La conoscenza aziendale è la determinante principale della differenza tra imprese dello stesso
settore.
Nel Consiglio Europeo del 2000 a Lisbona l’obiettivo che i Paesi si erano posto era che l’Europa
diventasse entro il 2010 <<l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del
mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di
lavoro ed una maggiore coesione sociale>>. Obiettivo non raggiunto in molte economie europee.
Nel Consiglio ci si era raccomandato con forza l’investimento nel capitale umano, fondamentale
per lo sviluppo economico.
La grande sfida che si impone di raccogliere alle imprese è saper integrare nel sistema le
dimensioni soggettiva ed oggettiva della conoscenza. Occorre conciliare le esigenze umane con
quelle tecniche in funzione di una buona strategia di adattamento che rapporti l’impresa
all’ambiente.
Nei sistemi d’impresa esistono più forme di conoscenza, in alcuni casi discordanti tra loro ed in altri
complementari. Le imprese infatti autogenerano e/o acquisiscono sul mercato diverse risorse e
competenze, le quali rappresentano la conoscenza che le imprese curano e rigenerano per
migliorare il proprio “saper essere”, cioè la propria capacità di competere in un ambiente
competitivo.
Resource Based View of the Firm (RBV): si afferma negli anni ’80, vede l’impresa come uno
stock di risorse firm specific accumulate nel tempo da presidiare, ovvero difendere dalla possibile
imitazione di altre imprese. Se tali risorse, autogenerate e/o acquisite dall’esterno, sono
sapientemente combinate e protette, diventano fonte di differenziazione e di vantaggio competitivo
per l’impresa. Quindi secondo tale prospettiva ciò che determina il vantaggio competitivo e la sua
durata nel tempo è il contenuto specifico delle risorse accumulate nell’impresa, che riguarda: a)
l’eterogeneità delle risorse, cioè la loro specifica utilità, il loro specifico contributo rispetto agli
obiettivi strategici dell’impresa in questione; b) le modalità d’uso delle risorse, il che implica
capacità. Nelle imprese esistono
differenziare risorse di conoscenza (risorse e competenze aziendali, ossia conoscenza), correlate a
persone, strutture e processi dell’organizzazione. Non tutte incorporano lo stesso contenuto e
livello di conoscenza, e sono distinguibili in:
1) Risorse intese come tradizionali input del processo di trasformazione: MP, semilavorati,
impianti, attrezzature, personale e altri immobilizzi (in generale: terra, capitale, lavoro)
2) Risorse costituite da pura conoscenza: brevetti, informazioni, procedure organizzative, know-
how finanziario o tecnologico, software e altre produzioni dell’intelligenza umana e artificiale
3) Risorse costituite da immagine, marca, reputazione aziendale o di prodotto: fattori che
esprimono una specificazione della conoscenza nel mondo della distribuzione, del mktg, della
comunicazione
Le risorse 2) e 3) corrispondono alle competenze, le quali sono risorse con un livello di conoscenza
superiore rispetto a quello dei fattori produttivi 1). Incorporandosi in quest’ultimi, ne elevano le
prestazioni e il valore d’uso; possono anche entrare in un prodotto o in un processo produttivo o in
una fase di trasformazione degli input, elevandone le potenzialità d’uso del processo ed il valore di
scambio del prodotto.
Pregio RBV: aver posto l’accento sulla relazione risorse-modalità di trattamento delle stesse. Oltre
al contenuto specifico delle risorse, contano le capacità di metterle in sinergia (capacità
organizzative e gestionali): capacità che sono manifestazione del “saper fare”, “saper decidere” e
“saper progettare” dei manager dell’impresa. Una volta attivate, queste capacità possono
trasformarsi in competenze aziendali fonte di vantaggio competitivo.
Difetto RBV: questa prospettiva si occupa solo del patrimonio di risorse d’impresa (conoscenza
accumulata), tralasciando l’analisi dei processi che ne favoriscono la formazione e lo sviluppo.
Quindi si ha una visione statica della conoscenza aziendale.
Knowledge Based of the Firm: l’impresa è vista come un insieme di risorse di conoscenza in
continuo cambiamento, e l’apprendimento inter e intra organizzativo è condizione necessaria per lo
sviluppo di nuove competenze collettive ed aziendali. Importanti sono sia la conoscenza
organizzativa sia l’apprendimento, il quale favorisce lo sviluppo dei processi. L’idea è quella di far
leva sulla conoscenza, esperienza e capacità relazionale degli individui, al fine di creare una
learning organization (Senge), cioè un’impresa che cambia per migliorare la sua performance
attraverso processi di apprendimento collettivo, di condivisione delle conoscenze tra tutti i membri
dell’organizzazione. Da qui anche l’idea di impresa knowledge creating (Nonaka) che oltre ad
apprendere, crea nuove conoscenze utili per sostenere i propri processi di innovazione in contesti
competitivi turbolenti. Il Knowledge Management nasce per la necessità di continua integrazione
nelle imprese, fondamentale per creare nuove conoscenze (exploration) e valorizzare quelle
accumulate e consolidate (exploitation).
Dalle teorie analizzate e dal relativo pluralismo di visioni, emergono diverse impostazioni:
- Soggettivistica: mette in evidenza l’individuo con le sue personali caratteristiche: schemi mentali,
valori, sentimenti, motivazioni, interessi. Sono essi (singolarmente o in gruppo) che con le loro
dinamiche cognitive generano od ostacolano l’apprendimento organizzativo. L’attenzione è posta
sulla dimensione soggettiva del sapere d’impresa, chiamata conoscenza tacita (es. creatività,
predisposizione al cambiamento, capacità organizzativa e relazionale, capacità di progettazione e di
azione)
- Deterministica: privilegia l’analisi degli aspetti formali dell’organizzazione, quindi la struttura
con i propri vincoli (regole, ruoli, procedure e tecnologie) ed il sistema con i propri obiettivi di
adattamento all’ambiente, influenzano le dinamiche cognitive delle persone, favorendo (o
ostacolando) l’apprendimento organizzativo. L’attenzione è posta sulla dimensione oggettiva del
sapere d’impresa, chiamata conoscenza esplicita o codificata, che esalta il ruolo delle routine (es.
regole, procedure di lavoro, marchio aziendale, brevetti, prodotti, ICT)
- Evolutiva: considera congiuntamente le due prospettive, quindi persone e strutture, per spiegare
le dinamiche cognitive dell’impresa (apprendimento come bilanciamento tra exploring ed
exploiting (creazione di nuova conoscenza e valorizzazione della conoscenza esistente): dà il giusto
risalto sia alle valenze di natura personale (formali ed informali) sia alle valenze di natura
contestuale interne ed esterne all’impresa. Permette di spiegare le dinamiche cognitive
considerando quindi congiuntamente la rilevanza dei processi interni all’impresa e l’influenza
dell’ambiente esterno con cui l’impresa stessa è in costante dialettica. L’attenzione è posta
contemporaneamente sulla dimensione soggettiva e oggettiva del sapere di impresa.
traducono in una conoscenza unica, distintiva. Rispetto alla medesima informazione ogni individuo
si comporta in maniera diversa, nel senso che usa quella informazione producendo una conoscenza
unica e legata alla propria personalità, ai propri valori, alle proprie credenze, e quindi diversa da
quella prodotta da altri individui. Tale conoscenza si genera se si riesce a dare un significato ai dati
del mondo reale condiviso dai membri dell’organizzazione, e ciò è ottenibile sviluppando un
linguaggio comune e delle routine. Una delle definizioni di conoscenza organizzativa è proprio
ricavata dal confronto tra i termini dati, informazioni e conoscenza. Il dato è un simbolo (numero,
lettera, fatto, immagine) privo di significato e simbolo di un fatto oggettivo relativo di un evento
(es. entità della quota di mercato del concorrente leader di un’impresa); il dato si trasforma in
informazione, cioè si dà un significato, un valore, al simbolo, elaborandolo, comprendendone la
rilevanza rispetto ai fini dell’impresa (es. rispetto ad un programmato aumento della quota di
mercato dell’impresa), integrandolo in un determinato contesto di riferimento (es. una funzione
aziendale o un progetto) e organizzandolo in relazione con gli altri dati; la conoscenza è il risultato
dell’apprendimento, cioè del processo di elaborazione cognitiva dell’informazione in funzione delle
credenze, dell’impegno, della dedizione, dell’intenzionalità del soggetto (imprese o singoli
individui). La conoscenza si distingue dall’azione poiché essa è sempre orientata all’azione, ovvero
alla realizzazione di una determinata attività o pratica, ed è legata al contesto in cui si sviluppa. Ha
natura dinamica perché viene sempre rigenerata ed ampliata al fine di mantenere il suo valore, ed è
reticolare poiché discende da una pluralità di relazioni tra soggetti con esperienze passate e presenti.
