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Lipparini - Economia e gestione delle imprese

Capitolo 1

1 – Le determinanti dei risultati di impresa


30s: il successo è legato alla struttura del settore
50s: Industrial Organization (bisogna selezionare mercati e settori ad alta profittabilità)
70s: 5 forze competitive, in un settore bisogna far fronte a queste
80s: Resource-Based view (bisogna avere risorse e saperle sfruttare al meglio)
90s: Il mercato è sempre più in cambiamento: importantissime le Capacità Dinamiche
La cosa importante sono le Attività e il modo in cui sono svolte

2 – La catena del Valore (CdV)


La catena del Valore pone l’accento sulle attività e sulle loro interazioni. Il margine è il valore creato dalle
attività al netto dei costi.

2.1 – Costruzione della catena del valore


Attività primarie (quelle attività che consentono di creare e vendere il prodotto): Logistica (in entrata ed in
uscita), Operation, Marketing, Servizi.
Attività di supporto (aumentano efficienza ed efficacia delle primarie): approvvigionamenti, gestione
risorse umane, ricerca & sviluppo (R&S), infrastruttura (finanza, contabilità, controllo di gestione, sistemi
informativi). Queste attività generano Valore intangibile più difficile da apprezzare e spesso trascurato.
Dalle macro attività poi si possono disaggregare sotto-attività. Questa cosa si può fare all’infinito, la si fa
solo dove ha senso: costi significativi o importanza dell’attività ai fini della differenziazione del prodotto.
Le attività della CdV sono collegate tra loro: bisogna trovare questi legami e sfruttarli al meglio:
Ottimizzazione: fare le cose al meglio sapendo che le si fa per un “cliente interno”
Coordinamento: collegare le attività da efficienza o aggiunge valore (es: puntualità)

2.2 – Il valore delle informazioni


Da come un’impresa genera, acquisisce e utilizza le informazioni dipendono molte attività.
È utile dividere le informazioni in tipologie:
Dati: accessibili da tutti e comprensibili da tutti
Informazioni: dati elaborati o risposte a domande più complesse. Aiutano nel processo decisionale
Conoscenze: sono informazioni molto complesse elaborate nel tempo. Molto generali e disponibili a pochi

2.3 – Le diversità delle CdV


Le CdV differiscono perché le imprese differiscono nella clientela, nei bisogni da soddisfare, nelle modalità.

3 – CdV e Vantaggio competitivo


Abbiamo detto che il margine è il prezzo che il cliente è disposto a pagare per il bene, a cui si sottraggono i
costi sostenuti per realizzare il bene. Quindi il margine rispecchia il valore generato dall’impresa. Quando
si genera più valore dei propri concorrenti si acquisisce una posizione di vantaggio competitivo.
Questa posizione si può ottenere con una strategia di Differenziazione o con quella di Leadership di costo.
La prima si pone come obbiettivo quello di aumentare il prezzo che il cliente è disposto a pagare senza
aumentare troppo i costi, la seconda quello di abbassare i costi senza far abbassare il prezzo.
Le due strategie opposte portano ad una scelta o meglio, bisogna quanto meno prediligere una strategia
rispetto all’altra. Ci sono rari casi in cui si riescono ad abbassare i costi aumentando il prezzo di acquisto.
Si può utilizzare la CdV per studiare/implementare una strategia di Differenziazione o Leadership di costo:
Differenziazione: Cdv per l’impresa e per l’acquirente vedere somiglianze/differenze, identificazione
attività che danno unicità, valutare sviluppo di attività nuove.
Leadership di costo: trovare le determinanti di costo e confrontarle con la concorrenza, individuare i legami
tra le attività e le opportunità di riduzione dei costi, valutare outsourcing.
I collegamenti tra le attività sono importanti e danno alle attività caratteristiche uniche.

3.1 – La rilevanza del processo di allocazione delle risorse


Le risorse sono sempre scarse quindi bisogna sempre selezionare in quale attività investire e poi bisogna
decidere come implementare un’attività. Il frutto di queste due cose è la CdV o meglio ogni sua attività

3.2 – Cdv e nuove tecnologie


Le informazioni sono presenti in tutte le attività di un’impresa e devono anche essere condivise con tutta
l’impresa. Lo sviluppo dei sistemi informativi e di internet ha quindi stravolto le attività delle imprese.
Si possono distinguere alcuni stadi:
1. Automazione di singole transazioni
2. Più autonomia e miglioramento di alcune attività
3. Con internet si sono collegate alcune attività della CdV e si sono implementate le relazioni con
l’esterno e con l’interno
4. Si creano intersezioni tra le catene del valore di più imprese (reti)
5. Si ottimizzano in tempo reale le attività e le azioni di più attori

4 – La prospettiva del “Sistema delle attività”


Il “sistema delle attività” è una prospettiva che si basa sulla distinzione tra efficacia operativa e
posizionamento strategico. La prima è la capacità di produrre in maniera migliore degli altri, ma facendo le
stesse cose, il secondo dipende dal fare cose differenti o farle in modo differente.
Fare le cose meglio degli altri quindi non garantisce profittabilità a lungo termine perché col tempo tutto si
copia e tutte le imprese si uniformano. È quindi importante fare attenzione a separare strategia ed
esecuzione ed incastrare/combinare le attività in maniera strategicamente coerente (avere singoli punti di
forza nelle attività non danno risultati). Il vantaggio competitivo si mantiene meglio se sostenuto da più
attività e dalla loro coerenza. Sarebbe meglio che due attività si rafforzino reciprocamente e così si
ottimizzino gli sforzi. La CdV così creata sarà inimitabile perché è più difficile copiare l’interconnessione tra
le attività rispetto all’imitarle solamente.
A questa teoria di Porter ci sono 2 principali critiche: l’impresa così costituita risulta poco flessibile a grossi
cambiamenti e si sostiene che sia possibile, sebbene con un maggiore sforzo, imitare la coesione tra le
attività.

5 – Il sistema del Valore


La CdV di un’impresa va ad interagire con quelle dei fornitori, dei clienti e dei distributori, e la cosa si
complica ancora di più se abbiamo più prodotti; questo è un sistema del valore.
Negli ultimi tempi si abbandona l’approccio Taylorista che prevede una grande verticalizzazione, ma si
preferisce essere flessibili per esempio sfruttando l’outsourcing. Questo fa crescere ancora di più il sistema
del valore che può espandersi soprattutto grazie ai sistemi di comunicazione e ad internet che rendono
possibili le relazioni tra le imprese.
Il sistema del valore è quindi simile ad un mercato interno che però mantiene la competitività del rapporto
con altre imprese. Ogni impresa quindi ha una traiettoria competitiva e una cooperativa, deve
raggiungere il vantaggio competitivo ma collaborando con altre imprese all’interno dello stesso sistema.
Occorre conoscere queste traiettorie e prevedere il loro andamento nel tempo. Ora non conta più
l’impresa ma la sua rete quindi gli sviluppi vanno seguiti assieme a tutto il sistema del valore. Bisogna
quindi saper accedere alla conoscenza sviluppata e saperla integrare.

Capitolo 2

1 – Creazione di valore e obiettivi dell’impresa


L’obiettivo dell’impresa è creare profitto per l’azionista, per il manager è aumentare il fatturato, per alcuni
studiosi invece è creare valore economico.

1.1 – Il significato del valore


Valore contabile: valore monetario delle Attività in stato patrimoniale (è il valore investito, non quello
creato)
Valore economico: valore monetario dei flussi di cassa attualizzato con un costo opportunità del capitale
(WACC). Questo presuppone delle aspettative di redditività e la determinazione di un rischio.
Valore di mercato: valore calcolato in base alla domanda e all’offerta, coincide col valore economico se il
mercato è efficiente. Ma i mercati non sono mai efficienti, ad ogni modo il valore di mercato è sempre la
stima migliore di un valore economico, quindi nel libro i due vengono usati come sinonimi.
Valore di funzionamento: prezzo a cui si vende un’azienda (comprende avviamento)
Valore di liquidazione: somma dei valori di tutti gli asset (senza avviamento)

1.2 – La misura del valore


Dividend discount model: si calcola il valore di un bene considerando quanto si desidera che renda e
quanto frutta ogni anno:
V1= questo considerando di vendere dopo un anno; se si desidera di vendere all’infinito si ha
V1= (scompare “V2” perché all’infinito viene sostituito riutilizzando la formula)
Per rendere i calcoli più semplici si fanno ipotesi come “i dividendi crescono di un tasso g all’infinito”
oppure che lo facciano per un tot di anni e poi smettano di essere remunerativi.
Attualizzazione dei flussi di cassa: è un metodo più utilizzato del dividend discount model. Prevede che il
dividendo coincida col flusso di cassa disponibile. Spesso si considerano i flussi di cassa al lordo degli oneri
finanziari (così non dipendono dalla politica di finanziamento dell’impresa..ricorda la leva finanziaria). Per
calcolare il bisogna calcolare le imposte, raggiungere l’ammortamento, considerare il capitale circolante
netto e gli investimenti.

1.3 – creazione del valore: “shareholder” o “stakeholder”?


