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organizzazioni
Introduzione
La psicologia del lavoro e delle
organizzazioni è lo studio del
comportamento delle persone nel
contesto lavorativo e nello
svolgimento delle loro attività
lavorative, tenendo conto delle
relazioni interpersonali, dei compiti
che devono svolgere, le regole e il
funzionamento delle organizzazione.
La psicologia del lavoro a delle
scienze vicine come la sociologia e la
psicologia generale l'attenzione è
rivolta alla persona che lavora e ha
ciò che fa, al perché è al come lo fa,
tenendo anche conto delle
conseguenze del suo fare. Sul
benessere delle persone, sulle loro
condizioni economiche e
psicologiche, le motivazioni, i rapporti
con i loro interlocutori di ruolo, con
l'azienda e l'ambiente.
Studia il comportamento umano nel
suo contesto lavorativo.
Oggi non è facile trovare lavoro, la
psicologia
del lavoro considera anche come le
persone lo cercano, l'orientamento
che hanno verso di esso e quindi
aiuta anche nel orientar le per
prendere una decisione più
consapevole. Aiuta anche nel
formare le persone al lavoro e quali
competenze incentivare in esse per
ottenere uno stato di benessere sul
proprio posto di lavoro.
Per gli studiosi di psicologia,
l'interesse è orientato al rapporto
della persona con il suo lavoro, non
l'aspetto etico e deontologico, che se
questo ne definisca i confini e sia
comunque importante.
La disciplina comprende tre aree di
interesse:
La psicologia del lavoro: lo studio
del rapporto psicologico tra un
soggetto ed il suo lavoro e le
motivazioni in cui cerca o affronta il
proprio lavoro;
La psicologia delle organizzazioni:
l'analisi dei contesti organizzativi, le
organizzazioni intese come entità
sopra individuali studiate allo scopo
di
promuovere il loro cambiamento.
L'organizzazione lavorativa oggi è
cambiata, infatti dalla bottega si è
passati alla fabbrica, fino ad arrivare
a contesti più ampi come quelli
virtuali. La psicologia del lavoro
studia anche come organizzare
questo tipo di lavori;
La psicologia delle risorse umane:
l'analisi delle risorse umane e la
conoscenza dei problemi individuali
del soggetto nel contesto lavorativo,
al fine di attivare dei processi di
adattamento e di miglioramento del
contesto lavorativo.
Questa disciplina ha i suoi campi di
applicazione su due versanti:
Accademici/ricercatori
specializzati: l'attività di ricerca,
ovvero l'elaborazione di teorie circa il
funzionamento umano, in particolari
contesti lavorativi. Per questo motivo
vengono costruiti strumenti di ricerca
che siano affidabili per misurare i
fenomeni che accadono nel mondo
del
lavoro.
Professionisti: l'applicazione degli
studi all'esperienza, grazie
all'intervento di psicologi del lavoro
che operano per risolvere
problematiche che emergono nel
mondo del lavoro, sulle dinamiche
organizzative e del mercato del
lavoro.
Il rapporto tra ricercatori e
professionisti è fondamentale,
poiché, le due fonti di conoscenza,
ovvero quella della ricerca e quella
dell'esperienza diretta sono in
perenne confronto.
Purtroppo, tra queste due figure
professionali, esistono spesso delle
divergenze, anche se non mancano
situazioni di incontro e di
collaborazione.
Le teorie classiche
I principali esponenti di questa scuola
sono: l'ingegnere meccanico
Frederick Taylor con i principi di
funzionamento della fabbrica, il
Taylorismo;
L'ingegnere imprenditore Henri
Fayol con i principi di funzionamento
della direzione, il
fayolismo;
E il fisolofo e sociologo Max Weber
con i principi di funzionamento della
burocrazia.
Questi tre autori osservano la realtà
industriale mutata dalle grandi
innovazioni tecnologiche e cercano di
razionalizzarla, proponendo delle
soluzioni.
In particolare, accomunati dalla
grande fiducia nel razionalismo,
nell'idea che sia per gli uomini, sia
per le organizzazioni, esistesse un
modo ottimo di organizzarsi, che
esistesse quella che si definisce
"One best way", cioè, l'unico modo
per poter essere ottimi.
Le imprese, se vogliono essere
efficienti, devono avere un solo modo
di organizzarsi.
Non è ammessa la varianza, la
varietà delle forme, perché in
contraddizione con i principi del
razionalismo. Quindi sotto questo
aspetto, l'uomo viene considerato
come un essere razionale e
individualista, il cui agire si fonda su
una logica economica, un soggetto
motivato da stimoli ed incentivi
estrinseci, ai
quali reagisce in modo meccanico,
ossia, con comportamenti prevedibili.
Osservazioni ed esperimenti
Taylor, osservando il lavoro degli
operai, individuò ciò che portava alla
caduta della produttività. L'operaio,
sebbene abbia una distribuzione dei
compiti, ha una certa autonomia
rispetto al modo di svolgere il lavoro
data dalla scelta di tempo.
All'epoca, però, gli operai erano
pagati a cottimo, cioè pagati in base
a quanto tempo impiegavano per
produrre un prodotto ed in base a
quanta merce producevano.
Secondo Taylor, questo, portava a
lavorare a rilento per la paura di
produrre troppo, in quanto la paga
per il cottimo veniva data avendo
come riferimento la produzione
media di un gruppo; quindi se un
gruppo produceva mediamente 10
scarpe al giorno il cottimo si attivava
per pagare gli operai se si superava
la media di squadra. Così facendo,
però, i lavoratori producevano
lentamente al fine di avere una
produzione media bassa e ottenere
un cottimo che scattasse ad un livello
basso.
Taylor aveva notato anche che i
settori delle organizzazioni non
crescevano in modo uniforme, gli
stessi manager che guidavano i
diversi settori erano persone
diventate manager proprio per la loro
bravura, ma si erano settorializzati
nelle loro conoscenze, quindi,
eccellendo solo nel loro settore.
Spesso infatti erano stati operai o
manovali diventati poi manager
proprio per il motivo delle loro
capacità ma comunque esperti solo
nel loro settore, per questo potevano
esserci
settori più eccellenti perché guidati
da manager più capaci ed altri invece
più scadenti nell'ambito della stessa
azienda.
Inoltre, non sempre la buona
organizzazione è la capacità di
profitto erano proporzionali: alcune
aziende ben organizzate erano
comunque infruttuose.
Un altro aspetto osservato era che le
esigenze dei lavoratori (che
chiedevano salari più alti) e dei datori
di lavoro (che chiedevano
manodopera a basso costo) erano in
conflitto.
Quindi era fondamentale ottenere un
incontro tra le due aspettative, tra
produttori e forza-lavoro, per
contrastare il fenomeno nato a causa
del capitalismo che aveva segnato un
conflitto tra una produzione che
voleva essere massima e a basso
costo ed una manodopera, con salari
bassi e spesso con lavori
dequalificanti, che chiedeva un
miglioramento delle sue condizioni.
Taylor fece osservazioni ed
esperimenti sul
campo di lavoro osservando il
trasporto dei materiali grezzi nei
depositi delle officine.
Vi erano squadre di operai che
avevano il compito di scaricare carri
ferroviari ammassando il materiale in
pile, per poi ricaricarlo su dei carri.
L'unico incentivo al lavoro era il
richiamo verbale, qualora si
allentasse il lavoro, sotto minaccia di
licenziamento, mentre l'unico premio
era quello di essere un bravo
operaio, sperando di crescere di
grado in una successiva e più alta
posizione lavorativa e ottenere un
salario più alto.
Quindi era un lavorare bene per
sperare di essere promossi.
Taylor diede l'incarico organizzativo
ad un tecnico che non aveva mai
svolto quel lavoro e selezionò poi un
gruppo di operai abili definiti first
class (gruppo sperimentale).
Scompose ed analizzò i singoli
movimenti considerando i tempi di
esecuzione e cronometrò il lavoro
tenendo conto anche
degli utensili che dovevano usare e
delle posizioni da assumere. Cercò di
considerare quali movimenti
potevano essere eliminati perché
considerati "falsi,inutili e pigri" e
definì il movimento lavorativo in
modo razionale, standardizzando
anche l'uso degli strumenti.
Si arrivo ad aumentare la produttività
avendo operai di primo ordine che
riuscivano ad aumentare il proprio
rendimento giornaliero, l'operaio
migliore era considerato un uomo
giusto al posto giusto.
Taylor aveva anche coinvolto il
lavoratore nella sua prestazione;
infatti, ogni giorno l'operaio riceveva
un talloncino con su scritto il lavoro
svolto il giorno precedente e, in
questo modo, incentivandolo a
migliorare la sua performance
lavorativa precedente, veniva
alimentata la ricerca del cottimo
personale e non quello di squadra.
Sapere quanto lavorato il giorno
precedente, portava il lavoratore ad
automigliorarsi e il
cottimo personale motivava di più
rispetto a quello di squadra perché
con quest'ultimo il proprio lavoro
veniva distribuito con gli altri,
portando ad un abbassamento del
proprio guadagno medio. In caso di
buona riuscita del proprio lavoro
l'operaio avrebbe ricevuto in cambio
una paga alta. Nel caso di un
insuccesso, invece, avrebbe subito
una perdita di paga.
Nel complesso, Taylor operò una
vera e propria ristrutturazione
dell'apparato direttivo, basata non più
su un Modello Gerarchico Lineare,
bensì su un Modello Funzionale
Gerarchico:
In alto la direzione, in basso il reparto
operativo, tra i due si configurava un
ufficio programmazione composto da
capi intermedi che ricevevano le
direttive dai piani alti ed erano capaci
di dare disposizioni a coloro che
erano nella base operativa.
Il lavoro viene suddiviso in modo che
ogni persona avesse il minor numero
di funzioni
(possibilmente una).
Critiche al Taylorismo
Le idee di Taylor furono usate da
molte aziende come base teorica del
loro impianto organizzativo, come ad
esempio la Ford, l'azienda di
proprietà di Henry Ford che, grazie
al suo lavoro, diede vita al fordismo.
Il metodo, in fondo, descriveva il
contesto nel quale si radicava e,
grazie alle sue basi teoriche, diede
origine ad un movimento, lo
Scientific Management.
Le intenzioni di Taylor erano buone,
ossia migliorare l'industria e i suoi
processi di produzione ma, per
qualcuno, furono considerate come
una sorta di sfruttamento del lavoro.
Le critiche infatti furono diverse,
addirittura si disse che questo
metodo prevedeva degli operai buoi,
uomini che non dovevano pensare
ma solo eseguire gli ordini,
delegando ad altri le decisioni. Alcuni
notarono la mancanza di
prospettive
psicologiche degli effetti del lavoro
sull'individuo. Il metodo, infine,
prevede anche un'eccessiva
parcellizzazione del lavoro e
compiti suddivisi, un solo compito a
persona che di sicuro garantisce
maggiore efficienza ma non tiene
conto delle ricadute psicologiche. Il
lavoro parcellizzato creava una
catena estremamente efficiente e
produttiva ma non teneva conto
dell'alienazione a cui andava incontro
lavorando sempre e solo nello stesso
modo. Il merito è quello di aver
cominciato a riflettere sul lavoro, a
non vederlo solo come attività per
produrre ed avere reddito ma sotto
una prospettiva più scientifica.
Teorie motivazionaliste
Agli inizi del 900 si sviluppano le
teorie motivazionaliste. Queste
teorie costituiscono un approccio
teorico che nasce dalle critiche alla
scuola classica. Le teorie
motivazionali nascono proprio
laddove la scuola classica si
fa sponsor di un modello di
organizzazione che determina
alienazione e depressione degli
operai.
Taylor parlò di divisione del lavoro
nella fabbrica, di parcellizzazione
estrema dei compiti e delle mansioni
insegnate ad ogni singolo operaio,
con un coinvolgimento intellettuale
nullo dell'operaio stesso, considerato
solo un braccio meccanico che vede
il suo lavoro routinizzato e l'unico
scopo perseguito era quello di
incrementare la produttività.
Ed è proprio partendo da questa
concezione della divisione del lavoro
all'interno della fabbrica che la scuola
motivazionale matura il suo
contributo. Il fulcro teorico di
questa scuola è l'analisi dei fattori
motivazionali alla base del
contributo lavorativo. Si parla
anche di scuola delle relazioni umane
perché l'operaio, ma in generale
l'uomo all'interno della fabbrica, deve
essere considerato innanzitutto come
essere umano, dotato di
una sua individualità, di socialità, di
un suo profilo caratteriale, di proprie
attitudini, di propri limiti cognitivi e,
quindi, considerato non solo "braccia
senza né testa né sentimenti".
