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Psicologia del lavoro e delle

organizzazioni

Introduzione
La psicologia del lavoro e delle
organizzazioni è lo studio del
comportamento delle persone nel
contesto lavorativo e nello
svolgimento delle loro attività
lavorative, tenendo conto delle
relazioni interpersonali, dei compiti
che devono svolgere, le regole e il
funzionamento delle organizzazione.
La psicologia del lavoro a delle
scienze vicine come la sociologia e la
psicologia generale l'attenzione è
rivolta alla persona che lavora e ha
ciò che fa, al perché è al come lo fa,
tenendo anche conto delle
conseguenze del suo fare. Sul
benessere delle persone, sulle loro
condizioni economiche e
psicologiche, le motivazioni, i rapporti
con i loro interlocutori di ruolo, con
l'azienda e l'ambiente.
Studia il comportamento umano nel
suo contesto lavorativo.
Oggi non è facile trovare lavoro, la
psicologia
del lavoro considera anche come le
persone lo cercano, l'orientamento
che hanno verso di esso e quindi
aiuta anche nel orientar le per
prendere una decisione più
consapevole. Aiuta anche nel
formare le persone al lavoro e quali
competenze incentivare in esse per
ottenere uno stato di benessere sul
proprio posto di lavoro.
Per gli studiosi di psicologia,
l'interesse è orientato al rapporto
della persona con il suo lavoro, non
l'aspetto etico e deontologico, che se
questo ne definisca i confini e sia
comunque importante.
La disciplina comprende tre aree di
interesse:
Ÿ La psicologia del lavoro: lo studio
del rapporto psicologico tra un
soggetto ed il suo lavoro e le
motivazioni in cui cerca o affronta il
proprio lavoro;
Ÿ La psicologia delle organizzazioni:
l'analisi dei contesti organizzativi, le
organizzazioni intese come entità
sopra individuali studiate allo scopo
di
promuovere il loro cambiamento.
L'organizzazione lavorativa oggi è
cambiata, infatti dalla bottega si è
passati alla fabbrica, fino ad arrivare
a contesti più ampi come quelli
virtuali. La psicologia del lavoro
studia anche come organizzare
questo tipo di lavori;
Ÿ La psicologia delle risorse umane:
l'analisi delle risorse umane e la
conoscenza dei problemi individuali
del soggetto nel contesto lavorativo,
al fine di attivare dei processi di
adattamento e di miglioramento del
contesto lavorativo.
Questa disciplina ha i suoi campi di
applicazione su due versanti:
Ÿ Accademici/ricercatori
specializzati: l'attività di ricerca,
ovvero l'elaborazione di teorie circa il
funzionamento umano, in particolari
contesti lavorativi. Per questo motivo
vengono costruiti strumenti di ricerca
che siano affidabili per misurare i
fenomeni che accadono nel mondo
del
lavoro.
Ÿ Professionisti: l'applicazione degli
studi all'esperienza, grazie
all'intervento di psicologi del lavoro
che operano per risolvere
problematiche che emergono nel
mondo del lavoro, sulle dinamiche
organizzative e del mercato del
lavoro.
Il rapporto tra ricercatori e
professionisti è fondamentale,
poiché, le due fonti di conoscenza,
ovvero quella della ricerca e quella
dell'esperienza diretta sono in
perenne confronto.
Purtroppo, tra queste due figure
professionali, esistono spesso delle
divergenze, anche se non mancano
situazioni di incontro e di
collaborazione.

Metodi di ricerca della disciplina


Esiste un plurilinguismo
metodologico con esperimenti
condotti sia in laboratorio che sul
campo.
Gli esperimenti in laboratorio
permettono
pieno controllo sulle variabili
manipolate, mentre negli esperimenti
sul campo non si può avere pieno
controllo delle variabili; infatti, gli
esperimenti sul campo sono in realtà
delle descrizioni delle variabili e dei
fenomeni che accadono in esso.
Le osservazioni sul campo sono
puramente descrittive, si può
effettuare una osservazione passiva,
a differenza del laboratorio dove c'è
l'attivo intervento sulle variabili
indipendenti.
Si considera la prima branca della
psicologia del lavoro, cioè quella
dello studio e della ricerca.
Gli studi che vengono compiuti sono
le ricerche trasversali, che vogliono
individuare delle correlazioni tra
variabili; le ricerche longitudinali,
dove si attuano delle misure ripetute
nel tempo; gli studi di archivio,
ovvero quelli condotti per cercare dati
in fonti già redatte; e infine l'analisi
dei casi, l'esame approfondito di un
numero limitato di
precise unità scelte proprio per via
delle loro caratteristiche peculiari che
permettono di poter desumere
riscontri poi generalizzabili ad altri
casi.
La seconda branca, quella della
applicazione professionale, vede gli
psicologi del lavoro lavorare nelle
aziende per sviluppare le carriere,
formare il personale, migliorare le
condizioni di produttività e ricollocare
nel mondo del lavoro le persone in
mobilità.
Si occupano di gestire il personale,
della leadership, selezione del
personale, della sua valutazione e
formazione, della comunicazione,
delle dinamiche interne di gruppo,
della motivazione al lavoro, del
sistema premi-punizioni attivo ed in
uso in una azienda, infine, dello
sviluppo di carriera della singola
persona che lavora. Per questa
disciplina è fondamentale il concetto
che si ha di lavoro. Esso, infatti, può
essere considerato secondo due
accezioni:
Ÿ Sostanziale: è l'attività che
svolgiamo,
indipendentemente dal quadro
formale in cui viene svolta. Si tratta
delle attività che facciamo per
produrre risorse utili alla
sopravvivenza, quindi lavoro inteso
come impiego, stipendio,
soddisfazione del bisogno di
sopravvivenza;
Ÿ Scientifica (sinonimo di
occupazione): concetto caro alle
scienze sociali e alla psicologia. È
inteso come l'attività umana che non
solo produce reddito ma significa
relazioni, motivazioni psicologiche,
bisogni e difficoltà, regole e turni,
posizione dentro un'organizzazione
lavorativa.
Alla fine del 1800 la Prima
Rivoluzione Industriale ha sancito
passaggi epocali nel concetto stesso
di lavoro.
Il lavoratore, prima protagonista della
propria attività lavorativa svolta nella
sua bottega, ora diventa una
semplice parte di un processo nel
quale svolge un'attività ripetuta che
produce prodotti standardizzati ed a
basso prezzo.
Ma la Seconda Rivoluzione
Industriale porta dei cambiamenti
epocali. È il tempo delle migrazioni di
massa, dei grandi consumi, ma
anche della nascita di nuove forme di
lavoro e di nuove specializzazioni. In
questo periodo vi è una grande
fiducia nelle scienze e nel progresso
scientifico.
PRIMA della rivoluzione
industriale:
Ÿ Tutti i lavori venivano fatti con la forza
dell'uomo;
Ÿ Le botteghe degli artigiani potevano
essere sia in campagna che in città;
Ÿ Gli artigiani lavoravano nella loro
bottega, c'era un maestro più esperto
che insegnava il lavoro da fare agli
apprendisti. Ogni artigiano sapeva
fare il suo lavoro dall'inizio alla fine.In
una bottega non lavoravano più di 20
persone.
DOPO la rivoluzione industriale:
Ÿ Molti lavori vengono fatti dalle
macchine;
Ÿ Le fabbriche sono vicine alle città;
Ÿ Nelle fabbriche lavorano tantissime
persone. Ogni operaio fa solo una
parte del lavoro e fa solo e sempre
quella.

La nascita della disciplina: il


concetto di soggettività lavorativa
La nascita della psicologia del lavoro,
con il suo interesse per l'uomo ed i
suoi comportamenti all'interno del
contesto lavorativo, fa superare il
concetto di Homo Oeconomicus
ovvero l'uomo attento solo
all'interesse economico, per far
emergere il concetto di uomo
psicologico, ovvero, il lavoratore
inteso come persona che ha
sentimenti ed emozioni che fanno
parte della sua prestazione
lavorativa. Anche se lavora, l'uomo
non cessa di avere sentimenti,
insoddisfazioni e problemi legati
all'attività che svolge. Quindi ciò che
nasce è l'attenzione alla soggettività.
Infatti se il processo scientifico ha
ostentato l'importanza dell'oggettività,
ora si recupera il soggetto ed
il suo vissuto.
L'individuo e la sua collocazione
lavorativa diventano un elemento
centrale dell'organizzazione
complessiva della società moderna e
diventano oggetto di studio di nuove
discipline, tra cui la psicologia del
lavoro che indaga i risvolti
comportamentali delle persone
durante i cambiamenti che il mondo
del lavoro attraversa nella sua storia.

I fondamenti teorici, gli studi e le


ricerche
Il contesto di questa disciplina è
quello della società moderna,
segnata da grandi trasformazioni
sociali ed economiche. Siamo nel
tempo delle Rivoluzioni Industriali e
della nascita della produzione di
massa, si sviluppano nuovi mezzi di
comunicazione e nasce il
Capitalismo Industriale.
A livello filosofico e scientifico siamo
nell'epoca dell'empirismo e del
positivismo, correnti di pensiero che
influenzano anche i metodi di analisi
del lavoro.
Infatti, in questo periodo nasce
l'Organizzazione Scientifica del
Lavoro.
Il pensiero filosofico scientifico del
tempo è che ogni fenomeno può
essere studiato, scomposto in parti
più piccole, matematicamente
formulato ed espresso per ottenere la
soluzione migliore e trarne il maggior
beneficio. Quindi non è più il tempo
delle grandi domande esistenziali, dei
perché della vita ma del come è fatta
la realtà, come conoscerla e come
agire su di essa. Cambia anche la
struttura organizzativa, con
l'introduzione di nuove funzioni di tipo
gerarchico.
Nel mondo del lavoro, in questo
periodo, viene introdotta la macchina
che farà cambiare sia il concetto di
lavoro che il profilo del lavoratore. La
macchina farà nascere la catena di
montaggio ed il lavoro automatico,
ovvero, un lavoro meccanizzato che
fa aumentare la produzione e ridurre i
costi.
In questo modo però, il lavoratore
diventa
passivo nel suo lavoro, che lo svolge
in modo specializzato ma settoriale,
dentro un'azienda che mira
all'efficienza ed al profitto.
L'efficienza significa che si punta alla
massima utilità, ovvero, il massimo
utile economico.
La produzione non è più mirata ed
artigianale ma è in larga scala, rivolta
a proporre beni ad un consumatore
razionale, ossia un consumatore che
conosce le proprie necessità e vuole
soddisfarle.
Questa necessità di risposta ai
bisogni primari porta ad una
produzione di beni disponibili per
essere offerti, una produzione che
supera la necessità attuale dei
consumatori e che resta in attesa di
essere proposta appena scatta la
domanda.
Avviene la creazione di una
domanda rigida, costante nel tempo
sia come quantità che come qualità,
un essere pronti all'evenienza,
ovvero, il Just in Case.
Si hanno molti prodotti in magazzino
che vengono smaltiti via via con un
continuo gioco di innalzamento e di
abbassamento del prezzo. Si
produce indipendentemente dalla
richiesta del consumatore e i
magazzini si svuotano.
In quest'epoca si hanno anche nuovi
mezzi di comunicazione che
contribuiscono ai cambiamenti; si
sviluppa la stampa ed è l'epoca
dell'invenzione del telefono e del
telegrafo.
Quindi, significa che, le informazioni
vengono diffuse velocemente, vi è
una maggiore interattività tra i
soggetti che comunicano, cambia
anche il rapporto tra lo spazio e il
tempo e si presenta il concetto di non
luogo, cioè, un concetto sociologico
per definire certi spazi dove non c'è
appartenenza, dove si transita senza
creare relazioni come ad esempio in
una stazione o un aeroporto. Il
concetto del non luogo, nella vita
attuale, si intende quel modo di
vivere di oggi dello stare in diversi
luoghi senza modificare il
comportamento in base al contesto,
quindi
vivere le relazioni senza esserne
influenzati.
La comunicazione, infatti, grazie
all'invenzione del telefono,non è più
contestualizzata in uno spazio e
influenzata dal contesto in cui accade
e ha una maggiore interattività.
Con le grandi fabbriche e la grande
produzione avviene il sorgere del
capitalismo industriale, i ricchi
capitalisti diventano i proprietari delle
fabbriche e vogliono aumentare il loro
patrimonio con una produzione
maggiorata ma a basso costo.
Chi ha il capitale possiede le
fabbriche e nelle fabbriche lavorano
gli operai, quindi, nasce una divisione
al livello del lavoro che prima nella
bottega non c'era.
Ora ci sono gli imprenditori su un
lato e gli operai sull'altro, in un
rapporto che non manca di un certo
conflitto di interessi, ossia il
capitalista vuole massima produzione
e bassi costi, il lavoratore vuole un
buon salario e buone condizioni
lavorative.
La struttura organizzativa
Questo cambiamento del lavoro vede
il passaggio della dimensione
lavorativa dalla bottega alla
fabbrica/azienda.
E queste dimensioni più ampie
chiedono anche un parziale
decentramento dei compiti direttivi e
del coordinamento.
Non c'è più il capo artigiano alla pari
con gli altri collaboratori della
bottega, ma una differenza di ruoli e
compiti nell'azienda con la presenza
di personale addetto alla gestione e
alla manutenzione della macchina.
Nella fabbrica ci sono responsabili
diversi e non più un solo capo.
Questa presenza di capi addetti alle
diverse aree permette una chiarezza
di compiti e un controllo a favore
della disciplina e della velocità delle
decisioni; però, proprio la presenza di
esperti diventa anche un problema
poiché non è facile sostituire le loro
ampie competenze in caso di
difficoltà.
Quindi, l'organizzazione del lavoro
diventa un'organizzazione verticale,
dall'alto verso il basso, fondata sul
principio di unicità di comando, in cui
ogni soggetto riceve ordini da un solo
capo.
In alto c'è il manager/produttore,
seguito poi dai quadri tecnici e poi,
infine, gli operai che hanno compiti
esecutivi.
Diverse scuole economiche e
manageriali hanno influenzato,
assecondato e interpretato il
cambiamento organizzativo.
In particolare: le teorie classiche, le
teorie motivazionaliste, le teorie
contingenti e le teorie cognitiviste.

Le teorie classiche
I principali esponenti di questa scuola
sono: l'ingegnere meccanico
Frederick Taylor con i principi di
funzionamento della fabbrica, il
Taylorismo;
L'ingegnere imprenditore Henri
Fayol con i principi di funzionamento
della direzione, il
fayolismo;
E il fisolofo e sociologo Max Weber
con i principi di funzionamento della
burocrazia.
Questi tre autori osservano la realtà
industriale mutata dalle grandi
innovazioni tecnologiche e cercano di
razionalizzarla, proponendo delle
soluzioni.
In particolare, accomunati dalla
grande fiducia nel razionalismo,
nell'idea che sia per gli uomini, sia
per le organizzazioni, esistesse un
modo ottimo di organizzarsi, che
esistesse quella che si definisce
"One best way", cioè, l'unico modo
per poter essere ottimi.
Le imprese, se vogliono essere
efficienti, devono avere un solo modo
di organizzarsi.
Non è ammessa la varianza, la
varietà delle forme, perché in
contraddizione con i principi del
razionalismo. Quindi sotto questo
aspetto, l'uomo viene considerato
come un essere razionale e
individualista, il cui agire si fonda su
una logica economica, un soggetto
motivato da stimoli ed incentivi
estrinseci, ai
quali reagisce in modo meccanico,
ossia, con comportamenti prevedibili.

L'organizzazione scientifica del


lavoro: Frederick Taylor
Nel 1980 nasce l'American Society
of Mechanical Engineers, con il fine
di migliorare i metodi di
organizzazione industriale. Frederick
Taylor, era un apprendista operaio,
laureatosi grazie agli studi serali in
ingegneria meccanica. Introduce un
nuovo sistema di gestione e
direzione aziendale: il task
management, definito
Organizzazione Scientifica del
Lavoro (OSL).
Taylor voleva trovare un metodo
lavorativo che avesse un fondamento
sia teorico che pratico e che
contribuisse a migliorare il rapporto
tra produzione e costi.
La nuova organizzazione del lavoro
doveva partire da un solido
fondamento teorico, basato su teorie
scientifiche e di osservazioni
(l'anima filosofica e pratica del tempo
era
quella di agire avendo un riferimento
teorico forte che motiva, giustifica e
spiega non solo i fenomeni ma anche
i risvolti pratici quotidiani).
A questo, Taylor raggiunse una
selezione scientifica della
manodopera, un metodo basato
sulla preparazione e sul
perfezionamento dei lavoratori e
una cordiale collaborazione tra
dirigenti e operai, ovvero, un
compromesso.

Osservazioni ed esperimenti
Taylor, osservando il lavoro degli
operai, individuò ciò che portava alla
caduta della produttività. L'operaio,
sebbene abbia una distribuzione dei
compiti, ha una certa autonomia
rispetto al modo di svolgere il lavoro
data dalla scelta di tempo.
All'epoca, però, gli operai erano
pagati a cottimo, cioè pagati in base
a quanto tempo impiegavano per
produrre un prodotto ed in base a
quanta merce producevano.
Secondo Taylor, questo, portava a
lavorare a rilento per la paura di
produrre troppo, in quanto la paga
per il cottimo veniva data avendo
come riferimento la produzione
media di un gruppo; quindi se un
gruppo produceva mediamente 10
scarpe al giorno il cottimo si attivava
per pagare gli operai se si superava
la media di squadra. Così facendo,
però, i lavoratori producevano
lentamente al fine di avere una
produzione media bassa e ottenere
un cottimo che scattasse ad un livello
basso.
Taylor aveva notato anche che i
settori delle organizzazioni non
crescevano in modo uniforme, gli
stessi manager che guidavano i
diversi settori erano persone
diventate manager proprio per la loro
bravura, ma si erano settorializzati
nelle loro conoscenze, quindi,
eccellendo solo nel loro settore.
Spesso infatti erano stati operai o
manovali diventati poi manager
proprio per il motivo delle loro
capacità ma comunque esperti solo
nel loro settore, per questo potevano
esserci
settori più eccellenti perché guidati
da manager più capaci ed altri invece
più scadenti nell'ambito della stessa
azienda.
Inoltre, non sempre la buona
organizzazione è la capacità di
profitto erano proporzionali: alcune
aziende ben organizzate erano
comunque infruttuose.
Un altro aspetto osservato era che le
esigenze dei lavoratori (che
chiedevano salari più alti) e dei datori
di lavoro (che chiedevano
manodopera a basso costo) erano in
conflitto.
Quindi era fondamentale ottenere un
incontro tra le due aspettative, tra
produttori e forza-lavoro, per
contrastare il fenomeno nato a causa
del capitalismo che aveva segnato un
conflitto tra una produzione che
voleva essere massima e a basso
costo ed una manodopera, con salari
bassi e spesso con lavori
dequalificanti, che chiedeva un
miglioramento delle sue condizioni.
Taylor fece osservazioni ed
esperimenti sul
campo di lavoro osservando il
trasporto dei materiali grezzi nei
depositi delle officine.
Vi erano squadre di operai che
avevano il compito di scaricare carri
ferroviari ammassando il materiale in
pile, per poi ricaricarlo su dei carri.
L'unico incentivo al lavoro era il
richiamo verbale, qualora si
allentasse il lavoro, sotto minaccia di
licenziamento, mentre l'unico premio
era quello di essere un bravo
operaio, sperando di crescere di
grado in una successiva e più alta
posizione lavorativa e ottenere un
salario più alto.
Quindi era un lavorare bene per
sperare di essere promossi.
Taylor diede l'incarico organizzativo
ad un tecnico che non aveva mai
svolto quel lavoro e selezionò poi un
gruppo di operai abili definiti first
class (gruppo sperimentale).
Scompose ed analizzò i singoli
movimenti considerando i tempi di
esecuzione e cronometrò il lavoro
tenendo conto anche
degli utensili che dovevano usare e
delle posizioni da assumere. Cercò di
considerare quali movimenti
potevano essere eliminati perché
considerati "falsi,inutili e pigri" e
definì il movimento lavorativo in
modo razionale, standardizzando
anche l'uso degli strumenti.
Si arrivo ad aumentare la produttività
avendo operai di primo ordine che
riuscivano ad aumentare il proprio
rendimento giornaliero, l'operaio
migliore era considerato un uomo
giusto al posto giusto.
Taylor aveva anche coinvolto il
lavoratore nella sua prestazione;
infatti, ogni giorno l'operaio riceveva
un talloncino con su scritto il lavoro
svolto il giorno precedente e, in
questo modo, incentivandolo a
migliorare la sua performance
lavorativa precedente, veniva
alimentata la ricerca del cottimo
personale e non quello di squadra.
Sapere quanto lavorato il giorno
precedente, portava il lavoratore ad
automigliorarsi e il
cottimo personale motivava di più
rispetto a quello di squadra perché
con quest'ultimo il proprio lavoro
veniva distribuito con gli altri,
portando ad un abbassamento del
proprio guadagno medio. In caso di
buona riuscita del proprio lavoro
l'operaio avrebbe ricevuto in cambio
una paga alta. Nel caso di un
insuccesso, invece, avrebbe subito
una perdita di paga.
Nel complesso, Taylor operò una
vera e propria ristrutturazione
dell'apparato direttivo, basata non più
su un Modello Gerarchico Lineare,
bensì su un Modello Funzionale
Gerarchico:
In alto la direzione, in basso il reparto
operativo, tra i due si configurava un
ufficio programmazione composto da
capi intermedi che ricevevano le
direttive dai piani alti ed erano capaci
di dare disposizioni a coloro che
erano nella base operativa.
Il lavoro viene suddiviso in modo che
ogni persona avesse il minor numero
di funzioni
(possibilmente una).

Critiche al Taylorismo
Le idee di Taylor furono usate da
molte aziende come base teorica del
loro impianto organizzativo, come ad
esempio la Ford, l'azienda di
proprietà di Henry Ford che, grazie
al suo lavoro, diede vita al fordismo.
Il metodo, in fondo, descriveva il
contesto nel quale si radicava e,
grazie alle sue basi teoriche, diede
origine ad un movimento, lo
Scientific Management.
Le intenzioni di Taylor erano buone,
ossia migliorare l'industria e i suoi
processi di produzione ma, per
qualcuno, furono considerate come
una sorta di sfruttamento del lavoro.
Le critiche infatti furono diverse,
addirittura si disse che questo
metodo prevedeva degli operai buoi,
uomini che non dovevano pensare
ma solo eseguire gli ordini,
delegando ad altri le decisioni. Alcuni
notarono la mancanza di
prospettive
psicologiche degli effetti del lavoro
sull'individuo. Il metodo, infine,
prevede anche un'eccessiva
parcellizzazione del lavoro e
compiti suddivisi, un solo compito a
persona che di sicuro garantisce
maggiore efficienza ma non tiene
conto delle ricadute psicologiche. Il
lavoro parcellizzato creava una
catena estremamente efficiente e
produttiva ma non teneva conto
dell'alienazione a cui andava incontro
lavorando sempre e solo nello stesso
modo. Il merito è quello di aver
cominciato a riflettere sul lavoro, a
non vederlo solo come attività per
produrre ed avere reddito ma sotto
una prospettiva più scientifica.