È un dibattito ancora aperto:
C’è chi dice che massimizzare il profitto impone strategie di breve termine, anche se questo non è
necessariamente vincolante
Alcuni sostengono che sostenere gli stakeholder è infattibile in quanto non si ha la possibilità di misurare la
prestazione ottenuta (è facile invece misurare un profitto o calcolare un ROE)
È dimostrato empiricamente che sostenere gli stakeholder porta anche valore agli shareholder,ma è anche
vero che gli azionisti hanno un diritto residuale (ovvero sono gli ultimi ad essere “pagati”) quindi facendo i
loro interessi si fanno prima anche gli interessi di tutti gli altri.

2.1 – Redditività
La redditività viene spesso calcolata col ROI. La creazione del valore poggia sulla politica degli investimenti:
gli investitori cercano di far fruttare il loro denaro affidandolo a qualcuno che produca valore.

2.2 - Il costo del capitale


Il costo del capitale è il rendimento atteso dagli investitori. Detto anche costo medio ponderato del
capitale (weighted average cost of capital, WACC). Si può dire che si crea valore solo se si ha una redditività
maggiore del costo del capitale. Il costo del debito è sempre diverso ed inferiore al WACC.

2.3 – Valore contabile e valore di mercato


Coincidono solo se il ROE e il costo del capitale sono uguali, se sono differenti vuol dire che stiamo creando
o distruggendo valore. Se il ROE è più alto il valore di mercato sarà maggiore e si starà producendo valore.
Conviene reinvestire se si sta creando valore (così da avere dividendi più alti l’anno successivo), ma se lo si
sta distruggendo allora no.
Bisogna fare attenzione: anche se il ROE è positivo si sta distruggendo valore perché il ROE è inferiore al
WACC!!

2.4 – Crescita, flussi di cassa e valore


In base alla crescita dei flussi di cassa aumenta il valore economico di un impresa. Questi dipendono da
ricavi, costi e investimenti.

2.5 – La gestione delle aspettative degli investitori


Per incrementare il valore di mercato non basta avere risultati positivi, ma bisogna anche superare le
aspettative degli investitori (difatti questi hanno un costo del capitale che va superato altrimenti si
continua a distruggere valore). Diventa importante quindi l’informativa esterna (dare messaggi chiari sulla
possibile redditività dell’impresa) e la comunicazione finanziaria interna (per il management interno).

3 – Le priorità manageriali per la creazione di valore


Cosa può fare il management per creare valore:

1. Efficienza gestionale: svolgere al meglio le attività sfruttando le risorse e le competenze.


2. Rafforzare il core business: l’investitore per diversificare investe da altre parti, l’impresa deve
crescere e molto spesso implementare il core business è la strada giusta.
3. Cedere gli asset non strategici: perché non inerenti al core business (si vendono proprio parti
dell’azienda, talvolta acquistate da manager e fondi di investimento management buy-out),
immobili che si preferisce prendere in affitto per avere liquidità.
4. Strutturare gli incentivi aziendali in modo da ridurre i costi di agenzia: con degli incentivi allineare
gli obbiettivi del controllo a quelli della proprietà (stock option, stock grants, bonus)
5. Ripensare al ruole del debito: fra benefici fiscali e benefici comportamentali: indebitarsi è bello (si
abbassano le tasse e non ci si deve rapportare con gli azionisti), ma è rischioso e non da piena
libertà ai manager. Se il settore è stabile con incassi costanti si può pensare di avere un alto debito.

Capitolo 3

1 – Risorse e vantaggio competitivo


Le risorse possono essere tangibili, intangibili ed umane.
Le prime possono essere monetarie, immobiliari o finanziarie, le seconde sono principalmente la
tecnologia e nella reputazione, le terze sono tutte quelle qualità che risiedono nelle persone e nella loro
interazione (saper lavorare in gruppo..)

2 – La prospettiva basata sulle risorse


Re source-based view (RBV) è una prospettiva che vede nelle risorse e nel loro impiego la causa del
successo/insuccesso delle imprese. Si considerano tutte le risorse: soprattutto le intangibili! Queste infatti
sono quelle che danno unicità all’impresa perché sono difficilmente riproducibili ed è questo che fa
mantenere all’impresa il vantaggio competitivo. Sono poi molto importanti le competenze ovvero come le
risorse cono combinate. Difatti un impresa per far fronte al cambiamento deve ricombinare le proprie
risorse.
La RBV non spiega però come si crea valore, come l’impresa deve affrontare i cambiamenti, non considera
la relazione dell’impresa con l’ambiente esterno e non ritiene modificabili le risorse nel breve periodo.

2.1 – Un estensione dinamica dell’approccio RBV


Dinamica ovvero che permette all’impresa di variare le sue risorse adattandosi ai cambiamenti. Secondo
Ghemawat si può ottenere il vantaggio competitivo creando commitment oppure sviluppando
competenze. Il secondo aspetto lo abbiamo già presente nella RBV quindi parliamo di commitment:
è l’insieme di decisioni che portano a variare le proprie risorse (investire in R&S, acquisire un azienda,
campagna pubblicitaria per promuovere Brand..), queste risorse poi rimarranno a diposizione dell’impresa.
Paradigma delle capacità dinamiche: le risorse sono il cuore dell’impresa, ma per far fronte al
cambiamento occorre avere delle capacità dinamiche ovvero saper ricombinare le risorse e trasformarle.
Si pone enfasi sui processi e sulle routine aziendali. L’obiettivo è sempre quello di sviluppare capacità
differenti dagli altri e difficilmente imitabili.

3 – Far leva sulle risorse


Stretch: generare una strategia dall’interno con ambizione senza basarsi sulle risorse che si ha
Leverage: azioni che servono per implementare le risorse o la loro combinazione.
Stretch and leverage: avere aspirazioni superiori alle risorse così da migliorarsi. È così che è nato il lean
manufacturing.
Possiamo quindi dire che un impresa è un portafoglio di risorse, ma che la limitatezza delle risorse non
implica l’impossibilità di raggiungere una posizione di leadership (come non è vero il contrario), si può fare
leva sulle risorse anche se queste sono scarse, spesso ci si preoccupa di allocare le risorse anziché fare una
buona leva su di queste.
5 modi per fare leva sulle risorse:
1. Concentrazione: non bisogna avere troppi obiettivi altrimenti si rischia di disperdere le risorse,
bisogna focalizzarsi sulle attività che fanno percepire valore al cliente.
2. Accumulazione: sviluppare risorse o più semplicemente apprenderle dall’esterno (con licenze o
lavorando coi concorrenti e studiandoli).
3. Complementarietà: bisogna saper mettere assieme le risorse, saper combinare le tecnologie e non
si può essere carenti in nessuna delle attività primarie (inventare, produrre, vendere)
4. Conservazione: si posso riutilizzare le risorse/competenze (es Honda), si può cooptare con altre
imprese per imporsi sul mercato o per sviluppare una nuova tecnologia, si possono proteggere le
risorse (i territori non protetti possono essere un trampolino di lancio per i concorrenti)
5. Recupero: i risultati che le risorse impiegano devono coprire i loro costi.

4 .1 – Le competenze organizzative
Sono quei processi interni all’impresa che si sono sviluppati nel tempo e coordinano l’interazione tra le
risorse. Possono essere abilità particolari che riguardano determinate attività (marketing, operation..),
possono essere capacità di miglioramento di specifiche attività (o routine) (design moderno,
miglioramento efficienza produttiva..) oppure può essere la combinazione di risorse.
Oggigiorno per far leva sulle risorse occorre: riconoscere le risorse, utilizzarle al meglio e, se si lavora con
un gruppo di aziende, saperle apprendere, integrare, ricombinare.

4.2 – Competenze distintive e competenze centrali


Competenze distintive: serve per ambire ad avere vantaggio competitivo. Differenzia dai competitor, in
pratica da unicità all’azienda.
Competenze centrali: è una capacità fondamentale per la strategia e la performance dell’azienda. Da
valore al prodotto secondo l’acquirente o permette all’impresa di entrare in diversi mercati.
Le Competenze centrali devono essere mirate a soddisfare il consumatore, devono essere uniche e
inimitabili se si vuole mantenere una posizione di vantaggio competitivo.