La scuola motivazionale si
caratterizza per un particolare
approccio metodologico al problema,
che vede un forte grado di
empirismo o una propensione per i
casi reali e non per le grandi
enunciazioni teoriche. Non si
ricercano principi scientifici come la
scuola classica ma si realizzano studi
empirici sviluppati all'interno delle
aziende. Esponenti principali di
questa scuola sono:
Lo psicologo Elton Mayo, il dirigente
aziendale Chester Barnard, lo
psicologo David Mc Clelland, lo
psicologo Abraham Maslow,
l'economista Chris Argyris, lo
psicologo Frederick Herzberg, e,
infine, l'economista e psicologo
Douglas McGregor.
La scuola delle relazioni umane:
Elton Mayo
Elton Mayo è stato uno psicologo e
sociologo considerato un po' una
figura atipica per leccezionale rigore
dimostrato nelle sue teorie che
sottoponeva a confronto continuo con
risultati oggettivi.
In collaborazione con i suoi colleghi
di Harvard, fece i suoi esperimenti in
campo lavorativo nelle filature di
un'azienda tessile di Philadelphia.
Ha dato molta importanza ai fattori
umani e alle relazioni che si
instaurano nei contesti lavorativi.
Ciò che era stato riscontrato era che
nei periodi di massimo sforzo
l'azienda tessile era stata costretta ad
assumere 100 unità, usandone però
di fatto solo 40 perché il reparto di
filatura si caratterizzava per un
continuo turnover. L'azienda, alla
fine, si ritrovava in difficoltà
organizzative e produttive anche
perché il turnover implicava un
aumento dei costi di produzione e
nello
stesso tempo incrinava l'efficienza
nell'organizzazione.
Mayo fece le sue osservazioni
notando che il lavoro in filatura
impiegava una certa sorveglianza
continua delle macchine anche se
l'attenzione non veniva assorbita
completamente. I lavoratori, però,
erano comunque in continua tensione
ed era proprio questa continua
tensione che portava al turnover.
Prima indagine: Mayo decise di
sottoporre alcuni operai di questa
azienda tessile di Philadelphia ad un
esperimento, per indagare meglio il
fenomeno dello stress prolungato che
li attanagliava.
Nella prima fase, fu preso un terzo
del reparto e agli uomini fu detto che
avrebbero potuto fare delle brevi
pause di 10 minuti ciascuna, una la
mattina e altre due nel pomeriggio,
quando farle era a scelta libera degli
operai.
Osservando i cambiamenti, Mayo
notò che la
produzione aumentava in tutto il
gruppo coinvolto nel test ma
interessava anche gli altri operai del
reparto, facendo diminuire il bisogno
di turnover. Nella seconda fase
dell'esperimento, furono introdotte
due pause ottenute per merito al
raggiungimento degli obiettivi
prefissati, ma la situazione tornò alle
condizioni iniziali, quindi un turnover
aumentato e una produzione
diminuita.
Nella terza fase dell'esperimento
furono date delle pause senza
condizioni, per cui si decise di
fermare anche le macchine in modo
che anche i capi reparto potessero
riposare.
Come risultato, Mayo vide che si
avevano massimi risultati in poco
tempo, con bisogno di turnover
diminuito e produzione complessiva
delle parti aumentata.
Quindi, si erano le create le
condizioni della prima fase
dell'esperimento.
L'esito finale dell'esperimento fu che
le persone si accordarono per
decidere
singolarmente come usufruire delle
pause che avevano a disposizione, in
modo da garantire il movimento
continuo dei macchinari. Tutto ciò
incrementò la coesione ed il senso
di autonomia nel gruppo che,
vedendosi responsabilizzato,
aumentò la produzione e mostrò
meno necessità di intervenire con il
turnover.
Seconda indagine: Mayo fece una
seconda indagine nel campo del
montaggio dei relè telefonici (un
componente elettromeccanico) che
durò dall'aprile del 1927 al giugno
1932. L'esperimento prevedeva di
separare un piccolo gruppo di
operaie addette al montaggio dei relè
per valutare l'effetto su di esse e del
mutamento delle condizioni
lavorative. Lo spazio sperimentale
era una stanza ben illuminata
appositamente allestita e separata
dal resto del gruppo, chiamato test
room.
Le operaie non sapevano che la loro
produzione era controllata.
L'esperimento fu
articolato in periodi dalla durata
variabile e caratterizzati da alcuni
elementi specifici osservati durante il
periodo:
Primo periodo: viene analizzata la
produttività delle singole operaie a
loro insaputa per ottenere una
misurazione di partenza della loro
produzione di base;
Secondo periodo: un gruppo scelto
di 6 operaie viene prelevato dall'area
di lavoro comune e inserito nella test
room, analizzando la loro produzione
senza introdurre alcun elemento
innovativo;
Terzo periodo: si introduce un primo
elemento innovativo, un nuovo
sistema di pagamento. Le operaie,
le quali prima erano pagate in
funzione della produzione
complessiva di tutte e 100 quelle
assunte dall'azienda, ora venivano
pagate in funzione della produzione
delle sei operaie coinvolte nel test,
quindi con un salario più
proporzionale al proprio sforzo;
Quarto periodo: vengono inserite le
pause di 5 minuti ciascuna, una alle
10 e una alle 15.
Al termine di questa prima fase,
Mayo notò che la produzione era
aumentata sensibilmente.
Quinto periodo: le due pause
introdotte nel quarto periodo vengono
prolungate fino a 10 minuti circa.
Grazie a questi cambiamenti, la
produzione giornaliera e settimanale
aumenta;
Sesto periodo: vengono introdotte
ulteriori 6 pause di 5 minuti
ciascuna che provocano una
lamentela delle operaie per
l'eccessive interruzioni, con
conseguente lieve pregresso nella
produzione;
Settimo periodo: questa è la fase
centrale dell'esperimento, in cui
Mayo osserva un calo produttivo
attorno alle 9:30 del mattino in
seguito agli stimoli della fame. Si
decide, così, di abolire le piccole
pause e inserire un intervallo di 15
minuti attorno alle 9:30 e ripristinare
le due pause di 10 minuti introdotte
nel quinto periodo. Si nota un
aumento della produzione più alto dei
precedenti periodi;
Ottavo periodo: il gruppo può
concludere la giornata di lavoro con
mezz'ora di anticipo, alle 16:30;
Al termine di questa seconda fase,
Mayo notò un aumento
complessivo della produzione.
Nono periodo: viene ripristinato
l'orario di uscita canonico delle 17,
con conseguente leggero calo nella
produzione settimanale, a fronte di
un incremento di produzione
giornaliero;
Decimo periodo: si reintroducono
le innovazioni del settimo periodo,
quindi 15 minuti di pausa alle 9:30 e
altre due pause di 10 minuti. Qui
viene osservato il massimo assoluto
per la produzione.
Undicesimo periodo: viene
introdotta la settimana corta (niente
lavoro di sabato) e questo provoca
una produzione giornaliera
aumentata ma non in maniera così
significativa da compensare le ore
lavorative del sabato mancanti,
nonché una riduzione
proporzionale della produzione
settimanale nel suo insieme;
Dodicesimo periodo: vengono
inserite tutte le condizioni iniziali ed
effettuate delle interviste, con
conseguente produzione che registrò
i suoi massimi;
Tredicesimo periodo: reintrodotte le
innovazioni del settimo periodo,
con un aumento della produzione;
Quattordicesimo periodo: si notano
gli stessi esiti dell'undicesimo
periodo;
Quindicesimo periodo: si notano gli
stessi esiti del tredicesimo periodo.
Esiti: le operaie produssero una
quantità di relè superiore a quella
iniziale. L'aumento della produzione
era indipendente dall'introduzione
delle pause, le operaie non si erano
lamentate per la stanchezza, nessun
problema di salute registrato, una
condizione fisica complessiva
migliore della precedente e, infine, un
turnover diminuito dell'80%.
Questo perché la fatica era
diminuita, c'era
stato un aumento del salario che
dava soddisfazione alle operaie che
si sentivano gratificate per il loro
lavoro, ma soprattutto era cambiata
la loro mentalità.
C'era un clima di collaborazione che
rendeva superflua la sorveglianza e
portava le operaie a non concentrarsi
sulla fatica.
Quindi l'influenza determinante era
proprio quella delle relazioni sociali
che, incidendo sul morale delle
operaie, aumentava il loro senso di
soddisfazione ed accresceva anche
la produttività. Quindi la ricerca di
Mayo ha dimostrato che l'uomo è
motivato sia dalle istanze
economiche e sia dai bisogni
sociali.
Infatti, i confronti interpersonali danno
il senso della propria identità e il
bisogno di relazione è fortemente
sentito nella società industriale.
Secondo Mayo, la nuova
organizzazione del lavoro deve
tendere a tenere insieme sia
l'elemento economico che quello
sociale.
La scuola di Mayo, infatti, viene
chiamata
Scuola delle Relazioni Umane e la
differenza rispetto a Taylor è
proprio l'attenzione al fattore
umano con l'intento di creare un
ambiente socialmente gradevole ed
armonico.
Tutto questo significa dare
importanza agli aspetti informali
centrati sulla collaborazione tra
direzione ed operai, dove la direzione
sa ascoltare, consigliare ed essere
sensibile ai bisogni dei lavoratori.
Per far fronte all'alienazione del
lavoro, Mayo aveva notato, che gli
operai creavano autonomamente
gruppi informali, dove la relazione
sosteneva la motivazione al lavoro ed
era, quindi, il fattore da curare dentro
le organizzazioni lavorative se si
voleva tutelare la produzione.
Infine, la produttività di
un'organizzazione non dipende
semplicemente dal singolo individuo
ma è determinata da tutto il gruppo
dei lavoratori.
Quindi, la motivazione dei lavoratori
non è dettata solamente dal salario
ma anche dal
clima, il gruppo informale, la fiducia, il
coinvolgimento di tutti gli operai e la
creazione di strumenti organizzativi
alternativi (ad esempio il nido
aziendale).
Limiti: Mayo non ha saputo rendere
conto delle insoddisfazioni che si
sperimentano nel luogo di lavoro e
che potrebbero rischiare di far
riportare l'ambiente lavorativo alle
situazioni iniziali.
Non ci fu, quindi, un vero e proprio
superamento del Taylorismo.
Mayo però, rispetto a Taylor, ha avuto
l'attenzione per la soggettività del
lavoratore, dando importanza al
fattore umano.
Taylor, invece, era interessato
solamente a migliorare la produttività,
senza tener conto del benessere dei
singoli lavoratori.
Ciò che è accaduto con il lavoro di
questi autori è stato il porre
attenzione verso la sofferenza, lo
sfruttamento e la dipendenza che
spesso regnava nel mondo del
lavoro.
Con il tempo si formeranno le
istituzioni di tutela del lavoratore
come le organizzazioni sindacali
(che per Taylor non avevano ragione
di esistere visto che organizzando il
lavoro, aumentando la produzione e
migliorando la paga si aveva il pieno
accordo tra capitalisti e operai), i
datori di lavoro comprenderanno che
per raggiungere buoni risultati
occorre creare un clima di
collaborazione e dare attenzione
anche alle aspirazioni dei lavoratori.
I successivi studi delle Human
Relations si focalizzarono sui gruppi,
sull'effetto che aveva l'appartenenza
o meno al gruppo da parte dei singoli
e, infine, sul rendimento individuale
complessivo.
L'interesse individuale e
istituzionale: Chester Barnard
Chester Irving Barnard era un
dirigente aziendale americano,
amministratore pubblico e autore di
lavori pionieristici in teoria della
gestione e studi organizzativi. Non è
un accademico puro, inizia una
carriera manageriale alla "A.T.T.",
l'American Telephone and
Telephone Company, per poi uscire
da questo percorso manageriale per
fare il presidente della Rockefeller
Foundation, una fondazione
americana molto importante
finanziata dalla famiglia Rockefeller.
In seguito, dalla carriera manageriale
passa al mondo della ricerca,
diventando presidente dell'American
Science Foundation, una struttura
pubblica di ricerca scientifica.
L'autore parte dal presupposto che
gli interessi del singolo non sono
in linea con quelli
dell'organizzazione. La motivazione,
pertanto, si incentiva solo quando i
bisogni dell'organizzazione e i bisogni
del singolo si integrano.
