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La divisione del lavoro non riguarda solo le attività di produzione materiale o fisica, ma anche le attività di studio e di
ricerca.
E’ espressione della divisione del lavoro anche la creazione delle unità organizzative all’interno di un’impresa. Si pensi
ad esempio alle diverse direzioni funzionali rilevabili in molte imprese: acquisti, produzione, commerciale,
amministrazione, finanza ecc., che derivano dalla scomposizione di un task e dall’assegnazione dei sub task ad attori
diversi.
Divisione del lavoro non significa però soltanto che i diversi attori che consideriamo “fanno” cose divese. Essa infatti
sviluppa e richiede anche differenziazione, nel senso di diversità sia delle conoscenze ch degli orientamenti cognitivi ed
emotivi. Possiamo parlare di una diversità di identità, nel senso che le diverse imprese, oltre a svolgere attività diverse,
sviluppano e si caratterizzano per una cultura e un’immagine diverse.
La realizzazione (o il problema) del coordinamento presenta diverse dimensioni:
- l’allineamento delle attività: stiamo parlando di un processo sostanzialmente meccanico e razionale che in
primo piano pone ad esempio solo l’aumento delle comunicazioni o delle informazioni condivise;
- l’integrazione: facciamo riferimento alla situazione di collaborazione che si verifica quando i diversi punti di
vista vengono esplicitati e adeguatamente superati, valorizzando la differenziazione e non riducendola. Si tratta
quindi di superare anche le barriere alla comunicazione dovute all’assenza di una conoscenza e di un
linguaggio comuni;
- la risoluzione del problema di motivazione/controllo legato alla convenienza che le persone e i gruppi
interessati hanno verso l’adozione dei comportamenti richiesti per realizzare il coordinamento: minore è questa
convenienza tanto più forte è questo tipo di problema.
Le prime due dimensioni rinviano all’esigenza di meccanisimi che permettano il coordinamento; la terza dimensione
all’esigenza di meccanismi che spingano le persone al coordinamento.
Il coordinamento è necessario ma difficile: quasi l’80% dei managers ritiene che le opportunità di una crescita
significativa dipendano dal coordinamento intra-organizzativo ma il 40% afferma che lo scambio di informazioni tra le
varie unità organizzative non è efficace e che per il vertice è difficile disporre delle informazioni necessarie per
assumere decisioni che riguardano l’impresa nel suo complesso.
La divisione del lavoro pone in primo piano i costi di produzione e quindi i costi di realizzazione di un certo bene o
servizio, mentre il coordinamento pone l’accento sui costi di transazione e quindi sui costi di governo delle relazioni: il
conseguimento dell’efficienza implica la considerazione di entrambi questi tipi di costo.
Efficacia, efficienza, equità
L’efficacia esprime il grado di raggiungimento degli obiettivi organizzativi e quindi la capacità di ottenere i risultati
previsti. Vi è innanzitutto il problema della molteplicità degli obiettivi e della loro diversità legato anche alla
numerosità dei soggetti (gli stakeholders).
L’efficienza riguarda le risorse scarse impiegate per il conseguimento dei risultati ovvero il risparmio di risorse
nell’ottenimento di prodotti e servizi. Distinguiamo efficienza produttiva (con riferimento ai costi di produzione e che
si misura attraverso il rapporto input/output, quindi si ha efficienza quando, a parità di risorse impiegate, aumenta
l’output realizzato o, viceversa, si raggiungono gli stessi risultati consumando minori risorse) ed efficienza
transazionale (legata ai costi di regolazione o governo delle transazioni – costi decisionali, distributivi e di
cambiamento – o relativa al coordinamento e al controllo)
L’equità misura il grado di soddisfazione degli attori coinvolti e richiama criteri di equità o giustizia organizzativa.
Due sono le componenti di quest’ultima: la giustizia distributiva, che riguarda il “che cosa spetta a chi” ed ha anche a
che fare con l’allocazione dei risultati/ricompense che alcuni ottengono e altri no, e la giustizia procedurale, che
riguarda il “come”, e cioè le politiche e le procedure che sono state utilizzate per l’allocazione delle ricompense; in essa
sono comprese anche le modalità con le quali una persona tratta un’altra persona. La giustizia organizzativa riguarda
quindi ciò che le persone ritengono essere giusto.
Considerazioni:
- L’efficacia pone l’accento sul posizionamento e sui rapporti con l’ambiente mentre l’efficienza pone l’accento
sulle attività interne;
- Efficacia ed efficienza sono aspetti della performance chiaramente e concettualmente distinti e fra di essi può
esistere una tensione o possono rappresentare priorità in competizione fra loro;
- L’efficienza può essere collegata con l’apprendimento di primo ordine, un processo che serve per mantenere
stabili le relazioni e sostenibili le regole esistenti. L’efficacia può invece essere collegata con l’apprendimento
di secondo ordine: le regole esistenti vengono modificate e deve essere facilitato lo sviluppo di nuova
conoscenza. Efficacia ed efficienza richiedono soluzioni organizzative diverse e possono quindi essere in
tensione e competizione.
Il posizionamento verticale
Intanto è importante introdurre il concetto di filiera produttiva: flusso produttivo che ha inizio con i materiali grezzi e,
passando attraverso diverse fasi, termina con il prodotto finito e con la sua vendita al cliente finale. In altre parole è
l’insieme delle lavorazioni a cascata che dall’input portano all’output.
Rilevante è anche il concetto di supply chain: l’insieme delle imprese della filiera che sono collegate all’impresa focale
da rapporti diretti e indiretti di scambio: rapporti di fornitura a monte e di distribuzione a valle. La struttura della supply
chain di ogni impresa dipende dal ruolo che l’impresa stessa decide di giocare all’interno della sua filiera produttiva e
quindi dal suo gradi di integrazione verticale, vale a dire da quanto e cosa l’impresa decide di fare all’interno e da
quanto e cosa decide di acquistare e vendere sul mercato. Maggiore è il numero di fasi della filiera, maggiore è il suo
grado di integrazione verticale e maggiore è la dimensione dell’impresa.
Distinguiamo tra:
- integrazione ascendente o a monte, che si verifica quando un’impresa produce in tutto o in parte l’input
all’interno anzichè acquistarlo sul mercato;
- integrazione discendente o a valle, che si ha quando un’impresa trasforma in tutto o in parte il proprio output
anzichè venderlo all’esterno.
Il valore aggiunto rappresenta l’indicatore per eccellenza del grado di integrazione verticale di un’impresa: esso è
infatti la differenza fra il valore dei prodotti ottenuti ed il valore dei beni e servizi impiegati nella loro produzione.
Quando un’impresa svolge al suo interno tuute le fasi della filiera produttiva parliamo di integrazione totale.
Quando invece gli input non vengono più acquistati sul mercato, bensì prodotti all’interno, e/o tutto l’output, anzichè
essere venduto sul mercato, viene ulteriormente trasformato con una lavorazione a valle parliamo di integrazione
verticale completa. Un esempio è quello del Gruppo Luxottica che realizza al suo interno tutte le fasi di produzione e di
vendita di montature per occhiali.
L’integrazione è parziale quando l’impresa acquista una parte non trascurabile dell’input o degli input più significativi
sul mercato (e una parte la produce internamente) o vende una parte significativa dell’output sul mercato (e una parte la
trasforma ulteriormente). Un esempio è il Gruppo Benetton che svolge sia internamente sia attraverso fornitori esterni
alcune fasi di lavorazione dei propri capi d’abbigliamento. Questo tipo di integrazione, rispetto a quella completa,
consente comunque all’impresa di governare direttamente un tratto più lungo della supply chain, dotandosi però di una
struttura meno rigida (con una minore incidenza dei costi fissi). Inoltre può beneficiare di un duplice confronto: con i
fornitori (valutare se la qualità prodotta all’interno è maggiore o minore di quella acquistabile sul mercato) e può
controllare la qualità delle forniture confrontando i prodotti acquistati con quelli realizzati internamente.
L’impresa può anche ricorrere all’integrazione verticale impropria che può assumere forme diverse in relazione al
grado di coinvolgimento e di controllo che l’impresa esercita nei confronti dei partner. In questo ambito distinguiamo
tra:
- quasi integrazione: l’impresa acquirente, anche se esercita sui propri fornitori un controllo non giuridico ma
economico, riesce comunque ad ottenere un vantaggio di stabilità (in termini di quantità, tempi di consegna,
qualità, prezzi) delle forniture. Un tipico esempio di controllo di fatto sulle imprese di distribuzione
commerciale è costituito dalla stipulazione di contratti di franchising;
- integrazione contrattuale: il grado di coinvolgimento dell’impresa nella gestione del rapporto con i suoi
partner è nettamente inferiore. Ad esempio l’impresa stipula contratti che riducono i costi di transazione legati
ai rapporti di mercato di tipo spot (a pronti), senza che però vi sia subordinazione tra le parti contrattuali.
Il posizionamento orizzontale
Esso riguarda i rapporti tra l’impresa e i suoi concorrenti. Possiamo distinguere la decisione che si collega alla
definizione del dominio, e che riguarda la diversificazione (1), dalla decisione che attiene al tipo di strategia
competitiva da realizzare nei singoli business: strategia di leadership di costo (2) e strategia di differenziazione (3).
La strategia di diversificazione implica l’aggiunta di una o più linee di prodotti, rispetto a quelle già presenti
nell’impresa, con il conseguente avvio dell’attività in nuovi business.
Si possono avere tipi di diversificazione diversi: correlata e non correlata. Nella correlata i legami fra business sono
molti e le linee di prodotto consentono di sfruttare sinergie dal punto di vista degli approvviggionamenti, della
produzione in senso stretto, del marketing ecc.
Nella non correlata l’entrata in nuovi settori è riconducibile non allo sfruttamento di sinergie industriali o di economie
di raggio d’azione, ma a considerazioni di rendimento del capitale investito.
La strategia di leadership di costo consiste nel produrre beni o servizi con caratteristiche accettabili per il cliente al
costo più basso, rispetto a quello dei concorrenti. Alcune azioni che caratterizzano questa strategia sono:
standardizzazione, sfruttamento delle economie di scala e di specializzazione e produzione di massa.
La strategia di differenziazione consiste nel produrre beni o servizi che i clienti percepiscono come differenti, rispetto
a quelli della concorrenza, per aspetti che sono importanti per loro, aumentando la loro disponibilità a pagare.
L’impresa cerca quindi di innalzare il valore dell’offerta rispetto ai concorrenti mediante il design, la qualità del
prodotto, l’ampliamento della gamma offerta, l’innovazione di prodotto, l’incorporazione di servizi.
Posizionamento e organizzazione
Vi sono numerosi collegamenti fra posizionamento dei confini (verticali e orizzontali) e organizzazione. In effetti la
problematica è quella della formazione della strategia e del rapporto fra strategia e organizzazione.
L’organizzazione svolge un ruolo importante nella realizzazione della strategia. “La performance non è la conseguenza
della strategia di diversificazione in sè ma del grado di fit fra strategia e assetto organizzativo interno”.
La realizzazione della strategia implica una molteplicità di decisioni e azioni che devono essere assunte e attuate ai vari
livelli, anche a quelli più bassi ed è l’organizzazione che determina quali decisioni verranno effettivamente assunte e a
quali costi.
Le caratteristiche organizzative più rilevanti sono: le informazioni (disponibilità, fluidità nella trasmissione, coerenza),
l’autorità decisionale (chiarezza della responsabilità, partecipazione, ruolo di supporto degli staff), i fattori motivanti
(l’esistenza di un sistema premiante fondato sulla performance), la struttura organizzativa (l’ampiezza del controllo).
Le decisioni strategiche non sono un evento ma un processo e i processi decisionali cercano di definire le questioni
tanto quanto cercano di fornire una risposta. L’organizzazione condiziona le modalità di svolgimento del processo di
formulazione della strategia.