4.3 – Competenze “needed to win” e “needed to play”


Le prime sono competenze distintive ad alto impatto strategico, le seconde sono generiche ma importanti
per rimanere sul mercato. Una competenza è valutata in base al suo valore che dipende dal suo contributo
al vantaggio competitivo e in base alla sua unicità nell’impresa o nella rete.
Valore (secondo la industrial organization): fa fronte a minacce, migliora efficienza ed efficacia, da
vantaggi sul mercato.
Valore (secondo la resource based view): aumenta valore del prodotto per il cliente, abbassa i costi.
Unicità: la competenza non è reperibile sul mercato quindi ci differenzia dai competitor.
In base a Valore ed unicità si possono dividere le competenze in “needed to win”,“needed to play” e
“needed to loose”. Le prime sono uniche e ricche di valore, le ultime ne uniche ne valorose.
Le competenze “needed to win” andrebbero sviluppate internamente perché molto importanti. Ci sono
alcune di queste competenze che sono comuni a molte imprese di successo (saper far leva sulle risorse,
saper trovare informazioni e gestirle, portare online la comunità di clienti…)
Le competenze “needed to play” si dividono in quelle uniche di poco valore, e valorose ma di scarsa
unicità. Quelle poco uniche possono essere reperite sul mercato e vanno ricercate bene perché comunque
sono importanti (di valore). Quelle uniche ma poco importanti si consiglia di svilupparle con alleanze o
interno (data l’unicità si spende molto ad “acquistare” queste competenze). Nelle alleanze si deve
incentivare la collaborazione e la fiducia.
Le competenze “needed to loose”: se si può si acquistano dall’esterno pagandole il meno possible
(contrattazione). Chi le detiene non entra troppo in contatto con l’impresa (non si necessita fedeltà)
Le imprese avranno varie competenze di tipi diversi, è importante saperle gestire bilanciandole e dando
alle competenze il giusto peso. Come per le risorse poi le competenze possono cambiare di importanza
quindi bisogna svilupparle a dovere e saperle sempre valutare (stretch and leverage con le competenze).
Quando vogliamo acquisire una competenza dall’esterno consideriamo sempre i costi di transazione e
quando vogliamo svilupparla internamente ricordiamo che l’investimento dovrebbe produrre maggiori
guadagni.

4.4 – Architettura e gerarchia delle competenze


Le routine: sequenza di attività costituite da azioni coordinate di individui. Possono essere anche oltre le
funzioni della catena del valore (controllo manageriale, pianificazione strategica…)
Le competenze possono essere a vari livelli: da singoli processi di specifiche attività fino alla correlazione
tra le macroattività (operation, logistica…)
Il problema principale è integrare le competenze e le conoscenze degli individui.

5 – La valutazione delle risorse e delle competenze ai fini della strategia


Gli step per la valutazione delle risorse e delle competenze: identificazione, valutazione e sviluppo.

5.1 – Identificazione delle competenze e delle risorse chiave


Per la domanda: Identificare i fattori critici di successo e delle risorse e capacità su cui si basano. Per
l’offerta: attraverso la catena del valore individuare le risorse e competenze impiegate in ogni attività.

5.2 – La valutazione delle risorse e delle competenze


Importanza strategica: quali sono quelle risorse e competenze need to win? Quali le need to play?
Forza rispetto ai concorrenti: con benchmark si evidenziano i punti di forza e di debolezza del’impresa, poi
si considera l’importanza che questi punti hanno per conseguire la strategia

5.3 – Lo sviluppo delle implicazioni strategiche


Bisogna sviluppare una strategia che elimini i punti di debolezza (investendo o dando in outsourcing) e miri
a valorizzare i punti di forza (o ad abbandonarli se superflui). Si può fare una gap analysis in cui si
individuano le lacune (i gap) da colmare con risorse e competenze oppure si vuole ri-amministrare più
efficacemente ed efficientemente le risorse possedute.
Per sfruttare meglio le risorse e le competenze possedute:
Replicazione: riutilizzare competenze per nuovi prodotti (bisogna modificare e riadattare le routine)
Sviluppo: bisogna reperire nuove risorse dal mercato o svilupparle internamente;è un processo lento
specialmente per sviluppare competenze. Inoltre occorre spesso eliminare le vecchie competenze non più
utili (in fase di cambiamento sono avvantaggiate le aziende emergenti).
5 modalità di sviluppo di nuove competenze:
1. Sviluppo individuale di competenze: lento soprattutto se si sviluppano competenze completamente
nuove
2. Acquisizione di imprese: molto veloce ma costosa e comporta dei rischi nell’integrazione.
3. Alleanza strategica: economica ed immediata, occorre però avere un obiettivo comune. È un
ottima occasione per assimilare competenze dal partner.
4. Incubazione: creare un nuovo contesto proprio per sviluppare nuove competenze (così non si
devono “dimenticare” le vecchie)
5. Sequenze di prodotto: sviluppando nuovi prodotti si acquisiscono competenze. È anche un po’ il
gioco dello stretch and leverage (guardare sempre oltre).

Capitolo 4

1.1 – Il concetto di strategia

È un insieme integrato di decisioni volte a costruire un vantaggio competitivo sostenibile nel lungo
periodo.

Non è un programma dettagliato ma un idea che accomuna poi le singole decisioni dell’impresa.

1.2 – La formulazione delle strategie

Strategic planning: approccio razionale alle decisioni e alla strategia d’impresa

Strategic thinking: approccio creativo e intuitivo; ci si basa su idee innovative che poi si concretizzano

Opportunistic decision making: la strategia viene a formarsi in risposta a cambiamenti che non erano
prevedibili

La strategia dipende in primo luogo dal mercato esterno e dalle risorse e dalle competenze dell’impresa;
sono questi i fattori chiave da considerare quando si sviluppa una strategia.

Noi vedremo solo lo strategic planning che comunque fornisce gli strumenti per valutare idee ed
opportunità che si potrebbero seguire o cogliere con gli altri due metodi.

Elementi comuni ad una strategia di successo:

• Obiettivi semplici, coerenti e pensati nel lungo termine


• La strategia deve essere contestualizzata nell’ambiente competitivo
• Valutazione obiettiva delle risorse
• Implementazione efficace delle funzioni aziendali che quindi devono conoscere la strategia

1.3 – Il punto di partenza dello strategic planning: la definizione del business

Per definire il business bisogna definire 3 dimensioni: clienti, bisogni da soddisfare e modalità
I gruppi di clienti vengono scelti evidenziando i criteri di identità, questi possono essere dei più disparati
(posizione geografica o attitudini o fattori psicologici..). Bisogna poi fare attenzione al fatto che a volte il
gruppo di clienti possa essere un gruppo di utenti (ovvero sono loro che ricevono ma non pagano).

I bisogni sono molto importanti e non ci sono particolari modalità per trovarli, può essere utile però
cercare bisogni specifici (non quindi “ho fame” ma voglio “fare colazione” oppure “voglio un caffè”).

Le modalità dicono come si risponde ai bisogni, queste sono spesso dinamiche, quindi variano nel tempo.

Bisogna si possono definire 3 concetti chiave: il business il settore e il mercato.

Il primo comprende la definizione (appena effettuata) di clienti, funzioni, modalità. Il secondo dipende
principalmente dalla modalità ed accomuna diversi tipi di business. Il terzo rappresenta l’insieme di alcuni
bisogni di clienti, soddisfatti attraverso tutte le modalità disponibili.

La segmentazione strategica prevede di suddividere il mercato in sottoinsiemi per analizzare i fattori critici
di successo. Occore:

• Determinare variabili significative (cosa condiziona differenzia un prodotto dall’altro tanto da


cambiare segmento?)
• Identificare i singoli segmenti (quindi bisogni e clienti)
• Analizzare l’attrattività del segmento
• Identificare i fattori critici di successo (FCS) del segmento (sono quei benefici a cui i clienti sono
più interessati nel soddisfare un loro bisogno)

La segmentazione strategica dovrebbe servire per identificare il/i segmento/i obiettivo in base a variabili
interne ed esterne; si può scegliere di abbracciare perfino tutto il mercato (questo comporta vantaggi e
svantaggi che vanno presi in considerazione). Dopo aver scelto il segmento (quindi aver determinato i
clienti e i bisogni) bisogna decidere le modalità così da definire il business.

Definire chiaramente il proprio business offre dei vantaggi: focalizzarsi sui FCS per ogni segmento
obiettivo, definire la quota di mercato obiettivo e quella attuale (capendo le motivazioni), definire i reali
concorrenti che operano nei segmenti scelti.

2 – L’analisi dei fattori esterni all’impresa

I fattori esterni possono essere ambientali a cui l’impresa non può far altro che adattarsi oppure ci sono
fattori che l’impresa può fronteggiare riducendone l’impatto o addirittura cambiandoli. Con questi ultimi si
sposa bene la teoria Industrial Organization che prevede che all’interno di un settore i comportamenti
delle imprese si influenzino ed influenzino il settore stesso.

2.1 – Il modello di concorrenza allargata

Porter definisce le 5 forze competitive come ciò che influenza la competitività in un settore, l’impresa
deve comprenderle e posizionarsi in modo da sfruttare le dinamiche del settore.

1. I potenziali entranti: se entrano nuove imprese il tasso di profitto cala (più offerta e più
concorrenza). Questo dipende dalle barriere all’entrata (alti costi fissi, necessità di fornitori..)
2. I prodotti e i servizi sostitutivi: sono prodotti che soddisfano gli stessi bisogni per lo stesso gruppo
di clienti, ma con modalità differenti. Se i clienti sono disposti ad adottarli il profitto cala
3. Il potere contrattuale degli acquirenti: dipende da vari fattori (numero dei fornitori, importanza nel
loro fatturato, minaccia di integrazione a monte, le informazioni, i costi di riconversione)
4. La sensibilità al prezzo degli acquirenti: dipende da vari fattori (incidenza del costo sul fatturato,
importanza del prodotto, differenziazione del prodotto, situazione finanziaria)
5. Il potere contrattuale dei fornitori: vale quello che si è detto per gli acquirenti (l’impresa è un
acquirente per i suoi fornitori). Si può anche instaurare un rapporto di partnership

2.2 – Limiti ed estensioni del modello delle forze competitive

Il modello di concorrenza allargata ha alcuni difetti: è statico, si basa sulla profittabilità del settore, non
considera a fondo le collaborazioni. Successivamente si è aggiunta un’altra categoria alle 5 forse: i
complementors, ovvero tutte quelle entità o meccanismi che influenzano l’acquisto di determinati beni
pur non essendo clienti ne concorrenti.

