuo all’interno dell’azienda. La divisione del
lavoro è di due tipi:

1. La divisione orizzontale esprime la varietà del lavoro, ovvero il numero dei compiti diversi che
compongono una determinata mansione. Quando una persona svolge più compiti ha bisogno di più
tempo per svolgerli tutti, il che significa che il suo livello di monotonia è minore, e viceversa. Se una
mansione è varia e quindi meno monotona, non crea molti problemi in merito a quelli che sono i
livelli motivazionali di un lavoratore; al contrario, quando una persona fa sempre la stessa cosa, poi
si stanca e la monotonia agisce sui livelli motivazionali in maniera inversa, nel senso che
diminuiscono.
2. La divisione verticale identifica il divello di autonomia e capacità di regolazione e controllo del job.
Tanto più una mansione cresce verticalmente, tanto più aumenta l’autonomia e la capacità di
dirigere il lavoro proprio e quello degli altri.

Job design
L’azienda assegna i compiti ai lavoratori seguendo un modello di quattro fasi:

1. La job analysis è un processo di raccolta di informazioni su comportamenti o risultati osservabili


all’interno di una posizione lavorativa: è un’analisi approfondita delle mansioni. Consiste nel
raccogliere informazioni su cosa (compiti), come (metodi), perché (finalità), cosa è richiesto per
farlo (conoscenze e capacità). Gli strumenti di analisi sono interviste, questionari, osservazione.
Queste informazioni andrebbero apportate in un mansionario, ma non tutte le organizzazioni ne
hanno uno. Laddove fosse presente un mansionario, il problema è che quel mansionario riflette
quella che è la situazione al momento in cui è stata progettata l’organizzazione, senza adeguarlo nel
corso del tempo. Per cui, non rifletterebbe la situazione attuale, ma quella di anni prima.
Quest’analisi va fatta sempre nel corso del tempo attraverso i suddetti strumenti appositi.
2. La job description consiste in un documento che descrive i principali compiti e le mansioni di una
posizione organizzativa: è la sistematizzazione e formalizzazione delle informazioni raccolte tramite
job analysis in documenti ad hoc, ovvero il mansionario. Ha carattere facoltativo e raccoglie:
denominazione della mansione, scopo, compiti, contesto, collocazione organigramma. Il
mansionario è importante perché ci permette di sapere in maniera immediata quelle che sono le
attività operative e di supporto che caratterizzano un sistema primario del lavoro, ma anche
perché, laddove dovesse liberarsi una posizione all’interno dell’azienda, sappiamo quali sono i
requisiti che un lavoratore deve avere per ricoprire quella posizione.
3. La job specification consiste in un documento che definisce i requisiti e le competenze necessarie
per occupare una posizione organizzativa. Identifica i requisiti necessari per svolgere con successo i
compiti richiesti dalla posizione (caratteristiche personali) espressi in termini di conoscenze e
abilità.
4. La job evaluation è un processo di pesatura delle posizioni per determinare l’importanza
nell’organizzazione e stabilire le politiche retributive. Determina il valore relativo di una posizione
rispetto alle altre posizioni presenti nella struttura aziendale. Esistono diversi metodi di valutazione:
qualitativi (job ranking e job classification), per cui si fa una classifica delle posizioni dalle più
importanti alle meno importanti, e quantitativi (metodo del punteggio e metodo della
comparazione dei fattori). È utile ai fini retributivi.

Le variabili chiave per progettare la microstruttura

Economie di specializzazione: nel caso della microstruttura, le economie di specializzazione fanno


riferimento a quelle mansioni che si caratterizzano per un basso livello di varietà (mansioni parcellizzate).
Aumentano la qualità del lavoro e la destrezza dell’individuo, diminuiscono i tempi di lavoro e tempi e costi
di apprendimento. Il problema è che, essendo compiti routinari che si svolgono con molta frequenza, la
mansione risulta particolarmente rigida e demotivante. Rigida perché laddove quella mansione dovesse
cessare e non essere più utile all’interno dell’organizzazione, il problema è come riallocare quel lavoratore
all’interno dell’azienda, visto che quell'ultimo non ha mai fatto altre cose oltre quella mansione.
Demotivante perché diminuiscono i livelli motivazionali svolgendo sempre un solo compito.

Incertezza dei compiti: prevedibilità degli eventi. Alcuni compiti sono più prevedibili di altri. Laddove i
compiti sono più prevedibili rispetto agli altri, si può pensare di aumentare in autonomia, cioè avere una
crescita di una mansione a livello verticale, una mansione che non è più varia, ma ricca.

L’interdipendenza spinge verso minore divisione del lavoro; la mansione è più varia e ricca.

Insostituibilità e criticità delle risorse: specificità delle risorse umane: risorse specifiche e non sostituibili
nel breve periodo. Bisogna arricchire la mansione per consentire al lavoratore di crescere in autonomia.
Conflitto di interesse e potenziale di opportunismo: la cosa migliore da fare è quella di dividere il lavoro
verticalmente, diminuendo i compiti e aumentando i controlli sul lavoratore. Nel caso della divisione
orizzontale bisogna separare l’esecuzione del lavoro dalla programmazione e dal controllo.

Capitolo 12: organizzazione e gestione del lavoro

La gestione delle risorse umane è un tema che si collega ad altri due aspetti dell’organizzazione aziendale:
l’organizzazione del lavoro e l’architettura contrattuale. L'organizzazione del lavoro è quella parte
dell’organizzazione aziendale che si preoccupa di definire chi fa che cosa all’interno dell’azienda. Va a
definire i compiti che i lavoratori devono svolgere all’interno dell’azienda e come queste attività lavorative
devono essere svolte. Le domande sono chi? (l’individuo), cosa? (mansioni e attività che afferiscono a una
determinata mansione), e come? (modalità di esecuzione del lavoro). L'architettura contrattuale
rappresenta la parte giuridica che va a normare quelli che sono i rapporti tra l’individuo e l’organizzazione e
viceversa, ovvero i rapporti tra l’organizzazione e i propri lavoratori.

La gestione delle risorse umane è quella parte dell’organizzazione aziendale che si occupa della direzione
del personale nelle organizzazioni, poiché l’organizzazione si compone di persone che svolgono attività che
devono essere coordinate e idoneamente gestite, quindi come gestire i lavoratori all’interno
dell’organizzazione. La gestione delle risorse umane è importante le persone sono tutte diverse tra loro, le
loro attitudini e caratteristiche individuali sono diverse e quindi esse devono essere gestite in maniera
diversa. Il fine di andare incontro a quelle che sono le esigenze dei lavoratori è quello di avere dei lavoratori
più soddisfatti e contenti di andare la mattina a lavoro, quindi avere una persona più produttiva e
performante in modo che anche la performance dell’organizzazione sarà maggiore: l’azienda deve tenere
conto di quelle che sono le mutevoli esigenze da parte dei lavoratori. I lavoratori all’interno di
un'organizzazione vengono gestiti attraverso dei sistemi e delle politiche di gestione delle risorse umane. I
sistemi della gestione delle risorse umane sono tre pilastri che consentono la gestione efficace dei
lavoratori all’interno dell’organizzazione e sono: la mobilità e lo sviluppo, la valutazione e le ricompense. Le
politiche le troviamo all’interno dei sistemi e sono quelle leve a disposizione dei manager o nello specifico
del responsabile delle risorse umane che consentono di gestire efficacemente i lavoratori. Bisogna trattare
la gestione delle risorse umane non in via sporadica ma in via sistemica, ovvero definire quei sistemi e
quelle politiche che consentono un’adeguata gestione dei lavoratori all'interno dell’organizzazione,
consapevoli che se si interviene successivamente su uno di questi sistemi o di queste politiche cambiandoli,
inevitabilmente si avranno dei riflessi sugli altri, e quindi verosimilmente la miglior cosa sarebbe quella di
ridefinire il sistema tenendo conto di tutti i possibili collegamenti.

Il sistema di mobilità e sviluppo

La mobilità fa riferimento a tutte quelle scelte che riguardano il lavoratore dal suo ingresso all’interno
dell’organizzazione fino alla sua uscita: tutti quelli che sono gli step che un lavoratore compie in
un’organizzazione, i possibili spostamenti tra le diverse posizioni. Inizia proprio con la fase di ricerca e
selezione, quindi dalla scelta del lavoratore che proviene dall’esterno dell’organizzazione, il suo inserimento
all’interno dell’azienda, la socializzazione organizzativa fino alla sua uscita che rappresenta l’ultimo step,
che avviene per diversi motivi, per decisione dell’azienda o dello stesso lavoratore. A ciò poi si aggiunge
anche la carriera, intesa come carriera organizzativa, cioè un insieme di posizioni e attività lavorative che il
lavoratore ha svolto durante la sua permanenza nell’organizzazione.

Lo sviluppo è quella parte dell’organizzazione il cui compito è sviluppare le conoscenze e le competenze


all’interno dell’organizzazione. Spesso il lavoratore, quando viene assunto, non ha le conoscenze e
competenze necessarie per quell’attività lavorativa; l’azienda deve eliminare il gap tra le competenze che il
lavoratore ha e quelle che invece dovrebbe avere per ricoprire una determinata posizione organizzativa.
Questo gap si risolve con la formazione.
Con riferimento alla mobilità avremo: il reclutamento, la selezione, l’inserimento, la socializzazione e la
carriera.

Il reclutamento e la selezione

Sono due fasi che consentono di selezionare un individuo che sarà inserito successivamente all’interno
dell’organizzazione oppure, se già presente nell’organizzazione, consentono di prendere un individuo e
collocarlo in una nuova unità organizzativa o affidargli una posizione diversa e magari migliore.