Il ruolo dell’organizzazione con riferimento al problema del cambiamento può essere colto sotto un duplice aspetto: da
un lato, i tempi necessari per cambiare la strategia e l’organizzazione sono diversi: l’inerzia al cambiamento
dell’organizzazione può indurre a scelte strategiche diverse da quelle che altrimenti verrebbero compiute; dall’altro,
l’organizzazione contribuisce a creare le condizioni che facilitano il cambiamento della strategia o, meglio, per
rimarcare la frequenza e l’importanza della rapidità dei mutamenti di strategia, la flessibilità strategica.
Da un’impostazione “structure follows strategy” si può passare quindi alla formulazione di una relazione inversa
“strategy follows structure”. Al riguardo possiamo introdurre due concezioni importanti:
1. La prima concezione è fondata sull’efficienza e richiama la teoria dei costi di transazione: afferma che i
confini vanno posizionati così da realizzare l’efficienza. Le transazioni possono essere governate con forme
diverse: il mercato, la gerarchia e le forme intermedie. Queste forme comportano costi diversi la cui entità
dipende dalle caratteristiche delle transazioni: incertezza, specificità delle risorse e frequenza.
2. La seconda concezione è fondata sulle risorse: afferma che il vantaggio competitivo deriva principalmente
dalle risorse (tangibili e intangibili) dell’impresa che presentano caratteristiche quali: hanno valore e cioè sono
rilevanti rispetto ai fattori chiave di successo su un mercato; sono rare e cioè scarse; sono imperfettamente
imitabili nel senso sia di trasferibili sia di replicabili perchè dipendono dal contesto o dalla storia dell’impresa,
o sono socialmente complesse; non sono sostituibili e cioè non vi sono risorse alternative equivalenti. I confini
vanno posti in modo da massimizzare il valore dell’impresa.
Nel 1° caso, l’organizzazione e la progettazione organizzativa sono rilevanti in quanto contribuiscono a determinare il
costo del ricorso alle diverse forme di governo delle transazioni.
Nel 2° caso, l’organizzazione e la progettazione organizzativa sono rilevanti in quanto da un lato l’organizzazione può
rappresentare essa stessa una risorsa (intangibile, per esempio il capitale sociale) e, dall’altro, può contribuire alla
valorizzazione delle risorse e allo sviluppo delle capacità dinamiche.
Strategia Organizzazione
Integrazione verticale Forma funzionale burocratica
Integrazione verticale impropria Forme intermedie
Diversificazione (correlata o non) Forma divisionale (cooperativa o competitiva)
Leadership di costo Forma funzionale burocratica
Differenziazione Forma funzionale burocatica con integratori
Coopetition Forme intermedie
La progettazione organizzativa
Parlando di progettazione organizzativa ci riferiamo al “percorso” attraverso il quale i manager selezionano e gestiscono
le dimensione e le componenti dell’organizzazione in modo da dare “ordine” o “controllo” alle attività necessarie per il
raggiungimento degli obiettivi e la realizzazione della strategia, pervenendo così alla definizione e successivamente alla
realizzazione di un assetto organizzativo.
Le variabili organizzative
Quando parliamo di variabili, ci riferiamo alle leve organizzative disponibili e utilizzabili per definire e costruire una
soluzione organizzativa e per le quali esistono sia alternative che possibilità di scelta.
Quindi queste variabili rappresentano le leve su cui si può intervenire, singolarmente o in combinazione, a seconda della
natura del problema di progettazione organizzativa.
Abbiamo due grandi ordini di variabili organizzative:
1. Variabili relative alla divisione del lavoro/specializzazione; esse riguardano:
• Il tipo di divisione/specializzazione del lavoro: riguarda la distinzione fra divisione/specializzazione
orizzontale (le attività che vengono svolte) e divisione/specializzazione verticale (l’autorità o la
discrezionalità assegnate);
• Il grado di specializzazione: esprime la profondità o l’entità con cui vengono realizzate la d./s.
orizzontale e la d./s. verticale.
Le decisioni in esame assumono contenuti diversi a seconda del livello di progettazione organizzativa; con
riferimento alla progettazione intra-organizzativa:
- Al livello micro-organizzativo la divisione orizzontale del lavoro riguarda la varietà dei compiti assegnati alla
mansione mentre quella verticale riguarda l’assegnazione alla mansione di compiti decisionali e di controllo.
La p.o. può dare luogo a mansioni caratterizzate da una forte divisione orizzontale (mansioni poco varie), o da
una forte divisione verticale (mansioni poco autonome) o da una forte divisione sia orizzontale che verticale
(mansioni parcellizzate).
- A livello meso-organizzativo, la specializzazione orizzontale riguarda la scelta del criterio di specializzazione,
la definizione dei confini e della dimensione delle unità organizzative, mentre la specializzazione verticale
attiene al grado di accentramento-decentramento, al numero dei livelli gerarchici, al numero e al tipo dei
rapporti di dipendenza, alla distinzione fra organi di line e organi di staff. Il grado di specializzazione aumenta
quanto più le decisioni di p.o. assunte creano differenze.
Un elevato numero di livelli esprime un grado di specializzazione verticale maggiore rispetto a un numero
basso di livelli. Riguardo la distribuzione dell’autorità decisionale, possiamo collegare un elevato grado di
specializzazione verticale con la “distribuzione” dell’autorità e con il suo collegamento a specifici ambiti, e
quindi al decentramento.
2. Variabili relative al coordinamento: riguardano i meccanismi utilizzabili. Riferendoci sempre alla
progettazione intra-organizzativa, la tipologia di meccanismi di coordinamento comprende: la supervisione
diretta, la standardizzazione, i meccanismi laterali, gli incentivi. (7)
Oltre al tipo di meccanismo, le scelte di coordinamento riguardano anche:
- l’intensità del ricorso ai singoli meccanismi: ad esempio, l’utilizzo della supervisione diretta può essere
previsto “per eccezione”, nel caso di non copertura delle esigenze di coordinamento da parte di un altro
meccanismo (le regole o gli obiettivi), oppure “di base”, nel senso che la supervisione diretta rappresenta il
meccanismo utilizzato per risolvere la gran parte dei problemi di coordinamento;
- la combinazione o il mix di meccanismi da utilizzare: per risolvere un problema di coordinamento secondo
criteri di efficienza, efficacia ed equità è necessario adottare una combinazione di meccanismi. Ad esempio, è
del tutto normale che fra le attività svolte da un’azienda ci siano tipi di interdipendenza diversi: appare dunque
conveniente adottare meccanismi di coordinamento diversi, efficaci ed efficienti rispetto ai diversi tipi di
interdipendenza.
2. Le teorie organizzative
Le teorie sono importanti perchè sono alla base delle azioni che le persone intraprendono. Le “buone” teorie permettono
di:
- prevedere, ossia di poter conoscere i risultati di determinate azioni;
- controllare gli eventi che ci influenzano.
Riferendoci al metodo sistematico nella mappatura delle teorie organizzative (l’altro metodo è quello storico, fondato
sull’epoca in cui le diverse scuole sono sorte), i criteri di classificazione più interessanti sono due:
il primo riguarda la prospettiva sull’azione. Individuiamo tre prospettive sull’azione:
1. la prima vede il comportamento come proattivo, intenzionalmente razionale e prospettico.
2. la seconda vede il comportamento come vincolato dall’esterno o determinato dalla situazione. Stiamo parlando
di vincoli o forze esterne rispetto ai quali l’attore ha uno scarso controllo o anche una scarsa consapevolezza.
3. la terza afferma che il comportamento non può essere previsto a priori.
In questo ambito distinguiamo fra due tipi di approccio: l’approccio oggettivo, in cui l’organizzazione viene
spersonalizzata e resa oggettiva nel significato di “quantificabile” secondo i canoni della misurazione “scientifica”,
e l’approccio soggettivo, nel quale ad assumere rilievo è la persona.
Nell’approccio oggettivo, i comportamenti e l’organizzazione sono determinati e vincolati da forze esterne, i
fenomeni studiati sono oggettivi (una realtà esterna concreta) e si ricercano principi universali applicabili.
Nell’approccio soggettivo, i comportamenti e l’organizzazione sono scelti e creati in modo autonomo dalle persone,
i fenomeni studiati sono soggettivi (il prodotto di processi cognitivi personali) e si ricercano principi particolari
rilevanti solo per uno specifico problema o condizione.
il secondo criterio riguarda invece il livello di analisi nella formulazione di previsioni, sia in termini di singolo
individuo che di un insieme di organizzazioni.
L’efficienza
Teorie “classiche” dell’organizzazione:
- Organizzazione scientifica del lavoro (Taylor);
- Teoria della direzione amministrativa (Fayol, Gulick, Urwick);
- Teoria della burocrazia (Weber).
1. Teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro (OSL)
E’ necessario distinguere tre componenti o tre piani di analisi:
L’OSL come una completa rivoluzione mentale. Ciò significa cessare di preoccuparsi della divisione del surplus
(valore aggiunto netto) concentrandosi invece sul suo aumento e aderire al metodo scientifico accettando che con il
suo utilizzo è possibile giungere a soluzioni “oggettive” e “ottime”. Presupposto e conseguenza di questa
rivoluzione mentale è l’eliminazione di tutte le cause che impediscono un’elevata produttività del lavoro e delle
macchine, ossia:
- l’errata opinione che l’aumento della produttività porterebbe a una riduzione dei posti di lavoro (in realtà
↑produttività ↓costi ↓prezzi ↑retribuzioni ↑domanda ↑occupazione e profitto).
- l’abitudine a far finta di lavorare o a rallentare la produzione (soldiering): questo avviene nei gruppi dove tutti
svolgono uno stesso lavoro e dove vi è una retribuzione a tempo uguale per tutti: in queste condizioni le
prestazioni individuali si adeguano alla prestazione fornita dal lavoratore meno produttivo del gruppo.
L’OSL come un insieme di principi. I principi individuati da Taylor sono:
- lo sviluppo della scienza: esso riveste un’importanza centale. Afferma l’esigenza dello studio scientifico del
lavoro e cioè la necessità di individuare la modalità ottima (one best way). Comprende anche lo studio
scientifico dei fattori che influenzano il comportamento dei lavoratori.
- la selezione e l’addestramento scientifico dei lavoratori e il loro progressivo sviluppo: questo principio
afferma la possibilità di ottimizzare anche la combinazione mansione-lavoratore, attraverso l’individuazione
del lavoratore di prima categoria. Questo avviene studiando le caratteristiche psico-fisiche di ogni lavoratore
ed estendendo lo studio o la sperimentazione anche ai capi.
- il mettere insieme (bringing together) scienza e lavoratori scientificamente selezionati e addestrati.
- l’intima e costante collaborazione fra direzione e lavoratori.
Questi ultimi due principi possono essere considerati insieme. Essi comprendono:
1. la divisione del lavoro tra direzione e lavoratori. Questa separazione può essere resa possibile mediante il
meccanismo della struttura funzionale (à la Taylor), in sostituzione della tradizionale struttura gerarchica,
che si caratterizza per l’attribuzione a ciascun capo di un ambito o una funzione precisa e quindi limitata.
Ogni capo può dare ordini ad uno stesso dipendente.
2. la ricerca continua della collaborazione e del consenso dei lavoratori.
3. la garanzia di fluidità nelle comunicazioni.
L’OSL come un insieme di meccanismi. I meccanismi rappresentano la dimensione più tecnica o operativa
dell’OSL. Esempi: studio dei tempi, task management, test di selezione, sistemi e tecniche di programmazione,
istruzioni formali, job evaluation e stile di direzione.
Dall’esame dei principi (in particolare il primo: sviluppo della scienza) emergono le caratteristiche del metodo
scientifico proposto da Taylor:
- il determinismo, ovvero il convincimento che ogni fenomeno reale è funzione di determinati fattori;
- la scomponibilità, ossia la possibilità e l’importanza di dividere ogni problema nelle sue parti elementari;
- la sperimentazione, ossia l’individuazione di funzioni e punti di ottimo mediante prove ed osservazioni.
Il vero tratto distintivo dell’OSL consiste proprio nell’utilizzo sistematico della scienza per affrontare tutti i problemi.
