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CAPITOLO 5: ANALISI E PROGETTAZIONE DEL LAVORO

Il mondo della produzione e dei consumi ha subito nel corso degli ultimi decenni cambiamenti
epocali che hanno segnato la transizione dall’economia industriale del secolo scorso a quella che
viene attualmente definita economia della conoscenza. A questo cambiamento hanno
contribuito molteplici fattori e tra fenomeni che hanno segnato in modo profondo la società in
cui oggi viviamo:
• La diffusione delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni;
• La globalizzazione;
• Il miglioramento degli standard di vita.
L’effetto complessivo di questi cambiamenti ha una portata rivoluzionaria, che mette al centro
dei processi di sviluppo economico la conoscenza, le competenze, l’istruzione, la creatività e
l’innovazione. Gli elementi che connotano la nuova economia sono, in primo luogo, la velocità
nella creazione, applicazione e diffusione di una nuova conoscenza, che obbliga con ritmo
incalzante individui e organizzazioni a rimanere al passo con l’evoluzione continua e spesso
imprevedibile della tecnologia e delle scoperte scientifiche. Altra novità distintiva è la
smaterializzazione dei processi di generazione del valore. La conoscenza rappresenta sovente una
parte importante dei beni offerti dalle imprese, tanto da rendere difficile, in alcuni casi, la
distinzione tra prodotti e servizi.
Tutto ciò ha trasformato in mondo assai profondo anche il mondo del lavoro. La velocità
nell’evoluzione di conoscenze e tecnologie obbliga tutti i lavoratori, qualunque sia l’occupazione
svolta, ad acquisire su base continuativa nuove competenze, abilità e profili professionali in modo
da riuscire ad adeguarsi e a volte anticipare i cambiamenti, in uno sforzo che va ben oltre il
tradizionale aggiornamento professionale. Particolare rilevanza hanno acquisito i cosiddetti
knowledge worker che, secondo un’accezione ampia, in alcuni paesi costituirebbero circa il 40%
del totale degli occupati negli ultimi anni. Anche se non c’è una definizione universalmente
accettata, questa categoria comprende tutti quei lavoratori per i quali la conoscenza rappresenta
al tempo stesso sia il principale input sia il prodotto stesso del lavoratore. Le peculiarità di questa
categoria di lavoratori pongono sfide significative per chi, all’interno delle organizzazioni, deve
capire quali approcci adottare per creare contesti di lavoro in grado di accoglierli e far emergere
il loro potenziale. Ma sarebbe un errore pensare che nell’economia della conoscenza siano spariti
i lavori manuali. Nonostante la globalizzazione abbia incentivato un numero crescente di imprese
a esternalizzare e delocalizzare all’estero le attività labour-intensive, anche nei paesi ad economia
avanzata continuano ad esistere le fabbriche manifatturiere, i cantieri edili, le aziende agricole in
cui una quota importante di occupati svolge lavori che rimangono prevalentemente manuali o
legati all’esecuzione di processi di trasformazione in larga parte standardizzati.
Anche rispetto ai lavori più tradizionali, le organizzazioni si trovano oggi a dover capire come
ripensare i modelli di gestione del passato, che si sono rivelati in molti casi inadeguati sia sotto il
profilo dell’efficienza e della produttività, sia dell’efficacia e della sicurezza. Oltre alla tecnologia,
numerosi altri fattori sia interni che esterni dovrebbero concorrere alle decisioni su come
organizzare ed eventualmente ripensare il lavoro.

L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO: FINALITA’ ED APPROCCI


L’organizzazione del lavoro fa riferimento alle scelte di base che definiscono come è stato
diviso il lavoro tra le persone attraverso l’assegnazione di attività e quali requisiti e modalità di
svolgimento sono state individuate in termini di competenze che le persone devono avere e di
discrezionalità, controllo e responsabilità che possono esercitare nello svolgimento delle attività
assegnate. Le scelte di organizzazione del lavoro portano quindi ad identificare come si
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distribuiscono compiti, mansioni e ruoli all’interno dell’organizzazione. Questi termini
costituiscono il vocabolario base dell’organizational design:
• Il compito: è l’insieme di attività umane elementari necessariamente collegate;
• La mansione: è l’insieme/sistema di compiti assegnati ad una persona;
• La posizione organizzativa: indica la collocazione organizzativa del titolare di una
mansione;
• Il ruolo: comprende l’insieme delle attese associate ad una mansione o posizione
organizzativa in termini di comportamenti da attivare, obiettivi da perseguire, relazioni da
sviluppare.
Vediamo quali sono le finalità che possono essere perseguite attraverso diverse alternative di
progettazione del lavoro:
• Efficienza: il modo in cui vengono progettate le mansioni influisce sui tempi e costi di
esecuzione, ad esempio in termini di numero di clienti serviti in un’ora o numero di pezzi
lavorati al giorno;
• Qualità: l’organizzazione del lavoro determina anche le condizioni per supportare
l’orientamento al miglioramento continuo;
• Flessibilità: l’organizzazione del lavoro influisce anche sul grado di flessibilità organizzativa,
vale a dire la capacità di introdurre variazioni quali/quantitative;
• Salute e sicurezza: la progettazione delle mansioni, degli strumenti e degli spazi di lavoro
determina anche il livello di sicurezza fisica e il rischio per la salute a cui sono esposti i
titolari delle mansioni e agli altri lavoratori che operano nello stesso luogo o in aree attigue,
gli eventuali clienti/utenti presenti durante l’esecuzione della mansioni o di quelli che
faranno uso dei prodotti realizzati attraverso quelle mansioni;
• Qualità della vita lavorativa: la progettazione di qualsiasi lavoro deve tener conto non solo
degli effetti sulla sicurezza e sul benessere fisico del lavoratore ma anche sulla qualità della
vita professionale in termini di interesse intrinseco, opportunità di crescita e sviluppo,
livello di stress, qualità dei rapporti interpersonali.
Le diverse alternative per organizzare il lavoro raramente permettono di massimizzare, al tempo
stesso, tutte le dimensioni elencate. Spesso una specifica soluzione permette di ottenere risultati
migliori su alcune dimensione a scapito di altre. Ciò implica che le scelte di organizzazione del
lavoro non sono neutre né per l’organizzazione né per le persone. Anche le teorie e i modelli di
organizzazione del lavoro che sono stati elaborati nel corso del tempo non sono neutri rispetto
alle finalità ed è importante acquisire piena consapevolezza di quali sono le prospettive che
ciascun approccio teorico privilegia. A tal fine, è possibile distinguere tre approcci principali alla
progettazione del lavoro: meccanicistico, motivazionale, ergonomico e percettivo.