3 – L’analisi dei fattori interni all’impresa

Ovviamente non contano solo i fattori esterni dati dall’ambiente ma contano anche quelli interni, secondo
la RBV sono proprio risorse e competenze che fanno la differenza in un impresa. Bisogna però fare in modo
che fattori esterni ed interni siano coerenti, per questo si sviluppano risorse per rispondere a fattori critici
oppure si cambia business per poter utilizzare le risorse che si hanno.

Il vantaggio competitivo può essere di due tipi: di costo oppure di differenziazione.

3.1 – Il vantaggio di costo

Economie di scala, tecnologia di processo, progettazione del prodotto, grado di utilizzo della capacità
produttiva, costi di approvvigionamento. È qui che un impresa che punta ad una leadership di costo per
migliorare la sua efficienza. Bisogna guardare tutte le attività delle CdV e le loro connessioni e vedere dove
si possono applicare miglioramenti. Attenzione però, talvolta l’efficienza totale non corrisponde con la
somma delle singole efficienze, qualche attività potrebbe costare molto, se poi una successiva costa molto
meno di conseguenza.

3.2 – Il vantaggio di differenziazione

La differenziazione tangibile (materiali, funzionalità, tempi) deve essere comunicata e moltiplicata con
quella intangibile (pubblicità, marchio..). Questo perché non sempre la differenziazione si vede. Basandoci
ora sul modello della CdV occorrerà: potenziare le attività che aggiungono valore, unicità, sfruttare le
occasioni di efficienza (consegna rapida implica poco magazzino prodotti finiti). Il risultato è ottenere un
premium price che l’acquirente è disposto a pagare.

3.3 – L’integrazione delle attività nella costruzione del vantaggio competitivo

Qualunque sia la tipologia della strategia le attività vanno scelte ed implementate coerentemente e se
possibile vanno opportunamente collegate. Introduciamo ora due concetti customer willingness to pay
(volontà di pagare del cliente) e supplier opportunity cost (costo opportunità del venditore); la prima è la
somma massima che un cliente è disposto a pagare per ottenere il bene prodotto, il secondo è il prezzo
minimo a cui il venditore cederebbe il bene. La differenza tra questi due rappresenta il valore creato. Un
vantaggio di differenziazione punta sull’alzare la customer willingness to pay senza alzare troppo i costi,
mentre un vantaggio di costo punta sull’ abbassare il supplier opportunity cost senza abbassare troppo la
customer willingness to pay. Talvolta si posso muovere passi in entrambe le direzioni, ma molto spesso
questo non è possibile per questo quasi sempre bisogna scegliere una delle due tipologie di strategia.

3.4 – La SWOT analysis

SWOT è l’acronimo di strengths, weakness, opportunities and threats. Quest analisi ha lo scopo di
analizzare l’ambiente interno ed esterno all’impresa per valutare la strategia. Mettendo in evidenza i punti
di forza e debolezza e le opportunità e le minacce dell’ambiente esterno, si può creare una strategia che
faccia fronte alle minacce e sfrutti le opportunità, facendo leva sui punti di forza e rafforzando i punti
deboli. La SWOT analysis è però soggettiva quindi prima bisogna mettere bene in chiaro la situazione
interna e quella esterna sapendo bene quali sono i fattori critici di successo.

4 – I diversi approcci alla strategia

Ci sono vari approcci alla strategia, come abbiamo visto si può pianificare tutto oppure seguire un idea o,
infine, decidere per una strategia che risponda ai nuovi cambiamenti. Robert Grant sostiene che la
strategia vada sviluppata ed implementata razionalmente e con analisi, ma che poi possa anche farsi
guidare dalla creatività e dal cogliere le opportunità, condividendo sempre la strategia con l’intera impresa

Capitolo 5

1 – Orientamento dell’impresa al prodotto e al mercato

Ci si orienta al prodotto quando si produce quello che si sa fare, poi si pensa a come e a chi venderlo. Ci si
orienta al mercato, invece, quando si pensa a soddisfare un bisogno di un qualche segmento di clientela e
di conseguenza si produce un prodotto. Una volta il mercato era abbastanza stabile quindi ci si poteva
permettere di rimanere fermi e al più nel migliorarsi nel produrre uno storico prodotto. Negli ultimi
decenni invece il mercato è in continua evoluzione, i clienti hanno potere d’acquisto quindi vogliono
provare cose nuove (infedeli), possono permettersi si scegliere perché c’è abbondanza. Al giorno d’oggi
non dura molto un’impresa che non è orientata al mercato. Oggigiorno bisogna prevedere l’andamento
del mercato e saper agire di conseguenza sfruttando opportunità e difendendosi dalle minacce.

Un’impresa può, attraverso il marketing, aumentare la domanda con promozioni, aumentare il desiderio
con la pubblicità (aumentando il valore del marchio), ma non possono creare bisogni, quantomeno non nel
breve periodo e singolarmente.

2.1 – La comprensione dei comportamenti di acquisto

Gli acquisti sono molto diversi tra loro (es colazione al bar, comprare una casa, comprare regalo fidanzata),
quindi ci sono diverse tipologie di comportamenti di acquisto. Però ci sono cose che accomunano tutti i
processi di acquisto:

Percezione di un bisogno: come abbiamo già detto non si possono creare bisogni, ma si può far si che
questi vengano percepiti.

Ricerca di informazioni: ci si informa su come soddisfare il bisogno, attraverso le varie modalità possibili

Valutazione delle alternative: si utilizzano le informazioni per determinare una tipologia di prodotto

Sviluppo di preferenze: si stilla una graduatoria delle marche che forniscono quel prodotto
Decisione di acquisto: si decide di acquistare, non è detto che sia proprio quello che stava in cima alla
nostra graduatoria, potremmo cambiare marca, cambiare tipologia di prodotto, rimandare l’acquisto

Impressioni dopo l’acquisto: molto importanti per l’impresa perché si consiglia o ci si lamenta con gli amici

È molto importante anche quanto l’acquirente sia coinvolto. In pratica il coinvolgimento è la percezione
del rischio legato all’acquisto. Quando si sceglie di acquistare una casa si valuta bene e i passaggi del
processo di acquisto vengono fatti scrupolosamente. Quando si compra una bottiglia d’acqua al
supermercato no; questo perché la rischiosità (legata all’aspetto economico, ma può essere anche perché
si fa un regalo o altre motivazioni) è molto diversa nei due casi. Se il coinvolgimento è alto ci si soffermerà
moltissimo soprattutto nella ricerca di informazioni.

2.2 – La diagnosi di posizionamento

I significati di posizionamento:

• Secondo il cliente (questo posizionamento si individua con una ricerca di mercato)


• Secondo le sue caratteristiche fisiche. Utile più che altro per confrontarsi tecnologicamente con la
concorrenza, ma non rispecchia l’idea del cliente perché molte cose sono a lui sconosciute o difficili
da valutare
• Secondo l’impresa stessa (aspirazione strategica)
• Scelta di un segmento in cui competere (es abbigliamento lussuoso)

Capire il posizionamento secondo la clientela è molti difficile e occorre raccogliere dei dati, che poi
verranno elaborati in una mappa percettiva di posizionamento. Sulla mappa si riesce a vedere il
posizionamento delle varie marche, così da vedere quali sono le dirette rivali (che competono per la stessa
posizione) e si può pensare ad una riqualificazione della marca attraverso strategie di marketing.

2.3 – Segmentazione

Orientandosi al mercato e quindi al cliente emerge la consapevolezza che i clienti hanno preferenze
diverse, quindi i prodotti devono essere diversi tra loro. Questo è un grandissimo problema che impedisce
quelle logiche di efficienza legate alle economie di scala e ai grandi volumi di produzione. D’altronde non si
può però sostenere che tutti i clienti siano uguali (pensiero del mass marketing). La soluzione sta nella
mass customization ovvero il cercare di conciliare i vantaggi delle economie di scala con la consapevolezza
della differenza tra i segmenti di clientela. Questo è possibile grazie alle moderne tecnologie (specialmente
la robotica) che permettono di fare alcune modifiche al prodotto senza perdere i vantaggi dei grandi
volumi di produzione.

La segmentazione è quel processo di suddivisone del mercato in segmenti, cioè si aggregano i possibili
clienti con interessi e preferenze comuni così da considerarli come un'unica tipologia di clienti. Questo
permette di semplificare il mercato eterogeneo in tanti insiemi omogenei. Questa procedura ovviamente è
altamente soggettiva, esiste infatti solo quando ai fini del marketing qualcuno decide di semplificare il
mercato. Non esiste quindi una segmentazione universale, ma dipende dal settore e da chi la fa.