Con l’applicazione di questo metodo, viene meno anche la giustificazione all’esistenza del sindacato: in questo ambito
le retribuzioni aumentano e vengono differenziate in base alle capacità dei lavoratori e le lamentele e i contrasti
manifestati vengono esaminati in modo scientifico.
Da tutto ciò deriva un’accezione di OSL come assetto organizzativo caratterizzato da: forte parcellizzazione del lavoro,
metodi di lavoro predeterminati, ripetizione di movimenti semplici, richiesta di capacità ed esperienza minime, esigenze
minime di addestramento, ricorso esclusivo all’incentivo monetario.
L’OSL è stata criticata per la parcellizzazione del lavoro e quinidi per il trattamento dell’uomo come una macchina, per
lo sfruttamento dei lavoratori, per le carenze motivazionali e per la mancata considerazione della dimensione sociale del
lavoro (cioè dell’importanza delle relazioni sociali per il lavoratore e degli effetti positivi che il gruppo può avere).
2. Teoria della direzione amministrativa
In questo caso la scientificazione investe la funzione direzionale e si traduce nella ricerca e nell’elaborazione di principi.
Occorre innanzitutto distinguere tra gestione e direzione. Gestire significa conseguire l’efficacia e l’efficienza
presidiando lo svolgimento anche della funzione direzionale, accanto alle altre funzioni. Dirigere significa:
programmare (valutare il futuro ed elaborare il programma di azione), organizzare (creare l’organismo sociale ossia
definire l’organigramma così da poter svolgere le funzioni richieste dalla gestione) , comandare (far funzionare il corpo
sociale appena formato), coordinare (ricercare l’armonia tra tutti gli atti dell’impresa così da facilitarne il
funzionamento ed il successo) e controllare (verificare che tutto si svolga secondo i programmi, gli ordini e i principi.).
La funzione direzionale presenta due caratteristiche essenziali:
è universale, nel senso che nella gestione di tutti i tipi di azienda è indispensabile programmare, organizzare,
comandare, coordinare e controllare;
è diffusa, nel senso che non può essere attribuita esclusivamente al vertice, ma interessa, anche se in misura
diversa, tutti i dipendenti o almeno tutti i capi.
I principi individuati da questa teoria sono:
- principio della divisione del lavoro: essa viene studiata più che a livello di mansioni (micro) a livello di unità
organizzative (meso). I criteri di specializzazione sono: la finalità principale perseguita, i processi e le tecniche
usate, i clienti da servire ed il luogo dove l’attività viene svolta.
- principio dell’unità di comando: un dipendente riceve gli ordini da un solo capo.
- principio scalare: l’autorità e la responsabilità devono essere definite in modo chiaro e senza “vuoti” (dando vita ad
una precisa catena di comando).
- principio del numero dei livelli: riguarda la lunghezza della via gerarchica. Questo principio afferma l’esigenza di
rendere quanto più corta possibile la catena di comando, progettando strutture con un numero di livelli più basso
possibile.
- principio dell’ampiezza del controllo: definisce il numero di persone che possono dipendere da un capo e sulle
quali può quindi essere esercitato l’intervento gerarchico. Il riferimento in questo caso è il campo di attenzione:
riguarda il numero di elementi diversi cui il cervello umano può prestare contemporaneamente attenzione. Per
questo è importante limitare il numero di dipendenti da controllare.
- Principio line e staff: il problema è lo stesso affrontato da Taylor, ovvero la non onniscienza dei capi (line), che
viene però risolto potenziando le capacità di intervento dei capi con degli specialisti (staff). La staff interviene su
richiesta della line e ha carattere consultivo, nel senso che lo staff dà alla line consigli o pareri, che solo la line può
tradurre in ordini.
Questi principi vennero criticati da Simon, che li definì:
• ambigui: perchè i principi non indicano chiaramente quale azione dovrebbe essere intrapresa per risolvere i
problemi. Ad esempio, la divisione del lavoro e l’adozione di un criterio di specializzazione sono, prima di una
condizione di efficienza, una caratteristica inevitabile di qualunque attività di gruppo; da questo punto di vista ciò
che è necessario, e che il principio non fa, è l’indicazione delle specifiche modalità che portano all’efficienza.
• contraddittori: perchè i principi sono di per sè chiari, non comportano ambiguità, ma rispettare un principio
impedisce di rispettarne un altro. Ad esempio, l’unicità del comando contraddice il principio di specializzazione
(non vengono utilizzate le migliori conoscenze e capacità) e inoltre le staff non risolvono la contraddizione perchè
autorità significa far guidare il proprio comportamento dalla decisione di un altro indipendentemente dal proprio
giudizio sul contenuto (la line invece decide se trasformare o meno i consigli in ordini in base al proprio giudizio).
3. Teoria della burocrazia
Partiamo dalla distinzione tra potere e autorità: entrambi determinano la modificazione del comportamento di un
soggetto da parte di un altro soggetto, ma l’autorità si basa sulla legittimazione e quindi sul diritto di comandare da un
lato e il dovere di obbedire dall’altro.
Weber individua tre tipi di autorità – carismatica, tradizionale e legale – ed i rispettivi apparati amministrativi. La
burocrazia rappresenta l’apparato amministrativo per l’esercizio dell’autorità legale.
Le caratteristiche della burocrazia sono:
una divisione del lavoro disciplinata in modo generale mediante regole e il ricorso a persone dotate della
qualificazione richiesta.
la gerarchia degli uffici, che definisce gli ambiti di controllo e di dipendenza.
un sistema di regole generali che, applicate alle situazioni specifiche, governano le decisioni e le azioni.
l’impersonalità nelle relazioni esterne ed interne, che evita l’interferenza dei sentimenti nell’assolvimento
razionale dei doveri d’ufficio.
il lavoro nell’ambito della burocrazia è una professione e una carriera, fondate rispettivamente sul possesso della
qualificazione richiesta e sulle prestazioni o sull’anzianità.
Una critica alla burocrazia Weberiana è quella del circolo vizioso che si instaura quando, accanto alle conseguenze
attese, si hanno delle conseguenze inattese.
Fra i contributi disponibili ne consideriamo due: quello di Merton e quello di Gouldner.
Secondo Merton, la conseguenza attesa consiste nel rendere disponibili alle persone precisi standard di comportamento,
mentre le conseguenze inattese comprendono la rigidità di comportamento dovuta alla riduzione delle relazioni
interpersonali, alla riduzione della ricerca di nuove alternative e all’interiorizzazione delle norme. Ne derivano difficoltà
con i clienti che ricevono risposte inadeguate alle loro richieste e dunque protestano.
Secondo Gouldner, le norme provocano come conseguenze attese la riduzione della frequenza e della durata delle
interazioni capo-dipendente (riduzione della visibilità delle relazioni di potere). Ne deriva una diminuzione del livello di
tensione interpersonale fra capo e dipendenti. D’altra parte, la chiarezza delle norme che specificano i comportamenti
attesi ma anche i comportamenti inaccettabili aumente la conoscenza dei comportamenti minimi accettabili. Ciò
provoca l’intervento personale e diretto dei capi che però porta in superficie le asimmetrie e le dinamiche di potere
aumentando la tensione interpersonale. Si può uscire da questa situazione aumentando il ricorso alle norme, anche nel
senso di un loro rispetto ancor più rigoroso e puntuale.
I meccanismi di influenza
I meccanismi di influenza attraverso i quali l’organizzazione può ridurre i limiti alla razionalità comprendono:
divisione del lavoro: riduce le conoscenze e le capacità richieste, adeguandole a quelle possedute dalle persone
(aumenta la sostituibilità delle persone).
procedure: guidano lo svolgimento delle attività, sviluppate da competenze specifiche e particolari;
autorità:
comunicazioni non autoritarie: le comunicazioni tra le persone non danno luogo solo a relazioni di autorità. Vi sono
anche il suggerimento, il cui contenuto viene utilizzato nella scelta solo in base al giudizio e al convincimento di chi
decide, e la persuasione, dove la trasmissione della premessa viene accompagnata dalla spiegazione dei vantaggi e
degli svantaggi di un certo corso di azione, ma il suo utilizzo nella scelta dipende ancora solo dal giudizio e dal
convincimento di chi decide.
sistemi informativi: riducono i limiti della razionalità, ad esempio aumentando le conoscenze del decisore su
alternative e conseguenze. Possono essere sia formali che informali e consentono i flussi di informazioni rilevanti per
i processi decisionali.
formazione e indottrinamento: Sono meccanismi di influenza “interni”, mentre i precedenti erano “esterni”.
Entrambi comportano un’interiorizzazione delle influenze, sotto forma di capacità e conoscenze nel caso della
formazione e sotto forma di identificazione con l’organizzazione nel caso dell’indottrinamento. Essi consentono alla
persona di assumere, da sola e in modo autonomo, decisioni in linea con gli obiettivi dell’organizzazione.
Motivazione e controllo
Un aspetto importante riguarda la spiegazione del comportamento umano. La motivazione riguarda l’insieme delle forze
che a livello individuale contribuiscono a determinare:
- L’inizio del comportamento lavorativo di una persona;
- La sua direzione (obiettivo);
- Il suo livello (intensità);
- La sua persistenza (durata nel tempo).
Le teorie della motivazione
I diversi studi sulla motivazione di derivazione psicologica vengono ricondotti a due teorie:
1. Le teorie del contenuto, che analizzano i bisogni, i “beni” desiderati dalle persone e che rispondono in generale
alla domanda “che cosa motiva le persone”;
2. Le teorie del processo: analizzano il processo decisionale attraverso il quale la percezione di un bisogno si
traduce in un comportamento organizzativo.
1.1 – il modello di Maslow
Secondo Maslow, un bisogno è la carenza di un “oggetto” desiderato. Egli afferma che l’uomo è portatore di più
bisogni, riconducibili a cinque tipi, e che tale tipologia di bisogni risponde a un ordine gerarchico:
Bisogni fisiologici: considerabili primari in quanto relativi alla sopravvivenza dell’individuo, come l’esigenza di
cibo o di riposo;
Bisogni di sicurezza: riconducibili ad esigenze di protezione dai pericoli e di garanzia nella possibilità di soddisfare
nel tempo fisiologici, come le condizioni di lavoro o la stabilità del posto di lavoro;
Bisogni di appartenenza: riguardano l’esigenza di un individuo di interagire con altre persone, di dare e ricevere
amicizia ed affetto, come il lavoro di gruppo o il mentoring;
Bisogni di stima: distinguibili in auto-stima, ossia avere di sè stessi una valutazione positiva ed elevata, di avere
successo personale, e in bisogni stima da parte degli altri, ossia la necessità di apprezzamento da parte del capo o
dei colleghi;
Bisogni di autorealizzazione: riguardano la piena realizzazione delle proprie potenzialità, il completamento del
proprio “progetto di vita” e che possono essere soddisfatti attrverso, per esempio, la progettazione delle mansioni o
il disegno di percorsi di carriera.
Principali critiche avanzate riguardo questa classificazione:
- il carattere universale della tipologia dei bisogni e del loro ordinamento gerarchico non consente di spiegare le
differenze tra individui (es: età diverse, culture diverse) e che quindi possono percepire bisogni differenti da
quelli della scala o possono ricercarne il soddisfacimento in un ordine diverso;
- la distinguibilità dei bisogni: le persone possono non essere in grado di distinguere ed ordinare
gerarchicamente un numero di bisogni come quello proposto da Maslow. Ad esempio, una persona potrebbe
attribuire la stessa importanza a bisogni che per Maslow sono collocati a livelli diversi;
- la limitata capacità esplicativa del meccanismo di soddisfazione-pregressione: secondo Maslow, soddisfatti i
bisogni di un certo livello, una persona diviene motivata e continua ad essere motivata dal soddisfacimento del
bisogno di livello superiore. Al contrario, l’impossibilità di soddisfare i bisogni di un livello (per esempio i
bisogni di stima) può indurre una persona a “rivalutare” l’importanza dei bisogni di livello inferiore (i bisogni
di appartenenza) già soddisfatti. Maslow quindi non considera la presenza del meccanismo frustrazione-
regressione.