 Il reclutamento è uno strumento attraverso il quale l’impresa esprime la propria domanda di lavoro
con particolare riferimento alle prestazioni future in combinazioni non ancora sperimentate tra
risorse e impieghi. È quella fase della mobilità in cui l’azienda esternalizza o esprime al proprio
interno la domanda di lavoro: c’è una posizione vacante all’interno dell'organizzazione e il
problema per l’azienda è chi dovrà ricoprire quella determinata posizione. L’azienda, per trovare il
lavoratore che dovrà svolgere quelle determinate attività collegate a quella posizione organizzativa,
esprime la propria domanda di lavoro in due modalità: si rivolge al mercato interno del lavoro, cioè
guarda all’interno dei suoi stessi confini se vi è qualcuno che abbia le competenze, conoscenze e
capacità per ricoprire la posizione vacante; se non dovessero esserci persone in grado di ricoprire
quella posizione organizzativa oppure se l’azienda non volesse affidare a persone interne lo
svolgimento di quell’attività, si rivolge al mercato esterno del lavoro. È un processo decisionale
euristico: la sperimentazione e i tentativi/errori permettono di scoprire combinazioni efficaci.
 Dopo la fase di reclutamento si passa alla fase di selezione. La selezione è un processo che
consente di scegliere un candidato all’interno o all’esterno dell’azienda che presenta la propria
domanda attraverso il curriculum. È un processo a due vie di scelta caratterizzato da asimmetria
informativa ex ante. Durante la selezione, l’azienda sarà chiamata a scegliere all’interno di una rosa
di candidati il candidato migliore o più idoneo a ricoprire la posizione organizzativa. Lo si sceglie
cercando di matchare e mettere insieme quelle che sono le caratteristiche che un candidato ha in
termini di conoscenze, competenze e capacità, con quelle che sono invece le caratteristiche che
l’azienda richiede per poter ricoprire una determinata posizione organizzativa. Si guardano due
cose: il profilo della posizione organizzativa libera, ovvero le caratteristiche che la persona
dovrebbe avere, e il candidato. L'obiettivo è quello di venire a contatto nel modo più veloce ed al
minor costo possibile con i candidati in linea con il profilo della posizione da ricoprire.

Inserimento e socializzazione

Dopo aver scelto il candidato è necessario investire nel suo inserimento e socializzazione.

 L'inserimento è un primo momento attraverso il quale l’individuo viene a contatto con le norme e
le aspettative di uno specifico contesto, che sono riflesse nel contratto psicologico, attraverso il
quale l’individuo matura delle aspettative in merito all’organizzazione. In particolare, si ottengono
maggiori informazioni su come l’organizzazione richiede di utilizzare le competenze individuali, il
livello minimo e il livello medio di performance attesi, valori e norme di coinvolgimento nelle
attività.
 La socializzazione è quel momento in cui l’individuo comincia a socializzare con gli altri lavoratori
dell’azienda. È un momento importante perché l‘azienda è fatta di persone e mezzi, quindi le
relazioni sono molto importanti. Se la qualità delle relazioni all’interno di un’organizzazione è
buona consente di veicolare agevolmente delle informazioni; se non vi sono delle buone relazioni,
questo non consente il corretto svolgimento delle attività lavorative. Quado si parla di ciò, si fa
riferimento a due costrutti riguardo la socializzazione molto importanti che si chiamano team
member exchange e leader member exchange. Il primo fa riferimento alla qualità delle relazioni tra
i colleghi, il secondo fa riferimento alla qualità delle relazioni tra il leader e i follower. La
socializzazione è un processo che consente al neofita all’interno dell’organizzazione di sviluppare
delle nuove relazioni lavorative oppure, in caso già ci fossero delle relazioni lavorative, di rinsaldare
oppure di crearne di più stabili. Avviene un confronto in cui l’individuo valuta la coerenza rispetto
all’organizzazione, cioè il grado di congruenza tra individuo ed organizzazione e le possibilità di
adattamento, e la coerenza rispetto alle aspettative, cioè la distanza tra le attese riferite al lavoro e
la realtà sperimentata.

Formazione

Si trova nella parte dello sviluppo. La formazione è quella politica che consente all’organizzazione di
sviluppare le conoscenze e le competenze dei lavoratori mettendoli nelle condizioni di poter svolgere
determinate attività lavorative. È un processo di sviluppo di specificità professionali per rispondere alle
esigenze del posto di lavoro. Investire in formazione per l’azienda significa investire sullo sviluppo delle
capacità possedute dagli individui. Quando si parla di formazione, di solito si fa riferimento a un processo
che riguarda due tipologie diverse di capacità: capacità specifiche e capacità generiche. All'inizio i lavoratori
vengono formati prima in maniera generica, e poi con il passare del tempo si investe in formazione sempre
più specifica. Tipicamente la formazione sulle capacità generiche è rivolta ai neoinseriti e col tempo
l’investimento tende sempre più a sviluppare capacità specifiche. La formazione generica di solito viene
effettuata o dall’organizzazione stessa o da altri enti terzi, sia indoor (nei confini aziendali) o outdoor (fuori
dai confini aziendali). Poi con il passare del tempo i lavoratori avranno bisogno di una formazione sempre
più specifica che l’azienda di solito fa indoor o tramite l’affiancamento dei lavoratori più esperti ma anche
tramite l’erogazione di formazione di tipo frontale effettuata tramite degli esperti o dei consulenti esterni.
Come fenomeno economico, la formazione la si può vedere come un investimento, nel senso che l’azienda
investe nel suo lavoratore perché in seguito si aspetta un ritorno anche in termini economici sulla
performance del lavoratore. Come fenomeno organizzativo, invece, la si vede come un cambiamento dello
status delle diverse professionalità. L a formazione può essere un investimento rischioso per l’azienda: il
risultato è incerto e può diventare obsoleto prima che i costi siano recuperati; l’investimento è
materializzato in un sapere che non è nella disponibilità assoluta dell’impresa; l’investimento può erogare
la sua utilità solo attraverso un comportamento attivo da parte di soggetti diversi dall’impresa; i rendimenti
di tali investimenti non sono appropriabili totalmente ed esclusivamente dal soggetto investitore, sia esso
l’impresa o il singolo lavoratore.

Gli strumenti di formazione si dividono in tradizionali, cioè la formazione d’aula (lezioni, discussione di casi,
esercitazioni, role playing), e interni, cioè la formazione sul campo (affiancamento, tutorship, coaching, self-
training). L’investimento in formazione specifica e gli obiettivi di capitalizzazione e trasferibilità del sapere
collettivo richiedono un sempre maggiore ricorso a strumenti interni.

Carriera

Quando si fa riferimento alla carriera, si fa riferimento alla carriera individuale ma anche organizzativa. La
carriera individuale è la sequenza, percepita in modo soggettivo e individuale, degli atteggiamenti e
comportamenti associati alle esperienze ed alle attività lavorative svolte nel corso della propria vita (Hall). È
vista come un insieme di step che consentono agli individui di raggiungere degli obiettivi e delle posizioni
all’interno dell’organizzazione, quindi un insieme di posizioni che l’individuo ha ricoperto nel corso della sua
permanenza in quella determinata azienda, un po’ anche come dei livelli di crescita. Il grado di successo di
una carriera va valutato in termini di: adattabilità (capacità/propensione a cambiare organizzazione),
atteggiamenti (importanza della carriera nella propria vita), identità (rappresentazione interiore di sé
riferita alla carriera), performance (dal punto di vista organizzativo è un successo oggettivo e dal punto di
vista psicologico è un successo soggettivo). La carriera organizzativa, secondo Salvemini, è un insieme delle
mansioni (la mansione è un insieme di compiti e ogni persona nell’azienda ne ha una) che un individuo
ricopre nel tempo e che sono qualificate congiuntamente dal livello retributivo, dalla qualifica, dalla
posizione, dal livello gerarchico, dai contenuti e dalle caratteristiche professionali dei compiti. Secondo
Schein, è il sistema che consente di progettare la dinamica retributiva associata alla dinamica organizzativa.
È quindi uno strumento di rinforzo alle logiche di funzionamento del mercato interno del lavoro.

I criteri di carriera

Anzianità: è un criterio oggettivo che premia la fedeltà all’organizzazione e la durata della relazione di
lavoro (basso turnover). Contribuisce a ridurre i costi di influenza, in quanto standardizza il sistema delle
promozioni e riduce la discrezionalità delle decisioni in tema di avanzamento di carriera. È coerente con
organizzazioni meccanicistiche in ambiente stabile.

Merito: le promozioni vengono assegnate tramite un “torneo interno”, poiché per ogni posizione da
ricoprire concorrono più persone. Questo criterio richiede il supporto della valutazione del potenziale o la
predisposizione dei doppi sentieri di carriera. È coerente con organizzazioni dinamiche in ambiente
competitivo.

Criterio euristico del “sufficientemente adeguato”: non è il migliore o il più meritevole ad essere
promosso, ma colui che è “abbastanza bravo” per ricoprire una determinata posizione. Questo accade
perché, nella realtà, incide sensibilmente sulle probabilità di promozione la conformità degli atteggiamenti
di un individuo a norme e valori dell’organizzazione (in generale) e del gruppo di potere dominante (in
particolare).

La partnership: quelle realtà a forte contenuto professionale, che lavorano per progetti e a stretto contatto
con i clienti, si sviluppa una relazione idiosincratica tra individuo e organizzazione, per cui i tradizionali
sistemi di valutazione e promozione possono andare in crisi. L’unico modo allora per fare carriera è
“diventare partner” o uscire.

Criterio del merito: promozione basata sulla prestazione. Secondo il principio di Peter, può accadere che la
persona migliore nelle prestazioni al proprio livello non sia il migliore candidato per la posizione a livello più
elevato. Le soluzioni sono sentieri di carriera multipli: carriere di tipo professionale o carriere di tipo
manageriale. I vantaggi sono sinergie tra risorse umane e compiti e rendere buone opportunità di carriera
compatibili con strutture organizzative non troppo verticalizzate. Un’altra soluzione è la valutazione del
potenziale: si promuove la persona non con la migliore prestazione al proprio livello, ma con la prestazione
potenzialmente migliore a livello superiore.

I sistemi di valutazione

È quel sistema della gestione delle risorse umane che si occupa della valutazione del personale all’interno
dell’organizzazione. È un momento molto importante perché consente all’organizzazione di tenere conto di
quelle che sono state le attività svolte da un lavoratore; consente anche all’azienda di cercare di capire
quelle che sono le competenze che un lavoratore potrebbe avere, cioè se è in grado o meno di ricoprire una
determinata posizione organizzativa o addirittura cercare di comprendere il suo potenziale (cercare di
capire ad oggi quelle che saranno le sue capacità in futuro di svolgere una determinata posizione
organizzativa). Le politiche della valutazione sono: valutazione della posizione organizzativa, valutazione
delle competenze di un lavoratore, valutazione della prestazione, valutazione del potenziale.

