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“IL LAVORO DI GRUPPO”

PROF.SSA LUCIA RAFFIN


Università Telematica Pegaso Il lavoro di gruppo

Indice

1 IL GRUPPO DI LAVORO – IL LAVORO DI SQUADRA ------------------------------------------------------------ 3


2 CHE COS’È UN GRUPPO DI LAVORO (TEAM)? -------------------------------------------------------------------- 7
3 I FATTORI COSTITUTIVI DEL GRUPPO DI LAVORO ---------------------------------------------------------- 12
3.1 LA COMUNICAZIONE EFFICACE ---------------------------------------------------------------------------------------------------12
3.2 ALCUNE TECNICHE DI COMUNICAZIONE EFFICACE --------------------------------------------------------------------------14
4 IL CONFLITTO NEL GRUPPO DI LAVORO ------------------------------------------------------------------------- 16
5 LA GESTIONE DEL CONFLITTO --------------------------------------------------------------------------------------- 21
5.1 LEADERSHIP ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------25
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 32

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Il gruppo di lavoro – Il lavoro di squadra


"Trovarsi insieme è un inizio, restare insieme un progresso…lavorare insieme un successo."
(Henry Ford)

Il quadro emergente dei bisogni pubblici e coerentemente il dibattito scientifico, da 10 anni a

questa parte, sottolineano la necessità di coordinamento, di integrazione dei servizi alla persona,

delle politiche, di presa in carico complessiva degli utenti, di case management [Kichert, Klijn e

Koppenjan 1997], contrariamente alle spinte di specializzazione e frammentazione del sistema,

colpevole di generare molteplici attori in competizione tra loro all’interno di logiche di “mercato”.

La teoria della governance e dei network di pubblico interesse propone dei modelli istituzionali ed

organizzativi capaci di incentivare promuovere la collaborazione istituzionale [“Joining up

programs”, Bardach 1998]

Le teorie che spiegano il fenomeno “organizzazione” hanno le loro radici in numerose

discipline: psicologia, psicologia sociale, antropologia, teoria dei sistemi, economia. In generale

possiamo definire un’organizzazione come un “insieme/sistema di persone, gruppi, modalità,

attività, risorse, relazioni, consapevolmente unite per raggiungere obiettivi comuni”.

Un’organizzazione rappresenta quindi anche un sistema sociale, un insieme strutturato di individui

e gruppi e quindi una rete di relazioni sociali. Le sue basi risiedono in alcuni fondamentali aspetti:

 la visione, l’immagine ideale del futuro di un’organizzazione;

 la missione, la ragione dell’esistenza di un’organizzazione ovvero il suo scopo globale;

 i valori, le priorità sulla base delle quali sono condotte le attività, che costituiscono il

fondamento dell’organizzazione stessa;

 la strategia, l’approccio globale utilizzato per raggiungere gli obiettivi

dell’organizzazione;

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 la struttura, la distribuzione di responsabilità, l’organigramma, la definizione dei ruoli,

il coordinamento.

Tutto questo costituisce la cultura organizzativa e determina il tipo di relazioni e di

comunicazioni interno all’organizzazione nonché il modello di leadership e le dinamiche di gruppo.

La cultura organizzativa rappresenta quindi il comportamento convenzionale di un sistema sociale

che comprende convinzioni, consuetudini, conoscenze e prassi, in grado di influenzare il

comportamento dei singoli. Dalla cultura organizzativa, i membri dell’organizzazione, acquisiscono

stabilità, sicurezza, comprensione comune dei fenomeni e capacità di azione in date situazioni.

Dal pensiero taylor-fordista che proponeva un modello di intervento diramato secondo una

struttura piramidale, a partire dagli anni Novanta, in risposta alla turbolenza e competitività

dell’ambiente e allo sviluppo tecnologico, le organizzazioni hanno sviluppato un processo di

trasformazione abbandonando il vecchio modello burocratico/piramidale per adottare forme meno

gerarchizzate ed attribuire più autonomia gestionale e decisionale ai livelli gerarchici più bassi e

agli operatori front line. Questo modello organizzativo flessibile propone un nuovo modo di

rapportarsi ai problemi tenendo conto di molti fattori (tecnologici, organizzativi e relazionali) e

della loro combinazione, originando trattamenti diversificati per problema e importanti innovazioni.

L’intelligenza creativa del lavoro umano si è così trasferita anche nelle modalità organizzative del

processo produttivo.

Una delle soluzioni organizzative, da molti anni utilizzata anche in sanità, è l’adozione della

formula dei team (gruppi di lavoro), intesi come elementi base nelle attività di project management

e nei processi di qualità totale. Il teamworking (lavoro di gruppo) ha consentito infatti di migliorare

la circolazione delle informazioni, decentralizzare parte delle decisioni relative a gestione e

produzione e sfruttare appieno le conoscenze e le capacità dei singoli lavoratori componenti il

gruppo.

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E’ l’esperienza vissuta da aziende leader nel proprio settore che, a fronte di budget sempre

più ridotti, hanno trovato nel lavoro in team la chiave per rispondere alle nuove sfide presentate da

un mercato sempre più competitivo: il lavoro di squadra sembra essere la risposta migliore perché

capace di realizzare sinergie tra le persone, integrarne le competenze, ottenere un output che non è

semplice sommatoria dei risultati ottenibili dai singoli, ma molto di più. Un’organizzazione del

lavoro quale quella dei team, oltre a far sentire le persone maggiormente integrate, a migliorare il

clima aziendale e ad ottenere maggiore motivazione, contribuisce a ridurre notevolmente tempi e

costi, evitando inutili duplicazioni di competenze o lunghi passaggi decisionali.