Per vedere se un processo di segmentazione è efficace si valutano 6 criteri:

1. Identificabilità: misura quanto è facile descrivere, attraverso variabili facilmente misurabili, un


consumatore tipo appartenente ad ogni segmento
2. Rilevanza: ogni segmento deve essere abbastanza grande da permettere il recupero di quei costi
addizionali dovuti alla creazione di un prodotto personalizzato a quel segmento
3. Accessibilità: rappresenta quanto è facilmente raggiungibile ogni segmento con mezzi di
comunicazione. Più è accessibile più ci possono essere canali mirati per comunicare
4. Reattività: indica la velocità e l’affidabilità con cui il segmento reagisce agli stimoli di marketing che
vengono studiati per quel segmento
5. Stabilità: i segmenti col tempo cambiano e si modificano, questo ovviamente è un problema perché
le politiche di marketing implementate poi non sono più valide, per questo ci vuole stabilità
6. Azionabilità: misura quanto un segmento può essere interessato al prodotto, in quanto i suoi
interessi sono coerenti con gli obiettivi dell’impresa e la sua strategia

Come si può però fare una segmentazione? Esistono svariati criteri Wedel e Kamakura li suddividono in:
generali osservabili: sono i criteri più usati (l’età, la cultura, il reddito…)

generali non osservabili: sono più difficili da reperire e più astratti (stile di vita, la personalità, i valori…)

specifici osservabili: sono tra i più utili sebbene con dati da sviluppare (frequenza d’uso,comportamento)

specifici non osservabili: ricercano le preferenze dei consumatori (benefici, percezioni del marchio…)

3.1 – L’innovazione e la gestione della gamma di prodotti e servizi

I beni possono essere classificati in beni di consumo oppure in beni industriali.

I primi a loro volta possono essere convenience, ad acquisto ponderato oppure speciali in base alla
frequenza di acquisto e al coinvolgimento

I secondi possono essere beni capitali o di investimento (strategici e si protraggono nel tempo), materie
prime o componenti (mediamente importanti che prendono parte al processo produttivo),
approvvigionamenti e servizi (di scarsa importanza come i chiodi).

Nel marketing è utile distinguere prodotti da servizi. I servizi non sono immagazzinabili e sono sempre e
solo intangibili, inoltre sono sempre diversi tra loro. I prodotti possono avere una componente intangibile e
possono anche essere associati a servizi (difatti il confine talvolta si assottiglia).

Per i prodotti si può parlare di gamma e linea. La gamma è l’insieme di tutte le linee di prodotto ovvero di
tutte le tipologie di prodotto che si possono avere, se le linee sono tante allora la gamma si dice ampia. Le
linee invece si dicono profonde quando al loro interno ci sono ulteriori differenziazioni per la stessa
tipologia di prodotto (es computer ad alte, basse e medie prestazioni). Per le imprese molto grandi si può
parlare anche di linea lunga in questo caso la linea diventa un insieme di prodotti diversi (es linea di
prodotti per la casa o per la persona). Una cosa fondamentale è che ci sia coerenza di gamma cioè tra tutti
i prodotti realizzati ci deve essere qualcosa di affine che riguardi la produzione o la distribuzione o altro;
questo è importante perché con questa coerenza l’impresa guadagna in efficacia su quelle attività comuni.

La marca è quel simbolo o/e quel nome che caratterizzano un produttore. La marca ha un valore
intangibile e difficilmente quantificabile molto importante, talvolta la vendita di un impresa avviene solo
per il mantenimento della marca appunto. Il marchio è invece quella parte della marca che è tutelata
legalmente. Si può concedere la licenza di utilizzare il marchio in cambio di una parte delle vendite o di
denaro. Sempre più ultimamente nella GDO (grande distribuzione organizzata) si formano marche
commerciali ovvero la marca non è del produttore ma del venditore (che è sufficientemente importante da
aver selezionato un parco fornitori che gli garantisca il suo prodotto).

Un prodotto molto spesso segue il ciclo di vita del prodotto, cioè attraversa le fasi di introduzione (prezzi
alti pochi clienti innovatori), sviluppo (aumento volumi di produzione prezzi più bassi), maturità (prezzi
bassi massima efficienza) e declino (prezzi sotto costo pieno,profitto col margine: costi fissi già coperti)

Si può anche definire il ciclo di vita di una marca che è molto simile, bisogna essere bravi a non entrare
nella fase di declino, sapendo rilanciare la marca con prodotti e strategie innovative. Avere una marca
conosciuta velocizza la fase di introduzione e sviluppo di un nuovo prodotto, questo si può sfruttare per
rilanciare.

3.2 – La determinazione del prezzo

Determinare il prezzo è molto importante, questo influenzerà i profitti, l’immagine dell’azienda (un prezzo
alto fa percepire qualità) e talvolta la reazione dei concorrenti. Nel determinarlo quindi è importante
considerare la funzione della domanda in base ai possibili prezzi, i costi aziendali e la concorrenza. Un
metodo spesso utilizzato è il target costing si guarda la concorrenza coi suoi prodotti analizzandone qualità
e prezzo e si vede se, in base alla propria struttura di costi o al più modificandola, si riesce a raggiungere lo
stesso obiettivo. La concorrenza è molto importante perché può sviluppare prodotti migliori, quindi va
sempre considerata. Per mantenere la coerenza della marca bisogna perseguire sempre una strategia di
differenziazione o di costo, quindi se si vuole lanciare un prodotto che non segue la strategia già in vigore
si può acquistare o fondare una nuova marca.

Le strategie di vendita:

Scrematura: si entra col prodotto ad un prezzo alto (differenziazione), poi si valuta se abbassarlo per
aumentare la quota di mercato o se mantenere una pura strategia di differenziazione

Penetrazione: si parte subito con un prezzo basso sperando di instaurare un circolo virtuoso con alti volumi
di produzione e prezzi e costi bassi.

Lock-in: si incastra il consumatore che, comprato un conveniente prodotto base, deve pagare molto per
avere gli accessori

Bundling: si vendono più componenti assieme così da aumentare i volumi di vendita

Prodotto civetta: si da ad un prodotto con prezzo noto un prezzo conveniente così da far credere che
anche gli altri prezzi (non conosciuti) siano convenienti

Nel determinare il prezzo bisogna considerare il fatto che spesso non si vende direttamente e quindi che il
prezzo che il rivenditore fa potrebbe essere diverso da quello definito, si possono quindi fare accordi coi
distributori consigliando loro il prezzo desiderato.

Talvolta il prezzo può variare nel tempo per ragioni strategiche, questo comporta delle conseguenze nella
percezione del prodotto e della marca, nei rapporti coi concorrenti e nella copertura dei costi. La domanda
si dice elastica quando ad un aumento di prezzo corrisponde velocemente un calo delle vendite e
viceversa, oppure si dice rigida se questo fenomeno non avviene (es monopolio).

È importante che il marketing raccolga informazioni da varie funzioni (operation, vendite, amministrazione
e controllo di gestione) per poter decidere e variare il prezzo. Spesso il marketing consiglia solo nella
decisione del prezzo, la scelta definitiva è presa dal brand manager, il responsabile del brand nelle imprese
multibrand, oppure direttamente dalla direzione nelle imprese più piccole.

3.3 – La scelta e la gestione della rete distributiva

Bisogna poi scegliere il canale distributivo. Si può vendere direttamente (canale corto) oppure ci si può
affidare a dettaglianti e/o grossisti. Allungare il canale porta sicuramente ad un aumento del prezzo finale,
inoltre se il rivenditore è indipendente sarà lui a decidere la strategia con cui vendere e questo potrà essere
in disaccordo con la strategia del produttore. Se il numero di clienti e il numero di fornitori è elevato
sarebbero molte di più le relazioni da intrattenere senza un intermediario, per questo talvolta è necessario.

Per vendere direttamente oggi molti usano internet, ma si è ancora molto legati agli agenti che possono
essere più o meno legati all’azienda. Se sono dipendenti hanno uno stipendio fisso, ma possono anche
essere indipendenti (pagati anche in base alle vendite) e addirittura lavorare anche per altre imprese (multi
mandatari). Gli agenti indipendenti sono più onerosi se realizzano grandi volumi di vendita.

Si possono verificare conflitti verticali (quando il dettagliante è in conflitto col produttore) oppure conflitti
orizzontali (quanto i dettaglianti sono in conflitto tra loro).

Si possono quindi creare strutture verticali di marketing che legano produttore e dettagliante sotto la
stessa proprietà (integrazione a valle). Se il negozio non è proprio di proprietà del produttore però può
essere legato con contratti (es franchising).

Negli ultimi tempi c’è stata una concentrazione dei canali distributivi delle imprese e si è arrivati ad avere
grandi catene di negozi che hanno sviluppato un potere d’acquisto immenso sui produttori. La grande
distribuzione si divide in vari tipi di negozi: discount, superstore, centri commerciali, outlet…

Ultimamente le imprese adoperano un canale ibrido o canale multiplo o distribuzione multicanale, ovvero
sfruttano più canali differenti per commercializzare il loro prodotto, quindi avremo un prodotto che è
presente nella GDO e nei negozi monomarca legati al produttore, oppure che potrebbe essere anche
venduto su internet piuttosto che attraverso agenti. Questo si fa per allargare la clientela ed aumentare il
fatturato senza diminuire il margine di profitto o perdere nel servizio a clienti speciali. Però è un grande
rischio perché crea confusione sulla strategia e sull’immagine del brand oltre che a creare dissensi verticali
coi primi dettaglianti storici che con tutta probabilità sono responsabili della maggior parte delle vendite.
Nonostante tutte queste problematiche il ricorso ad un canale multiplo è molto diffuso ed in diffusione.