Polanyi disse per primo che la conoscenza comprende al suo interno 2 dimensioni, quella tacita e
quella esplicita. Quella esplicita è quella che può essere espressa mediante un linguaggio formale e
l’uso di parole e numeri, quindi è trasmissibile attraverso manuali, procedure, norme, codici, etc e
rappresenta la conoscenza tecnica (sapere specialistico, “saper cosa”), che consente al soggetto
l’attivazione del patrimonio di risorse a sua disposizione per l’azione; quella tacita è quella parte di
conoscenza personale, difficilmente codificabile e trasferibile se non attraverso dimostrazione
pratica, poiché è radicata nell’azione del soggetto, e si identifica con il “saper fare” (conoscenza che
si esprime nell’azione, nel fare la cosa giusta in una determinata situazione) e il “saper
essere” (varietà di atteggiamenti/comportamenti assumibili dal soggetto e capacità di impostare i
problemi). Conoscenza tacita e conoscenza esplicita sono interdipendenti, si rinforzano
reciprocamente e costituiscono le capacità e le competenze del soggetto. La tacita crea il terreno per
lo sviluppo e l’interpretazione della esplicita. La cultura è invece l’insieme degli assunti
fondamentali che connotano l’esistenza del soggetto, dotandolo di identità e capacità distintive, e
deriva da processi di apprendimento e disapprendimento e dalle interazioni sociali nel tempo.
La conoscenza organizzativa va distinta da quella personale, considerato che la prima si genera
dando significato ai dati del mondo reale condiviso dai membri dell’organizzazione, sviluppando un
linguaggio comune, facendo in modo da poter trasferire le conoscenze tra gli individui e facendo sì
che vengano memorizzate all’interno di regole organizzative (routine avvengono attraverso
meccanismi di selezione e perfezionamento di procedure consolidate e sono risposte meccaniche a
problemi di gestione operativa e strategica; sono frutto sia di conoscenze esplicite che di
conoscenze tacite). L’osmosi tra conoscenze esplicite e tacite è variabile all’interno di una
organizzazione. Tutte le organizzazioni comunque, per poter funzionare, necessitano di una
piattaforma di conoscenze condivisa, composta da informazioni sulla realtà, strutture e pratiche
formali ed informali, cioè competenze e mappe cognitive (quest’ultime per quanto utili nel rendere
intelligibile la complessità, possono costituire un vincolo al rinnovamento di competenze e
prestazioni organizzative, a fronte di nuovi cambiamenti).
Apprendimento è il processo che conduce il sapere. Da esso si generano nuove conoscenze e
nuove azioni direttamente connesse alle caratteristiche cognitive, alle credenze e ai valori del
soggetto che apprende (singolo o impresa) e alle esperienze da esso vissute.
L’apprendimento organizzativo è l’insieme dei processi cognitivi mediante i quali l’impresa, con
attività coordinata dei suoi partecipanti, acquisisce, interpreta e ricorda conoscenza utile per
modificare il suo comportamento al fine di perseguire le proprie finalità. Apprendere vuol dire
sviluppare conoscenza per l’azione, e questo costituisce la fonte principale della capacità di
adattamento dell’impresa (e dell’individuo) all’ambiente.
Fiol e Lyles distinguono due dimensioni dell’apprendimento, il contenuto ed il livello gerarchico
dell’impresa. Sul primo, distinguono tra cambiamento cognitivo (l’apprendimento influenza e
trasforma schemi concettuali e regole condivise entro l’organizzazione) e cambiamento
comportamentale (l’apprendimento incide sul comportamento organizzativo e sulle azioni); sul
secondo, distinguono tra apprendimento di livello superiore (coinvolge solo le persone ai livelli più
alti di autorità e potere) e apprendimento di livello inferiore (coinvolge tutti i membri
dell’organizzazione a tutti i livelli della gerarchia).
Mumford invece ritiene esistano diversi livelli di apprendimento secondo un ordine gerarchico che
parte dal singolo individuo e arriva fino ad interessare l’organizzazione nel suo complesso (learning
organization).
Argyris e Schon distinguono tra apprendimento adattivo o a circuito singolo (single loop
learning) ed apprendimento generativo o a circuito doppio (double loop learning).
Il primo può interessare tutti i livelli dell’organizzazione e si esprime nello sviluppo di nuove
conoscenze pratiche (“saper fare”) all’interno degli assunti di base dell’impresa e delle procedure
operative preesistenti ed ormai scontate; è utile per correggere errori di funzionamento nelle attività
e nei comportamenti operativi, intervenendo con adeguamenti sulle routine organizzative e sulla
conoscenza che ne è sottesa. E’ un apprendimento a retroazione doppia, che corregge gli errori
esaminando le politiche ed i valori dell’impresa e modificando il comportamento di routine, che è
incrementale ed adattivo per l’appunto. Opera come una revisione di quella componente del sapere
operativo che governa direttamente il modo di agire. Gli interventi di management in tal caso
cercano di rispondere a problemi di efficienza ed efficacia di processi operativi, gestionali e
decisionali, realizzando adeguamenti incrementali delle routine organizzative (regole condivise) e
della conoscenza sottesa. Vi è quindi una gestione locale della conoscenza all’interno delle strutture
da cui originano le competenze caratterizzanti l’organizzazione, senza disdegnarne comunque
nuove. Questi adeguamenti permettono di rafforzare le competenze organizzative (es. si può
migliorare la vendita di prodotti ottimizzando le interazioni con i clienti attraverso la realizzazione
di call center).
Il secondo interessa maggiormente i livelli organizzativi più elevati e riguarda la creazione di nuova
conoscenza che può portare alla modifica degli assunti di base dell’organizzazione, la sua missione,
le sue capacità, fino a provocare vere innovazioni riguardo l’esperienza vissuta dall’impresa fino a
quel momento. E’ un apprendimento diretto a modificare gli indirizzi strategici d’impresa e le
regole che ne sono alla base, quindi ne modifica la struttura organizzativa ed i processi, e comporta
il superamento dei confini organizzativi preesistenti al fine di generare un vantaggio competitivo. Si
può quindi arrivare a mettere in discussione addirittura il modo di lavorare nell’impresa fino a quel
momento (“saper essere”). Opera attraverso la ridefinizione dell’identità del soggetto (cultura e
saper essere), e attraverso questa, sul comportamento adottato. Gli interventi del management in tal
senso mirano ad assicurare l’esistenza delle condizioni culturali e strutturali affinché ciò possa
attuarsi, favorendo i processi di comunicazione, di interconnessione, di sperimentazione ed
esperienziali. Possono esserci modifiche radicali della tecnologia, della struttura organizzativa e
dei processi: l’organizzazione abbandonerebbe comportamenti ormai obsoleti per generare nuove
competenze in sintonia con i mutamenti di contesto. Lo sviluppo del
sapere essere necessita sempre di un’azione di coordinamento e controllo capace di favorire la
dialettica tra apprendimento e disapprendimento, da cui dipende la forza competitiva dell’impresa.
intuizioni guida; essenzialità, ovvero il modo di essere delle persone che padroneggiano la
disciplina. Le 5 discipline sono:
1) Pensiero sistemico: è la pietra angolare dell’organizzazione che apprende, la disciplina che
integra tutte le altre in un sistema coerente di teoria e prassi. Integra quindi tutte le altre 4 discipline
2) Padronanza personale: disciplina volta a chiarire ed approfondire continuamente la propria
visione personale, concentrare le energie, sviluppare la pazienza e vedere la realtà in maniera
obiettiva. Concentrare l’attenzione e vedere la realtà oggettiva
3) Modelli mentali: ipotesi e generalizzazioni radicate in un individuo, che ne influenzano il modo
di vedere e di agire. Comprende anche la capacità di dialogare, cioè di esporre il proprio pensiero
rendendolo disponibile all’influenza degli altri. Influenzano il modo in cui comprendere
l’interazione con il mondo
4) Costruire una vision condivisa: per Senge è importante per i leader che vogliono stimolare i
dipendenti ad apprendere la capacità di avere e condividere un quadro chiaro della situazione
futura.
5) Apprendimento di gruppo: processo di allineamento e sviluppo delle capacità di un gruppo per
arrivare ai risultati che i membri desiderano. Si basa sulla padronanza personale e sulla vision
condivisa. Le persone devono essere in grado di agire insieme per apprendere più rapidamente ed
avere risultati migliori per l’organizzazione.
difensività
Senge pone l’uso ripetuto del dialogo (es. comunicazioni face to face) come principio alla base
dell’apprendimento di gruppo, e ritiene che sia importante la condivisione poiché il trasferimento
delle conoscenze all’interno dell’organizzazione è il nodo cruciale dell’apprendimento
organizzativo.
I temi collegati ad un’impresa learning sono la reinterpretazione dell’innovazione, del vantaggio
competitivo e delle relazioni organizzative. Senge si concentra sul problem solving in chiave di
pensiero sistemico.