APPROCCIO MECCANICISTICO
L’uomo si è trovato a decidere come organizzare il lavoro fin dai tempi dell’antichità. Tuttavia è
con la rivoluzione industriale che l’organizzazione del lavoro è divenuta una delle problematiche
fondanti delle scienze manageriali. L’approccio meccanicistico alla progettazione del lavoro si
sviluppa in questo periodo storico con l’obiettivo di massimizzare l’efficienza organizzativa
creando mansioni semplici e specializzate in grado di sfruttare pienamente i vantaggi offerti dalla
meccanizzazione. L’esempio tipico è la catena di montaggio, in cui ad ogni operatore è affidata
una mansione estremamente semplificata, che corrisponde ad una micro-fase del processo
produttivo e che può essere rappresentata anche da un unico gesto, come ad esempio avvitare
un bullone. L’approccio meccanicistico ha come matrice disciplinare l’ingegneria industriale
classica e trova la sua espressione più conosciuta nei principi dello scientific management proposti da

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Frederick Taylor nella sua monografia del 1911 che hanno ispirato i modelli di organizzazione
del lavoro adottati nell’industria manifatturiera, il cosiddetto fordismo, per buona parte del
secolo scorso. Lo scientific management si basa su una spinta divisione del lavoro tra diversi
operatori e un’allocazione dei compiti di decisione, coordinamento e controllo ad un supervisore.
Ciò permetteva di individuare mansioni elementari che venivano più attentamente studiate dagli
analisti del lavoro per identificare il modo migliore e più efficiente di eseguire ciascuna mansione.
Pur partendo da una matrice disciplinare diversa, ai principi fondanti dell’approccio
meccanicistico è possibile ricondurre anche il modello di lavoro burocratico ispirato all’opera del
sociologo tedesco Max Weber. Nel secolo scorso, per l’organizzazione de lavoro dei “colletti
bianchi” (ovvero il lavoro di ufficio), il modello burocratico ha rappresentato in termini di
influenza e pervasività di applicazione ciò che il taylorismo è stato per i “colletti blu” (ovvero per
il lavoro in fabbrica).

APPROCCIO MOTIVAZIONALE
A partire dagli anni 50 inizia a farsi strada un insieme di studi e teorie di matrice psicologica e
sociologica che mettono al centro dell’attenzione le caratteristiche delle mansioni che influiscono
sul significato psicologico del lavoro e sul potenziale motivazionale. Alla base vi è una visione
dell’uomo-lavoratore come portatore di bisogni psicologici e relazionali e non solo meramente
economici, che il lavoro può contribuire a soddisfare sia attraverso la dimensione sociale di
appartenenza ad un gruppo, sia attraverso il contenuto della mansione che può diventare una
fonte di ricompensa intrinseca. La motivazione intrinseca consiste in sensazioni positive in
termini di interesse, divertimento, senso di competenza che si ricavano dal fare bene il proprio
lavoro e indipendenti da fattori esterni, come incentivi monetari ed approvazione del capo o dei
colleghi. Gli studi di Maslow e Herzberg contribuiscono ad affermare la necessità di avviare un
processo di revisione e correzione degli eccessi del fordismo che stavano generando un clima di
crescente conflittualità e disaffezione dal lavoro nelle fabbriche. Il modello delle caratteristiche
del lavoro elaborato da Hackman e Oldham costituisce uno dei contributi teorici più importanti
dell’approccio motivazionale. Il modello individua cinque caratteristiche fondamentali del lavoro
che influiscono sulla motivazione intrinseca e soddisfazione legata al lavoro:
• Varietà: dipende dalla numerosità e diversità dei compiti assegnati che richiedono al
lavoratore di utilizzare abilità e capacità diverse nello svolgimento della mansione;
• Identità: misura quanto un compito sia eseguito in modo completo dall’inizio alla fine;
• Significatività: dipende dalla possibilità di identificare il contributo della mansione al
risultato finale dell’organizzazione;
• Autonomia: misura il grado di discrezionalità che il lavoratore esercita nella
programmazione dei compiti e nella scelta delle modalità di esecuzione;
• Feedback: misura quante informazioni il lavoratore riceve sull’efficacia della propria
prestazione.
A seconda di come sono progettate le mansioni, queste caratteristiche possono manifestarsi in
vari gradi. Generalmente, maggiore sarà il loro livello tanto più alto è il contenuto motivazionale
del lavoro poiché queste cinque caratteristiche influiscono su tre stati psicologici critici: il
significato attribuito al proprio lavoro, la responsabilità e la conoscenza dei risultati.