Per far questo, Barnard, sviluppa la
sua riflessione partendo dalla
distinzione di due termini: l'efficacia e
l'efficienza.
L'efficacia è associata all'istituzione
ed è la capacità di un'organizzazione
di conseguire un certo livello di
profitto, di quota di mercato e di
livello di fatturato.
L'efficienza è del singolo individuo
e riguarda la soddisfazione delle
aspettative personali intese come
conseguimento dei fini del soggetto.
Il soggetto se vede che in quello che
fa le sue aspettative sono
soddisfatte, allora continua il suo
sforzo, ovvero l'impegno lavorativo,
altrimenti non continua nel suo
impegno e questo va a condizionare
il suo livello di efficienza.
L'istituzione mira a soddisfare le
esigenze del capitalista, mira a
finanziarsi ed è efficace sia quando
riesce a mantenersi
economicamente, sia quando riesce
a garantire un elevato livello di
soddisfazione individuale nei suoi
lavoratori (efficienza lavorativa).
Barnard formula un principio che
tiene conto di questi due poli e
descrive il rapporto che c'è
tra l'interesse e il compenso. Il
principio istituzionale afferma che
l'efficacia dell'istituzione Non può
essere raggiunta se non si tiene
conto dei fini personali e quindi
dell'efficienza individuale. Affinché si
realizzi il fine individuale è necessario
che l'individuo percepisca un
compenso che non è solo di tipo
monetario. Infatti, l'individuo, accetta
di cooperare e di condividere il fine
istituzionale se riceve un compenso,
ovvero, una gratificazione, che sia
sufficiente ed anche superiore ai suoi
sforzi. Questo compenso non è solo
monetario ma anche fatto di
gratificazioni morali, del sentirsi a
proprio agio nelle relazioni interne al
gruppo e anche in termini di
prospettive di carriera. Il lavoratore
non si sforza solo per avere le
ricompense monetarie ma anche per
la considerazione dei suoi valori,
nella speranza di ricevere delle
ricompense morali. Lo sforzo del
lavoratore è determinato da questa
ricompensa e dipende da una sorta
di
proporzione, ossia dell'entità della
ricompensa moltiplicata per la
probabilità che essa accada
(esempio dello studio di minor sforzo
perché il docente non mette mai 30).
Lo sforzo porta ad una prestazione
che, a sua volta, dipende dal grado di
competenza, di capacità e di abilità
che ognuno possiede; ognuno,
quindi, compie sforzi diversi e offre
prestazioni diverse.
Uno sforzo può essere lo stesso per
due lavoratori ma le prestazioni
saranno diverse perché le capacità
sono diverse (esempio di matematica
e psicometria, stesso studio del
collega abile in matematica ma voto
diverso).
La prestazione individuale, infine,
dovrebbe avere una soddisfazione e
delle ricompense che possono
essere intrinseche (gratificazioni di
tipo psicologico, come un grazie
ricevuto da un superiore) ed
estrinseche (compenso monetario).
In questo nuovo modo di intendere
l'azienda cambia anche il ruolo del
dirigente capo.
L'aumento di produttività dipende
dalla sua capacità di comunicare idee
e di coinvolgere i dipendenti nelle
decisioni che vengono prese. Tutto
questo incrementa il compenso
intrinseco, ovvero la soddisfazione,
che incrementa la produttività perché
il dipendente si attiva in questo
senso.
Il principio di autorealizzazione:
David Mc Clelland
Intorno agli anni 50, si sviluppa
all'interno della teoria
motivazionalista e dai contributi
psicoanalitici di Sigmund Freud,
un'attenzione particolare alle
motivazioni dell'individuo. Questa
nuova prospettiva porta gli studiosi di
organizzazione a studiare le
motivazioni soggettive partendo dalla
storia psicoanalitica della persona,
ancor prima del suo ingresso in
azienda. Il fondatore della
psicoanalisi arrivò ad affermare che
le motivazioni sono inconsce.
Al proprio interno esistono delle
motivazioni
che l'individuo stesso si porta dietro,
in qualsiasi campo di attività, e che
ne condizionano l'operato. È
possibile rinvenire influenze
significative di tale approccio anche
nella teoria organizzativa, in
relazione, soprattutto, ai concetti di
motivazione al lavoro e di
autorealizzazione. In particolare lo
psicologo David McClelland, con
l'elaborazione del concetto di
autorealizzazione, analizza le
implicazioni dell'approccio
psicoanalitico sull'organizzazione
aziendale.
Il punto di partenza di McClelland è
rappresentato dal fatto che ogni
persona porta con sé delle
motivazioni inconsce, tali da essere
trasferite anche all'interno
dell'ambiente di lavoro.
Al contrario della scuola
motivazionalista, che ha studiato il
comportamento dei capi in rapporto
alle persone e, di conseguenza, i
condizionamenti che potevano
derivare dall'ambiente di lavoro nei
confronti delle
persone, McClelland afferma che
sono gli individui a portare le
proprie motivazioni all'interno del
luogo di lavoro e all'interno
dell'organizzazione di cui fanno
parte.
McClelland individua due tipi di
motivazione che si formano nel
percorso di vita del lavoratore a
partire dalla sua infanzia e nella
relazione di identificazione con le
figure parentali:
La motivazione al successo:
caratteristica dei soggetti definiti
achiever (realizzatori/trici), lottano
per raggiungere un certo predominio,
sono ambiziosi, decisi, aggressivi,
con una buona propensione al rischio
per l'azione. In psicoanalisi sono
considerati soggetti con
comportamento reattivo (di rifiuto a
identificarsi con il modello
comportamentale del genitore dello
stesso sesso), un comportamento
spesso rinvenibile nei capi di
azienda dediti all'azione. Sono
persone che amano il comando che
prediligono il fare più che il parlare,
vogliono il successo e
sono disposti a passare su tutto per
ottenerlo;
La motivazione alla sicurezza:
caratteristica dei soggetti che
mostrano alti livelli di need for
affiliation, ovvero il bisogno di una
persona di provare un senso di
coinvolgimento e appartenenza
all'interno di un gruppo sociale, sono
persone passive che rimangono a
guardare e preferiscono la tranquillità
e la stabilità piuttosto che l'azione
rischiosa. Non amano gli ostacoli,
non sono vendicativi, sono più filosofi
che attori e spesso sono oggetto di
ironia.
Dietro la tesi dell'autorealizzazione
attraverso la soddisfazione del need
for achievement, vi è uno dei
caposaldi della ideologia diffusa,
negli anni 50, presso la classe media
americana, ovvero: l'amore per il
successo, l'imprenditorialità, nessun
timore per il lavoro duro purché vi sia
guadagno e risultato. Quindi questo
contributo di natura psicoanalitica
trova conferma rispetto ad un
determinato periodo storico e ad uno
specifico contesto sociale, in cui
l'elevato sviluppo industriale favoriva
l'affermazione degli achiever, degli
individui alla ricerca di una
realizzazione da conseguire
attraverso il lavoro.
La teoria cognitiva
Questa considera come
un'informazione viene percepita e
interpretata dentro l'organizzazione e
come viene anche trasformata in
comportamento, sia a livello di singoli
che di organizzazione.
L'individuo viene messo al centro del
progetto e si considera la relazione di
individui insieme con lo scambio di
conoscenze dentro le organizzazioni,
focalizzando l'importanza sul dialogo
per la socializzazione.
L'individuo è considerato importante
nell'organizzazione, questo significa
che di esso bisogna considerare
l'importanza dei suoi valori, della sua
storia, dei suoi percorsi di vita
individuale e come questi incidono
nella stessa organizzazione.
Per capire meglio il pensiero della
teoria
cognitivista, si può dire che le
organizzazioni hanno meccanismi e
processi tramite i quali selezionano,
immagazzinano ed elaborano le
informazioni e assumono decisioni.
Il problema chiave è come si crea la
conoscenza nelle organizzazioni, che
cos'è, o se esiste. La conoscenza è
come un recipiente dove in parte
entrano informazioni, dove le si
immagazzinano, le si elaborano e
dove si può decidere. La conoscenza
quindi è un contenitore dove c'è tutto
questo e i recipienti sono gli individui.
Quindi, la conoscenza delle
organizzazioni non esiste, però,
esiste la conoscenza degli individui
che le compongono.
Organizzazione e cultura
Il concetto di organizzazione
Le organizzazioni nascono perché ci
sono attività che non possono essere
svolte da una sola persona, per cui è
necessaria una forma di
aggregazione con la condivisione di
un obiettivo comune che definisca le
attività da svolgere.
Aggregazione significa che il lavoro
deve essere diviso, esistono infatti
determinate mansioni da affidare a
diverse persone e queste attività poi
vanno coordinate, quindi è
necessario creare una macrostruttura
e prevedere quanto deve essere
grande un'organizzazione, che reparti
deve avere,
quanti sono i gruppi da coinvolgere,
quali funzioni deve avere per la
produzione stessa, quanti gruppi
operativi sono necessari.
L'organizzazione poi ha bisogno della
gestione del potere avendo a che
fare con gruppi di persone ed è
necessario un sistema decisionale
più o meno centralizzato. La gestione
del potere può essere organizzata in
modo verticale con un forte controllo
e centralizzazione, oppure
decentralizzato e quindi orizzontale.
Henry Mintzberg studioso di scienze
gestionali, ricerca operativa,
organizzazione e strategia, definisce
l'organizzazione come: il complesso
delle modalità secondo le quali viene
effettuata la divisione del lavoro in
compiti distinti e quindi viene
realizzato il coordinamento di tali
compiti.
Quindi, un insieme di persone che
hanno determinate attività ordinate al
raggiungimento di un obiettivo
comune, ed è questo che forma
l'organizzazione. È la
cultura ciò che definisce l'identità
dell'organizzazione.
La cultura organizzativa
La cultura organizzativa è
strettamente connessa con la
presenza umana all'interno
dell'organizzazione. Infatti, essa
esiste perché nell'organizzazione ci
sono due persone, c'è il fattore
umano. La presenza delle persone
significa che nell'organizzazione ci
sono idee e, pensieri, valori, c'è un
codice di condotta che serve per
orientarsi, sistemi di valori condivisi e
quindi non solo personali. I gruppi
quando hanno un'esperienza insieme
sviluppano una cultura, avere una
cultura è una proprietà dei gruppi e
questa cultura è proprio l'ossatura
dell'identità.
Lo psicologo Edgar Schein,
nell'ambito degli studi sulla struttura
organizzativa, sostiene che il pericolo
che si corre quando si cerca di capire
una cultura è quello di semplificarla.
La cultura di un'organizzazione, pur
manifestandosi in aspetti fisici e
simboli dell'azione organizzativa, non
è qualificabile come aspetto tangibile
di essa.
Gli aspetti sono: riti e rituali
dell'impresa, il modo in cui si fanno le
cose "dalle nostre parti", il modo con
cui si esprime l'azienda e i propri
valori fondamentali.
Per non schematizzare e semplificare
troppo la cultura, occorre entrare nel
suo profondo e nei suoi tre livelli nei
quali essa si esprime:
Artefatti, le manifestazioni visibili:
come ad esempio l'architettura
dell'organizzazione, la tecnologia, la
disposizione degli uffici, il modo di
vestire. È un livello facile da
individuare ma non da interpretare,
non racchiude tutta la cultura;
Valori: sono dichiarati dall'impresa e
si vedono attraverso le strategie
adottate, le modalità produttive, gli
obiettivi prefissati, le filosofie, il
comportamento desiderato;
Assunti taciti e condivisi: le logiche
del
comportamento organizzativo. Il
comportamento organizzativo ha una
sua logica vincente, pensata dal
fondatore e condivisa da chi fa parte
dell'organizzazione. Questo
fondatore o leader carismatico ha
avuto, ad un certo punto, un'idea che
si è rivelata vincente, una logica che
ha attivato un comportamento che si
tramanda e che quasi
inconsciamente viene appresa.
Vengono dedotti dagli artefatti da
valori visibili.
Schein distingue due tipi di società,
basandosi sui concetti di struttura e
artefatti:
Società multi: ogni dipendente ha un
ufficio, non si può arrivare ad una
decisione senza aver discusso nei
dettagli e considerato il punto di vista
di ciascuno, nonché il rispetto della
privacy e l'opportunità di riflettere a
fondo. Le riunioni sono formali e in
esse i superiori annunciano le loro
decisioni e indicano quanto i
dipendenti devono eseguire;
Società action: gli spazi sono aperti
con i dipendenti nella stessa stanza,
è
fondamentale il lavoro di squadra,
necessario anche il consenso di chi
deve prendere effettivamente le
decisioni.