1.2 – Il modello di McClelland
Secondo McClelland i bisogni non sono innati (come dice Maslow) ma sono appresi e ne evidenzia tre tipi:
Bisogno di achievement (conseguimento): è il desiderio di conseguire obiettivi sfidanti grazie alle proprie capacità,
di aspirare a standard di eccellenza. Gli achievers preferiscono lavori dove il conseguimento dei risultati dipende da
loro, ricercano obiettivi sfidanti, che mettano alla prova le loro abilità e sono disposti ad assumere rischi calcolati.
Bisogno di affiliazione: è l’esigenza di soddisfare le aspettative altrui, di essere accettati, di evitare conflitti. Le
persone con questo bisogno preferiscono il lavoro di gruppo;
Bisogno di potere: è l’esigenza di avere influenza sugli altri, di incidere sugli eventi. Questo bisogno si manifesta
nel desiderio di acquisire posizioni di comando e controllo.
Secondo McClelland, l’esperienza di un individuo può costituire, se positiva, un rinforzo al conseguimento di un
determinato bisogno e, se negativa, può invece ridurre lo stimolo al conseguimento di quel bisogno.
1.3 – Il modello di Herzberg
Alla domanda “che cosa motiva le persone?” risponde: le caratteristiche della situazione di lavoro. Vi sono due tipi di
fattori:
Fattori igienici, quali le politiche e le procedure di impresa, la supervisione, le relazioni interpersonali, le
condizioni di lavoro, la retribuzione, lo status e la sicurezza del posto di lavoro;
Fattori motivanti, quali l’achievement, il riconoscimento del lavoro svolto, il lavoro in sè, la responsabilità, la
possibilità di crescita e la progressione di carriera.
Questo modello spiega comportamenti che altri modelli non sono in grado di interpretare. Si pensi ad un operaio con un
basso livello retributivo, che manifesta assenteismo e offre una prestazione lavorativa media. Il suo capo interviene
assicurando un aumento di stipendio, ma ottiene solo una riduzione dell’assenteismo. Questo tipo di comportamento
non è spiegabile attraverso il modello di Maslow, per il quale invece si dovrebbe avere un aumento della motivazione e
quindi della performance. Il comportamento del lavoratore risponde invece alle ipotesi di Herzberg, secondo il quale è
prevedibile una riduzione dell’assenteismo, in quanto espressione di insoddisfazione, ma la soddisfazione e quindi il
miglioramento della performance si avranno solo mediante altri interventi, ad esempio un arricchimento della mansione
con l’assegnazione di compiti decisionali e di controllo (si mette mano ad un fattore motivante).
Un altro vantaggio di questo modello è costituito dal fatto di aver messo in evidenzia il ruolo primario svolto dal
contenuto del lavoro come fattore motivante.
2.1 – Il modello aspettativa-valenza
Aspettativa: giudizio soggettivo sulla probabilità di accadimento di un evento.
Questo modello si basa sull’assunto che gli individui siano decisori razionali, ossia in grado di valutare completamente
le proprie aspettative sui propri comportamenti (prestazioni) e sulle conseguenze (ricompense) di tali comportamenti sul
proprio sistema di preferenze (valenza).
NB: non è detto che questa ipotesi di razionalità trovi riscontro nella realtà, potrebbe esserci una razionalità limitata.
Secondo questo modello, i risultati o le conseguenze del comportamento lavorativo sono di due tipi:
Performance (first-level outcome), per esempio un certo aumento del fatturato per un venditore o una certa quota
di mercato per un direttore commerciale.
Ricompensa (second-level outcome), che si ritiene si possa ottenere in funzione della performance realizzata, si
tratti di un incentivo monetario, di una promozione o del riconoscimento del proprio contributo da parte del
superiore.
La motivazione di un individuo dipende da un processo decisionale in cui sono presi in considerazione i due risultati e
nel quale si valuta l’utilità attesa di un comportamento sulla base di due fattori principali:
- l’aspettativa. Ci sono due tipi di aspettative individuali: il giudizio soggettivo sulla probabilità del first-level
outcome, ossia che un determinato sforzo o comportamento produca la performance richiesta; il giudizio
soggettivo sulla probabilità del second-level outcome, ossia che al conseguimento della performance siano
collegate le ricompense considerate;
- la valenza. Si tratta dell’utilità assegnata dall’attore alle conseguenze della sua performance, ossia al second-
level outcome. E’ quindi collegata ai bisogni dell’individuo: l’elevata valenza di una ricompensa significa che
questa soddisfa i bisogni del soggetto.
Se un’organizzazione si pone l’obiettivo di migliorare la motivazione del proprio personale, può intervenire sulle tre
componenti del processo decisionale:
a. incrementare l’aspettativa sulla performance: è necessario aumentare la consapevolezza dell’individuo di poter
conseguire la performance stabilita, per esempio fornendo del training, assicurando tempi e risorse necessarie al suo
conseguimento, formulando richieste chiare;
b. incrementare l’aspettativa sulle ricompense: è necessario aumentarela consapevolezza dell’individuo che a una certa
performance consegua una ricompensa, per esempio rilevando la prestazione individuale e definendo sistemi di
incentivazione basati sulla performance;
c. incrementare la valenza: è necessario introdurre e aumentare le ricompense che rispondono ai bisogni espressi dalle
persone, per esempio individualizzando il sistema di ricompensa.
2.2 – Il modello del goal setting
Il processo decisionale alla base della motivazione non è di tipo massimizzante, ma di tipo soddisfacentista.
Il tipo di obiettivi a cui tende l’azione individuale è determinante per la motivazione e la performance. Quindi gli
obiettivi di prestazione devono servire a chiarire ciò che è richiesto al lavoratore:
- Evitare obiettivi generici;
- Utilizzare una scala di misurazione, con un livello da raggiungere su tale scala in un periodo di tempo definito;
- Stabilire obiettivi sfidanti, ma non impossibili;
- Stabilire obiettivi orientati al risultato più che al comportamento (azioni da svolgere), perchè obiettivi orientati
al comportamento andrebbero a ridurre la discrezionalità dell’attore limitando la sua possibilità di scegliere le
modalità per raggiungere l’obiettivo;
Per quanto riguarda il processo di formulazione degli obiettivi, la partecipazione alla loro definizione da parte di coloro
che dovranno realizzarli ne favorisce l’accettazione e quindi aumenta la motivazione. Inoltre la partecipazione è
vantaggiosa anche per motivi cognitivi poichè aumenta le informazioni disponibili e consente di pervenire a una
definizione più valida degli obiettivi da raggiungere.
Una critica a questo modello riguarda l’assunzione su cui esso si basa, secondo la quale persone diverse adottano lo
stesso comportamento di fronte ad obiettivi difficili e specifici.
La teoria dell’agenzia
Situazioni organizzative in cui un soggetto (principale) delega a uno o più soggetti (agenti) lo svolgimento di attività in
nome e per proprio conto. Esempio: azionisti e management, avvocato e cliente, cittadino e politico.
Le relazioni d’agenzia si configurano nelle situazioni caratterizzate dalle seguenti ipotesi:
- esiste incertezza sugli stati del mondo: eventi ignoti/imprevedibili, gli attori possiedono informazioni
incomplete;
- esiste asimmetria informativa tra gli attori, dispongono di informazioni diverse;
- gli attori hanno razionalità limitata: prendono decisioni cercando di massimizzare le rispettive funzioni di
utilità ma subiscono l’incertezza del contesto e il costo delle informazioni non disponibili;
- gli attori hanno obiettivi diversi e interessi in conflitto: tendono ad agire in modo tale da perseguire il proprio
interesse;
- gli attori sono opportunisti: si comportano in modo opportunistico ex-ante (selezione avversa) ed ex-post
(azzardo morale) sfruttando le asimmetrie informative e agendo così da trarre vantaggio da esse, anche con la
frode;
- gli attori hanno propensione al rischio diversa, cioè valutano diversamente le conseguenze di eventi
ugualmente incerti.
Tipicamente, nella relazione di agenzia, l’informazione è incompleta e distorta a favore dell’agente, che gode quindi di
un vantaggio legato all’asimmetria informativa. Si può ricorrere a due sistemi di controllo:
utilizzo di un sistema di incentivi basati sul risultato, ossia sistemi di remunerazione dell’agente contingenti al
raggiungimento dei risultati. Il principale tenterà di progettare un sistema di incentivi tale da consentire il
trasferimento sull’agente del rischio derivante dal fatto che a generare il risultato sono anche altri fattori, esogeni e
incerti, che l’agente non può controllare. Questo però provoca un onere per il principale, dato che l’agente è
avverso al rischio. In altri termini, gli incentivi offerti all’agente dovranno essere tali da compensare il maggiore
rischio supportato. Ciò incide sui costi del principale (problema del trasferimento del rischio).
utilizzo di sistemi di controllo dei comportamenti (contratti behavior based): la retribuzione sarà fissa e a
sopportare il rischio sarà il principale. Si possono istituire sistemi di rilevazione di indicatori dello sforzo compiuto
(come le ore di presenza), oppure di osservazione di segnali di azioni intraprese o sistemi di formalizzazione e
standardizzazione dei comportamenti.
Il potenziale di opportunismo
Concetto – opportunistico è “un comportamento che tradisce lo spirito di un accordo di cooperazione o di scambio
attraverso: promesse non credute da chi le fa, azioni che accrescono unilateralmente i propri benefici e danneggiano
altri che non sono nelle condizioni di scoprirle o di reagire, free-riding, inganni e bluff”.
Due sono i tipi di opportunismo rispetto alla conclusione dell’accordo: ex-ante (selezione avversa), finalizzato a
consentire o a favorire la conclusione dell’accordo con l’altro, fornendo informazioni distorte o incomplete, ed ex-post
(azzardo morale), dopo che l’accordo è stato stipulato, una parte riduce il proprio impegno avvalendosi di una
situazione di asimmetria informativa che impedisce un controllo completo.
Fonti – comprendono:
il conflitto d’interesse: presenza di forme di contrapposizione anzichè di complementarità o identità degli interessi
che governano lo svolgimento delle attività. Esempio: “giochi a somma zero”, in cui un beneficio per un attore
comporta uno svantaggio per la controparte, o “giochi non cooperativi” del tipo dilemma del prigioniero.
l’incertezza: è costituita dall’incertezza sulla controparte (non conoscenza delle sue caratteristiche) e dall’incertezza
sulla relazione (difficoltà a definire contratti completi).
il grado di sostituibilità degli attori: quanto più una parte di una relazione è insostituibile, tanto maggiore sarà il
rischio che quella parte adotti comportamenti che vanno a proprio vantaggio e a discapito altrui.
la longevità della relazione e l’istituzionalizzazione dei comportamenti: riguardo la longevità, più l’interazione è
duratura nel tempo, o sono elevate le aspettative di durata, tanto minore è il potenziale di opportunismo delle parti;
riguardo l’istituzionalizzazione, essa è legata a comportamenti di onestà, lealtà ed equità ed al sazionamento di
comportamenti opportunistici.
Effetti – l’effetto è quello di adottare soluzioni che consentano un maggiore controllo della relazione e dei
comportamenti della controparte. Esempi:
- internalizzazione delle attività, in forza della maggiore efficacia ed efficienza della gerarchia rispetto al
mercato;
- maggiore formalizzazione, nel senso della creazione di molte regole formali (form.ne interna) o clausole
contrattuali (form.ne esterna);
- ricorso a meccanismi forti di risoluzione dei conflitti: nel caso dell’internalizzazione il meccanismo è la
gerarchia, mentre nel caso dei rapporti di mercato è possibile ricorrere all’autorità arbitrale;
- separazione fra attività, attraverso la divisione verticale a livello micro-organizzativo e la divisione tra le
attività di controllore e di controllato a livello meso-organizzativo.
L’interdipendenza
Concetto – l’interdipendenza tra attività e attori diversi rappresenta uno dei fondamenti del processo di analisi e
progettazione organizzativa: la necessità di coordinare attività o unità organizzative è generata dall’esistenza di una
qualche forma di interdipendenza.