Vi sono diversità tra learning organization e l’impresa sense learning oriented, orientata
all’apprendimento di senso. Occorre distinguere i caratteri più sistemici legati alla conoscenza da
quelli più carismatici legati alla generazione di senso che nel loro insieme generano il sapere
d’impresa. I caratteri più sistemici, cioè le attività poste in essere nella learning organization, sono:
il problem solving sistematico (necessario affinché l’impresa adotti un approccio puntuale alla
risoluzione dei problemi), la sperimentazione (apprendere vuol dire acquisire nuove conoscenze),
l’apprendimento delle esperienze pregresse (viene considerata l’esperienza come la fonte di
apprendimento), il trasferimento delle conoscenze (il sapere, per avere impatto sulla gestione di
impresa, dev’essere condiviso; la strada da percorrere è quella della produzione locale e diffusione
globale nella generazione della conoscenza).
L’impresa dovrebbe saper trasformare la conoscenza in generazione di senso dell’esserci e del fare
per generare valore economico. Questa trasformazione della conoscenza in sapere d’impresa
(conoscenza e senso) è possibile se l’imprenditore riesce ad attivare processi interni manageriali ed
organizzativi in grado di combinare in modo creativo saperi, competenze, risorse e bisogni.
Fondamentale è animare lo spirito imprenditoriale di tutta l’organizzazione, facendola diventare
sense learning oriented.
Knowledge creating company (Nonaka): Come Senge, anche Nonaka è interessato ai processi di
apprendimento nelle organizzazioni. Lui pensa però che l’impresa non solo apprende, ma crea
anche nuova conoscenza utile ad innovare costantemente i propri prodotti da offrire a mercati
sempre più competitivi (da qui l’idea di Knowledge creating company= impresa che punta sulla
conoscenza tacita come fonte di vantaggio competitivo). Nonaka propone un modello del processo
di creazione di conoscenza articolato su 2 dimensioni:
1) Dimensione epistemologica: si basa sulla distinzione tra conoscenza tacita e conoscenza
esplicita (Polanyi) e fa riferimento al continuo processo di trasformazione della conoscenza da
tacita ad esplicita e viceversa.
2) Dimensione ontologica: si riferisce al passaggio della conoscenza dal livello individuale al
livello organizzativo e considera i diversi livelli coinvolti nel processo di creazione della
conoscenza (individuale, di gruppo, organizzativo, interorganizzativo). Essenziali qui sono le
interazioni sociali per lo sviluppo di nuove idee (cosa enfatizzata da Senge e rimarcata da Nonaka).
Il problema chiave per l’impresa è coniugare le due esigenze fondamentali: la creazione di una base
di conoscenze comune e condivisa, fondamentale per l’azione collettiva, con la creatività del
singolo individuo, senza la quale non si rigenera la conoscenza e non si realizza l’innovazione.
Tenendo conto di questi 2 dimensioni si può generare una matrice con 4 processi di creazione e
conversione della conoscenza, tra loro interdipendenti. Per Nonaka il processo di creazione della
conoscenza parte dall’individuo che attraverso la propria esperienza sviluppa conoscenze tacite.
Affinché possa crearsi conoscenza organizzativa occorre creare le condizioni che favoriscano la
creatività, quindi serve condivisione di conoscenza e un ciclo continuo di conversione della
conoscenza da tacita ad esplicita e viceversa. L’assunto di base è che la conoscenza si genera e si
diffonde grazie alle interazioni sociali tra le due dimensioni di conoscenza, definite
“conversione” (le due dimensioni sono legate, come definito anche da Polanyi).
Le 4 modalità possono essere definite come:
1) Socializzazione: processo che permette di condividere/diffondere la conoscenza tacita (del
singolo) tra più persone, senza modificarne il carattere tacito. Necessaria per acquisire conoscenza
tacita è l’esperienza (difficile poterla spiegare a parole la conoscenza tacita), e ciò può avvenire
mediante l’osservazione sul campo, l’imitazione e l’esercizio pratico, così da poter condividere
questa esperienza tra gli individui. Oltre al “fare insieme” conta anche il “ciò che si fa”.
2) Esternalizzazione: consente la conversione della conoscenza tacita socializzata in conoscenza
esplicita in modo che possa circolare e diffondersi anche all’esterno del gruppo di origine. E’
necessario l’uso di strumenti di comunicazione che oltre a trasferire generano conoscenza,
riuscendo ad aprire le menti umane verso nuove prospettive. Le interazioni sociali solitamente si
traducono in documenti scritti. Quando la conoscenza tacita diventa esplicita viene codificata
(memorizzata), consentendo di condividerla con gli altri e diventare la base per la creazione di
nuove conoscenze.
3) Combinazione: le diverse conoscenze esplicite vengono integrate tra loro e sistemizzate
attraverso attività di formazione, reti di comunicazione computerizzate e database. La conoscenza
esplicita viene dunque raccolta (all’interno e dall’esterno dell’organizzazione), combinata,
modificata ed elaborata per formare nuove conoscenze esplicite, che vengono poi diffuse tra i
membri.
4) Internalizzazione: è il processo che permette di riconvertire le conoscenze esplicite (esterne) in
conoscenze tacite proprie di ogni individuo attraverso processi di sperimentazione per prove ed
errori. E’ “nel fare” (learning by doing) che gli individui interiorizzano la conoscenza combinata
che torna, arricchita, al suo stato tacito.
Per Nonaka: a) condivisione inter ed intra organizzativa della conoscenza ; b) conoscenza muta in
termini sia quantitativi che qualitativi ; c) la spirale della conoscenza rappresenta i processi sociali
da attivare per convertire la conoscenza da tacita ad esplicita e viceversa.
Il maggior pregio dello schema di Nonaka è che i 4 processi risultano interconnessi in un ciclo
ricorsivo mediante il quale da una parte l’esperienza diretta dell’individuo (conoscenza tacita) è
all’origine e alimenta il ciclo cognitivo, e dall’altra il contesto interno all’impresa (base di
conoscenza, strutture, persone e processi) dà forma a questo ciclo, ordinandolo ed orientandolo in
funzione degli obiettivi sistemici da conseguire. In questo modo l’organizzazione crea conoscenza.
DIFFERENZE SENGE-NONAKA: entrambi parlano di processi di apprendimento, ma Nonaka
va anche sulla creazione d’impresa e non solo sull’apprendimento che crea conoscenza. Nonaka
pensa alla creazione guardando all’ambiente, quindi ha una visione legata all’ambiente ed aggiunge
i concetti di innovazione e visione strategica. Per Nonaka è fondamentale quindi creare conoscenza
interagendo con l’ambiente. Senge non parla di ambiente nella sua teoria.
soggettivismo e determinismo, al fine di favorire sia il consolidamento sia l’evoluzione nel tempo
delle competenze chiave per la competitività dell’impresa.
formazione adeguati allo scopo, e rafforzare la struttura organizzativa sia riconoscendo ruoli a chi
detiene ed usa più conoscenza di altri sia inserendo nuovi ruoli dedicati alla gestione della stessa. E’
importante incoraggiare la formazione di comunità di pratica, cioè gruppi di lavoro che
coinvolgono ruoli e competenze diverse in cui si comunica e apprende in maniera meno
formalizzata (aggregazione informale di relazioni che si stabiliscono tra coloro i quali condividono
la stessa attività pratica o attività simili). Principali caratteristiche: spontaneità, informalità dei
legami, autodefinizione degli obiettivi, confini più flessibili. Solitamente si creano per impegnarsi
in comune in una determinata attività. Costituisce un efficace strumento di circolazione e sviluppo
della conoscenza.
Per essere competitive le aziende devono oggi migliorare continuamente la propria organizzazione,
innovarsi e dotarsi di conoscenze uniche. Per far questo, il KM conta su due leve fondamentali, le
persone e la tecnologia, per creare e valorizzare la conoscenza. Geox è un caso
di eccellenza sotto questo aspetto. L’impresa ha saputo creare un vantaggio competitivo attraverso
un prodotto innovativo e attraverso lo sviluppo delle proprie risorse umane.