APPROCCIO ERGONOMICO E PERCETTIVO


L’approccio ergonomico si sviluppa a partire dagli anni 50 in Gran Bretagna grazie all’incontro
tra diverse discipline quali la biomeccanica, l’antropometria, la psicologia, la fisiologia, l’ingegneria
meccanica e il disegno industriale. L’obiettivo è di studiare come progettare le mansioni, le
postazioni, le attrezzature e i luoghi di lavoro in modo da ridurre lo sforzo fisico e minimizzare
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l’impatto negativo sulla salute dei lavoratori di movimenti ripetitivi o posture dannose nello
svolgimento dei compiti. L’approccio percettivo deriva dallo studio delle abilità cognitive e
percettive dei lavoratori con l’obiettivo di migliorarne l’affidabilità, la sicurezza e le reazioni al
fine di ridurre i tassi di errore e gli incidenti.

PROGETTAZIONE DEL LAVORO


Il punto di partenza per la progettazione del lavoro consiste nell’identificazione del sistema
primario del lavoro, vale a dire dell’insieme delle attività che devono essere svolte. Esse
includono:
• Le attività operative interdipendenti che concorrono alla realizzazione di un output
identificabile;
• Le attività di supporto, manutenzione, controllo e regolazione del processo operativo.
Una volta individuato il sistema primario delle attività si può poi procedere a progettare le
mansioni rispondendo a due domande chiave:
- Quante e quali attività dovremmo assegnare a ciascuna persona?
- Come tali attività dovrebbero essere svolte?

Per decidere quante e quali attività ricomprendere in ciascuna mansione occorre tener conto di 3
variabili fondamentali:
1. Economie di specializzazione: già nella metà del 700, il grande economista inglese Adam Smith
aveva compreso che la divisione del lavoro può creare significativi vantaggi di efficienza
nell’esecuzione delle attività dovute all’apprendimento. La presenza di elevate economie
di specializzazione nell’esecuzione di attività spinge a parcellizzare il lavoro e a creare
mansioni altamente specializzate, che includono poche attività. L’entità dei vantaggi di
efficienza conseguibili attraverso la specializzazione dipende dalla divisibilità tecnica del
lavoro ma anche dalle dimensioni del mercato. La specializzazione delle mansioni crea
vantaggi ma anche rigidità.
2. Interdipendenza tra attività: un fattore che incide sulla scelta di quante e quali attività
assegnare ad una stessa persona è il grado di interdipendenza tra le attività stesse, ovvero
il legame che presentano. Un fattore che può generare interdipendenza è la specificità
delle conoscenze necessarie a svolgere in modo efficiente ed efficace un’attività rispetto
all’altra. Più forte è l’interdipendenza tra attività diverse, maggiore è la necessità di
assicurare uno stretto coordinamento tra le stesse per non pregiudicarne l’efficace
svolgimento.
3. Bisogno di identità e contribuzione: l’opportunità e convenienza ad allargare le mansioni deve
tener conto anche di quanto è forte il bisogno di autorealizzazione nel lavoro che le
persone manifestano.

La massima autonomia nello svolgimento di una mansione si ha quando il titolare è responsabile


dell’esecuzione, decisione e controllo sui compiti che essa ricomprende. L’autonomia si riduce
attraverso la divisione verticale del lavoro, che separa l’esecuzione dalla decisione e controllo
attraverso due possibili meccanismi organizzativi:
• L’introduzione di un supervisore;
• La formalizzazione del comportamento.
La divisione verticale del lavoro permette di ridurre la variabilità individuale nello svolgimento
della mansione rendendo il lavoro delle persone più prevedibile e quindi più facile da coordinare
e controllare, ma anche più rigido e monotono. Le variabili che aiutano ad individuare quale sia
il livello di autonomia più opportuno da riconoscere al titolare di una data mansione sono:
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o La varianza delle attività: la varianza è legata agli eventi imprevisti, all’incertezza e alle
possibili eccezioni che si possono verificare durante lo svolgimento dei compiti con effetti
non trascurabili sull’output che possono essere regolati e corretti solo attraverso
l’intervento umano. Quanto più è elevata la varianza tanto più conviene attribuire alla
persona che svolge quelle attività ampia autonomia.
o La complessità delle attività: alcune attività richiedono di utilizzare un insieme di conoscenze
e informazioni molto complesse che possono essere acquisite solo attraverso esperienza,
formazione specifica e continuo aggiornamento. Ciò porta ad attribuire autonomia al
titolare della mansione poiché è difficile separare l’esecuzione di tali attività complesse
dalla decisione e controllo sul come eseguirle.
o Il bisogno di autonomia: oltre al grado di varianza e complessità informativa che caratterizza
la nature delle attività, è necessario tener conto del bisogno di autonomia delle persone.
A parità di altre condizioni, tanto più sentito è questo bisogno, tanto maggiore sarà la
convenienza a disegnare mansioni dotate di autonomia per aumentarne il contenuto
motivazionale.