Tipi – distinguiamo l’interdipendenza:
a) generica: ogni parte contribuisce in modo indipendente con il proprio output a un risultato complessivo oppure le
diverse parti ricevono come proprio input risorse o info da una fonte comune (esempio: filiali di una stessa banca,
che contribuiscono al risultato complessivo senza interagire direttamente; iscritti ad una associazione di categoria,
che ricevono info e servizi dall’associazione senza avere relazioni tra loro);
b) sequenziale: quando è possibile precisare la sequenza delle attività e la direzione dello scambio , ovvero quando
l’output di una (A) rappresenta l’input dell’altra (B). Esempio: rapporto di fornitura o fasi di lavorazione all’interno
della linea produttiva;
c) reciproca: quando l’output di un’attività costituisce l’input di un’altra e viceversa. La relazione di scambio è quindi
simmetrica (da A a B e poi da B ad A). Esempio: sviluppo di un prototipo, con l’interazione tra cliente e fornitore
nel corso del processo; scambio di informazioni tra più funzioni aziendali (ad esempio, R&D e marketing)
coinvolte nello sviluppo di un nuovo prodotto;
d) intensiva: quando le parti co-agiscono definendo le azioni da compiere aggiustandole simultaneamente l’una
rispetto alle altre, giungendo così ad un’azione comune (esempio: diversi soggetti che intervengono nel corso di
un’operazione chirurgica; più aziende che costituiscono una nuova entità economica - ad esempio una joint venture
- per lanciare un nuovo prodotto o aggredire un nuovo mercato).
Effetti – l’interdipendenza influisce sulle scelte di progettazione organizzativa che riguardano la rete esterna e quella
interna (ai diversi livelli organizzativi). Ha degli effetti sui meccanismi di coordinamento:
- l’i. generica può essere gestita tramite la standardizzazione, ossia la definizione di regole e procedure che
stabiliscano a priori le modalità di azione da seguire dalle diverse parti coinvolte (esempio: procedure
operative da seguire in una banca uniformi e prevedibili);
- l’i. sequenziale: può essere gestita dalla presenza di programmi, ossia dalla fissazione di obiettivi per le parti
(esempio: programmi di produzione, che stabilisce le quantità da produrre entro quel periodo di tempo);
- l’i. reciproca: può essere gestita da strumenti che realizzino il passaggio di informazioni tra le parti come
specifici ruoli dedicati allo scambio successivo di informazioni e al coordinamento tra di esse; risulta
necessaria una comunicazione anche diretta tra le parti per l’adattamento non simultaneo nei comportamenti
(esempio: co-progettazione tra cliente e fornitore, la presenza di ruoli preposti allo scambio di informazioni o
di riunioni serve per favorire il processo di avvicinamento agli obiettivi della fornitura);
- l’i. intensiva: si può regolare con strumenti che favoriscano lo scambio informativo simultaneo tra le parti così
da consentire un processo di mutuo aggiustamento (esempio: gruppi di progetto - e quindi unità organizzative -
e joint venture – e quindi condivisione della proprietà).
Le tendenze recenti
Una prima tendenza viene definita de-jobbing o jobless organization: è quella di definire il lavoro delle persone
non più come una descrizione dettagliata di compiti da svolgere, quanto come un insieme di competenze necessarie
per raggiungere determinati obiettivi o risolvere problemi , da ricercare e sviluppare nei lavoratori, ovvero come
una lista di aggettivi (ad esempio “imprenditoriale”, “orientato al cliente”).
Inoltre molte imprese lasciano che siano i lavoratori a costruire intorno alle loro caratteristiche e a quelle
dell’impresa i contenuti del loro lavoro. L’abilità di progettare “artigianalmente” il proprio lavoro non è detto che
sia posseduta da tutti i lavoratori, tuttavia può essere stimolata dall’impresa.
Le tendenze generali alle quali si è assistito negli ultimi decenni sono, a livello di soluzioni intra-impresa,
l’allontanamento dal modello burocratico-taylorista in favore del modello ricomposto e il sempre maggiore utilizzo
dei gruppi di lavoro. Si assiste inoltre ad una maggiore diffusione dei modelli di organizzazione del lavoro inter-
impresa, per effetto delle più frequenti decisioni di esternalizzazione (outsourcing).
Negli ultimi decenni, l’Information Technology ha contribuito a modificare l’organizzazione del lavoro
promuovendo il telelavoro o remote working, cioè il lavoro da casa, il lavoro presso un centro attrezzato (es.: call
center), il lavoro in rete (gruppi virtuali e net-working).
I criteri di specializzazione
Il problema è come mettere insieme e separare attività/mansioni e persone.
L’importanza della questione è data dal fatto che:
- vengono definite le mansioni e le persone soggette ad una comune supervisione;
- si definiscono le mansioni che concorrono ad un risultato comune; si creano così insiemi di responsabilità che
vengono assegnate ai singoli manager e si delimitano gli indicatori di performance utilizzabili;
- si orienta l’attenzione verso risultati specifici e si favorisce lo sviluppo e l’apprendimento di capacità e
comportamenti coerenti;
- vengono favorite le comunicazioni intra-unità (obiettivi comuni) e rese più complesse quelle inter-unità.
Specializzare sul piano orizzontale significa anche creare unità organizzative dedicate o rivolte alla copertura di
specifiche esigenze.
Sono due i criteri di specializzazione che consideriamo:
a. Specializzazione in base agli input o alla tecnica impiegata. In questo caso la specializzazione avviene considerando
le risorse (materiali o immateriali) impiegate, il processo di lavoro utilizzato o il tipo di attività svolta. Rientrano in
questo tipo di criterio:
- la specializzazione in base alle funzioni e alle attività svolte: il raggruppamento avviene in base appunto al tipo
di attività svolta o al tipo di processo di trasformazione realizzato (spesso definito dalla tecnologia impiegata)
o in base alla funzione cui le attività rispondono nell’azienda;
- la speicliazzione in base alle conoscenze e alle capacità: il raggruppamento avviene sulla base delle capacità e
conoscenze specialistiche richieste dalle attività e possedute dalle persone (es: articolazione in cliniche e
reparti in un ospedale, dipartimenti universitari).
b. Specializzazione in base agli output. In questo caso la specializzazione avviene, appunto, in base all’output fornito,
potendo esso essere letto in modi o dimensioni diverse. Dal punto di vista organizzativo si creano unità autosufficienti
per la realizzazione dell’output assegnato (mentre nel criterio precedente occorrono più unità organizzative per
conseguire l’output).
Rientrano in questo tipo di criterio:
- la specializzazione in base al prodotto o al servizio: il raggruppamento avviene avendo come riferimento i
prodotti (o le linee di prodotto) o i servizi realizzati. Le unità così create comprendono, almeno
tendenzialmente, tutte le attività/funzioni richieste dal prodotto/servizio;
- la specializzazione in base all’area geografica: le unità organizzative vengono create avendo come riferimento
gli ambiti geografici in cui l’azienda opera. E’ il caso, ad esempio, dell’impresa multinazionale, dove gli
ambiti geografici possono essere rappresentati dai diversi Paesi o da gruppi di Paesi;
- la specializzazione in base al cliente: la definizione delle unità organizzative avviene in base al diverso tipo di
clienti serviti (segmento di mercato, settore industriale, ecc.);
- la specializzazione in base ai processi: il processo rappresenta “un insieme di attività che utilizza uno o più
input e ottiene un output che è di valore per il cliente”.
E’ possibile che vengano adottati criteri di specializzazione diversi:
ai vari livelli della struttura organizzativa;
ad uno stesso livello, ma all’interno di unità organizzative diverse.
Il criterio adottato al livello più alto dell’organizzazione presenta una particolare rilevanza poichè definisce il tipo
fondamentale di forma organizzativa che un’azienda adotta (ad esempio una forma funzionale o una forma divisionale).
I criteri di specializzazione esprimono le diverse dimensioni secondo le quali sono definibili le variabili critiche
dell’ambiente e della strategia dell’azienda che, tenendo conto della loro priorità, devono essere presidiate attraverso le
diverse variabili organizzative.
Una corretta progettazione organizzativa dovrebbe assegnare la massima priorità alla variabile più critica e quindi
adottare al livello più elevato il criterio di specializzazione corrispondente.
Le conseguenze dei criteri di specializzazione
In sisntesi, le conseguenze di ogni tipo sono il riflesso speculare l’una dell’altra, nel senso che vantaggi e svantaggi dei
due tipi di criteri di specializzazione sono sostanzialmente contrapposti, ossia i vantaggi di un criterio corrispondono
agli svantaggi dell’altro criterio.
Si può osservare che:
la specializzazione in base agli input ha come principali vantaggi l’efficienza e la possibilità di acquisire e
sviluppare elevate competenze specialistiche e come svantaggi il prevalere di orientamenti e obiettivi parziali
legati alla funzione o al contesto specialistico, con conseguenti problemi di coordinamento fra le diverse unità;
la specializzazione in base agli output ha come vantaggi il miglioramento del coordinamento tra gli input e
l’aumento della capacità di risposta alle esigenze espresse dall’output e come svantaggi la possibilità di
inefficienze dovute al mancato sfruttamento delle economie di scala o di specializzazione e la minore possibilità
di acquisire e sviluppare competenze specialistiche.
Variabili chiave e criteri di specializzazione
La scelta efficace ed efficiente tra i diversi criteri di specializzazione dipende dal valore delle variabili chiave (che
descrivono la natura delle attività) e dalla valutazione delle conseguenze (benefici e costi) che derivano dall’adozione
dei diversi criteri di specializzazione.
Pertanto, le variabili chiave rendono diversamente efficiente e diversamente efficace il ricorso ai diversi criteri di
specializzazione.
La tabella va letta nel senso che se il “valore” della variabile chiave considerata è alto, allora è conveniente il criterio di
specializzazione indicato.
Le tendenze recenti
Attualmente vi è la tendenza ad adottare criteri basati sulla specializzazione per output. Tendono a prevalere le forme
divisionali o, meglio, la creazione di unità distinte per i diversi business dell’impresa.
La scelta del tipo di specializzazione: metodo sintetico e metodo analitico
Il metodo sintetico cerca di stabilire la priorità delle diverse dimensioni (input e output) espresse dai criteri di
specializzazione e si applica soprattutto nella progettazione top-down o per semplificare l’ambito di applicazione del
metodo analitico.
Il metodo analitico considera distintamente, per ogni variabile chiave in una data situazione, le conseguenze in termini
di costi (di produzione, di coordinamento e di controllo) al fine di trovare la modalità di specializzazione più efficiente;
il suo utilizzo appare legato soprattutto ad un approccio di progettazione bottom-up.
Un esempio di metodo sintetico è offerto dal contributo di Galbraith. Il ricorso al criterio di specializzazione fondato
sulla funzione (ma le considerazioni possono essere estese agli altri criteri del tipo input) è conveniente quando:
a. le economie di scala sono elevate, e cioè quando l’impresa impiega per esempio impianti costosi e l’acquisto di
più impianti di piccole dimensioni comporta un costo superiore all’acquisto di un unico impianto di grandi
dimensioni;
b. le tecniche impiegate sono sofisticate, e cioè quando vengono impiegate risorse altamente qualificate.
Il ricorso alla specializzazione per prodotto (e per estensione a quella per cliente e per area geografica) è conveniente
quando:
a. la diversificazione della produzione è elevata, e cioè quando è alta la diversità fra prodotti, per esempio in
termini di tecniche utilizzate e di mercato servito;
b. le interdipendenze fra le attività funzionali sono elevate a motivo sia di tempi stretti di risposta al mercato, sia
di elevati criteri di qualità, sia di vincoli di programmazione. In questo caso vi è l’esigenza di decisioni
congiunte (che considerino cioè le diverse attività funzionali) relative ad uno specifico prodotto e la
specializzazione per prodotto facilita l’assunzione di queste decisioni risultando quindi più efficace ed
efficiente della specializzazione per funzioni;
c. la dimensione (complessiva) dell’impresa è elevata: con una dimensione elevata, anche le unità specializzate
per prodotto possono consentire lo sfruttamento delle economie di scala e il conseguimento di elevati livelli di
sofisticazione delle tecniche.