Dal punto di vista dei valori, invece,
entrambi i due tipi di organizzazione
sono: orientati al cliente, puntano al
lavoro di squadra, vogliono la qualità
del lavoro e sono interessate anche
all'integrità. Insomma, stessi valori
ma con diversi stili lavorativi e di
struttura organizzativa. Sono
entrambi modelli di successo, hanno
entrambe produzione e qualità di
mercato, ma per sapere il nocciolo
più profondo della cultura che li
differenzia occorre guardare alla
storia e alle motivazioni dei fondatori,
arrivare dritti agli assunti taciti e
condivisi:
Multi: il fondatore ha elaborato un
brevetto e ha ottenuto successo, in
questa società per raggiungere una
buona decisione c'è bisogno della
ricerca e della riflessione individuale,
la credenza fondamentale poi è che
la gerarchia, la disciplina è l'ordine
sono un
modo efficace per gestire
un'organizzazione;
Action: il fondatore crede che la
gente debba discutere in dettaglio e
condividere le decisioni, insieme
vengono creati i prodotti che hanno
successo sul mercato, queste
condizioni e valori diventano
gradualmente condivisi e dati per
scontati.
Per Schein la cultura di
un'organizzazione è:
Profonda: quando si ha imparato ciò
che funziona, ciò che è vincente, si
sviluppano delle convinzioni e degli
assunti che alla fine non saranno più
coscienti, diventano come regole
condivise e tacite, regole su come
fare le cose, come pensarle e come
sentirsi;
Ampia: quando un gruppo impara a
vivere nel suo ambiente allora impara
anche qualcosa sulle relazioni, le
convinzioni e gli assunti appresi.
Convinzioni e assunti danno forma
alla vita quotidiana, si impara come
agire con il capo, quale
atteggiamento occorre assumere
dentro l'organizzazione;
Stabile: ogni gruppo mantiene i suoi
assunti
culturali, questo per una necessità di
stabilità e soprattutto perché abbiamo
bisogno di avere significato e
prevedibilità nella vita.
Per capire meglio questi concetti, un
esempio è la Mulino Bianco che ha
un assunto, ovvero, quello della
famiglia.
Anche se l'azienda si è modificata nel
tempo i suoi assunti di base sono
rimasti fermi e, nel tempo l'azienda
ha sempre modo di riflettersi in essi.
Paradigma culturale
Il paradigma culturale sarebbe
l'insieme degli assunti di base, ossia
le logiche di azione del
comportamento organizzativo tacito e
acquisito dentro l'azienda, e le
risposte apprese di quel
determinato gruppo che in un certo
periodo di tempo ha ritenuto efficaci
per rispondere a certi problemi.
Quindi il paradigma è un insieme di
assunti che formano un modello
coerente. La cultura di
un'organizzazione serve per far
sopravvivere l'organizzazione stessa,
e perché un'organizzazione viva
occorre che ci sia un integrazione
interna, ovvero un sistema di
comunicazione, un linguaggio
comune ed anche delle comuni
categorie concettuali è un
adattamento esterno, ossia il modo
con cui un gruppo e leader
raggiungono obiettivi comuni e
reagiscono ai cambiamenti
dell'ambiente esterno. Grazie alla
fusione presente nell'organizzazione,
alla compartecipazione e dalla
condivisione delle idee è più facile
adeguarsi al mondo esterno e ai
cambiamenti, questo garantisce la
sopravvivenza dell' organizzazione
stessa. L'integrazione interna e la
capacità di adattamento permettono
agli individui una certa sicurezza e
calma insieme alle responsabilità
necessarie per reagire ai fattori
ambientali esterni che potrebbero
compromettere l'equilibrio
dell'organizzazione.
La cultura e la condivisione di un
senso
comune e la consapevolezza di
avere una missione centrale
permette di concentrare l'attenzione
solo sulle percezioni dello specifico
ambiente offrendo stabilità e quindi
quella calma e quella responsabilità
che permettono all'organizzazione di
affrontare un cambiamento.
I tipi di cultura
Si possono definire quattro tipi di
cultura rappresentati graficamente
con questi elementi:
Due assi: quello delle necessità
dell'ambiente (asse X) e quello del
focus strategico (asse Y);
Due poli: la flessibilità e la stabilità.
I tipi di cultura sono:
Cultura adattiva: ha come focus
l'ambiente esterno, è orientata al
cliente, all'innovazione ed alla
creatività. Si assume rischi pur di
tradurre i segnali che vengono
dall'esterno ed è capace di cambiare;
Cultura per obiettivi: orientata al
cliente
senza necessità di cambiamenti
esterni, ha una visione chiara dello
scopo ed il suo focus è sugli obiettivi;
Cultura di clan comunità: il focus è
interno anche se l'organizzazione è
inserita in un ambiente esterno molto
flessibile, si concentra sul
comportamento e sul coinvolgimento
e la partecipazione dei membri, si
punta molto sull'identità individuale e
collettiva;
Cultura burocratica: il focus è
interno, l'orientamento coerente, si
mira alla forte stabilità interna con il
controllo gerarchico, i fattori non
cambiano nel tempo e la proiezione
tutta verso l'ambiente interno.
La sottocultura
Quando le dimensioni
dell'organizzazione crescono è
probabile che si formino delle
sottoculture nell'organizzazione,
ovvero gruppi con una cultura
propria. La presenza di queste
sottoculture può essere
rafforzativa, quando si intensificano i
sentimenti e le partecipazioni, oppure
deleteria, quando entrano in conflitto
con la cultura dominante.
La leadership
Il termine viene dall'inglese "to lead",
ovvero condurre.
Condurre viene dal latino "cum
ducere" ossia tirare insieme.
Il leader è colui che esercita
influenza su un gruppo più degli altri
membri e influenza gli altri membri
più di quanto esso stesso viene
influenzato. È una persona che
dentro l'organizzazione fa la
differenza, sa accogliere le
innovazioni, le fa sue, le propone e
inoltre coinvolge gli altri. Il suo
compito è quello di motivare, è un
innovatore
ed ha un effetto importante
sull'organizzazione perché meglio
degli altri si adatta e si adegua al
contesto moderno. Il leader è
qualcuno che esercita la sua
influenza in un modo particolare,
ovvero riesce ad ottenere un
consenso volontario rispetto a certi
obiettivi del gruppo che egli propone,
riesce a persuadere gli altri e andare
verso obiettivi comuni.
Il leader è una persona che ha:
Potere, cioè, ha la capacità di
influenzare gli altri assicurandosi la
loro adesione e la loro compiacenza;
Autorità, ovvero gli altri gli
riconoscono un potere naturalmente
secondo regole definite e legittime;
Controllo, nel senso che si assicura
che l'accordo preso con il gruppo-
organizzazione sia rispettato.
Quando si parla di leader si pensa
subito ad una persona che possiede
leadership, invece, la leadership è
un processo e non una
caratteristica di una persona. È un
fenomeno complesso, frutto di
un'interazione di alimenti quali:
Il leader, che ha competenze,
motivazioni, una legittimità del suo
ruolo e nelle caratteristiche personali;
I componenti del gruppo, che
interagiscono portando le loro attese,
le loro competenze, le loro
motivazioni e le loro caratteristiche
personali;
La situazione, cioè la struttura
sociale in cui ci troviamo, il compito
da svolgere, le norme e la storia del
gruppo.
Ci sono delle differenze tra il
manager e il leader:
Il manager è colui che pianifica,
controlla e dirige . Garantisce la
prevedibilità e l'ordine per venire
incontro alle esigenze
dell'organizzazione, organizza e
struttura le risorse in relazione a
quanto pianificato, si assume delle
responsabilità in ordine ai risultati che
occorre perseguire e la sua
attenzione è rivolta alle cose da fare
ed alle strategie più idonee da
seguire.
Il leader promuove il cambiamento in
ordine ai cambiamenti della società,
dei mercati, delle tecnologie, dei
clienti. Permette che vengono
considerati nuovi obiettivi e sviluppa
nuova motivazione, ispira impegno,
realtà e coinvolgimento e, infine, il
focus della sua attenzione è sulle
persone, sul clima e sul contesto in
cui l'organizzazione si trova.
Quindi possono esserci manager che
non sono per forza dei leader, ma il
contrario è normale, ossia che il
leader nell'organizzazione è un
manager.
In merito alla leadership, esistono
delle teorie che la spiegano: la teoria
dei tratti, la teoria degli stili di
leadership, le teorie di contingenza
e teorie nuove.
Contenziosi, contrasti e
contrarietà
Quando ci si relaziona con qualcuno
c'è sempre e inevitabile esperienza
del conflitto. Occorre tener conto che
il conflitto è naturale e umano, non è
una qualità individuale ma
relazionale, non è una patologia della
relazione ma è la relazione stessa. Il
conflitto non è una malattia, lo
diventa se non viene regolato. Il
conflitto quindi si trova nelle
organizzazioni, e mina sull'emotività
e la psicologia dei soggetti, può
creare disarmonia e fallimento
dell'obiettivo. Esso si manifesta
dentro un gruppo quando nel gruppo
le persone per via del lavoro
dipendono l'uno dall'altro ma
presentano anche punti di vista
diversi, ma anche interessi ed
obiettivi che contrastano.
A questo punto interviene
l'importanza del leader che deve
sapere che il conflitto è un
componente naturale del gruppo e ha
anche un potenziale produttivo
perché stimola il pensiero, condensa
prospettive differenti, aiuta i membri a
considerare i fattori chiave delle
decisioni da prendere.
Il conflitto può essere costruttivo o
distruttivo. È distruttivo quando
interferisce sull'efficacia del lavoro
svolto. Distrugge quando la
comunicazione viene effettuata per
avere ragione delle proprie idee e
delle proprie soluzioni, distrugge
quando crea chi perde e chi vince, e
distrugge quando alcuni membri
pensano che solo alcuni di loro
possono affermarsi sugli altri con i
loro punti di vista che chi perde deve
accettare. Il conflitto che distrugge lo
si riconosce perché ci sono alcuni
sintomi, come una
competizione, l'attenzione solo a
beneficio del singolo, le soluzioni
sono a beneficio di un singolo o un
piccolo gruppo e il gruppo è chiuso e
non accetta altro opinione
dall'esterno.
La comunicazione è sulla difensiva,
permalosa, resistente al
cambiamento per cui la novità viene
vista come minaccia al modo solito di
fare le cose.
Il conflitto è costruttivo quando si ha
la consapevolezza che il disaccordo
è naturale è proprio delle dinamiche
dei gruppi e può aiutare a
raggiungere obiettivi comuni. Questo
tipo di conflitto non nega la
cooperazione nell'ascolto delle idee
differenti, e delle loro opinioni con
interesse e attenzione, la
comunicazione quindi non viene
attuata per prevaricare ma proprio
per cercare obiettivi e punti comuni.
I sintomi del conflitto costruttivo sono:
la cooperazione, l'attenzione a
benefici nel gruppo, le soluzioni
prese sono a favore di
tutti e non di vincitori, il clima è aperto
e si accettano anche suggerimenti e
proposte esterne e, infine, la
comunicazione supportiva, c'è
interesse per l'opinione altrui, si
ascolta con empatia dando il proprio
feedback.
Lo stress
Lo stress è una funzione di cui
l'organismo umano dispone per far
fronte alle pressioni e alle minacce
esterne e per adattarsi alle condizioni
dell'ambiente di vita. Quindi, è una
componente essenziale del nostro
vivere.
È una reazione aspecifica
dell'organismo alle esposizioni del
nostro stesso organismo a stimoli e
sollecitazioni. Le cause dello stress
sono da ricondurre a tre componenti:
stressor, individuo, ambiente
dentro il quale individuo e stressor
interagiscono.
Lo stressor è un accadimento, un
agente
nocivo qualsiasi che può indurre una
sindrome generale di adattamento.
Questi accadimenti possono essere
di tipo fisico come shock elettrico,
esposizione al freddo; psicologico
come una prova o un compito; e
psicosociale come un lutto o una
separazione.
La risposta dipende molto
dall'intensità, dalla frequenza e dalla
durata dello stimolo, si vengono così
a creare degli scompensi e
disequilibri che possono scatenare
una condizione di malessere.