Teorie motivazionaliste
Agli inizi del 900 si sviluppano le
teorie motivazionaliste. Queste
teorie costituiscono un approccio
teorico che nasce dalle critiche alla
scuola classica. Le teorie
motivazionali nascono proprio
laddove la scuola classica si
fa sponsor di un modello di
organizzazione che determina
alienazione e depressione degli
operai.
Taylor parlò di divisione del lavoro
nella fabbrica, di parcellizzazione
estrema dei compiti e delle mansioni
insegnate ad ogni singolo operaio,
con un coinvolgimento intellettuale
nullo dell'operaio stesso, considerato
solo un braccio meccanico che vede
il suo lavoro routinizzato e l'unico
scopo perseguito era quello di
incrementare la produttività.
Ed è proprio partendo da questa
concezione della divisione del lavoro
all'interno della fabbrica che la scuola
motivazionale matura il suo
contributo. Il fulcro teorico di
questa scuola è l'analisi dei fattori
motivazionali alla base del
contributo lavorativo. Si parla
anche di scuola delle relazioni umane
perché l'operaio, ma in generale
l'uomo all'interno della fabbrica, deve
essere considerato innanzitutto come
essere umano, dotato di
una sua individualità, di socialità, di
un suo profilo caratteriale, di proprie
attitudini, di propri limiti cognitivi e,
quindi, considerato non solo "braccia
senza né testa né sentimenti".
La scuola motivazionale si
caratterizza per un particolare
approccio metodologico al problema,
che vede un forte grado di
empirismo o una propensione per i
casi reali e non per le grandi
enunciazioni teoriche. Non si
ricercano principi scientifici come la
scuola classica ma si realizzano studi
empirici sviluppati all'interno delle
aziende. Esponenti principali di
questa scuola sono:
Lo psicologo Elton Mayo, il dirigente
aziendale Chester Barnard, lo
psicologo David Mc Clelland, lo
psicologo Abraham Maslow,
l'economista Chris Argyris, lo
psicologo Frederick Herzberg, e,
infine, l'economista e psicologo
Douglas McGregor.
La scuola delle relazioni umane:
Elton Mayo
Elton Mayo è stato uno psicologo e
sociologo considerato un po' una
figura atipica per leccezionale rigore
dimostrato nelle sue teorie che
sottoponeva a confronto continuo con
risultati oggettivi.
In collaborazione con i suoi colleghi
di Harvard, fece i suoi esperimenti in
campo lavorativo nelle filature di
un'azienda tessile di Philadelphia.
Ha dato molta importanza ai fattori
umani e alle relazioni che si
instaurano nei contesti lavorativi.
Ciò che era stato riscontrato era che
nei periodi di massimo sforzo
l'azienda tessile era stata costretta ad
assumere 100 unità, usandone però
di fatto solo 40 perché il reparto di
filatura si caratterizzava per un
continuo turnover. L'azienda, alla
fine, si ritrovava in difficoltà
organizzative e produttive anche
perché il turnover implicava un
aumento dei costi di produzione e
nello
stesso tempo incrinava l'efficienza
nell'organizzazione.
Mayo fece le sue osservazioni
notando che il lavoro in filatura
impiegava una certa sorveglianza
continua delle macchine anche se
l'attenzione non veniva assorbita
completamente. I lavoratori, però,
erano comunque in continua tensione
ed era proprio questa continua
tensione che portava al turnover.
Prima indagine: Mayo decise di
sottoporre alcuni operai di questa
azienda tessile di Philadelphia ad un
esperimento, per indagare meglio il
fenomeno dello stress prolungato che
li attanagliava.
Nella prima fase, fu preso un terzo
del reparto e agli uomini fu detto che
avrebbero potuto fare delle brevi
pause di 10 minuti ciascuna, una la
mattina e altre due nel pomeriggio,
quando farle era a scelta libera degli
operai.
Osservando i cambiamenti, Mayo
notò che la
produzione aumentava in tutto il
gruppo coinvolto nel test ma
interessava anche gli altri operai del
reparto, facendo diminuire il bisogno
di turnover. Nella seconda fase
dell'esperimento, furono introdotte
due pause ottenute per merito al
raggiungimento degli obiettivi
prefissati, ma la situazione tornò alle
condizioni iniziali, quindi un turnover
aumentato e una produzione
diminuita.
Nella terza fase dell'esperimento
furono date delle pause senza
condizioni, per cui si decise di
fermare anche le macchine in modo
che anche i capi reparto potessero
riposare.
Come risultato, Mayo vide che si
avevano massimi risultati in poco
tempo, con bisogno di turnover
diminuito e produzione complessiva
delle parti aumentata.
Quindi, si erano le create le
condizioni della prima fase
dell'esperimento.
L'esito finale dell'esperimento fu che
le persone si accordarono per
decidere
singolarmente come usufruire delle
pause che avevano a disposizione, in
modo da garantire il movimento
continuo dei macchinari. Tutto ciò
incrementò la coesione ed il senso
di autonomia nel gruppo che,
vedendosi responsabilizzato,
aumentò la produzione e mostrò
meno necessità di intervenire con il
turnover.
Seconda indagine: Mayo fece una
seconda indagine nel campo del
montaggio dei relè telefonici (un
componente elettromeccanico) che
durò dall'aprile del 1927 al giugno
1932. L'esperimento prevedeva di
separare un piccolo gruppo di
operaie addette al montaggio dei relè
per valutare l'effetto su di esse e del
mutamento delle condizioni
lavorative. Lo spazio sperimentale
era una stanza ben illuminata
appositamente allestita e separata
dal resto del gruppo, chiamato test
room.
Le operaie non sapevano che la loro
produzione era controllata.
L'esperimento fu
articolato in periodi dalla durata
variabile e caratterizzati da alcuni
elementi specifici osservati durante il
periodo:
Primo periodo: viene analizzata la
produttività delle singole operaie a
loro insaputa per ottenere una
misurazione di partenza della loro
produzione di base;
Secondo periodo: un gruppo scelto
di 6 operaie viene prelevato dall'area
di lavoro comune e inserito nella test
room, analizzando la loro produzione
senza introdurre alcun elemento
innovativo;
Terzo periodo: si introduce un primo
elemento innovativo, un nuovo
sistema di pagamento. Le operaie,
le quali prima erano pagate in
funzione della produzione
complessiva di tutte e 100 quelle
assunte dall'azienda, ora venivano
pagate in funzione della produzione
delle sei operaie coinvolte nel test,
quindi con un salario più
proporzionale al proprio sforzo;
Quarto periodo: vengono inserite le
pause di 5 minuti ciascuna, una alle
10 e una alle 15.
Al termine di questa prima fase,
Mayo notò che la produzione era
aumentata sensibilmente.
Quinto periodo: le due pause
introdotte nel quarto periodo vengono
prolungate fino a 10 minuti circa.
Grazie a questi cambiamenti, la
produzione giornaliera e settimanale
aumenta;
Sesto periodo: vengono introdotte
ulteriori 6 pause di 5 minuti
ciascuna che provocano una
lamentela delle operaie per
l'eccessive interruzioni, con
conseguente lieve pregresso nella
produzione;
Settimo periodo: questa è la fase
centrale dell'esperimento, in cui
Mayo osserva un calo produttivo
attorno alle 9:30 del mattino in
seguito agli stimoli della fame. Si
decide, così, di abolire le piccole
pause e inserire un intervallo di 15
minuti attorno alle 9:30 e ripristinare
le due pause di 10 minuti introdotte
nel quinto periodo. Si nota un
aumento della produzione più alto dei
precedenti periodi;
Ottavo periodo: il gruppo può
concludere la giornata di lavoro con
mezz'ora di anticipo, alle 16:30;
Al termine di questa seconda fase,
Mayo notò un aumento
complessivo della produzione.
Nono periodo: viene ripristinato
l'orario di uscita canonico delle 17,
con conseguente leggero calo nella
produzione settimanale, a fronte di
un incremento di produzione
giornaliero;
Decimo periodo: si reintroducono
le innovazioni del settimo periodo,
quindi 15 minuti di pausa alle 9:30 e
altre due pause di 10 minuti. Qui
viene osservato il massimo assoluto
per la produzione.
Undicesimo periodo: viene
introdotta la settimana corta (niente
lavoro di sabato) e questo provoca
una produzione giornaliera
aumentata ma non in maniera così
significativa da compensare le ore
lavorative del sabato mancanti,
nonché una riduzione
proporzionale della produzione
settimanale nel suo insieme;
Dodicesimo periodo: vengono
inserite tutte le condizioni iniziali ed
effettuate delle interviste, con
conseguente produzione che registrò
i suoi massimi;
Tredicesimo periodo: reintrodotte le
innovazioni del settimo periodo,
con un aumento della produzione;
Quattordicesimo periodo: si notano
gli stessi esiti dell'undicesimo
periodo;
Quindicesimo periodo: si notano gli
stessi esiti del tredicesimo periodo.
Esiti: le operaie produssero una
quantità di relè superiore a quella
iniziale. L'aumento della produzione
era indipendente dall'introduzione
delle pause, le operaie non si erano
lamentate per la stanchezza, nessun
problema di salute registrato, una
condizione fisica complessiva
migliore della precedente e, infine, un
turnover diminuito dell'80%.
Questo perché la fatica era
diminuita, c'era
stato un aumento del salario che
dava soddisfazione alle operaie che
si sentivano gratificate per il loro
lavoro, ma soprattutto era cambiata
la loro mentalità.
C'era un clima di collaborazione che
rendeva superflua la sorveglianza e
portava le operaie a non concentrarsi
sulla fatica.
Quindi l'influenza determinante era
proprio quella delle relazioni sociali
che, incidendo sul morale delle
operaie, aumentava il loro senso di
soddisfazione ed accresceva anche
la produttività. Quindi la ricerca di
Mayo ha dimostrato che l'uomo è
motivato sia dalle istanze
economiche e sia dai bisogni
sociali.
Infatti, i confronti interpersonali danno
il senso della propria identità e il
bisogno di relazione è fortemente
sentito nella società industriale.
Secondo Mayo, la nuova
organizzazione del lavoro deve
tendere a tenere insieme sia
l'elemento economico che quello
sociale.
La scuola di Mayo, infatti, viene
chiamata
Scuola delle Relazioni Umane e la
differenza rispetto a Taylor è
proprio l'attenzione al fattore
umano con l'intento di creare un
ambiente socialmente gradevole ed
armonico.
Tutto questo significa dare
importanza agli aspetti informali
centrati sulla collaborazione tra
direzione ed operai, dove la direzione
sa ascoltare, consigliare ed essere
sensibile ai bisogni dei lavoratori.
Per far fronte all'alienazione del
lavoro, Mayo aveva notato, che gli
operai creavano autonomamente
gruppi informali, dove la relazione
sosteneva la motivazione al lavoro ed
era, quindi, il fattore da curare dentro
le organizzazioni lavorative se si
voleva tutelare la produzione.
Infine, la produttività di
un'organizzazione non dipende
semplicemente dal singolo individuo
ma è determinata da tutto il gruppo
dei lavoratori.
Quindi, la motivazione dei lavoratori
non è dettata solamente dal salario
ma anche dal
clima, il gruppo informale, la fiducia, il
coinvolgimento di tutti gli operai e la
creazione di strumenti organizzativi
alternativi (ad esempio il nido
aziendale).
Limiti: Mayo non ha saputo rendere
conto delle insoddisfazioni che si
sperimentano nel luogo di lavoro e
che potrebbero rischiare di far
riportare l'ambiente lavorativo alle
situazioni iniziali.
Non ci fu, quindi, un vero e proprio
superamento del Taylorismo.
Mayo però, rispetto a Taylor, ha avuto
l'attenzione per la soggettività del
lavoratore, dando importanza al
fattore umano.
Taylor, invece, era interessato
solamente a migliorare la produttività,
senza tener conto del benessere dei
singoli lavoratori.
Ciò che è accaduto con il lavoro di
questi autori è stato il porre
attenzione verso la sofferenza, lo
sfruttamento e la dipendenza che
spesso regnava nel mondo del
lavoro.
Con il tempo si formeranno le
istituzioni di tutela del lavoratore
come le organizzazioni sindacali
(che per Taylor non avevano ragione
di esistere visto che organizzando il
lavoro, aumentando la produzione e
migliorando la paga si aveva il pieno
accordo tra capitalisti e operai), i
datori di lavoro comprenderanno che
per raggiungere buoni risultati
occorre creare un clima di
collaborazione e dare attenzione
anche alle aspirazioni dei lavoratori.
I successivi studi delle Human
Relations si focalizzarono sui gruppi,
sull'effetto che aveva l'appartenenza
o meno al gruppo da parte dei singoli
e, infine, sul rendimento individuale
complessivo.

L'interesse individuale e
istituzionale: Chester Barnard
Chester Irving Barnard era un
dirigente aziendale americano,
amministratore pubblico e autore di
lavori pionieristici in teoria della
gestione e studi organizzativi. Non è
un accademico puro, inizia una
carriera manageriale alla "A.T.T.",
l'American Telephone and
Telephone Company, per poi uscire
da questo percorso manageriale per
fare il presidente della Rockefeller
Foundation, una fondazione
americana molto importante
finanziata dalla famiglia Rockefeller.
In seguito, dalla carriera manageriale
passa al mondo della ricerca,
diventando presidente dell'American
Science Foundation, una struttura
pubblica di ricerca scientifica.
L'autore parte dal presupposto che
gli interessi del singolo non sono
in linea con quelli
dell'organizzazione. La motivazione,
pertanto, si incentiva solo quando i
bisogni dell'organizzazione e i bisogni
del singolo si integrano.
Per far questo, Barnard, sviluppa la
sua riflessione partendo dalla
distinzione di due termini: l'efficacia e
l'efficienza.
L'efficacia è associata all'istituzione
ed è la capacità di un'organizzazione
di conseguire un certo livello di
profitto, di quota di mercato e di
livello di fatturato.
L'efficienza è del singolo individuo
e riguarda la soddisfazione delle
aspettative personali intese come
conseguimento dei fini del soggetto.
Il soggetto se vede che in quello che
fa le sue aspettative sono
soddisfatte, allora continua il suo
sforzo, ovvero l'impegno lavorativo,
altrimenti non continua nel suo
impegno e questo va a condizionare
il suo livello di efficienza.
L'istituzione mira a soddisfare le
esigenze del capitalista, mira a
finanziarsi ed è efficace sia quando
riesce a mantenersi
economicamente, sia quando riesce
a garantire un elevato livello di
soddisfazione individuale nei suoi
lavoratori (efficienza lavorativa).
Barnard formula un principio che
tiene conto di questi due poli e
descrive il rapporto che c'è
tra l'interesse e il compenso. Il
principio istituzionale afferma che
l'efficacia dell'istituzione Non può
essere raggiunta se non si tiene
conto dei fini personali e quindi
dell'efficienza individuale. Affinché si
realizzi il fine individuale è necessario
che l'individuo percepisca un
compenso che non è solo di tipo
monetario. Infatti, l'individuo, accetta
di cooperare e di condividere il fine
istituzionale se riceve un compenso,
ovvero, una gratificazione, che sia
sufficiente ed anche superiore ai suoi
sforzi. Questo compenso non è solo
monetario ma anche fatto di
gratificazioni morali, del sentirsi a
proprio agio nelle relazioni interne al
gruppo e anche in termini di
prospettive di carriera. Il lavoratore
non si sforza solo per avere le
ricompense monetarie ma anche per
la considerazione dei suoi valori,
nella speranza di ricevere delle
ricompense morali. Lo sforzo del
lavoratore è determinato da questa
ricompensa e dipende da una sorta
di
proporzione, ossia dell'entità della
ricompensa moltiplicata per la
probabilità che essa accada
(esempio dello studio di minor sforzo
perché il docente non mette mai 30).
Lo sforzo porta ad una prestazione
che, a sua volta, dipende dal grado di
competenza, di capacità e di abilità
che ognuno possiede; ognuno,
quindi, compie sforzi diversi e offre
prestazioni diverse.
Uno sforzo può essere lo stesso per
due lavoratori ma le prestazioni
saranno diverse perché le capacità
sono diverse (esempio di matematica
e psicometria, stesso studio del
collega abile in matematica ma voto
diverso).
La prestazione individuale, infine,
dovrebbe avere una soddisfazione e
delle ricompense che possono
essere intrinseche (gratificazioni di
tipo psicologico, come un grazie
ricevuto da un superiore) ed
estrinseche (compenso monetario).
In questo nuovo modo di intendere
l'azienda cambia anche il ruolo del
dirigente capo.
L'aumento di produttività dipende
dalla sua capacità di comunicare idee
e di coinvolgere i dipendenti nelle
decisioni che vengono prese. Tutto
questo incrementa il compenso
intrinseco, ovvero la soddisfazione,
che incrementa la produttività perché
il dipendente si attiva in questo
senso.

Il principio di autorealizzazione:
David Mc Clelland
Intorno agli anni 50, si sviluppa
all'interno della teoria
motivazionalista e dai contributi
psicoanalitici di Sigmund Freud,
un'attenzione particolare alle
motivazioni dell'individuo. Questa
nuova prospettiva porta gli studiosi di
organizzazione a studiare le
motivazioni soggettive partendo dalla
storia psicoanalitica della persona,
ancor prima del suo ingresso in
azienda. Il fondatore della
psicoanalisi arrivò ad affermare che
le motivazioni sono inconsce.
Al proprio interno esistono delle
motivazioni
che l'individuo stesso si porta dietro,
in qualsiasi campo di attività, e che
ne condizionano l'operato. È
possibile rinvenire influenze
significative di tale approccio anche
nella teoria organizzativa, in
relazione, soprattutto, ai concetti di
motivazione al lavoro e di
autorealizzazione. In particolare lo
psicologo David McClelland, con
l'elaborazione del concetto di
autorealizzazione, analizza le
implicazioni dell'approccio
psicoanalitico sull'organizzazione
aziendale.
Il punto di partenza di McClelland è
rappresentato dal fatto che ogni
persona porta con sé delle
motivazioni inconsce, tali da essere
trasferite anche all'interno
dell'ambiente di lavoro.
Al contrario della scuola
motivazionalista, che ha studiato il
comportamento dei capi in rapporto
alle persone e, di conseguenza, i
condizionamenti che potevano
derivare dall'ambiente di lavoro nei
confronti delle
persone, McClelland afferma che
sono gli individui a portare le
proprie motivazioni all'interno del
luogo di lavoro e all'interno
dell'organizzazione di cui fanno
parte.
McClelland individua due tipi di
motivazione che si formano nel
percorso di vita del lavoratore a
partire dalla sua infanzia e nella
relazione di identificazione con le
figure parentali:
La motivazione al successo:
caratteristica dei soggetti definiti
achiever (realizzatori/trici), lottano
per raggiungere un certo predominio,
sono ambiziosi, decisi, aggressivi,
con una buona propensione al rischio
per l'azione. In psicoanalisi sono
considerati soggetti con
comportamento reattivo (di rifiuto a
identificarsi con il modello
comportamentale del genitore dello
stesso sesso), un comportamento
spesso rinvenibile nei capi di
azienda dediti all'azione. Sono
persone che amano il comando che
prediligono il fare più che il parlare,
vogliono il successo e
sono disposti a passare su tutto per
ottenerlo;
La motivazione alla sicurezza:
caratteristica dei soggetti che
mostrano alti livelli di need for
affiliation, ovvero il bisogno di una
persona di provare un senso di
coinvolgimento e appartenenza
all'interno di un gruppo sociale, sono
persone passive che rimangono a
guardare e preferiscono la tranquillità
e la stabilità piuttosto che l'azione
rischiosa. Non amano gli ostacoli,
non sono vendicativi, sono più filosofi
che attori e spesso sono oggetto di
ironia.
Dietro la tesi dell'autorealizzazione
attraverso la soddisfazione del need
for achievement, vi è uno dei
caposaldi della ideologia diffusa,
negli anni 50, presso la classe media
americana, ovvero: l'amore per il
successo, l'imprenditorialità, nessun
timore per il lavoro duro purché vi sia
guadagno e risultato. Quindi questo
contributo di natura psicoanalitica
trova conferma rispetto ad un
determinato periodo storico e ad uno
specifico contesto sociale, in cui
l'elevato sviluppo industriale favoriva
l'affermazione degli achiever, degli
individui alla ricerca di una
realizzazione da conseguire
attraverso il lavoro.

La scala dei bisogni: Abraham


Maslow
Un altro contributo fondamentale nel
definire il concetto di
autorealizzazione è costituito dalla
scala dei bisogni elaborato dallo
psicologo Abraham Maslow. Egli
parte dal presupposto che la
motivazione di un comportamento
nasce dalla tendenza alla
soddisfazione di un bisogno, ovvero
esiste una motivazione qualora esista
un bisogno da soddisfare.
Partendo da questa premessa,
Maslow cerca di inquadrare il
concetto di autorealizzazione
mediante l'elaborazione di una
classificazione dei bisogni individuali
(una scala gerarchica ordinata).
I bisogni hanno una gerarchia ed un
ordine di priorità e solo quando è
stato soddisfatto un bisogno
precedente si può realizzare il
bisogno successivo, arrivando al
bisogno di realizzarsi
psicologicamente.
Questi bisogni sono:
Bisogni fisiologici: sono relativi alla
sopravvivenza immediata
dell'individuo. Potrebbero essere ad
esempio l'alimentazione, il bere, il
vestirsi, la ricerca di un luogo dove
dormire, la ricerca di un lavoro anche
"alla giornata";
Bisogni di sicurezza: riferiti alla
sopravvivenza nel medio termine e
sono costituiti dalla necessità di
assicurarsi un reddito e
un'occupazione di natura fissa che,
nel medio periodo, garantisca una
condizione di vita sufficiente alla
sopravvivenza;
Bisogni sociali: sono rappresentati
dal vivere in un contesto gradevole.
Nel momento in cui l'individuo ha
soddisfatto i suoi bisogni primari e di
medio termine, cerca anche di
collocarsi,
quindi di vivere all'interno di un
contesto gratificante;
Bisogni dell'io: sono costituiti
dall'aspirazione a riconoscimenti
sociali. In questo stadio, l'individuo ha
necessità, ad esempio, che il proprio
lavoro all'interno di un contesto
organizzativo abbia dei
riconoscimenti da parte dei propri
capi, dei propri colleghi e delle
persone che lavorano
nell'organizzazione stessa;
Bisogni di autorealizzazione: sono
relativi alla necessità avvertita dal
individuo di svolgere, ad esempio, un
lavoro che arricchisca
psicologicamente, che vada a
soddisfare i propri bisogni interni, in
termini di aspettative future, di
carriera, di competenze che possono
essere acquisite nel corso degli anni
e quindi in termini di affermazione
professionale.
Secondo Maslow, il soddisfacimento
dei bisogni procede secondo unq
sequenza predeterminata, un
percorso abbastanza
automatico e meccanico: solo coloro
che hanno soddisfatto i bisogni
precedenti sentono il bisogno di
realizzarsi e di crescere
psicologicamente. Ed è proprio in
relazione a questa ipotesi di
funzionamento della scala dei bisogni
che sono state avanzate delle
principali critiche. In particolare,
relative ad un implicito evoluzionismo
dell'approccio. Si ha un'impostazione
un po' meccanicistica che consente il
passaggio da uno stadio all'altro
soltanto dopo aver soddisfatto il
bisogno precedente. Contro queste
ipotesi di evoluzionismo e di
sequenzialità semplice dei bisogni,
possono essere però avanzate molte
prove contrarie.
Come: esistono soltanto questi tipi di
bisogni o possono essere definite
ulteriori categorie? È necessario,
inoltre che si segua un determinato
ordine nel soddisfacimento di questi
bisogni o c'è la possibilità che due o
più bisogni possono essere
soddisfatti contemporaneamente? A
queste domande è
possibile dare una risposta
affermativa, ad esempio un individuo
che si priva di beni di prima necessità
per acquistare un automobile costosa
che rappresenta un particolare stile di
vita, o un determinato status. Al di là
di queste critiche condivisibili, rimane
il merito di questo approccio nell'aver
proposto un'interpretazione e una
contestualizzazione del concetto di
autorealizzazione.

L'organizzazione sana: Chris


Argyris
Negli anni 50 altri autori contribuirono
a definire il quadro organizzativo
della valorizzazione delle risorse
umane come capitale fondamentale
della competitività delle imprese. Tra
questi, un importante contributo è
quello di Chris Argyris, teorico
americano e professore alla Harvard
Business School. Argyris è il tuo
fondatore dello sviluppo
dell'organizzazione ed è noto anche
per il lavoro fondamentale sulle
organizzazioni di apprendimento. La
sua
teoria si incentra sul concetto di
sviluppo organizzativo sano,
l'organizzazione sana appunto. La
tesi di fondo di questo approccio è
costituita dal fatto che le motivazioni
e gli interessi di sviluppo
individuale di ogni singolo
individuo facente parte di
un'organizzazione, non coincidono
con gli interessi
dell'organizzazione stessa, la quale
contrasta direttamente gli interessi di
sviluppo individuale, soprattutto ai
livelli più bassi.
L'operaio viene sempre considerato
manodopera e deve soltanto ricevere
ordini, eseguire e realizzare ciò che
gli era stato chiesto. Per Argyris,
questi modelli prevalenti di
organizzare il lavoro nelle imprese
sono incongruenti rispetto ai bisogni
di un adulto responsabile, soprattutto
se si considera che l'essere umano
cresce attraversando i seguenti 7
stati di sviluppo:
1) Attività: l'individuo inizia ad
operare e a svolgere le prime attività,
anche se dipende da altri (il bambino
inizia a camminare, a
parlare e a rendersi conto del mondo
che ha attorno);
2) Autosufficienza: dalla
dipendenza da altri soggetti (adulti), il
bambino passa ad una limitata
autosufficienza, quindi cammina da
solo, riesce a mangiare da solo
eccetera;
3) Versatilità: l'individuo manifesta
un comportamento più adattabile e
meno prevedibile rispetto a
determinate situazioni;
4) Dedicarsi ad una determinata
attività in modo continuativo:
capacità di un individuo di focalizzare
l'attenzione su determinate attività e
sviluppare i propri interessi;
5) Rievocazione: capacità di avere
ricordi e di distinguere tra passato e
futuro, in modo da cercare di
influenzare quest'ultimo attraverso
delle scelte precise;
6) Giudizio: l'individuo impara a
giudicare e, all'interno di
un'organizzazione, può assumere sia
ruoli subalterni sia ruoli direzionali,
relazionandosi con altre persone
anche di livelli gerarchici differenti;
7) Maturità: l'individuo sviluppa una
propria idea di sé in modo del tutto
indipendente dal contesto all'interno
del quale opera ed è quindi disposto
a difendere tale personalità e identità
in modo del tutto disinvolto.
L'implicazione fondamentale di
questo percorso di sviluppo
dell'individuo è che un soggetto che
arriva agli stati superiori è molto
difficile da gestire da parte
dell'organizzazione stessa. È un
individuo che ha una propria
coscienza di sé, che ha maturato una
propria personalità ma che è difficile
da gestire da parte
dell'organizzazione. È la persona che
può dare di più all'organizzazione ma
che, allo stesso tempo, porta i
maggiori problemi organizzativi, se
dovesse essere gestito così come
affermato dalle teorie classiche, in cui
all'individuo veniva richiesto
passività, dipendenza e
subordinazione.
Per questi motivi, all'interno
dell'organizzazione, è necessario
ricorrere ad
un nuovomodello di sviluppo
organizzativo che preveda la
delega e il decentramento dei ruoli
e delle decisioni.
Per questo motivo le strutture
concentrate al potere sono negative
in quanto generano reazioni come
avversione, ostilità e apatia.
L'individuo non deve essere più visto
come una semplice macchina in
grado di realizzare azioni a comando,
ma qualcuno a cui deve essere data
la possibilità di decidere, prevedendo
specifici ambiti operativi e decisionali
all'interno dell'organizzazione.
Per Argyris, l'organizzazione sana è
quella che riesce a mediare le
proprie finalità con quelle degli
individui e crede che la
soddisfazione delle esigenze degli
individui riesca a garantire la
sopravvivenza. In questo senso,
l'organizzazione sana è quella che
riesce ad essere adattabile alle
caratteristiche degli individui che ne
fanno parte, che sa andare incontro
alle esigenze degli individui stessi
ponendo attenzione
soprattutto alle persone con istanze
di crescita.

La correlazione tra soddisfazione e


compito: Frederick Herzberg
Frederick Irving Herzberg è stato
uno psicologo statunitense, divenuto
uno dei più influenti nella direzione
aziendale. È famoso soprattutto per
aver introdotto il job enrichment e la
teoria dei fattori igienico motivanti.
Secondo questo approccio, la
produttività di un'azienda non
dipende soltanto dal comportamento
dei capi ma anche dalla
compartecipazione dei lavoratori.
In particolare, per Herzberg ogni
soggetto deve essere interessato
al compito svolto.
Ad esempio l'operaio taylorista che
sta lungo una catena di montaggio e
svolge un compito ripetitivo nel
tempo, questo operaio, deve avere
non solo un interesse per ciò che sta
facendo, ma deve ricevere anche
una soddisfazione dal compito.
Quindi, è necessario che
l'organizzazione vada ad incentivare
l'interessamento di quella persona
all'attività che deve svolgere, in
quanto è inutile imporla con la forza,
meglio che sia accettata e che vi sia
un interessamento da parte del
lavoratore. Le ricerche di Herzberg si
muovono quindi in direzione della
correlazione tra soddisfazione e
compito, distinguendo due tipologie
di fattori che influiscono sulla attività
svolta:
Fattori attivamente motivanti: sono
quelli che producono e stimolano
atteggiamenti positivi e rendimento,
spingendo a diventare sempre più
esperti e ad assumersi i compiti più
impegnativi. Questi fattori sono
riconducibili alle motivazioni che ogni
singolo individuo trova nella stessa
attività che svolge; quindi, lavorare è
difficile ma dà soddisfazione.
Fattori ambientali: servono a
impedire cali di morale e di efficienza.
Sono essenziali per la motivazione
ma non vanno direttamente a
motivare, ma sostengono solamente.
Questi fattori sono costituiti, ad
esempio, dalla retribuzione, dalla
stabilità del lavoro, dall'ambiente di
lavoro. Ad esempio, se una persona
lavora all'interno di una fabbrica
degradante, in un ambiente ostile,
anche in termini di comunicazione e,
malgrado questo, si presenta tutti i
giorni al lavoro, svolgendo bene i
propri compiti, significa che ha dentro
di sé una forte motivazione, una
spinta a far bene il proprio compito.
In questo caso si hanno fattori
motivanti molto elevati e superano
quelli di natura ambientale.