Valutazione della posizione organizzativa

La valutazione della posizione intende comparare i valori relativi delle differenti mansioni entro
un’organizzazione, indipendentemente dalle competenze e dalle prestazioni degli specifici attori che
possono esserne titolari, al fine di porre le basi per una razionale struttura retributiva. Una posizione
organizzativa è un insieme di diritti di azione all’interno di un sistema. Una posizione organizzativa può
essere vista come un ruolo che la persona ha all’interno dell’organizzazione che è legato a una specifica
mansione. All'interno dell’azienda vi sono diverse posizioni organizzative e bisogna valutarle perché è utile
per cercare di capire qual è il contributo che quella posizione organizzativa dà a quella che è la performance
dell’organizzazione, aiuta a capire quindi se una posizione è centrale o meno all’interno dell’organigramma,
e capire qual è il peso che quella posizione organizzativa ha nell’organigramma, se è importante o meno
rispetto alle altre. Si effettua la valutazione delle posizioni organizzative per cercare di capire anche qual è
la ricompensa che un lavoratore che ricopre quella posizione organizzativa di fatto dovrebbe avere, nel
senso che la posizione organizzativa è collegata a un livello di retribuzione fissa. Esistono diversi modi per
poter valutare le posizioni organizzative, ad esempio, la graduazione delle posizioni: si attribuiscono dei
punteggi assoluti o per fasce (classi) alle diverse posizioni organizzative che definiscono il valore relativo di
ciascuna posizione. A ciascun punteggio o a ciascuna classe occorre attribuire un certo valore retributivo,
che rappresenta la quota fissa di retribuzione per quella posizione, determinata considerando sia la
tendenza del mercato del lavoro per le posizioni simili, sia la politica retributiva che l’azienda intende
adottare.

Valutazione della prestazione

La valutazione della prestazione rileva e misura il valore dei contributi forniti da date risorse umane
fornendo una base di informazioni cui legare ricompense (monetarie e non) in funzione dei contributi
forniti (prestazione). La prestazione è la performance dell’individuo attuata per raggiungere un obiettivo:
viene a priori definito un obiettivo, dopodiché l’azienda dovrà dotare l’individuo degli strumenti per poter
svolgere una determinata prestazione e raggiungere un determinato obiettivo; alla fine si avranno dei
risultati che il lavoratore avrà raggiunto. La valutazione della prestazione lavorativa è un processo che
avviene solitamente tramite due cose: si valutano o i comportamenti o i risultati. La valutazione dei
comportamenti (detta anche di input) è quel processo che consente all’organizzazione o a un manager di
rilevare quelli che sono i comportamenti del lavoratore nello svolgimento di una determinata prestazione
lavorativa, cioè cosa il lavoratore fa, se ad esempio è presente a lavoro, arriva in orario o in ritardo ecc… La
valutazione dei risultati (detta anche dell’output) è l’output della performance che indica la capacità o
meno che l’individuo ha avuto nel raggiungimento dell’obiettivo definito a priori. A volte purtroppo capita
che un dirigente/un principale/un leader, non sia in grado di osservare e quindi valutare i comportamenti
dei lavoratori per diversi motivi, ad esempio quando un lavoratore svolge parte della sua attività lavorativa
da casa e quindi il principale non si trova con lui nello stesso posto e non riesce a valutare i suoi
comportamenti ma può valutare i risultati. Le criticità della valutazione dei risultati è il fatto che questi
ultimi non sono sempre misurabili, ad esempio, quando l’azienda svolge un’attività lavorativa inserendo i
lavoratori all’interno dei team poiché l’output non è individuale, e, allo stesso tempo non può osservare e
valutare i comportamenti. Un ultimo aspetto è la conoscenza delle relazioni causa-effetto, anche questo
non è sempre possibile, cioè dato un determinato effetto io non sono in grado di definire quali siano le
cause con esattezza, ad esempio lo smartworking o le relazioni di agenzia.

La scelta tra input e output dipende da tre fattori: dall’osservabilità dei comportamenti, dalla misurabilità
dei risultati e dalla conoscenza delle relazioni causa-effetto.

Le difficoltà nella valutazione della prestazione possono dipendere da varianza dei risultati dovuta a fattori
esogeni (soluzione: viene esteso l’orizzonte temporale di valutazione valutando serie temporali di
prestazioni) e interdipendenza con altri attori (soluzione: cambiare la valutazione sui risultati con alcuni
parametri di valutazione dei comportamenti; ampliare il ventaglio dei parametri di valutazione dei risultati
considerati; valutare i risultati collettivi degli attori interdipendenti).

Valutazione del potenziale

Consente di valutare il potenziale di un lavoratore o un candidato a ricoprire una posizione organizzativa. La


finalità è quella di apprezzare le capacità di sviluppo e di prestazione futura della persone risorse umane in
attività nuove rispetto agli impieghi passati, effettuandone solo una stima a priori. La valutazione del
potenziale si basa su due postulati: ogni lavoratore possiede energie, attitudini, abilità, delle quali una parte
viene utilizzata e una parte resta in una situazione di potenziale disponibilità; il “surplus” di dotazioni
individuale non era ancora impiegato può essere individuato con appositi strumenti e valorizzato con
opportune politiche. Il rischio è che la valutazione potrebbe non sortire gli effetti desiderati poiché quel
candidato con il tempo potrebbe rivelarsi non in grado di ricoprire quella posizione organizzativa. Per
questo tipo di valutazione il mercato interno è meno rischioso, poiché l’azienda può avere più strumenti
per la stessa valutazione, mentre per il mercato esterno potrebbe verificarsi un’asimmetria informativa.

Sistema delle competenze

Il sistema delle ricompense è strettamente collegato agli altri due sistemi, ma in particolar modo al sistema
della valutazione, perché, i lavoratori che sono valutati, devono anche essere idoneamente ricompensati: la
valutazione serve in particolar modo, anche se non esclusivamente, per poter ricompensare i lavoratori
all’interno dell’organizzazione. Vi sono diverse tipologie di ricompense tra cui:

 ricompense implicite: ricompense non monetarie che l’azienda corrisponde al lavoratore, come le
possibilità di sviluppo professionale e di carriera;
 ricompense esplicite: risorse monetarie o monetizzabili che sono corrisposte al lavoratore, ad
esempio lo stipendio.

Entrambe spingono sula sfera motivazionale del lavoratore per porre in essere una determinata prestazione
spingendolo ad allineare i propri obiettivi a quelli dell’organizzazione.

Le ricompense non monetarie ma monetizzabili sono dei benefici aggiuntivi che l’organizzazione mette a
disposizione del lavoratore per poterlo ricompensare per l’attività lavorativa che viene svolta, come ad
esempio i premi aziendali quando si raggiunge un determinato risultato. Nella tabella è illustrato il sistema
delle ricompense esplicite, dette anche compensation, che mette in relazione le ricompense di tipo
monetario oppure non monetario con altre forme di ricompensa quali quelle fisse e quelle variabili:
mettendo insieme queste due variabili si ottiene questa matrice detta compensation. Lo stipendio
solitamente si basa sulla retribuzione di posizione e non in base a quello che hanno fatto le persone, quindi
tutte le persone che hanno quel ruolo percepiranno lo stesso stipendio. Altre volte capita che uno stipendio
si compone di una parte di ricompensa fissa (quindi retribuzione di posizione) e una parte di ricompensa
variabile (retribuzione di prestazione) che si calcola in base a quella che è la prestazione lavorativa di un
dipendente: viene valutata la performance di un dipendente o di comportamenti o degli output. In
generale, le ricompense variabili vengono utilizzate per poter ricompensare il lavoratore in base a quello
che è stato l’esito della sua prestazione lavorativa, cosicché le persone che avranno fatto di più verranno
ricompensate di più, mentre le persone che avranno fatto di meno verranno ricompensate di meno.

Retribuzione

La retribuzione è lo strumento principale attraverso il quale l’azienda ricompensa i propri lavoratori per
l’attività lavorativa che hanno svolto. È inoltre lo strumento attraverso il quale l’impresa persegue
l’obiettivo di attirare, trattenere e motivare i lavoratori con caratteristiche idonee al perseguimento degli
obiettivi aziendali. La retribuzione si distingue quindi in due tipologie: una retribuzione in funzione della
posizione, che assume il nome di retribuzione di base o fissa, perché rappresenta la base dello stipendio.
Per chi si trova in un punto più basso della piramide aziendale rappresenta la quasi totalità dell’intera
retribuzione. Vi è poi una retribuzione in funzione della prestazione, detta anche retribuzione variabile,
perché varia in base a quella che è la produttività di un lavoratore: chi sarà appunto più produttivo otterrà
di più e viceversa. Di solito l’azienda sceglie di fare un mix delle due per premiare l’impegno dei suoi
lavoratori.