Geox viene fondata negli anni ’90 da Mario Moretti Polegato. Durante un viaggio in USA per
promuovere l’azienda vinicola di famiglia, passeggiando si accorse che le scarpe che indossava
provocavano un surriscaldamento ai piedi, così bucò la suola con un coltello e farli respirare e
funzionò. Tornato in Italia propose la cosa ad aziende calzaturiere ma nessuno diede fiducia alla sua
idea, così Moretti Polegato decise di sviluppare la propria intuizione per conto proprio nei
laboratori di una piccola azienda di Montebelluna (TV), mettendo a punto una nuova tecnologia per
Il tempo in cui viviamo sembra suggerire a tutte le organizzazioni spesso di cambiare in fretta, ma
in realtà numerose resistenze rallentano o impediscono il cambiamento. Alcune di queste
resistenze sono ad esempio fattori di natura personale e burocratica, che fanno da ostacolo al rapido
succedersi delle innovazioni strategiche ed organizzative. Nelle imprese tali fattori si annidano nella
struttura, la quale rappresenta da una parte un’arma di combattimento per il management nella lotta
competitiva, e dall’altra ha una propria storia ed una propria esperienza che non si adattano
facilmente all’ambiente ma dettano lo svolgersi della strategia. Le organizzazioni complesse
difficilmente cambiano o addirittura non cambiano, in un’era in cui tutto sembra stimolare il
cambiamento. I
cambiamenti nelle imprese possono verificarsi:
a) in risposta a un cambiamento esterno che modifica le condizioni ambientali in cui l’impresa
opera, e quindi porta l’impresa stessa ad adeguarsi
b) in conseguenza di un cambiamento delle variabili interne, come un’innovazione delle tecnologie
di processo o un’operazione di mktg strategico o un’alterazione dell’equilibrio di potere tra
proprietari e manager o un conflitto interno. Ogni movimento interno può portare cambiamenti
spontanei o per mano del management o della proprietà. Vi possono essere cambiamenti locali se la
variabilità interessa isolate funzioni aziendali (es. risorse umane o produzione), o cambiamenti
generali se la variabilità coinvolge tutte le aree funzionali dell’impresa (es. un’innovazione
tecnologica può provocare cambiamenti negli approvvigionamenti, nel mktg del prodotto, nel modo
in cui l’impresa affronti la concorrenza)
Dobbiamo anche distinguere tra:
a) cambiamento strategico, che investe il rapporto tra impresa e ambiente esterno, riguarda il modo
di competere e porsi dell’impresa verso la concorrenza. Ogni cambiamento di strategia coincide con
un passaggio critico del ciclo di vita aziendale. Ciò avviene ad esempio quando si passa dalla
aziendale. Le relazioni tra cambiamento, sviluppo organizzativo e fasi del ciclo di vita possono
essere delineate così:
Nascita: le imprese appena avviate al mercato e alla competizione sono gestite seguendo i valori
culturali e le preferenze del fondatore, quindi i cambiamenti strutturali seguono le convinzioni
dell’imprenditori o dei suoi soci.
Crescita: se sopravvive alla selezione naturale e alle minacce ambientali, l’impresa deve decidere
se crescere o non crescere dimensionalmente, mantenendo sempre il proprio equilibrio sistemico.
Se decide di crescere, l’imprenditore costruisce una struttura organizzativa appropriata alla strategia
prescelta, e bisognerà sviluppare il personale. La strategia ed i modelli organizzativi possono essere
scelti dal solo imprenditore o dall’imprenditore ed il management. Cambiamento strategico e
sviluppo organizzativo vanno di pari passo, e se nella crescita dimensionale non c’è sviluppo
organizzativo, prima o poi subentra una crisi.
Maturità: in questa fase l’azienda è in fase di stallo a livello di fatturato, la quota di mercato si
stabilizza e si accumulano risorse finanziarie. Questa situazione può consigliare cambiamenti
strategici e strutturali, anche per dare sbocco alle risorse finanziarie autogenerate e per liberare le
competenze tecniche, scientifiche ed organizzative derivate dall’esperienza.
Declino: se dopo le innovazioni strategiche vi è un decremento di fatturato e reddito d’esercizio,
l’impresa va in declino, cui può far fronte solo con ridimensionamenti del personale, ristrutturazioni
delle capacità produttive e riforme organizzative. Se questi provvedimenti migliorano la situazione,
può esserci una vera e propria rinascita dell’impresa.
Estinzione: avviene quando viene a mancare la finalità per cui è nata l’impresa o per l’impossibilità
di far fronte a una crisi o al declino. Solitamente le imprese muoiono tra il 3° e il 4° anno di vita,
quando ancora sono giovanissime, quindi non c’è relazione diretta tra morte e anzianità
dell’impresa. Sopravvivenza o morte dipendono dalla capacità di risposta alle pressioni
competitive: questa è la sfida delle imprese in ogni momento del proprio ciclo di vita.
Il modello dell’evoluzione dell’impresa in queste fasi, dev’essere interpretato in senso non
deterministico, cioè non esiste un percorso di vita a senso unico, virtuoso e privo di contraddizioni.
Infatti:
a) appena nata, l’azienda può entrare in crisi e morire
b) non tutte le imprese scelgono di crescere, anzi specialmente in ambienti turbolenti molte
preferiscono sopravvivere ed ottimizzare il tasso di redditività dell’esercizio
c) crisi di produzione, di domanda o di successione possono avvenire in qualsiasi momento, ma non
tutte portano all’esclusione dell’impresa dal campo competitivo
d) maturità dell’impresa non vuol dire che essa debba scivolare verso il declino, anzi avendo
accumulato risorse finanziarie, conoscenze ed esperienza, se questa è brava a rispondere alle
opportunità ambientali e alle minacce competitive, può tranquillamente sopravvivere
Più vaste sono le dimensioni d’impresa, più forte è l’impatto positivo o negativo del funzionamento
della struttura sul sistema aziendale. Per
concludere: se è efficiente, la struttura rappresenta una grande arma alla lotta competitiva; se è
inefficiente, limita o soffoca l’efficacia della strategia e può determinare una crisi.
Le organizzazioni partecipano direttamente alla formazione del sapere e del potere sociale, ovvero
alla generazione delle idee, convinzioni e valori nella società. Esse operano per legittimare le norme
di comportamento, i meccanismi di strutturazione, i meccanismi di integrazione: in pratica lavorano
affinché vengano accettare le loro regole di gestione e le loro culture sottostanti (valori e modelli).
Il top management, dopo un po’ di tempo, rinnova il mito d’impresa. Ciò avviene durante riunioni
o anche in circostanze informali. Il tutto si svolge con aspetti cerimoniali e rievocativi, detti riti.
Il mito viene vivificato non solo rievocando i risultati positivi ottenuti dall’impresa, ma anche
raccontando aneddoti sulle operazioni aziendali di maggior successo. Nello stesso tempo si
ricostruisce la vita dei più famosi proprietari e dirigenti, spesso manipolando la storia.
La celebrazione del rito, attraverso il quale si fa il mito della storia aziendale, serve a rafforzare il
senso di appartenenza del personale all’organizzazione.
La lettura mitologica dei successi aziendali e i riti che alimentano questi miti, giustificano
culturalmente la propensione al non cambiamento, sempre latente nella struttura aziendale. Il
ritrovarsi tutti insieme nel rito e nel mito alimenta però una confidenza che può risultare eccessiva
e pericolosa. Il rischio è quello di celebrare solo i successi, dimenticando gli insuccessi. Non
sempre la strategia è comunicata al resto del sistema, anzi spesso è elaborata dal top management e
non è diffusa “verso il basso”. L’abilità innovatrice del leader sta nel fare piccoli accorgimenti.
Nel corso del tempo i valori sociali, i dati culturali, la missione strategica, gli interessi personali, le
tecnologie impiegate, subiscono un’evoluzione che può essere radicale o marginale, ed ha
conseguenze sulla struttura e sulla gestione aziendale. I cambiamenti generali avvengono a “onde
lunghe” nel tempo, quelli locali sono più numerosi ed avvengono a “piccole onde”. I cambiamenti
generali-radicali incidono profondamente sull’equilibrio del sistema aziendale, provocando
variazioni a livello gestionale e funzionale (es. se l’impresa rischia di non essere più competitiva);
sono eventi rari che producono discontinuità netta tra passato e presente. Condizione necessaria al
cambiamento radicale può essere che il costo del mantenimento in vita di struttura e processi
organizzativi così come essi sono (C1), diventa superiore del costo del disinvestimento della
vecchia struttura organizzativa (C2) e del costo della progettazione e costruzione di una nuova
struttura organizzativa (C3).
Quindi: C1 > C2 + C3 è la condizione necessaria del cambiamento radicale.
Il cambiamento passa attraverso la convinzione dei manager e la persuasione di coloro i quali sono
coinvolti nel processo.
Le innovazioni che contano, i cambiamenti radicali, avvengono solo in momenti critici della vita
aziendale e a certe condizioni.
La presenza di routine gestionali fa sì che il management si lamenti dell’eccessiva burocrazia, ma
che non si voglia nemmeno pensare a cambiamenti.
I drammi gestionali possono avere natura personale (morte imprenditore), societaria (passaggio di
proprietà), microeconomica (adozione di una strategia diversa) o macroambientale (cambiamento
del quadro economico, sociale, istituzionale esterni). I drammi si verificano dopo lunghi periodi di
quiete e possono avvenire all’improvviso, senza che sia possibile programmarli.
I cambiamenti radicali avvengono quando c’è il rischio di una crisi, o quando c’è un’opportunità
strategica da sfruttare, o quando c’è lo scopo di rafforzare il controllo proprietario.
In sintesi, vi sono 3 aspetti dell’evoluzione aziendale che rendono utile lo studio di cause e
conseguenze del non cambiamento:
1) molte imprese appaiono sorde ai segnali di cambiamento e pur essendo per alcuni esercizi
redditive, scompaiono improvvisamente. Ciò è dovuto a debolezze endogene e per l’azione
incontenibile di fattori esogeni (ambiente). La redditività dell’impresa infatti può essere travolta dai
costi dell’inefficiente struttura.
2) la burocratizzazione domina la scena aziendale, e i drammi possono rappresentare un grande
problema, facendo preferire alle imprese il non cambiamento.