LE NUOVE FORME DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO


Le organizzazioni stanno diventando sempre più attive nel cercare nuove modalità di
organizzazione del lavoro, che superino quelle tradizionalmente utilizzate. Parole come
empowerment, coinvolgimento, condivisione, team work stanno sempre di più divenendo parte
del vocabolario di manager e consulenti aziendali. Sono diversi i fattori che hanno portato ad
un’evoluzione dell’approccio meccanicistico all’organizzazione del lavoro. L’evoluzione cultura e
sociale che ha caratterizzato la forza lavoro, insieme agli evidenti fallimenti dei principi dello
scientific management, hanno contribuito a generare una crescente consapevolezza circa l’importanza
di guardare all’organizzazione come ad un insieme indistinguibile di meccanismi formali ed
informali di coordinamento. L’approccio motivazionale ha dato l’avvio ad una serie di soluzioni
progettuali. Tra queste soluzioni di job redesign, le più importati sono rappresentate da:
• La rotazione dei compiti (job rotation): è considerata il primo antidoto contro
l’eccessiva semplificazione del lavoro scaturita dall’applicazione dei principi di
progettazione tayloristici. Essa prevede la rotazione del lavoratore tra diverse mansioni,
su base obbligatoria oppure volontaria. Vantaggi: minore ripetitività e monotonia,
maggiore flessibilità per l’organizzazione.
• L’allargamento dei compiti (job enlargement): comporta un ampliamento orizzontale
del numero di compiti assegnati ad una determinata mansione. Vantaggi: riduzione della
ripetitività, migliorare la qualità del prodotto, far fronte alla variabilità del ciclo produttivo.
• L’arricchimento dei compiti (job enrichment): prevede la ricomposizione all’interno
della mansione di compiti esecutivi e compiti di pianificazione, controllo e gestione delle
risorse, che comportano una maggiore autonomia decisionale ed una maggiore
consapevolezza dei risultati conseguiti.
• Il team work: rappresenta una modalità di organizzazione del lavoro finalizzata a
massimizzare efficienza, riduzione dei costi e motivazione delle persone che sta
conoscendo una larga diffusione a diversi livelli dell’organizzazione e per differenti
finalità. Il passaggio da una dimensione di lavoro individualista ad una di gruppo ha
comportato numerosi vantaggi: apprendimento gli uni dagli altri, contribuire ad abbattere
i costi di apprendimento, formazione e addestramento, aumento della flessibilità del
lavoro.

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Queste soluzioni organizzative hanno senza dubbio contribuito a riconoscere la centralità della
persona nelle scelte di job design. Al tempo stesso, è necessario essere consapevoli degli ostacoli
che possono ridurre l’efficacia di questi interventi organizzativi. Spesso le organizzazioni parlano
di empowerment dei propri collaboratori quando in realtà si limitano ad ampliare i loro compiti.
Un ulteriore problema che le organizzazioni devono affrontare è rappresentato dal rischio di un
“sovraccarico” della mansione che si verifica quando si supera quel limite oltre il quale l’aggiunta
di compiti, responsabilità, conoscenze richieste, porta ad un decadimento della performance e
della soddisfazione sul lavoro e ad un aumento dello stress. C’è poi da considerare il fattore
temporale. Gli effetti di lungo periodo degli interventi di work-redesign possono essere molto
diversi da quelli di breve periodo. Anche le differenze individuali influiscono sull’effettiva
capacità degli interventi di job design di incidere positivamente sulla produttività dell’impresa e il
benessere delle persone. Gli individui portano all’interno dell’organizzazione il loro vissuto e le
loro preferenze e di conseguenza considerano una mansione più o meno motivante non solo in
funzione di parametri oggettivi ma anche in funzione di elementi soggettivi.

ORGANIZZARE L’AMBIENTE DI LAVORO


Con il termine ambiente di lavoro facciamo riferimento a quell’insieme di condizioni nell’ambito
delle quali si realizza il lavoro e che interagiscono con il benessere fisico e mentale del lavoratore.
Esse includono non solo le caratteristiche del luogo di lavoro ma altri fattori quali le
caratteristiche dei prodotti e le sostanze utilizzate sul luogo di lavoro, i processi produttivi, le
procedure, i carichi di lavoro. Il Decreto legislativo n.626/1994 e il successivo Decreto legislativo
n.817/2008 impongono obblighi precisi ai datori di lavoro in materia di salvaguardia della
sicurezza e della salute dei lavoratori, specificando le misure da intraprendere in relazione al
rischio di incidenti e di malattia presente nel luogo di lavoro. Gli interventi di controllo del rischio
riguardano principalmente le attrezzature, l’ambiente di lavoro e la formazione, sebbene
recentemente sia cresciuta l’attenzione nei confronti dell’organizzazione del lavoro e dell’impatto
che può avere su malesseri di tipo psicologico, come ad esempio lo stress lavoro correlato. Si
tratta di una situazione di ansia e malessere diffuso in cui l’individuo si viene a trovare in ambito
lavorativo, sempre più frequente anche a causa delle crescenti pressioni che un contesto
organizzativo ipercompetitivo, instabile e frammentato pone sulle spalle dei lavoratori. Sono
molti i fattori che possono determinare queste condizioni di disagio: una tensione eccessiva posta
dall’azienda sui risultati; un ruolo troppo complesso; un ambiente di lavoro poco ospitale;
tecnologia che entra nella sfera privata dell’individuo; relazione con il proprio capo.

VALUTAZIONE DELLE POSIZIONI


La valutazione delle posizioni (job evaluation) è un metodo sistemico e oggettivo pensato per
determinare, attraverso l’analisi del contenuto del lavoro, il valore di una posizione all’interno
dell’organizzazione. La finalità è senza dubbio quella di minimizzare la soggettività e di garantire
politiche retributive che siano il più possibile eque, razionali e trasparenti. Un’altra finalità è anche
di fare chiarezza sulla struttura organizzativa e sulla sua evoluzione, attraverso l’analisi dei ruoli
che la caratterizzano, nonché rinforzare la strategia aziendale, i valori e la cultura organizzativa.