L'anarchia organizzata: Douglas


McGregor
L'ultimo contributo analizzato dalla
scuola motivazionalista è quello
elaborato da Douglas McGregor, un
economista, docente, psicologo e
scrittore statunitense, professore di
management presso la MIT Sloan
School of Management e
presidente dell'Antioch College dal
1948 al 1954 e anche
insegnato presso l'Indian Institute of
Management di Calcutta.
Questo autore parte da uno specifico
presupposto: gli individui sono più
motivati dai propri bisogni (dalle
proprie motivazioni interne) e non da
pressioni esterne esercitate da altri
soggetti, come la direzione. Gli stili di
direzione hanno, però, un impatto
sulle motivazioni. Per spiegarsi,
McGregor divide la sua teoria in due
parti:
Teoria X: in linea con le teorie
classiche, è il credere che la maggior
parte delle persone non ama il lavoro
che svolge e preferisce che gli si
venga detto ciò che deve fare. Il
lavoratore si obbliga a fare il suo
lavoro che gli deve essere indicato
ed ordinato. I capi, invece, devono
solo controllare che le indicazioni
siano seguite, mentre i lavoratori
devono solo stare agli ordini;
Teoria Y: le persone non amano e
non odiano e proprio lavoro,
semplicemente si danno degli
obiettivi ed assumono delle
responsabilità
senza essere spinti o costretti da altri
soggetti. Ogni individuo, è propenso
a svolgere una determinata
mansione, mentre chi dirige deve
sapere individuare questa
propensione facendo in modo che il
contributo di ogni individuo
all'organizzazione sia il più elevato
possibile, sia in termini quantitativi
che qualitativi.
Si creano quindi due distinti modelli
di organizzazione: quella vecchia,
con persone controllate in cambio di
una retribuzione, e quella nuova, in
cui si collabora e al cui interno gli
individui tendono ad autoregolarsi.
La vecchia organizzazione era un
modello antico, fatto per lavoratori
con qualifiche basse (l'uomo bue del
Taylorismo) in cui gli obiettivi
individuali non erano contemplati e la
motivazione al lavoro era avere il
denaro, lavorando sotto minaccia di
licenziamento.
L'organizzazione si ispira
all'anarchia organizzata, un modello
in cui gli individui tendono ad
autoregolarsi. Non si tratta di
una forma di lavoro in cui non esiste
una disciplina, poiché la forza del
lavoro si basa proprio
sull'autoregolazione e sulla disciplina
interiore e l'organizzazione si deve
basare su comportamenti di
collaborazione volontaria da parte dei
dipendenti.
Quindi, bisogni individuali e bisogni
aziendali non sono incompatibili:
l'idea è che il dipendente dovrebbe
gestire in autonomia una piccola
porzione di azienda, avendone in
cambio sia la retribuzione, sia una
possibilità di crescita.
I riflessi di questa teoria sui dirigenti
sono coerenti con il messaggio
generale della scuola
motivazionalista, le istanze
antiautoritarie.
I dirigenti devono essere leggeri nel
comando e nel controllo, porre pochi
vieti e dare fiducia senza intimorire,
facendo sentire le persone libere.
L'onestà intellettuale viene richiesta
non solo ai dipendenti ma anche alla
direzione.
Le critiche alla scuola
motivazionalista: il desiderio di
concretezza di queste teorie porta a
produrre formulazioni astratte e
principi generali. La teoria
motivazionalista, pur basandosi su un
elevato numero di ricerche empiriche,
non ha portato grossi contributi, né di
natura teorico-scientifica, né di natura
pratica, presentando scarsa rilevanza
agli utilizzi gestionali. Questa teoria
mostrava uno scarso accordo con le
esperienze vissute da coloro che
lavoravano all'interno delle
organizzazioni. Infine, concetti come
quello di autorealizzazione non
venivano considerati dal mondo del
management e dalla teoria
organizzativa, poiché ritenuti
eccessive dilatazioni del problema
che conducevano a considerazioni
troppo filosofiche, politiche e
sociologiche.

Le teorie della contingenza


Le teorie contingenti, sviluppate tra
gli anni 50 e gli anni 70, si basano
sulla rottura del
presupposto della scuola classica
secondo cui esiste un solo modello
universale di organizzazione, cioè
che esista un unico modo ottimo di
essere e di funzionare delle
organizzazioni (One best way).
Si basa sulla rottura del presupposto
che un'organizzazione ottima si
forma unicamente su specifici aspetti
motivazionali e su stili di leadership
dei dirigenti, come prospettato dalla
scuola motivazionalista. La scuola
della teoria della contingenza,
sostiene che questo ottimo non
esisterebbe, ma esiste solo un
migliore relativo al contesto, ovvero
in base al contesto in cui si trova
un'organizzazione esiste un modo
migliore relativo al suo organizzarsi
dentro quel contesto (il cosiddetto
principio del migliore adattivo-One
best fit).
Infatti, a dimostrazione di questo,
all'interno di ogni settore esistono
una varietà di modelli organizzativi
che hanno comportamenti strategici
diversi.
Le teorie contingenti cercano di
spiegare la diversità organizzativa
come indotta, influenzata,
condizionata dal contesto
ambientale, un'idea considerata da
alcuni situazionali sta in virtù del fatto
che è la situazione che plasma i
modelli organizzativi. In particolare,
esiste una connessione tra la forma
organizzativa ed alcune variabili
dure:
Interne: la scuola contingente studia
in particolare il ruolo della tecnologia
e come questa condiziona il modello
organizzativo aziendale e, viceversa,
come la dimensione aziendale
condiziona il modello organizzativo;
Esterne: la scuola contingente studia
in particolare i caratteri dell'ambiente
esterno in termini di prevedibilità e
incertezza.
Si sono sviluppate quattro sotto
scuole, rispetto alla teoria di
contingenza, che partono dagli stessi
presupposti di base ma mettono in
luce fattori contingenti diversi:
Scuola sulla tecnologia (Joan
Woodward):
La tecnologia va a modificare la
struttura
produttiva. Con Taylor la macchina
parcellizzava il lavoro, mentre con
l'ausilio della tecnologia che subentra
e si evolve, viene modificato il
processo produttivo in cui è inserita
e, dunque, condiziona
l'organizzazione che la adotta;
Scuola sulla Dimensione (gruppo
di Aston):
Più grande è l'azienda più i compiti al
suo interno sono maggiori e
specializzati, come anche le
procedure che diventano
standardizzate e la comunicazione
interna formalizzata;
Scuola sull'ambiente (Burns e
Stalker, Lawrence e Lorsch): il
contesto dove un'organizzazione
opera ha effetti sulla produzione
sull'organizzazione. I contesti culturali
ed ambientali sono diversi ed essi
influiscono sulla struttura
organizzativa. È vero anche che certi
fattori ambientali danno questa
influenza, questa teoria ha comunque
dei limiti. Non viene considerata la
storia passata dell'organizzazione,
fatta di
cambiamenti e di inerzie, di stili di
pensiero che influiscono sulla vita e
sulle dinamiche dell'organizzazione.

La teoria cognitiva
Questa considera come
un'informazione viene percepita e
interpretata dentro l'organizzazione e
come viene anche trasformata in
comportamento, sia a livello di singoli
che di organizzazione.
L'individuo viene messo al centro del
progetto e si considera la relazione di
individui insieme con lo scambio di
conoscenze dentro le organizzazioni,
focalizzando l'importanza sul dialogo
per la socializzazione.
L'individuo è considerato importante
nell'organizzazione, questo significa
che di esso bisogna considerare
l'importanza dei suoi valori, della sua
storia, dei suoi percorsi di vita
individuale e come questi incidono
nella stessa organizzazione.
Per capire meglio il pensiero della
teoria
cognitivista, si può dire che le
organizzazioni hanno meccanismi e
processi tramite i quali selezionano,
immagazzinano ed elaborano le
informazioni e assumono decisioni.
Il problema chiave è come si crea la
conoscenza nelle organizzazioni, che
cos'è, o se esiste. La conoscenza è
come un recipiente dove in parte
entrano informazioni, dove le si
immagazzinano, le si elaborano e
dove si può decidere. La conoscenza
quindi è un contenitore dove c'è tutto
questo e i recipienti sono gli individui.
Quindi, la conoscenza delle
organizzazioni non esiste, però,
esiste la conoscenza degli individui
che le compongono.

L'organizzazione che apprende: la


teoria del caos
Negli anni 80, parallelamente alla
teoria cognitiva e a quella della
contingenza, si sviluppa la teoria del
caos. Le tre teorie ancora coesistono
perché possiedono punti di
riferimento diversi.
La teoria del caos parte dal recupero
della concezione sistematica
dell'organizzazione, ossia
l'organizzazione come sistema
vivente, naturale e non macchina
prevedibile, con capacità di
problem solving. L'organizzazione
non viene più considerata come una
struttura gerarchica ma come una
struttura flessibile e decentralizzata,
in essa c'è la comunicazione e la
collaborazione in un coinvolgimento
di tutti nella individuazione e nella
risoluzione dei problemi. Le
informazioni sono aperte, il livello di
gerarchia basso e viene incoraggiata
l'adattabilità e la partecipazione.
L'organizzazione si mostra in un
contesto aperto, attenta più alla
risoluzione dei problemi che alla
produttività, con:
Una struttura orizzontale:
l'organizzazione tradizionale ha una
struttura basata sul raggruppamento
dell'attività in base al lavoro svolto dal
basso verso l'alto, è una struttura
verticale, dove c'è una scarsa
collaborazione
tra le unità funzionali ed esiste una
gerarchia. In un ambiente in rapido
cambiamento i manager non sono in
grado di risolvere i problemi
tempestivamente, perciò, la gerarchia
crea delle distanze tra loro (al vertice)
e i lavoratori e per questo motivo
viene abolita. La struttura diventa
così orizzontale, non ci sono confini
tra le varie funzioni e i vari team
comprendono membri provenienti da
diverse aree funzionali;
Arricchimento dei ruoli: nelle
organizzazioni tradizionali, la
conoscenza del compito e il suo
controllo erano centralizzati. Il
compito è un'attività lavorativa
definita con precisione e assegnata
ad una persona. Nelle organizzazioni
moderne, invece, nasce il concetto di
ruolo, ovvero parte del sistema
sociale caratterizzato da
discrezionalità e responsabilità,
permette che le persone facciano uso
del proprio giudizio e della propria
abilità per ottenere un risultato o
raggiungere un obiettivo. Nelle
learning
organization i dipendenti ricoprono
dei ruoli, che possono essere
ridefiniti o adattati, e la conoscenza e
il controllo dei compiti sono attribuiti
ai lavoratori e non ai supervisori o
agli altri dirigenti.
Perfetta condivisione delle
informazioni: nelle vecchie
organizzazioni la comunicazione era
informale e diretta, nelle nuove
organizzazioni la diffusione delle
informazioni costituisce un elemento
importante per operare in modo
ottimale. Quindi, le idee e le
informazioni sono condivise in tutta
l'azienda.
Collaborazione, non competizione:
lo sviluppo della strategia avviene
grazie ad azioni cumulate di forza-
lavoro dotata di informazione e
potere. La strategia scaturisce dai
rapporti di partnership con i fornitori,
il clienti e anche i concorrenti.

Il modello sistemico election


research
Da un lato le teorie tayloriste
avevano
ignorato il ruolo del fattore umano
nell'azienda, dall'altro la scuola delle
relazioni umane l'aveva
eccessivamente enfatizzato,
facendone l'elemento prevalente
dell'organizzazione e trascurando
altri elementi essenziali.
Sotto questo aspetto, la teoria
sistemica si propone come
innovativa in quanto inserisce il
fattore umano tra gli elementi che
determinano le caratteristiche e il
funzionamento dell'organizzazione.
La teoria sistemica è una derivazione
della teoria generale dei sistemi,
cui fondatore è il biologo Ludwig Von
Bertalanffy, il quale ha il merito di
avere individuato che ogni entità
studiata, dall'atomo al gruppo, è
riconducibile al concetto di sistema e
più precisamente al sistema aperto.
I sistemi aperti o viventi,
contrariamente ai sistemi chiusi o
fisici, rimangono in vita solo se hanno
rapporti di immissione, input, ed
emissione, output, con il loro
ambiente.
Quindi da questa prospettiva,
dobbiamo vedere l'organizzazione
come facente parte del sistema più
ampio che è la società, con cui sta in
un rapporto di interrelazione e di
interdipendenza. La visione sistemica
considera i sistemi come complesso
unitario composto da diversi organi,
ossia da altri sottosistemi. Per la
teoria sistemica il modello su cui
basare l'organizzazione è quello
dell'Organizzation Development, lo
sviluppo organizzativo, ovvero un
percorso che deve condurre
l'organizzazione da ciò che è a ciò
che dovrebbe essere.
Esso nasce e si sviluppa attorno agli
anni 60, dagli studi di Kurt Lewin.
L'idea in cui gli individui sono unità
isolate è stata superata grazie
all'eredità della scuola delle relazioni
umane, ora si procede con lo studio
di come l'uomo si comporti all'interno
delle organizzazioni, quali siano le
sue motivazioni e quali i suoi bisogni.
La massima produzione di beni e
servizi ha creato un mondo in cui i
bisogni fisiologici e di sicurezza sono
ormai soddisfatti e, come sostiene
Maslow, l'uomo si orienta verso il
soddisfacimento di altri bisogni di
livello superiore come quello
dell'autostima e
dell'autorealizzazione. Quindi, la
nuova sfida e la realizzazione
dell'uomo in termini di crescita
psicologica e contemporaneamente il
raggiungimento degli obiettivi
dell'organizzazione. L'organizzazione
development investe primariamente
le variabile uomo come
atteggiamenti, relazioni, clima,
piuttosto che strutture e tecnologie.
Esso non offre un ideale modello
organizzativo da imporre in
qualunque situazione, ma cerca di
stimolare la crescita di strutture
organizzative flessibili, che sappiano
adeguarsi alle diverse circostanze.
Per sviluppare questo programma di
studio e di ricerca organizzativo si ha
il metodo dell'action research, che
proponi tre fasi di un programma di
sviluppo organizzativo:
Diagnosi: la raccolta dei dati e
l'analisi; L'azione: una serie di attività
strutturate per il miglioramento
organizzativo;
Mantenimento: la valutazione dei
risultati, il feedback nella verifica dei
risultati e degli strumenti usati.

Organizzazione e cultura
Il concetto di organizzazione
Le organizzazioni nascono perché ci
sono attività che non possono essere
svolte da una sola persona, per cui è
necessaria una forma di
aggregazione con la condivisione di
un obiettivo comune che definisca le
attività da svolgere.
Aggregazione significa che il lavoro
deve essere diviso, esistono infatti
determinate mansioni da affidare a
diverse persone e queste attività poi
vanno coordinate, quindi è
necessario creare una macrostruttura
e prevedere quanto deve essere
grande un'organizzazione, che reparti
deve avere,
quanti sono i gruppi da coinvolgere,
quali funzioni deve avere per la
produzione stessa, quanti gruppi
operativi sono necessari.
L'organizzazione poi ha bisogno della
gestione del potere avendo a che
fare con gruppi di persone ed è
necessario un sistema decisionale
più o meno centralizzato. La gestione
del potere può essere organizzata in
modo verticale con un forte controllo
e centralizzazione, oppure
decentralizzato e quindi orizzontale.
Henry Mintzberg studioso di scienze
gestionali, ricerca operativa,
organizzazione e strategia, definisce
l'organizzazione come: il complesso
delle modalità secondo le quali viene
effettuata la divisione del lavoro in
compiti distinti e quindi viene
realizzato il coordinamento di tali
compiti.
Quindi, un insieme di persone che
hanno determinate attività ordinate al
raggiungimento di un obiettivo
comune, ed è questo che forma
l'organizzazione. È la
cultura ciò che definisce l'identità
dell'organizzazione.

La cultura organizzativa
La cultura organizzativa è
strettamente connessa con la
presenza umana all'interno
dell'organizzazione. Infatti, essa
esiste perché nell'organizzazione ci
sono due persone, c'è il fattore
umano. La presenza delle persone
significa che nell'organizzazione ci
sono idee e, pensieri, valori, c'è un
codice di condotta che serve per
orientarsi, sistemi di valori condivisi e
quindi non solo personali. I gruppi
quando hanno un'esperienza insieme
sviluppano una cultura, avere una
cultura è una proprietà dei gruppi e
questa cultura è proprio l'ossatura
dell'identità.
Lo psicologo Edgar Schein,
nell'ambito degli studi sulla struttura
organizzativa, sostiene che il pericolo
che si corre quando si cerca di capire
una cultura è quello di semplificarla.
La cultura di un'organizzazione, pur
manifestandosi in aspetti fisici e
simboli dell'azione organizzativa, non
è qualificabile come aspetto tangibile
di essa.
Gli aspetti sono: riti e rituali
dell'impresa, il modo in cui si fanno le
cose "dalle nostre parti", il modo con
cui si esprime l'azienda e i propri
valori fondamentali.
Per non schematizzare e semplificare
troppo la cultura, occorre entrare nel
suo profondo e nei suoi tre livelli nei
quali essa si esprime:
Artefatti, le manifestazioni visibili:
come ad esempio l'architettura
dell'organizzazione, la tecnologia, la
disposizione degli uffici, il modo di
vestire. È un livello facile da
individuare ma non da interpretare,
non racchiude tutta la cultura;
Valori: sono dichiarati dall'impresa e
si vedono attraverso le strategie
adottate, le modalità produttive, gli
obiettivi prefissati, le filosofie, il
comportamento desiderato;
Assunti taciti e condivisi: le logiche
del
comportamento organizzativo. Il
comportamento organizzativo ha una
sua logica vincente, pensata dal
fondatore e condivisa da chi fa parte
dell'organizzazione. Questo
fondatore o leader carismatico ha
avuto, ad un certo punto, un'idea che
si è rivelata vincente, una logica che
ha attivato un comportamento che si
tramanda e che quasi
inconsciamente viene appresa.
Vengono dedotti dagli artefatti da
valori visibili.
Schein distingue due tipi di società,
basandosi sui concetti di struttura e
artefatti:
Società multi: ogni dipendente ha un
ufficio, non si può arrivare ad una
decisione senza aver discusso nei
dettagli e considerato il punto di vista
di ciascuno, nonché il rispetto della
privacy e l'opportunità di riflettere a
fondo. Le riunioni sono formali e in
esse i superiori annunciano le loro
decisioni e indicano quanto i
dipendenti devono eseguire;
Società action: gli spazi sono aperti
con i dipendenti nella stessa stanza,
è
fondamentale il lavoro di squadra,
necessario anche il consenso di chi
deve prendere effettivamente le
decisioni.
Dal punto di vista dei valori, invece,
entrambi i due tipi di organizzazione
sono: orientati al cliente, puntano al
lavoro di squadra, vogliono la qualità
del lavoro e sono interessate anche
all'integrità. Insomma, stessi valori
ma con diversi stili lavorativi e di
struttura organizzativa. Sono
entrambi modelli di successo, hanno
entrambe produzione e qualità di
mercato, ma per sapere il nocciolo
più profondo della cultura che li
differenzia occorre guardare alla
storia e alle motivazioni dei fondatori,
arrivare dritti agli assunti taciti e
condivisi:
Multi: il fondatore ha elaborato un
brevetto e ha ottenuto successo, in
questa società per raggiungere una
buona decisione c'è bisogno della
ricerca e della riflessione individuale,
la credenza fondamentale poi è che
la gerarchia, la disciplina è l'ordine
sono un
modo efficace per gestire
un'organizzazione;
Action: il fondatore crede che la
gente debba discutere in dettaglio e
condividere le decisioni, insieme
vengono creati i prodotti che hanno
successo sul mercato, queste
condizioni e valori diventano
gradualmente condivisi e dati per
scontati.
Per Schein la cultura di
un'organizzazione è:
Profonda: quando si ha imparato ciò
che funziona, ciò che è vincente, si
sviluppano delle convinzioni e degli
assunti che alla fine non saranno più
coscienti, diventano come regole
condivise e tacite, regole su come
fare le cose, come pensarle e come
sentirsi;
Ampia: quando un gruppo impara a
vivere nel suo ambiente allora impara
anche qualcosa sulle relazioni, le
convinzioni e gli assunti appresi.
Convinzioni e assunti danno forma
alla vita quotidiana, si impara come
agire con il capo, quale
atteggiamento occorre assumere
dentro l'organizzazione;
Stabile: ogni gruppo mantiene i suoi
assunti
culturali, questo per una necessità di
stabilità e soprattutto perché abbiamo
bisogno di avere significato e
prevedibilità nella vita.
Per capire meglio questi concetti, un
esempio è la Mulino Bianco che ha
un assunto, ovvero, quello della
famiglia.
Anche se l'azienda si è modificata nel
tempo i suoi assunti di base sono
rimasti fermi e, nel tempo l'azienda
ha sempre modo di riflettersi in essi.

Paradigma culturale
Il paradigma culturale sarebbe
l'insieme degli assunti di base, ossia
le logiche di azione del
comportamento organizzativo tacito e
acquisito dentro l'azienda, e le
risposte apprese di quel
determinato gruppo che in un certo
periodo di tempo ha ritenuto efficaci
per rispondere a certi problemi.
Quindi il paradigma è un insieme di
assunti che formano un modello
coerente. La cultura di
un'organizzazione serve per far
sopravvivere l'organizzazione stessa,
e perché un'organizzazione viva
occorre che ci sia un integrazione
interna, ovvero un sistema di
comunicazione, un linguaggio
comune ed anche delle comuni
categorie concettuali è un
adattamento esterno, ossia il modo
con cui un gruppo e leader
raggiungono obiettivi comuni e
reagiscono ai cambiamenti
dell'ambiente esterno. Grazie alla
fusione presente nell'organizzazione,
alla compartecipazione e dalla
condivisione delle idee è più facile
adeguarsi al mondo esterno e ai
cambiamenti, questo garantisce la
sopravvivenza dell' organizzazione
stessa. L'integrazione interna e la
capacità di adattamento permettono
agli individui una certa sicurezza e
calma insieme alle responsabilità
necessarie per reagire ai fattori
ambientali esterni che potrebbero
compromettere l'equilibrio
dell'organizzazione.
La cultura e la condivisione di un
senso
comune e la consapevolezza di
avere una missione centrale
permette di concentrare l'attenzione
solo sulle percezioni dello specifico
ambiente offrendo stabilità e quindi
quella calma e quella responsabilità
che permettono all'organizzazione di
affrontare un cambiamento.

I tipi di cultura
Si possono definire quattro tipi di
cultura rappresentati graficamente
con questi elementi:
Due assi: quello delle necessità
dell'ambiente (asse X) e quello del
focus strategico (asse Y);
Due poli: la flessibilità e la stabilità.
I tipi di cultura sono:
Cultura adattiva: ha come focus
l'ambiente esterno, è orientata al
cliente, all'innovazione ed alla
creatività. Si assume rischi pur di
tradurre i segnali che vengono
dall'esterno ed è capace di cambiare;
Cultura per obiettivi: orientata al
cliente
senza necessità di cambiamenti
esterni, ha una visione chiara dello
scopo ed il suo focus è sugli obiettivi;
Cultura di clan comunità: il focus è
interno anche se l'organizzazione è
inserita in un ambiente esterno molto
flessibile, si concentra sul
comportamento e sul coinvolgimento
e la partecipazione dei membri, si
punta molto sull'identità individuale e
collettiva;
Cultura burocratica: il focus è
interno, l'orientamento coerente, si
mira alla forte stabilità interna con il
controllo gerarchico, i fattori non
cambiano nel tempo e la proiezione
tutta verso l'ambiente interno.

La sottocultura
Quando le dimensioni
dell'organizzazione crescono è
probabile che si formino delle
sottoculture nell'organizzazione,
ovvero gruppi con una cultura
propria. La presenza di queste
sottoculture può essere
rafforzativa, quando si intensificano i
sentimenti e le partecipazioni, oppure
deleteria, quando entrano in conflitto
con la cultura dominante.

Il clima organizzativo: modelli


teorici e sistema di analisi
Quando si parla di clima vengono in
mente i fenomeni dell'atmosfera. In
effetti, ci sono persone
metereopatiche che cambiano umore
a seconda delle variazioni
atmosferiche. Parlare di clima delle
organizzazioni significa che il
comportamento dell'intera
organizzazione dipende anche dalle
condizioni degli individui e dei loro
stati d'animo, dalle sensazioni che
hanno, dalle relazioni interpersonali
che vivono. Le persone cambiano il
loro comportamento in base a come
stanno, sia da un punto di vista fisico
che psicologico. Respirare
un'atmosfera favorevole o tesa
dentro un'organizzazione fa la
differenza.
Non è facile definire cos'è il clima di
un'organizzazione anche perché
questo concetto è nuovo come
attenzione e come elemento di
studio, infatti, se ne è cominciato a
parlare attorno agli anni 60. Come
prima definizione si può dire che
esso è l'insieme delle condizioni
socio-politiche che influenzano il
comportamento organizzativo. I
primi che hanno cercato di dare una
definizione a questo concetto sono
stati Forehand e Gilmer nel 1964 (1
fase: introduzione).
Che hanno considerato il clima
organizzativo come un elemento
proprio del sistema organizzativo che
non può essere riduttivamente
identificato con la somma delle
opinioni personali, ed è dipeso da
cinque micro variabili: i gruppi di
lavoro, l'autorità, la leadership, le
interazioni e gli obiettivi.
Il clima poi ha due caratteristiche di
fondo:
La multidimensionalità, è un
fenomeno complesso con una
pluralità di cause ma anche
di difetti;
E la sua realtà fenomenologica,
cioè il clima esistente, è un fenomeno
visibile e concreto.
Nella definizione e nella descrizione
del clima organizzativo si sono
interessati diversi autori:
- Litwin e Stringer: il clima ha delle
variabili soggettive individuali che
hanno un peso maggiore su quelle
che sono le variabili organizzative ed
oggettive;
- Tagiuri: da importanza alle variabili
individuali e soggettive che entrano
nel merito del clima piuttosto che
quelle più organizzative. Quindi, è più
importante ciò che un individuo
percepisce e fa suo
dell'organizzazione piuttosto che
l'organizzazione in sé stessa;
- James e Jones: parlano di clima
psicologico inteso più come attributo
percettivo ed individuale e clima
organizzativo inteso come attributo
situazionale.
Nel 1975 si entra in una seconda
fase nello
studio e definizione del clima
organizzativo, basata su sintesi e
modello di analisi. Importanti sono gli
studi condotti da Schneider che
elabora un modello di clima
organizzativo. L'autore considerando
tutte le analisi condotte sul clima
organizzativo arriva a identificare
delle variabili che spiegano da cosa
dipende il comportamento
organizzativo e quindi anche le cause
e gli effetti del clima organizzativo
stesso.
Il clima è una sorta di variabile
dipendente ma può anche essere
una variabile indipendente e quindi
causa di certi atteggiamenti; può
anche essere una causa
interveniente, cioè un elemento che
interviene e media tra il
comportamento organizzativo e
quello individuale.
Si arriva ad una terza fase dove il
clima viene considerato come una
caratteristica di un'organizzazione.
Questa fase si può considerarla di
dibattito; infatti, ci sono due posizioni.
Il clima viene considerato come una
variabile presente in
un'organizzazione insieme ad altre
variabili, ma questa variabile per
alcuni ha una valenza oggettiva,
mentre per altri una valenza
soggettiva.
Per quanto riguarda il clima come
variabile oggettiva, il clima è un
insieme di caratteristiche
relativamente durevoli che
permettono di descrivere
un'organizzazione e di distinguerla da
un'altra. Queste caratteristiche
oggettive influenzano gli individui e il
loro comportamento; pertanto, il
clima è ciò che viene percepito dagli
attributi dell'organizzazione, oppure
ciò che viene percepito sia
soggettivamente che oggettivamente.
Per quanto riguarda il clima come
variabile soggettiva, il clima è un
insieme di attributi specifici di una
particolare organizzazione che si
deducono dal modo in cui
l'organizzazione si rapporta ai suoi
membri e al suo ambiente. Per ogni
lavoratore, il clima prende forma da
tutta una serie di
atteggiamenti e di aspettative e
portano l'organizzazione a
configurarsi e a descriversi in termini
di caratteristiche statiche.
La quarta fase del percorso di
riflessione sul clima organizzativo è
segnata dal subentrare di una
convinzione più adulta e matura della
complessità del tema affrontato e
dalla necessità di elaborare dei buoni
modelli che lo spiegano (il
consolidamento).
Un modello unico di spiegazione del
clima non è facile elaborarlo, ciò che
si propone non è la considerazione
del clima o dal solo versante
soggettivo oppure oggettivo ma una
considerazione del clima
organizzativo secondo una triplice
lettura: individuale, di gruppo e
organizzativo, sottolineando
l'influenza del clima psicologico sul
comportamento lavorativo.
Schneider effettua una sintesi di
tutte le ricerche e gli studi condotti sul
clima.
Per questo autore il clima è un
insieme di
percezioni globali che gli individui
hanno del loro ambiente
organizzativo e di lavoro; queste
percezioni rifletterebbero l'interazione
tra le caratteristiche personali e
organizzative, in quanto l'individuo
usa gli input che gli provengono dagli
eventi oggettivi, dalle caratteristiche
dell'organizzazione e dalle
caratteristiche soggettive del
percettore.