Quando la persona sta in una
situazione di stress, le dimensioni
umane sulle quali lo stress può
incidere sono quattro:
Livello fisico: problemi alla schiena,
si indebolisce il sistema immunitario,
disturbi cardiaci e ipertensione;
Livello cognitivo: difficoltà di
concentrazione, perdita della
memoria, scarsa propensione ad
apprendere cose nuove, ridotta
capacità decisionale;
Livello comportamentale: abuso di
sostanze,
comportamenti distruttivi e
autolesionistici;
Livello emozionale: irritabilità, ansia,
disturbo del sonno, depressione,
ipocondria e problemi relazionali.
Nel parlare di stress, si devono
riconoscere i due tipi: l'eustress e il
distress:
L'eustress è uno stress costruttivo,
la persona riesce a fronteggiarlo con
uno sforzo di adattamento senza
avere minacce per il suo benessere
personale;
Il distress è uno stress distruttivo
accompagnato da sensazioni
negative, si presenta quando le
sollecitazioni stressanti sono
superiori alle capacità di risposta del
soggetto, oppure quando le pressioni
sono in realtà monotone da non
attivare la persona.
Stress e lavoro
Il lavoro è diventato causa di
malessere per molte persone. Le
richieste ambientali oggi spesso sono
eccessive, le situazioni di stress si
prolungano oltre le capacità di
resistenza
per cui si creano rotture dell'equilibrio
personale, una breakdown
psicofisica che può indurre alla
patologia.
La rottura non si presenta solo come
carenza o mancanza di risorse
interne ma a volte anche per via dei
modelli sociali e di quei
comportamenti di ruolo che ci
portano a sentirci obbligati a dover
essere o come agire.
Quando lo stress colpisce l'individuo,
viene meno la salute fisica e c'è un
aumento del disagio psichico e un
impoverimento della vita familiare. A
livello di organizzazione ci sono costi
economici per via delle assenze dal
lavoro, costi psicosociali perché il
clima organizzativo si deteriora,
aumenta anche la conflittualità e si
registra la perdita di efficacia ed
efficienza. Il soggetto sotto stress
tende ad assentarsi dal lavoro, ad
ammalarsi e questo porta delle
ricadute a livello di turnover.
Per poter prevenire gli effetti negativi
dello stress sul posto di lavoro,
servono analisi
organizzativa finalizzata a prevenire
e gestire i rischi psicosociali. Si
hanno tre modelli che cercano di
spiegare in quali situazioni si
presentano le condizioni di stress
all'interno delle organizzazioni.
Il coping
Per lo psicologo Richard Lazarus il
coping è un processo che dipende
dal contesto ma è indipendente dal
risultato. Quando un individuo
incontra eventi difficili o minacciosi
che sono superiori alle sue risorse
effettua una valutazione, ovvero
comprende di stare fronteggiando un
problema e si domanda che cosa può
fare in proposito. Spesso quando si
sta definendo il problema e si elabora
il modo su come prevenirlo e
fronteggiarlo, può avvenire a livello
inconscio un distacco emotivo
dall'attività stessa. Quindi, il
soggetto dinanzi ad un problema
effettua una prima valutazione per
definire che ha un problema e poi un
ulteriore valutazione per definire
come fronteggiare la difficoltà.
La ricercatrice Pam Managhan
sostiene, in merito al coping, che il
soggetto ha delle sue risorse di
coping personali, ossia delle sue
capacità che lo proiettano a saper
mettere in atto le strategie di coping.
Si tratta di soggetti con una forte
autostima, che hanno una ottima
capacità di analisi, una buona
capacità di interazione con gli altri e
questo porta il soggetto a
comprendere il fenomeno che
accade e contenerlo. Per Managhan,
il coping dipende anche dagli stili di
coping che vengono attivati. Ossia
quando accade un evento ci sono
delle strategie cognitive attivate che
sono funzionali. Ad esempio, il
sapersi rivolgersi a qualcuno per
chiedere aiuto al fine di avere
supporto anche motivo. Infine, il
soggetto può anche avere delle
tendenze al coping, ovvero la
capacità di
saper mettere in atto comportamenti
adottati ad arginare il problema e
contenere le reazioni emotive.
Il burnout
Ci sono professioni e situazioni
lavorative che inducono al burnout.
Ad esempio, quelle professioni cui c'è
un considerevole dispendio di
energia psicologica, in cui un
operatore deve stare spesso a
contatto con l'utente, e professioni
che richiedono un forte contatto
emotivo e coinvolgimento nelle
problematiche dell'utente. Professioni
sanitarie e sociali, quelle che hanno
come obiettivo la cura, l'assistenza,
l'aiuto. Infine, quelle professioni che
richiedono la continua disponibilità e
l'empatia, il lavoratore in questi
contesti e con queste richieste attiva
le sue strategie di coping ma può
accadere che ad un certo punto si
distanzi emotivamente dalle sue
attività ed inizia il processo di
burnout. Per Christina Maslach
nota per le sue ricerche sul burnout
professionale, si tratta di una
sindrome da esaurimento emotivo,
con depersonalizzazione e
derealizzazione, che può insorgere in
operatori che lavorano a contatto con
il pubblico. Il significato letterale del
termine è bruciato, logorato, fuso.
Accade come una forma di
esaurimento quando si ha a che fare
con gli altri in situazioni impegnative
che coinvolgono notevolmente il
profilo emotivo. Il burnout si deve
considerare come un processo che
porta ad un graduale distacco
emotivo della persona dal suo
contesto lavorativo.
Le cause del burnout sono:
Fattori sociali e personali: molto
dipende dal background sociale,
culturale e ideologico della persona.
Anche il livello socio-economico di
appartenenza, la situazione familiare,
l'età, le aspettative professionali, lo
stile cognitivo, il grado di tolleranza
della frustrazione, il livello di
coinvolgimento
emotivo e il livello di tolleranza dello
stress;
Fattori relazionali: si tratta del
rapporto che si ha con l'utenza e le
relazioni a livello lavorativo. Ad
esempio nella scuola il rapporto con i
ragazzi, con i genitori, con i colleghi e
quindi la qualità di questi rapporti se
ostili, competitivi, di collaborazione e
dialogo;
Fattori oggettivi organizzativi o
professionali: ovvero la scarsa
retribuzione, le condizioni ambientali
sfavorevoli, i turni e gli orari
stressanti, la routine e burocratica.
Per esempio nella scuola l'eccessiva
burocrazia, il precariato, il susseguirsi
di riforme, il carico di lavoro, e risorse
didattiche carenti. Tutte situazioni di
stress che possono portare al
distacco, all'incapacità di reagire al
fenomeno.
La sindrome si presenta secondo
quattro fasi:
1. Preparazione: l'entusiasmo
idealistico che porta un soggetto a
scegliere il suo lavoro assistenziale;
2. Stagnazione: il soggetto si ritrova
sottoposto a carico di lavoro
eccessivi e comprende che la sua
carica ideale non corrisponde a
quella che è la realtà, diminuiscono
quindi sia l'entusiasmo che l'interesse
ed anche il senso di gratificazione;
3. Frustrazione: il soggetto comincia a
sentire inutilità, inadeguatezza,
insoddisfazione, insieme alla
percezione di essere sfruttato,
oberato di lavoro e poco apprezzato.
Comincia a mettere in atto
comportamenti di fuga dall'ambiente
lavorativo oppure anche ad avere
atteggiamenti aggressivi verso i suoi
colleghi e verso se stesso;
4. Apatia: l'interesse e la passione per il
lavoro che c'erano prima ora si
spengono, subentra l'apatia e
l'indifferenza, fino ad una vera e
propria morte professionale.
Per lo psicologo Cary Cherniss
esistono tre fasi nel burnout:
Lo stress: il disequilibrio tra le risorse
e le
richieste;
L'esaurimento: la tensione emotiva
e la fatica;
La difesa: il distacco emotivo che si
manifesta con il ritiro, il cinismo, la
rigidità verso gli utenti, una sorta di
coping che porta ad una fuga
psicologica che mette il
professionista al sicuro da fonti di
stress. Il distacco permette di
eliminare il senso di frustrazione,
esternandolo sugli altri in una forma
di reazione difensiva. Si può
considerare quindi un vero e proprio
meccanismo di difesa che permette
all'individuo di gestire situazioni
percepite come avverse.
Proseguendo su questo filo, Maslach
e Jackson considerano il burnout
come basato su:
Fase di esaurimento emotivo: la
persona si sente svuotata delle sue
risorse emotive e personali e ha la
sensazione di essere inaridito e non
avere più nulla da
offrire a livello psicologico.
La depersonalizzazione: il soggetto
sperimenta distacco, cinismo,
freddezza e ostilità verso gli altri;
Ridotta realizzazione personale: la
percezione della propria
inadeguatezza e incompetenza nel
lavoro, l'autostima si abbassa e si
attenua il desiderio di successo.
Tra gli effetti maggiormente
riscontrabili nel test, si hanno
sintomi fisici (mal di testa, fatica,
disturbi gastrointestinali, quindi, un
cambiamento nelle abitudini
alimentari e uso di farmaci), sintomi
psicologici (senso di colpa,
negativismo, alterazioni dell'umore,
scarsa fiducia in sé, scarsa empatia e
scarsa capacità di ascolto), sintomi
comportamentali (ci si assenta dal
lavoro, ritardi, rinvio di appuntamenti,
scarsa creatività) e un cambiamento
di atteggiamento (chiusura difensiva
il dialogo, cinismo, distacco emotivo
e indifferenza ai problemi dell'altro).
Per rilevare la sindrome, Maslach ha
elaborato un test il Maslach burnout
inventory. Si tratta di 22 item che
misurano 3 dimensioni della
sindrome prendendo in esame le tre
fasi descritte. Le domande del
questionario sono 22 e la risposta da
dare è un punteggio da 0 a 6. La
somma dei punteggi permette di
definire l'intensità del problema e
quindi del burnout sperimentato.
Stress e burnout: esiste una
differenza sostanziale tra stress e
burnout. Lo stress è una reazione
momentanea di adattamento che può
rientrare nella norma. Fa riferimento
ad un disadattamento aspecifico e,
se inserito nell'ambito lavorativo, si
definisce work stress. Il burnout è
un processo che si sviluppa lungo
termine, si prolunga nel tempo e si
cronicizza, implica necessariamente
un aspetto legato ad una dimensione
interpersonale e si caratterizza per
una specifica relazione
interpersonale con l'utenza.
La persecuzione psicologica nei
luoghi di lavoro: il mobbing
Il termine mobbing deriva
dall'inglese to mob che indica due tipi
di azione: l'afollarsi contro qualcuno,
come accanirsi, e assalire con
tumulto, quindi aggredire, attaccare,
schernire.
Konrad Lorenz negli anni 70 già
registrava il comportamento di certe
specie di animali che circondavano
un proprio simile in modo violento e
rumoroso al fine di allontanarlo dal
branco, per esempio alcuni uccelli a
volte allontanano dal loro territorio
altri stormi intrusi aggredendo
collettivamente i nuovi arrivati.
Il mobbing, inteso come
persecuzione nel luogo di lavoro,
viene trattato per la prima volta dallo
psicologo Heinz Leymann negli anni
80, vedendo come il suddetto
comportamento degli uccelli fosse
quasi analogo al comportamento di
alcuni lavoratori nei
confronti di altri. Negli ultimi anni si
sente parlare molto di mobbing, per
cui con questo termine si indica la
persecuzione psicologica nel
contesto lavorativo, diventando un
tema di interesse non solo
psicologico ma anche registrativo e
legale. In Germania, presso le unità
sanitarie locali dette AOK, sono
presenti degli strumenti utili alla
diagnosi di danni da mobbing e cura,
il mobbing è ormai ufficialmente
dichiarato come una delle malattie
professionali. In Svezia il mobbing è
considerato pratica criminale,
socialmente dannosa ed il ministero
del lavoro svedese ha emesso delle
ordinanze per la tutela dell'ambiente
di lavoro e per prevenire la
vittimizzazione e la persecuzione di
lavoratori. In Italia abbiamo solo
l'opera dello psicologo Harald Ege
che nel 1996 ha fondato a Bologna
"Prima", la prima associazione
Italiana contro il mobbing e lo stress.
Il mobbing da un punto di vista
psicologico e lavorativo è una forma
di violenza o di
molestia psicologica esercitata
quasi sempre con intenzionalità,
lesiva, ripetuta in modo reiterato con
modalità diverse e quindi poliforme. È
un azione persecutoria intrapresa per
almeno 6 mesi, con un'ampia varietà
di modalità a seconda della
personalità dei soggetti con la finalità
di estromettere un soggetto dal posto
di lavoro. Ognuno ha una sua soglia
individuale della resistenza alla
violenza psicologica capace di
indurre una condizione di mobbing,
che è possibile esprimere come
funzione di intensità della violenza,
tempo di esposizione e tratti della
personalità.