3) il cambiamento ripetutamente cercato è pratica pericolosa perché si possono creare discontinuità
negative che mettono a rischio il consolidato sapere d’impresa.
valori, direzione e verso che orienta le informazioni. Senso e conoscenza possono diventare: Saper
fare (conoscenza-azione, dominio della dimensione operativa dell’esistere, cioè competenze);
Sapere Specialistico (conoscenza tecnica delle leggi, dominio della dimensione cognitiva); Saper
essere (varietà del sapersi comportare, dominio della dimensione progettuale) e Cultura (sapere
che predispone certi comportamenti).
La trasformazione delle risorse di conoscenza in sapere d’impresa richiede decisioni di governance
e management progettate ed integrate nella strategia d’impresa. La creazione e valorizzazione del
sapere vede concorrere due forze: l’impresa che con le sue routine (regole, conoscenze) tende
all’autonomia, e l’ambiente che esercita pressioni al cambiamento per rigenerare il sapere
d’impresa e puntare su nuove mete.
L’imprenditore dev’essere leader e trasformare la conoscenza in sapere, dando un valore unico al
senso di ciò che le persone all’interno dell’impresa conoscono. Egli dà valore economico alla
conoscenza trasformandola in senso, potendo anche falsificare la storia passata e alimentando
quella futura con speranze, aspettative e sfide. L’imprenditore non è l’unico generatore di valori ed
idee, ma è il fulcro. Il sapere d’impresa orienta la strategia dell’impresa, rendendola attiva rispetto
all’ambiente in cui compete.
Sapere e conoscenza possono essere studiate attraverso due processi, l’interpretazione e
l’apprendimento, caratterizzati da ulteriori due processi, estrattivo e accumulativo. Sotto il
profilo estrattivo, l’interpretazione risale da un segno al suo significato e trasforma il dato in
informazione dotata di un suo valore specifico, cioè di un senso. Sotto il profilo accumulativo,
l’apprendimento nelle sue diverse accezioni (generativo, adattivo, proattivo) è centrato sul sapere,
che deriva dalla relazione tra progetto e azione. In tal senso l’apprendimento è un esito cumulativo
e consolidato dell’interpretazione, la quale alimenta la cultura esistente e ne genera di nuova e
diversa. Nodi cruciali del sapere d’impresa sono due: il passaggio da conoscenza a senso
consapevole ed il passaggio da sapere individuale a sapere organizzativo-collettivo.
Il sapere è il fattore iniziale del fattore di governo, da cui sorgono il progetto ed il potere e nel quale
viene compreso il senso dell’azione. Se unito con l’intelligenza e la sagacia di governo, esso
diventa sapienza. Il sapere è dotato di una struttura ben definita: Saper fare, Sapere Specialistico,
Saper essere e Cultura. È possibile articolare il sapere nel modello SVoPA:
- Sapere-sapere: è rappresentato dalla Cultura che è “sapere puro” e si colloca nella dimensione
cognitiva essendo una realtà psicologica. Ordina l’atteggiamento cognitivo e comportamentale del
soggetto “marcando” le altre dimensioni del sapere e rendendole uniche. Natura: cognitiva e attuale.
- Sapere-potere: conoscenza tecnica che consente di attivare il patrimonio di risorse a disposizione
per l’azione. La risorsa è strumento attivato dalla conoscenza, collegato all’esistenza di un
contenuto informativo che la qualifichi in relazione alla sua performatività. La risorsa è tale solo
dopo aver acquisito ed elaborato le conoscenze necessarie al suo uso. La risorsa in termini di sapere
è Sapere Specialistico, perché è la conoscenza del soggetto che permette l’attivazione del suo
patrimonio di risorse a sua disposizione per l’azione. Si manifesta in via comportamentale, nel
senso che è un sapere che dirige l’azione sotto un profilo tecnico e potenziale, precedendo l’azione.
Natura: comportamentale e potenziale.
- Sapere-volere: è l’aspetto cognitivo della progettazione. Rappresenta la dimensione progettuale
del sapere data dal saper essere. Si esprime nell’ordine esistenziale della propria vita,
nell’impostazione dei problemi in cui il soggetto si riconosce. Questa forma di sapere è espressione
della persona e si manifesta dal punto di vista cognitivo, nel senso di atteggiamento nei confronti
del vissuto. Riguarda in pratica il modo di comportarsi del singolo individuo nelle diverse
situazioni. Orienta le conoscenze e competenze aziendali, le ordina per importanza, e crea anche
competenze utili per avere un vantaggio competitivo. Natura: cognitiva e potenziale (riflessiva).
- Sapere-azione: è il saper fare, rappresenta sia la dimensione pragmatica del sapere sia la sagacia,
cioè la capacità di fare la cosa giusta in una determinata situazione. È il sapere operativo,
conoscenza che si sviluppa e manifesta nell’azione. Sapere che si compie nell’atto che lo esprime e
nella comportamentalità. Conoscenze pratiche, abilità e capacità applicate a specifici contesti.
Natura: comportamentale, non cognitiva e attuale.
Le componenti sono individuate in riferimento a 2 aspetti:
1) ASPETTO DELL’AGIRE: che si divide in cognitivo (relativo alla percezione della realtà,
all’elaborazione delle informazioni) e in comportamentale (relativo al fare, alla sfera operativa,
all’agire confrontandosi con la realtà)
2) STATO DELL’AGIRE: che si divide in stato in potenza (ciò che deve ancora compiersi) e stato
in atto (tutto ciò che si verifica nel tempo a cui si riferisce l’azione)
Il saper essere orienta la sagacia operativa, impostando i problemi che quest’ultima risolve,
influenzandone i comportamenti dell’agente, determinando cioè gli ambiti in cui si forma il saper
fare. La cultura alimenta il sapere specialistico che è il sapere del soggetto, dato dal suo imprinting
culturale, e insieme a questo concettualizza il reale individuando le trame di senso implicite in esso,
ordinandolo. Il saper essere e la cultura definiscono l’identità dell’agente di governo, ovvero le
conoscenze che gli permettono di definire sé stesso in relazione al contesto entro cui si muove. Il
sapere specialistico e il saper fare invece individuano il sapere operativo, ossia l’insieme di
conoscenze orientate all’azione. La distinzione tra identità e sapere operativo è importante in
relazione all’apprendimento, perché vi sono apprendimenti che presidiano lo sviluppo dell’identità
del soggetto (apprendimento double loop) e apprendimenti che presidiano lo sviluppo del suo
sapere operativo (apprendimento single loop). La cultura risulta non operativa se non esprime le sue
potenzialità attraverso altre forme di sapere: essa marca le varie forme del sapere rendendole uniche
e peculiari del soggetto. Ma da sola non può configurare la creatività, che si realizza con l’azione.
Nell’esposizione semplificata del sapere, il sapere-sapere rimane cultura, il sapere-volere diventa il
modello, il sapere-potere è la risorsa ed il sapere-azione è il saper fare sotto forma di competenza.
Nella linea del sapere è compresa anche l’interpretazione e l’apprendimento componendo il
modello SIA. L’interpretazione trasforma il dato fenomenico in informazione, che è il risultato di
un’attività cognitiva condotta da un soggetto intelligente che organizza i dati attraverso relazioni in
grado di dare ai dati un significato all’interno del sistema (è l’interfaccia tra mente dell’agente e il
suo mondo). L’apprendimento nelle sue varie accezioni è centrato sul sapere che deriva dalla
relazione tra progetto e azione; è un esito positivo dell’interpretazione.
Cultura insieme coerente di assunti fondamentali che connotano l’esistenza del soggetto, dotandola
di identità e capacità distintive. Attribuisce un senso al reale, diminuendo la complessità percepita e
l’incertezza e rendendo possibile l’azione. Svolge un ruolo di contesto per dare senso alla realtà
politica e ambientale al fine non solo di consentire l’azione ma anche di garantire lo sviluppo di
dinamiche di apprendimento organizzativo. Riesce ad avere la duplice funzione verso l’ambiente
esterno ed interno grazie alla sua natura ologrammatica. Affinché vi sia una cultura deve esistere un
gruppo, un insieme di persone che sono state a lungo insieme e hanno condiviso problemi, hanno
avuto l’opportunità di risolverli, hanno visto gli effetti delle loro soluzioni ed hanno acquisito nuovi
membri. La cultura organizzativa è il prodotto delle interazioni che avvengono all’interno
dell’impresa. Si sviluppa attraverso processi di apprendimento e disapprendimento. C’è un modello
di classificazione della cultura chiamato modello dei tipi culturali, che vuole individuare il tipo
culturale cui appartiene un’impresa, tramite l’intersezione tra processi organizzativi (enfasi su
Poli più importanti per Gasbarrino: caratteristiche di mercato, interessi stakeholders e valori
economico-finanziari (sfaccettatura meno evidente. Risorse più importanti: lavoro e capitale;
contesti più importanti: corporate).
VEDERE TABELLA LIBRO!!!