FASI E METODI

FASI CONTENUTO METODI


Identificazione delle posizioni Il processo può essere
applicato a tutte le posizioni
organizzative, oppure solo ad

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alcune famiglie professionali
o a determinati ruoli chiave.
Analisi della posizione (job È il processo mediante il - Osservazione diretta
analysis) quale ogni posizione viene - Questionario
analizzata per comprendere i - Intervista
contenuti del lavoro in
termini di responsabilità,
relazioni interne-esterne,
dimensioni gestite, ecc.
Descrizione della posizione (job Il quadro complessivo
description) scaturito dall’analisi
confluisce in una descrizione
analitica della posizione, in
un format prestabilito.
Valutazione della posizione (job Processo con cui si assegna - Analitici
evaluation) un valore a ciascuna - Globali
posizione.

La Tabella descrive le fasi che caratterizzano il processo di job evaluation che si conclude con
l’assegnazione di un valore a ciascuna posizione sulla base di uno dei diversi metodi proposti dalla
letteratura e applicati nella pratica manageriale. Una prima distinzione è tra metodi globali e
metodi analitici di valutazione. I primi sono caratterizzati da una maggiore semplicità di
applicazione: essi si limitano a classificare le diverse posizioni, considerandole nel loro complesso,
senza fornire una valutazione puntuale dei loro contenuti. Ad esempio, il job ranking colloca le
posizioni in ordine di importanza attraverso un giudizio di tipo globale espresso in base alle
informazioni raccolte con la job analysis. Il più diffuso tra i metodi globali è il Global Job Grading
System proposto dalla società di consulenza Towers Watson. Questo metodo colloca i ruoli
organizzativi all’interno di 25 classi prestabili in base ad un processo che prevede i seguenti
passaggi:
1. Definizione del grade aziendale (classe più elevata);
2. Identificazione della banda di appartenenza;
3. Valutazione della posizione sulla base di 7 fattori.
Questo metodo è applicato in maniera standardizzata in numerosi Paesi. Tra i metodi analitici, il
più diffuso è il metodo del punteggio. Alla base di questo metodo c’è l’idea che vi siano alcuni fattori
che sono trasversali a tutte le posizioni, seppur presenti in ciascuna di esse con un peso differente.
Ad esempio secondo il Metodo Hay i fattori presi in esame sono tre:
1. Il know-how: le competenze richieste dal ruolo;
2. Il problem solving;
3. L’accountabiliy: la responsabilità.
Sulla base della job description si valuta il peso che ciascuno di questi fattori ricopre in ciascun
compito e si sommano i punteggi attribuiti ottenendo così il valore della posizione (job size).

FINALITA’
Abbiamo visto come la principale finalità della job evaluation sia quella retributiva. Attraverso
questi processo l’organizzazione è in grado di:
- Individuare dei riferimenti sul mercato del lavoro, in modo da garantire una certa
competitività retributiva;

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- Garantire l’equità del sistema, facendo sì che i livelli retributivi siano adeguati
all’importanza dei ruoli e riducendo la soggettività;
- Risolvere quelle anomalie retributive che talvolta si vengono a creare nell’organizzazione.
Vi sono numerose altre ragioni per cui le aziende valutano le posizioni. La job evaluation infatti
ha molte interrelazioni con gli altri sistemi di gestione delle risorse umane.

CAPITOLO 6: PIANIFICAZIONE E RICERCA


LA PIANIFICAZIONE
L’attività di pianificazione delle risorse umane è finalizzata a rilevare il fabbisogno di personale
necessario all’organizzazione per raggiungere i propri obiettivi strategici. L’estrema mutevolezza
degli scenari economici rende sempre più sfidante per le imprese definire i propri piani di business
e più ardua l’identificazione dei fabbisogni di risorse umane.
Il processo di pianificazione è alimentato da molteplici fattori, interni ed esterni
all’organizzazione. Sono due gli approcci che descrivono i legami tra questi fattori:
1. Il primo ne privilegia una visione lineare, riconducibile a fasi distintine e temporalmente
successive;
2. Il secondo approccio si distingue dal precedente poiché considera che il processo possa
prendere avvio da una qualunque delle fasi in cui si articola, secondo una modalità
circolare.
Pertanto, le dimensioni principali alle quali le organizzazioni devono prestare la massima
attenzione, indipendentemente dal loro ordine, sono:
• Una chiara comprensione del profilo delle risorse umane presenti nell’organizzazione e
della loro saturazione;
• Una visione accurata della direttrice di sviluppo strategico per il futuro, per valutare la
coerenza tra il profilo esistente e quello necessario;
• L’individuazione delle azioni più opportune per assicurare l’allineamento tra strategie e
risorse.
Il processo di pianificazione delle risorse umane integra due diverse prospettive. Vi è infatti un
filone di attività che privilegia la dimensione hard e un filone soft. La prima modalità si avvale
di rigorose analisi matematiche e statistiche per determinare il corretto numero di persone che
saranno necessarie all’organizzazione nell’orizzonte temporale considerato. Il secondo approccio
copre l’esigenza di individuare le competenze che l’organizzazione dovrà possedere nel futuro
per raggiungere gli obiettivi di business prefissati, in termini di conoscenze e abilità ma anche di
valori e atteggiamenti rispetto al lavoro. L’identificazione di questo fabbisogno organizzativo
viene realizzato attraverso strumenti di rilevazione qualitativi.
Le politiche di gestione del flusso del personale possono essere scomposte in tre componenti
logicamente concatenate:
• La gestione dei flussi di ingresso
L’acquisizione di risorse dal mercato del lavoro rappresenta la modalità più efficace per
soddisfare esigenze di incremento di personale. Tradizionalmente, le aziende hanno fatto
fronte alla necessità di reperire risorse dall’esterno attraverso assunzioni a tempo
indeterminato. Questa modalità assicura un legame stabile e duraturo che offre sicurezza
ad entrambe le parti.
• La gestione della mobilità interna
Per mobilità interna si intende l’insieme di attività di people management relative
all’assegnazione di ruoli, trasferimenti, promozioni e rimozioni. Accanto alla crescita