Forme di retribuzione variabile


 Cottimo: è una forma di retribuzione variabile perché si basa sulla prestazione lavorativa; viene
utilizzata per ricompensare le posizioni esecutive, cioè chi si trova nel basso della piramide
aziendale, anche se non avviene sempre. Questa forma di retribuzione prevede che le ricompense
siano attribuite in funzione delle unità prodotte così che i lavoratori vengano pagati in base a quella
che è la loro produttività, cioè in base al numero di prodotti che riescono a fare. Incentiva il
contributo individuale dell’operaio nella saturazione dei tempi di lavoro e nell’utilizzo efficiente
delle risorse: non utilizzando il cottimo, ma solo retribuendo in base alla posizione, le persone
potrebbero impiegare più tempo e risorse rispetto a chi ottiene il cottimo, perché se una persona sa
di essere pagata in base al numero di unità prodotte questa persona cercherà di ridurre quanto più
possibile quelle che sono le inefficienze ma anche quelli che sono i tempi morti, producendo di più
poiché più motivato e quindi ottenendo più stipendio. Il cottimo trova ampia applicazione nelle
imprese industriali di tipo taylorista ed in sistemi tecnici non altamente automatizzati (cioè in quelle
aziende in cui le attività operative sono a priori definite e si svolgono in maniera routinaria e
ripetitiva, dove i compiti sono sicuramente semplici e altamente automatizzati). Limiti:
automazione dei compiti più semplici, affermazione di nuovi modelli di divisione del lavoro
(arricchimento delle mansioni, maggior impiego del lavoro di squadra).
 Gain sharing: è una forma di retribuzione variabile ma destinata ai gruppi di lavoro: vengono
retribuiti i componenti del gruppo di lavoro. Vengono innanzitutto definiti gli obiettivi del gruppo di
lavoro e dopodiché, se il gruppo sarà stato in grado di raggiungere quei determinati obiettivi,
queste persone saranno ricompensate. È la partecipazione ai guadagni che si originano dalla
prestazione di un gruppo di unità; non è valutata la prestazione del singolo individuo, ma è valutata
la prestazione del gruppo, anche perché spesso, quando un individuo lavora all’interno di un
gruppo, la sua capacità di contribuire alla produzione di squadra, non è distinguibile rispetto al
contributo che danno gli altri individui, infatti tutti i componenti avranno la stessa valutazione. Il
gain sharing è caratterizzato dalla socializzazione delle informazioni e partecipazione alle decisioni.
Il vantaggio è quello di cercare di allineare gli obiettivi dei singoli a quelli che sono gli obiettivi del
gruppo, perché se una persona sa che sarà retribuita in base alla produzione del gruppo si
impegnerà a raggiungere quello che è l’obiettivo del gruppo.
 Profit sharing: è una forma di retribuzione variabile di gruppo. Si distingue dal gain sharing perché
non è legata alla produttività del gruppo di lavoro, ma ai risultati economici dell’impresa nel suo
insieme. È efficace quando: il gruppo è di ridotte dimensioni; quando la responsabilità e l’incidenza
delle azioni sui risultati sono rilevanti; quando la partecipazione riguarda i profitti e non anche le
perdite; quando è possibile accordarsi su procedure eque e trasparenti di definizione e misurazione
dei profitti da distribuire.
 Management by objectives: è una forma di retribuzione variabile, che viene utilizzata per i
manager, cioè trova ampia applicazione a livello direttivo: è un sistema retributivo applicato a
livello direttivo. È efficace quando i manager stabiliscono a priori quelli che sono i risultati da
raggiungere, concertandoli anche con l’organizzazione, all’interno di un intervallo temporale
definito. Successivamente si avvia l’attività lavorativa e poi a valle ci saranno dei risultati; alla fine si
andrà a vedere se i risultati raggiunti sono maggiori, uguali o inferiori a quelli che sono gli obiettivi
definiti. Si impiegano quindi tali obiettivi come criteri per valutare il livello di performance raggiunta
dai diversi responsabili. È caratterizzato dall’esistenza di uno stretto collegamento tra il sistema di
programmazione e controllo, il sistema di valutazione delle prestazioni ed il sistema di
incentivazione monetaria.

Capitolo 13: organizzazione interna (errore di analisi organizzativa nella progettazione della
macrostruttura)
Ridurre i sintomi e le disfunzioni manifeste investendo in “migliori meccanismi di coordinamento” tra le
parti. È opportuno partire da un’analisi dell’efficacia e dell’efficienza della configurazione delle unità
organizzative. Definizione dei confini delle unità organizzative:

 Definizione delle attività di base: nuclei di attività tecnicamente inseparabili


 Considerazione delle variabili chiave: incertezza ambientale e dei compiti, economie di
specializzazione, scala e raggio d’azione, interdipendenza tra attività, limiti alle dimensioni efficienti
delle unità, possibili conflitti di interesse

Analisi delle incertezze

La diversità nel grado di incertezza delle attività è una barriera alla loro aggregazione.

Le attività più programmabili, se svolte dalle stesse persone che dovrebbero svolgere anche attività poco
programmabili, scacciano queste ultime dall’attenzione degli attori.

Le attività a forte aleatorietà e intensità di ricerca richiedono un ambiente organizzativo con attività poco
formalizzate e standardizzate.

La separazione di attività con diverso grado di incertezza in diverse unità genera vantaggi di apprendimento
e di specializzazione.

Analisi delle specializzazioni

La diversità nelle competenze richieste dalle attività è una barriera alla loro aggregazione. Competenze
diverse presuppongono culture diverse, “rigide” o “flessibili”. Orientamento alla standardizzazione o
all’innovazione, orientamento ai compiti, alle persone o ai risultati, orientamento al breve o al lungo
termine.

Analisi delle interdipendenze

Le interdipendenze complesse, di tipo intensivo o reciproco, tra attività richiedono mutuo aggiustamento e
favoriscono l’aggregazione delle attività in una stessa unità.

Le interdipendenze semplici possono essere efficacemente regolate anche tra unità diverse tramite scorte
prezzi o programmi (interdipendenze sequenziali) e regole di accesso alle risorse comuni e procedure di
comunicazione tra utenti (interdipendenze da risorse comuni).

Limiti alle dimensioni delle unità

Le economie di scala e di raggio d’azione ed i costi di controllo contribuiscono a definire i confini efficienti di
un’unità organizzativa. Un allargamento delle unità è favorito dall’opportunità di realizzare economie di
scala o di scope quando l’aggregazione di più attività consentisse di saturare risorse umane e tecniche che
rimarrebbero altrimenti sottoutilizzate. Un allargamento delle unità è favorito da bassi costi di controllo se
le attività sono fortemente programmate e regolate da meccanismi formali, se lo stile di supervisione non è
di tipo accentrato, se gli obiettivi degli attori non sono in conflitto tra loro.

Conflitti d’interesse

L’incompatibilità tra obiettivi ed il conflitto d’interessi rappresenta una barriera all’aggregazione delle
attività. L’assegnazione alle stesse persone di attività orientate ad obiettivi diversi e conflittuali può
generare forti sub-ottimizzazioni nello svolgimento di entrambe le attività.

Criteri per l’aggregazione delle attività


Le attività e le risorse dovrebbero essere aggregate in modo da max l’interdipendenza all’interno di ogni
unità e min l’interdipendenza tra unità (min dei costi di coordinamento).

Le attività e le risorse dovrebbero essere aggregate in modo da minimizzare la differenziazione interna ad


ogni unità e da massimizzare la differenziazione tra unità (economie di scala e di specializzazione).

Le dimensioni di qualunque unità non devono superare il limite oltre il quale l’incremento dei costi di
controllo superi le riduzioni nei costi di coordinamento e di produzione.

Non devono essere aggregate attività con interessi in conflitto o incompatibili.

Possibile compresenza di diversi criteri di specializzazione delle attività: specializzazione per funzione,
specializzazione per prodotto o progetto, specializzazione per processo, specializzazione per sbocchi di
mercato, specializzazione per tipo di relazione o partner.

Capitolo 14: configurazioni organizzative

Principio di contingenza (Lawrence e Lorsh, 1967)

Gli assetti organizzativi efficaci ed efficienti non sono indipendenti dalla natura delle attività da organizzare.

Il principio universalistico è diverso dall’approccio degli archetipi. Secondo il principio universalistico, esiste
un modello ottimo di organizzazione (one best way of organizing) in generale, universalmente valida
indipendentemente dalla natura delle attività. Gli archetipi sono modelli ideali di forme organizzative
presentati come alternative per la progettazione dell’assetto e dei meccanismi di relazione organizzativa a
livello dell’azienda. Di conseguenza, rappresentano dei modelli da cui avviare l’analisi e la rappresentazione
di un’organizzazione, con l’obiettivo di arricchirla con indagini più approfondite che ne sappiano cogliere
anche gli aspetti originali ed unici.

Esiste un’ampia varietà di forme organizzative per quanto è ampia la varietà di combinazioni possibili tra
tutti i diversi particolari meccanismi del coordinamento e tutte le particolari modalità di divisione dei diritti
di azione, decisione, controllo e proprietà tra sotto-unità.

L’individuazione di forme tipiche non implica il messaggio che deviazioni dai singoli tipi siano fonte di
imperfezione o disfunzioni. Tuttavia, è utile disporre di un portafoglio di soluzioni o forme conosciute,
salienti, ricorrenti, e di cui sono già state sperimentate le principali condizioni d’uso.

Configurazioni di base della struttura organizzativa

Secondo l’approccio integrato abbiamo le forme unitarie e le forme divisionali. Secondo l’approccio non
integrato, abbiamo la forma elementare, la forma funzionale, la forma divisionale e la forma a matrice. Si fa
riferimento alle configurazioni organizzative per far riferimento alle strutture e alle forme che adottano le
aziende per poter organizzare quello che è il lavoro delle risorse per lo svolgimento di determinate attività.
Quando si parla di forme organizzative si fa riferimento a tre livelli di analisi (progettazione) organizzativa:

 Livello di analisi micro: mansione. Job design, chi lavoratore fa che cosa.
 Livello di analisi meso: coordinamento. L’oggetto di studio è l’insieme dei lavoratori: si associa a
ognuno una mansione e si creano le unità organizzative che sono quelle parti dell’azienda dove
all’interno si trovano i diversi lavoratori. Si devono creare delle unità organizzative secondo dei
criteri, detti di specializzazione.
 Livello di analisi macro: forma organizzativa: Definizione della configurazione organizzativa che
consente di svolgere all’azienda le sue attività.

La forma organizzativa indica la struttura dell’organizzazione. È la configurazione scelta dall’organizzazione


per svolgere la sua attività seguendo i requisiti di efficacia, efficienza ed equità. È la base su cui poggia
l’organizzazione perché, a seconda del modello organizzativo che l’azienda adotta, può svolgere in
determinati modi alcune attività piuttosto che altre. Definisce anche il perimetro dell’organizzazione intesa
come capacità di agire: se l’organizzazione vuole allargare il proprio perimetro, cioè il proprio spazio di
azione, dovrebbe cambiare anche il proprio modello organizzativo. Quello che spesso accade nella realtà è
che le organizzazioni disegnano un modello organizzativo per avviare l’attività; successivamente, in base a
quelle che sono le esigenze relative al mercato, i competitor, la clientela, ecc., l’azienda va modificare la
struttura senza portarne formalizzazione all’interno dei documenti aziendali, come ad esempio
l’organigramma. Non dovrebbe essere così, nel senso che laddove ci fosse bisogno di modifiche, andrebbe
ridisegnato il modello organizzativo.

Esistono diverse forme organizzative:

 Forme elementari
 Forme funzionali
 Forme divisionali
 Forme a matrice

Possiamo inoltre distinguere le forme unitarie e divisionali. Le forme unitarie sarebbero le forme semplici,
funzionali ma anche a matrice; sono quelle forme che guardano all’azienda nella sua interezza dove le
diverse unità organizzative che la compongono tra di loro interagiscono per poter raggiungere tutte insieme
la stessa finalità. Le forme divisionali sono quattro e sono quelle forme in cui le unità organizzative che
compongono l’organizzazione sono delle unità che godono di una certa autonomia, anche economica; sono
in grado di effettuare delle scelte anche non tenendo conto delle altre unità organizzative, però non hanno
autonomia giuridica.