La teoria del campo, proposta


dallo psicologo Kurt Lewin:
C= f(A,P)
La formula ci dice come ottenere il
comportamento umano (C), espresso
in funzione (f) dell'ambiente (A) in cui
la persona vive e lavora, e dalla
persona stessa (P), con le sue
caratteristiche di personalità,
carattere e attitudine.
Gli approcci teorici sono quattro:
Strutturale, che dà molta importanza
all'ambiente; percettivo, che dà
importanza
all'individuo; interattivo, in cui si
considera l'importanza
dell'interazione tra struttura e
individuo e culturale.
Strutturale (A->C): il clima
organizzativo è nato dalle
caratteristiche oggettive
dell'ambiente, indipendentemente
dalle percezioni individuali. Il clima
diventa una manifestazione della
struttura organizzativa e quelle
caratteristiche che distinguono una
organizzazione dalle altre, la
descrivono nella sua struttura e che
permangono nel tempo, sono quelle
che influenzano il comportamento
degli individui. Il clima organizzativo è
quasi come un elemento a sé,
percepito dall'individuo come
indipendente da sé stesso. Il clima è
una caratteristica della struttura e ad
essa è legato, quindi anche
all'ambiente e ai valori della struttura.
La struttura dell'organizzazione e le
percezioni individuali convergono nel
clima.
Percettivo (P->C): qui è
fondamentale l'individuo che, in base
ad aspetti psicologici
personalmente significativi, interpreta
le variabili situazionali. È l'individuo
che in qualche modo impone al suo
significato e nel suo modo di reagire
all'organizzazione e all'ambiente. Il
clima deriva da quei processi di
elaborazione ed interpretazione
psicologica che sono compiuti nel
soggetto su quegli aspetti
dell'ambiente che per il soggetto
stesso meritano attenzione. Quindi il
processo di formazione del clima,
secondo questa prospettiva, è dato
dalle condizioni organizzative unite
alle percezioni dell'individuo.
Interattivo: il clima è frutto
dell'interazione tra le percezioni
individuali e le condizioni
organizzative, oltre che dalle
interazioni tra le persone. Le due
variabili, struttura e individuo, devono
essere considerate in relazione se si
vuole analizzare il clima
dell'organizzazione, le percezioni
individuali e le condizioni
organizzative interagiscono tra di
loro. In questo approccio si tiene
conto
dell'interazione tra l'ambiente e
l'individuo, tra l'ambiente e le
percezioni che l'individuo ha
dell'ambiente. Per comprendere il
clima occorre considerare le
interazioni tra gli individui e il modo in
cui l'impresa viene vista da coloro
che la vivono. Questa prospettiva
mette insieme l'approccio strutturale
e quello percettivo, il clima viene dai
processi relazionali che
necessariamente richiedono anche
un interazione tra il contesto
oggettivo e quello percettivo, ossia la
consapevolezza che un individuo ha
dell'organizzazione.
Culturale: è fondamentale il ruolo
della cultura per la definizione del
clima organizzativo; questo implica
l'interazione tra gli artefatti, i valori e
gli assunti condivisi all'interno di
un'azienda. La cultura si mostra
attraverso gli artefatti, come sono
disposti i mobili o come viene
strutturato un ufficio, questi
manifestano la cultura ma non la
determinano. La cultura, infatti, viene
anche dall'esterno dell'azienda.
Inoltre, dipende molto dagli assunti di
base che vivono nell'azienda e
determinano gli obiettivi che ci si
propone, valori che vengono
dichiarati agli stessi dipendenti. Nella
cultura dell'azienda ci sono anche gli
assunti taciti, profondi, presenti e
condivisi. Questi assunti e valori sono
quelli del fondatore, tramandati nella
storia dell'organizzazione anche se
un dipendente non conosce
esplicitamente la storia del fondatore
o dell'azienda. Occorre non
confondere il clima e la cultura. Il
clima si relaziona con la cultura, varia
nel tempo e dipende da essa, mentre
la cultura ha una radice più profonda,
dura nel tempo, si forma con il
formarsi stesso di un'azienda e
muore con essa.
Clima, motivazione e
soddisfazione
Clima: è una percezione sviluppata
soprattutto a livello di gruppo, è
considerabile come una caratteristica
dell'organizzazione presente nelle
descrizioni che di essa danno i
membri;
Soddisfazione: è maturata a livello
individuale ed è una risposta affettiva
degli individui che si presenta nella
valutazione che soggettivamente
danno del loro lavoro;
Motivazione: quell'insieme di
variabili che attivano, dirigono e
sostengono nel tempo quello che è il
comportamento degli individui,
conducendoli ad applicarsi con
impegno nel lavoro.
L'armonia organizzativa spesso
produce efficienza lavorativa e
maggiore produttività e, di pari passo,
motivazione e lavoro svolto con
soddisfazione. Questi ultimi, a loro
volta, creano anche un buon clima
organizzativo. Per lo psicologo
Francesco Avallone e l'economista
Mauro Bonaretti, il benessere
organizzativo viene dalla qualità del
clima organizzativo e dalla cultura
organizzativa compresa e condivisa.
Il benessere viene da quelle
dinamiche dell'organizzazione che in
essa promuovono, mantengono e
migliorano la qualità della vita, del
benessere fisico e psicologico e
sociale della comunità. Per i
motivazionalisti, la produttività
dipende dalla creazione di condizioni
che aumentano il livello di
motivazione degli individui. Questo
livello motivazionale che, se alto,
significa incremento di produzione,
non dipende solo dall'entità del
salario, non è solo la paga a
motivare, ma anche il clima e quindi il
gruppo nei suoi aspetti informali di
fiducia, di delega, di coinvolgimento.
Oggi è molto importante l'analisi del
clima che vige nelle organizzazioni
perché esso è connesso con il livello
di motivazione dei soggetti. Quindi, il
clima è importante per le scelte
strategiche di un'azienda. Una volta
che si è analizzato il clima di
un'azienda si riesce a individuare in
quale area intervenire e quali
cambiamenti occorre attuare per
ottimizzare l'attività lavorativa.
Riordan, Vandmberg e Richardson
Questi tre autori hanno indagato in
modo empirico la relazione che
esiste tra il clima di coinvolgimento
percepito da dipendenti e l'efficienza
delle organizzazioni, evidenziando
che organizzazioni dove si
percepisce un alto livello di
coinvolgimento avevano anche livelli
alti di successo, sia da un punto di
vista economico, sia quanto ai
turnover, sia del tono morale della
forza lavoro rispetto a quei contesti
dove il coinvolgimento percepito era
minore. Anche Mayo si è occupato di
clima organizzativo e ha
sperimentato la relazione che esiste
tra clima e inefficienza produttiva,
quindi dove c'è una buona
motivazione al lavoro, dove c'è uno
stato d'animo favorevole, dove c'è
anche un certo coinvolgimento
lavorativo ed un interesse per l'attività
svolta ci sono anche elmenti di
successo ed efficienza organizzativa.
Tutto questo porta a pensare che per
indagare sul clima organizzativo è
necessario tenere conto di due
tipologie di relazioni: quella tra i
dipendenti e l'organizzazione e
quella tra i dirigenti e gli
dipendenti.
Questi due tipi di relazioni sono
determinate anche dall'interazione
che esiste in azienda tra gli obiettivi e
i risultati raggiunti, dalla struttura
formale dell'azienda, dal processo di
management, dagli stili di leadership
e dal comportamento delle persone.
Un buon clima non è garanzia di
efficienza organizzativa ma
sicuramente è a favore
dell'incremento di efficienza. Dove c'è
supporto e cooperazione, dove c'è
motivazione a lavorare in modo
volenteroso ed efficace si ha una
buona performance lavorativa.
Strumenti di analisi: per rilevare il
clima si hanno bisogno di strumenti
che sono quelli usati anche per
rilevare benessere aziendali. Questi
strumenti sono dei questionari con i
quali si misurano gli atteggiamenti, le
opinioni, i pareri e le percezioni dei
singoli nei confronti dell'azienda. Uno
strumento è l'Organizational
Questionnaire (M-DOQ) di Majer e
D'amato, un questionario di 120 item
divisi in 13 scale. Con questo
strumento, si indaga la coesione
interna dei gruppi, il tipo di
leadership, le relazioni e la
comunicazione e altri aspetti della
vita dell'organizzazione.

La leadership
Il termine viene dall'inglese "to lead",
ovvero condurre.
Condurre viene dal latino "cum
ducere" ossia tirare insieme.
Il leader è colui che esercita
influenza su un gruppo più degli altri
membri e influenza gli altri membri
più di quanto esso stesso viene
influenzato. È una persona che
dentro l'organizzazione fa la
differenza, sa accogliere le
innovazioni, le fa sue, le propone e
inoltre coinvolge gli altri. Il suo
compito è quello di motivare, è un
innovatore
ed ha un effetto importante
sull'organizzazione perché meglio
degli altri si adatta e si adegua al
contesto moderno. Il leader è
qualcuno che esercita la sua
influenza in un modo particolare,
ovvero riesce ad ottenere un
consenso volontario rispetto a certi
obiettivi del gruppo che egli propone,
riesce a persuadere gli altri e andare
verso obiettivi comuni.
Il leader è una persona che ha:
Potere, cioè, ha la capacità di
influenzare gli altri assicurandosi la
loro adesione e la loro compiacenza;
Autorità, ovvero gli altri gli
riconoscono un potere naturalmente
secondo regole definite e legittime;
Controllo, nel senso che si assicura
che l'accordo preso con il gruppo-
organizzazione sia rispettato.
Quando si parla di leader si pensa
subito ad una persona che possiede
leadership, invece, la leadership è
un processo e non una
caratteristica di una persona. È un
fenomeno complesso, frutto di
un'interazione di alimenti quali:
Il leader, che ha competenze,
motivazioni, una legittimità del suo
ruolo e nelle caratteristiche personali;
I componenti del gruppo, che
interagiscono portando le loro attese,
le loro competenze, le loro
motivazioni e le loro caratteristiche
personali;
La situazione, cioè la struttura
sociale in cui ci troviamo, il compito
da svolgere, le norme e la storia del
gruppo.
Ci sono delle differenze tra il
manager e il leader:
Il manager è colui che pianifica,
controlla e dirige . Garantisce la
prevedibilità e l'ordine per venire
incontro alle esigenze
dell'organizzazione, organizza e
struttura le risorse in relazione a
quanto pianificato, si assume delle
responsabilità in ordine ai risultati che
occorre perseguire e la sua
attenzione è rivolta alle cose da fare
ed alle strategie più idonee da
seguire.
Il leader promuove il cambiamento in
ordine ai cambiamenti della società,
dei mercati, delle tecnologie, dei
clienti. Permette che vengono
considerati nuovi obiettivi e sviluppa
nuova motivazione, ispira impegno,
realtà e coinvolgimento e, infine, il
focus della sua attenzione è sulle
persone, sul clima e sul contesto in
cui l'organizzazione si trova.
Quindi possono esserci manager che
non sono per forza dei leader, ma il
contrario è normale, ossia che il
leader nell'organizzazione è un
manager.
In merito alla leadership, esistono
delle teorie che la spiegano: la teoria
dei tratti, la teoria degli stili di
leadership, le teorie di contingenza
e teorie nuove.

La teoria dei tratti


Secondo questa teoria, il leader è un
grande uomo, che è tale per via di
alcuni tratti propri
della sua personalità che sono innati
più che acquisiti, e proprio questi
tratti hanno portato alcune persone al
successo del comando. Tratti propri
del leader sarebbero: l'intelligenza,
l'estroversione, la cooperazione,
l'adattabilità, lo spirito di iniziativa,
la fiducia in se stessi, il controllo
emotivo e la capacità di tollerare lo
stress.
Nella storia abbiamo avuto
personaggi che hanno avuto queste
caratteristiche come Napoleone,
Mandela ecc.
Questo approccio non è stato esente
da critiche, sia dal punto di vista
metodologico che dal punto di vista
concettuale. Prima di tutto la ricerca
sui tratti ha dato risultati poco
attendibili. Questa teoria non tiene
conto dei fattori di contesto e di
ambiente che sono fondamentali
perché la leadership ed il leader si
adattano insieme in base ai cambi
esterni. La teoria dei tratti
sembrerebbe quasi un po' rigida,
come sei tratti fossero stabili nel
tempo. Infine, c'è da dire che
questi tratti sono tutti formulati al
positivo, come se il leader avesse
solo tratti buoni. Resta il fatto che per
considerare la leadership occorre
tener conto del fattore situazionale.
Questa teoria è innatista, è come se
dicesse che si nasce leader e che chi
certi tratti non li possiede non può
essere leader.

La teoria degli stili dei leadership:


il leader come comportamento
Secondo questa teoria ci sono tre stili
di leader:
Autocratico: freddo, distaccato,
orientato all'obiettivo e al risultato;
Democratico: stimola la
partecipazione, accetta critiche e
distribuisce responsabilità;
Lassista/permissivo: disinteressato,
non stimola, non controlla, non
collabora ed è passivo.
Questi stili hanno degli effetti, ovvero
l'autocratico ad esempio porta la
poca
interazione tra i gruppi, aggressività,
apatia e competizione. Il democratico
fa diminuire l'aggressività, stimola la
motivazione, l'ascolto e la
confidenza. Il lassista porta ad avere
un gruppo poco coeso e non
collaborativo.
Sui risultati, si può dire che con
l'autocratico si ha un buon
funzionamento nelle emergenze, c'è
produzione ma non soddisfazione. Il
democratico fa sì che ci siano
relazioni interne ma a scapito della
produttività, da però attenzione al
singolo. Il lassista o si trasforma in
autoritario oppure scompare.
Si deve tener conto che la leadership
si esercita secondo due variabili,
ovvero, lo stile di comando:
l'interesse per la produzione e
l'interesse per le relazioni.
In base a queste due variabili, si può
considerare il comportamento relativo
ad ognuno dei tre tipi di leader. Il
lassista non ha interesse per la
relazione e ha un basso
interesse per la produzione, il
direttivo ha un alto interesse per la
produzione ed un basso interesse
per le relazioni umane, il
partecipativo tiene molto alle relazioni
e al coinvolgimento e ha un interesse
inferiore per la produzione. Infine, c'è
uno stile di leader a metà strada che
ha interesse medio per l'una e l'altra
variabile.
Secondo questa teoria, ci sono
anche degli stili di conduzione che
sono cinque:
Lo stile povero, è lo stile del leader
disinteressato sia al raggiungimento
degli obiettivi che ai bisogni del
gruppo. Svolge il minimo
indispensabile per mantenere il suo
ruolo;
Lo stile amicale, è un leader attento
ai bisogni sociali del gruppo ma non
si cura degli obiettivi tecnici;
Lo stile centrato su un gruppo di
lavoro, è un leader che tiene sia al
compito che alle relazioni e muove il
gruppo ad agire come un team;
Lo stile orientato al compito, è il
leader che ci tiene all'operatività, non
gli importano le relazioni ma
l'obiettivo da raggiungere;
Lo stile orientato
all'organizzazione, è il leader a
metà strada che si interessa sia al
gruppo che al compito.
Un modello piuttosto complesso è
quello di Redding, che individua 8
diversi stili di leadership ed il suo
modello si riferisce a tre variabili:
La tendenza a dare rilievo alle
situazioni concrete, quindi dare
importanza all'ambiente;
La tendenza a dare importanza alle
funzioni o hai compiti, il fattore
produzione;
E la tendenza a dare importanza alle
relazioni umane, quindi il fattore
relazione.
I diversi stili di leader secondo
Redding sono:
Efficiente: leader che dà importanza
sia alle funzioni che alle relazioni, sa
offrire motivazioni e ha obiettivi
elevati;
Autocrate benevolo: gli importano le
funzioni
e poco le persone, mira a
raggiungere gli obiettivi senza creare
risentimenti;
Didattico: privilegia le persone più
che i compiti e mira allo sviluppo
delle potenzialità umane;
Burocrate: da scarsa attenzione alle
relazioni e alle funzioni, ci tiene che
le procedure siano rispettate e non si
coinvolge sul piano personale;
Compromissorio: dà importanza
alle relazioni ed alle funzioni, ci tiene
al rispetto delle regole ma non si
coinvolge in modo personale;
Autocrate: ha un alto senso della
funzione, ma non si cura delle
relazioni, è molto orientato al lavoro
ma non ha fiducia nei suoi
collaboratori;
Missionario: molto orientato alle
relazioni umane, non si cura molto
delle funzioni ma gli preme molto
giudizio dei suoi collaboratori;
Disertore: non si cura di nulla, è
passivo e non sa comunicare
interesse alle persone.
Teoria della contingenza: il leader
come interazione con la situazione
Questa teoria sostiene che nessun
tratto o comportamento del leader
risulta efficace in ogni contesto;
l'efficacia non dipende da un tratto
ma dalla situazione, quindi, l'efficacia
non dipende solo dalla dinamica
comportamentale del leader o del
gruppo ma occorre tenere presente
anche l'ambiente.
Questa teoria è proposta dallo
psicologo industriale Fred Fiedler
con il suo modello della
contingenza. L'autore sostiene che il
comportamento del leader muta a
seconda del contesto e la situazione
permette di considerare tre
prospettive per l'analisi:
La relazione tra leader e membri
del gruppo (quindi il clima affettivo):
si valuta il clima del gruppo
analizzando la percezione sia dei
membri che quella del leader. Questo
si fa usando test sociometrici, si
valuta quindi se sono buone o se
sono scarse;
Il grado di precisione e di
chiarezza con cui è
definito il compito: si valuta se è
strutturato o destrutturato. Si
valutano le caratteristiche dell'
obiettivo da raggiungere individuato
da quattro variabili ossia, se
l'obiettivo è chiaro, il numero di
procedure possibili, il numero di
soluzioni corrette e la verifica del
raggiungimento dell'obiettivo.
Il potere che l'organizzazione
accordato al leader: può essere
forte o debole, si misura attraverso
una checklist di 12 item attraverso la
quale il leader ha modo di giudicare il
potete reale che ha nei confronti dei
membri dell'organizzazione.
Per rilevare queste tre dimensioni si
possono utilizzare dei test
sociometrici, dei questionari utili a
identificare la relazione tra queste tre
variabili. Attraverso di esse, si può
quindi definire con maggiore
chiarezza la guida
dell'organizzazione e le
caratteristiche del leader.
Nell'ambito delle teorie della
contingenza abbiamo il modello di
decisione normativa degli
accademici Victor Vroom e Philip
Yetton, che analizza i processi
decisionali del leader. Secondo
questo modello non esiste un unico
stile di leader che si cala per ogni
situazione, bensì uno che deve
essere confacente al contesto
specifico in cui ci si trova.
Gli stili decisionali sono cinque:
Autocratico: prende decisioni da
solo senza consultare i membri;
Autocratico informativo: decide da
solo, non rende noto l'obiettivo scelto,
coglie informazioni dal gruppo;
Consultivo individuale: consulta
individualmente i collaboratori,
prende le decisioni e poi mette al
corrente;
Consultativo di gruppo: espone
problemi al gruppo, ascolta le
opinioni prima di prendere da solo la
decisione;
Partecipativo: il leader che
condivide il problema con il gruppo
per arrivare poi ad una decisione
comune.
Altro modello che fa parte delle teorie
della
contingenza è il modello della Path
Goal Theory di House e Mitchell.
Questo modello si basa sulla
considerazione degli aspetti
motivazionali presenti nel gruppo.
Due sono gli assunti di base:
- Il leader è tanto più accettato dai
suoi collaboratori quanto più questi lo
considerano idoneo a soddisfare i
loro bisogni del presente e del futuro;
- Il leader è motivante quando riesce
a convincere i suoi collaboratori che
la loro soddisfazione dipende dal
raggiungimento di risultati brillanti,
ossia quando riesce a far interagire
gli obiettivi personali dei collaboratori
con quelli organizzativi e che di
questo cammino egli si farà carico
guidando, chiarendo e dando
ricompense.
I comportamenti del leader
possono essere:
Strumentale: orientato al compito,
efficace quando i collaboratori hanno
difficoltà ad impegnarsi;
Supportativo: quando ci si
preoccupa del
benessere, della relazione, specie in
caso di compiti noiosi;
Partecipativo: quando c'è attenzione
alla relazione, ed è efficace tale
comportamento nel caso di
collaboratori abili con alte aspettative
e che sono consapevoli di essere
artefici della loro riuscita;
Orientato ai risultati: sfidante, con
elevate aspettative rispetto ai
collaboratori, dove vengono proposti
degli incentivi ed è efficace con quei
collaboratori che puntano molto alla
loro autorealizzazione.
Un altro modello vede il leader come
interazione con la situazione, ed è il
modello del contingentismo di
Hersey e Blanchard.
Questo modello considera un aspetto
non considerato prima, ovvero il
livello di maturità dei collaboratori.
L'idea è che il leader deve aiutare i
suoi collaboratori a crescere (se lo
vogliono), quindi, il leader adatta il
suo stile alle capacità dei
collaboratori.
Non si tratta di considerare, come in
altri
modelli, di incentivare la motivazione,
questo modello considera contesti e
relativi stili di leadership:
1. Contesto: Bassa maturità
psicologica e basta maturità rispetto
al compito.
Stile: direttivo->una leader che dà
ordini e fornisce indicazioni ma
fornisce scatto supporto emotivo.
2. Contesto: elevata maturità
psicologica e basta maturità rispetto
al compito.
Stile: persuasivo->molta guida È
molto sostegno, gruppi con media
bassa maturità.
3. Contesto: elevata maturità rispetto
al compito minore maturità
psicologica.
Stile: partecipativo->poca guida È
molto sostegno, adatto con gli
individui con buona maturità.
4. Contesto: alta maturità psicologica,
alta rispetto al compito.
Stile: delegante->poca guida e poco
sostegno, indirizzato solo a gruppi
con alta maturità ed esperienza.
Le nuove teorie
In esse si afferma un concetto di
leader come processo. È una
considerazione nata negli anni 80,
un periodo in cui si passa dalla
modernità alla postmodernità,
mutano i contesti organizzativi,
cambiano gli stili di leadership. Si dà
molta importanza alla percezione
rispetto alle caratteristiche del leader,
inoltre si afferma che l'idea non può
avere lo stesso atteggiamento con gli
individui del gruppo. La società quindi
è cambiata, non è più il contesto del
fordismo e del taylorismo.
Ad esempio, nel modello della teoria
transazionale, Edwin Hollander
sostiene che il leader deve
guadagnare credibilità nei contatti
con il gruppo attraverso: la
conformità alle norme, la legittimità,
la competenza rispetto agli scopi da
perseguire e l'identificazione con il
gruppo. Il leader, quindi, è orientato
al mantenimento e alla
stabilità organizzativa ed è attento a
mantenere un legame pragmatico
con i suoi subordinati, si tratta di un
leader che riesce a rimanere
stabile all'interno di contesti che
mutano.
Nel modello del leader
trasformazionale di Bass,
l'interesse del leader è quello di
produrre benessere nel gruppo e si
attiva per la creazione di consenso
da parte dei suoi collaboratori verso
gli obiettivi e verso la mission
organizzativa. Il leader deve motivare
i suoi collaboratori per perseguire un
bene collettivo e deve saper
potenziare l'Io dei collaboratori
incentivando la consapevolezza
delle proprie capacità.
Qui un leader agisce secondo le
quattro I: Influenza, Ispira, stimola
Intellettualmente e considera
Individualmente.
Quindi:
La leadership transazionale ha come
caratteristiche: è orientato al
mantenimento delle attività
organizzative, sia in termini
tecnologici che di forza lavoro. Le
attività principali sono in monitoraggio
e ripristino di azioni in caso di
necessità. Si trova in un contesto
stabile;
La leadership trasformativa ha come
caratteristiche: Focus sui bisogni,
sugli atteggiamenti e sui significati
attribuiti dalle persone a loro agire. I
vari principi sono dei punti
considerazione individualizzata lo
stimolo intellettuale, visione
ottimistica, carisma. Si trova in un
contesto flessibile.