Per Ege il mobbing è una forma di
terrore psicologico sul posto di lavoro
esercitato attraverso comportamenti
aggressivi e vessatori ripetuti ed agiti
da colleghi superiori. La vittima viene
calunniata, criticata, spostata da un
ufficio all'altro e spesso impegnata in
mansioni dequalificanti. Lo scopo è
indurre la persona considerata
scomoda a presentare dimissioni
volontarie oppure a provocarne il
licenziamento. Secondo Einarsen e
colleghi, le caratteristiche principali
del mobbing sono:
Azioni di attacco: offesa ed
esclusione di qualcuno intaccando
continuamente i suoi compiti
lavorativi;
Frequenza periodica dell'attacco:
l'interazione conflittuale si presenta
ripetuta e regolare;
Asimmetria di posizioni: spesso la
vittima ha una posizione sociale
inferiore.
È difficile che il mobbing avvenga tra
colleghi, il più delle volte è il capo che
vuole allontanare un lavoratore dal
gruppo e quindi usa la posizione
sociale inferiore del subalterno. Può
esistere però anche un mobbing
orizzontale tra colleghi. Per quanto
riguarda gli attori in gioco, essi sono:
La vittima (mobbizzata), il mobber
(colui o colei che agisce i
comportamenti ai danni della vittima)
e i co-mobber (gli spettatori,
complici spesso dell'azione
dannosa).
La vittima
La persona viene continuamente
umiliata, offesa, isolata e ridicolizzata
anche per quanto riguarda la vita
privata. Il suo lavoro viene
deprezzato, continuamente criticato o
addirittura sabotato, svuotato di
contenuti;
Il soggetto viene privato degli
strumenti necessari a svolgere
l'attività (sindrome della scrivania
vuota) o, viceversa, sovraccaricato di
lavoro e di compiti impossibili da
portare materialmente a termine o
inutili, ma tali da provocare o acuire
sentimenti di frustrazione e di
impotenza (sindrome della scrivania
piena).
Il suo ruolo viene declassato, le sue
capacità personali e professionali
messi in discussione. Infine, vengono
esercitate nei suoi confronti continue
azioni sanzionatorie, spesso
pretestuose, mediante un uso
eccessivo di strumenti quali visite
fiscali o di idoneità,
contestazioni disciplinari,
trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di
permessi, di ferie o di trasferimenti.
Ege e Leymann hanno individuato
quello che può essere il profilo di
soggetti che possono essere
sostanzialmente vittime di mobbing.
Ogni lavoratore può essere vittima di
mobbing, ma di solito lo sono quelli
più passivi o quelli troppo aggressivi
nelle interazioni:
Il distratto: colui che non coglie i
cambiamenti che accadono intorno a
lui e non sa fare una valutazione
critica del nuovo contesto;
Il prigioniero: colui che non riesce a
tirarsi fuori dalla situazione e si lascia
travolgere dagli eventi incapace di
trovare soluzioni attive ai suoi
problemi;
Il paranoico: colui che vede
complotti ovunque vivendo in
tensione e creando un clima di
tensione intorno a sé che può portare
a delle azioni mobbizzanti nei suoi
confronti da parte dei colleghi;
Il severo: colui che ha delle regole
rigide ed è autoritario creando così
rapporti problematici con i colleghi
che alla fine lo mobilizzano per
fargliela pagare;
Il presuntuoso: si crede migliore di
tutti e per questo ha la ritorsione
mobbizzante dei colleghi;
Il passivo o dipendente: colui che
dipende dagli altri ed è servile al
punto che mobbizzarlo diventa un
divertimento per gli altri;
Il buontempone: il divertente che
viene mobbizzato perché considerato
il buffone del villaggio;
L'ipocondriaco: colui che si lamenta
sempre al punto da diventare
fastidioso per gli altri;
Il servile: colui che per far contento il
capo non desiste dall'accusare gli
altri e quindi diventa preda.
Il mobber
Non è facile descriverlo, non esiste
uno schema preciso e rigido, tutto
dipende anche dal contesto
lavorativo e dalle caratteristiche di
personalità dei soggetti.
Ege ha previsto 14 profili di mobber:
L'istigatore: colui che cerca sempre
pretesti e cattiverie per colpire;
Il casuale: colui che diventa mobber
per caso trovandosi in una situazione
di conflitto;
Il conformista: è un po' uno
spettatore che non agisce
attivamente per esercitare mobbing
ma la sua presa di distanza diventa
azione mobbizzante comunque;
Il collerico: colui che non riesce a
frenare la rabbia e scarica così la sua
tensione interna con gli altri;
Il megalomane: colui che si sente
grandioso e gli altri li reputa inferiori;
Il frustrato: insoddisfatto che scarica
sugli altri le sue frustrazioni;
Il sadico: la persona più terribile
perché psicotica senza sintomi ma
che scarica il suo dolore sugli altri in
modo perverso e pericoloso;
Il criticone: la persona insoddisfatta
che crea un clima di tensione con le
sue critiche;
Il leccapiedi: il carrierista tiranno con
i subalterni e ossequioso con i
superiori;
Il pusillanime: colui che non si
espone ed è mobber in modo
subdolo e sparlando;
Il terrorizzato: colui che temendo la
concorrenza si difende facendo
mobbing;
L'invidioso: colui che fa mobbing
perché non accetta che qualcuno sia
migliore di lui;
Il carrierista: colui che cerca in tutti i
modi di farsi una posizione.
Gli spettatori (co-mobber)
Sono coloro che sanno, che
osservano e se ne
lavano le mani senza assumersi
responsabilità e senza far nulla
contro il mobber, proprio perché
temono di essere mobbizzati.
Diventano così aiutanti del mobber
non reagendo alle prestazioni di
questo sulla sua vittima.
Tre sono i tipi di spettatori:
Il ruffiano: il fedele compagno del
mobber, quindi leccapiedi e servile;
Il diplomatico: colui che cerca
sempre un compromesso nei conflitti
ma in realtà accade che il mobber ha
la possibilità di agire e non essere
fermato;
Il rinunciatario: colui che non si
mette in evidenza e non si assume
responsabilità, chiudendosi
nell'indifferenza dietro i "non so".
La differenza di genere della
vittima:
Uomini e donne non reagiscono allo
stesso modo alle azioni di mobbing.
La donna tende ad aumentare la sua
attività ma anche la velocità del
parlare e della gestualità, l'uomo
al contrario è rinunciatario quindi
diminuisce l'impegno lavorativo e
limita i rapporti personali.
La differenza di genere del
mobber:
Il mobber maschio agisce con azioni
passive quindi non con la violenza
aperta ma in modo sottile e subdolo
come ignorare qualcuno oppure
caricarlo di lavoro. La donna mobber
invece preferisce il mobbing attivo
sparlando alle spalle, prendendo in
giro davanti agli altri o facendo girare
voci sulla vittima, la donna quindi è
diretta.
I diversi tipi di mobbing si possono
dividere in:
Mobbing verticale: si tratta di
violenze psicologiche di un superiore
ad un inferiore, possono essere sia
dirette che indirette, al fine di
escludere la persona scomoda e
arrivare al licenziamento. È un'azione
politica, un abuso di potere
pianificato e strategicamente
pensato. In questo tipo di mobbing
abbiamo il bossing (la strategia
aziendale che cerca di
ridurre l'organico per contenere i
costi) e il bullying (i comportamenti
vessatori agiti da un capo per
antipatia, invidia, ma anche per
differenza di età o differenza politica,
non viene esercitato solo al lavoro
ma anche a scuola, in carcere, in
caserma, ma anche a casa tra fratelli
o altri conviventi). Abbiamo poi due
tipi di mobbing verticale, quello
organizzativo (strategico, pensato
dall'azienda per eliminare i
concorrenti) e quello corporativo
(pensato dai datori di lavoro con
aumento di ore lavorative o rifiuto di
ferie e questo mobbing viene
compiuto nei paesi dove il tasso di
disoccupazione è alto);
Mobbing orizzontale: si verifica
quando sono i colleghi i mobbers, un
mobbing agito per competizione,
invidia, razzismo, fede politica o
religiosa diversa;
Mobbing combinato: è quando
quello verticale e orizzontale
coesistono;
Mobbing individuale e collettivo: è
individuale quando il mobbizzato è
uno solo, collettivo quando le vittime
del mobbing sono gruppi di lavoratori.
Mobbing e stress
Occorre distinguere tra il mobbing
vero e proprio e le azioni stressanti.
Quest'ultime sono eventi sporadici,
traumatizzanti e dovuti a fattori
caratteriali e situazionali. Il mobbing
ha radici profonde ed è un'azione
ripetuta e sistematica, è verso una
vittima precisa che si vuole
danneggiare e allontanare. Quindi
per parlare di mobbing si deve tener
conto del fattore tempo per cui le
violenze psicologiche devono essere
regolari, sistematiche, durature nel
tempo almeno 6
mesi. Nell'azione stressante non
abbiamo il mobber che vuole
danneggiare il lavoratore, il mobbing
è causa di stress ma non per forza lo
stress è sempre sinonimo di mobbing
in atto. Lo stress da mobbing ha degli
aspetti ben precisi, per esempio crea
uno stato confusionale che disorienta
la vittima perché perde l'importanza
da dare al lavoro, riduce la sua
tendenza ad agire, si sente incerta
per il futuro. Quando la vittima da
mobbing non è consapevole di quello
che sta accadendo tende a sentirsi
spiazzata e a considerarsi
responsabile di ciò che sta
accadendo, per questo motivo è
importante che la vittima comprenda
che sta accadendo mobbing nei suoi
confronti, perché questa
consapevolezza permette di trovare
le forze e le idee necessarie per
sconfiggere il mobber.
I danni da mobbing
Il mobbing provoca sia danni sua alla
vittima e sia all'organizzazione. La
vittima sperimenta
crisi esistenziali con cali di stima e
sensi di colpa, crisi relazionali visto
che questa situazione ha delle
ripercussioni sulla famiglia, sui
conflitti interni ad essa, inoltre la
vittima perde anche sul piano delle
relazioni extra familiari. La sofferenza
della vittima la induce ad assenze dal
lavoro sempre più prolungate e a
vivere con angoscia la sindrome da
rientro al lavoro, una situazione che
può involvere verso la dimissione o il
licenziamento.
La vittima, perdendo autostima e
ruolo sociale, sperimenta insicurezza,
difficoltà nelle relazioni, impossibilità
in nuovi contesti lavorativi. Il
soggetto, portando il suo disagio in
famiglia, può anche arrivare a
separazione o divorzi con disturbi
anche nei figli e nel resto delle
relazioni sociali.
Il mobbing ha delle ripercussioni
anche a livello di organizzazione che
vede lo scadere della qualità del
lavoro, un aumento dei
prepensionamenti, delle invalidità
civili e della
spesa sanitaria. La vittima alla fine
diventa un peso improduttivo, un
peso per sé, per la famiglia, per la
società in cui lavora, senza energie e
senza entusiasmo. Gli effetti del
mobbing, quindi, sono sulla società
(ritiri anticipati, aumento delle spese
sanitarie, disoccupazione),
sull'organizzazione (deterioramento
dell'ambiente lavorativo, aumento dei
costi, aumento del turnover del
personale, abbassamento della
motivazione al lavoro, calo della
produttività e dell'efficienza) e
sull'individuo (irritabilità, disturbi
psicosomatici, depressione, suicidio).
L'orientamento al lavoro
Le trasformazioni del lavoro
Questi ultimi anni il lavoro si è molto
trasformato, è cambiata la struttura
lavorativa, la sua forma e
organizzazione, ma anche i tempi, la
domanda e l'offerta. Pensiamo anche
alle grandi trasformazioni del nostro
tempo quali quelle relative alla
tecnologia dell'informazione, della
globalizzazione dell'economia e della
scolarizzazione di massa.
L'orientamento al lavoro nasce
perché è cambiato il concetto di
lavoro, oggi infatti non è più standard,
i contratti non sono più standard e
molti lavori poi non si svolgono nel
contesto organizzativo. È cambiato
proprio il modo di lavorare, la forma
del lavoro, del suo tempo e della sua
organizzazione, del luogo stesso
dove si lavora, ed è cambiata l'offerta
di lavoro, la domanda di lavoro e la
forza lavoro stessa.