La scelta della forma da adottare dipende da dimensione, risorse economiche, tecniche ed umane e dai
criteri di specializzazione.

Le forme semplici o elementari

È una forma organizzativa adottata da una pluralità di aziende: è tipica delle aziende artigiane, delle aziende
di piccole dimensioni, solitamente a conduzione familiare. La figura dell’imprenditore, cioè chi mette a
disposizione capitale e risorse per l’organizzazione, è anche colui che successivamente si occupa della
gestione: la figura dell’imprenditore coincide con quella del manager.

Le forme semplici o elementari hanno una struttura organizzativa articolata su due livelli gerarchici: vertice
strategico e nucleo operativo. Hanno una struttura piatta perché manca la linea intermedia. Il vertice
strategico è la testa dell'organizzazione, la parte che si trova in alto nella piramide aziendale; all’interno del
vertice strategico troviamo l’imprenditore-manager, insieme, alcune volte, a una cerchia ristretta di
collaboratori e manager che lo coadiuvano nella sua attività di programmazione e controllo. Godono di
maggior autonomia e sono capaci di coordinare il lavoro proprio e quello egli altri, cioè si occupano del
coordinamento di tutte le risorse nell’organizzazione. Il nucleo operativo è quella parte dell'organizzazione
che si occupa della produzione dei beni e dell’erogazione dei servizi, cioè la parte che si trova in basso nella
piramide aziendale che si compone anche di più persone.

Caratteristiche: scarsa specializzazione (i lavoratori svolgono tutti le stesse cose), scarsa formalizzazione,
elevato accentramento (il potere decisionale sta nelle mani di una o al massimo due persone). Al di sopra
abbiamo il vertice strategico, e sotto ci sono le unità del nucleo operativo. I rettangoli sono tra di loro
collegati con delle linee. Questo organigramma esprime una relazione di potere influenza, cioè l’unità
organizzativa che si trova sopra dirige i lavori dell'unità organizzativa che si trova sotto. Altre volte può
capitare che l’organigramma non si estenda verticalmente ma orizzontalmente. In quel caso si tratta non di
un organo di line, come in questo caso, ma di staff.
Differenza tra organi di line e di staff: gli organi di line sono quelli in cui le persone che stanno all’interno
possono prendere delle decisioni e hanno un certo livello di autonomia; gli organi di staff sono quelli in cui
le persone che stanno all’interno non hanno autonomia decisionale, ma hanno il compito di supportare le
unità organizzative che si trovano posizionate nella parte superiore.

Le forme funzionali

Sono forme molto utilizzate nel nostro tessuto economico: sono adottate da aziende di piccole o medie
dimensioni. Le forme funzionali sono costituite da diverse funzioni. Le funzioni sono unità organizzative
specializzate per tecniche, cioè all’interno delle singole funzioni i lavoratori svolgono compiti affini. Alcuni
esempi di funzioni: acquisti, produzione, marketing e vendite, ricerca e sviluppo, ecc. La struttura
organizzativa si articola su diversi livelli gerarchici (almeno 3): oltre al vertice strategico, che si occupa della
pianificazione strategica ovvero della definizione degli obiettivi a lungo termine dell'azienda, abbiamo
anche la linea intermedia, che è quella parte dell’azienda che si trova al centro della piramide aziendale
dove troviamo l’insieme dei manager, cioè coloro che si occupano delle attività di programmazione
(definizione degli obiettivi di breve termine) e controllo (di quelli che sono i risultati). In questo caso,
essendo presente una linea intermedia e quindi dei manager, il potere è più decentrato, perché sono i
manager che si occupano del coordinamento delle unità organizzative, ovvero le funzioni, e quindi c’è un
maggiore ricorso dell’agenzia per coordinare i manager; l’agenzia è quella relazione che consente la
cessione di potere discrezionale da una figura del principale ad altre figure ovvero gli agenti che sono i
manager che pongono in essere le scelte in nome e per conto del vertice strategico. È prevista anche la
figura di organi di staff, che si occupano di supportare coloro che prendono le decisioni, quindi non hanno
autonomia decisionale. Si articola su 3 livelli gerarchici: abbiamo il vertice strategico (un amministratore
unico o un consiglio di amministrazione), al secondo livello gerarchico abbiamo 3 unità organizzative che
rappresentano delle funzioni aziendali (es. funzione produzione, ufficio acquisti, ufficio commerciale); al di
sotto della funzione di produzione abbiamo il terzo livello gerarchico, il magazzino. Ci sono poi altre due
unità organizzative, che però non sono organi di line come i precedenti, ma di staff che vanno a supportare
in questo caso il vertice strategico.

Nessuna funzione da sola è capace di realizzare un prodotto finito: le funzioni sono tra loro interdipendenti,
perché se non collaborano tra di loro ci sarà un blocco di produzione. Oltre alla forma funzionale classica
esistono altre forme funzionali: la forma funzionale burocratica e la forma funzionale professionale.

La forma funzionale burocratica

È quella forma che si caratterizza per l’adozione di un modello di organizzazione del lavoro tipico della
burocrazia meccanica, che si caratterizza per: la forte specializzazione per competenze tecniche dei vari
organi, depersonalizzazione dei ruoli e chiara formalizzazione dei compiti, chiara divisione orizzontale tra
unità funzionali, chiara divisione verticale tra organi di decisione e controllo e organi operativi. I meccanismi
di coordinamento sono: procedure formali di comunicazione, la standardizzazione e programmazione dei
processi di trasformazione e scambio. che si ottiene tramite l’utilizzo delle norme e delle regole, e la
supervisione e intervento gerarchico, ovvero il ricorso all’autorità.

In alto abbiamo il vertice strategico; sotto abbiamo la tecnostruttura, che è quella parte dove si trovano gli
analisti funzionali, ovvero coloro che si occupano della definizione di quelle che sono le norme e le regole di
funzionamento dell’organizzazione. Essi studiano l’azienda e le mansioni dei lavoratori e i tempi al fine di
definire i documenti e le procedure d’azienda; essendo un organo di staff, aiutano il vertice strategico.
Come primo organo di line troviamo le funzioni; al di sotto di ogni funzione troviamo altre unità
organizzative che dipendono solo da quella funzione e non dalle altre; tutta la parte nel riquadro rosso è il
nucleo operativo.

La forma funzionale professionale


Si basa sulla burocrazia professionale, che è quel modello di organizzazione del lavoro in cui il nucleo
operativo è formato da specialisti (professionisti) che si occupano dell’erogazione di servizi. Gli standard si
formano largamente all’esterno dell’organizzazione, nelle associazioni indipendenti che forniscono
standard universali utilizzati in tutte le burocrazie in cui la professione viene praticata.

Sono modelli organizzativi per lo più adottati per le aziende che operano nel pubblico. Il meccanismo di
coordinamento è la standardizzazione delle conoscenze e competenze utilizzate dai lavoratori per poter
svolgere determinate attività lavorative, anziché dei materiali, dei processi di trasformazione e degli input,
ed anche la negoziazione tra unità, anziché supervisione.

Esempio ospedale: in primo luogo, vi è il vertice strategico che coincide con il consiglio di amministrazione;
abbiamo poi un organo di staff, ovvero lo staff di supporto che si occupa di supportare il vertice strategico.
Ci sono poi due “pilastri”: da un alto la direzione amministrativa, che si occupa dell’ambito amministrativo,
da cui dipendono le unità organizzative sottostanti, e dall’altro la direzione sanitaria, cioè coloro che si
occupano dei pazienti, che rappresenta il nucleo operativo.

La forma funzionale ad alta differenziazione e integrazione

È di base una forma funzionale dove le unità organizzative che la compongono sono le diverse funzioni
aziendali, però sono forme funzionali che successivamente vengono modificate e adattate a quelle che
sono le esigenze del momento. Si caratterizza per la presenza di funzioni “di confine” a contatto con
l’esterno, con un’elevata complessità informativa e funzioni interne, con minore complessità informativa.
Questa forma unitaria si caratterizza per un’elevata differenziazione nei meccanismi di coordinamento che
regolano le funzioni interne e le funzioni di confine. Il rischio è che si possa verificare una sconnessione del
sistema con le funzioni aziendali che si trasformano in compartimenti stagni. Da qui l’esigenza di introdurre
degli organi di integrazione.

Organi di integrazione per prodotti e clienti: product manager, brand manager, account manager

Organi di integrazione per progetti: project manager

Organi di integrazione per processi: capo commessa

La forma divisionale

Sono quelle forme organizzative adottate dalle aziende di grandi dimensioni, e, qualche volta di medie
dimensione. Si caratterizzano per la presenza di divisioni: ogni divisione può essere considerata una quasi-
azienda, in quanto è dotata di propri organi decisionali, ha una sua autonomia rispetto alle attività e sistemi
ad essa interni (autonomia economica e non autonomia giuridica) ed è valutabile in termini di risultati
reddituali. Le differenze principali tra funzioni e divisioni sono: le funzioni sono unità organizzative
specializzate per tecniche, dove all’interno delle singole funzioni i lavoratori svolgono compiti affini. Le
divisioni sono invece quasi-aziende specializzate per prodotti o servizi, per mercati, per aree geografiche,
per clienti. Le singole funzioni non sono in grado di realizzare un prodotto finito, le singole divisioni sì. Ogni
divisione ha una propria unità di produzione, marketing, finanza, riproponendo al proprio interno una
logica funzionale: ogni divisione è strutturata per funzioni. Le caratteristiche tipiche delle forme divisionali
sono: autonomia economica, specializzazione per output (prodotto, area geografica, mercato), elevata
formalizzazione, grande dimensione, più costosa.