A fronte di un contesto in continuo cambiamento, quale oggi è tipico delle Aziende

Sanitarie, lavorare in gruppo è oggi un esigenza irrinunciabile, il cambiamento impone però un

grande impegno che caratterizza la gestione delle risorse umane. Le persone sono, infatti, il

momento chiave della trasformazione. A noi, che siamo oggi impegnati nelle attività sanitarie sono

richieste molte capacità:

1. disponibilità a imparare, accrescere conoscenze e competenze;

2. capacità di adattarsi al cambiamento, quindi flessibilità;

3. capacità di comunicare e lavorare in strutture integrate;

4. partecipazione attiva ai progetti e alle proposte dell’organizzazione;

5. coinvolgimento attivo e fattivo, apporto di idee innovative.

Per permettere il verificarsi di tutto questo, l’organizzazione deve offrire un terreno

favorevole, creare le condizioni adatte. Le competenze degli operatori devono fare i conti con la

complessità dei servizi sanitari a loro affidati sono perciò necessarie capacità gestionali per

l’individuazione delle priorità, indispensabile saper considerare l’economicità del sistema, i tempi

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di realizzazione degli interventi sanitari, la sperimentazione di nuovi modelli organizzativi per la

soddisfazione della globalità dei bisogni dell’utenza e dell’organizzazione. Lo svolgimento dei

compiti, soprattutto nella fase di trasformazione, viene spesso accompagnato dalla sensazione di

incertezza, causa spesso di situazioni assai pesanti, negative e frustranti che si ripercuotono

sfavorevolmente nel clima interno, interferendo con i processi di collaborazione, alimentando il

disagio, la demotivazione e l’insoddisfazione.

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2 Che cos’è un gruppo di lavoro (team)?

Un gruppo è formato da un certo numero di individui, legati da relazioni di tipo

unificante ed integrativo. Un gruppo di lavoro (team) è composto da più persone, con elevato

livello di interdipendenza che collaborano per il raggiungimento di un obiettivo o l’esecuzione

di un compito. Il team di lavoro è quindi un insieme di persone, unite in funzione di un

obiettivo comune, interdipendenti in relazione alle specifiche competenze professionali. E’

proprio durante questo delicato processo (di team building o di costruzione del gruppo) che gli

individui sviluppano la collaborazione e la fiducia reciproca necessarie per negoziare obiettivi,

metodi e riconoscere ed appropriarsi dei rispettivi ruoli.

Elementi indispensabili per la costruzione di un team:

1. È necessario che siano esplicitati e condivisi gli obiettivi, le norme ed i valori: i

partecipanti devono avere una visione chiara e condivisibile dei risultati che il gruppo deve

raggiungere e delle azioni da intraprendere. Ciascuno dei componenti apporta nel gruppo attese

e bisogni personali, è opportuno quindi integrare i diversi punti di vista in una prospettiva più

ampia, nello sforzo di attribuire un unico significato ai risultati da raggiungere e dare

un’interpretazione comune alle azioni di fattibilità.

2. È inoltre richiesta la condivisione dei ruoli: sulle basi delle specifiche caratteristiche

professionali si attribuiscono i ruoli ai singoli membri del team. Questi, infatti, riconoscendo le

diversità professionali come risorse del gruppo e non come limiti, avvertono come necessario e

indispensabile il contributo di ciascuno in termini di competenze e qualità.

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3. È importante la condivisione del metodo di lavoro anche come crescita personale:

anche le regole di funzionamento del team devono essere negoziate, il che comporta la

definizione consensuale da parte dei membri di tutte le attività e delle operazioni necessarie per

procedere con efficacia nel lavoro. Vanno analizzate quindi le risorse e i vincoli del gruppo e i

processi di discussione e decisione saranno definiti in modo tale da favorire la partecipazione di

tutti.

4. È necessario infine il riconoscimento della leadership (team leader) che si esercita

principalmente in tre direzioni:

- a presidio delle competenze dei singoli;

- a presidio della comunicazione all’interno e all’esterno del gruppo;

- a presidio e rafforzamento del committment.

"Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare." (Seneca)

Caratteristiche di un team

 Obiettivi comuni

 Consapevolezza della missione del gruppo

 Relazioni di integrazione e adattamento

 Condivisione di impegni e responsabilità

 Benefici condivisi

 Impegno e partecipazione attiva

 Sviluppo di una comunicazione aperta.

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Vantaggi del lavoro di gruppo

1. Condivisione di conoscenze, idee, competenze

2. Efficacia nella comunicazione e comprensione di informazioni

complesse

3. Integrazione operativa

4. Gestione e valorizzazione delle competenze

5. Riduzione delle incertezze e dei rischi decisionali.

Appartenere ad un gruppo significa veder riconosciuto il proprio contributo e

contemporaneamente poter ottenere dei risultati che vanno oltre le proprie capacità, entrambi

fattori motivanti. Il gruppo consente meno rigidità sia di responsabilità che di autorità: la

responsabilizzazione è condivisa, il senso di autostima favorito e il livello di stress di conseguenza

ridotto. Nel tempo si favorisce inoltre uno spirito comune, comprendente stati d’animo, sentimenti

ed emozioni che ciascun individuo trasferisce al gruppo conferendogli forza e ricchezza.