Il valore di un’impresa è oggi definito sempre più sulla base degli asset intangibili dell’impresa,
piuttosto che su quelli tangibili. Possiamo quindi definire un’impresa di valore quella che detiene
un elevato capitale intellettuale, e cioè: capacità innovative, conoscenze accumulate nella vita,
know-how (tutto questo= talento dei dipendenti), cultura, strategia, processo, proprietà intellettuale,
immagine di mercato e patrimonio di relazioni instaurate con gli stakeholder. È l’insieme di tutte le
risorse e capacità immateriali possedute da un’impresa. Rappresenta l’elemento critico più
importante per la competitività d’impresa, la capacità di sopravvivenza e la creazione di valore.
È necessario che le imprese gestiscano il proprio capitale intellettuale, quindi servono strumenti che
identificano, misurano, rappresentano e monitorano queste risorse, per verificare la bontà delle
politiche di gestione e avere un miglioramento delle performance.
Come accennato, il capitale intellettuale è intangibile: se da un lato rende difficile l’imitazione da
parte dei concorrenti e quindi garantisce un vantaggio competitivo all’impresa, dall’altro rende
difficile identificare una sua definizione univoca.
Non esiste infatti una definizione universalmente accettata di capitale intellettuale. Le più utilizzate
sono:
a) il capitale intellettuale è strettamente connesso alla gestione delle risorse umane necessarie
all’impresa per favorire lo sviluppo e la crescita futuri (Boudreau e Ramstad)
b) il capitale intellettuale è l’insieme dei “beni di mercato”, degli “asset centrati sull’individuo”, dei
“beni di proprietà intellettuale” e dei “beni infrastrutturali” che, combinandosi con le altre risorse
produttive dell’impresa, portano alla creazione di valore (Brooking)
c) il capitale intellettuale è collegato con la tecnologia, i cambiamenti tecnologici e tutto ciò che
concerne la gestione dei processi IT. Migliore è la capacità dell’impresa di utilizzare la tecnologia
per gestire le informazioni, migliore sarà la capacità della stessa di saper utilizzare il CI (Davenport
e Prusak)
d) il capitale intellettuale non è una cosa oggettiva, ma una questione di relazioni e un elemento che
viene preso in prestito da clienti e dipendenti, capace di rendere maggiormente produttiva
un’impresa (Edvinsson)
e) il capitale intellettuale è un “pacchetto di conoscenze utili” (conoscenze collettive, informazioni,
tecnologie, competenze, esperienze, proprietà, intellettuale, fedeltà dei clienti) che possono essere
utilizzate per creare valore. Il CI è la somma di tutto ciò che sanno gli individui in un’impresa e che
è in grado di conferire un vantaggio competitivo (Stewart)
f) il capitale intellettuale è l’insieme di tutte le risorse non finanziarie e non fisiche utilizzate da e
all’interno di un’impresa. Il CI è la conoscenza che può essere convertita in profitto (Sullivan)
g) il capitale intellettuale è il risultato dello sforzo collaborativo tra capitale umano e sociale
dell’impresa e la gestione della conoscenza (Rastogi)
h) il capitale intellettuale è qualcosa in grado di mobilitare altre “cose” quali dipendenti, dirigenti,
clienti, IT e conoscenza. Il CI non può esistere da solo in quanto esso fornisce semplicemente un
meccanismo attraverso il quale i diversi asset dell’impresa vengono riuniti insieme all’interno del
processo produttivo (Mouritsen et al.)
Lo IAM mostra la sua utilità sia a fini gestionali sia come strumento per migliorare la
comunicazione dell’impresa verso l’esterno.
Al contempo però non considera le sinergie che intercorrono tra le categorie di asset identificati,
rendendo impossibile all’impresa la possibilità di identificare le interconnessioni tra le stesse e il
valore aggiunto che tali interconnessioni sono in grado di creare.
c) Skandia Navigator (SKN): nasce per l’esigenza di non riferirsi più solo alle informazioni
finanziarie passate ma anche ad informazioni che permettano di valutare il CI in ottica presente e
futura. È uno strumento sviluppato da una compagnia di assicurazioni svedese, lo Skandia, ed è
stato ripreso da Edvinsson e Malone. Secondo questo strumento, il valore di mercato di un’impresa
è dato dalla somma del capitale finanziario e del capitale intellettuale, che viene scomposto in
capitale umano e capitale strutturale, quest’ultimo a sua volta scomponibile in capitale cliente e
capitale organizzativo, quest’ultimo ancora scomponibile in capitale innovazione (capacità
dell’impresa di innovare processi e prodotti/servizi) e capitale processi (tutto ciò che attiene ai
processi interni dell’impresa). Secondo questo approccio si giunge dunque all’individuazione di 4
macro-categorie di CI: umano, cliente, processi, innovazione. Lo SKN nasce
con l’intento di: identificare e potenziare la visibilità e misurabilità degli asset intangibili; fornire un
metodo per l’acquisizione e distribuzione della conoscenza; capitalizzare e far crescere il valore
delle imprese attraverso il trasferimento ed il riutilizzo di conoscenza, esperienze, competenze ed
abilità. Lo SKN è molto
simile alla BS poiché anch’esso considera diverse aree di attenzione/miglioramento dell’impresa:
finanziaria, clienti, processo, innovazione e sviluppo, risorse umane. Il focus
finanziario e quello innovazione e sviluppo rappresentano, rispettivamente, la performance passata
e gli sviluppi futuri dell’impresa. Il focus
cliente ha come obiettivo l’analisi del rapporto con i clienti attuali e potenziali. Il
focus sui processi monitora come l’impresa utilizza e sfrutta le sue tecnologie.
Il focus risorse umane, posto al centro dello SKN, indica come queste svolgano un ruolo
fondamentale per l’esistenza ed il funzionamento di tutte le altre categorie del CI.
Lo SKN è uno strumento molto utile per gestire il CI poiché gli indicatori contenuti all’interno di
ciascun focus evidenziano la composizione e le caratteristiche qualitative di ogni area, permettendo
al management di identificare precisamente gli aspetti da modificare per massimizzare la
performance di impresa. Anche
con questo strumento però le sinergie tra le diverse componenti non vengono considerate nel loro
complesso.
Di pari passo con l’importanza crescente assunta dagli asset intangibili, è andata crescendo la
necessità di divulgare le informazioni inerenti al CI e di renderle disponibili a tutti i soggetti
interessati. Urgono quindi strumenti di comunicazione. Il reporting ha funzione interna ed esterna:
la prima riguarda il controllo strategico e la contabilità interna, ed interessa il management
aziendale; la seconda riguarda la contabilità esterna e la relazione con gli altri soggetti, quindi
interessa gli azionisti e gli stakeholder. L’importanza della
comunicazione è stata riconosciuta non solo dalle imprese ma anche dall’UE che ha finanziato il
progetto MERITUM il cui obiettivo era quello di definire le linee guida utili alla misurazione e
classificazione degli elementi intangibili, per migliorare le decisioni di governance. L’interesse nei
confronti degli strumenti di comunicazione è cresciuto a tal punto dal diventare un filone di ricerca
nel mondo accademico, dove si parla di Intellectual Capital Disclosure (ICD). Filone che si riferisce
alla divulgazione di informazioni sul CI attraverso un report ad hoc da accompagnare ai bilanci
tradizionali e teso a soddisfare le esigenze degli stakeholder. La possibilità di riportare fedelmente il
valore aggiunto creato dagli asset intangibili permette di avere una rappresentazione più veritiera
della situazione d’impresa. Trasmettere informazioni sul proprio CI anche all’esterno potrebbe però
avere anche effetti negativi, perché l’impresa in questione perderebbe il vantaggio competitivo e si
abbasserebbe la qualità delle performance. Come gli strumenti di misurazione,
anche quelli di comunicazione sono stati sviluppati in metodi diversi a seconda dei destinatari, cioè
soggetti interni o esterni all’impresa. Uno degli strumenti più utilizzati
è il bilancio degli intangibili, che è la contropartita del bilancio annualmente redatto da ogni
impresa. Questo bilancio permette di determinare in modo più veloce e puntuale gli sviluppi futuri
dell’impresa, e le informazioni insite sono utili sia per gli stakeholder, sia per il management, sia
per il personale d’impresa, poiché permettono di comprendere meglio l’esistenza di una coerenza
tra asset intangibili e strategie adottate. Le finalità principali del bilancio del CI sono:
- individuare e valutare gli elementi intangibili più rilevanti per l’azienda ai fini della creazione del
valore
- riportare in maniera sistematica le informazioni sugli intangibili dell’impresa a fine esercizio, le
loro variazioni rispetto all’esercizio precedente e la misura della creazione o distruzione di valore
del CI
- comunicare con gli stakeholder in maniera trasparente, migliorando immagine e reputazione
aziendale
- cogliere in anticipo le possibili evoluzioni future dell’impresa ed indicare tempestivamente
eventuali segnali di crisi o punti di debolezza
Sulla base del livello di estensione e completezza delle informazioni fornite con la loro
comunicazione esterna, l’AIAF suddivide le società in 3 gruppi, attribuendo a quelle che redigono il
bilancio degli intangibili il livello maggiore sia in termini di estensione sia in termini di
completezza della comunicazione esterna fornita.