Specialmente in questo ultimo caso ma comunque è “da farsi” in generale un controllo della rete
distributiva, quindi bisogna controllare dove si genera la maggior parte del fatturato, facendo indagini sui
consumatori e sulla customer satisfaction, controllando in ogni dettagliante qual è la percentuale dei
prodotti venduti della propria marca…

3.4 – La comunicazione come strumento di posizionamento

La comunicazione è lo scambio di informazioni tra persone. Gli scopi della comunicazione sono informare e
influenzare. Il primo quando si informa delle capacità e delle caratteristiche di un prodotto, il secondo
quando si cerca di spingere la gente ad acquistarlo. La comunicazione è lo strumento principale con cui
l’impresa si fa conoscere, è quindi molto importante anche ai fini strategici e di posizionamento, per
questo la strategia di comunicazione viene implementata dopo aver delineato gli altri aspetti principali.
La promozione del prodotto può avvenire in molti modi; primo fra tutti la pubblicità, ma anche la vendita
personale, la distribuzione di campioni gratuiti, le pubbliche relazioni, il marketing diretto (telefono).

Tipicamente la comunicazione parte da un emittente che sviluppa un messaggio il quale è diffuso con un
mezzo e che viene letto da un ricevente.

Per l’emittente le caratteristiche importanti sono credibilità e attraenza che danno fiducia la ricevente e lo
fanno sentire a proprio agio, meno distaccato.

Il messaggio può avere un tono razionale oppure emotivo, il primo cercherà di convincere il destinatario, il
secondo cercherà di smuovere i suoi sentimenti, che, forse più della ragione, influenzano il processo di
acquisto

I mezzi di comunicazione si distinguono in personali (poca distanza, feedback immediato o quasi) ed


impersonali (fatti ad un pubblico, spesso niente feedback). Questi ultimi sono i più conosciuti: televisione
(molto costosa anche se ottima), le riviste (consentono pubblicità mirate), radio (economica e specifica), il
web (sembra unire la forza detta televisione con la precisione delle riviste)

Il ricevente infine ha un ruolo importante perché sta proprio a lui reagire dopo la comunicazione. Le
caratteristiche del ricevente e i suoi interessi sono infatti decisive, ma sfortunatamente il marketing su
questo non può lavorare, al massimo si può utilizzare un mezzo più preciso

4 – Marketing e tecnologie dell’informazione

Grazie alle information tecnologies (IT) si possono raccogliere ed elaborare velocemente ed efficacemente
grandissime quantità di dati, si è quindi riusciti a raccogliere informazioni sui propri clienti anche quando
sono milioni grazie ai customer database. Sono importantissimi perché permettono all’impresa di studiare
i propri clienti.

Grazie ai customer database è stato possibile sviluppare il customer relationship management (CRM)
ovvero un approccio alla clientela che ha come obiettivo la mass customization, quindi con le informazioni
raccolte cerca di avere un approccio al cliente senza rinunciare i benefici della produzione di massa. In
quest’ottica si valuta il customer lifetime value (CLV) ovvero il valore prospettico del cliente (in base al
margine di transazione, alla frequenza e alla fedeltà del cliente si calcola quanto profitto questo genera per
l’impresa)

Il web non implica direttamente la possibilità di comprare e vendere, ma è legato all’informazione e alla
comunicazione. Di fatto i siti che troviamo su internet non fanno altro che trasmettere informazioni ed
opinioni e spesso ci consentono di comunicare a nostra volta (forum community, mail…)

4.2 – La dimensione edonica ed utilitaristica del marketing

Il prodotto, nella sua relazione col cliente, non ha solo il ruolo di soddisfare un bisogno e quindi di avere
un’utilità o funzionalità. Sempre più in tempi moderni il bene è legato al cliente da una relazione anche
emotiva, questo è in sintesi il concetto di consumo edonico che si oppone a quello di consumo
utilitaristico.

Capitolo 8

Le operation sono tra le funzioni più importanti all’interno dell’impresa. Queste si occupano di trasformare
input in output e quindi della vera e propria produzione che ha un grande impatto sui costi aziendali.
1.1 – Partire dal cliente: la prospettiva next process as customer

Per garantire efficienza ed efficacia è necessario cambiare l’idea del cliente che non è più solo quello finale,
ma viene identificato nel processo che sta a valle nel processo produttivo (cliente interno). In questo modo
si è spinti a migliorarsi in quanto il proprio cliente (sentito più vicino) richiede: qualità, flessibilità, servizio,
rapidità, bassi costi e mantenimento delle promesse. È pressoché impossibile garantire tutte queste cose
contemporaneamente quindi bisognerà fare delle scelte in base anche alla strategia aziendale.

È molto importante anche il collegamento che le operation hanno con le altre funzioni dell’impresa dal
momento che il prodotto si forma qui. Occorre quindi che si sappia cosa il mercato richiede (marketing) e
che si informi la funzione approvvigionamenti se un componente risulta spesso difettoso

1.2 – L’impresa come produttrice di servizi

Se vediamo l’impresa come produttrice di servizi si possono distinguere i servizi centrali dai servizi a
valore aggiunto. I primi sono quelli che rispondono alle esigenze del cliente (qualità, rapidità, prezzo…) e i
secondi sono quelli che agevolano nell’utilizzo, sono questi quelli più difficili da imitare e che quindi
rientrano in una logica di differenziazione.

1.3 – Lo sviluppo di competenze attraverso le operation

Nelle operation è importantissimo l’utilizzo delle risorse e delle competenze, queste infatti vincolano le
possibili strategie in quanto se non si posseggono determinate risorse non sono attuabili alcune decisioni.
Per questo è molto importante sviluppare preventivamente risorse e competenze così da poter avere una
maggiore possibilità di scelta nel momento in cui si desidera cambiare rotta.

2.1 – La ricerca di efficienza: il fordismo e il taylorismo

Il fordismo si basa su: standardizzazione, integrazione verticale (per essere autonomi), economie di scala,
creazione di un mercato di consumatori (circolo virtuoso di prezzi, volumi e domanda), approccio
scientifico.

Il taylorismo è proprio il fondamento di questo approccio scientifico (analisi dei tempi e dei movimenti,
semplificazione di attività complesse in sottoattività semplici, conoscenze tecniche ed attitudini dei
lavoratori ben combinate).

Il fordismo porta il taylorismo in un impresa di grandi dimensioni in cui diventa necessario il controllo
(dunque la gerarchizzazione) e la progettazione di lungo periodo

2.2 – Il bisogno di varietà e flessibilità: l’avvento del post fordismo

Andando avanti negli anni il sistema fordista comincia ad entrare in crisi perché si ha una saturazione dei
mercati (a causa del continuo aumento dei volumi), conflittualità sociale (dovuta alla robotizzazione e alla
presenza di molti operai in una stessa azienda. Diventa evidente la necessità di avere volumi di produzione
flessibili e questo è reso possibile dalle emergenti tecniche di programmazione, dalle reti di
comunicazione, dalla globalizzazione (grazie ai trasporti).

Il post fordismo quindi è delineato dalle caratteristiche di adattamento, flessibilità (di prodotto e di
quantità), decentramento produttivo (outsourcing).
La globalizzazione crea una pressione competitiva altissima e la necessità di flessibilità svantaggia le
imprese di grandi dimensioni.

2.3 – La fabbrica focalizzata

È un idea che si basa sul fatto che nessun’impresa può saper fare tutto, per questo bisogna dividere i
processi produttivi dove questi riflettono strategie di posizionamento diverse o stadi della vita del
prodotto diversi.

2.4 – Il sistema di produzione di Toyota e l’affermazione di un nuovo paradigma della produzione

A partire dagli anni ’80 Toyota ha sviluppato il lean manufacturing (produzione snella), una strategia
operativa basata sulla riduzione degli sprechi che puntasse ad ottenere una maggiore qualità, una
riduzione dei costi e una grande varietà di prodotti. Si utilizzano per questo macchine general purpose che
vengono periodicamente controllate per evitare costosi fermi macchina. Inoltre si mira ad avere un
prodotto di qualità dall’inizio alla fine del processo produttivo, così da non aumentare i costi dovuti a
malfunzionamenti o ad intoppi durante la lavorazione.

Il lean manufacturing si basa su diversi principi: il just in time, il total quality management, il jidoka e
tecnologie flessibili di produzione.

Il just in time (JIT) ha già in se il cuore della strategia della lean:

ridurre gli sprechi di tempo, accelerare la produzione, migliorare la qualità così da ridurre i costi di
produzione, curare i rapporti coi fornitori per poter ottenere materie prime con puntualità e qualità.

uno strumento spesso utilizzato è il kamban ovvero un sistema informativo che permette di produrre nella
quantità richiesta e solo quando necessario.