La prospettiva psicodinamica del gruppo

In ambito psicodinamico, è chiamato gruppo un’organizzazione mentale, un operatore

psichico, un sentimento di appartenenza, un vissuto, un complesso reticolo di interrelazioni

psichiche tra persone, da poter osservare da un punto di vista psicologico, cognitivo e

fenomenologico. La psicologia ha infatti evidenziato come il gruppo sia primariamente una realtà

composta di singoli individui, ponendo l’accento sui singoli elementi che lo compongono, membri

di un gruppo, consapevoli di essere parte di un’unica entità che trascende singole individualità.

Quindi, per essere nel gruppo è importante sentirsi nel gruppo, poter constatare che gli altri sono

con me, in una certa situazione. Questa presenza di individui sarà caratterizzata dalla

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consapevolezza espressa dal pronome noi (Marocci 1994) appartenenza cioè ad una entità che, in

termini di relazione, costituisce un livello di complessità maggiore rispetto al singolo e alla coppia.

Non a caso Enzo Spaltro nel suo libro “Conduttori” (2006) offre al gruppo una lettura del

benessere:

differenze tra

cultura del malessere cultura del benessere

1 Oggettività 1 Soggettività

2 Unità 2 Pluralità

3 Coppia 3 Gruppo

4 Colpa 4 Ansia

5 Autorità 5 Consenso

6 Vittoria 6 Accordo

7 Guerra 7 Pace

8 Sacro 8 Profano

9 Opacità 9 Trasparenza

10 Imposizione 10 Negoziazione

11 Povertà 11 Ricchezza

12 Materiale 12 Immateriale

13 Quantità 13 Qualità

14 Bontà etica 14 Bellezza estetica

15 Passato 15 Futuro

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16 Insegnare docenti 16 Imparare alunni

17 Imparare qualcosa 17 Imparare a imparare

18 Scoprire 18 Inventare

19 Potere a somma costante 19 Potere a somma variabile

20 Tempo libero/lavorativo 20 Tempo proprio/altrui

21 Bisogni 21 Desideri

22 Risorse umane 22 Persone

23 Dominio 23 Parità

24 Assenso 24 Consenso

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3 I fattori costitutivi del gruppo di lavoro

3.1 La comunicazione efficace

La comunicazione è uno dei termini oggi più usati e, talvolta, abusati. In generale, essa

indica quell’insieme di segni e di messaggi – verbali e non – che servono per trasferire ad altri

informazioni, ma anche emozioni e sentimenti.

Comunicare, infatti, non significa semplicemente informare, ma anche e soprattutto "entrare in

relazione" con soggetti esterni a noi.

La parola è un dono che solo l’uomo possiede, ma anche gli animali possono comunicare

e possiamo affermare che, per ogni essere vivente, non comunicare è praticamente impossibile.

Per quanto riguarda la comunicazione umana, un classico saggio del professor Albert

Mehrabian ha dimostrato che solo il 7% del significato viene veicolato dalle parole

pronunciate, mentre il 38% di esso viene comunicato attraverso la tonalità in cui vengono

espresse, e il restante 55% non ha nulla a che vedere con le parole, bensì con la fisiologia. Il

silenzio, uno sguardo, la postura, le smorfie del volto o il modo di respirare,

l’abbigliamento o il profumo usato sono aspetti che "parlano" per noi e manifestano il

nostro modo d’essere, l’universo dei nostri stati d’animo, ancor più delle nostre parole.

Il filosofo russo Gurdjieff sosteneva che "noi diventiamo le parole che ascoltiamo". In

effetti, le cose stanno proprio così: le parole che ascoltiamo o che pronunciamo lasciano una

traccia in noi. Tutte le parole, e in particolare quelle sbagliate, ci condizionano, seminando

scorie, generando atteggiamenti distorti e "storpiature" che ci complicano l’esistenza e ci

intossicano la mente. Una volta pronunciate, infatti, le parole vanno ad agire almeno su due

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cervelli: quello di chi parla e quello di chi ascolta. In entrambi, esse diventano materia

mediante un preciso percorso chimico-fisico (oltre che simbolico) che attraversa corpo e psiche

a partire dall’orecchio (Morelli, 2005).

Dal timpano, i suoni che udiamo procedono nel cranio verso una struttura denominata

coclea, fanno vibrare l’orecchio interno e poi si incanalano nel nervo acustico, dove stimolano il

nervo vago, che si dirama verso gli organi della respirazione, della digestione e della

circolazione.

A livello centrale, invece, vengono interessate alcune aree del cervello e le zone vicine

alle strutture uditive, come le aree limbiche e para-limbiche, dove le emozioni si trasformano in

impulsi chimico-fisici e viceversa (Morelli, 2005).

Ecco perché quando una parola entra in noi (può essere una parola da noi pronunciata,

o anche solo sentita, oppure una parola che ci viene detta) ha come conseguenza quella di

modificare contemporaneamente le aree cerebrali e lo stato di alcuni visceri, con

conseguenze sia a livello psichico che somatico. Ecco perché le parole che utilizziamo hanno

il potere di farci star bene o di creare disagio, di influenzare le nostre relazioni, la fiducia

in noi stessi, le possibilità di raggiungere i nostri obiettivi e di realizzare i nostri progetti.