Il KMMM consente di avere una valutazione obiettiva del livello delle attività di KM in un’impresa
e fornisce preziose informazioni sulle azioni che l’impresa dovrebbe compiere per raggiungere un
livello di maturità superiore. Lo strumento non dà indicazioni sul tempo necessario per passare da
un livello di maturità ad un altro.
I processi di gestione della conoscenza non si esauriscono all’interno dei confini d’impresa ma
riguardano anche gli scambi cognitivi che la stessa instaura con soggetti appartenenti all’ambiente
esterno.
Il trasferimento di conoscenza tra due entità distinte è un processo intenzionale, dinamico e
orientato all’interazione tra le parti, durante il quale la conoscenza viene trasferita da un’entità ad
un’altra con l’obiettivo di aumentare le competenze e le esperienze delle parti.
Il processo è condotto attraverso fasi temporali ben definite.
Szulanski individua 4 fasi del processo di trasferimento:
1) Start-up. Nella fase d’avvio del trasferimento della conoscenza, le difficoltà sono quelle di
riconoscere le opportunità stesse del trasferimento. Una volta individuate, viene analizzata la loro
fattibilità.
2) Implementazione. Presa la decisione di trasferire le conoscenze, l’attenzione si sposta sullo
scambio di risorse e informazioni tra i soggetti coinvolti. Bisogna pianificare bene per prevenire i
problemi ed eventuali difficoltà nel trasferimento. I problemi in questa fase possono essere ad
esempio la non possibilità di colmare il divario tecnico e comunicativo tra le parti.
L’intermediario è un attore che può essere coinvolto o meno nel processo di trasferimento della
conoscenza e funge da facilitatore tra le parti. Essi possono essere sia individui (consulenti e
agenti), sia organizzazioni (agenzie ed istituzioni) che collegano le parti consentendo il
trasferimento e l’integrazione di nuove conoscenze. In alcuni casi può essere sostituito o affiancato
da una figura interna all’impresa, il gatekeeper, che fa da filtro tra l’interno e l’esterno della stessa.
Con l’avvento di internet si è discusso della possibilità che la figura dell’intermediario sparisca,
essendo possibile tramite il web scambiare le informazioni e le conoscenze: in realtà sono nate
nuove forme di intermediazione come gli informediari (che raccolgono dati relativi agli utilizzatori
di internet) ed i cybermediari (che riproducono servizi di intermediazione sul web).
definisce “contesti fertili” qui contesti organizzativi che facilitano i processi di trasferimento delle
conoscenze e che quindi sono caratterizzati da sistemi formali, fonti di coordinamento e
competenza ed una struttura tale da garantire minori sforzi in fase di avvio e maggiori chance di
successo del trasferimento stesso.
Affinché la circolazione delle informazioni e delle conoscenze tra gli individui avvenga più
facilmente, bisogna prendere in considerazione i diversi meccanismi di coordinamento che possono
essere posti in essere dalle e tra le parti.
Emergono i concetti di mercato, gerarchia e rete.
Il mercato è un efficace meccanismo di coordinamento se si può replicare l’uso della conoscenza
trasferita senza dover stabilire un rapporto continuativo tra fonte e destinatario. Ciò accade quando
la conoscenza è perfettamente esplicita oppure quando la spesa per ottenerla è irrisoria. La
gerarchia è un meccanismo che consente di mantenere il controllo proprietario della conoscenza
oggetto del trasferimento all’interno dell’azienda da parte della fonte, e di coordinare e determinare
l’uso che può farne il destinatario. La rete
è una forma intermedia di coordinamento tra mercato e gerarchia, rappresenta un meccanismo di
coordinamento adatto a favorire forme di condivisione e scambio della conoscenza e può essere
inteso come un sistema attraverso cui la conoscenza si propaga e rigenera. In questo contesto, per
rete s’intendono tutti quei casi in cui s’instaura una relazione di interdipendenza tra soggetti (es.
distretti, filiere, comunità, social network, etc.). Nella rete le parti non sciolgono mai la relazione
ma la gestiscono poiché permette scambi cognitivi agevoli, affidabili e profittevoli. I soggetti che
ne fanno parte diventano più “intelligenti” perché accedono tramite alla rete alle conoscenze altrui.
L’aspetto negativo della rete è legato all’indebolimento da parte del controllo proprietario di
un’impresa immessa nella rete, il che porta a difficoltà nel mantenere il proprio vantaggio
competitivo. Proprio per questo la rete si basa sul concetto di fiducia e presuppone l’assenza di
conflitti di interessi tra le imprese facenti parte. Così
concepite, le reti hanno più chance di diffondersi in contesti territoriali locali dove vi sono rapporti
di fiducia, interessi comuni, pochi costi di transazione, poca asimmetria informativa e minime
distanze tra i soggetti coinvolti. Questo ha portato alla nascita dei concetti di Knowledge
Management territoriale e learning region. Il primo è un sistema di gestione della conoscenza che
mira a valorizzare l’innovazione, la competitività e lo sviluppo economico di reti di imprese,
localizzate in uno specifico territorio, caratterizzate dalla condivisione di informazioni e know-how
attraverso processi di apprendimento interattivo e di facilitazione dell’acquisizione di conoscenza
dall’esterno. Quando si verifica ciò, la regione su cui insistono gli attori della rete è chiamata
learning region, ed è lo sviluppo finale di un distretto industriale in grado di avviare un’evoluzione
continua basata su processi di apprendimento, adattamento ed innovazione.
Una rete non potrà mai comportarsi come un’isola, ma dovrà relazionarsi al suo esterno con altre
reti od altri attori, attivando ulteriori scambi cognitivi inter-sistemici.
La conoscenza da sola non basta per la competitività delle imprese, così entra in gioco il fattore
tempo. Tempo e conoscenza sono tra loro in rapporto biunivoco e si alimentano reciprocamente di
cultura. Le dinamiche temporali sono importanti per la risoluzione di problemi riguardanti il
governo d’impresa, ed influenzano le dinamiche cognitive ponendosi alla base della strutturazione
dei comportamenti d’impresa sia dal punto di vista strategico sia dal punto di vista operativo.
Il legame tempo-conoscenza è da attenzionare sia per la creazione che per la valorizzazione della
conoscenza. Se ben gestito, questo binomio rafforza la consapevolezza di cosa l’impresa <<sa
fare>>, orientandola verso ciò che <<potrebbe>> fare in rapporto all’evoluzione dell’ambiente e
della società. Da qui l’importanza di una Time Based Competitive Knowledge (conoscenza
competitiva basata sul tempo), in cui velocità e rapidità sono i fattori competitivi.
La coscienza del tempo e la competenza personale consentono di minimizzare i tempi di
apprendimento dal contesto, di essere puntuali nell’apprendimento e di tradurre il sapere
accumulato in progetti innovativi realistici perché attuati al tempo giusto, rispondenti cioè alle
pressioni interne ed esterne organizzative. In questo modo l’impresa crea valore economico.
Quindi c’è un nesso che lega tempo e conoscenza ai fini della creazione di valore economico,
sintetizzabile nel binomio tempo-conoscenza. È un legame che si manifesta nell’apprendimento,
utile per indirizzare l’evoluzione dell’organizzazione in rapporto dialettico sincronizzato con la
variabilità dell’ambiente (coevoluzione impresa-ambiente). Questa impostazione assume
un’interpretazione soggettiva o qualitativa del tempo (considera i caratteri di storicità, socio
culturali; il tempo è considerato come soggettivamente percepito, concezione relativistica
einsteniana; il tempo è un flusso vissuto presente nella mente di chi lo percepisce ed interpreta;
indispensabile per orientare l’evoluzione di impresa) ma anche un’interpretazione oggettiva o
quantitativa (considera il tempo come meccanicistico, carattere fisico-matematico, tempo
oggettivamente dato, concezione newtoniana; il tempo è un flusso oggettivo, lineare a progressione
costante, che segue le regole del moto meccanico ed è percepibile ed interpretabile univocamente;
indispensabile per ordinare le attività ed i processi di impresa). Caratteri socio-culturali e caratteri
meccanicistici s’intrecciano perché il tempo è dato sia da una successione matematica di unità
temporali razionalmente ed univocamente concepita, sia una successione di esperienze alla cui base
è la conoscenza. Nelle discipline d’azienda il tempo è stato finora considerato come oggettivo, e
questa prospettiva è alla base della time base competition. Tuttavia non si può considerare solo la
prospettiva oggettiva poiché essa è limitante per le esigenze dell’impresa, quindi serve affiancarvi
una prospettiva soggettiva, che permette di giungere al nesso che lega tempo e conoscenza.