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verticale sono sempre più diffuse modalità di sviluppo orizzontale. La globalizzazione dei
contesti organizzativi ha reso la mobilità internazionale un’interessante opportunità di
sviluppo.
• La gestione dei flussi in uscita
I fattori che più frequentemente alimentano i flussi in uscita dalle organizzazioni hanno
determinanti di natura individuale o organizzativa. Il turnover volontario rappresenta una
rilevante causa di interruzione del rapporto di lavoro. Alla base vi è la valutazione da parte
della persona di un maggior beneficio nel terminare la relazione lavorativa, motivata
spesso da alternative professionali più allettanti. A livello organizzativo, la necessità di
diminuire la forza lavoro viene in genere affrontata attraverso piani di downsizing, che
comportano la riduzione pianificata di una componente significativa dell’organico
aziendale, attraverso il ricorso alle diverse modalità previste di risoluzione del rapporto di
lavoro. L’outsourcing rappresenta un’altra leva utilizzata delle organizzazioni per
comprimere l’organico agendo su una parte significativa della forza lavoro. Questa
strategia comporta l’esternalizzazione di un’attività ritenuta non core e di tutte le relative
risorse. Obiettivo di questo intervento è perseguire una maggiore efficienza e allo stesso
tempo accrescere la flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro.

IL RECLUTAMENTO
una volta definito il proprio fabbisogno, diventa fondamentale per l’organizzazione attrarre ed
identificare le persone potenzialmente interessanti per coprire tali esigenze. Il reclutamento
consiste precisamente nell’insieme di attività che consentono all’impresa di esprimere la propria
domanda di lavoro e attivare l’offerta potenziale di lavoro.
Requisito indispensabile per avviare la fase di reclutamento è la stesura del profilo relativo alla
posizione da ricoprire. Per disporre di un profilo accurato è necessario coniugare due dimensioni
distinte ma fortemente integrate: la prima riguarda le caratteristiche della gestione (job
description), la seconda le competenze e i requisiti personali necessari per coprire al meglio tale
posizione (person specification).
o Job description: l’obiettivo è pervenire ad una descrizione accurata della posizione in
termini di finalità, aree di responsabilità e obiettivi attesi. La parte centrale è dedicata
all’esposizione dei principali compiti della posizione.
o La Person specification o human specification: coglie la componente più soft della
posizione. L’analisi è rivolta all’individuazione delle competenze richieste per ricoprire
adeguatamente il ruolo vacante. Nello specifico, vengono esplicitate le conoscenze, abilità
e comportamenti che l’organizzazione ritiene possano favorire performance eccellenti in
quella particolare mansione.
La definizione del profilo è inoltre completata dall’identificazione di alcuni requisiti specifici che
possono indirizzare opportunamente l’attività di reclutamento.

Definito il profilo di riferimento il passo successivo consiste nell’attivare concretamente la ricerca.


Per l’impresa l’obiettivo della ricerca è venire in contatto, velocemente e al minor costo possibile,
con i candidati in linea con il profilo della posizione da ricoprire. Lepak e Snell suggeriscono una
matrice che consente di distinguere tra risorse core e periferiche e di orientare conseguentemente
le strategie HR e in particolare le attività di reperimento. Secondo gli autori, sono core le risorse
che rappresentano il reale capitale umano e sociale dell’organizzazione. Sono invece ritenute
periferiche le risorse i cui ruoli hanno minor peso nel generare valore per l’organizzazione. Il
modello differenzia le risorse umane secondo due dimensioni: unicità e valore strategico. L’incrocio
delle due dimensioni determina una matrice composta da 4 quadranti a cui corrispondono distinte

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tipologie di capitale umano, ciascuna delle quali presenta implicazioni diverse in termini di
reclutamento.

Alta

Risorse partner Risorse strategiche


UNICITA’ (conoscenze (conoscenze core)
idiosincratiche)

Bassa Risorse marginali Risorse Job-based


(conoscenze ancillari) (conoscenze diffuse)

Basso VALORE STRATEGICO Alto

1. Risorse strategiche: il quadrante in alto a destra racchiude ruoli che richiedono


conoscenze “core”, molto specifiche, difficilmente replicabile. Sono ruoli cruciali per
l’impresa per il cui reclutamento può essere opportuno considerare prima su tutti il
mercato interno.
2. Risorse partner: sono ruoli ad elevata specializzazione ma con un minor impatto sul
business. Se da un lato le conoscenze specifiche di questi ruoli possono indurre le
organizzazioni a ritenere opportuna un’internalizzazione di tali risorse, dall’altro il limitato
contributo al successo dell’organizzazione può suggerire il ricorso a forme di
collaborazione o di alleanze.
3. Risorse job-based: sono competenze ad elevato valore strategico ma basso livello di
unicità rispetto all’organizzazione. Questa seconda caratteristica rende i profili facilmente
acquisibili sul mercato esterno, poiché poggiano su conoscenze trasversali.
4. Risorse marginali: si trovano risorse le cui competenze sono basse sia n termini di
strategicità, sia di unicità. Si tratta di tutti quei ruoli ancillari che spesso le organizzazioni
scelgono addirittura di esternalizzare.