Struttura a matrice

È la struttura più recente. Si ritrova con frequenza nei settori a elevato contenuto di professionalità, oppure
ad alta sofisticazione tecnica e innovazione. Le forme reticolari sono molto più flessibili, per questo
utilizzate da questo tipo di aziende. La logica di base di funzionamento è una logica organizzativa doppia: da
un lato abbiamo le unità organizzative specializzate per funzione, dall’altro le unità organizzative
specializzate per prodotto o per progetto. Quando si utilizza una logica organizzativa doppia, bisogna capire
come lavorano queste unità organizzative: esse lavorano tramite i rapporti tipici di una rete, quindi di una
matrice unitaria. Le unità organizzative per funzione e quelle per progetto/prodotto si trovano sullo stesso
livello gerarchico, e si mettono insieme creando delle connessioni della matrice e ad ogni connessione si
creano delle unità organizzative, che rispondono sia alla propria funzione sia al proprio progetto/prodotto.

La struttura a matrice è centrata sul two boss manager: un responsabile a livello intermedio che riferisce sia
al coordinatore per funziona sia al coordinatore di prodotto o progetto (in deroga al principio one man one
boss). Il resto del personale opera alle dipendenze di questi responsabili intermedi, quindi di un solo
“capo”.

Capitolo 15: le reti tra le imprese

La progettazione della macrostruttura si pone il problema di definire quella che è l’organizzazione interna
all’azienda, e quindi individuare la configurazione organizzativa che risponde meglio a quelli che sono i
fabbisogni organizzativi, gestionali e informativi di un’organizzazione, ma anche la progettazione della rete
esterna, cioè un modello di organizzazione del lavoro che possa coordinare i rapporti della nostra
organizzazione con le altre con le quali collabora. L'azienda, infatti, opera in un sistema aperto; quindi, per
poter svolgere la sua attività ha bisogno di interagire con altri attori che operano nello stesso sistema o
mercato nel quale l’azienda si interfaccia (fornitori, aziende, clienti, competitors). L’azienda può stabilire dei
rapporti di collaborazione, anche chiamate alleanze, cioè reti tra imprese. Dato che ci sono più aziende,
almeno due che collaborano alla realizzazione congiunta di un prodotto oppure allo svolgimento di una
determinata fase del ciclo di lavorazione ecc., ci si pone il problema di come coordinare questi attori che
fanno parte della stessa rete. Questo è stato oggetto di studio da parte di molti: uno dei più noti è stato
Oliver Williamson, che si è posto il problema delle scelte che deve fare un’organizzazione. Le reti esistono
quando un’organizzazione interna, intesa come make o gerarchia, entra in crisi, oppure quando il mercato o
buy, inteso come possibile soluzione alternativa a quello che è lo svolgimento all’interno di alcune fasi o
alcuni prodotti da parte dell’organizzazione, non consente alla stessa di poter acquisire quelle che sono le
attività e le fasi di un ciclo di lavorazione che non è in grado di poter svolgere all’interno. Volendo essere
più precisi, Williamson diceva che ogni azienda è chiamata a fare una scelta: se svolgere all’interno alcune
cose oppure acquistarle dal mercato, cioè dall’esterno. Le aziende possono prendere scelte di
internalizzazione (make o gerarchia), cioè fare una scelta di gerarchia tenendo all’interno ed esercitando un
maggiore controllo sulle cose che svolgono; al contrare, possono prendere scelte di esternalizzazione (buy o
mercato), cioè acquistare dall’esterno, da altre aziende, tutta una serie di attività.

Esempio la funzione ricerca e sviluppo che non esiste nelle aziende di piccola dimensione, ma nonostante
tutto continuano a fare innovazione: lo si fa non con una scelta di make poiché l’azienda non ha le risorse
economiche necessarie per creare un’unità di ricerca e sviluppo, ma acquistano queste conoscenze dalle
aziende esterne, quindi buy, acquista tipo brevetti dalle altre aziende o chiede di sviluppare delle
procedure, un modello organizzativo, innovare un particolare prodotto, ecc. Anche la produzione in alcuni
casi può essere esternalizzata, tipo nelle aziende di moda, cosmetica, ecc. Vale per tutte le attività. La scelta
make or buy un po’ cambia quelli che sono i confini all'interno dell'organizzazione: nel primo caso la scelta
del make pesa di più in termini di confini, al contrario nel secondo caso la maggior parte delle attività svolte
vengono acquistate dall’esterno e quindi il peso del make è basso rispetto dal buy.

Il make ha il vantaggio di avere un maggiore controllo sull’attività che svolgo, ma il costo potrebbe essere
maggiore, se non ci sono economie di scala, di specializzazione o di scopo. Il buy ha il vantaggio che il costo
potrebbe essere inferiore, però uno svantaggio è la perdita del controllo da parte dell’azienda. Ovviamente
le scelte dell’azienda si trovano nel mezzo, nel senso che quasi mai un’azienda effettua una scelta di tipo
dicotomico, cioè non scelgo al 100% make o al 100% buy, ma l'azienda effettuerà delle scelte circa lo
svolgimento all’interno o all’esterno delle attività che si collocheranno verso il buy o verso il make, ma
comunque alcune attività le svolgeranno in un modo e il restante nell’altro. Esistono poi delle scelte
intermedie, cioè non si svolgono all’interno dell’azienda, ma non vengono neanche acquistate dal mercato,
bensì svolgono queste attività tramite dei rapporti di collaborazione con altre aziende, cioè significa che
fondamentalmente svolgo quelle attività insieme a dei partener, cosicché mettendo insieme quelle che
sono le risorse umane, tecniche ed economiche, anche con altre organizzazioni, si riesce a svolgere quella
determinata attività.

Esistono poi delle scelte intermedie, cioè non si svolgono all’interno dell’azienda, ma non vengono neanche
acquistate dal mercato, bensì svolgono queste attività tramite dei rapporti di collaborazione con altre
aziende, cioè significa che fondamentalmente svolgo quelle attività insieme a dei partener, cosicché
mettendo insieme quelle che sono le risorse umane, tecniche ed economiche, anche con altre
organizzazioni, si riesce a svolgere quella determinata attività.

Bisogna capire cosa però conviene all’azienda di scegliere. Williamson dice che esistono 3 fattori che
guidano l’organizzazione nella scelta tra il make e il buy:

1. Frequenza delle relazioni: tanto più le relazioni sono frequenti con un determinato partner, tanto
più conviene effettuare una scelta di make piuttosto di buy, perché se aumenta la frequenza delle
transazioni tra due aziende conviene internalizzarla perché si tratta di un’attività che è ormai
fondamentale per l’organizzazione e quindi conviene portarla sotto il controllo dell’organizzazione.
È anche vero che se un’attività è frequente significa che l’azienda si affida, per lo svolgimento di
quell’attività, a un’azienda terza, che se per un motivo o per un altro dovesse venir meno o magari
rivedere quelle che sono le clausole contrattuali, la nostra organizzazione si troverebbe in una
situazione di posizione debole rispetto alla controparte, poiché dipenderebbe molto dall’azienda in
questione.
2. Livello di complessità: la complessità è intesa per lo svolgimento di quella determinata attività, più
è complessa e più richiede delle conoscenze e delle competenze specifiche per poterla svolgere.
Quando un’attività è particolarmente complessa, conviene internalizzarla, perché l’azienda deve
controllare lo svolgimento di quella determinata attività, che potrebbe destare particolare
preoccupazione.
3. Incertezza: quando un’azienda opera in un regime di incertezza, quindi quando quell’attività si
caratterizza per un elevato livello di incertezza, è meglio svolgerla dentro i confini dell’azienda,
quindi, all’aumentare dell’incertezza dello svolgimento di determinate attività è meglio
internalizzarla piuttosto che esternalizzarla. Avviene quando ci troviamo in una situazione di
informazioni scarse o incomplete o difficilmente analizzabili.

Il problema però è che potremmo trovaci in una situazione in cui una variabile spinge in una direzione e le
altre in un’altra, esempio l’attività è frequente ma poco complessa e poco incerta, quindi a quel punto
bisogna capire cosa scegliere. La risposta è dipende. Queste sono appunto delle relazioni non lineari, cioè
all’aumentare o al variare di questi 3 fattori, non è detto che sia scontata la scelta di make, ma l’azienda
potrebbe continuare a scegliere il buy o svolgere l’attività insieme a dei partner, cioè accordi o reti tra
imprese.

Alcune delle cause di crisi del mercato sono:

 le esternalità: i mercati non riescono a gestire efficientemente quegli scambi che hanno importanti
conseguenze negative o positive su terze parti non coinvolte nello scambio;
 le economie di scala o di scope: sono fattori di crisi del mercato in quanto favoriscono la crescita
delle dimensioni efficienti delle imprese.
 i costi di transazione: includono tutti i costi di trasferimento di beni e servizi tra diversi attori
economici. Includono i costi di ricerca dei partner, costi di valutazione della qualità dei beni e
servizi, costi di decisione su quale scambio effettuare, costi di negoziazione dei termini dello
scambio, costi di controllo sul rispetto delle condizioni pattuite, costi di trasporto o trasferimento
fisico dei beni e servizi.

Una causa di crisi dell’organizzazione è la variabilità ambientale che rende difficile definire, oltre che
contratti completi, anche piani e programmi completi. Forme di organizzazione adhocratiche e flessibili e
accordi esterni con partner diversi consentono di gestire la variabilità.

La teoria dei costi di transazione (Williamson e Coase) si pone un obiettivo generale: identificare per ogni
modello astratto di transazione la struttura di controllo più economica. Al crescere della specificità,
dell’incertezza e della frequenza delle transazioni l’organizzazione interna diventa relativamente più
efficiente dell’organizzazione esterna.

Le reti tra imprese

La rete tra imprese è una configurazione organizzativa tra due attori che svolgono insieme determinate
attività e devono coordinarsi, basata su due principi:

 un principio di differenziazione in funzione delle specificità locali e delle esigenze di


specializzazione, quindi la rete si caratterizza così perché al proprio interno vi è la partecipazione di
una pluralità di aziende che hanno conoscenze e competenze verosimilmente diversi che
potrebbero addirittura operare nello stesso territorio oppure in territori diversi che però
contribuiscono per lo svolgimento di alcune attività in comune, vi sono quindi delle specificità che
ogni azienda porta all’interno della rete e anche esigenze di specializzazione, perché le aziende
decidono di aderire a una rete tra imprese perché hanno esigenza di specializzarsi nello
svolgimento di alcune attività.
 un principio di integrazione tramite l’impiego di un mix di meccanismi del coordinamento, le
imprese che fanno parte della stessa configurazione organizzativa, utilizzano dei meccanismi di
coordinamento per poter coordinare quelle che sono le interdipendenze tra le risorse che mettono
a disposizione e quelle che sono le attività che invece svolgono.