Sostiene Morelli (2005) che il nostro cervello è un terreno fecondo su cui le parole, le nostre

come quelle altrui (se sono nostre questo discorso vale anche per le parole solo pensate) cadono

come tanti semi. Ascoltando se stessi e gli altri, si diventa il fertile ricettacolo di questi semi,

che poi fruttificano e germogliano nel corpo. Ogni forma di comunicazione incide dunque

nella nostra psiche, lavora nel nostro inconscio per giorni, mesi, anni, arrivando a

cambiare la nostra mentalità e lasciando una traccia fisica nel nostro corpo. Gurdjeff aveva

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intuito giustamente: noi diventiamo per davvero le parole che ascoltiamo ma, ancor di più,

quelle che pensiamo o pronunciamo e che continuiamo a pronunciare.

3.2 Alcune tecniche di comunicazione efficace

La comunicazione con noi stessi costituisce senza dubbio una premessa indispensabile

per poter comunicare meglio con gli altri. Infatti, molti dei nostri conflitti interni vengono

spesso involontariamente proiettati sugli altri, provocando incomprensioni, disagi ed inevitabili

blocchi della comunicazione.

Ciascuna relazione, in quanto terreno in cui si mettono inevitabilmente in gioco le

differenze tra due individualità, comporta prima o poi dei problemi. Il modo in cui queste

divergenze vengono generalmente affrontate consiste nel trovare un “capro espiatorio”. Le frasi

più ricorrenti che si sentono in questi casi sono “Sei tu il colpevole!” “No, sei stato tu. La colpa

è tutta tua” ....

Ascoltare e riconoscere ciò che il nostro interlocutore dice, anche se non siamo

d’accordo con lui, prima di parlare della nostra esperienza o esprimere il nostro punto di vista.

Per poter infatti ottenere più attenzione da parte del nostro interlocutore in situazioni tese, è

necessario innanzitutto che prestiamo attenzione al suo messaggio.

Per aiutare il nostro interlocutore a cooperare con noi nella conversazione e ridurre

possibili incomprensioni, è fondamentale: esporre chiaramente che tipo di conversazione

vogliamo sostenere con lui o lei, e verificare se intende parteciparvi. Infatti, più la

conversazione è importante per noi, più è essenziale che il nostro interlocutore sia a conoscenza

del quadro generale nel quale essa va a collocarsi.

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Per essere efficace la comunicazione deve essere autentica. Come mai molte volte

soffriamo nelle nostre relazioni? Cos’è che esattamente causa dei problemi relazionali e

comunicativi? Ripensando al corso della nostra vita e alle nostre relazioni affettive e

professionali, ci siamo spesso posti questa domanda, senza trovare una valida risposta. Un

importante contributo può essere fornito dal pensiero di un grande psicologo americano, Carl

Rogers.

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4 Il conflitto nel gruppo di lavoro

Nelle moderne organizzazioni sanitarie, caratterizzate da sempre meno rigide definizioni

di ambiti di responsabilità, di autorità e da molteplici approcci multidisciplinari per la soluzione

di problemi, vengono quotidianamente in contatto diverse capacità ed interessi che, in

assenza di capacità di gestione e integrazione, si trasformano in occasioni di conflitto. Prima

di analizzare le cause e le possibili strategie per fronteggiare i conflitti interpersonali, è utile

distinguere concettualmente cosa si intende per ''contrasto'' e ciò che, invece, è individuabile più

propriamente come ''conflitto''.

Se la comunicazione consta di due elementi, inscindibili seppure distinguibili, ovvero di

contenuto (ciò che si dice) e di relazione (come lo si dice), anche le problematiche connesse alla

relazione tra le persone possono essere distinte in:

 contrasti: ''difetti'' di comunicazione riconducibili alla dimensione di contenuto,

ovvero divergenze di opinioni

 conflitti: ''difetti'' di comunicazione afferenti alla dimensione della relazione. In

queste situazioni, il contenuto della comunicazione passa in secondo piano poiché la

relazione si sposta prevalentemente sulla relazione, dunque sul 'come' si sta

comunicando e non tanto sul 'cosa' .

Così definiti, il contrasto e il conflitto, sono due concetti diversi non tanto dal punto di

vista quantitativo, bensì qualitativo.

Un contrasto, se rimane sul piano del contenuto, rimane comunque un contrasto, forte o

debole che sia, e come tale non si trasforma in conflitto e ciò vale anche per il conflitto.

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Una situazione conflittuale tra due persone può essere generata da diverse cause, ed in

particolare dalla presenza di:

 Soggetti litigiosi: persone che sul piano caratteriale, per propria indole, sono

predisposte al conflitto, ovvero tendono a generare situazioni relazionali di tipo conflittuale, al

di là del contenuto di comunicazione trasmesso

 Scarsità di risorse: alcune situazioni di conflitto possono essere generate da una

scarsità di risorse (es. le guerre civili delle popolazioni africane), ovvero da situazioni in cui una

persona necessità di un qualsiasi tipo di risorsa che però non gli viene data.

 Lotta di potere: nella relazione tra due persone possono essere distinti due piani:

piano verticale, quando tra le due persone c'è un rapporto gerarchico; piano orizzontale, quando

le due persone sono legate da un rapporto paritario, non gerarchico. La disparità di piano

diventa potenzialmente conflittuale quando genera una lotta di potere in cui uno intende

prevaricare l'altro

 Invasione: il conflitto può essere generato anche dall'invasione da parte dell'altro del

proprio ambito spaziale, di ruolo professionale, ecc., ovvero quando si verifica un'invasione del

proprio ambito.