Il gruppo nelle organizzazioni


Possiamo avere diversi tipi di gruppi:
Antropologo: un gruppo di tre o più
persone che hanno uno scopo
comune da raggiungere, che si
riconoscono in certi riti, tradizioni,
cerimonie, sistemi disegni che sono
centrali nell'unire il gruppo;
Psicologico: tre o più persone che si
riconoscono e hanno relazioni di
reciproca influenza;
Sociologico: un gruppo di due o più
persone che hanno uno scopo
comune da raggiungere;
Educatore o pedagogista: un
gruppo in cui individui sono
interdipendenti in vista di un aumento
delle potenzialità individuali a
seconda delle diverse età della vita.
Per tentare di definire un gruppo si
deve partire dagli aspetti
psicologici, poi ci si unisce insieme
per soddisfare dei bisogni soggettivi
che si coniugano con la
soddisfazione dell'intero gruppo. Il
gruppo si caratterizza per
l'interdipendenza, esistono relazioni
interpersonali che non sono banali
scambi di informazioni e soprattutto
c'è un senso di appartenenza al
punto che il gruppo diventa un
soggetto in sé, si hanno scopi comuni
che sostengono la motivazione dei
singoli nonché l'influenza reciproca e
quindi il formarsi della struttura della
relazione. Quindi purché ci sia un
gruppo occorre che ci sia:
Interdipendenza: un evento di un
singolo
influenza anche gli altri;
Relazione interpersonale: gli
appartenenti ad un gruppo
interagiscono tra di loro ed entrano in
relazione;
Senso di appartenenza: i membri,
anche senza interagire, sentono di
essere una collettività;
Scopo comune: diventa la ragione
dell'esistenza di un gruppo;
Motivazione: i gruppi cercano di
ottenere una personale soddisfazione
proprio appartenendo al gruppo;
Influenza reciproca: i membri si
influenzano l'uno con l'altro;
Relazione strutturata: ci sono ruoli e
norme.
Per Brown, un gruppo esiste quando
due o più individui si definiscono
come membri e riconoscono che il
gruppo esiste.
Per il gruppo è fondamentale il
presupposto dell'interazione, ovvero
due persone che entrano in azione di
scambio.
L'interazione è una relazione
complessa che
accade entro uno spazio comune. Ed
è proprio l'interazione che permette la
dinamica di gruppo, ossia
quell'insieme di fenomeni psicosociali
che si producono nei gruppi e che
hanno alla base delle leggi naturali,
leggi che reggono i fenomeni che
accadono nel gruppo.
I fenomeni nel gruppo sono azioni
individuali che nel soggetto, proprio
perché è membro di un gruppo,
implicano un cambiamento
psicologico. Quindi i fenomeni di
gruppo sono sia un prodotto delle
azioni dei singoli che interagiscono
ma anche una condizione di queste
azioni; l'azione nel gruppo produce
fenomeni ed è condizionata dai
fenomeni di interazione presenti nel
gruppo.
Il gruppo ha una sua architettura:
Status: diverse posizioni in
riferimento al potere, inteso come
capacità di prendere iniziativa
dell'azione e di essere seguiti dal
resto del gruppo. È inteso come
prestigio, che altro non è che il
consenso.
Ruoli: si tratta delle aspettative che
un
gruppo ha verso un singolo,
aspettative che si hanno perché quel
singolo occupa un certo posto che
può essere quello del leader, del
nuovo arrivato, del clown;
Norme: i valori che sono presenti nel
gruppo e al quale il gruppo si ispira.
Le norme indicano i comportamenti
accettati e quelli sanzionabili.
Possono essere esplicite e quindi
formalizzate, ma anche implicite o sia
non scritte e non espresse
direttamente, nascono in modo
volontario e hanno comunque il
potere di influenzare il
comportamento dei membri.
Il gruppo ha anche un aspetto
relazionale, quindi legato alla
comunicazione. C'è una rete di
comunicazione, ovvero un insieme
di canali attraverso i quali passano le
informazioni. Il meccanismo della
trasmissione dei segnali può essere
formale, secondo modalità previste e
pianificate dall'organizzazione tipo
comunicati ufficiali, bollettini, riunioni.
Oppure informale, con mezzi non
previsti
esplicitamente ma presenti come il
passaparola o la voce di corridoio.
Inoltre, la comunicazione dentro il
gruppo ha una struttura e si tratta
dell'insieme delle informazioni
scambiate nel gruppo. La
comunicazione del gruppo ampio non
ha le stesse caratteristiche delle
interazioni a due. Proprio questa
complessità richiede che ci sia
un'interfaccia tra reti di comunicazioni
e struttura di comunicazione;
La rete sono i canali, mentre la
struttura è data dalle informazioni
realmente recepite e che sono quindi
arrivate ai membri.
Non basta l'insieme dei canali e
l'invio di una comunicazione ma
occorre che essa arrivi, per cui la
struttura della comunicazione è
l'attenzione pianificata affinché ci sia
l'effettivo scambio informativo e il
raggiungimento delle informazioni ai
destinatari.
Il gruppo di lavoro per Tuckman ha
l'obiettivo di raggiungere uno stadio
di adattamento e
integrazione soggettivo di ogni
componente e si struttura attraverso
tre fasi:
La fase costituente: il momento
della formazione, in cui membri del
gruppo si orientano e comprendono
quali debba essere il comportamento
nei riguardi del coordinatore e degli
altri membri;
La fase di identificazione: questo
processo può implicare anche
un'esperienza di contrasto o conflitto,
in cui un individuo appartenente al
gruppo, ad un certo punto, entra in
conflitto con altri membri o con il
leader e si crea ostilità, specie se non
è chiaro l'obiettivo lavorativo oppure
perché non si conoscono le persone
o perché le procedure sono lente. Si
sviluppa una resistenza emotiva data
dall'indisponibilità. La persona,
quindi, deve per esempio maturare
psicologicamente, oppure avere
maggiori informazioni e percezioni in
modo da integrarsi effettivamente con
il gruppo. Per arrivare ad un buon
gruppo bisogna superare
il conflitto, perché questo porterà ad
una maturità del gruppo;
La fase della maturità:
caratterizzata da strutturazione e
tipizzazione, in cui i membri si
accettano reciprocamente e si
sviluppano le norme del gruppo alle
quali tutti si adeguano, e da attività e
prestazione, in cui membri del gruppo
accettano il loro ruolo e lavorano per
raggiungere gli obiettivi prefissati.
Ci sono delle differenze tra gruppo
semplice e gruppo di lavoro. Nel
gruppo semplice ci si limita ad una
interazione tra i membri, l'individuo
ha bisogno di sentirsi gratificato nel
gruppo ed emerge una dimensione
individuale di necessità di
gratificazione.
Il gruppo di lavoro va oltre alla
semplice interazione e a questo
semplice bisogno di gratificazione
personale. Nel gruppo di lavoro è
necessaria l'interdipendenza, ovvero
un dipendere l'uno dall'altro per lo
svolgimento dell'attività nel gruppo.
Per raggiungere un obiettivo nel
gruppo di lavoro si dipende l'uno
dall'azione dell'altro, per Kurt Erwin
è proprio l'interdipendenza la chiave
della realtà gruppale e quindi solo
dove c'è interdipendenza possiamo
dire che c'è senso di gruppo. Il
gruppo di lavoro però per essere
maturo occorre che transiti oltre
l'interdipendenza, ossia raggiungere
l'integrazione dei singoli, che
permette di raggiungere gli scopi e i
fini. L'integrazione significa che si è
superato l'individualismo che cerca la
gratificazione e si sperimenta
l'appartenenza e la coesione. Essa è
la solidarietà presente tra i membri,
come anche la condivisione di norme
e il relativo senso di appartenenza.
Con la coesione il singolo rinuncia
alla propria identità e ai propri
interessi per identificarsi con il
gruppo. Il percorso del soggetto nel
gruppo è quello che va dalla
individuazione alla coesione.
Per costituire un gruppo di lavoro
coeso ed efficiente per
l'organizzazione, se l'obiettivo della
maturità del gruppo è la coesione, si
può
dire che questo step non è facile da
raggiungere, si tratta che ogni
individuo lasci la propria personalità.
Questo, però, deve essere ben inteso
perché non si tratta di una
snaturazione della propria
soggettività, ma di arrivare a far
coincidere i bisogni individuali con
quelli del gruppo.
Per far sì che il gruppo si considera
efficiente, è necessario che
l'obiettivo sia chiaro. Infatti, spesso
un gruppo fallisce perché l'obiettivo
non è chiaro, a tale livello occorre
che ci sia la massima integrazione di
tre tipi di bisogni:
Bisogni individuali: quali quello di
identità, di sicurezza, di stima e
autostima, cioè voglio appartenere ad
un gruppo ma ho anche bisogno di
sentirmi sicuro, di avere stima di me
e di percepire la stima altrui;
Bisogno di gruppo: il bisogno di
realizzare le aspettative e di
mantenere il senso di appartenenza
del gruppo;
Bisogni dell'organizzazione: il
bisogno di
raggiungere dei risultati.
Questi tre tipi di bisogni devono in
qualche modo incontrarsi ed
integrarsi. Solo quando questi tre
bisogni coincidono si può dire che c'è
una simmetria e quindi che l'obiettivo
del gruppo è compreso e soprattutto
è fatto proprio dai singoli, dal gruppo
e dall'organizzazione in un
allineamento che indica che il gruppo
è efficiente.
Successivamente è necessario che ci
sia la definizione di un metodo di
lavoro. Un gruppo è efficiente
quando ha un metodo di lavoro che
permette di arrivare a dei risultati.
Servono allora principi, norme e
criteri che regolano il lavoro del
gruppo e la pianificazione delle
attività. È fondamentale che ci siano
delle procedure lavorative, ovvero un
metodo, perché queste aiutano il
senso di appartenenza. Si tratta di
una sorta di contratto tra l'individuo
e l'azienda, un contratto di
cooperazione che include il ruolo che
il soggetto ha nell'organizzazione e
gli
obiettivi e le modalità con cui questi
verranno perseguiti.
È un unico piano operativo che
implica l'interdipendenza. Inoltre, è
bene che ci sia il chiarimento dei ruoli
gruppali. Avere un ruolo in gruppo
significa che gli altri hanno delle
aspettative circa il modo in cui
occorre comportarsi perché si occupa
una posizione nel gruppo. I ruoli in un
gruppo sono diversi e hanno
connesse delle aspettative.
Quando c'è ambiguità e discrepanza
nella percezione dei ruoli, l'integrità
del gruppo è compromessa e si
percepisce una dissonanza
cognitiva.
Ossia se c'è discrepanza tra la
percezione che si ha di sé dentro in
gruppo circa il proprio ruolo il modo in
cui gli altri percepiscono il ruolo del
soggetto in questione. Ad esempio,
quando un leader non svolge
determinate attività che gli
competono ed il gruppo attende che
queste siano svolte da lui perché il
leader, allora si va in dissonanza, non
c'è
simmetria tra ciò che il leader deve
fare e ciò che invece effettivamente il
gruppo percepisce (vede fare) del
leader.
Poi, è necessario che ci sia
l'assunzione di una leadership di
gruppo. Il compito del leader è
quello di coniugare le variabili
strutturali di obiettivo, metodo e
ruolo con quelle processuali di
clima, di comunicazione e di
sviluppo. Il leader deve fungere da
equilibratore tra l'individuo e il
gruppo, e la sua leadership nel
gruppo deve essere di servizio,
prodotta dal gruppo stesso, quindi
una leadership funzionale, non
semplicemente istituzionale che
funga solo da interfaccia con altri
leader ed organizzazioni.
La sua funzione è di guida naturale,
non è qualcuno che vuole emergere
e sentirsi la persona più importante. I
processi comunicativi sono
importanti, infatti la comunicazione fa
il gruppo e non può esistere un
gruppo senza la comunicazione dei
significati. Purché la comunicazione
nel
gruppo sia efficiente, occorre che
essa venga a tre livelli e che tra
questi tre livelli ci sia concordanza.
Questi tre livelli non sono solo
conseguenziali ma anche
contemporanei, l'importante è che
siano chiari e franchi. La
comunicazione è fondamentale nel
gruppo che è minato nella sua
esistenza; se non esiste confronto,
dialogo, non si cambia non si assume
informazioni, né si comprende
l'obiettivo del gruppo stesso. È molto
importante anche la variabile clima,
infatti esso è un insieme di percezioni
globali che gli individui hanno del loro
ambiente organizzativo e di lavoro.
Quando c'è il sostegno reciproco che
si manifesta con affiliazioni e
condivisione degli sforzi, allora c'è
efficienza. Si tratta dell'importanza
del calore umano inteso come
attenzione alla relazione, con una
comunicazione franca e con la
richiesta offerta di ascolto. Il clima
influisce sulla motivazione dei
lavoratori al lavoro, esso quindi incide
sulla produttività. Il
clima, quindi, è una percezione di
vista dentro un'organizzazione, è
importante per l'efficienza perché
permette l'affiliazione, la condivisione
degli sforzi, si percepisce sostegno e
calore umano, attenzione alle
relazioni dall'emotività. Quindi il clima
è importante per la coesione del
gruppo.
infine, va considerata la valutazione
del processo di sviluppo. Il gruppo
di lavoro si sviluppa se si sviluppano
le competenze individuali, e le
singole competenze individuali
portano ad una competenza nel
gruppo che non è la semplice somma
delle singole competenze. Il processo
di sviluppo è importante perché
significa che le competenze dei
singoli diventano sapere e
competenze del gruppo. Il gruppo
dove avviene questo passaggio è un
gruppo maturo in quanto non c'è più
la necessità di emergere
individualmente ma diventa
importante costruire il sapere del
gruppo. Per far sì che questo accada
occorre che ci sia una
coincidenza tra l'area del sé, ovvero
dell'individuo che si dà da fare, e
l'area delle relazioni interne e anche
l'area delle relazioni esterne, un
processo che va da l'individuo
all'esterno in un azione che mira al
raggiungimento degli obiettivi del
gruppo che si presenta quindi coeso
e maturo.

Contenziosi, contrasti e
contrarietà
Quando ci si relaziona con qualcuno
c'è sempre e inevitabile esperienza
del conflitto. Occorre tener conto che
il conflitto è naturale e umano, non è
una qualità individuale ma
relazionale, non è una patologia della
relazione ma è la relazione stessa. Il
conflitto non è una malattia, lo
diventa se non viene regolato. Il
conflitto quindi si trova nelle
organizzazioni, e mina sull'emotività
e la psicologia dei soggetti, può
creare disarmonia e fallimento
dell'obiettivo. Esso si manifesta
dentro un gruppo quando nel gruppo
le persone per via del lavoro
dipendono l'uno dall'altro ma
presentano anche punti di vista
diversi, ma anche interessi ed
obiettivi che contrastano.
A questo punto interviene
l'importanza del leader che deve
sapere che il conflitto è un
componente naturale del gruppo e ha
anche un potenziale produttivo
perché stimola il pensiero, condensa
prospettive differenti, aiuta i membri a
considerare i fattori chiave delle
decisioni da prendere.
Il conflitto può essere costruttivo o
distruttivo. È distruttivo quando
interferisce sull'efficacia del lavoro
svolto. Distrugge quando la
comunicazione viene effettuata per
avere ragione delle proprie idee e
delle proprie soluzioni, distrugge
quando crea chi perde e chi vince, e
distrugge quando alcuni membri
pensano che solo alcuni di loro
possono affermarsi sugli altri con i
loro punti di vista che chi perde deve
accettare. Il conflitto che distrugge lo
si riconosce perché ci sono alcuni
sintomi, come una
competizione, l'attenzione solo a
beneficio del singolo, le soluzioni
sono a beneficio di un singolo o un
piccolo gruppo e il gruppo è chiuso e
non accetta altro opinione
dall'esterno.
La comunicazione è sulla difensiva,
permalosa, resistente al
cambiamento per cui la novità viene
vista come minaccia al modo solito di
fare le cose.
Il conflitto è costruttivo quando si ha
la consapevolezza che il disaccordo
è naturale è proprio delle dinamiche
dei gruppi e può aiutare a
raggiungere obiettivi comuni. Questo
tipo di conflitto non nega la
cooperazione nell'ascolto delle idee
differenti, e delle loro opinioni con
interesse e attenzione, la
comunicazione quindi non viene
attuata per prevaricare ma proprio
per cercare obiettivi e punti comuni.
I sintomi del conflitto costruttivo sono:
la cooperazione, l'attenzione a
benefici nel gruppo, le soluzioni
prese sono a favore di
tutti e non di vincitori, il clima è aperto
e si accettano anche suggerimenti e
proposte esterne e, infine, la
comunicazione supportiva, c'è
interesse per l'opinione altrui, si
ascolta con empatia dando il proprio
feedback.

Rischi psicologici e sociali


connessi al lavoro: lo stress
Negli ultimi tempi si sta parlando del
legame che esiste tra
l'organizzazione e la salute. In
Europa oltre 40 milioni di persone
soffrono per condizioni di malessere
psicofisico derivante dalle condizioni
lavorative; secondo l'European
Agency for Safety and Health at
Work, i problemi di salute correlati al
lavoro costituiscono una vera
emergenza e affliggono oltre il 22%
dei lavoratori. Il 50-60% delle
giornate lavorative sono perse a
motivo dello stress e ogni anno
vengono spesi circa 20 miliardi di
euro per far fronte alle spese per
problematiche di stress lavorativo.
Esiste quindi una correlazione posto
di lavoro-stress e i costi
dell'organizzazione per far fronte a
questa problematica.

Il legame tra organizzazione e


salute
La scuola delle relazioni umane di
Mayo è la prima a parlare di danni
derivanti dal lavoro individuale
dettato da monotonia e ripetitività e
quindi la dequalificazione delle
capacità individuali.
Con gli anni 30 e 40 si hanno i primi
interventi tesi a migliorare la salute
nei luoghi di lavoro e quindi ci si
interessa degli infortuni delle malattie
che accadono in ambito lavorativo,
così da mettere a punto dei mezzi di
assistenza.
Gli anni 50 e 60 si comincia ad
interessarsi dello stress lavorativo e
di rischi psicosociali, si interessa
della salute psicofisica del lavoratore
e dei meccanismi lavorativi che la
influenzano, la persona quindi viene
considerata nel suo essere inserita in
un
contesto con cui è in interazione. Ci
si domanda cosa all'interno del
contesto lavorativo può produrre
malessere e come intervenire.
Con gli anni 70 e 80 abbiamo studi
più affinati tesi a migliorare la qualità
della sicurezza nei contesti lavorativi.
Se prima si lavorava soprattutto per
la cura del malessere ormai
accaduto, ora ci si pone in una
prospettiva preventiva, e quindi
riconoscere le cause di malessere e
lavorare per prevenirle. Negli anni 70
si acquisisce anche un concetto
attivo di salute, una vera e propria
cultura della salute aziendale. I
sindacati, i gruppi di lavoro e i datori
di lavoro si sensibilizzano a questo
problema, cercando di trovare metodi
per prevenire e risolvere gli agenti di
malessere nel contesto lavorativo.
Si comincia a parlare di stress grazie
all'endocrinologo Hanse Seyle, che
faceva esperimenti sugli animali
somministrando ormoni ovarici bovini
alle cavie. L'organismo di
queste veniva alterato e quindi
c'erano delle risposte dell'organismo.
Il ricercatore era interessato proprio a
capire come l'uomo reagisce agli
stressor, ovvero agenti stressanti, ed
ebbe così modo di sperimentare che
le situazioni non abituali provocano
delle alterazioni morfologiche e
patologiche. La cavia sotto stress
cercava di reagire sviluppando una
sindrome generale di adattamento.
Seyle arrivò a scoprire però che non
era la sostanza a provocare la
sindrome ma il fatto di essere
sottoposti all'inoculamento ed alla
manipolazione.
Seyle individua delle fasi nella
risposta agli stressor: una fase di
allarme iniziale, ovvero fase di shock,
alla quale si risponde con l'allarme
come contro shock. Se lo stressor
continua allora c'è una fase di
resistenza, ma se lo stressor
prolunga ulteriormente la situazione,
allora si esaurisce la risposta e si va
in fase di esaurimento. Quanto ha
determinato Seyle è che la risposta
data allo
stressor è aspecifica, cioè è una
reazione di adattamento che
prescinde dalla natura del problema,
non è una causa specifica che detta
la reazione del soggetto. Il soggetto
reagisce ad uno stressor ed è
l'intensità dello stimolo che
definisce una risposta. Anche una
emozione positiva può diventare
condizione di stress.

Lo stress
Lo stress è una funzione di cui
l'organismo umano dispone per far
fronte alle pressioni e alle minacce
esterne e per adattarsi alle condizioni
dell'ambiente di vita. Quindi, è una
componente essenziale del nostro
vivere.
È una reazione aspecifica
dell'organismo alle esposizioni del
nostro stesso organismo a stimoli e
sollecitazioni. Le cause dello stress
sono da ricondurre a tre componenti:
stressor, individuo, ambiente
dentro il quale individuo e stressor
interagiscono.
Lo stressor è un accadimento, un
agente
nocivo qualsiasi che può indurre una
sindrome generale di adattamento.
Questi accadimenti possono essere
di tipo fisico come shock elettrico,
esposizione al freddo; psicologico
come una prova o un compito; e
psicosociale come un lutto o una
separazione.
La risposta dipende molto
dall'intensità, dalla frequenza e dalla
durata dello stimolo, si vengono così
a creare degli scompensi e
disequilibri che possono scatenare
una condizione di malessere.
Quando la persona sta in una
situazione di stress, le dimensioni
umane sulle quali lo stress può
incidere sono quattro:
Livello fisico: problemi alla schiena,
si indebolisce il sistema immunitario,
disturbi cardiaci e ipertensione;
Livello cognitivo: difficoltà di
concentrazione, perdita della
memoria, scarsa propensione ad
apprendere cose nuove, ridotta
capacità decisionale;
Livello comportamentale: abuso di
sostanze,
comportamenti distruttivi e
autolesionistici;
Livello emozionale: irritabilità, ansia,
disturbo del sonno, depressione,
ipocondria e problemi relazionali.
Nel parlare di stress, si devono
riconoscere i due tipi: l'eustress e il
distress:
L'eustress è uno stress costruttivo,
la persona riesce a fronteggiarlo con
uno sforzo di adattamento senza
avere minacce per il suo benessere
personale;
Il distress è uno stress distruttivo
accompagnato da sensazioni
negative, si presenta quando le
sollecitazioni stressanti sono
superiori alle capacità di risposta del
soggetto, oppure quando le pressioni
sono in realtà monotone da non
attivare la persona.
Stress e lavoro
Il lavoro è diventato causa di
malessere per molte persone. Le
richieste ambientali oggi spesso sono
eccessive, le situazioni di stress si
prolungano oltre le capacità di
resistenza
per cui si creano rotture dell'equilibrio
personale, una breakdown
psicofisica che può indurre alla
patologia.
La rottura non si presenta solo come
carenza o mancanza di risorse
interne ma a volte anche per via dei
modelli sociali e di quei
comportamenti di ruolo che ci
portano a sentirci obbligati a dover
essere o come agire.
Quando lo stress colpisce l'individuo,
viene meno la salute fisica e c'è un
aumento del disagio psichico e un
impoverimento della vita familiare. A
livello di organizzazione ci sono costi
economici per via delle assenze dal
lavoro, costi psicosociali perché il
clima organizzativo si deteriora,
aumenta anche la conflittualità e si
registra la perdita di efficacia ed
efficienza. Il soggetto sotto stress
tende ad assentarsi dal lavoro, ad
ammalarsi e questo porta delle
ricadute a livello di turnover.
Per poter prevenire gli effetti negativi
dello stress sul posto di lavoro,
servono analisi
organizzativa finalizzata a prevenire
e gestire i rischi psicosociali. Si
hanno tre modelli che cercano di
spiegare in quali situazioni si
presentano le condizioni di stress
all'interno delle organizzazioni.

Il modello di Cooper: Cooper e


Marchall
Le fonti di stress sono spiegate in
termini di pressioni dell'ambiente sul
soggetto. Possono essere diverse le
fonti di stress, per esempio le
condizioni fisiche intrinseche al
lavoro quali rumore, la temperatura,
illuminazione, la carenza di igiene.
Queste condizioni provocano
malessere e di esse occorre tenerne
conto per prevenire nelle
organizzazioni le condizioni di
malessere. Oppure le condizioni del
compito per esempio il carico di
lavoro. Oppure le cause correlate al
ruolo, per esempio quando questo è
ampio, si entra in conflitto per via dei
ruoli diversi, per il carico di
responsabilità che il ruolo comporta.
Il modello di Grench e Caplan:
person environment fit theory
Si tiene conto della relazione tra la
persona e l'ambiente e quindi
dell'interazione e adattamento tra i
bisogni individuali e le risorse
dell'organizzazione. A livello del
soggetto, ci sono due ambiti
importanti da tenere in
considerazione per identificare le
condizioni di stress, ovvero i bisogni
della persona e come
l'organizzazione li soddisfa;
E le abilità e la domanda, ovvero,
quali sono le capacità del lavoratore
se sono adatte a fronteggiare le
richieste fatte al lavoratore stesso.
Questo modello tiene conto di quattro
caratteristiche fondamentali:
Le richieste dell'organizzazione, cioè
il carico di attività che
un'organizzazione proietta sul
lavoratore;
Le caratteristiche oggettive
possedute dal
soggetto, le sue attitudine fisiche ma
anche la formazione di cui dispone;
La valutazione soggettiva, la
percezione che il lavoratore ha delle
richieste rivolte a lui
dall'organizzazione;
E le caratteristiche soggettive, ovvero
le abilità, le competenze, le
potenzialità.
Per evitare che ci sia stress occorre
mantenere l'equilibrio tra queste
caratteristiche.

Il modello di Cox e Mac Kay:


transactional process, transazione
tra soggetto e ambiente
S= Co (D-C)
S= lo stess
Co= coping, i meccanismi di difesa di
cui l'individuo dispone per gestire
situazioni avverse o pericolose
D= domanda percepita, ovvero, la
domanda fatta dall'organizzazione
C= capacità percepita
Secondo questo modello lo stress è
un
fenomeno che insorge da un
confronto tra la richiesta rivolta la
persona e la capacità della stessa di
adattarsi. Uno sbilanciamento di
questo meccanismo provoca una
accentuazione dello stress. Pertanto,
da questo punto di vista lo stress è
un fenomeno percettivo individuale
radicato nei processi psicologici, cui
sono fondamentali processi di
adattamento dell'individuo.

Prevenire lo stress nel lavoro


Il 31 dicembre 2010 è entrata in
vigore la legge per i datori di lavoro
di valutare il rischio di stress correlato
al lavoro appunto, l'analisi parte
dall'effettuare una valutazione
preliminare necessaria ed
obbligatoria, che serve per verificare
se ci sono dei rischi di stress o agenti
patogeni all'interno della propria
organizzazione. Può esserci una
valutazione secondaria eventuale,
qualora in sede preliminarile sia stato
rilevato un rischio di stress, al fine di
applicare delle correzioni.
La valutazione preliminare serve per
rilevare alcuni indicatori oggettivi e
verificabili che sono raggruppati in tre
grandi famiglie:
Eventi sentinella: il numero di
infortuni, le assenze per malattia, i
turnover, i procedimenti e le sanzioni,
le segnalazioni dei medici, lamentele
formalizzate degli stessi lavoratori;
Fattori di contenuto del lavoro:
l'ambiente le attrezzature del lavoro, i
carichi di lavoro e i ritmi, gli orari e i
turni, la corrispondenza tra
competenze effettive dei lavoratori e i
requisiti necessari per il lavoro;
Fattori di contesto del lavoro: il ruolo
che si ha nell'organizzazione, del
potere decisionale, dell'evoluzione
sviluppo della carriera, della
chiarezza della comunicazione e
delle richieste di prestazione.
Se questa prima valutazione ha
evidenziato i fattori di rischio allora si
procede alla valutazione secondaria.
Se non ci sono fattori di rischio il
datore di lavoro compila il
documento di valutazione dei
rischi. Se sono riscontrati rischi
occorre pianificare gli interventi
correttivi. Se questi interventi sono
inefficaci allora occorre fare una
valutazione approfondita lavorando
sulla percezione dei lavoratori
attraverso la somministrazione di
questionari, focus group, interviste
semistrutturate, e analizzare bene le
famiglie dei fattori già indicati per la
valutazione preliminare. Per
comprendere meglio i fattori di rischio
legati al lavoro, si ha una scheda
preparata da Dollard e rivista da
Cox, dove si vede che tali fattori di
rischio e condizioni di rischio sono
caratteristiche e natura del lavoro e
contesto organizzativo e sociale del
lavoro. Lo studio iniziale di Dollard e
colleghi fu una ricognizione sui
maggiori sistemi di rilevazione dei
rischi lavorativi, utilizzati in diverse
nazioni usando categorie ampie di
caratteristiche e natura del lavoro e
nel contesto organizzativo.
Indicatori di salute
Esiste un legame tra salute e
organizzazione, in quanto
l'organizzazione può creare
condizioni di benessere al suo
interno. Se questo succede è un
bene per il lavoratore e per
l'organizzazione. Per valutare il livello
di salute ci sono degli indicatori, sia
positivi come la soddisfazione, voglia
di impegnarsi nell'organizzazione,
sensazioni di autorealizzazione,
convenzioni di poter cambiare le
condizioni negative attuali, rapporto
equilibrato tra vita lavorativa e
privata, valori organizzativi condivisi,
stima del management, credibilità del
management; e negativi come
risentimento verso l'organizzazione,
aggressività e nervosismo,
sentimento di inutilità, sentimento di
irrilevanza, insofferenza nell'andare
al lavoro, disinteresse per il lavoro,
desiderio di cambiare il lavoro,
anaffettività lavorativa,
lentezza nella prestazione,
confusione organizzativa in termini di
ruolo.
Probabilmente i rischi sul lavoro
aumenteranno per via dei contratti
precari, della forza lavoro che
invecchia, dei carichi di lavoro
richiesti, delle tensioni emotive per
via anche di violenze e molestie sul
lavoro, perché si squilibra il rapporto
vita privata e lavoro.