Si è addirittura provato ad evolvere il JIT portando addirittura il fornitore all’interno dello stabilimento così
da approfondirne i rapporti e la collaborazione

3.1 – Una prima classificazione delle tipologie di processo produttivo

I processi produttivi possono essere make to order oppure make to stock. Nei primi si produce su
ordinazione e i tempi di attesa del prodotto si dilungano, mentre nei secondi si produce per il magazzino
(in questo modo si possono servire più rapidamente i clienti quando richiedono il prodotto). Ovviamente i
servizi non possono essere immagazzinati quindi un’impresa che vende servizi sarà certamente make to
order. Si possono anche tentare sistemi ibridi che prevedono un piccolo magazzino, così da poter servire
immediatamente il cliente, ma hanno una produzione veloce che va in base alle richieste.

I processi produttivi altrimenti possono essere divisi in monofase e multifase a seconda della complessità
del processo (due fasi solitamente sono divise da un accumulo di scorte e/o un collegamento).

Oppure possono essere cadenzati o non cadenzati in base alla regolarità dei tempi del processo. Infine si
dividono in sistemi per processo e per parti, a seconda della possibile scomposizione del prodotto nelle
sue componenti primarie.

3.2 – Il confronto tra processi


Possiamo individuare alcune tipologie di processo produttivo: job shop (lavoro artigianale su commessa), a
lotti, in linea, a flusso continuo (fortemente macchinizzato). Mano a mano che andiamo verso destra
aumenta il volume di produzione e l’efficienza, ma diminuisce la variabilità e la possibilità di innovazione.

3.3 – L’apprezzamento simultaneo di prodotto e processo ai fini della strategia

Nelle tipologie di processo le caratteristiche più rilevanti sono i volumi di produzione (inversamente
proporzionali alla quantità di tipologie di prodotti) e l’andamento dei flussi (più o meno continui ed
automatizzati). Il giusto connubio tra queste variabili sembra che le leghi in maniera direttamente
proporzionale: cioè se si vogliono avere grandi volumi di produzione occorrerà a vere flussi continui ed
automatizzati, mentre tutto ciò non sarà necessario se si vogliono avere piccoli volumi di produzione.

Avere grandi volumi di produzione si avvicina d una strategia di costo, mentre avere dei piccoli volumi
favorisce la personalizzazione, i tempi di consegna, la qualità (in pratica una strategia di differenziazione).

Se un impresa non rispetta questa linearità si trova in una posizione probabilmente pericolosa: se ad
esempio si ha una produttività bassa ma si vogliono usare flussi continui ed alta automazione si sta
rischiano di avere grosse spese per nulla dal momento che si produce poco! All’inverso avere alti volumi di
produzione con un lavoro manuale è una grande spesa!

Lo sviluppo delle nuove tecnologie sta però rendendo sempre più possibile la produzione di modeste
quantità attraverso processi a flusso elevato e ad alta automatizzazione (come avviene nella lean)

4.1 – I cinque principi “lean”

I 5 principi sono: value, value stream, flow, pull, perfection.

Bisogna capire cosa crea valore e pulire il flusso del valore dagli sprechi, attivare la produzione solo quando
si riceve un ordine e cercare sempre occasioni di miglioramento.

4.1 – Il primo principio: valore e muda (spreco)

Bisogna suddividere tutte le attività in quelle che aggiungono valore, i muda riducibili e i muda eliminabili.
Secondo la lean aggiungono valore al prodotto finale solo quelle operazioni che producono cambiamenti
fisici nel prodotto (forma, colore, assemblaggio, reazione chimica…) tutto il resto è spreco (muda). I muda
riducibili sono quegli sprechi legati ad attività di supporto ad attività di valore (es attrezzaggio macchinari). I
muda eliminabili sono invece quelli che proprio non aggiungono valore e vanno per l’appunto eliminati. I
muda riducibili spesso vengono trascurati perché ritenute operazioni necessarie, mentre per individuare le
attività di valore occorre conoscere bene i propri clienti ed i propri punti di forza.

Per cercare muda o attività che portano valore al prodotto finito, si possono analizzare 3 livelli: il ciclo di
lavoro e tutte le attività di trasformazione del prodotto, attività legate alla produzione ma non eseguite
direttamente sul prodotto e attività non legate alla produzione.

4.3 – Secondo e terzo principio: value stream e flow

Di solito si pensa al processo produttivo come ad un insieme di attività sulle quali si fanno miglioramenti
per migliorarne l’efficienza o l’efficacia. Il secondo principio value stream invece vuole guardare alla
produzione analizzando il flusso che caratterizza un prodotto. Analizzando questo flusso si vede dove il
prodotto acquista valore e dove invece ci sono degli sprechi. Bisogna quindi riprogettare il processo
produttivo quindi ridisegnare il flusso intervenendo sugli sprechi.
Il terzo principio flow vuole poi che questo flusso scorra continuamente e senza interruzioni. Si mette al
centro della riprogrammazione il flusso e non le numerose attività con la loro singola efficienza.

Un organizzazione a flussi ha tra i suoi obiettivi quello di ridurre il tempo di attraversamento. Questo
rende più reattivi ai cambiamenti interni ed esterni, permette di accorgersi subito di errori e
malfunzionamenti (che verrebbero nascosti o prolungati nel caso si accumulassero delle scorte). Infine
avere una produzione snella favorisce l’approccio make to order (pull).

Per far diminuire il lead time si può:

• Creare celle di lavoro così da avvicinare e “mettere in fila” le attività legate ad un prodotto
• Aumentare l’affidabilità delle macchine (i guasti bloccano tutto, si fanno sentire di più)
• Si riducono i lotti di produzione (bisogna quindi risolvere il problema dei tempi di attrezzaggio)
• Si bilancia il flusso, cioè si fa in modo che i tempi lungo il processo siano sincronizzati
• Laddove è impossibile eliminare la presenza di scorte queste vengono comunque monitorate

4.4 – Quarto principio: pull

Le sovrapproduzioni sono viste come grossissimi sprechi perché costa anche smaltire il prodotto in
eccesso. Per questo il principio pull dice che deve essere il cliente che con l’elaborazione di un ordine avvia
il processo produttivo (è la domanda che tira pull). Solitamente questo non avviene perché prima si
produce e poi si vende (la produzione spinge push la vendita). Detto ciò non significa che il cliente deve per
forza aspettare che il prodotto venga elaborato e finito, ci sono dei supermarket (magazzino prodotti finiti)
che contengono modeste quantità di prodotto teoricamente sufficienti per far fronte alle normali vendite.
C’è poi chi non ha nemmeno questi piccoli magazzini prodotti finiti e approccia quindi una logica di just in
sequence (qui il cliente deve davvero attendere che il suo prodotto venga processato)

4.5 – Quinto principio: perfection

Ora che si è pulito il flusso da ciò che non da valore apparirà ancora meglio dove ci sono ulteriori sprechi:
ovunque si interrompe il flusso ci sarà un problema da risolvere che permetterà un miglioramento
continuo

5 – L’impatto della lean sulla gestione delle risorse umane

Ci soffermeremo su 3 aspetti: organizzazione, evoluzione della professionalità e gestione del


cambiamento

5.1 – Dall’enfasi sulla funzione all’enfasi sul flusso delle attività

I principi dell’approccio lean possono essere applicati anche alle altre funzioni aziendali (marketing,
approvvigionamenti…). Bisogna però passare da un’ottica di funzioni ad un’ottica orientata ai flussi di
attività così da poter accelerare i tempi di risposta alle esigenze dei clienti.

5.2 – L’evoluzione delle professionalità in un’organizzazione orientata ai flussi

Avendo un approccio di tipo lean bisogna modificare la gestione delle risorse umane. Infatti passando ad
una logica a flussi si stravolgono le vecchie posizioni legate magari più alla specializzazione, ora invece
bisogna saper osservare tutto il flusso di produzione quindi bisogna avere competenze trasversali o
allargate. Inoltre si fa carriera non più aumentando il numero di sottoposti, ma acquisendo responsabilità e
imparando a gestire situazioni sempre più complesse. Va perciò riprogrammato il sistema di incentivi e
promozioni.

5.3 – La gestione del cambiamento: l’innovazione e il kaizen

Le cose non sono mai ferme, ci sono sempre delle modifiche da fare, necessarie o no (le macchine
invecchiano, i dipendenti cambiano…). I cambiamenti dunque sono inevitabili e solitamente sono di due
tipi: innovazione o kaizen. La prima richiede grandi somme di denaro e si concretizza in cambiamenti
radicali (es si modernizza un impianto), il secondo consiste in un continuo cambiamento che si concretizza
attraverso tanti piccoli miglioramenti.

Periodicamente si fanno team di composizione eterogenea guidati da un team manager che ricercano e
progettano cambiamenti da adottare. In questi gruppi eterogenei sono importantissimi gli operai perché
sono coloro che sono più vicini all’area di innovazione e che dopo il progetto rimarranno per portarlo
avanti con motivazione. La progettazione del kaizen deve essere seguita ma non deve essere imposta,
altrimenti si otterrebbe solo uno scoraggiamento da parte dei dipendenti.

6 – Il total quality management (TQM)

È l’insieme delle azioni che permette ad un impresa di eccellere negli attributi che il cliente ritiene
importanti relativamente al prodotto e al servizio. Migliorare la qualità permette di aumentare i prezzi o
ottenere una maggiore quota di mercato e, contemporaneamente, permette di abbassare quei costi di
produzione legati alle rilavorazioni. Per questo puntare sulla qualità può rivelarsi un ottima strategia per
quanto riguarda il fatturato, il ROI, la soddisfazione dei clienti, la profittabilità.