 Disconferma: il conflitto interpersonale può essere generato anche da un

atteggiamento di disconferma dell'altro, ovvero da un atteggiamento di indifferenza che

significa la mancata riconoscenza dell'esistenza dell'altro

 Differenza di bilancio: una situazione potenzialmente conflittuale può scaturire

quando una persona presume di aver maturato un credito nei confronti dell'altro che però non gli

viene restituito. (Ad esempio: “con tutto quello che ho fatto io per te….”) Questa situazione è

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particolarmente pericolosa perché le due persone possono avere due percezioni diverse rispetto

alla propria posizione reciproca.

Date queste premesse, è importante sottolineare che il conflitto non può essere risolto,

bensì gestito e trasformato in altro, andando ad incidere sulla relazione. A questo proposito si

possono utilizzare alcune strategie:

 La metacomunicazione: per riposizionare ad un livello di equilibrio i piani

relazionali tra due soggetti, si può decidere di andare oltre al contenuto della comunicazione per

spostare la conversazione sul problema di comunicazione insorto. Ovvero si travalica la

situazione per parlare della situazione in sè.

 Disarmo unilaterale: di fronte ad una persona ''armata'' si può reagire tentando di

fargli ''posare le armi'' gettandole per primo, oppure facendo leva su un atteggiamento assertivo.

 Intervento di una terza persona: alcune situazioni di conflitto possono richiedere,

per essere gestite, l'intervento di un soggetto terzo che però per essere efficace deve possedere

due caratteristiche: essere equidistante, ovvero mantenere una distanza orizzontale uguale tra le

due persone in conflitto, ed essere super partes, ovvero mantenere un'uguale distanza verticale

nei confronti delle due persone.

 Ristrutturazione: di fronte ad un conflitto possono decidere di riprendere la

relazione allo scopo di ristrutturala su piani diversi e più positivi. Rivedo la mia opinione

andando incontro a quella dell'altro, ristrutturo cambiando apparentemente la mia posizione allo

scopo di sedare l'aggressività ( Es. ''Lei ha ragione, ma...'')

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Nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una situazione relazionale critica è dunque

importante saper, innanzitutto, distinguere su quale piano – contenuto/relazione - si sta

sviluppando la problematica, ovvero se siamo di fronte ad un contrasto oppure ad un conflitto.

Questo ci consente di attuare le strategie più adeguate per cercare di ''ristabilire'' la

situazione e riportarla all’interno di confini accettabili. Un buon team leader deve essere in

grado di diagnosticare correttamente un conflitto nel proprio gruppo di lavoro, primo passo per

lo sviluppo di una strategia di soluzione. Nel riconoscere la presenza di un conflitto,

identificarne le cause e le possibilità di soluzione può essere utile un approccio a 5 fasi (o

“Metodo delle 5 w”).

Who? – chi è coinvolto nel conflitto? Importante conoscere le parti in conflitto per

comprendere anche le soluzioni da adottare, come è interessante individuare le

persone anche non coinvolte ma in grado di influenzare lo sviluppo conflittuale.

What? - che tipo di conflitto è? Necessario raccogliere in questa fase dati, sensazioni

ed emozioni. Ignorare i sentimenti produce una visione parziale della realtà.

When? – quando si è verificato? Aspetto difficile da determinare. Sarà importante

comprendere se il fenomeno si rappresenta ciclicamente oppure è insorgenza unica.

Where? – dove è successo? Per capire a quale livello di struttura organizzativa si è

determinato il conflitto(tra pari, differenti livelli gerarchici, diverse professionalità

etc).

Why? – perché è successo? Spesso le parti possiedono diversi interessi pur

partecipando a percorsi univoci e condivisi. Importante trovare spazio di

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comprensione tra le reciproche convinzioni riformulando e focalizzando l’attenzione

al cuore del problema facendo emergere la bontà di entrambe le soluzioni.

Il conflitto può essere definito come “una situazione in cui le forze di valore

approssimativamente uguali ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente

sull’individuo” (K. Lewin).

Può manifestarsi come uno scontro tra il desiderio di raggiungere una meta o di

appagare un bisogno e un’istanza interna o esterna che non ne permette il conseguimento. Si

parla quindi di:

 Conflitto intrapsichico: quando rimane confinato nell’interiorità

dell’individuo e si esplica tra desideri, mete o sentimenti in contrasto tra loro, dove la

soddisfazione e l’espressione degli uni provoca la frustrazione degli altri, o, adottando il

modello pulsionale freudiano, tra pulsioni inconsce libidiche o aggressive e le difese al loro

appagamento.

 Conflitto interpersonale: si manifesta quando i bisogni, gli obiettivi e il

modo di vedere le cose si scontrano con quelli degli altri.

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5 La gestione del conflitto


Di solito si tende ad attribuire una valenza negativa al conflitto nella vita di un gruppo di

lavoro, perché il mancato soddisfacimento delle proprie esigenze può provocare disagio,

frustrazione e rabbia e pertanto ritenuto elemento pericoloso e da evitare. Spesso, inoltre, i

contrasti con gli altri provocano un malessere derivante dal timore che un confronto con loro sia

destabilizzante e rappresenti una minaccia alla propria autostima o alla relazione stessa.

Tali vissuti possono determinare la scelta dell’evitamento dei conflitti per scongiurare il

verificarsi di conseguenze ancora più difficili da affrontare. In realtà se ben gestiti, i conflitti,

possono diventare occasioni di crescita personale e di miglioramento della qualità delle relazioni,

quello che conta è, infatti, il modo in cui si reagisce alla situazione conflittuale. Per gestire al

meglio le diverse divergenze nel contesto delle relazioni, è necessario concentrare l’attenzione sulle

modalità comunicative che generalmente si adottano, ed essere disposti ad usare delle tecniche

efficaci che permettano il raggiungimento di una mediazione soddisfacente per sé e per l’altro. È

altrettanto necessario essere disposti ad aprirsi a punti di vista alternativi e ad abbandonare schemi

rigidi di pensiero fondati su una visione dicotomica (torto/ragione; giusto/sbagliato).