Lo stress cronico ed il burnout


Lo stress è uno squilibrio psicofisico,
una vera e propria rottura, una break
di un equilibrio all'interno del contesto
lavorativo e che altera l'equilibrio del
soggetto.
L' individuo ha le sue motivazioni che
lo portano ad agire uno sforzo per
svolgere la sua attività lavorative,
mentre il contesto del lavoro presenta
delle richieste e la persona risponde.
Dall'altro versante si hanno dei salari,
delle promozioni, delle forme di
sicurezza lavorative che sono quei
ricavi e quelle ricompense che
dovrebbero arrivare
come premio al proprio impegno.
Quando però accade che lo sforzo
non ottiene ricompensa e quando c'è
un forte squilibrio tra l'impegno e le
ricompense percepite, allora viene
uno squilibrio che porta nel soggetto
delle condizioni di stress. Il lavoratore
può anche essere sottoposto anche
agli stressor lavorativi, ovvero
richieste che hanno un peso
maggiore rispetto alla capacità di
reazione dell'individuo, fino ad
arrivare a situazioni patogene;
l'azione dello stressor, quindi,
superando la capacità di risposta e di
resistenza dell'individuo, può
provocare quel breakdown
psicofisico tanto temuto.
Gli stressor lavorativi possono
essere:
Individuali: come quelli
soggettivamente percepiti, connessi
alle caratteristiche oggettive del
lavoro che si svolge. Possono essere
i carichi di lavoro molto pesanti, gli
orari di lavoro molto intensi, sono
stressor legati al lavoro in sé ma
dipendono molto anche da come il
soggetto li percepisce in
base proprio alla sua attitudine di
reazione e resistenza;
Di gruppo e organizzativi: si tratta
di quelle situazioni di rapporti
interpersonali piuttosto scadenti, i
cambi tecnologici e l'instabilità
lavorativa. Questi stressor sono legati
all'ambiente e alle relazioni in esso
intessute, possono anche essere
quei cambiamenti nel contesto
lavorativo per via dell'inserimento di
nuove tecnologie o anche proprio la
riorganizzazione lavorativa. Non
sempre tali novità sono percepite dal
lavoratore come un incremento di
benessere nel contesto lavorativo;
Extra organizzativi: possono essere
i valori e le aspettative del lavoratore,
l'ambiente fisico e sociale più ampio
in cui si vive a motivo del lavoro, le
caratteristiche ambientali, il contesto
familiare e le problematiche che a
volte in esso si vivono.
Le conseguenze dello stress cronico
che colpisce il lavoratore possono
portare ad una
condizione che diventa patologica e
di disagio sia solo per la persona, sia
anche a livello sociale. I costi sociali
dello stress riguardano: il clima
perturbato, la perdita di efficienza
produttiva, un incremento di infortuni,
richiesta indennizzo è maggiore
spesa sanitaria. Quindi costi per
l'organizzazione ed il sistema sociale.

Il coping
Per lo psicologo Richard Lazarus il
coping è un processo che dipende
dal contesto ma è indipendente dal
risultato. Quando un individuo
incontra eventi difficili o minacciosi
che sono superiori alle sue risorse
effettua una valutazione, ovvero
comprende di stare fronteggiando un
problema e si domanda che cosa può
fare in proposito. Spesso quando si
sta definendo il problema e si elabora
il modo su come prevenirlo e
fronteggiarlo, può avvenire a livello
inconscio un distacco emotivo
dall'attività stessa. Quindi, il
soggetto dinanzi ad un problema
effettua una prima valutazione per
definire che ha un problema e poi un
ulteriore valutazione per definire
come fronteggiare la difficoltà.
La ricercatrice Pam Managhan
sostiene, in merito al coping, che il
soggetto ha delle sue risorse di
coping personali, ossia delle sue
capacità che lo proiettano a saper
mettere in atto le strategie di coping.
Si tratta di soggetti con una forte
autostima, che hanno una ottima
capacità di analisi, una buona
capacità di interazione con gli altri e
questo porta il soggetto a
comprendere il fenomeno che
accade e contenerlo. Per Managhan,
il coping dipende anche dagli stili di
coping che vengono attivati. Ossia
quando accade un evento ci sono
delle strategie cognitive attivate che
sono funzionali. Ad esempio, il
sapersi rivolgersi a qualcuno per
chiedere aiuto al fine di avere
supporto anche motivo. Infine, il
soggetto può anche avere delle
tendenze al coping, ovvero la
capacità di
saper mettere in atto comportamenti
adottati ad arginare il problema e
contenere le reazioni emotive.

Il burnout
Ci sono professioni e situazioni
lavorative che inducono al burnout.
Ad esempio, quelle professioni cui c'è
un considerevole dispendio di
energia psicologica, in cui un
operatore deve stare spesso a
contatto con l'utente, e professioni
che richiedono un forte contatto
emotivo e coinvolgimento nelle
problematiche dell'utente. Professioni
sanitarie e sociali, quelle che hanno
come obiettivo la cura, l'assistenza,
l'aiuto. Infine, quelle professioni che
richiedono la continua disponibilità e
l'empatia, il lavoratore in questi
contesti e con queste richieste attiva
le sue strategie di coping ma può
accadere che ad un certo punto si
distanzi emotivamente dalle sue
attività ed inizia il processo di
burnout. Per Christina Maslach
nota per le sue ricerche sul burnout
professionale, si tratta di una
sindrome da esaurimento emotivo,
con depersonalizzazione e
derealizzazione, che può insorgere in
operatori che lavorano a contatto con
il pubblico. Il significato letterale del
termine è bruciato, logorato, fuso.
Accade come una forma di
esaurimento quando si ha a che fare
con gli altri in situazioni impegnative
che coinvolgono notevolmente il
profilo emotivo. Il burnout si deve
considerare come un processo che
porta ad un graduale distacco
emotivo della persona dal suo
contesto lavorativo.
Le cause del burnout sono:
Fattori sociali e personali: molto
dipende dal background sociale,
culturale e ideologico della persona.
Anche il livello socio-economico di
appartenenza, la situazione familiare,
l'età, le aspettative professionali, lo
stile cognitivo, il grado di tolleranza
della frustrazione, il livello di
coinvolgimento
emotivo e il livello di tolleranza dello
stress;
Fattori relazionali: si tratta del
rapporto che si ha con l'utenza e le
relazioni a livello lavorativo. Ad
esempio nella scuola il rapporto con i
ragazzi, con i genitori, con i colleghi e
quindi la qualità di questi rapporti se
ostili, competitivi, di collaborazione e
dialogo;
Fattori oggettivi organizzativi o
professionali: ovvero la scarsa
retribuzione, le condizioni ambientali
sfavorevoli, i turni e gli orari
stressanti, la routine e burocratica.
Per esempio nella scuola l'eccessiva
burocrazia, il precariato, il susseguirsi
di riforme, il carico di lavoro, e risorse
didattiche carenti. Tutte situazioni di
stress che possono portare al
distacco, all'incapacità di reagire al
fenomeno.
La sindrome si presenta secondo
quattro fasi:
1. Preparazione: l'entusiasmo
idealistico che porta un soggetto a
scegliere il suo lavoro assistenziale;
2. Stagnazione: il soggetto si ritrova
sottoposto a carico di lavoro
eccessivi e comprende che la sua
carica ideale non corrisponde a
quella che è la realtà, diminuiscono
quindi sia l'entusiasmo che l'interesse
ed anche il senso di gratificazione;
3. Frustrazione: il soggetto comincia a
sentire inutilità, inadeguatezza,
insoddisfazione, insieme alla
percezione di essere sfruttato,
oberato di lavoro e poco apprezzato.
Comincia a mettere in atto
comportamenti di fuga dall'ambiente
lavorativo oppure anche ad avere
atteggiamenti aggressivi verso i suoi
colleghi e verso se stesso;
4. Apatia: l'interesse e la passione per il
lavoro che c'erano prima ora si
spengono, subentra l'apatia e
l'indifferenza, fino ad una vera e
propria morte professionale.
Per lo psicologo Cary Cherniss
esistono tre fasi nel burnout:
Ÿ Lo stress: il disequilibrio tra le risorse
e le
richieste;
Ÿ L'esaurimento: la tensione emotiva
e la fatica;
Ÿ La difesa: il distacco emotivo che si
manifesta con il ritiro, il cinismo, la
rigidità verso gli utenti, una sorta di
coping che porta ad una fuga
psicologica che mette il
professionista al sicuro da fonti di
stress. Il distacco permette di
eliminare il senso di frustrazione,
esternandolo sugli altri in una forma
di reazione difensiva. Si può
considerare quindi un vero e proprio
meccanismo di difesa che permette
all'individuo di gestire situazioni
percepite come avverse.
Proseguendo su questo filo, Maslach
e Jackson considerano il burnout
come basato su:
Ÿ Fase di esaurimento emotivo: la
persona si sente svuotata delle sue
risorse emotive e personali e ha la
sensazione di essere inaridito e non
avere più nulla da
offrire a livello psicologico.
Ÿ La depersonalizzazione: il soggetto
sperimenta distacco, cinismo,
freddezza e ostilità verso gli altri;
Ÿ Ridotta realizzazione personale: la
percezione della propria
inadeguatezza e incompetenza nel
lavoro, l'autostima si abbassa e si
attenua il desiderio di successo.
Tra gli effetti maggiormente
riscontrabili nel test, si hanno
sintomi fisici (mal di testa, fatica,
disturbi gastrointestinali, quindi, un
cambiamento nelle abitudini
alimentari e uso di farmaci), sintomi
psicologici (senso di colpa,
negativismo, alterazioni dell'umore,
scarsa fiducia in sé, scarsa empatia e
scarsa capacità di ascolto), sintomi
comportamentali (ci si assenta dal
lavoro, ritardi, rinvio di appuntamenti,
scarsa creatività) e un cambiamento
di atteggiamento (chiusura difensiva
il dialogo, cinismo, distacco emotivo
e indifferenza ai problemi dell'altro).
Per rilevare la sindrome, Maslach ha
elaborato un test il Maslach burnout
inventory. Si tratta di 22 item che
misurano 3 dimensioni della
sindrome prendendo in esame le tre
fasi descritte. Le domande del
questionario sono 22 e la risposta da
dare è un punteggio da 0 a 6. La
somma dei punteggi permette di
definire l'intensità del problema e
quindi del burnout sperimentato.
Stress e burnout: esiste una
differenza sostanziale tra stress e
burnout. Lo stress è una reazione
momentanea di adattamento che può
rientrare nella norma. Fa riferimento
ad un disadattamento aspecifico e,
se inserito nell'ambito lavorativo, si
definisce work stress. Il burnout è
un processo che si sviluppa lungo
termine, si prolunga nel tempo e si
cronicizza, implica necessariamente
un aspetto legato ad una dimensione
interpersonale e si caratterizza per
una specifica relazione
interpersonale con l'utenza.
La persecuzione psicologica nei
luoghi di lavoro: il mobbing
Il termine mobbing deriva
dall'inglese to mob che indica due tipi
di azione: l'afollarsi contro qualcuno,
come accanirsi, e assalire con
tumulto, quindi aggredire, attaccare,
schernire.
Konrad Lorenz negli anni 70 già
registrava il comportamento di certe
specie di animali che circondavano
un proprio simile in modo violento e
rumoroso al fine di allontanarlo dal
branco, per esempio alcuni uccelli a
volte allontanano dal loro territorio
altri stormi intrusi aggredendo
collettivamente i nuovi arrivati.
Il mobbing, inteso come
persecuzione nel luogo di lavoro,
viene trattato per la prima volta dallo
psicologo Heinz Leymann negli anni
80, vedendo come il suddetto
comportamento degli uccelli fosse
quasi analogo al comportamento di
alcuni lavoratori nei
confronti di altri. Negli ultimi anni si
sente parlare molto di mobbing, per
cui con questo termine si indica la
persecuzione psicologica nel
contesto lavorativo, diventando un
tema di interesse non solo
psicologico ma anche registrativo e
legale. In Germania, presso le unità
sanitarie locali dette AOK, sono
presenti degli strumenti utili alla
diagnosi di danni da mobbing e cura,
il mobbing è ormai ufficialmente
dichiarato come una delle malattie
professionali. In Svezia il mobbing è
considerato pratica criminale,
socialmente dannosa ed il ministero
del lavoro svedese ha emesso delle
ordinanze per la tutela dell'ambiente
di lavoro e per prevenire la
vittimizzazione e la persecuzione di
lavoratori. In Italia abbiamo solo
l'opera dello psicologo Harald Ege
che nel 1996 ha fondato a Bologna
"Prima", la prima associazione
Italiana contro il mobbing e lo stress.
Il mobbing da un punto di vista
psicologico e lavorativo è una forma
di violenza o di
molestia psicologica esercitata
quasi sempre con intenzionalità,
lesiva, ripetuta in modo reiterato con
modalità diverse e quindi poliforme. È
un azione persecutoria intrapresa per
almeno 6 mesi, con un'ampia varietà
di modalità a seconda della
personalità dei soggetti con la finalità
di estromettere un soggetto dal posto
di lavoro. Ognuno ha una sua soglia
individuale della resistenza alla
violenza psicologica capace di
indurre una condizione di mobbing,
che è possibile esprimere come
funzione di intensità della violenza,
tempo di esposizione e tratti della
personalità.
Per Ege il mobbing è una forma di
terrore psicologico sul posto di lavoro
esercitato attraverso comportamenti
aggressivi e vessatori ripetuti ed agiti
da colleghi superiori. La vittima viene
calunniata, criticata, spostata da un
ufficio all'altro e spesso impegnata in
mansioni dequalificanti. Lo scopo è
indurre la persona considerata
scomoda a presentare dimissioni
volontarie oppure a provocarne il
licenziamento. Secondo Einarsen e
colleghi, le caratteristiche principali
del mobbing sono:
Ÿ Azioni di attacco: offesa ed
esclusione di qualcuno intaccando
continuamente i suoi compiti
lavorativi;
Ÿ Frequenza periodica dell'attacco:
l'interazione conflittuale si presenta
ripetuta e regolare;
Ÿ Asimmetria di posizioni: spesso la
vittima ha una posizione sociale
inferiore.
È difficile che il mobbing avvenga tra
colleghi, il più delle volte è il capo che
vuole allontanare un lavoratore dal
gruppo e quindi usa la posizione
sociale inferiore del subalterno. Può
esistere però anche un mobbing
orizzontale tra colleghi. Per quanto
riguarda gli attori in gioco, essi sono:
La vittima (mobbizzata), il mobber
(colui o colei che agisce i
comportamenti ai danni della vittima)
e i co-mobber (gli spettatori,
complici spesso dell'azione
dannosa).

La vittima
La persona viene continuamente
umiliata, offesa, isolata e ridicolizzata
anche per quanto riguarda la vita
privata. Il suo lavoro viene
deprezzato, continuamente criticato o
addirittura sabotato, svuotato di
contenuti;
Il soggetto viene privato degli
strumenti necessari a svolgere
l'attività (sindrome della scrivania
vuota) o, viceversa, sovraccaricato di
lavoro e di compiti impossibili da
portare materialmente a termine o
inutili, ma tali da provocare o acuire
sentimenti di frustrazione e di
impotenza (sindrome della scrivania
piena).
Il suo ruolo viene declassato, le sue
capacità personali e professionali
messi in discussione. Infine, vengono
esercitate nei suoi confronti continue
azioni sanzionatorie, spesso
pretestuose, mediante un uso
eccessivo di strumenti quali visite
fiscali o di idoneità,
contestazioni disciplinari,
trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di
permessi, di ferie o di trasferimenti.
Ege e Leymann hanno individuato
quello che può essere il profilo di
soggetti che possono essere
sostanzialmente vittime di mobbing.
Ogni lavoratore può essere vittima di
mobbing, ma di solito lo sono quelli
più passivi o quelli troppo aggressivi
nelle interazioni:
Ÿ Il distratto: colui che non coglie i
cambiamenti che accadono intorno a
lui e non sa fare una valutazione
critica del nuovo contesto;
Ÿ Il prigioniero: colui che non riesce a
tirarsi fuori dalla situazione e si lascia
travolgere dagli eventi incapace di
trovare soluzioni attive ai suoi
problemi;
Ÿ Il paranoico: colui che vede
complotti ovunque vivendo in
tensione e creando un clima di
tensione intorno a sé che può portare
a delle azioni mobbizzanti nei suoi
confronti da parte dei colleghi;
Ÿ Il severo: colui che ha delle regole
rigide ed è autoritario creando così
rapporti problematici con i colleghi
che alla fine lo mobilizzano per
fargliela pagare;
Ÿ Il presuntuoso: si crede migliore di
tutti e per questo ha la ritorsione
mobbizzante dei colleghi;
Ÿ Il passivo o dipendente: colui che
dipende dagli altri ed è servile al
punto che mobbizzarlo diventa un
divertimento per gli altri;
Ÿ Il buontempone: il divertente che
viene mobbizzato perché considerato
il buffone del villaggio;
Ÿ L'ipocondriaco: colui che si lamenta
sempre al punto da diventare
fastidioso per gli altri;
Ÿ Il servile: colui che per far contento il
capo non desiste dall'accusare gli
altri e quindi diventa preda.
Il mobber
Non è facile descriverlo, non esiste
uno schema preciso e rigido, tutto
dipende anche dal contesto
lavorativo e dalle caratteristiche di
personalità dei soggetti.
Ege ha previsto 14 profili di mobber:
Ÿ L'istigatore: colui che cerca sempre
pretesti e cattiverie per colpire;
Ÿ Il casuale: colui che diventa mobber
per caso trovandosi in una situazione
di conflitto;
Ÿ Il conformista: è un po' uno
spettatore che non agisce
attivamente per esercitare mobbing
ma la sua presa di distanza diventa
azione mobbizzante comunque;
Ÿ Il collerico: colui che non riesce a
frenare la rabbia e scarica così la sua
tensione interna con gli altri;
Ÿ Il megalomane: colui che si sente
grandioso e gli altri li reputa inferiori;
Ÿ Il frustrato: insoddisfatto che scarica
sugli altri le sue frustrazioni;
Ÿ Il sadico: la persona più terribile
perché psicotica senza sintomi ma
che scarica il suo dolore sugli altri in
modo perverso e pericoloso;
Ÿ Il criticone: la persona insoddisfatta
che crea un clima di tensione con le
sue critiche;
Ÿ Il leccapiedi: il carrierista tiranno con
i subalterni e ossequioso con i
superiori;
Ÿ Il pusillanime: colui che non si
espone ed è mobber in modo
subdolo e sparlando;
Ÿ Il terrorizzato: colui che temendo la
concorrenza si difende facendo
mobbing;
Ÿ L'invidioso: colui che fa mobbing
perché non accetta che qualcuno sia
migliore di lui;
Ÿ Il carrierista: colui che cerca in tutti i
modi di farsi una posizione.
Gli spettatori (co-mobber)
Sono coloro che sanno, che
osservano e se ne
lavano le mani senza assumersi
responsabilità e senza far nulla
contro il mobber, proprio perché
temono di essere mobbizzati.
Diventano così aiutanti del mobber
non reagendo alle prestazioni di
questo sulla sua vittima.
Tre sono i tipi di spettatori:
Ÿ Il ruffiano: il fedele compagno del
mobber, quindi leccapiedi e servile;
Ÿ Il diplomatico: colui che cerca
sempre un compromesso nei conflitti
ma in realtà accade che il mobber ha
la possibilità di agire e non essere
fermato;
Ÿ Il rinunciatario: colui che non si
mette in evidenza e non si assume
responsabilità, chiudendosi
nell'indifferenza dietro i "non so".
La differenza di genere della
vittima:
Uomini e donne non reagiscono allo
stesso modo alle azioni di mobbing.
La donna tende ad aumentare la sua
attività ma anche la velocità del
parlare e della gestualità, l'uomo
al contrario è rinunciatario quindi
diminuisce l'impegno lavorativo e
limita i rapporti personali.
La differenza di genere del
mobber:
Il mobber maschio agisce con azioni
passive quindi non con la violenza
aperta ma in modo sottile e subdolo
come ignorare qualcuno oppure
caricarlo di lavoro. La donna mobber
invece preferisce il mobbing attivo
sparlando alle spalle, prendendo in
giro davanti agli altri o facendo girare
voci sulla vittima, la donna quindi è
diretta.
I diversi tipi di mobbing si possono
dividere in:
Ÿ Mobbing verticale: si tratta di
violenze psicologiche di un superiore
ad un inferiore, possono essere sia
dirette che indirette, al fine di
escludere la persona scomoda e
arrivare al licenziamento. È un'azione
politica, un abuso di potere
pianificato e strategicamente
pensato. In questo tipo di mobbing
abbiamo il bossing (la strategia
aziendale che cerca di
ridurre l'organico per contenere i
costi) e il bullying (i comportamenti
vessatori agiti da un capo per
antipatia, invidia, ma anche per
differenza di età o differenza politica,
non viene esercitato solo al lavoro
ma anche a scuola, in carcere, in
caserma, ma anche a casa tra fratelli
o altri conviventi). Abbiamo poi due
tipi di mobbing verticale, quello
organizzativo (strategico, pensato
dall'azienda per eliminare i
concorrenti) e quello corporativo
(pensato dai datori di lavoro con
aumento di ore lavorative o rifiuto di
ferie e questo mobbing viene
compiuto nei paesi dove il tasso di
disoccupazione è alto);
Ÿ Mobbing orizzontale: si verifica
quando sono i colleghi i mobbers, un
mobbing agito per competizione,
invidia, razzismo, fede politica o
religiosa diversa;
Ÿ Mobbing combinato: è quando
quello verticale e orizzontale
coesistono;
Ÿ Mobbing individuale e collettivo: è
individuale quando il mobbizzato è
uno solo, collettivo quando le vittime
del mobbing sono gruppi di lavoratori.

Le fasi del mobbing: il modello a


quattro fasi di Heinz Leymann
Prima fase: in qualsiasi posto di
lavoro si creano situazioni di conflitto
a motivo delle differenze che si
registrano tra le persone. Questo
conflitto di solito è latente, non agito,
quando invece viene agito
apertamente e direttamente, ovvero
esplicitato con azioni o frasi e se
questo accade per almeno sei mesi,
non si parla più di normale conflitto
ma di mobbing;
Seconda fase: è l'inizio del vero e
proprio mobbing e quindi del terrore
psicologico, Il conflitto matura e
diventa continuativo e si profilano i
ruoli del mobber e della vittima. Il
mobber agisce in modo continuativo
e intenzionale con una strategia
persecutoria
mentre la vittima viene stigmatizzata
collettivamente;
Terza fase: siamo in questa fase
quando il mobbing trascende i limiti
dell'ufficio o del reparto e diventa di
dominio pubblico. La vittima comincia
ad accusare problemi di salute e
malesseri vari che portano a visite
mediche e ad assenza dal lavoro.
Cominciano le indagini dell'azienda e
la considerazione del singolo
lavoratore come un peso ed un
costo, per cui si agisce in modo
indiretto perché questi si licenzi;
Quarta fase: la vittima viene esclusa
dal lavoro per licenziamento oppure
per dimissioni personali. In questa
fase si può giungere a situazioni
drammatiche come il suicidio della
vittima oppure invalidità permanenti,
a volte la vittima esasperata può
arrivare a compiere azioni aggressive
verso il mobber.
Questo modello di Leymann presenta
dei limiti, per esempio la mancanza
della
dimensione soggettiva della vittima e
la mancanza di una relazione logica
tra le fasi viste, per cui non possiamo
parlare di un vero e proprio processo
del mobbing. Il modello di Leymann
risente molto del fattore culturale, nel
senso che è un modello di lettura
secondo le dinamiche sociali
nordeuropee che si differenziano da
quelle italiane dove il legame
familiare è molto forte, che può
essere di supporto o al contrario di
enfasi contro o a favore del mobbing.
Harald Ege ha elaborato una
variante del modello di Leymann
introducendo la considerazione del
soggetto e legando meglio le fasi tra
di esse, un modello che si sposa
anche con la situazione italiana. In
questo modello il conflitto nel lavoro
viene considerato come fenomeno
normale e non può essere
considerato come inizio del mobbing:
che ci sia conflitto nel mondo del
lavoro è cosa normale. C'è quindi:
Pre-fase di conflitto generalizzato: qui
ci si
trova in tutti contro tutti, c'è una
tensione che si manifesta con
discussioni e diverbi, nessuno in
questa condizione vuole distruggere
qualcun altro, semplicemente si
vorrebbe essere superiore agli altri.
Prima fase: quella del conflitto
mirato, dove si ha ormai un conflitto
che vuole distruggere qualcuno e non
un conflitto generalizzato, viene
quindi designata una vittima e su di
essa va a confluire il conflitto
generalizzato;
Seconda fase: l'inizio del mobbing
che attacca e questo crea disagio e
fastidio, la vittima si domanda del
perché di questo inasprimento;
Terza fase: i sintomi pre-somatici. È
fase previa al manifestarsi pubblico
del mobbing. La vittima comincia ad
avvisare problemi di salute quali
insonnia, problemi digestivi e senso
di insicurezza;
Quarta fase: errori ed abusi
dell'amministrazione del personale.
La vittima viene colpita da azioni
amministrative che ignare di quanto
accade e senza conoscenza
adeguata provvede a disciplinare il
comportamento della vittima;
Quinta fase: aggravamento
psicofisico della persona. Il
mobbizzato è disperato, si considera
responsabile di quanto sta
accadendo, cerca di curarsi con i
farmaci e la psicoterapia ma il
problema è sul posto di lavoro;
Sesta fase: l'esclusione dal lavoro.