In relazione ai meccanismi del coordinamento che prevalgono, le reti tra imprese possono distinguersi in
reti sociali, reti burocratiche e reti proprietarie. Queste tre tipologie possono avvicinarsi o più
all’organizzazione o più al mercato, nel senso che le reti proprietarie, essendo una particolare tipologia di
rete dove i rapporti che compongono una rete prevede uno scambio di risorse di natura patrimoniale, si
avvicinano più alla gerarchia, cioè costruita da attori tra i quali non c’è una certa fiducia e dove le attività ce
vengono svolte sono attività che si caratterizzano per un elevato valore e per questo, per esercitare un
maggiore controllo si decide di scambiarsi pacchetti azionari ad esempio o comunque si preveder la
condivisione di risorse di natura economica o comunque di allineare gli obiettivi dei singoli a quelli della
rete; poi con le reti burocratiche ci spostiamo un po’ dalla gerarchia verso il mercato, stanno proprio al
centro, dove i rapporti fondamentalmente tra questi attori si caratterizzano per lo scambio e la definizione
di contratti di natura obbligativa; e poi infine abbiamo le reti sociali che non prevedono nessun tipo di
contratti di natura obbligativa, ma fondamentalmente le relazioni vengono definite e mantenute tramite la
condivisone della cultura organizzativa, la fiducia e la stretta di mano, quindi questa è la tipologia di rete
che più si avvicina al mercato.

Le reti sociali

La rete sociale è una particolare configurazione organizzativa costituita da una pluralità di imprese i cui
rapporti di interdipendenza sono regolati da meccanismi del coordinamento dell’istituzionalizzazione non
formali. Sono norme e regole non formalizzate, non scritte nere su bianco, che però hanno lo stesso valore
nell’orientare quelli che sono i comportamenti dei lavoratori, al pari delle norme e le regole scritte,
allineando l’individuo alla desiderata dell’organizzazione. Meccanismo del coordinamento
dell’istituzionalizzazione non formale è la cultura organizzativa, che è un insieme di norme o di modelli di
comportamento generali che ci sono in un determinato contesto organizzativo che sono accettati dai
partecipanti e sono rilevanti ai fini dell’azione economica e sociale. Determinano i comportamenti che gli
individui devono avere all’interno di un determinato contesto organizzativo. In questo tipo di rete, poiché si
parla di una pluralità di imprese che di base condividono una stessa cultura, i rapporti si coordinano con la
fiducia, che è una componente molto importante. Essa determina nella relazione tra le imprese una
riduzione dell’incertezza endogena e favorisce il coordinamento tramite meccanismi
dell’istituzionalizzazione non formali. Non esistono dei contratti stipulati dalle aziende per coordinare le
attività, non vi è lo scambio di quote azionarie, di pacchetti di azioni o dell’apporto di risorse economiche,
ma nelle reti sociali i rapporti vengono definiti tramite la stretta di mano. La fiducia è un’attitudine, ovvero
un senso di sicurezza che deriva da un giudizio o un convincimento che qualcuno o qualcosa sia conforma
alle proprie aspettative, attese o speranze. La fiducia dipende da diversi aspetti:

 esistenza di obiettivi comuni;


 esistenza di una cultura comune;
 effetti di reputazione e prestigio: nel momento in cui un’azienda non gode più di una buona
reputazione o si verifica un accadimento che lede la reputazione o il prestigio, quell’accadimento
provocherà anche un danno di immagine alle altre aziende e quindi l’espulsione di chi avrà leso
questo prestigio;
 interazioni ripetute e frequenti tra gli attori: al crescere delle interazioni tra le aziende che fanno
parte della stessa rete, si creano delle condizioni per poter verificare se c’è fiducia o meno tra
queste;
 un numero non elevato di imprese interdipendenti e di materie da trattare: la fiducia esiste se la
pluralità di attori che costituiscono quella rete si caratterizzano per un numero non troppo elevato.
All’aumentare degli attori, diminuisce la possibilità di intrattenere delle relazioni ripetute e
frequenti con gli altri attori e quindi viene meno anche lo sviluppo della fiducia.

Esistono due tipologie di reti:

 reti sociali simmetriche: sono quelle reti sociali dove tutte le imprese operano in una condizione di
parità. Non vi è l’azienda che ha un maggiore potere di relazione e influenza sulle altre, ma tutte si
trovano sullo stesso livello: non vi è un’azienda che guida tutti. Un esempio è il distretto: un insieme
di più aziende che operano sullo stesso territorio e che svolgono un insieme di attività in comune
per uno stesso prodotto. Tutte le aziende che ne fanno parte hanno lo stesso potere-influenza. Gli
elementi costitutivi del distretto sono: delimitazione territoriale (il distretto nasce e si sviluppa su
un’area geografica circoscritta, caratterizzata da una propria specificità rispetto alle aree limitrofe),
cultura omogenea, che induce le imprese locali ad una collaborazione spontanea, sistema di piccole
e medie imprese, tendenzialmente impegnate su specifiche lavorazioni di fase e in varia forma
collegate alle altre imprese dell’area, ruolo attivo degli attori istituzionali, attraverso l’erogazione di
servizi, la predisposizione di infrastrutture e di corsi di formazione. I distretti industriali in Italia si
caratterizzano per il coordinamento informale di catene di transazioni tra stadi di lavorazione svolti
tra diverse imprese della stessa zona (nello stesso contesto culturale ed istituzionale) oppure la
concertazione informale sul tipo di divisione del lavoro e i livelli e i tipi di output nelle relazioni
orizzontali tra imprese caratterizzate dallo stesso tipo di produzione e di know how.
 reti sociali asimmetriche: sono quelle reti sociali dove c’è un’impresa che ha un controllo sulle
risorse chiave ed esercita leadership, cioè guida le altre organizzazioni allo svolgimento comune di
alcune risorse e attività lavorative. Un esempio è la costellazione: all’interno di essa vi è un’impresa
guida che si occupa dell’attività di progettazione, assemblaggio, commercializzazione e
approvvigionamento, la quale si approvvigiona largamente da imprese esterne, configurando in tal
modo una forte divisione del lavoro. L’impresa guida ha funzioni di coordinamento e di controllo su
tutte le altre aziende che fanno parte della rete.

L’interdipendenza transazionale dà luogo a scambi nelle reti. Nelle reti sociali, solitamente, gli scambi sono
regolati dai prezzi e dai contratti istantanei. I prezzi sono chiari (quanto si paga per ottenere una materia
prima). I contratti istantanei sono dei contrati non formalizzati, ovvero non scritti neri su bianco, e vengono
utilizzati per allocare le risorse in termini puramente “sostantivi” o distributivi. Essi non regolano aspetti di
processo, pertanto il contenuto “procedurale” del contratto è basso. Nelle reti tra imprese, l’insieme del
prezzo e i contratti istantanei si chiama mercato.

Nelle reti tra imprese, vi può essere la presenza di più aziende che condividono la stessa cultura e sono
poche tali da formare un gruppo. Nelle reti tra imprese cultura + gruppo forma il clan. Il clan si configura
come un processo di socializzazione, relativamente completo, che, all’interno di un contesto culturale
simile, elimina le incongruenze tra gli obiettivi dei singoli. Un ambiente privo di incongruenze richiede una
forte volontà di collaborazione e lo sviluppo di un processo decisionale condiviso da tutti gli attori.

Nelle reti tra imprese, cultura + gruppo + prezzo + contratti istantanei forma il mercato C. Il mercato C è una
particolare configurazione organizzativa che troviamo all’interno della rete sociale, che si configura come
processo di socializzazione che favorisce la condivisione della stessa cultura per quanto riguarda aziende
che lavorano sullo stesso territorio. Rappresenta quel processo che consente all’azienda di accrescere la
fiducia nei confronti delle altre e di stipulare delle relazioni e degli accordi degli scambi insieme. La criticità
del mercato C è che, essendo formato da aziende che condividono la stessa cultura e agiscono insieme per
una finalità comune, ha delle elevate barriere all’entrata. Se delle aziende non fanno parte del mercato C
ma vorrebbero farne parte, questo avviene difficilmente. Sono sistemi ad accesso relativamente chiuso, e
quindi potenzialmente iniqui verso gli aspiranti nuovi entranti, nonché potenzialmente poco innovativi. Una
possibile risposta a questo limite sono i contratti relazionali, in cui sono combinate regole formali
incorporate nei contratti e norme socialmente accettate non formalizzate e non difendibili in termini legali.

La rete burocratica

La rete burocratica è una particolare configurazione organizzativa caratterizzata da un insieme di imprese


con relazioni di interdipendenza; regola i rapporti esterni all’azienda, tra le organizzazioni, e questi rapporti
sono regolati da meccanismi dell’istituzionalizzazione formalizzati. Si tratta di contratti obbligativi che
definiscono non sono obblighi reciproci a carattere patrimoniale ma anche altre relazioni organizzative
(come diritti reciproci di informazione, divisione dei compiti, definizione delle responsabilità, diritti di
ricompensa). Un contratto obbligativo è un contratto che si caratterizza per la presenza di formalizzazione
dentro il quale si evincono quelli che sono gli obblighi delle parti, intesi come doveri che le parti hanno. Per
loro natura, i contratti obbligativi sono incompleti: le parti interessate aggiungono a tali contratti esterni dei
patti interni che specificano ulteriori procedure, programmi di attività, sistemi di supervisione e arbitrato
interno. Il contratto non può disciplinare tutti gli avvenimenti che potrebbero esserci tra le diverse parti in
gioco: quando ci troviamo di fronte a un evento non regolato dal contratto obbligativo, si agisce regolando
di volta in volta l’accadimento che avviene. Abbiamo due tipologie di reti burocratiche:

 reti burocratiche simmetriche, dove le imprese operano in condizioni di parità.


 reti burocratiche asimmetriche: dove c’è un’impresa che ha un controllo sulle risorse chiave ed
esercita la leadership. Tale impresa ha la capacità di dirigere e controllare l’operato delle altre
organizzazioni, guida le altre e ha maggiore potere.

Esempi di reti burocratiche: franchising, federazioni, consorzi

Esercizio dell’autorità nelle diverse tipologie di reti burocratiche


Nel franchising il contratto assegna l’autorità a una delle parti; nel caso dei consorzi e delle federazioni, il
contratto assegna l’autorità ad un organo super partes per poter gestire i rapporti tra le aziende che fanno
parte della rete.