In particolare per la gestione dei conflitti sono necessarie tre dimensioni:

La consapevolezza delle proprie emozioni: nelle situazioni conflittuali è molto presente la

componente emotiva e, spesso, lo stato affettivo prevalente è la rabbia. La reazione emozionale si

esplica attraverso l’attivazione del sistema vegetativo che comporta una risposta in tutto il corpo. È

utile non controllare, né reprimere uno stato affettivo perché fornisce delle informazioni precise su

di sé e su come si reagisce in una determinata situazione. Un’accurata auto-conoscenza aiuterà a

scegliere la modalità comportamentale più efficace, momento per momento.

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L’ascolto empatico: l’ascolto attento dell’altro implica la capacità di aprirsi a una lettura

della situazione diversa dalla propria, come se il proprio punto di vista fosse soltanto uno dei tanti

possibili perché rispecchia la personale “mappa del mondo”. Ciò comporta il non rifiutare o

squalificare l’altro o ciò che propone ma accettare la sua personale visione della realtà.

La gestione creativa: dall’incontro di diversi modi di interpretare una situazione, si può

arrivare a una sintesi creativa che consenta il soddisfacimento dei bisogni e dei desideri delle

persone coinvolte. Per questo è necessario mettere a fuoco il problema, chiarire gli interessi di tutti

e affrancarsi dalle modalità di risoluzione inefficaci usate fino a quel momento.

Uno strumento per la valutazione quantitativa del conflitto organizzativo

Rahim Organizational Conflict Inventory.

Il concetto di conflitto organizzativo elaborato sulla scorta delle teorizzazioni di Afzalur Rahim

costituisce il più rilevante punto di riferimento nell'ambito della letteratura di psicologia

organizzativa. Questo soprattutto in ragione degli strumenti elaborati dall'autore: il Rahim

Organizational Conflict Inventory.

Secondo Rahim (1995) esistono tre tipologie di conflitto nelle organizzazioni:

intrapersonale, intragruppo e intergruppi. Il primo è propriamente individuale e appare in

occasione della non corrispondenza tra competenze attese ovvero compiti assegnati

dall'organizzazione all'individuo con le competenze individuali (intese come insieme interessi,

valori, capacità, ecc); quello intragruppo è inteso come forma di conflitto tra membri di un gruppo

(all'interno del gruppo stesso); quello intergruppi emerge tra gruppi di lavoro diversi ad esempio tra

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squadre, tra reparti, tra funzioni, di una stessa organizzazione. In presenza di elevato conflitto

intrapersonale si determina aumento del turnover, malattia, assenteismo, disturbi psicosomatici.

Le cause del conflitto intrapersonale (Majer, 1995) sono prevalentemente di tipo

strutturale:

1. incompatibilità persona/compito;

2. incompatibilità tra bisogni della persona e obiettivi organizzativi;

3. richieste eccessive da parte dell'organizzazione rispetto alle reali capacità della persona;

I fattori che causano conflitto intragruppo sono legati a:

1. stile di leadership autoritario

2. struttura del compito complessa;

3. grandi dimensioni dei gruppi di lavoro (creazione di sottogruppi con finalità

contrastanti);

4. composizione eterogenea dei gruppi negli atteggiamenti, valori, interessi, stili

interpersonali;

5. risultati negativi in ambienti ad elevata competitività interna;

I fattori che causano conflitto intergruppi dipendono molto da:

1. forte differenziazione tra sottosistemi di un'organizzazione;

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2. elevata interdipendenza tra reparti/funzioni;

3. risorse limitate;

Vengono suggeriti cinque modi possibili di gestione del conflitto interpersonale (da non

confondere con risoluzione del conflitto organizzativo):

Integrazione: attraverso un notevole scambio di informazioni e la comune volontà di

collaborazione. E’ la modalità appropriata per affrontare situazioni in cui i risultati da raggiungere

sono complessi, quando è necessaria una sintesi di idee per individuare la soluzione migliore,

quando è necessaria collaborazione per raggiungere risultati, quando c'è tempo a disposizione per

risolvere il problema, quando sono necessarie le risorse delle parti. E' inappropriata nelle situazioni

in cui il problema è semplice e quando è necessaria una risposta immediata.

Sottomissione: è lo stile che cerca di enfatizzare la comunanza di interessi. E' appropriato

nelle situazioni in cui si pensa di essere in torto, il risultato è più importante per la controparte,

quando si concede qualcosa ora per ottenere qualcos'altro in futuro, quando si tratta da una

posizione di debolezza, quando si privilegia il mantenimento dei buoni rapporti. E' inappropriato

nelle situazioni in cui il risultato è importante per noi, quando si pensa di essere nel giusto.

Dominio: si perseguono gli obiettivi ignorando quelli degli altri, spesso forzando la mano.

E' appropriato nelle situazioni in cui il risultato è di poco conto, quando c'è bisogno di decisioni

rapide, quando c'è maggiore competenza in merito a decisioni tecniche. E' inappropriato quando il

risultato è complesso, per risultati di scarsa importanza, in presenza di una controparte potente,

quando non c'è fretta, quando i collaboratori hanno alto grado di competenza.