Mobbing e stress
Occorre distinguere tra il mobbing
vero e proprio e le azioni stressanti.
Quest'ultime sono eventi sporadici,
traumatizzanti e dovuti a fattori
caratteriali e situazionali. Il mobbing
ha radici profonde ed è un'azione
ripetuta e sistematica, è verso una
vittima precisa che si vuole
danneggiare e allontanare. Quindi
per parlare di mobbing si deve tener
conto del fattore tempo per cui le
violenze psicologiche devono essere
regolari, sistematiche, durature nel
tempo almeno 6
mesi. Nell'azione stressante non
abbiamo il mobber che vuole
danneggiare il lavoratore, il mobbing
è causa di stress ma non per forza lo
stress è sempre sinonimo di mobbing
in atto. Lo stress da mobbing ha degli
aspetti ben precisi, per esempio crea
uno stato confusionale che disorienta
la vittima perché perde l'importanza
da dare al lavoro, riduce la sua
tendenza ad agire, si sente incerta
per il futuro. Quando la vittima da
mobbing non è consapevole di quello
che sta accadendo tende a sentirsi
spiazzata e a considerarsi
responsabile di ciò che sta
accadendo, per questo motivo è
importante che la vittima comprenda
che sta accadendo mobbing nei suoi
confronti, perché questa
consapevolezza permette di trovare
le forze e le idee necessarie per
sconfiggere il mobber.

I danni da mobbing
Il mobbing provoca sia danni sua alla
vittima e sia all'organizzazione. La
vittima sperimenta
crisi esistenziali con cali di stima e
sensi di colpa, crisi relazionali visto
che questa situazione ha delle
ripercussioni sulla famiglia, sui
conflitti interni ad essa, inoltre la
vittima perde anche sul piano delle
relazioni extra familiari. La sofferenza
della vittima la induce ad assenze dal
lavoro sempre più prolungate e a
vivere con angoscia la sindrome da
rientro al lavoro, una situazione che
può involvere verso la dimissione o il
licenziamento.
La vittima, perdendo autostima e
ruolo sociale, sperimenta insicurezza,
difficoltà nelle relazioni, impossibilità
in nuovi contesti lavorativi. Il
soggetto, portando il suo disagio in
famiglia, può anche arrivare a
separazione o divorzi con disturbi
anche nei figli e nel resto delle
relazioni sociali.
Il mobbing ha delle ripercussioni
anche a livello di organizzazione che
vede lo scadere della qualità del
lavoro, un aumento dei
prepensionamenti, delle invalidità
civili e della
spesa sanitaria. La vittima alla fine
diventa un peso improduttivo, un
peso per sé, per la famiglia, per la
società in cui lavora, senza energie e
senza entusiasmo. Gli effetti del
mobbing, quindi, sono sulla società
(ritiri anticipati, aumento delle spese
sanitarie, disoccupazione),
sull'organizzazione (deterioramento
dell'ambiente lavorativo, aumento dei
costi, aumento del turnover del
personale, abbassamento della
motivazione al lavoro, calo della
produttività e dell'efficienza) e
sull'individuo (irritabilità, disturbi
psicosomatici, depressione, suicidio).

L'orientamento al lavoro
Le trasformazioni del lavoro
Questi ultimi anni il lavoro si è molto
trasformato, è cambiata la struttura
lavorativa, la sua forma e
organizzazione, ma anche i tempi, la
domanda e l'offerta. Pensiamo anche
alle grandi trasformazioni del nostro
tempo quali quelle relative alla
tecnologia dell'informazione, della
globalizzazione dell'economia e della
scolarizzazione di massa.
L'orientamento al lavoro nasce
perché è cambiato il concetto di
lavoro, oggi infatti non è più standard,
i contratti non sono più standard e
molti lavori poi non si svolgono nel
contesto organizzativo. È cambiato
proprio il modo di lavorare, la forma
del lavoro, del suo tempo e della sua
organizzazione, del luogo stesso
dove si lavora, ed è cambiata l'offerta
di lavoro, la domanda di lavoro e la
forza lavoro stessa.
Il modello taylorista è eclissato, non
esiste più il lavoro parcellizzato
previsto da questo modello; il lavoro,
infatti, grazie soprattutto all'avvento
tecnologico, è diventato
internazionale, diversificato, la salita
da sola non basta perché oggi
occorre prima di tutto la conoscenza
e l'uso dei mezzi tecnologici che
permettono di non lavorare più in un
certo luogo definito ma ovunque,
anche da casa.
I grandi cambiamenti che sono
avvenuti in merito al lavoro
riguardano proprio il modo stesso di
considerare il lavoro, negli anni 60
infatti si riceveva una formazione e si
cercava lavoro in riferimento alla
formazione ricevuta, si cercava un
posto che fosse fisso e ci si
impegnava nel percorso della propria
carriera. In passato anche il
passaggio dalla scuola al lavoro era
breve, una volta trovato il lavoro si
entrava in un percorso evolutivo che
era appunto il fare carriera.
Oggi è cambiata questa concezione
insieme alla realtà stessa del lavoro.
Si parla di possibilità di poter lavorare
e, importante è anche l'interattività.
Per lavorare occorre conciliare
l'aspetto delle competenze
professionali e relazionali, soprattutto
quel che accadde oggi rispetto al
passato è che non si entra in un
lavoro nella giovinezza che diventa
poi l'unico lavoro della vita, oggi
infatti diversi fattori portano ad una
possibilità lavorativa che comporta il
transito
lavorativa in diversi ruoli.
Il mercato odierno del lavoro ha in sé
delle dinamiche che possono anche
escludere alcune persone ancora
prima di entrarci perché ci sono livelli
di disoccupazione e mancanza di
lavoro molto alti insieme all'incapacità
di alcuni soggetti di cercare e trovare
un lavoro.
Consideriamo il giovane che trova
lavoro e cosa significa orientare al
lavoro. Oggi per un giovane per
trovare lavoro sono necessari alcuni
fattori, prima fra tutti un certo
background familiare, poi l'età, il
genere, la formazione, ma anche le
esperienze lavorative come tirocini,
esperienze tecniche e professionali,
apprendistato.
Sono necessarie anche le strutture di
mediazione verso il mondo del lavoro
come ad esempio i placement
universitari, le agenzie private, i
dispositivi pubblici come i centri per
l'impiego. Trovare un lavoro spesso
significa anche trovarne uno con
bassi redditi, dover accettare dei
compromessi.
Il mercato del lavoro oggi è molto
complesso per cui è necessaria una
mediazione che si sostituisca alla
persona che cerca lavoro e che guidi
nella ricerca del lavoro e nel percorso
lavorativo in base anche ai percorsi
formativi che la persona ha compiuto.
Quanto al lavoro oggi ci sono due
illusioni: non è vero che il mercato del
lavoro funziona come un normale
mercato di offerta e di domanda e
non è vero che le istituzioni devono
andare di pari passo al mercato. Tra
la domanda di lavoro e l'offerta di
lavoro oggi non c'è più una relazione
immediata ma occorre che ci sia una
relazione mediata e questa
mediazione viene svolta
dall'orientamento, un insieme di
attività volte a favorire le scelte
formative e professionali che le
persone attuano nella vita al fine di
delineare e compiere un particolare
progetto che tenga in considerazione
sia l'aspetto professionale che
l'aspetto personale dell'individuo.
L'orientamento mette al centro
la persona, rendendola consapevole
delle sue capacità e delle sue
competenze e la porta a confrontarsi
con la realtà sociale ed economica in
cui vive.
Quindi l'orientamento vuole essere
uno strumento strategico e
trasversale che regola
l'inserimento della persona nella
società. L'orientamento non mira
semplicemente a che ci sia un lavoro
da svolgere e quindi che si profili
come possibilità professionale, esso
tiene anche conto della gratificazione
della persona e quindi della
soddisfazione delle sue aspirazioni
professionali.

Gli obiettivi dell'orientamento


L'orientamento mira a far sì che i
cittadini possano gestire e
programmare i propri percorsi di
apprendimento e di lavoro in
conformità ai propri obiettivi di vita,
collegando competenze e interessi,
unendo istruzione, formazione e
opportunità di
mercato del lavoro, si punta alla
soddisfazione della persona.
L'orientamento aiuta gli enti preposti
all'istruzione e alla formazione ad
avere alunni, allievi e studenti che
siano ben motivati e si assumano
loro stessi la responsabilità del loro
apprendimento, ponendosi degli
obiettivi da raggiungere. Si propone,
inoltre, di assistere le aziende e le
organizzazioni ad avere del
personale motivato, utile e allo stesso
tempo flessibile, capace di trarre
beneficio dalle opportunità di
apprendimento presenti sia all'interno
che all'esterno del lavoro.
Fornisce ai responsabili delle
decisioni politiche un importante
mezzo per raggiungere obiettivi di
interesse politico pubblico e sostiene
le economie locali, regionali,
nazionali ed europee sviluppando la
forza-lavoro e adattandola alle
condizioni e trasformazioni del
mondo lavorativo odierno. Infine,
promuove lo sviluppo della società in
modo che cittadini contribuiscono al
loro
sviluppo sociale, democratico e
sostenibile.

I riferimenti normativi
Nel 1997 la SEO, ossia la strategia
Europea per l'occupazione,
definisce gli obiettivi in materia di
politica occupazionale. Questi
orientamenti europei vogliono che ci
sia una certa interazione tra
formazione e lavoro, e quindi la
necessità che politiche occupazionali
e politiche formative siano
collaborative. L'orientamento diventa
un ponte della formazione al lavoro.
In seguito a queste linee guida,
l'Italia emana la legge Treu che
disciplina i primi strumenti di
intermediazione tra formazione e
lavoro e istituisce esperienze
formative come i tirocini, e
apprendistati, le borse lavoro e anche
i contratti di inserimento. Altra legge
emanata nel 10 settembre 2003 è la
legge Biagi che vede nascere il
ruolo dell'intermediazione
universitaria, la quale si vede
preposta a provvedere alla
collocazione dei suoi studenti.
Queste due leggi vedono anche la
presenza e il ruolo di intermediazione
svolto dai nuovi enti, ossia agenzie
sia pubbliche che private che
studiano il mercato del lavoro al
posto del singolo individuo e
individuano i percorsi formativi
universitari, le domande e l'offerta di
lavoro, guida il singolo individuo nella
sua scelta della formazione di cui
fruire o del lavoro da chiedere. Una
riforma universitaria importante è
stata la legge Moratti, che vede il
cambiamento dei percorsi formativi e
di inserimento nel mondo del lavoro.
L'università non è più il luogo ove si
acquisiscono conoscenze teoriche
ma vengono svolte attività formative
per acquisire competenze tecniche e
pratiche per cui vengono incentivati
gli stage, i tirocini all'interno degli
stessi, curricula universitari.
In questo modo si vuole rendere lo
studente consapevole della
complessità del mondo lavorativo
molto più ampio e articolato della
semplice aula universitaria. In pratica
la
riforma Moratti ha ampliato i corsi di
laurea, ha istituito i corsi di laurea
triennali per velocizzare l'inserimento
nel lavoro, introduzione dei crediti
formativi e il riconoscimento dei
crediti universitari ed i corsi più a
taglio professionale e caratterizzante.
Tipologie di orientamento
Ÿ Orientamento personale: si tratta di
un orientamento inteso come
sostegno nelle scelte, ossia aiutare il
soggetto ad affrontare in modo
adeguato e costruttivo le proprie
scelte, assumendone le
responsabilità e conseguenze;
Ÿ Orientamento professionale: è il
supporto offerto nella transizione
dalla esperienza formativa a quella
lavorativa al fine di gestire e
organizzare tale passaggio, questo
orientamento vede il coinvolgimento
di esperti come psicologi del lavoro
che aiutano l'inserimento
lavorativo.
I livelli dell'orientamento
Ÿ Servizi di formazione: si tratta della
consulenza di primo livello, quindi il
servizio informativo senza
approfondire le problematiche del
soggetto, una sorta di prima
accoglienza o di offerta di
informazione presso i servizi di
impiego;
Ÿ Servizi di consulenza: secondo
livello, qui già si effettua un esame
più approfondito delle problematiche
soggettive;
Ÿ Servizio di sviluppo delle
competenze: un insieme di azioni
volte a far acquisire competenze
tramite delle attività focalizzate alla
scelta formativa o professionale,
attività che fanno sperimentare il
lavoro oppure la formazione come il
tirocinio o l'apprendistato.
Professione e strumenti
Lo psicologo del lavoro è colui che
fornisce
agli individui, giovani o adulti, un
sostegno nella costruzione del
proprio percorso formativo o
professionale mettendo insieme le
capacità e i desideri del soggetto
insieme anche alle sue inclinazioni e
unendo il tutto al sistema formativo e
all'andamento nel mercato del lavoro.
Non esiste un iter formativo vero e
proprio per questo tipo di
specializzazione psicologica che non
è ancora riconosciuta.
Lo strumento principale dello
psicologo del lavoro è il counselling,
ovvero un percorso strutturato che
vede l'interazione del consulente e
del cliente finalizzato all'aiuto per la
decisione rispetto ai percorsi da
scegliere. Nel servizio di consulenza
occorre tener conto delle
competenze del soggetto e delle
competenze richieste da una
specifica funzione che si vuole
scegliere; si effettua una sorta di
mappatura del cliente e delle sue
caratteristiche attraverso test e
autoanalisi. In questo modo il
soggetto è
guidato dall'auto comprensione delle
proprie capacità e dei propri limiti
rispetto ad una professione, in modo
da essere responsabile e
consapevole anche dei rischi della
scelta che effettua. Il soggetto viene
reso consapevole delle sue
competenze di base quali il suo
bagaglio culturale e viene aiutato a
conoscere le competenze tecniche
professionali e trasversali che una
scelta chiede e che il soggetto può
già possedere.
Nel counselling lo psicologo del
lavoro fornisce una mappatura che
egli stesso ha elaborato delle
competenze che una data
professione richiede, una mappa
molto empirica con la quale il cliente
deve essere confrontato per
discernere se quelle competenze di
base le possiede, quindi, se è idoneo
o meno allo svolgimento di una certa
professione.
Le competenze trasversali sono
quelle che si ottengono attraverso
una complessità di esperienze, si
tratta quindi di competenze di
tipo relazionale, di attitudine alla
comprensione, ecc.
Il colloquio di counselling può essere
direttivo o non direttivo.
Il direttivo mira a rendere il soggetto
consapevole delle proprie capacità e
dei propri limiti, e non direttivo aiuta il
processo di consapevolezza e
autoanalisi del cliente.
L'orientamento si rende necessario
tutte le volte in cui occorre fare una
scelta, specie nel percorso
scolastico, poi in quello universitario
e lavorativo.
L'orientamento scolastico ha la
caratteristica di essere in itinere e
quindi di aiutare il soggetto nella
scelta dei percorsi formativi dei
diversi ordini e livelli di studio e
formazione al lavoro. L'orientamento
aiuta a comprendere quali possono
essere gli sbocchi lavorativi di una
scelta formativa e quali professioni
possono essere svolte e quali no,
seguendo un certo percorso di
studio.
Il placement scolastico
universitario
Si tratta del ruolo di intermediazione
che l'Università svolge tra la
domanda e l'offerta di lavoro.
L'università raccoglie i curriculum dei
suoi studenti, effettua una
preselezione disponendo i risultati in
apposite banche dati, gestisce
l'incontro tra domanda e offerta
lavorativa, eroga attività formative
finalizzate all'inserimento lavorativo. Il
placement viene svolto da personale
apposito, dei consulenti professionisti
che conoscono gli sbocchi
professionali e coniugano le esigenze
delle persone con le esigenze delle
imprese facilitando l'incontro tra
domanda e offerta lavorativa.

Le risorse umane per l'azienda


Gli studi di Mayo hanno messo in
primo piano l'importanza del fattore
umano come risorsa strategica per
l'azienda. Un dato acquisito è che i
fini individuali devono coincidere con
quelli dell'azienda e che la
motivazione del
dipendente è un fattore importante
per l'azienda. Non è il solo fattore
economico il fattore motivante del
singolo lavoratore ma anche la
gratificazione personale che diventa
motore dell'azienda. La gestione del
personale di un'azienda implica un
vero e proprio processo articolato,
piuttosto che lineare, che implica
l'acquisizione del personale, la
selezione, l'amministrazione, la
valutazione, e il loro sviluppo e la loro
retribuzione.
Alcune aziende considerano solo il
rapporto di lavoro e hanno tutt'ora,
nonostante l'evoluzione del mondo
del mercato del lavoro e
dell'organizzazione stessa del lavoro,
un approccio taylorista e fordista al
lavoro.
In quest'ottica si ha una concezione
verticistica del potere e del comando,
quindi aziende dove si applicano le
norme e dove il personale è
considerato in un'ottica subalterna.
Altre aziende sono più evolute e
sensibili al tema delle risorse umane
e guardano ad alcuni aspetti del
personale che
non è solo quella taylorista del ruolo
da svolgere ma, considerano aspetti
come la motivazione, la
soddisfazione e la gratificazione
personale.
Le persone sono comunque
considerate, per quanto lavoratori,
distinte dall'organizzazione.
Oggi abbiamo altri tipi di azienda che
guardano alle politiche del personale
in un'ottica concentrica, aziende in
cui lo sviluppo delle persone viene
considerato come sviluppo
dell'azienda, si guarda agli obiettivi
comuni considerando anche quelli
personali e in esse si parla di politica
del personale, ovvero idee e azioni
che implicano processi di sviluppo
per l'azienda stessa.
Il tema delle risorse umane ha
subito un processo di evoluzione e di
trasformazione.
Si è partiti dal rigido mercato del
lavoro con professioni definite e
predeterminate, per passare poi al
concetto di carriera stabile, fino ad
arrivare al concetto di profili
professionali che si costruiscono
all'interno dell'organizzazione e che
lavorano all'interno di un mercato del
lavoro precario e anche flessibile. Si
è giunti a considerare il personale
come capitale umano da tenere in
considerazione. Questi cambiamenti
sono incominciati a partire dagli anni
60, quando la funzione della gestione
delle risorse umane era la semplice
amministrazione che gestiva i
contratti. Con gli anni 80 si aggiunge
a questo concetto di risorsa umana
anche quello di risorsa umana che
viene formata e fatta sviluppare fino
ad arrivare alla scoperta
dell'importanza delle relazioni con il
mondo della scuola in un processo
circolare che evolve continuamente.

La gestione strategica: due


modelli
Tutti sono utili, nessuno è
indispensabile: tutti i dipendenti
sono considerati uguali agli altri, ogni
lavoratore è sostituibile e quindi non
è un'effettiva risorsa. Gli obiettivi
individuali in questo modello devono
allinearsi con quelli dell'azienda, in
quanto all'azienda interessa solo il
fattore produttivo.
Il lavoratore interessa solo per la
produzione, interessa che lavori e
come lavora, i processi comunicativi
sono verticali, c'è un accentramento
strategico e operativo, i manager
sono controllori e capi, il lavoro è
individuale, settorializzato e
specializzato, i comportamenti sono
regolati da procedure e norme;
Risorsa umana come vantaggio
competitivo: in questo modello si
investe sulle risorse e tale
investimento viene considerato come
fatto a favore non del solo singolo ma
della stessa azienda. La gestione si
pone degli obiettivi, c'è un
accentramento strategico e un
decentramento operativo, i manager
sono coach e leader, il lavoro
prevede il team, si punta alla
responsabilità sui risultati.
In questa seconda ottica, il lavoratore
viene visto come un cliente, come
colui che fruisce
delle attività che svolge l'azienda, e
non è obbligato a lavorare ma
motivato a lavorare perché trae dal
suo lavoro gratificazione personale. Il
lavoratore non è attento
semplicemente a norme e procedure
ma guarda alla propria produttività,
ha alti livelli di efficienza ed è capace
di ottenere velocemente gli obiettivi
organizzativi, non è un lavoratore da
controllare e disciplinare ma un
lavoratore che va compreso e
orientato considerando le sue
potenzialità.
Il leader non è un controllore ma uno
che coinvolge. Importante è proprio
il ruolo del leader che è empatico,
attento ai cambiamenti, non è solo
ma insieme ad altri leader che
stimolano, al che ci sia una
assunzione di responsabilità e non
un semplice timore di essere
disciplinati.
Nella gerarchia verticale il lavoratore
semplicemente opera, non si assume
responsabilità, quindi in questo
modello la leadership stimola
l'empowerment, la capacità
di avere iniziativa e assumersi rischi,
la condivisione e la delega del potere
verso il basso.
Come avviene il processo di
selezione: parte tutto dalle strategie
dell'azienda che si manifestano nelle
politiche attuate dall'azienda stessa.
Alla luce di queste si valutano sia le
risorse che sono necessarie per
poter attuare delle politiche e
strategie aziendali, sia le risorse che
sono disponibili e quindi si attiva la
selezione del personale. Il personale
viene scelto e reclutato secondo una
pianificazione del personale. Il
personale viene scelto facendo delle
valutazioni, considerando le
posizioni, le prestazioni, il potenziale
e le competenze dei soggetti. Il
personale una volta assunto viene
addestrato e formato e naturalmente
anche retribuito. Nella gestione del
personale fondamentale è la
relazione con i sindacati e
l'importanza dello sviluppo della
carriera.
In questo processo fondamentale è la
pianificazione: pianificare significa
interrogarsi in termini quantitativi e
qualitativi quali sono le necessità di
cui ho bisogno nell'azienda, quale
necessità di personale registro
nell'azienda. L'azienda si pone degli
obiettivi che valgono in un
determinato frangente. Per esempio,
in questo momento voglio accrescere
la produzione oppure voglio
spostarmi su altri mercati. In base a
questi obiettivi determino che tipo di
personale possiedo. Per cui mi
chiedo al momento di quali risorse
dispongo e di quali risorse dovrei
disporre per raggiungere questi
obiettivi.
Il processo di pianificazione è un
processo continuo di cui si occupa
l'ufficio delle risorse umane, è un
processo che fa parte del progressivo
miglioramento dell'azienda. La
pianificazione significa la continua
integrazione nel miglior modo
possibile tra gli obiettivi da
raggiungere e le risorse professionali
che sono disponibili. Pianificare
il personale significa adeguare in
modo continuo ed efficace le persone
e favorire a loro la corretta
collocazione nell'organizzazione
aziendale al fine di rendere ottimale il
loro contributo lavorativo. La
pianificazione non si attiva solo
quando c'è da ampliare l'organico
perché ci sono stati i pensionamenti,
licenziamenti o perdita del personale.
La pianificazione del personale
gestisce il flusso del personale. Esso,
infatti, è in movimento e questo
significa che si altera l'equilibrio del
personale. Ci sono promozioni verso
l'alto, spostamenti verso il basso,
entra nuovo personale con le
assunzioni, con i trasferimenti, con i
rientri dopo lunghe assenze. Ci sono
uscite del personale con i
trasferimenti, i pensionamenti, le
dimissioni, i licenziamenti chiesti o
imposti, i decessi e le invalidità.
Pianificare quindi è un riequilibrio del
flusso personale. Una volta avuto il
quadro delle persone che esistono
all'interno dell'azienda e
quindi delle persone che ai diversi
livelli sono necessarie, inizia il
processo di reclutamento. Si cerca
perciò personale, si offre lavoro e si
cerca anche di individuare il
candidato ideale per gli obiettivi di
sviluppo e di rinnovamento che ci si è
posti. Questo processo prevede dei
passi;
Nel primo passo si identifica il profilo
professionale in base al ruolo e alla
posizione che interessa. È il job
requirement con il quale si
individuano i requisiti e le
caratteristiche richieste dal tipo di
lavoro e dalla posizione da ricoprire.
Tutto ciò significa che si fa un elenco
delle competenze, del tipo di
manager e del tipo di personale che
serve per svolgere questo
determinato lavoro per cui si sta
cercando personale. Nel secondo
passo si identifica la fonte e i canali
attraverso i quali individuare la
persona giusta a ricoprire la
posizione che si ricerca. Comprende
la segnalazione di altri dipendenti, le
autocandidature, l'analisi del
potenziale, il concorso interno,
l'elenco di laureati e la pubblicazione
su siti e sistemi di placement.
Nel terzo passo si raccolgono i
curriculum vitae e, nel quarto passo
si svolge lo screening dei curriculum
in base a dei criteri di valutazione
come le competenze fondamentali, le
esperienze pregresse, le condizioni
personali.
Il reclutamento giunge alla
selezione, ovvero, a quel sistema
volto a garantire la rispondenza
qualitativa e quantitativa del
fabbisogno aziendale di risorse
umane necessarie al buon
funzionamento attuale e futuro
dell'organizzazione.

La selezione: le metodologie
Ÿ Il colloquio o intervista: qui sono
fondamentali le parole, i gesti.
Fondamentalmente come è stato
redatto il curriculum e spesso gli
psicologi del lavoro sono impegnati
nel dare istruzioni
per la buona stesura di un
curriculum;
Ÿ Test o reattivi: questi evitano il
contatto interpersonale del colloquio
che potrebbe talvolta essere
influenzato dal fattore impressione. I
test possono essere psicologici, di
intelligenza, di personalità;
Ÿ Il concorso: permette di fare una
selezione imparziale quando si lavora
con grandi numeri e si concorre per
posizioni generiche. Il concorso non
verifica le motivazioni, gli
atteggiamenti e le aspettative o i
bisogni del candidato. Si valuta la
competenza cognitiva ma non le
effettive competenze professionali;
Ÿ La selezione individuale: si valuta
se una persona è idonea o meno per
una determinata posizione
analizzando i tratti di personalità
ritenuti necessari, spesso questo
viene svolto da psicologi del lavoro;
Ÿ La selezione di gruppo: si tratta di
una valutazione dei candidati in
gruppo che
vengono valutati da un comitato di
osservatori. In questo modo si ha
maggiore efficienza diagnostica e
minore incidenza della soggettività
dei valutatori. L'impegno
organizzativo e logistico in questo
caso è elevato;
Ÿ La selezione di comitato: il singolo
candidato viene valutato da valutatori
appartenenti a funzioni diverse, in
questo modo non c'è il fattore della
singola soggettività di un solo
valutatore e ognuno di questi
concorre nella valutazione in base
alle sue specifiche esperienze.
Superati questi passi si arriva
all'assunzione e quindi alla firma del
contratto. Questo contratto implica
degli adempimenti amministrativi ma
anche un aspetto psicologico perché
il nuovo arrivato ha delle aspettative
e l'azienda può avallare o meno
queste attese che occorre
considerare perché esse
determineranno il
comportamento che il soggetto avrà
nell'organizzazione.