Il franchising è una forma di rete che regola le transazioni tra un’impresa centrale (franchisor) che assume
la direzione e controllo, e altre imprese affiliate (franchisee) che si occupano dell’esecuzione delle attività. Il
franchising prevede che le relazioni tra i diversi attori che lo compongono siano regolate tramite un
contratto obbligativo, ad esempio è prevista la cessione d’uso del marchio, dell’immagine, del nome, del
trasferimento di know how sia tecnico che manageriale da parte del franchisor al franchisee. La
convenienza per i franchisee è quella di poter contare su una realtà già solida, cioè un brand o un nome o
un’immagine già conosciuta e condivisa su un determinato territorio e che gli trasferisce anche un
determinato know how tecnico e manageriale: ti insegna come l’attività deve essere gestita, e, in cambio di
questo è previsto il pagamento di royalties da parte del franchisee al franchisor. Nel franchising il contratto
formalizza l’autorità del franchisor sul franchisee.

La federazione è una forma di rete burocratica composta da tre o più organizzazioni, che condividono
risorse informative, finanziare ed umane, per il raggiungimento di obiettivi comuni attraverso azioni
coordinate. Generalmente sono presenti numerosi partecipanti; vengono definiti i criteri per l’acquisizione
ed il mantenimento della leadership; il coordinamento interno è garantito da meccanismi di pianificazione e
controllo. Prevede la presenza di un organismo centrale super partes con poteri di guida e di supervisione
sull’attività dei membri; si occupa della direzione e del controllo delle altre aziende che la costituiscono.

Il consorzio è un’associazione tra imprese al fine di condurre in comune alcune fasi o sottoprogetti
dell’attività di diverse imprese. Il consorzio è costituito per consentire ai suoi membri di svolgere in comune
alcune attività. Ha una sua autonomia giuridica, mantiene una separazione dei diritti di proprietà e degli
utili fra i suoi membri; dà luogo ad un’organizzazione formalizzata, nel senso di un’assegnazione stabile dei
compiti e lavori; disegna autorità interne con funzioni di ispezione, supervisione e arbitrato. Anche qui è
prevista la presenza di un organo centrale super partes che si occupa dell’attività di direzione e controllo. Si
definisce contratto di consorzio proprio per evidenziare la natura dei diversi attori che fanno parte del
consorzio le cui interdipendenze sono regolate da meccanismi di istituzionalizzazione formalizzati.

Le federazioni sportive operano a due diversi livelli:

 federazioni internazionali: sono reti di relazioni inter-organizzative, sono composte da Federazioni


nazionali che presiedono una stessa disciplina sportiva, organizzano in comune attività mettendo in
comune risorse complementari, Le attività delle Federazioni internazionali sono regolamentazione
e gestione delle competizioni, promozione e sviluppo dello sport, coordinamento delle relazioni con
gli altri attori del Movimento Olimpico. La regolamentazione e gestione delle competizioni riguarda
la definizione delle regole del gioco e di eleggibilità alle competizioni, la definizione dei programmi
degli eventi, la selezione degli arbitri, giudici ed altri ufficiali, la definizione delle regole mediche per
la tutela della salute e per contrastare il fenomeno doping. L’attività di regolamentazione
dei Giochi Olimpici deve essere conforme a quanto disposto nella Carta Olimpica
ed è sottoposta all’approvazione del Cio. La promozione e sviluppo dello sport comprende il
contribuire al raggiungimento degli obiettivi stabiliti nella Carta Olimpica, fornire assistenza tecnica
nell’implementazione del programma di Solidarietà Olimpica, promuovere la pratica degli sport
attraverso l’attività dei propri membri e attraverso interventi specifici. Il ruolo delle FI nel
Movimento Olimpico risponde ad un criterio di specializzazione per processo: gli attori e le attività
sono collegati dalla presenza di forti affinità delle competenze e delle tecniche utilizzate, il cui
sviluppo è favorito proprio dal loro raggruppamento.
 federazioni nazionali: sono organizzazioni responsabili nell’ambito dei confini nazionali per il
sostegno e la diffusione dello sport cui presiedono. In un Paese, per ogni disciplina sportiva esiste
un’unica Federazione Nazionale responsabile, cui spettano compiti di governo nazionale della
disciplina sportiva. Nell’ambito del Movimento Olimpico le FN rispondono a due “linee di
comando”: una rappresentata dalle Federazioni Internazionali (dimensione tecnico-processuale) e
l’altra rappresentata dai Comitati Olimpici Nazionali (dimensione geografica). Le FN nel proprio
Paese curano la promozione dello sport, l’organizzazione delle competizioni e definizione dei
relativi programmi, l’addestramento, preparazione e selezione degli atleti e delle squadre che
partecipano alle competizioni nazionali ed internazionali, la verifica della conformità degli impianti
sportivi ai requisiti tecnici definiti dalle regole nazionali ed internazionali, la ricerca e la gestione
delle risorse finanziarie, tecniche ed umane richieste dalla federazione.

In quanto membri della rispettiva FI, le FN sono tenute a rispettare una serie di obblighi internazionali:

 obblighi statuari, il cui rispetto rappresenta una condizione necessaria per ottenere e mantenere la
membership;
 obblighi tecnico sportivi, definiti al fine di garantire correttezza ed uniformità nella disciplina del
rispettivo sport in tutte le parti del mondo.

Le imprese aderenti al Conad sono imprenditori associati (dettaglianti e titolari di esercizi commerciali),
cooperative (grandi centri di acquisto e distribuzione), consorzio nazionale.

Conad: nascita ed evoluzione

1950-1960: nascono le prime cooperative di dettaglianti e gruppi di acquisto;

1962: viene costituito a Bologna il Consorzio Nazionale Dettaglianti (Co.Na.D) con 420 soci;

1964: viene definito un primo programma commerciale e a due persone viene delegata la rappresentanza
della società;

1966: viene assunta la prima persona a tempo pieno al fine di mantenere i collegamenti tra i gruppi.

1968: viene definita una prima politica di marchio comune e si sviluppa la prima campagna pubblicitaria a
carattere nazionale, sostenuta da un Comitato di direzione composto da cinque persone;

1969-1972: vengono aperte alcune agenzie e viene realizzata collegialmente una prima programmazione
organica e per obiettivi sia dei gruppi che del Consorzio;

1974-1976: si passa da una politica di stretto mutualismo ad una politica di tipo imprenditoriale, e da un
associazionismo rivolto agli acquisti ad uno rivolto alle vendite

Limiti strutturali del Conad: carenza di visione strategica, lentezza dei processi decisionali, forte
frammentazione e disomogeneità della base sociale, difficile combinazione degli interessi dei singoli
associati con quelli complessivi del gruppo.

Politiche per il superamento dei limiti strutturali

Costruzione di un “sistema di imprese” fortemente integrato, strategia di sviluppo qualitativo, processo di


concentrazione ed integrazione dei gruppi associati, selezione della rete di vendita al fine di costruire una
struttura più snella, razionalizzare i servizi a monte del punto di vendita, rafforzare l’immagine.

Strumenti per la realizzazione delle politiche: canalizzazione e selezione della rete di vendita, marca
commerciale, alleanze, aggregazione tra cooperative in poli.

Il Conad ha realizzato una rete di società collegate che forniscono servizi specializzati agli associati:

 Unico: sostiene lo sviluppo della rete distributiva Conad nel Mezzogiorno;


 SND (Società Nazionale Discount): gestisce tutta la contrattualistica nazionale per il canale hard
discount;
 Leasinvest: assiste la progettazione finanziaria sugli investimenti;
 Gardas: società di garanzia fidi che favorisce l’accesso al credito alle imprese associate;
 Conad Program: opera nell’area dell’innovazione tecnologica.

Le attività operative del consorzio possono essere di due tipi:

1. attività diretta, limitata all’area dei prodotti a marchio Conad;


2. attività indiretta, la centrale si limita alla definizione dei contratti nazionali e all’incasso delle
provvigioni.

Le reti proprietarie

La rete proprietaria è quella configurazione organizzativa caratterizzata dalla presenza di un insieme di


imprese che sono tra di loro interdipendenti e sono regolate da meccanismi di incentivo comuni. I
meccanismi di incentivo comportano un allineamento degli obiettivi dei diversi attori facenti parte della
rete attraverso due modi:

 la partecipazione congiunta agli utili: se due aziende si mettono insieme costituendo una rete
proprietaria per svolgere insieme alcune attività, un modo per allineare gli obiettivi di queste due
aziende e fare in modo che si impegnino nella realizzazione della suddetta attività in maniera
proficua è quello di condividere gli utili;
 la proprietà congiunta delle risorse: queste aziende che fano parte della rete potrebbero o
dovrebbero apportare delle risorse in maniera congiunta.

Esempi di reti proprietarie: joint venture, contratto di joint venture , capital venture , associazione in
partecipazione , GIE, impresa consortile.

La joint venture si caratterizza per la creazione di una nuova azienda giuridicamente autonoma da parte di
due o più imprese, per il trasferimento da parte di queste ultime di capitale e di competenze tecniche e
manageriali a vantaggio della nuova impresa, per l’assegnazione a questa di responsabilità per lo
svolgimento di una particolare funzione o funzioni concordate dai partner.

Caratteri dell’impresa congiunta: volontà associativa dei partner, comunione di interessi, integrazione di
risorse conferite dai partner, compartecipazione dei soci al capitale di rischio, autonomia operativa e
giuridica delle imprese associate.

I contratti di joint venture sono accordi, su base puramente contrattuale, con cui due o più imprese
ratificano lo svolgimento di un’attività comune, senza dar vita ad un’impresa separata.

Venture capital: un’impresa fornisce capitale di rischio per progetti fortemente innovativi in imprese già
esistenti o di nuova costituzione, difficilmente finanziabili attraverso i canali tradizionali.

Associazione in partecipazione: un’impresa che assume un obbligo di svolgimento di un’attività per terzi
committenti si avvale di benefici o anche di prestazioni di lavoro di un’altra impresa, che partecipa, in virtù
di ciò, agli utili della prima.

GIE: (groupement d’interet economique): forma federativa di coordinamento tra imprese basata su alcuni
diritti di proprietà congiunta su risorse (es. un marchio comune, o una output comune), ma diritti agli utili
separati.

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