Questo modello è di semplice applicazione, ma consente di scegliere solo tra criteri di specializzazione alternativi
(funzionale o di prodotto) senza indicare quali prodotti, quali funzioni vanno inclusi nelle specifiche unità organizzative
o, in altri termini, quali devono essere i confini delle unità organizzative. A questa esigenza risponde il sistema
analitico.
La supervisione diretta
Il coordinamento realizzato attraverso la supervisione diretta implica che qualcuno diriga gli altri, comunichi che cosa
deve essere fatto, talvolta anche il come deve essere fatto, e ne controlli le azioni e i comportamenti mentre essi
vengono attuati.
La supervisione diretta consegue il coordinamento attraverso una persona che assume la responsabilità per il lavoro di
altri, emanando istruzioni e controllandone le azioni.
Questo meccanismo opera quindi in tempo reale o su feedback.
La supervisione diretta implica una divisione verticale del lavoro dove i livelli superiori regolano e controllano le azioni
dei livelli inferiori.
Dunque il ricorso a questo meccanismo può essere regolato agendo principalmente su due leve:
- il numero di posizioni cui vengono attribuiti compiti di supervisione diretta: questo aspetto rinvia alla
dimensione delle unità organizzative e al numero dei livelli;
- gli ambiti di intervento di queste posizioni: questo aspetto rinvia, in particolare, al grado di accentramento.
Il ricorso alla supervisione diretta va collegato alla sua capacità di risolvere i conflitti, in particolare i conflitti di
interesse, mentre, d’altra parte, richiede la conoscenza e l’osservabilità da parte del capo dei comportamenti dei
dipendenti.
La standardizzazione
Con la standardizzazione il coordinamento delle parti è incorporato nel programma quando esso viene formulato, e
viene corrispondentemente ridotta la necessità di una continua comunicazione. In altre parole, il coordinamento viene
raggiunto sul “tavolo di disegno”, prima dello svolgimento del lavoro, riducendo quindi le esigenze di comunicazione
diretta tra gli attori impegnati o da parte del capo. Si tratta quindi di un meccanismo che non opera in tempo reale (come
la supervisione diretta) ma a preventivo.
Standardizzare significa ricondurre a una norma, ad un modello predefinito, riducendo così la varietà e la variabilità.
I tipi di standardizzazione possibili comprendono:
a. la standardizzazione dei processi di lavoro;
b. la standardizzazione degli output;
c. la standardizzazione delle capacità e delle conoscenze;
d. la standardizzazione delle norme culturali.
a. la standardizzazione dei processi di lavoro
Il coordinamento tramite standardizzazione dei processi di lavoro implica:
il riconoscimento corretto della situazione/problema;
l’esistenza di uno standard di comportamento per quella situazione/problema;
l’effettiva adozione da parte di tutti gli attori del comportamento specificato.
La standardizzazione dei processi di lavoro comprende: la specificazione delle azioni che devono essere intraprese, la
fissazione di divieti e l’autorizzazione prima di intraprendere una certa azione. E’ basata su procedure, mansionari e
regolamenti.
Anche il ricorso alla standardizzazione dei processi di lavoro come meccanismo di coordinamento può avvenire in
misura diversa; infatti diversi possono essere:
la gamma dei comportamenti da standardizzare. Si pensi alla molteplicità di azioni che un lavoratore
compie in un giorno: standardizzazione e formalizzazione possono avvenire con riferimento ad una parte più o
meno ampia di tali azioni;
il grado di dettaglio nella specificazione dei comportamenti che devono essere tenuti. Ad esempio nella job
description i compiti assegnati possono essere indicati in modo più o meno analitico o la procedura da seguire
per realizzare un acquisto può esplicitare tutte le azioni che devono essere compiute o limitarsi ad indicare dei
requisiti minimi.
b. la standardizzazione degli output
La standardizzazione degli output realizza il coordinamento specificando le caratteristiche del risultato che deve essere
raggiunto.
La standardizzazione degli output può essere rappresentata dalla specificazione della performance complessiva di una
UO o da una specificazione più analitica delle dimensioni dell’output (grado di dettaglio diverso).
Come per gli altri meccanismi, la capacità o la potenza di coordinamento della standardizzazione degli output dipende
da diverse caratteristiche. Le più importanti, oltre al grado di dettaglio o di articolazione degli obiettivi, comprendono:
l’estensione, ovvero quante UO vengono coordinate attraverso il ciclo di programmazione e controllo;
la partecipazione, cioè il grado di coinvolgimento degli attori nella definizione degli obiettivi;
la trasparenza, ossia il grado di esplicitazione del processo di formulazione degli obiettivi. L’aumento della
trasparenza migliora l’efficacia della standardizzazione degli output come meccanismo di coordinamento;
la frequenza del ciclo di programmazione, ovvero la frequenza con la quale si procede a riconsiderare gli
obiettivi futuri. L’aumento della frequenza migliora la validità degli obiettivi;
Quanto alle condizioni in cui questo meccanismo risulta efficace ed efficiente, particolare rilievo assumono queste
circostanze:
1. la conoscenza degli output, da intendere come la possibilità di stabilire il tipo di obiettivo e di performance richiesto,
ossia coerente con gli indirizzi strategici dell’azienda;
2. la misurabilità, cioè la possibilità di individuare indicatori o parametri di misura degli obiettivi che siano oggettivi,
precisi, tempestivi e comprensibili;
3. la controllabilità, cioè il fatto che il raggiungimento (o il mancato raggiungimento) degli obiettivi dipenda dai
comportamenti della persona a cui tali obiettivi sono stati assegnati.
c. la standardizzazione delle capacità e delle conoscenze
Essa specifica le caratteristiche (competenze: capacità e conoscenze) che devono essere possedute dalle persone. Questo
tipo di standardizzazione agisce indirettamente sul coordinamento e controllo.
Questo tipo di standardizzazione corrisponde ad un repertorio di comportamenti (competenze). La natura della
standardizzazione delle conoscenze e delle capacità richiama le aziende di servizi professionali (ospedali, università,
società di revisione contabile) e le attività basate su competenze specialistiche sofisticate ma trasparenti, codificate e
replicabili.
d. la standardizzazione delle norme culturali
La cultura è un insieme sistematico di modi di pensare, sentire ed agire acquisiti e trasmessi attraverso simboli, che
costituisce l’elaborazione distintiva di un gruppo, compresa la loro concretizzazione in artefatti; il nucleo essenziale
della cultura comprende le idee tradizionali (storicamente derivate e selezionate) e soprattutto i valori ad esse connessi.
L’azione della cultura come meccanismo di coordinamento si fonda su un sistema di valori, norme, comportamenti che
è interiorizzato dalle persone.
Nella cultura possono essere individuati diversi livelli o strati: assunti di base (ciò in cui si crede), valori dichiarati (ciò
che si dice) e riti, miti, simboli, artefatti (ciò che si vede).
La cultura organizzativa implica un modo analogo di percepire i problemi, di attribuire i significati, di valutare il
positivo e il negativo, e di definire i comportamenti corretti e non corretti. Ad essere quindi “regolate” o standardizzate
sono le norme riguardanti un’organizzazione affinchè tutti operino in base ad uno stesso insieme di convinzioni, valori e
credenze.
Un’importante funzione della cultura riguarda la soluzione dei problemi interni di coordinamento mediante la creazione
di codici condivisi e la facilitazione dei processi di comunicazione.
Le tendenze recenti
L’evoluzione del contesto e delle strategie comporta un aumento dell’incertezza, e quindi l’impossibilità di risolvere il
problema del coordinamento con i meccanismi più semplici.
Inoltre è stato rilevato il ricorso a configurazioni più “potenti” dei meccanismi: per esempio, per quanto riguarda i
gruppi (team e task force), a gruppi con gradi di autonomia elevati.
Infine, più diffusi sono gli effetti dell’IT, che aumenta la capacità di coordinamento della gerarchia rendendo disponibili
tempestivamente e a costi bassi le informazioni necessarie.
8. Le forme organizzative
Scegliere una forma organizzativa significa stabilire dove l’azienda indirizza le proprie risorse, privilegiare alcune
direzioni di specializzazione e di coordinamento a scapito di altre, contribuire a definire gli schemi di interazione
formale e informale e le relazioni che si sviluppano nel tempo.
Individuiamo le seguenti forme: semplici, funzionali, divisionali, a matrice, per progetto.
Forme funzionali
Comune a tutte le forme funzionali è l’adozione, in corrispondenza delle unità direttamente dipendenti dal vertice
(organi di primo livello), di un criterio di specializzazione fondato sugli input e l’attribuzione dell’autorità gerarchica
alle unità specializzate in base a tale criterio.
Comprendono anche soluzioni che prevedono organi specializzati in base agli output; questi, però, non dispongono di
autorità gerarchica nei confronti delle altre UO.
La diffusione delle forme funzionali è dovuta ai due vantaggi fondamentali della struttura in base agli input:
specializzazione (omogeneità attività e acquisizione risorse con elevata competenza tecnica) ed efficienza.
I vantaggi di specializzazione riguardano sia l’acquisizione che lo sviluppo delle risorse:
- acquisizione: raggruppando tutte le attività simili in base a tecniche e conoscenze richieste si massimizzano le
possibilità di specializzazione.
- sviluppo: la ripetizione delle stesse attività e la più facile interazione con persone operanti nella stessa specializzazione
creano condizioni e un clima favorevoli a tale sviluppo.
L’efficienza è riconducibile sostanzialmente al più elevato sfruttamento di economie di scala, al maggior grado di
utilizzo delle risorse, al maggior conseguimento delle economie di specializzazione.
Le forme funzionali che consideriamo sono:
- burocratica;
- professionale;
- con integratori;
- adhocratica o innovativa.
Forme divisionali
La soluzione divisionale nasce come risposta organizzativa ai limiti della forma funzionale burocratica nella gestione
delle strategie di diversificazione della produzione e di crescita dimensionale, a maggior ragione se realizzate in
ambiente dinamico.
La diversificazione crea problemi di direzione, coordinamento e controllo che la forma funzionale burocratica non può
risolvere o può farlo ma solo parzialmente.
Viene introdotta nel 1921 dalla Du Pont e poi adottata dalla General Motors e da altre grandi imprese.
Le principali caratteristiche sono:
- la specializzazione degli organi di primo livello in base all’output. Questa specializzazione può avvenire
utilizzando come criterio di specializzazione il prodotto o la linea di prodotti, l’area geografica, il mercato. Si tratta
di modalità diverse, dove l’una non esclude l’altra, nel senso che una stessa azienda può fornire prodotti diversi a
clienti diversi, operando in aree geografiche diverse;
- numero dei livelli gerarchici molto basso;
- indipendenza delle divisioni; quest’indipendenza riguarda due aspetti: l’autonomia decisionale e l’autosufficienza
delle risorse nelle singole divisioni.
Autonomia delle divisioni. Alla direzione centrale competono solitamente le decisioni che attengono:
a. la formulazione della strategia: il ruolo della direzione centrale e delle divisoni in tema di decisioni strategiche
può essere diverso. Una possibile formulazione è quella che alla direzione centrale spetta la formulazione della
strategia complessiva o corporate, e cioè la gestione del portafoglio strategico, mentre la strategia relativa ai
singoli business spetta alle divisioni.
b. l’allocazione delle risorse: i fondi resi disponibili all’interno (autofinanziamento) e acquisiti all’esterno vanno
collegati alla gestione del portafoglio strategico e vengono assegnati alle singole divisioni con una logica
simile a quella del mercato ma in modo più efficiente.
c. l’assetto organizzativo: questo ambito riguarda le decisioni sulla creazione e la soppressione delle divisioni e
sulla progettazione e gestione del sistema di controllo della performance delle divisioni.
d. i responsabili divisionali: le decisioni che attengono alla nomina, alla carriera e alla sostituzione dei
responsabili spettano alla direzione centrale.
e. interventi e controlli personali: consistono, per esempio, in visite alle divisioni per migliorare la conoscenza
della loro attività, dei loro problemi e delle persone che vi operano.