La valutazione delle risorse umane


nelle organizzazioni
L'ISFOL è l'Istituto per lo sviluppo
e la formazione professionale dei
lavoratori, è un ente sottoposto al
ministero del lavoro e delle politiche
sociali. Questo ente aggiorna
continuamente un database sulle
diverse professioni presenti oggi in
Italia e prevede 805 professioni
descritte in ben 400 variabili.
Di ogni professione questo ente
individua le competenze e le
specifiche attività che una
professione implica, si ha quindi una
mappatura delle diverse attività, non
esaustiva, l'aggiornamento non è
molto veloce e quindi può capitare
che alcune figure professionali non
siano presenti, soprattutto quelle
sviluppatesi negli ultimi anni.
Quando una persona viene assunta
in un'organizzazione viene inserita e
adeguata
in una determinata posizione, il
lavoratore viene quindi accolto,
presentato, gli viene data una
formazione di base con cui viene
illustrata l'azienda e utile al che il
lavoratore possa svolgere la sua
mansione.
Gli vengono affidati dei compiti per
raggiungere determinati obiettivi, con
gli stessi obiettivi secondo i quali era
avvenuta la selezione, gli viene
quindi definito un ruolo e una serie di
comportamenti che l'azienda si
attende di vedere attuati dal
lavoratore. Inizia una valutazione di
prova. Schematicamente si può dire
che l'inserimento del lavoratore
implica il suo adeguamento ad una
posizione, il lavoratore perciò viene
accolto, formato istituzionalmente,
tecnicamente e sul campo e, valutato
in prova.
Riceve anche un compito inteso
come attività da svolgere e gli viene
definito un ruolo e dei comportamenti
attesi.
La valutazione
Essa costituisce la base per le
principali decisioni in materia di
sviluppo. È un vero e proprio sistema
di attività periodiche che l'azienda
svolge per poter migliorare le
prestazioni dei suoi lavoratori, per
individuare del potenziale e delle
competenze che l'azienda stessa
dovrebbe sviluppare nell'ambito della
propria attività lavorativa, soprattutto
serve per valorizzare le risorse. La
valutazione permette di avere delle
informazioni utili per la gestione del
personale e quindi per la
programmazione e per il
reclutamento e la selezione del
personale, sono utili anche per dare
informazioni ai capi per poter
governare le risorse umane.
La valutazione aiuta a proiettarsi
verso il futuro.
La valutazione può essere:
Attività formalizzata: vuol dire che si
avvale di metodologie di strumenti
opportuni, viene
svolta periodicamente in modo
continuo e omogeneo, con un utilizzo
scientifico e senza distorsioni. Essa
effettua un monitoraggio delle
prestazioni lavorative e delle
competenze che ci sono all'interno
dell'organizzazione;
Attività non formalizzata (informale):
le modalità sono soggettive, è
saltuaria e casuale, le distorsioni
sono notevoli e i dati non sono
sistematici.

Le metodologie di valutazione
Abbiamo la valutazione delle 3P
(posizione, prestazione e
potenziale) e abbiamo la valutazione
sulle competenze (sapere, saper
fare e saper essere).
La valutazione della posizione è un
insieme di responsabilità assegnate
ad una persona per raggiungere
determinati scopi e con ambiti definiti
di decisione. La posizione sarebbe la
mansione o il ruolo. In un'azienda si
può essere dirigente, quadro,
impiegato, operaio.
Essa implica delle responsabilità,
come il grado di autonomia
assegnata alla posizione e che è
necessaria per il raggiungimento
degli obiettivi desiderati.
Implica degli obiettivi attesi, dei
compiti da svolgere e delle relazioni
con altre posizioni. Per valutare una
posizione lavorativa si può agire
attraverso una job analysis, ovvero
interviste, questionari o osservazioni,
oppure tramite una job description,
una descrizione analitica delle
responsabilità, delle interdipendenze,
dei rapporti esterni e le principali
finalità della posizione stessa.
Oppure attraverso una job
evaluation, la definizione del valore
di ogni posizione al fine di
confrontarle tra di esse. Infine,
attraverso una job specification,
ossia i requisiti professionali richiesti.
La valutazione viene effettuata per
documentare l'organizzazione del
lavoro, per definire i requisiti
necessari, per svolgere un certo
lavoro, utili ai fini della selezione,
della
formazione e della mobilità e, per
determinare l'importanza relativa ad
ogni singola posizione riconosciuta
nell'insieme dell'organizzazione,
quindi definire anche i compensi e gli
inquadramenti.
La posizione ha una variabile
correlata sia al valore stesso della
posizione che al compenso.
La valutazione delle posizioni
permette di capire come ogni singola
posizione contribuisce alla
realizzazione dei risultati globali di
un'azienda, per cui quando si fa
l'analisi della struttura organizzativa
si individuano le posizioni e si
definiscono anche la graduatoria
delle posizioni, questa graduatoria si
riflette anche sulle diverse fasce
retributive.
Significa che quando si analizza la
struttura organizzativa ci si domanda
quali sono le competenze già
presenti in azienda e quali acquisire,
quali obiettivi si vogliono raggiungere
come azienda e alla luce di questi
che tipo di lavoratori sono utili per
perseguirli, si individuano dunque le
posizioni, i loro livelli di importanza e
le loro fasce retributive.

Valutare la prestazione
Non è una posizione disincarnata che
produce e agisce ma il singolo
lavoratore che produce o meno. Ci si
chiede allora come ha lavorato il
signor X, non ci interessa il risultato
che il singolo vuole raggiungere ma
come l'operato del lavoratore ha dato
possibilità di crescita
dell'organizzazione.
Si ha da una parte gli obiettivi
aziendali prefissati e in
corrispondenza quelli raggiunti dal
lavoratore. Si verificano questi due
poli e si va a misurare i
comportamenti organizzativi del
lavoratore e il conseguimento degli
obiettivi, il tutto con un congruo
periodo di tempo di almeno un anno.
Questa valutazione si effettua con
sistematicità e con un metodo chiaro,
con precise scadenze temporali. I
criteri usati
devono essere oggettivi e occorre
concretezza, quindi, si valuta in base
agli obiettivi realizzati e previsti per
ogni singolo ruolo assegnato. Si
tende a considerare una valutazione
qualitativa (come le caratteristiche
personali, di comportamenti, le
competenze, quanto il lavoratore ha
condiviso il valore dell'azienda); una
valutazione quantitativa (si
considerano le prestazioni effettuate
e i risultati raggiunti); e una
valutazione di sintesi (quanto la
persona è adeguata alla posizione e
il suo potenziale generico).
La valutazione delle prestazioni si
effettua secondo questo processo:
Prima di tutto vengono definiti gli
obiettivi del lavoro da svolgere e si da
al lavoratore la possibilità di
sviluppare il suo lavoro, effettuando
delle verifiche periodiche. I dati delle
verifiche permettono di considerare i
risultati conseguiti e di aggiornare gli
obiettivi, mentre viene effettuato un
colloquio nel
quale i risultati vengono comunicati,
ciò significa che c'è un colloquio tra il
valutatore e il lavoratore nel corso del
quale si considerano le competenze
che il lavoratore stesso ha acquisito
lavorando. Questo processo diventa
un percorso di consapevolezza del
lavoratore che diventa cosciente dei
propri limiti ma anche delle proprie
competenze e del suo potenziale. Il
lavoratore può comprendere quali
punti di forza possiede, su cosa deve
crescere e formarsi e ha anche dei
suggerimenti per migliorare le sue
performance.

Valutare il potenziale
Questa valutazione risponde alla
domanda: cosa potrà fare in futuro in
signor X?
Valutare il potenziale significa
comprendere quanto una risorsa può
essere utile per il futuro dell'azienda,
il che significa comprendere come un
lavoratore può fare. Il potenziale è
l'insieme delle caratteristiche,
delle capacità e delle competenze
che si ipotizza siano a disposizione di
un individuo. Il potenziale lo si
considera rispetto al ruolo (si
confronta il soggetto con una
posizione e i requisiti che questa
richiede); rispetto al potenziale
specifico (si confronta con diverse
posizioni e i loro requisiti); e rispetto
al potenziale generico (si effettua un
confronto con le ipotesi di sviluppo in
direzioni diverse e medio termine).
Tutto questo si effettua per verificare
se la persona possiede le
competenze per ricoprire in futuro
posizioni di maggiore responsabilità.
Ciò che si considera è il possibile
sviluppo di carriera del lavoratore per
cui si va a considerare le
competenze possedute dal lavoratore
ma anche quelle latenti, che ancora
non sono state maturate e esplicitate
perché non richieste dalla posizione
attuale, quindi non utilizzate. Con
questo noi progettiamo il futuro del
lavoratore e quindi il futuro della sua
carriera, con dei risvolti che non
saranno solo a beneficio del singolo
ma anche con delle ricadute positive
sulla stessa organizzazione. Questa
verifica del potenziale si fa
raccogliendo prima di tutto le
informazioni, attraverso
l'osservazione delle attività che
vengono svolte dal lavoratore, poi
attraverso la percezione che ha il
lavoratore stesso.
Questa analisi delle informazioni
presenta però dei problemi di
inaffidabilità e di soggettività, quindi
di non omogeneità e di difficoltà a
conciliare giudizi diversi. I valutatori,
infatti, danno un loro parere, possono
avere interessi e prospettive diverse,
le informazioni raccolte e valutate
rischiano di risentire di questa
soggettività e unilateralità delle
prospettive.
Per ovviare a questo si possono
usare strumenti utili a rilevare delle
informazioni adhoc attraverso
questionari, test, esercitazioni di
gruppo o colloqui. Questi strumenti
sono più scientifici rispetto alla
sola osservazione, permettono di
avere delle informazioni più obiettive.
Uno strumento usato è quello del
simulare delle attività: in questo
modo diversi lavoratori vengono
sottoposti a questo esercizio
permettendo di avere reazioni e
attività diverse pur sottoponendo alla
stessa situazione, essendo una
simulazione il lavoratore non ha il
timore della supervisione del capo
per cui il feedback è ricco e traspare
meglio sia all'osservatore che
all'interessato il potenziale posseduto
dallo stesso lavoratore.
Schema 3P:
Posizione: ciò che viene richiesto di
fare a chi occupa una ben definita
posizione organizzativa. Le finalità
sono gli inquadramenti, livelli medi
retributivi e profili professionali;
Prestazione: risultati conseguiti e
capacità espresse in un arco di
tempo definito punto finalità sono il
livello retributivo individuale e una
base per un piano di sviluppo
individuale.
Potenziale: capacità e competenze
sviluppabili in ruoli di maggiore
responsabilità. La finalità è la
pianificazione dei sentieri di carriera.

Valutare le competenze
Le competenze sono un insieme di
sistemi cognitivi e comportamentali
operativi casualmente correlati al
successo sul lavoro, ovvero sono
motivo di successo nel lavoro o
causa di una prestazione efficace o
superiore nella mansione che si
svolge. Le competenze sono delle
conoscenze, delle capacità e delle
qualità che la persona esercita
nell'esercizio stesso della sua
professione e le usa per raggiungere
certi risultati.
Le competenze riguardano il sapere,
il fare e l'essere.
Quindi, le competenze sono tutto ciò
che il lavoratore sa, che cosa sa fare,
quali sono le caratteristiche del suo
carattere e della sua persona. Questi
tre poli del soggetto vengono
profusi quando un soggetto lavora,
qualità che usa che impiega
lavorando ma che possiede anche
indipendentemente dal contesto
lavorativo.
Questo modello attento alle
competenze nasce in un contesto
definito da incertezze e insieme di
dinamicità. Funziona però con i ruoli
che hanno maggiore contenuto
decisionale dentro un'organizzazione,
considera molto l'aspetto qualitativo
della prestazione e considera le
competenze come comportamenti
osservabili, Il limite è proprio questo
ossia quello di guardare i
comportamenti e pensare che gestire
i comportamenti equivale a gestire le
competenze ma le prestazioni
lavorative non sono solo
comportamenti. La finalità di questo
modello è quello di giudicare in modo
sistematico il valore della
professionalità di una persona, intesa
come arricchimento che è stato
acquisito attraverso le esperienze
maturate, la formazione e i risultati
ottenuti.
questa ricchezza aggiunge valore
anche all'impresa. L'obiettivo è quello
di correlare il livello professionale
raggiunto e retribuzione, ma anche
pianificare l'ulteriore sviluppo della
persona e il suo miglioramento
professionale. I metodi e gli strumenti
con i quali viene fatta questa analisi
delle competenze sono: l'analisi del
comportamento lavorativo
effettivamente stabilito, quindi la
valutazione delle prestazioni, e
l'analisi nel comportamento espresso
in situazioni artificiali, testando in
diverse attività come reagisce il
singolo lavoratore.

Il coach
Esiste una figura che motiva e da
assistenza individuale e teorico-
pratica, il coach.
Forma il lavoratore in modo che
esprima la sua massima capacità
produttiva che ha una ripercussione
anche nell'azienda. Il lavoro sul
lavoratore è a livello motivazionale
ma anche a livello di espressione
delle capacità. Egli
sostiene un programma di sviluppo
professionale e spinge il lavoratore
nel suo sviluppo di carriera, rende il
lavoratore capace di conoscere i
propri limiti e le proprie debolezze
proprio in vista di un piano di sviluppo
rinforzando le aree deboli ma anche i
punti di forza. In questo processo è
importante anche l'autovalutazione
come conoscenza e come capacità di
formulare un proprio curriculum, il
che significa consapevolezza di ciò
che ha maturato e capacità di
informazione e comunicazione ad
altri delle proprie competenze.
Valutare per competenze implica dei
vantaggi:
Vengono esplicitati i comportamenti
efficaci per raggiungere determinati
obiettivi, si riducono gli errori di
inserimento del personale in quanto
lavorando con il coaching si hanno
persone motivate e giustamente
inserite in azienda, si ha una
progettazione più oggettiva dei piani
di sviluppo perché si conoscono le
competenze di base e quelle che
si vogliono acquisire, si ha una
valutazione meno arbitraria della
performance del lavoratore, si
ottengono informazioni omogenee, si
attiva un processo di innovazione
perché si comprende quali lavoratori
possono far parte di un circuito di
sviluppo e chi deve starne fuori, si
attivano così delle politiche di
outplacement lavorando su persone
che devono uscire da un contesto
lavorativo e ricollocate sul mercato
del lavoro. Facendo così si ottiene un
allineamento tra le competenze
aziendali e quelle richieste ai
lavoratori.

La formazione del personale


Siamo in una società dettata dalla
conoscenza e in continuo
cambiamento, non esiste più una
divisione tra ciò che si apprende in
aula e ciò che si apprende sul posto
di lavoro. L'apprendimento è continuo
e lo stare in un'organizzazione
significa stare in un processo di
continua formazione,
un'evoluzione continua è necessaria
proprio per essere al passo con i
cambiamenti repentini della società.
L'apprendimento è circolare e
permanente, non solo continuativo.
La formazione che oggi si propone a
chi lavora è uno strumento per
colmare dei Gap di conoscenza, se
quindi in un certo ambito un
lavoratore non possiede le
conoscenze allora la formazione
permette di poter acquisire delle
nuove abilità, ma la formazione non
ha solo questo obiettivo, essa infatti
mira anche ad essere uno strumento
per accrescere la professionalità e
per sviluppare saperi innovativi che
hanno come ritorno un incremento di
conoscenze anche per tutta
l'organizzazione.
La formazione permette di acquisire
un bagaglio di conoscenze e di
strumenti che permettono di garantire
una maggiore performance lavorativa
e una maggiore efficacia del lavoro,
uno strumento che mira a
implementare un processo di
miglioramento
continuo per la persona e per tutta
l'organizzazione.
Le funzioni della formazione:
Ÿ Sapere: aumenta le conoscenze sul
piano razionale in termini di
miglioramento quantitativo dei dati di
conoscenza e aumenta le nozioni e i
concetti conosciuti;
Ÿ Saper fare: addestra all'acquisizione
delle abilità operative, manuali o
intellettive, un miglioramento
qualitativo di capacità e di tecniche
utili alla soluzione di problemi in un
certo ruolo;
Ÿ Saper essere: permette lo sviluppo
complessivo di potenzialità e di
capacità psichiche, un miglioramento
sia qualitativo che quantitativo e un
aumento delle modalità usate per
strutturare la relazione sociale ed i
rapporti all'interno dei vari gruppi
sociali di appartenenza.
La formazione nelle organizzazioni
Le organizzazioni apprendono
quando i singoli
e i gruppi acquisiscono nuove
competenze e concretizzano con
risultati o con azioni visibili ciò che
hanno appreso. Un'organizzazione è
tale quando c'è un gruppo che
condivide uno stesso obiettivo e
lavora per il raggiungimento dello
stesso risultato. L'organizzazione
vive cresce quando ci sono degli
attori che lavorano in essa e quando
le capacità e le conoscenze vengono
condivise ma anche tramandate nel
tempo alle persone che
nell'organizzazione si susseguono,
questo permette all'organizzazione di
crescere effettivamente;
l'organizzazione stessa deve
garantire un apprendimento
individuale che sia capace di essere
trasferito e condiviso con il gruppo e
con l'organizzazione.
La formazione È un'attività finalizzata
all'apprendimento nelle
organizzazioni, apprendimento inteso
come accrescimento di conoscenze e
di abilità, una serie di attività che
sostengono lo sviluppo dei singoli e
dell'impresa, un processo
organizzativo che si intreccia con il
processo più ampio e articolato della
gestione delle persone che operano
dentro ad un'organizzazione. Non è
possibile immaginare la gestione del
personale senza considerare la
possibilità che ci sia uno sviluppo
delle conoscenze, delle abilità e delle
capacità del soggetto
dell'organizzazione, un processo di
sviluppo pensato nel tempo e per il
futuro dell'organizzazione.

I campi di intervento
La formazione viene portata avanti
nell'organizzazione al fine di
promuovere, diffondere, sviluppare,
aggiornare tutti coloro che operano
nell'impresa. Non è un'attività di un
solo momento ma un'azione continua
perché le organizzazioni hanno
bisogno di migliorare continuamente
il loro livello di competenza. La
formazione dei neoassunti punta
soprattutto al sapere e al saper fare,
ad essi vengono trasferite le
conoscenze relative a ciò che
compete al loro ruolo in quel
determinato periodo di tempo, quindi
le conoscenze utili per attività da
svolgere in questo primo tempo di
inserimento lavorativo. Per le
persone già inserite la formazione
propone programmi per la
qualificazione (dare maggior valore al
ruolo che una persona possiede
all'interno di un'organizzazione); la
riqualificazione (si tratta del
miglioramento delle abilità che
competono ad un certo ruolo); la
riconversione (il cambiamento di
posizione dentro l'organizzazione e il
trasferimento di nuove conoscenze e
di nuove abilità).

Evoluzione della formazione


La formazione intesa come uno
strumento e come serie di attività in
continuo cambiamento ha avuto una
sua storia. Fino agli anni 60 la
formazione non era altro che
l'istruzione che veniva impartita a
scuola ed in aula. Con gli anni 70 si
comincia a fare
formazione, anche se i progetti che
vengono attivati sono di bassa
portata perché non c'è l'idea
dell'analisi degli effettivi bisogni
formativi e non c'è neppure l'idea
della valutazione dei risultati intesi
come ritorno delle attività di
formazione a beneficio
nell'organizzazione. L'unica
valutazione compiuta è il giudizio di
gradimenti dei partecipanti ai corsi
proposti. Negli anni 80 si comincia a
parlare di processi di formazione, si
inizia ad intensificare l'esigenza di
analizzare il bisogno formativo e,
partendo da questo, di progettare, di
realizzare gli interventi e di valutare i
risultati.
Non c'è l'idea della concatenazione,
ovvero della valutazione come di
lancio di una nuova analisi e di una
lettura ulteriore dei bisogni, ogni ciclo
si conclude con la valutazione e il
nuovo ciclo viene inteso come a sè
stante rispetto al precedente. Oggi la
formazione intesa in chiave
sistemica, ossia è un sistema che
vede le quattro fasi e dove la
valutazione
e l'analisi dei bisogni sono l'unico
momento con doppia valenza, ovvero
si valuta il risultato raggiunto e si
programma un'ipotesi di formazione
permanente valutando e
riprogettando nel caso non siano stati
raggiunti i risultati attesi.

Gli attori della formazione


Fondamentale è il committente che
manifesta l'esigenza di un intervento
formativo, si tratta di una persona
come un manager, un capo, una
società richiedente, un richiedente
che diventa anche colui che sostiene
le spese per la formazione.
Successivamente entra in gioco un
istituto di formazione, quindi un
formatore che può essere o un solo
formatore o uno staff di formatori
professionisti in materia e che offrono
una formazione riferita ai bisogni
formativi dell'azienda, formatori che
sappiano gestire il sistema del
processo formativo. Infine, abbiamo i
destinatari della formazione quindi
gli utenti, coloro che sono i
destinatari dell'intervento stesso,
questi partecipanti possono essere
sia lavoratori che i capi.

Le fasi del processo formativo


Prima fase (le fondamenta della
casa): è l'attività madre, si tratta
dell'analisi dei bisogni. Quindi, legge
le esigenze formative al fine di
progettare un buon corso di
formazione che abbia come ritorno
l'adempimento delle aspettative
dell'azienda. È una vera e propria
ricerca sociale che utilizza
metodologie e strumenti dell'ascolto
attivo e nella ricerca sociale. Usa
strumenti come osservazioni,
questionari, colloqui, interviste,
analisi dei documenti e indagini sul
clima organizzativo. È una ricerca
che vuole comprendere gli obiettivi
da raggiungere e programmare
quindi le modalità di raggiungimento
degli obiettivi. Il lavoro di ricerca e
l'uso di questi strumenti è mirato a
evidenziare i fabbisogni formativi di
un'azienda e quindi quali sono i
bisogni dell'azienda e quali
conoscenze l'azienda stessa deve
sviluppare.
Si tratta dell'analisi dei bisogni di
formazione che sono una sorta di
nucleo che raddensa tre tipi di
bisogni:
I bisogni professionali: sono le
esigenze legate al ruolo che si
ricopre dentro l'organizzazione, è una
sorta di scarto tra ciò che
l'organizzazione si aspetta in
riferimento al quale ruolo e quanto la
persona che lo ricopre sa fare. Si
valuta la performance del lavoratore;
I bisogni individuali: sono connessi
con quelli professionali e sono quei
bisogni che il soggetto diagnostica
personalmente di avere, si tratta delle
esigenze formative che il soggetto
stesso espone, le lacune che il
soggetto da a sé stesso e che vuole
colmare;
I bisogni organizzativi: sono le
esigenze formative che il sistema
aziendale manifesta.
La seconda fase (gli obiettivi):
individuati i
bisogni occorre decifrare gli obiettivi
e per farlo è necessaria l'interazione
con il committente. La definizione
degli obiettivi è fondamentale perché
alla luce di questi si individuano le
metodologie idonee per il
raggiungimento degli obiettivi didattici
che raggiunti significano il
raggiungimento dei bisogni e quindi
l'acquisizione di quel portfolio di
conoscenze di cui se ne registra
l'esigenza in seno all'organizzazione.
Quindi nel rapporto con il
committente vengono definiti: gli
obiettivi didattici, vengono progettati i
contenuti, viene progettata la
metodologia e definiti gli utenti, il
formatore e i docenti.
La terza fase (il corso, la
formazione e l'aula): la fase in cui
vengono realizzati gli interventi e
quindi il momento in cui vengono
trasferite le conoscenze. Il
trasferimento delle conoscenze
richiede che venga usato un metodo
che può comprendere le lezioni
frontali, i lavori di gruppo, le
esercitazioni, e questo può avvenire
in quella che è l'aula. Un
metodo che può essere usato è
quello della action learning, ovvero,
si intende la proposta di attività
formative e svolte prevalentemente
all'aria aperta, quindi fuori da quelli
che sono tradizionalmente i ruoli e i
contesti di appartenenza, agendo
comportamenti ritenuti necessari ai
partecipanti, affrontando compiti e
situazioni imprevisti sotto la guida di
un trainer specializzato. In questo
modo si fanno emergere e si
permette di sviluppare ruoli e
capacità di appartenenza
all'organizzazione e si può conoscere
e confrontare le persone in un
contesto diverso da quello che è
l'ambito lavorativo. Un metodo di cui
oggi si fa uso è l'e-learling.
Si tratta dell'uso delle tecnologie
multimediali e interattive che
permettono il raggiungimento di un
numero elevato di utenti senza il
vincolo logistico dell'aula e del luogo
unico, la formazione inoltre diventa
personalizzata e si parla di aula
multimediale
e banchi multimediali.
Quarta fase (azione di feedback o
di ritorno): è un momento cruciale
perché permette di valutare se i
bisogni individuati in fase di ricerca
sono stati compensati. Ci si chiede e
si valuta se gli obiettivi sono stati
raggiunti, in che termini sono stati
raggiunti e perché. Sistema quindi
l'efficacia dell'intervento e questo
permette anche di individuare le
politiche formative
dell'organizzazione da attuare nel
tempo.
La valutazione si può fare secondo
un modello di Donald Kirkpatrick,
questo modello individua quattro
livelli di valutazione dell'efficacia
formativa:
Reazione e soddisfazione: si tratta
di considerare le reazioni dei
partecipanti al programma e quindi la
soddisfazione registrata dagpi utenti
in merito all'esperienza formativa
vissuta. I partecipanti valutano la
struttura del progetto e la
realizzazione, la qualità delle
lezioni, delle discussioni, dei lavori di
gruppo, del clima sperimentato in
aula. In questo livello si valutano
anche gli strumenti usati e quindi
anche l'azione del docente intesa
come comportamento formativo e
non valutazione della sua
personalità;
Apprendimento: si tratta dei risultati
dell'apprendimento e non il semplice
il gradimento del programma
formativo ma gli effettivi vantaggi e
benefici che sono stati ottenuti
partecipando al programma. Si
misura il cambiamento di
conoscenze, di capacità e di
atteggiamenti ottenuto in seguito al
programma formativo. Si tratta di
considerare il bagaglio di sapere, di
saper fare e saper essere che i
partecipanti al programma avevano
all'inizio e poi possiedono alla fine del
percorso formativo. Anche in questo
caso si usano degli strumenti come
test per verificare le competenze o
interviste e osservazioni pre e post
formazione.
Comportamento: si tratta della
valutazione dei cambiamenti avvenuti
circa il comportamento sul lavoro e
quindi quali competenze acquisite
con la partecipazione al corso sono
state poi effettivamente utilizzate a
livello operativo. In questo livello si
valutano l'arricchimento e
miglioramento rilevabile
concretamente, "la prova dei fatti".
Gli strumenti che si usano sono
osservazioni dirette e interviste
effettuate in un opportuno arco
temporale, assessment pre o post
formazione con osservazione delle
variabili comportamentali;
I risultati: si tratta della valutazione
dei cambiamenti avvenuti a livello
aziendale in seguito al percorso
formativo attuato. Si tratta della
valutazione del miglioramento
globale e del contributo che la
formazione ha apportato a livello
organizzativo inteso come
affinamento, consolidamento,
innalzamento degli standard
qualitativi e di competenze dell'intera
organizzazione. Gli strumenti
usati rilevano le performance
aziendali, l'efficienza, il turnover, il
clima e la qualità.
Un'organizzazione orientata alla
formazione e all'apprendimento fa
dell'apprendimento stesso la sua
competenza distintiva e la sua risorsa
competitiva, mostrandosi perciò
come una comunità di
apprendimento in cui si ha un
intreccio tra apprendimento e
innovazione come dinamica
essenziale per il successo, un
legame tra apprendimento, azione e
conoscenza diventano
comportamenti operativi, un'apertura
verso l'esterno finalizzata alla
diffusione e alla condivisione di
nuove competenze anche tramite la
costruzione di memorie accessibili e
costantemente aggiornate.

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