Il modello taylorista è eclissato, non
esiste più il lavoro parcellizzato
previsto da questo modello; il lavoro,
infatti, grazie soprattutto all'avvento
tecnologico, è diventato
internazionale, diversificato, la salita
da sola non basta perché oggi
occorre prima di tutto la conoscenza
e l'uso dei mezzi tecnologici che
permettono di non lavorare più in un
certo luogo definito ma ovunque,
anche da casa.
I grandi cambiamenti che sono
avvenuti in merito al lavoro
riguardano proprio il modo stesso di
considerare il lavoro, negli anni 60
infatti si riceveva una formazione e si
cercava lavoro in riferimento alla
formazione ricevuta, si cercava un
posto che fosse fisso e ci si
impegnava nel percorso della propria
carriera. In passato anche il
passaggio dalla scuola al lavoro era
breve, una volta trovato il lavoro si
entrava in un percorso evolutivo che
era appunto il fare carriera.
Oggi è cambiata questa concezione
insieme alla realtà stessa del lavoro.
Si parla di possibilità di poter lavorare
e, importante è anche l'interattività.
Per lavorare occorre conciliare
l'aspetto delle competenze
professionali e relazionali, soprattutto
quel che accadde oggi rispetto al
passato è che non si entra in un
lavoro nella giovinezza che diventa
poi l'unico lavoro della vita, oggi
infatti diversi fattori portano ad una
possibilità lavorativa che comporta il
transito
lavorativa in diversi ruoli.
Il mercato odierno del lavoro ha in sé
delle dinamiche che possono anche
escludere alcune persone ancora
prima di entrarci perché ci sono livelli
di disoccupazione e mancanza di
lavoro molto alti insieme all'incapacità
di alcuni soggetti di cercare e trovare
un lavoro.
Consideriamo il giovane che trova
lavoro e cosa significa orientare al
lavoro. Oggi per un giovane per
trovare lavoro sono necessari alcuni
fattori, prima fra tutti un certo
background familiare, poi l'età, il
genere, la formazione, ma anche le
esperienze lavorative come tirocini,
esperienze tecniche e professionali,
apprendistato.
Sono necessarie anche le strutture di
mediazione verso il mondo del lavoro
come ad esempio i placement
universitari, le agenzie private, i
dispositivi pubblici come i centri per
l'impiego. Trovare un lavoro spesso
significa anche trovarne uno con
bassi redditi, dover accettare dei
compromessi.
Il mercato del lavoro oggi è molto
complesso per cui è necessaria una
mediazione che si sostituisca alla
persona che cerca lavoro e che guidi
nella ricerca del lavoro e nel percorso
lavorativo in base anche ai percorsi
formativi che la persona ha compiuto.
Quanto al lavoro oggi ci sono due
illusioni: non è vero che il mercato del
lavoro funziona come un normale
mercato di offerta e di domanda e
non è vero che le istituzioni devono
andare di pari passo al mercato. Tra
la domanda di lavoro e l'offerta di
lavoro oggi non c'è più una relazione
immediata ma occorre che ci sia una
relazione mediata e questa
mediazione viene svolta
dall'orientamento, un insieme di
attività volte a favorire le scelte
formative e professionali che le
persone attuano nella vita al fine di
delineare e compiere un particolare
progetto che tenga in considerazione
sia l'aspetto professionale che
l'aspetto personale dell'individuo.
L'orientamento mette al centro
la persona, rendendola consapevole
delle sue capacità e delle sue
competenze e la porta a confrontarsi
con la realtà sociale ed economica in
cui vive.
Quindi l'orientamento vuole essere
uno strumento strategico e
trasversale che regola
l'inserimento della persona nella
società. L'orientamento non mira
semplicemente a che ci sia un lavoro
da svolgere e quindi che si profili
come possibilità professionale, esso
tiene anche conto della gratificazione
della persona e quindi della
soddisfazione delle sue aspirazioni
professionali.
I riferimenti normativi
Nel 1997 la SEO, ossia la strategia
Europea per l'occupazione,
definisce gli obiettivi in materia di
politica occupazionale. Questi
orientamenti europei vogliono che ci
sia una certa interazione tra
formazione e lavoro, e quindi la
necessità che politiche occupazionali
e politiche formative siano
collaborative. L'orientamento diventa
un ponte della formazione al lavoro.
In seguito a queste linee guida,
l'Italia emana la legge Treu che
disciplina i primi strumenti di
intermediazione tra formazione e
lavoro e istituisce esperienze
formative come i tirocini, e
apprendistati, le borse lavoro e anche
i contratti di inserimento. Altra legge
emanata nel 10 settembre 2003 è la
legge Biagi che vede nascere il
ruolo dell'intermediazione
universitaria, la quale si vede
preposta a provvedere alla
collocazione dei suoi studenti.
Queste due leggi vedono anche la
presenza e il ruolo di intermediazione
svolto dai nuovi enti, ossia agenzie
sia pubbliche che private che
studiano il mercato del lavoro al
posto del singolo individuo e
individuano i percorsi formativi
universitari, le domande e l'offerta di
lavoro, guida il singolo individuo nella
sua scelta della formazione di cui
fruire o del lavoro da chiedere. Una
riforma universitaria importante è
stata la legge Moratti, che vede il
cambiamento dei percorsi formativi e
di inserimento nel mondo del lavoro.
L'università non è più il luogo ove si
acquisiscono conoscenze teoriche
ma vengono svolte attività formative
per acquisire competenze tecniche e
pratiche per cui vengono incentivati
gli stage, i tirocini all'interno degli
stessi, curricula universitari.
In questo modo si vuole rendere lo
studente consapevole della
complessità del mondo lavorativo
molto più ampio e articolato della
semplice aula universitaria. In pratica
la
riforma Moratti ha ampliato i corsi di
laurea, ha istituito i corsi di laurea
triennali per velocizzare l'inserimento
nel lavoro, introduzione dei crediti
formativi e il riconoscimento dei
crediti universitari ed i corsi più a
taglio professionale e caratterizzante.
Tipologie di orientamento
Orientamento personale: si tratta di
un orientamento inteso come
sostegno nelle scelte, ossia aiutare il
soggetto ad affrontare in modo
adeguato e costruttivo le proprie
scelte, assumendone le
responsabilità e conseguenze;
Orientamento professionale: è il
supporto offerto nella transizione
dalla esperienza formativa a quella
lavorativa al fine di gestire e
organizzare tale passaggio, questo
orientamento vede il coinvolgimento
di esperti come psicologi del lavoro
che aiutano l'inserimento
lavorativo.
I livelli dell'orientamento
Servizi di formazione: si tratta della
consulenza di primo livello, quindi il
servizio informativo senza
approfondire le problematiche del
soggetto, una sorta di prima
accoglienza o di offerta di
informazione presso i servizi di
impiego;
Servizi di consulenza: secondo
livello, qui già si effettua un esame
più approfondito delle problematiche
soggettive;
Servizio di sviluppo delle
competenze: un insieme di azioni
volte a far acquisire competenze
tramite delle attività focalizzate alla
scelta formativa o professionale,
attività che fanno sperimentare il
lavoro oppure la formazione come il
tirocinio o l'apprendistato.
Professione e strumenti
Lo psicologo del lavoro è colui che
fornisce
agli individui, giovani o adulti, un
sostegno nella costruzione del
proprio percorso formativo o
professionale mettendo insieme le
capacità e i desideri del soggetto
insieme anche alle sue inclinazioni e
unendo il tutto al sistema formativo e
all'andamento nel mercato del lavoro.
Non esiste un iter formativo vero e
proprio per questo tipo di
specializzazione psicologica che non
è ancora riconosciuta.
Lo strumento principale dello
psicologo del lavoro è il counselling,
ovvero un percorso strutturato che
vede l'interazione del consulente e
del cliente finalizzato all'aiuto per la
decisione rispetto ai percorsi da
scegliere. Nel servizio di consulenza
occorre tener conto delle
competenze del soggetto e delle
competenze richieste da una
specifica funzione che si vuole
scegliere; si effettua una sorta di
mappatura del cliente e delle sue
caratteristiche attraverso test e
autoanalisi. In questo modo il
soggetto è
guidato dall'auto comprensione delle
proprie capacità e dei propri limiti
rispetto ad una professione, in modo
da essere responsabile e
consapevole anche dei rischi della
scelta che effettua. Il soggetto viene
reso consapevole delle sue
competenze di base quali il suo
bagaglio culturale e viene aiutato a
conoscere le competenze tecniche
professionali e trasversali che una
scelta chiede e che il soggetto può
già possedere.
Nel counselling lo psicologo del
lavoro fornisce una mappatura che
egli stesso ha elaborato delle
competenze che una data
professione richiede, una mappa
molto empirica con la quale il cliente
deve essere confrontato per
discernere se quelle competenze di
base le possiede, quindi, se è idoneo
o meno allo svolgimento di una certa
professione.
Le competenze trasversali sono
quelle che si ottengono attraverso
una complessità di esperienze, si
tratta quindi di competenze di
tipo relazionale, di attitudine alla
comprensione, ecc.
Il colloquio di counselling può essere
direttivo o non direttivo.
Il direttivo mira a rendere il soggetto
consapevole delle proprie capacità e
dei propri limiti, e non direttivo aiuta il
processo di consapevolezza e
autoanalisi del cliente.
L'orientamento si rende necessario
tutte le volte in cui occorre fare una
scelta, specie nel percorso
scolastico, poi in quello universitario
e lavorativo.
L'orientamento scolastico ha la
caratteristica di essere in itinere e
quindi di aiutare il soggetto nella
scelta dei percorsi formativi dei
diversi ordini e livelli di studio e
formazione al lavoro. L'orientamento
aiuta a comprendere quali possono
essere gli sbocchi lavorativi di una
scelta formativa e quali professioni
possono essere svolte e quali no,
seguendo un certo percorso di
studio.
Il placement scolastico
universitario
Si tratta del ruolo di intermediazione
che l'Università svolge tra la
domanda e l'offerta di lavoro.
L'università raccoglie i curriculum dei
suoi studenti, effettua una
preselezione disponendo i risultati in
apposite banche dati, gestisce
l'incontro tra domanda e offerta
lavorativa, eroga attività formative
finalizzate all'inserimento lavorativo. Il
placement viene svolto da personale
apposito, dei consulenti professionisti
che conoscono gli sbocchi
professionali e coniugano le esigenze
delle persone con le esigenze delle
imprese facilitando l'incontro tra
domanda e offerta lavorativa.
La selezione: le metodologie
Il colloquio o intervista: qui sono
fondamentali le parole, i gesti.
Fondamentalmente come è stato
redatto il curriculum e spesso gli
psicologi del lavoro sono impegnati
nel dare istruzioni
per la buona stesura di un
curriculum;
Test o reattivi: questi evitano il
contatto interpersonale del colloquio
che potrebbe talvolta essere
influenzato dal fattore impressione. I
test possono essere psicologici, di
intelligenza, di personalità;
Il concorso: permette di fare una
selezione imparziale quando si lavora
con grandi numeri e si concorre per
posizioni generiche. Il concorso non
verifica le motivazioni, gli
atteggiamenti e le aspettative o i
bisogni del candidato. Si valuta la
competenza cognitiva ma non le
effettive competenze professionali;
La selezione individuale: si valuta
se una persona è idonea o meno per
una determinata posizione
analizzando i tratti di personalità
ritenuti necessari, spesso questo
viene svolto da psicologi del lavoro;
La selezione di gruppo: si tratta di
una valutazione dei candidati in
gruppo che
vengono valutati da un comitato di
osservatori. In questo modo si ha
maggiore efficienza diagnostica e
minore incidenza della soggettività
dei valutatori. L'impegno
organizzativo e logistico in questo
caso è elevato;
La selezione di comitato: il singolo
candidato viene valutato da valutatori
appartenenti a funzioni diverse, in
questo modo non c'è il fattore della
singola soggettività di un solo
valutatore e ognuno di questi
concorre nella valutazione in base
alle sue specifiche esperienze.
Superati questi passi si arriva
all'assunzione e quindi alla firma del
contratto. Questo contratto implica
degli adempimenti amministrativi ma
anche un aspetto psicologico perché
il nuovo arrivato ha delle aspettative
e l'azienda può avallare o meno
queste attese che occorre
considerare perché esse
determineranno il
comportamento che il soggetto avrà
nell'organizzazione.
Le metodologie di valutazione
Abbiamo la valutazione delle 3P
(posizione, prestazione e
potenziale) e abbiamo la valutazione
sulle competenze (sapere, saper
fare e saper essere).