Autosufficienza delle divisioni. Riguarda il grado di completezza delle risorse assegnate alle divisioni stesse. La
diminuzione dell’autosufficienza compromette la flessibilità, la capacità di adattamento e la chiarezza delle
responsabilità ma ha effetti positivi sull’efficienza o sull’efficacia con cui vengono svolte le funzioni e sullo
sfruttamento delle economie di scala e di raggio d’azione.
- attribuzione alle divisioni della responsabilità di profitto. Le principali decisioni riguardano:
a. regolazione dei trasferimenti interni, che riguarda molti aspetti:
i trasferimenti interni: tra direzione centrale e divisioni, tra divisioni. Essi determinano un costo per chi riceve
ed un ricavo per chi cede;
il prezzo di trasferimento da utilizzare, quindi come quantificare il costo per l’unità che “acquista” e il ricavo
per quella che “vende”;
il tipo di relazione che intercorre tra “fornitori” e “utilizzatori”, che può essere obbligata (per esempio, se la
divisione abbigliamento deve acquistare i tessuti dalla divisione tessile) oppure libera (la divisione
abbigliamento può – o anche no – acquistare i tessuti dalla divisione tessile);
il processo di scelta delle fonti di approvvigionamento e dei prezzi di trasferimento che può essere accentrato
(svolto dalla direzione centrale), autonomo (lasciato alle relazioni tra fornitori e utilizzatori) o arbitrato (la
direzione centrale interviene in caso di disaccordi, svolgendo una funziona arbitrale).
b. scelta dell’indicatore di profitto: questa scelta rende possibile il confronto tra divisioni e dipende fortemente
dalle modalità di regolazione dei trasferimenti interni. Si può distinguere tra indicatori che tengono conto del
capitale impiegato per produrre il profitto (ROI, ROE, ROA, EVA) ed indicatori che non ne tengono conto.
c. valutazione del responsabile divisionale: si tratta di stabilire se la valutazione debba essere legata solo agli
obiettivi di profitto o se le basi di valutazione dei manager divisionali debbano comprendere anche altri
obiettivi. Si tratta dunque di decidere quale peso dare agli obiettivi di profitto rispetto agli altri.
- relazioni di dipendenza prevalentemente gerarchiche, ma anche funzionali (fra staff centrali e staff divisionali).
Vantaggi e svantaggi delle forme divisionali
I principali vantaggi comprendono:
la gestione di dimensioni rilevanti e della diversificazione della produzione. Viene operata una scomposizione
interna della complessità, riducendo le interdipendenze fra le parti (divisioni) rispetto alla forma funzionale
burocratica. E’ una soluzione per creare la piccola dimensione all’interno della grande dimensione;
l’aumento delle posizioni organizzative alle quali sono attribuiti obiettivi globali e una maggiore visibilità del
contributo delle parti;
un miglior coordinamento fra le funzioni, sempre rispetto alla forma funzionale burocratica, a parità di condizioni;
una più efficace ed efficiente allocazione delle risorse, in particolare quelle finanziarie, perchè le divisioni sono dei
quasi-mercati, dove i meccanismi di allocazione sono appunto più efficaci ed efficienti;
lo sviluppo di competenze da general management e “imprenditoriali” piuttosto che di tipo specialistico;
la riduzione della perdita di controllo e l’aumento della razionalità delle decisioni, perchè vi sono minori volumi di
informazioni per canale, minori livelli gerarchici e un minor peso attribuito ai sotto-obiettivi.
I principali svantaggi riguardano:
le inefficienze e la perdita di specializzazione (che sono i grandi vantaggi delle forme funzionali), perchè nella
forma divisionale, essendo più piccole le dimensioni ci sono minori possibilità di divisione del lavoro ed una
minore possibilità di specializzarsi;
una conflittualità eccessiva o molto elevata, a causa della concorrenza tra le divisioni che può risultare distruttiva. I
conflitti fra le divisioni hanno carattere distributivo (i prezzi di trasferimento “spostano” i profitti da una divisione
all’altra) e questi tipi di conflitti sono più intensi dei conflitti integrativi (caratteristici delle forme funzionali). Oltre
al conflitto tra divisioni, vi è quello tra direzione centrale e divisioni e il problema del rapporto tra staff centrali e
staff divisionali;
costi di agenzia molto elevati: infatti la relazione tra direzione centrale e divisioni può essere riletta alla luce della
teoria dell’agenzia;
orientamento al breve termine, che può tradursi, ad esempio, in un minor impegno nelle attività di R&D;
la “patologia del guscio vuoto”. Le forme divisionali consentono di gestire dimensioni rilevanti e strategie di
crescita fondate sulla diversificazione ma queste caratteristiche possono portare a “sovradiversificazione” e
“sovradimensionamento”, cioè ad un’espansione che va oltre i limiti dei confini efficienti.
I tipi di forme divisionali
Nell’ambito delle forme divisionali, possiamo distinguere tra soluzioni cooperative e soluzioni competitive.
Le soluzioni cooperative si collegano alle esigenze di condivisione delle risorse o di trasferimento di know-how tra
business. Per esempio, si può trattare dell’utilizzo degli stessi canali di distribuzione o della stessa capacità
produttiva, o del trasferimento di un know-how che si è formato in una situazione ma che è applicabile anche in
un’altra. Vengono tipicamente perseguiti i vantaggi derivanti dalle economie di raggio d’azione che comprendono
sia la condivisione di risorse che il trasferimento di capacità.
Le soluzioni competitive si collegano al “fallimento” del mercato esterno dei capitali nel realizzare un’allocazione
efficiente delle risorse e nel sanzionare i manager delle imprese che danno basse performance e quindi ai vantaggi
derivanti dalla creazione di un mercato interno dei capitali. Non sono quindi rilevanti la condivisione delle risorse e
il trasferimento di capacità.
Questi due tipi di soluzioni si differenziano per:
- il grado di accentramento;
- il grado di centralizzazione delle risorse (quindi la dimensione degli staff centrali);
- il ricorso a meccanismi di coordinamento ulteriori rispetto alla standardizzazione degli output (tipicamente
meccanismi laterali: contatti diretti, team e task force);
- l’utilizzo, nella valutazione delle divisioni e dei loro responsabili, di parametri diversi da quelli di profitto
(capacità d’innovazione, cooperazione tra divisioni, tasso di crescita, ecc.);
- l’impiego di sistemi di incentivazione fondati anche sulla performance complessiva dell’impresa invece che
solo su quella divisionale.
Queste variabili assumono valore elevato nel caso delle soluzioni cooperative e valori bassi o nulli in quelle
competitive.
Forma a matrice
Viene introdotta negli anni 60, si sviluppa negli anni 70 e subisce critiche a partire dagli anni 80.
La forma a matrice si caratterizza per l’adozione simultanea (e non su livelli gerarchici diversi) di due (o anche più)
criteri di specializzazione e per il collegamento a ciascuno di tali criteri di una linea di autorità gerarchica, con la
conseguente rinuncia esplicita al tradizionale principio dell’unità di comando.
I ruoli più significativi in questa forma sono:
a. il vertice che corrisponde al direttore generale;
b. i manager preposti alle dimensioni o assi della matrice;
c. i manager sottoposti a due (o più) capi.
Le caratteristiche della forma a matrice sono:
- dimensione piccola delle UO;
- decentramento elevato;
- numero dei livelli gerarchici basso;
- rapporti di dipendenza caratterizzati da doppie dipendenze gerarchiche;
- meccanismi laterali molto sviluppati.
I principali vantaggi di questa forma comprendono:
specializzazione ed efficienza;
coordinamento rispetto agli output;
flessibilità e adattamento: diffusa circolazione delle informazioni e minore coinvolgimentodell’alta direzione;
motivazione e sviluppo delle persone.
I principali svantaggi comprendono:
problemi di bilanciamento di potere: rischio che una dimensione prevalga sull’altra;
conflitti tra UO, oppure tra UO che apartengono a dimensioni diverse;
problemi attinenti alle persone: tensioni di ruolo per coloro che dipendono da due o più capi;
costi di coordinamento e incremento delle retribuzioni.
- modalità che si fonda sull’utilizzo del concetto di complementarietà (cap.1). Si tratta di valutare e confrontare il
contributo delle singole variabili organizzative e delle loro variazioni tenendo conto che l’effetto sulla performance è
però espressione della loro presenza combinata.
Quindi invece di identificare poche alternative, si tratta di sfruttare le differenti possibilità di combinazione,
valorizzando la capacità di progettare nuove soluzioni, ed evitando di valutare comparativamente un numero limitato di
soluzioni consolidate.
In questo senso un importante contributo è quello offerto da Grandori e Furnari (2008) che identificano le pratiche
organizzative che stanno alla base della generazione delle soluzioni organizzative e le raggruppano in quattro tipi di
elementi: mercato, burocrazia, comunità e democrazia.
Elementi Pratiche organizzative
Pay for performance individuale e di gruppo
MERCATO Pay for performance collegata ai risultati aziendali
Outsourcing
Mobilità interna
Sistemi di valutazione del personale
BUROCRAZIA Regole, procedure, programmi formali
Articolazione della struttura formale
Organizzazione per processi
Pratiche di knowledge sharing
COMUNITA’ Community building
Teamwork
Auto-organizzazione basata su progetti
Job enrichment ed empowerment
DEMOCRAZIA Diffusione dei diritti di proprietà
Diffusione dei diritti di decisione e di ricompensa alle unità
Diffusione dei diritti di rappresentanza
La soluzione organizzativa è una “formula” caratterizzata dalla presenza di elementi e delle pratiche ad essi associate;
questa combinazione di pratiche e di elementi deve rispondere a tre regole:
1. Varietà degli elementi: è necessaria la presenza di almeno una pratica appartenente ad ogni tipo di elemento;
2. Rendimenti marginali decrescenti all’aumentare dell’omogeneità e della varietà degli elementi;
3. Eterogeneità strutturale: il livello ottimo di presenza di ogni elemento è contingente al tipo di performance attesa.
Garantita la presenza di tutti gli elementi, elevati livelli di efficienza richiedono una maggiore intensità della
“burocrazia”, mentre elevate performance di innovazione richiedono una maggiore intensità degli altri elementi.
E’ possibile, anche nella progettazione inter-organizzativa, individuare dei livelli di analisi: la diade e l’ego network.
Innanzitutto è necessaria la presenza di almeno due aziende che, avendo un rapporto di interdipendenza, scelgono di
cooperare tra loro. Dunque la diade è l’unità di analisi micro per la comprensione della natura delle relazioni. Un
secondo livello è quello della ego network: in questo caso ciò che rileva è il sistema di relazioni e nodi che vertono su
una singola azienda. Infine, gli studi organizzativi hanno individuato anche un terzo livello di analisi, ossia la rete di
relazioni complessiva o network (ne sono un esempio i distretti industriali). La rete complessiva ha confini più ampi e
minore progettabilità di un ego network.
Variabili chiave e di sfondo della progettazione inter-organizzativa
Variabili di sfondo:
- evoluzione della competizione: la continua ricerca, da parte di un’impresa, di mantenere un differenziale
competitivo rispetto ai concorrenti fa leva sulla sua capacità di essere innovativa, comnbinando in modo nuovo
risorse e competenze reperibili, e di realizzare progetti innovativi in tempi veloci;
- evoluzione dei mercati: la globalizzazione di tipo geografico, della produzione e del prodotto richiedono che
un’azienda ricerchi partner oltre i confini nazionali e avvii forme di cooperazione per la produzione o la
distribuzione o anche la ricerca in contesti nazionali diversi dal proprio;
- evoluzione delle tecnologie: l’IT consente di superare le barriere fisiche alla collaborazione tra aziende
lontane;
- innovazione tecnologica e progresso scientifico: hanno reso più fluidi i confini tra settori diversi grazie a
processi di convergenza.