A seconda del tipo di posizione e di più ampie considerazioni strategico-organizzative, l’azienda


può quindi se orientare la propria attività di reclutamento verso il mercato interno o quello
esterno.
• Mercato interno: il ricorso al mercato interno avviene attraverso interventi di mobilità o
mediante l’attivazione di job posting. La mobilità interna rappresenta una leva attraverso la
quale l’impresa favorisce la stabilità del rapporto di lavoro e offre opportunità di
valorizzazione a risorse meritevoli. Anche il job posting si caratterizza come uno
strumento di sviluppo professionale. A renderlo ulteriormente motivante vi è il fatto che
consente alle persone la propria autocandidatura per ruoli o posizioni di interesse. Mentre
la mobilità tradizionale è generalmente gestita dalla funzione risorse umane e dai
responsabili di linea che individuano la persona più adatta per ricoprire la posizione

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vacante, nel caso del job posting è la singola risorsa a farsi avanti e a proporsi per un
cambiamento di ruolo.
• Mercato esterno: il reclutamento si avvale di una molteplicità di strumenti tra i quali i più
efficaci sono l’autocandidatura, il passaparola, il ricorso ad inserzioni su organi di stampa
oppure online. L’autocandidatura rappresenta uno strumento estremamente diffuso, in
particolare in situazioni economiche e sociali in cui l’offerta di lavoro eccede la domanda.
Sono i potenziali candidati a fornire spontaneamente il proprio curriculum vitae. Con il

VANTAGGI SVANTAGGI
• Minore asimmetria • Rischio di
informativa obsolescenza
INTERNO • Strumento di retention, professionale del
motivazione e commitment capitale umano
• Riduzione dei costi e dei • Irrigidimento della
tempi di selezione cultura aziendale
• Aumento del ritorno degli
investimenti in formazione
• Minori conflitti sindacali
• Iniezione di nuove • Tempi lunghi
competenze • Maggiore incertezza
ESTERNO • Ibridazione della cultura • Maggiori costi
• Attivazione della reclutamento e
concorrenza tra lavoratori selezione
interni ed esterni • Maggiori costi
• Esternalizzazione di parte dei formazione ed
costi per creare le inserimento
competenze richieste
termine passaparola si intendono i canali informali attraverso i quali molto spesso
potenziali candidati vengono a conoscenza di posizioni vacanti all’interno delle
organizzazioni. Il ricorso alle inserzioni rappresenta una modalità di reclutamento
estremamente efficace in termine di diffusione, consentendo di raggiungere un vasto
bacino di potenziali candidati. Sempre più spesso le aziende si affidano al recruitment
online, che si avvale di siti e piattaforme tecnologiche specificatamente dedicate a favorire
l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.

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La formulazione di una comunicazione chiara e precisa della domanda rappresenta un momento
cruciale nel processo di reclutamento. Un messaggio efficace quando raggiunge il bacino di
riferimento, sia esso interno o esterno, è in grado di attivare un meccanismo di autoselezione
tra i potenziali candidati, favorendo l’avvicinamento delle persone realmente interessate e in linea
con i requisiti.

L’EMPLOYER BRANDING
Da ormai più di un decennio l’employer branding rappresenta uno strumento piuttosto diffuso
nella cassetta degli attrezzi della funzione risorse umane. Sono molti i fattori che hanno
contribuito ad accrescere la rilevanza di questo approccio nelle organizzazioni. In primo luogo,
l’employer branding offre una risposta concreta ai cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni
nel mercato del lavoro. La frenesia, nota con la definizione di “guerra dei talenti”, con la quale alla
fine degli anni 90 le aziende hanno cercato di accaparrarsi le risorse migliori, ha certamente
contribuito ad accrescere per le organizzazioni l’importanza di essere percepite come contesti
lavorativi in grado di soddisfare esigenze di sviluppo e di riconoscimento nei propri collaboratori.
Va anche considerato che si è progressivamente cominciato ad erodere il principio dell’impiego
a vita come modalità prevalente nelle relazioni di lavoro. Inoltre, la comparsa nel mercato del
lavoro di una nuova generazione, Generazione Y, ha comportato l’esigenza di confrontarsi con
nuovi e diversi valori ed aspettative nei confronti del lavoro. Elemento distintivo di questo
approccio è l’aver integrato contributi forniti da discipline diverse: dal marketing, alla psicologia,
alle scienze organizzative. Tra queste, è certamente il marketing, e per precisione the science of
branding, l’ambito dal quale sono stati mutati i principi base di questo approccio. Il brand infatti
rappresenta un importante fattore in grado di influenzare le scelte di potenziali clienti. Come
l’attività di product branding si occupa di rendere attrattivo un determinato prodotto nei confronti
di potenziali consumatori, l’employer branding promuove verso i dipendenti attuali o futuri di
un’organizzazione un prodotto particolare che consiste nell’esperienza di lavoro, unica e
specifica, che le persone possono vivere all’interno di un determinato contesto di lavoro.
Sono molti gli elementi che concorrono a differenziare un’organizzazione da un’altra. Studi di
psicologia organizzativa evidenziano ad esempio l’elevata capacità attrattiva giocata dalla
reputazione in termini di business. Organizzazioni di successo in termini di performance
economico-finanziarie tendono ad essere più attrattive. A determinare l’attrattività di
un’organizzazione concorrono quindi due diverse declinazioni di brand, una che coglie
l’immagine aziendale come realtà istituzionale e/o come realtà che produce beni/servizi, l’altra
che rileva l’immagine dell’azienda come ambiente di lavoro. La combinazione di queste due
dimensione da origine a diversi profili di attrattività delle aziende.