Unendo il tempo oggettivo e soggettivo alla conoscenza aziendale si giunge al binomio tempo-
conoscenza, detto anche tempo co-evolutivo. Il tempo co-evolutivo è espressione del rapporto
dialettico tra valori culturali diversi all’interno dell’organizzazione; è la conoscenza che si sviluppa
nel tempo e col tempo. Il tempo non si configura più come semplice flusso continuo da usare solo
come unità di misura, ma diventa tempo “vissuto”, che “vive” il cambiamento, tempo
dell’esperienza interiore. In ottica di KM, nell’adattamento dell’impresa
all’ambiente il dualismo tra prospettiva oggettiva e soggettiva perde di significato: per esigenze di
ordine, regolarità e rapidità dei processi operativi, prevale la necessità di gestire il tempo nel
quotidiano, affidandosi a schemi culturali meccanicistici per razionalizzare le conoscenze interne
all’impresa. Il tempo co-evolutivo è quindi
un tempo che comprende entrambe le prospettive. Dalla soggettiva scaturisce l’accezione di tempo
socio-culturale, inteso come conoscenza alla base del rapporto dialettico impresa-ambiente, ed
interessa maggiormente l’apprendimento generativo. Dalla oggettiva si ricava l’accezione di tempo
meccanicistico, inteso come forma di ordinamento dei processi operativi, ed interessa
prevalentemente l’apprendimento adattivo. Queste due prospettive devono coesistere.
Il tempo è uno dei più preziosi strumenti di orientamento dell’umanità, e comprende queste due
prospettive che sono inscindibili e sono prodotto del bisogno di socializzazione e razionalizzazione.
Il tempo è utilizzato dagli individui per porsi a sé stessi e nei confronti degli altri.
Il tempo socio-culturale è un regolatore di riferimento per individui, gruppi ed imprese.
I tempi sociali sono connessi al tempo socio-culturale, ed indicano la percezione qualitativa del
tempo degli individui e delle imprese.
Con la espressione “interpretazione del tempo” si indica il processo che conduce individui, gruppi
ed imprese a prendere coscienza del tempo, ovvero come viene percepito e misurato il tempo in
relazione ai problemi da affrontare. Parallelamente, studiare il tempo vuol dire studiare gli uomini
all’interno dei contesti a cui appartengono.
L’impresa, nel percepire ed interpretare i segnali provenienti dal contesto e nel prendere le
conseguenti decisioni su obiettivi di sviluppo, incentra l’attenzione sul percorso d’azione intrapreso
e sulle conoscenze che lo sostengono, rappresentandolo sullo sfondo della sua co-evoluzione con i
molteplici tempi sociali. L’interpretazione del tempo ed i molteplici tempi sociali portano l’impresa
ad una time idea entro quale si muove. L’interpretazione del tempo porta ad una forma di
conoscenza, ossia di scambio di segnali percepiti, che arricchiscono le esperienze
dell’organizzazione. Essa è legata al concetto di indeterminatezza del futuro, cioè d’incertezza.
Per l’impresa dunque interpretare il tempo vuol dire prefigurare le premesse per la definizione dei
corsi d’azione rilevanti e ridurre gli effetti di una perdita di valore inevitabile di dette premesse e di
dette azioni. Le premesse possono riguardare le regole di comportamento, i principi etici, il sistema
di valori ed idee, le alternative di sviluppo di lungo periodo. Tutti aspetti che possono implicare
importanti interventi di management.
La concezione evolutiva di apprendimento organizzativo fa porre l’attenzione sul fatto che
conoscenza, tempestività (velocità di apprendimento) e tempismo (tempo giusto per agire), se
integrati, costituiscono presupposto fondamentale per attuare dinamiche cognitive generatrici di
valore, perché frutto di una costante dialettica con i contesti di riferimento.
In ottica di rapporto tra apprendimento e vantaggio competitivo, la sintesi del legame tra tempo e
conoscenza è costituita dalla time based competitive knowledge, un approccio culturale che
enfatizza la gestione di tempo e conoscenza nella strategia. Tutti gli sforzi in termini di tempo sono
volti a migliorare la capacità di sincronizzazione dell’impresa alla variabilità ambientale per la
creazione di vantaggi competitivi duraturi, capaci di generare valore economico nel tempo. Alla
base di questo approccio è fondamentale il passaggio dalla prospettiva temporale fondata sulla
velocità dell’impresa per la creazione di vantaggi competitivi (time based competition) alla
prospettiva temporale basata sul cambiamento tramite tempestività e tempismo nei processi di
creazione e attuazione delle conoscenze per il vantaggio competitivo (time based competitive
knowledge). Conoscenze adeguate nel tempo e col tempo producono differenziazione e quindi sono
fonte di vantaggio competitivo. Il tempo in questo caso è il fattore che valorizza il patrimonio di
conoscenze dell’impresa: nessuna conoscenza, competenza ed azione vale al di fuori del loro
tempo. Solo combinando tempo e conoscenza derivano azioni sensate in contesti di incertezza. La
valorizzazione del patrimonio di conoscenza delle imprese può risolvere varie problematiche:
condizionamento del tempo si esplica sul fronte interno e sul fronte interno/esterno. Sul fronte
interno, il tempo coinvolge tutte le relazioni tra persone e strutture d’impresa, e ne consegue una
forma di ordinamento e coordinamento intersoggettivo che può portare un indebolimento o
rafforzamento tempestivo e tempistico delle competenze organizzative. Sul fronte interno/esterno, il
tempo coinvolge le reazioni dell’impresa con l’ambiente esterno, e ne consegue una forma di
ordinamento della dinamica evolutiva dell’impresa che fa evolvere le competenze in rapporto
sincronico con la variabilità ambientale. In definitiva, nell’organizzazione tutto è complicato da
situazioni di interdipendenza temporale tra eventi, decisioni, azioni e risultati. Individuate le
influenze possibili del tempo, si passa alle modalità (come) e all’entità (in che misura) con cui il
tempo esercita le proprie influenze. Le modalità si esplicano in virtù delle dinamiche di interazione
tempo-conoscenza, le entità dipendono dagli effetti di tale interazioni e dalle modifiche della
conoscenza organizzativa. L’influenza del
tempo co-evolutivo sul patrimonio di conoscenze si traduce in tempestivi e tempistici processi di
apprendimento dell’impresa. Apprendere vuol dire sviluppare nuove conoscenze nel tempo. Quindi
il tempo è una dimensione intrinseca dell’apprendimento, ma se si considera il tempo co-evolutivo,
esso ha in sé l’apprendimento ma è arricchito dai valori di tempestività e tempismo.
Il tempo può influenzare sia l’apprendimento generativo sia l’apprendimento adattivo.
Nell’apprendimento generativo (che modifica il “saper essere” dell’organizzazione e determina un
riorientamento della strategia), il tempo co-evolutivo influenza le dinamiche generatrici di nuova
conoscenza: è il tempo “vissuto” che attraverso i suoi flussi informativi, orientativi e valorizzativi,
promuove nell’impresa lo sviluppo di nuove conoscenze in rapporto alla variabilità dei contesti
interni ed esterni, e ne favorisce la condivisione all’interno. Quindi fa sì che si sviluppi un sapere
(“saper essere”) che metta l’organizzazione nelle condizioni culturali utili per correggere con
tempismo e tempestività eventuali errori nelle linee guida delle imprese e nella sua evoluzione.
La interazione tempo-apprendimento generativo, se ben governata, può portare ad una evoluzione
tempestiva e tempistica delle competenze organizzative.
Nell’apprendimento adattivo (che modifica il “saper fare” dell’organizzazione), il tempo co-
evolutivo sviluppa un sapere che mette l’organizzazione nella condizione di migliorare
tempestivamente e tempisticamente il proprio assetto conoscitivo adattivo, in risposta o anticipo a
stimoli interni o esterni. Consente di intervenire sulle strutture, sulle persone e sui processi esistenti.
La interazione tempo-apprendimento adattivo porta ad un rafforzamento tempestivo e tempistico
delle competenze organizzative, il che permette di gestire meglio i processi operativi.
Quindi nell’apprendimento generativo è rilevante la prospettiva socio-culturale del tempo, perché
consente di cogliere meglio gli aspetti di indeterminatezza presenti nella ridefinizione della
conoscenza di impresa; nell’apprendimento adattivo prevale l’esigenza di considerare gli aspetti di
determinatezza, in una prospettiva più meccanicistica del tempo. Queste due prospettive creano un
binomio osmotico nella competitività dell’impresa.
Nell’impresa, progettare il tempo vuol dire costruire una prospettiva temporale entro la quale
collocare le sue evoluzioni e l’apprendimento. Prospettiva temporale che è importante nel rapporto
coevolutivo impresa-ambiente, perché oltre a “come” intervenire è importante “quando”
intervenire. Il problema del “quando” è da intendersi come un problema di coscienza del tempo, la
quale favorisce l’apprendimento tempestivo e tempistico consentendo all’impresa di rispondere alla
variabilità ambientale. La prospettiva temporale si forma dunque sulla base dell’apprendimento,
costituisce un “contesto” che favorisce l’apprendimento adeguato nel tempo e col tempo, necessario
per sostenere l’evoluzione dell’impresa. Questa è soggetta a modifiche nel tempo in virtù della
dialettica tra apprendimento e disapprendimento su cui poggia ogni evoluzione d’impresa.
L’interpretazione del tempo è legata all’indeterminatezza del futuro (campo delle possibilità), la
prospettiva temporale è legata alla determinatezza del passato (esperienze vissute) e del presente
(azioni in atto). Quindi apprendere entro una prospettiva temporale vuol dire individuare le