Questi processi evolutivi dell’ambiente generale hanno indotto sempre più imprese ad avviare forme di collaborazione
con partner al di fuori dei propri confini organizzativi. Le imprese si trovano quindi a individuare quali attività vadano
realizzate entro i propri confini, quindi poste sotto diretto controllo dell’impresa, e quali possano essere
“esternalizzate”, facendo leva sulla collaborazione con aziende specializzate.
Variabili chiave:
Oltre alle variabili chiave viste nel capitolo 3, possono essere individuate altre tre variabili che assumono rilevanza nella
gestione delle relazioni esterne e che quindi incidono sui costi di coordinamento:
- embeddedness: comporta relazioni forti e basate sulla fiducia tra l’azienda focale e i suoi partner. Tende a
ridurre i rischi di comportamenti opportunistici tra aziende e permette il ricorso a meccanismi di
coordinamento informali favorendo economie di tempo, maggiore efficienza allocativa tra i nodi della rete e
migliori processi di adattamento (embedded= integrato, inserito, incorporato);
- forza delle relazioni: un legame forte è di lunga durata ed è caratterizzato da elevata frequenza. Legami forti
comportano dei vantaggi dal punto di vista dei costi di coordinamento e dal punto di vista della sua efficacia, le
parti sanno su chi fare affidamento, vi è prevedibilità dei comportamenti e vi è confronto costruttivo in caso di
problemi, invece di uscire dalla relazione; legami deboli possono costituire un elemento di apertura di una rete
relazionale e possono favorire l’efficacia di una rete dal punto di vista dell’innovazione e della creatività, in
quanto consentono ad un’imprese di accedere a conoscenze nuove;
- fiducia. In una relazione tra due attori, il primo per fidarsi del secondo deve aspettarsi almeno tre cose e
contemporaneamente:
a. che il comportamento del secondo sia predicibile;
b. che sia affidabile, ossia che faccia quello che ci si aspetta, bene e in modo competente;
c. che sia equo, ovvero che metta l’interesse della controparte almeno alla pari con il proprio.
La fiducia può variare nel tempo a causa sia di fattori comportamentali che di fattori ambientali (ad esempio
una crisi economica).
La fiducia rappresenta una risorsa importante nell’economia di una relazione in quanto riduce i costi di tipo
distributivo.
Le tendenze recenti
Le principali possono essere ricondotte a:
Diffusione del modello dell’Open Innovation: esso prevede l’integrazione di conoscenza interna ed esterna grazie
all’implementazione di forme a rete dai confini maggiormente permeabili. Un altro concetto rilevante in questo
contesto è quello dell’open network: le reti aperte consentono l’interazione con provider di conoscenza di base,
quali università, enti di ricerca pubblica e privata, intermediari della conoscenza che consentono di attivare nuove
connessioni con individui, imprenditori o altre reti sulla base delle esigenze l’azienda esprime. Gli intermediari
della conoscenza sono aziende che forniscono servizi ad alta intensità di conoscenza e fungono da broker o da
boundary spanner tra diversi nodi.
Sviluppo delle reti mediate dalla tecnologia: l’utilizzo di particolari sistemi di web 2.0 stimolano l’apertura verso
l’esterno e quindi le collaborazioni inter-organizzative, generando effetti positivi sull’innovazione e sulla creatività.
Passaggio da reti locali a reti globali. Rispetto al contesto domestico le collaborazioni internazionali consentono i
seguenti principali vantaggi:
- efficienza nella produzione di beni o servizi, grazie a partner fornitori che hanno forza lavoro e altre risorse ad
un costo comparato minore di quello del mercato domestico;
- accesso a mercati di sbocco: le alleanze internazionali consentono di superare barriere protezionistiche, di
accedere più rapidamente ad un numero elevato di clienti e di acquisire maggiori conoscenze su un dato mercato;
- accesso a risorse complementari: in un contesto internazionale le opportunità di scelta del partner con le
competenze più adeguate e maggiormente complementari alle proprie è più ampia;
- accesso a conoscenze alla frontiera tecnologica grazie a collaborazioni internazionali;
- signaling: un’alleanza con un partner con elevata reputazione in un dato mercato di sbocco o a livello
internazionale permette di guadagnare visibilità a livello economico ed istituzionale.
Il mandato internazionale
La decisione sul mandato internazionale comporta principalmente tre tipi di decisioni:
il tipo di specializzazione orizzontale della consociata estera: quali sono le attività caratteristiche dell’unità e i suoi principali
obiettivi. Una consociata può avere una specializzazione produttiva, se viene costituita come plant dedicato ad esempio alla
lavorazione o all’assemblaggio (ad esempio la Airbus in Cina ha il mandato di assemblare gli aeromobili e consegnarli al
cliente, ma la trattativa viene gestita presso la casa madre), oppure può essere un nodo commerciale e distributivo, oppure può
avere una specializzazione come unità di R&D.
le scelte di specializzazione verticale: si tratta di definire il tipo di risorse e il grado di autonomia decisionale concessi a una
consociata estera.
- Una consociata con specializzazione produttiva può realizzare prodotti per un mercato locale, con una totale assenza di
autonomia decisionale e con una diretta dipendenza dalla casa madre.
- In uno stabilimento con mandato specialistico e focalizzato l’unità riceve solo alcuni input e informazioni dalla casa madre
ed ha la responsabilità di realizzare uno specifico tipo di componente o prodotto.
- Nel caso di un world product mandate o global mandate, la parent company (casa madre) acquisisce autonomia
decisionale e diventa il centro internazionale deputato a realizzare uno specifico prodotto che verrà commercializzato
worldwide (in tutto il mondo).
il ruolo affidato alla consociata nei processi di generazione e trasmissione delle conoscenze: il successo delle imprese
internazionali è sempre più legato alla facilità e alla velocità con cui la conoscenza viene diffusa all’interno della rete
organizzativa.
I mandati attribuiti ad un’unità estera possono essere di due tipi: competence exploiting (CE) e competence creating (CC).
o Storicamente, alle parent companies completamente dipendenti dalle conoscenze e dalle competenze della casa madre veniva
assegnato un mandato competence exploiting (CE). Per realizzare ciò, le conoscenze dovevano essere altamente fungibili, in
grado di essere utilizzate in contesti diversi senza incorrere in costi e senza perdere il loro valore. Questa prospettiva tende a
concentrarsi su un flusso di informazioni e conoscenze prevalentemente unidirezionale, dalla casa madre all’unità estera.
o L’importanza e la diffusione crescente delle filiali estere con mandato competence creating (CC) mettono in evidenza un
cambiamento decisivo nell’organizzazione delle reti interne di creazione e trasferimento della conoscenza, che si realizza
insieme a un ricorso crescente a reti esterne di collaborazione con altre imprese.
La realizzazione piena di un mandato CC si collega alla possibilità di Reverse Knowledge Trasfer (RKT – invertire il
trasferimento delle conoscenze) dall’unità periferica ad altri nodi della rete. Però questo processo di trasferimento di conoscenza
e quindi le relazioni tra le unità dell’impresa multinazionale possono essere influenzate in modo negativo da diversi fattori,
come la distanza culturale e quella geografica.
Le parent companies possono assumere diversi ruoli:
i. Integrated player: alti flussi in entrata e uscita. Si tratta di un mandato di CC e doppio mandato sia di receiver di flussi di
conoscenza che di sender.
ii. Global innovator: alti flussi in uscita e bassi flussi in entrata. Si tratta di una consociata con elevata autonomia e mandato
di CC.
iii. Implementor: bassi flussi in uscita e alti flussi in entrata. Si parla di una consociata con basso grado di autonomia e
mandato CE.
iv. Local innovator: bassi flussi in entrata e uscita. La sede estera è dotata di un’autonomia ed una responsabilità quasi totali
per la creazione di conoscenza in tutte le aree di gestione.
Le forme organizzative
Bartlett e Goshal indentificano quattro diverse forme organizzative (classificate in base alla configurazione delle attività, al ruolo
delle operazioni estere e allo sviluppo e la diffusione della conoscenza): imprese internazionali, multinazionali, globali e
transazionali.
Questa classificazione è stata semplificata e sono stati individuati tre principali modelli:
a. Modello multidomestico (o internazionale): esso prevede una specializzazione interna per aree geografiche o regioni così da
ottenere la massima reattività rispetto ai mercati locali.
In questo modello il mandato attribuito alle unità estere è quello di individuare le esigenze del mercato nazionale o dell’area
regionale di riferimento e di implementare le soluzioni più adatte a garantire un differenziale competitivo rispetto alla
concorrenza.
Le forme di coordinamento tra unità responsabili per regione sono limitate, poichè esiste bassa interdipendenza tra queste. Di
conseguenza anche lo scambio di personale a livello di management è definito e limitato.
Le imprese che implementano questo modello adottano la forma divisionale per area geografica; ogni divisione specializzata per
area opera in autonomia.
b. Modello globale: viene attuato principalmente per far leva su efficienza e qualità, in settori in cui la customizzazione dei
prodotti rispetto ad un mercato risulta poco rilevante (ad esempio, prodotti ad alta standardizzazione globale come il caso di
Coca Cola e Microsoft Office).
La forma organizzativa coerente con questo modello è la forma divisionale per tipologia di prodotto o cliente. Essa consente un
elevato sfruttamento delle economie di scala.
In questo modello tuttavia, data l’operatività worldwide di una divisione specializzata per prodotto o cliente, l’interdipendenza
tra parent companies che rispondono alla stessa divisione può essere molto elevata e complessa a causa della dispersione
geografica (ad esempio, l’allocazione di un mandato relativo alla R&D di un computer portatile in Israele può richiedere il
coordinamento con il plant che lo dovrà assemblare in Turchia).
c. Modello transazionale: le imprese che adottano questo modello devono rispondere a due domande strategiche: l’ottenimento
di vantaggi di costo (economie di scala) e lo sfruttamento delle differenze nazionali. La forma adottata è quella a matrice. La
matrice può avere una doppia specializzazione per prodotto e mercato o per prodotto e funzione.
Il processo di cambiamento
Lo psicologo sociale Kurt Lewin individua tre fasi del processo di cambiamento:
a. Scongelamento (unfreezing): questa fase mette in evidenza l’inadeguatezza dell’attuale soluzione e motiva il mutamento.
L’obiettivo che si pone il management è quello di far “scongelare” gli atteggiamenti dei collaboratori, facendo emergere
l’insoddisfazione nei confronti dello status quo. In questa fase vanno previste le resistenze e va definito un piano di azione
per affrontarle.
b. Trasformazione (moving): è la fase in cui si attua la riprogettazione, modificando le variabili organizzative (divisione del
lavoro e coordinamento). In questa fase il management è chiamato a pianificare adeguati programmi di formazione, ad
avviare processi di responsabilizzazione attraverso l’assegnazione di nuovi obiettivi, nonchè l’utilizzo di tecniche di
negoziazione che fanno leva sullo scambio per ridurre le resistenze e i conflitti di potere.
c. Ricongelamento (refreezing): rappresenta la fase di consolidamento del cambiamento volto a garantire che i nuovi assetti,
processi e comportamenti siano accettati e fatti propri dalle persone e dall’organizzazione. Per rinforzare e fissare i
comportamenti desiderati in modo da allinearli con il nuovo assetto organizzativo si può agire sui sistemi di ricompensa e
sulle attività di formazione proposte periodicamente.
Un contributo che cerca di integrare il lavoro di Lewin è quello proposto da Kotter: errori e rimedi – insuccesso del cambiamento
organizzativo (vedi tab.).
Le tendenze recenti
Recentemente, a causa dell’intensificarsi delle forze che spingono al cambiamento, la frequenza con cui le aziende sono chiamate a
riprogettare le variabili organizzative è aumentata. Ciò non rende conveniente, dati gli elevati costi di cambiamento, implementare
soluzioni organizzative che premiano la stabilità e che quindi scoraggiano il cambiamento. Questo implica la progettazione di
soluzioni organizzative che incorporino al loro interno la capacità di cambiare, orientate quindi alla flessibilità.
Le soluzioni organizzative “built to change” o “costruite per cambiare” non ammettono la staticità delle mansioni e delle UO.