La valutazione della posizione è un
insieme di responsabilità assegnate
ad una persona per raggiungere
determinati scopi e con ambiti definiti
di decisione. La posizione sarebbe la
mansione o il ruolo. In un'azienda si
può essere dirigente, quadro,
impiegato, operaio.
Essa implica delle responsabilità,
come il grado di autonomia
assegnata alla posizione e che è
necessaria per il raggiungimento
degli obiettivi desiderati.
Implica degli obiettivi attesi, dei
compiti da svolgere e delle relazioni
con altre posizioni. Per valutare una
posizione lavorativa si può agire
attraverso una job analysis, ovvero
interviste, questionari o osservazioni,
oppure tramite una job description,
una descrizione analitica delle
responsabilità, delle interdipendenze,
dei rapporti esterni e le principali
finalità della posizione stessa.
Oppure attraverso una job
evaluation, la definizione del valore
di ogni posizione al fine di
confrontarle tra di esse. Infine,
attraverso una job specification,
ossia i requisiti professionali richiesti.
La valutazione viene effettuata per
documentare l'organizzazione del
lavoro, per definire i requisiti
necessari, per svolgere un certo
lavoro, utili ai fini della selezione,
della
formazione e della mobilità e, per
determinare l'importanza relativa ad
ogni singola posizione riconosciuta
nell'insieme dell'organizzazione,
quindi definire anche i compensi e gli
inquadramenti.
La posizione ha una variabile
correlata sia al valore stesso della
posizione che al compenso.
La valutazione delle posizioni
permette di capire come ogni singola
posizione contribuisce alla
realizzazione dei risultati globali di
un'azienda, per cui quando si fa
l'analisi della struttura organizzativa
si individuano le posizioni e si
definiscono anche la graduatoria
delle posizioni, questa graduatoria si
riflette anche sulle diverse fasce
retributive.
Significa che quando si analizza la
struttura organizzativa ci si domanda
quali sono le competenze già
presenti in azienda e quali acquisire,
quali obiettivi si vogliono raggiungere
come azienda e alla luce di questi
che tipo di lavoratori sono utili per
perseguirli, si individuano dunque le
posizioni, i loro livelli di importanza e
le loro fasce retributive.
Valutare la prestazione
Non è una posizione disincarnata che
produce e agisce ma il singolo
lavoratore che produce o meno. Ci si
chiede allora come ha lavorato il
signor X, non ci interessa il risultato
che il singolo vuole raggiungere ma
come l'operato del lavoratore ha dato
possibilità di crescita
dell'organizzazione.
Si ha da una parte gli obiettivi
aziendali prefissati e in
corrispondenza quelli raggiunti dal
lavoratore. Si verificano questi due
poli e si va a misurare i
comportamenti organizzativi del
lavoratore e il conseguimento degli
obiettivi, il tutto con un congruo
periodo di tempo di almeno un anno.
Questa valutazione si effettua con
sistematicità e con un metodo chiaro,
con precise scadenze temporali. I
criteri usati
devono essere oggettivi e occorre
concretezza, quindi, si valuta in base
agli obiettivi realizzati e previsti per
ogni singolo ruolo assegnato. Si
tende a considerare una valutazione
qualitativa (come le caratteristiche
personali, di comportamenti, le
competenze, quanto il lavoratore ha
condiviso il valore dell'azienda); una
valutazione quantitativa (si
considerano le prestazioni effettuate
e i risultati raggiunti); e una
valutazione di sintesi (quanto la
persona è adeguata alla posizione e
il suo potenziale generico).
La valutazione delle prestazioni si
effettua secondo questo processo:
Prima di tutto vengono definiti gli
obiettivi del lavoro da svolgere e si da
al lavoratore la possibilità di
sviluppare il suo lavoro, effettuando
delle verifiche periodiche. I dati delle
verifiche permettono di considerare i
risultati conseguiti e di aggiornare gli
obiettivi, mentre viene effettuato un
colloquio nel
quale i risultati vengono comunicati,
ciò significa che c'è un colloquio tra il
valutatore e il lavoratore nel corso del
quale si considerano le competenze
che il lavoratore stesso ha acquisito
lavorando. Questo processo diventa
un percorso di consapevolezza del
lavoratore che diventa cosciente dei
propri limiti ma anche delle proprie
competenze e del suo potenziale. Il
lavoratore può comprendere quali
punti di forza possiede, su cosa deve
crescere e formarsi e ha anche dei
suggerimenti per migliorare le sue
performance.
Valutare il potenziale
Questa valutazione risponde alla
domanda: cosa potrà fare in futuro in
signor X?
Valutare il potenziale significa
comprendere quanto una risorsa può
essere utile per il futuro dell'azienda,
il che significa comprendere come un
lavoratore può fare. Il potenziale è
l'insieme delle caratteristiche,
delle capacità e delle competenze
che si ipotizza siano a disposizione di
un individuo. Il potenziale lo si
considera rispetto al ruolo (si
confronta il soggetto con una
posizione e i requisiti che questa
richiede); rispetto al potenziale
specifico (si confronta con diverse
posizioni e i loro requisiti); e rispetto
al potenziale generico (si effettua un
confronto con le ipotesi di sviluppo in
direzioni diverse e medio termine).
Tutto questo si effettua per verificare
se la persona possiede le
competenze per ricoprire in futuro
posizioni di maggiore responsabilità.
Ciò che si considera è il possibile
sviluppo di carriera del lavoratore per
cui si va a considerare le
competenze possedute dal lavoratore
ma anche quelle latenti, che ancora
non sono state maturate e esplicitate
perché non richieste dalla posizione
attuale, quindi non utilizzate. Con
questo noi progettiamo il futuro del
lavoratore e quindi il futuro della sua
carriera, con dei risvolti che non
saranno solo a beneficio del singolo
ma anche con delle ricadute positive
sulla stessa organizzazione. Questa
verifica del potenziale si fa
raccogliendo prima di tutto le
informazioni, attraverso
l'osservazione delle attività che
vengono svolte dal lavoratore, poi
attraverso la percezione che ha il
lavoratore stesso.
Questa analisi delle informazioni
presenta però dei problemi di
inaffidabilità e di soggettività, quindi
di non omogeneità e di difficoltà a
conciliare giudizi diversi. I valutatori,
infatti, danno un loro parere, possono
avere interessi e prospettive diverse,
le informazioni raccolte e valutate
rischiano di risentire di questa
soggettività e unilateralità delle
prospettive.
Per ovviare a questo si possono
usare strumenti utili a rilevare delle
informazioni adhoc attraverso
questionari, test, esercitazioni di
gruppo o colloqui. Questi strumenti
sono più scientifici rispetto alla
sola osservazione, permettono di
avere delle informazioni più obiettive.
Uno strumento usato è quello del
simulare delle attività: in questo
modo diversi lavoratori vengono
sottoposti a questo esercizio
permettendo di avere reazioni e
attività diverse pur sottoponendo alla
stessa situazione, essendo una
simulazione il lavoratore non ha il
timore della supervisione del capo
per cui il feedback è ricco e traspare
meglio sia all'osservatore che
all'interessato il potenziale posseduto
dallo stesso lavoratore.
Schema 3P:
Posizione: ciò che viene richiesto di
fare a chi occupa una ben definita
posizione organizzativa. Le finalità
sono gli inquadramenti, livelli medi
retributivi e profili professionali;
Prestazione: risultati conseguiti e
capacità espresse in un arco di
tempo definito punto finalità sono il
livello retributivo individuale e una
base per un piano di sviluppo
individuale.
Potenziale: capacità e competenze
sviluppabili in ruoli di maggiore
responsabilità. La finalità è la
pianificazione dei sentieri di carriera.
Valutare le competenze
Le competenze sono un insieme di
sistemi cognitivi e comportamentali
operativi casualmente correlati al
successo sul lavoro, ovvero sono
motivo di successo nel lavoro o
causa di una prestazione efficace o
superiore nella mansione che si
svolge. Le competenze sono delle
conoscenze, delle capacità e delle
qualità che la persona esercita
nell'esercizio stesso della sua
professione e le usa per raggiungere
certi risultati.
Le competenze riguardano il sapere,
il fare e l'essere.
Quindi, le competenze sono tutto ciò
che il lavoratore sa, che cosa sa fare,
quali sono le caratteristiche del suo
carattere e della sua persona. Questi
tre poli del soggetto vengono
profusi quando un soggetto lavora,
qualità che usa che impiega
lavorando ma che possiede anche
indipendentemente dal contesto
lavorativo.
Questo modello attento alle
competenze nasce in un contesto
definito da incertezze e insieme di
dinamicità. Funziona però con i ruoli
che hanno maggiore contenuto
decisionale dentro un'organizzazione,
considera molto l'aspetto qualitativo
della prestazione e considera le
competenze come comportamenti
osservabili, Il limite è proprio questo
ossia quello di guardare i
comportamenti e pensare che gestire
i comportamenti equivale a gestire le
competenze ma le prestazioni
lavorative non sono solo
comportamenti. La finalità di questo
modello è quello di giudicare in modo
sistematico il valore della
professionalità di una persona, intesa
come arricchimento che è stato
acquisito attraverso le esperienze
maturate, la formazione e i risultati
ottenuti.
questa ricchezza aggiunge valore
anche all'impresa. L'obiettivo è quello
di correlare il livello professionale
raggiunto e retribuzione, ma anche
pianificare l'ulteriore sviluppo della
persona e il suo miglioramento
professionale. I metodi e gli strumenti
con i quali viene fatta questa analisi
delle competenze sono: l'analisi del
comportamento lavorativo
effettivamente stabilito, quindi la
valutazione delle prestazioni, e
l'analisi nel comportamento espresso
in situazioni artificiali, testando in
diverse attività come reagisce il
singolo lavoratore.
Il coach
Esiste una figura che motiva e da
assistenza individuale e teorico-
pratica, il coach.
Forma il lavoratore in modo che
esprima la sua massima capacità
produttiva che ha una ripercussione
anche nell'azienda. Il lavoro sul
lavoratore è a livello motivazionale
ma anche a livello di espressione
delle capacità. Egli
sostiene un programma di sviluppo
professionale e spinge il lavoratore
nel suo sviluppo di carriera, rende il
lavoratore capace di conoscere i
propri limiti e le proprie debolezze
proprio in vista di un piano di sviluppo
rinforzando le aree deboli ma anche i
punti di forza. In questo processo è
importante anche l'autovalutazione
come conoscenza e come capacità di
formulare un proprio curriculum, il
che significa consapevolezza di ciò
che ha maturato e capacità di
informazione e comunicazione ad
altri delle proprie competenze.
Valutare per competenze implica dei
vantaggi:
Vengono esplicitati i comportamenti
efficaci per raggiungere determinati
obiettivi, si riducono gli errori di
inserimento del personale in quanto
lavorando con il coaching si hanno
persone motivate e giustamente
inserite in azienda, si ha una
progettazione più oggettiva dei piani
di sviluppo perché si conoscono le
competenze di base e quelle che
si vogliono acquisire, si ha una
valutazione meno arbitraria della
performance del lavoratore, si
ottengono informazioni omogenee, si
attiva un processo di innovazione
perché si comprende quali lavoratori
possono far parte di un circuito di
sviluppo e chi deve starne fuori, si
attivano così delle politiche di
outplacement lavorando su persone
che devono uscire da un contesto
lavorativo e ricollocate sul mercato
del lavoro. Facendo così si ottiene un
allineamento tra le competenze
aziendali e quelle richieste ai
lavoratori.
I campi di intervento
La formazione viene portata avanti
nell'organizzazione al fine di
promuovere, diffondere, sviluppare,
aggiornare tutti coloro che operano
nell'impresa. Non è un'attività di un
solo momento ma un'azione continua
perché le organizzazioni hanno
bisogno di migliorare continuamente
il loro livello di competenza. La
formazione dei neoassunti punta
soprattutto al sapere e al saper fare,
ad essi vengono trasferite le
conoscenze relative a ciò che
compete al loro ruolo in quel
determinato periodo di tempo, quindi
le conoscenze utili per attività da
svolgere in questo primo tempo di
inserimento lavorativo. Per le
persone già inserite la formazione
propone programmi per la
qualificazione (dare maggior valore al
ruolo che una persona possiede
all'interno di un'organizzazione); la
riqualificazione (si tratta del
miglioramento delle abilità che
competono ad un certo ruolo); la
riconversione (il cambiamento di
posizione dentro l'organizzazione e il
trasferimento di nuove conoscenze e
di nuove abilità).