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Alta
Best Strong
Corporate Company

Weak Best
Company Employer

CORPORATE
BRAND
Bassa
Bassa EMPLOYER BRAND Alta

Nel quadrante in alto a destra si collocano le imprese più forti in termini di attrattività poiché
possono beneficiare di un elevato livello di apprezzamento in generale e rispetto ai temi di people
management. Vi si possono trovare aziende come Barilla, Ferrero, Ferrari, Microsoft e Google.
Le best corporate sono aziende che, pur godendo di elevata notorietà e prestigio in termini
istituzionali, risultano meno efficaci nel comunicare la propria offerta come employer. Al
contrario, le Best Employer sono aziende che si distinguono per la cura e l’impegno rivolto ai
propri dipendenti, pur godendo di una minore notorietà come corporate. Nell’ultimo quadrante
si trovano le aziende con un basso livello di attrattività sia a livello istituzionale sia come employer.

Il processo attraverso il quale un’organizzazione sviluppa il proprio employer branding si articola in


cinque fasi: l’analisi del target, il posizionamento, la creazione del messaggio, la scelta dei canali,
il monitoraggio e la valutazione. Per costruire un efficace employer branding è infatti essenziale
che vi sia da parte dell’organizzazione una precisa segmentazione del proprio mercato di
riferimento. Ciò richiede un’accurata definizione delle fasce del mercato del lavoro che l’azienda
intende raggiungere. La scelta dei driver della segmentazione è particolarmente importante
poiché rappresenta l’esplicitazione della prospettiva con la quale l’azienda legge il mercato del
lavoro ed è l’attività sulla base della quale vengono poi costruite le successive fasi del processi.
Tra i principali criteri adottati per la segmentazione vi è l’età anagrafica.
In uno studio apparso sul Journal of Brand Management, Moroko e Uncles, hanno proposto
un’interessante riclassificazione dei principi guida per l’identificazione dei target di riferimento,
proponendo una distinzione tra fattori oggettivi ed osservabili e fattori soggettivi e non
osservabili. Accanto a fattori più oggettivi, quali l’età, la tenure o il ruolo organizzativo, sono
inserite come variabili importanti per la definizione del target anche caratteristiche personali quali
l’orientamento alla carriera o le aspettative riguardo al lavoro. L’inclusione di questi criteri può
essere particolarmente utile nel costruire un messaggio che riesca a trasferire il posizionamento
dell’azienda rispetto a dimensioni intangibili.

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L’obiettivo principale del posizionamento è proprio quello di far sì che l’azienda venga vista dal
proprio target di riferimento con caratteristiche di unicità rispetto alla concorrenza. Analizzato il
target e definito il posizionamento, diventa centrale per l’azienda riuscire ad essere percepita come
un employer of choice. Questa attività chiave rappresenta di fatto la comunicazione dell’employer value
proposition. Obiettivo di questa fase è riuscire a creare un messaggio che comunichi cosa distingue
in modo unico e positivo l’esperienza di lavoro. Chiude il processo la fase di monitoraggio
attraverso la quale l’azienda raccoglie feedback dai propri target di riferimento rispetto all’efficacia
dell’azione intrapresa. Per monitorare la forza di una campagna di employer branding le aziende
possono avvalersi di una molteplicità di canali che consentono di rilevare il proprio
posizionamento.

Sempre più frequentemente le aziende si rivolgono ad enti esterni per misurare l’efficacia delle
proprie attività di employer branding e il proprio posizionamento come employer of choice. Di seguito
vengono proposti 3 approcci diversi che privilegiano ciascuno una fonte specifica:
• La prospettiva dei job seekers, attraverso survey finalizzate a rilevare le percezioni di
attrattività delle aziende da parte di potenziali candidati. L’employer Brand Positioning
Survey condotta da Monster Italia rappresenta un esempio di questo approccio. Ogni
anno la survey, attraverso un questionario articolato in diverse sezioni, rileva opinioni,
aspettative e tendenze dei job seeker sul brand di circa 200 aziende italiane;
• La prospettiva della funzione risorse umane, attraverso survey finalizzate a identificare
le migliori organizzazioni nello sviluppo di politiche di gestione delle risorse umane. Il
CRF Institute seguendo questo approccio elabora la lista dei Top Employers in Italia.
L’indagine prende in esame un panel di aziende e in ciascuna analizza le politiche
retributive, le condizioni di lavoro e i benefit, le iniziative di formazione e sviluppo, le
opportunità di camera e la cultura aziendale.
• La prospettiva dei dipendenti, attraverso survey che mettono al centro il punto di vista
dei collaboratori. Great Piace to Work Institute conduce annualmente una survey
finalizzata ad identificare i migliori ambienti di lavoro in Italia avvalendosi di un
questionario che dà voce alle persone.

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