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Evitamento: si evita il confronto, la disputa, accantonando la questione. E' appropriato nelle

situazioni in cui il risultato è di poco conto, quando è necessario prendere del tempo per calmarsi,

quando affrontare l'altro è più disfunzionale dell'utilità del risultato. Invece risulta inappropriato nel

caso in cui il risultato è importante per noi, quando è nostra responsabilità prendere una decisione,

quando c'è riluttanza tra le parti nel rimandare la questione, quando il problema necessita di

attenzione immediata.

Compromesso: si ha nel caso in cui ciascuna delle controparti rinuncia a qualcosa facendo

al contempo i propri interessi. E' appropriato quando gli scopi delle controparti sono a somma zero,

quando le parti sono potenti alla stessa stregua, quando è impossibile raggiungere unanime

consenso, quando gli stili Dominio e Integrazione non hanno avuto successo, quando è necessaria

una soluzione temporanea ad un problema complesso. E' inappropriato invece quando una parte è

molto più potente.

La motivazione, la comprensione delle ragioni degli altri, il farsi carico delle proprie

responsabilità accettando anche i propri insuccessi come occasioni di miglioramento personale e

relazionale, sono gli elementi fondamentali nella pratica della soluzione dei conflitti.

5.1 Leadership
Quando le persone, all’interno di un gruppo interagiscono, iniziano a costruire insieme il

significato dei rispettivi ruoli e delle modalità di interazione reciproca. Alla fine di questo processo,

normalmente, da una parte emerge (designata o autoproposta) una singola persona o un gruppo

ristretto (leader) che indicano al gruppo la strada da seguire per comprendere se stesso e gli impegni

da affrontare, i membri fanno propria questa visione e agiscono in maniera coerente.

Nell’organizzazione la leadership è intesa come un processo in cui una persona o un gruppo

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influenzano gli altri al raggiungimento di obiettivi condivisi e dirigono l’organizzazione in modo

tale da renderla coesiva e coerente.

Leadership significa

1. Influenzare gli altri per raggiungere obiettivi condivisi

2. Dirigere e gestire il cambiamento

3. Creare una visione per l’organizzazione

4. Motivare e guidare gli altri verso il successo

5. Creare le condizioni necessarie per raggiungere gli obiettivi.

Lo scopo della leadership è il cambiamento organizzativo

Lo scopo del management è la stabilità organizzativa

Possiamo quindi dire che maggiore è il bisogno di cambiamento in un’organizzazione,

maggiore è il suo bisogno di leadership, e che maggiore è la sua complessità, maggiore è la sua

necessità di management e stabilità.

Premesse che contribuiscono produrre un buon leader

Formazione adeguata

Prolungata esperienza sottoposta a valutazione (supervisione di esperti, valutazione tra pari,

autovalutazione)

Aggiornamento permanente

Forte motivazione e conoscenza di sé

Costruzione “partecipata” degli obiettivi

Verifiche costanti con ampia partecipazione su processo e risultati

Benchmarking (confronto con le esperienze altrui)

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Gli stili di Leadership di Goleman (un modello)

Colui che possiede leadership accende il nostro entusiasmo e riesce a darci la giusta carica

facendo leva sulle nostre emozioni. Quando le nostre emozioni sono influenzate in senso positivo si

crea risonanza e si pongono le basi per l'eccellenza e la prosperità di un'azienda.

Tutti gli stili guida possono avere influssi positivi. Gli ultimi due stili di leadership vanno

usati con parsimonia, per brevi periodi ed in particolari contingenze. Un loro uso prolungato

porterebbe ad un deterioramento del clima aziendale con inevitabile calo della produttività.

Affiliativo: favorisce le relazioni interpersonali creando armonia nello staff; la sua azione è

positiva sul mantenimento di un sereno clima aziendale; è un approccio utile in momenti di tensione

e per ricompattare un gruppo.

Battistrada: è il leader che raggiunge per primo i risultati aprendo nuove strade di business;

molte volte in azienda è usato in maniera inefficace o per troppo tempo portando a risultati

insoddisfacenti; può essere efficace quando un'azienda deve aprire nuovi mercati ed i dipendenti si

sentono insicuri di fronte al rapido cambiamento degli scenari. Un abuso di questo stile di

leadership può portare ad un'ansia da prestazione che tende a logorare il collaboratore.

Autoritario: utilizza direttive chiare e precise che non ammettono replica; usa spesso la leva

motivazionale legata alla paura delle conseguenze rendendo il clima aziendale teso e poco incline

all'assunzione di responsabilità da parte dei singoli; questo stile di leadership trova utilità ed

efficacia in situazioni di emergenza.

10 soft skills che si devono conoscere e praticare

Valenzuela da Ken, BeALeader.Net 's Chief Editor

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(traduzione rivisitata)

In qualità di leader si dovrebbero conoscere queste abilità semplici, al fine di migliorare le

relazioni umane. Io le chiamo competenze classiche di empatia che tutti dovrebbero conoscere e,

più importante, dovrebbero PRATICARE. Scorrete questa lista e considerate il miglioramento per

tutti voi e per la vostra squadra che otterreste esercitando queste competenze.

Solo incoraggiandone l'uso si potrebbero lisciare alcune piume arruffate o detendere una

situazione di tensione.

1 parla alla gente

Non c'è nulla che valga come una parola di saluto allegro. Per collegarsi veramente all’altro,

guardalo negli occhi mentre parli.

2 sorridi alle persone

Ci vogliono 72 muscoli per aggrottare le sopracciglia, solo il 14 per sorridere. Se sorridi gli altri

possono sentire la differenza nella tua voce - anche al telefono.

3 chiama le persone per nome

La dolce musica all'orecchio di chiunque è il suono del suo nome. Assicurati di dirlo correttamente

e spesso.

4 sii amichevole ed utile

Per avere amici e creare relazioni, cerca di essere un amico speciale.

5 prova ad essere cordiale

Parla ed agisci sinceramente come se tutto quello che fai sia con vero piacere.

6 sii realmente interessato alle persone

È possibile, se ci provi. Assicurati di far capire a loro quanto ci tieni.

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7 cerca di essere generoso con la lode

Lode in pubblico, correzione in privato. Ciascuno vince in questo modo.

8 sii rispettoso ed esigi rispetto

dei sentimenti degli altri. Di solito ci sono tre lati di una polemica: la tua, l'altra persona, la cosa

giusta. Tenere ego ed emozioni sotto controllo.

9 vigila

per dare un servizio eccellente. Ciò che più conta è ciò che facciamo per gli altri, non per noi stessi.

10 coltiva un buon senso dell'umorismo

Non prendere nulla troppo sul serio. Quando si aggiunge un sacco di pazienza e umiltà, si avrà una

ricetta per il successo duraturo.

In questa epoca concettuale, una più profonda comprensione delle sottigliezze delle

interazioni umane diventa non solo importante ma indispensabile. In effetti, alla Business School di

Stanford, gli studenti stanno affollando a uno dei corsi attivati di recente chiamato "dinamiche

interpersonali".

Bernard Bass nel manuale sulla leadership propone 11 categorie di significati attribuiti alla

leadership nel corso dell'ultimo secolo:

1. Leadership come focus della dinamica di gruppo, il leader viene visto da alcuni autori

come protagonista, punto di polarizzazione, centro focale di gruppo. La tendenza che si riscontra in

queste prospettive di studio è di considerare il concetto di leadership strettamente legato a quello di

struttura e dinamica di gruppo;

2. leadership come personalità e suoi effetti: questa definizione fa parte della teoria dei tratti

secondo la quale si devono ricercare le caratteristiche che rendono alcune persone più capaci di altre

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nell'esercitare la leadership. Gli studiosi ricercano una definizione che descriva più le caratteristiche

che il leader deve possedere per essere tale, piuttosto che una spiegazione del termine leadership;

3. leadership come l'arte di indurre il consenso. La leadership è definita come l'abilità di

manipolare le persone così da ottenerne il meglio con i minimi contrasti e la massima cooperazione

attraverso il contatto face-to-face tra leader e subordinati; viene quindi vista come un esercizio di

influenza unidirezionale, il gruppo e i suoi membri vengono messi in secondo piano e considerati

soggetti passivi;

4. leadership come esercizio dell'influenza, l'utilizzo del concetto di influenza segna un passo

decisivo nell'astrazione del concetto di leadership; gran parte degli studiosi che operarono negli anni

'50 utilizzarono definizioni affini. Il concetto di influenza implica una relazione reciproca tra

individui, non necessariamente caratterizzata da dominio, controllo o induzione del consenso da

parte del leader;

5. leadership come comportamento, questa definizione, caratteristica dell'Organizational

Behavior, emerse nello stesso periodo della precedente; I ricercatori cercarono di spiegare quali

fossero gli atti e i comportamenti caratteristici dell'esercizio della leadership, quelli propri di un

individuo orientato alle attività di gruppo;

6. leadership come forma di persuasione: è un tipo di definizione che cerca di rimuovere

ogni implicazione alla coercizione, focalizzando invece l'attenzione alla relazione con i seguaci. Più

recentemente la strategia persuasiva è stata indicata come una delle modalità di leadership;

7. leadership come relazione di potere: per spiegare questo tipo di affermazione, gran parte

degli studiosi che l'hanno adottata hanno utilizzato due soggetti di riferimento, A e B, simulando tra

loro relazioni di potere; se A induce B ad attuare dei comportamenti per raggiungere un comune

obiettivo, allora A ha esercitato leadership su B;

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8. leadership come strumento per raggiungere l'obiettivo: quest'idea è comune a molti

studiosi che l'hanno inclusa nelle proprie definizioni, ma alcuni più di altri hanno centrato la loro sul

raggiungimento dell'obiettivo; Questi studiosi considerano la leadership come forza principale per

stimolare, motivare e coordinare coloro che si muovono per raggiungere un obiettivo comune;

9. leadership come fattore emergente dell'interazione: ciò che differenzia questa

affermazione dalle precedenti è il nesso di causalità; in questa si nota che la leadership viene

considerata un effetto dell'azione del gruppo e non più un suo elemento formante. La sua

importanza sta nell'aver messo in evidenza che la leadership emerge dal processo di interazione tra

individui e non avrebbe ragione di esistere senza di esso;

10. leadership come ruolo di differenziazione: fa parte della teoria dei ruoli secondo la quale

ogni individuo interagendo con altre persone o con un gruppo gioca un ruolo, solitamente diverso,

dagli altri individui. Diversi autori utilizzano definizioni che vedono nella leadership un attributo

che differenzia i membri all'interno di un gruppo;

11. Leadership come l'iniziazione di una struttura, con questa

affermazione si vuole intendere che la funzione di leadership è indispensabile per l'avvio di una

struttura e per il suo mantenimento

“La leadership è come la bellezza, è difficile da definire, ma quando la vedi la riconosci.”

Warren Bennis

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