6.1 – Le dimensioni della qualità

La qualità ha molte facce, ha più dimensioni. Per esempio quella dei fornitori, dei clienti, della
progettazione, della funzionalità, dei processi di trasformazione… Bisogna quindi tenere sempre conti di
questa multidimensionalità e cercare di sfruttarla al massimo in tutte le direzioni

6.2 – I principali contributi

La qualità è stata definita in tanti modi, ma certamente occorre:

un miglioramento continuo, una cultura comune di ricerca di qualità, coinvolgimento della forza lavoro,
orientamento al cliente e coesione di tutta l’impresa.

Grande importanza viene data alla progettazione in cui risiede il cuore del prodotto, alla funzionalità che
questo deve avere e al fatto che deve essere esente da difetti. Inoltre è importante il controllo per potersi
migliorare continuamente e si ribadisce che la scarsa qualità è associata a costi di produzione.

6.3 – La contrapposizione tra il TQM e la logica fordista

Ovviamente la logica fordista è una logica push e che controlla la qualità dopo il processo prodittivo,
mentre il TQM prevede che efficienza e qualità siano sviluppate assieme in quanto correlate. I punti di vista
sono differenti anche riguardo ai lavoratori: i fordisti li vedono come “macchine”, mentre nel TQM sono
visti come i detentori di competenze importanti per l’azienda e si promuove al collaborazione per
implementare queste ricerche.

6.4 – I costi della non qualità


Si suddividono in:

• Costi per fallimenti interni (rilavorazioni, riparazioni, guasti..)


• Costi per fallimenti esterni (i guasti avvengono dopo la vendita..)
• Costi di rilevazione (controlli di qualità)
• Costi di prevenzione (servono per evitare i precedenti, formazione personale, manutenzione
preventiva…)

Una discussione nasce invece sul numero ottimale di difetti: c’è chi sostiene che questo numero sia zero, e
chi invece che questo numero sia basso ma non nullo. La motivazione che distingue le tue tipologie di
pensiero è che la seconda (quella detta “tradizionale”) ritiene che sia più difficile trovare gli errori quando
questi sono pochi, perciò diventa sconveniente individuarli ed eliminarli quando sono sufficientemente
bassi.

6.5 – TQM e BPR (business process reengineering)

Il BPR è quell’insieme di attività che si pongono l’obiettivo di migliorare radicalmente I processi aziendali.
La differenza sostanziale con TQM, che è ugualmente orientato al miglioramento e al soddisfacimento del
cliente, è la frequenza e l’importanza dei miglioramenti. In parole povere il TQM sembra più affine ad una
logica di kaizen mentre il BPR ad una di innovazione.

Il BPR si avvale di una sequaza di punti: sviluppare il business, identificare i processi da modificare,
individuare costi e risultati dei processi, capire dove l’innovazione tecnologica può portare a rilevanti
miglioramenti ed infine progettare il nuovo processo

7 – La gestione delle scorte

Le scorte possono esser di vario tipo (materie prime, semilavorati, prodotti finiti). Nella lean queste
rappresentano dei malfunzionamenti perché dovute al flusso che non scorre adeguatamente. Le
metodologie di gestione delle scorte sono essenzialmente di 2 tipi: legate al fabbisogno o slegate dal
fabbisogno.

7.1 – Metodi a fabbisogno (o a previsione di consumo)

Si basano su una logica pull, in pratica si emana un ordine solo quando ci sarà effettivamente bisogno delle
materie che si stanno acquistando (ovvio non vuol dire che uno debba prima rimanere senza).

Material requirement planning (MRP): in base al tanti fattori come il lead time, le scorte di sicurezza
progettate e altri fattori si stabilisce quando deve essere emanato un ordine di acquisto (si fa una
previsione che può essere sbagliata che i dati di input sono errati o troppo diversi da quelli reali). È
considerato un metodo push in quanto si fa una previsione che non dipende direttamente dal ciliente

Just in sequence (JIS): si basa su una logica a flussi e ha come obiettivo quello di fornire le scorte in modo
che vadano di pari passo col flusso. Se il flusso è tirato dal cliente allora lo è anche questa tecnica (pull).
Con questa tecnica si possono però gestire solo flussi secondari ed è importantissimo rispettare il FIFO

7.2 – Metodo a quantità fissa

Attraverso una serie di calcoli complessi si arriva a determinare una quantità minima di risorse sotto la
quale viene emanato l’ordine di acquisto. La quantità di acquisto e la soglia minima vengono calcolate in
modo da minimizzare i costi totali delle scorte (considerati come la somma del costo di emissione e dei
costi di mantenimento). Un ruolo importante è dato anche dal lead time tra l’emissione dell’ordine e
l’arrivo della merce. Nonostante la base matematica questo metodo non viene molto utilizzato se non
come punto di riferimento per sviluppare altre tecniche.

7.3 – Metodi a tempo fisso

Si ordina periodicamente variando la quantità richiesta ogni volta. Questo richiede di sapere quanto si è
consumato di ogni materiale da acquistare, ed inoltre occorre avere più scorte perché il rifornimento
avverrà dopo un lasso di tempo ben preciso e le scorte non saranno sempre monitorate come nel metodo
a quantità fissa.

7.4 – Altri metodi di gestione delle scorte

Il kanban è un sistema di gestione delle scorte che si avvale di cartellini che segnalano la necessità delle
scorte. Solitamente è un metodo che prevede una quantità fissa molto bassa e permette quindi di
eliminare la presenza di scorte nell’area di produzione. Si può sennò avere una logica a tempo fisso
(durante il tempo di rifornimento si genera la necessità di nuove scorte).

Il consignment stock prevede che i fornitori abbiano un magazzino vicino all’area di produzione. I fornitori
gestiscono le scorte del magazzino (l’impresa cliente da informazioni riguardanti le previsioni di utilizzo), e
la produzione si rifornisce in maniera autonoma pagando solo ciò che utilizza.

In base alle caratteristiche del processo produttivo e del prodotto è più corretto adottare una tecnica
oppure un'altra. Se un componente non è costo o comunque non incide sul fatturato allora conviene
adottare una logica di MRP, mentre se viene utilizzato molto di frequente ed è importante come
componente per il prodotto finale allora è più giusta l’applicazione di un metodo kanban o JIS

Capitolo 9

1.1 –Il processo di acquisto

Nel processo di acquisto ci sono alcune attività sourcing che volgono all’identificare il prodotto e al come
reperirlo (definizione delle specifiche, ricerca e selezione, negoziazione), ed altre attività supply che sono
più operative e volgono al come ottenere un rifornimento (elaborazione dell’ordine, spedizione,
valutazione). Ovviamente prima di tutto il processo di acquisto ci deve essere la percezione del bisogno e
alla fine c’è la valutazione del prodotto acquistato.

Percezione del bisogno: questa avviene quando si progetta un nuovo prodotto o si vuole cambiare
qualcosa, difatti in una situazione di “regime” i rifornimenti avvengono in maniera molto semplificata
procedendo direttamente alla fase di ordine dal momento che il fornitore e il prodotto sono già stati
determinati precedentemente.

La definizione delle specifiche: questo processo richiede il confronto con la funzione aziendale
direttamente interessata all’acquisto (molto probabilmente le operation). Ci si mette d’accordo per
determinare quali siano gli standard di qualità, le caratteristiche essenziali e non del prodotto. Questa fase
deve essere eseguita con precisione ed equilibrio (non si devono dare poche informazioni altrimenti si
acquista un prodotto sbagliato, ma non si può nemmeno definire già dove si dovrà comprare il materiale
impedendo che l’approvvigionatore valuti alternative che potrebbero essere migliori). Se si necessita di
una progettazione anche esterna allora in questa fase si coinvolge già il fornitore stesso (detiene le
maggiori conoscenze sul prodotto da realizzare dato che deve farlo lui). Infine, ma forse di maggiore
importanza, è la determinazione delle quantità, del prezzo indicativo e dei servizi associati.

La ricerca e la selezione: prima si guarda ai fornitori con cui si è già in relazione dal momento che
cominciare una nuova relazione è un consumo di risorse. Se è necessario ricercare un nuovo fornitore
allora si crea una lista di possibili fornitori e si manda loro una richiesta di offerta dove si chiede di
presentare il prodotto con le caratteristiche richieste dall’acquirente (bisogna qui cercare di rendere le
offerte confrontabili e dettagliate al punto giusto). Dopo aver ricevuto la risposta dei pretendenti fornitori
si analizzano le offerte. È utile considerare non solo il prezzo ma il total costo f ownership, un metodo che
si pone l’obiettivo di considerare nel prezzo anche tutti quei costi relativi alla qualità, alla finanza e alla
logistica. Bisogna ora decidere se selezionare un solo fornitore o alcuni. Avere più fornitori è un rischio
minore perché fa dipendere meno dal’esterno, mette a disposizione più conoscenze, da un vantaggio in
fase di negoziazione, garantisce maggiore flessibilità. Mentre avere un unico fornitore favorisce la
creazione di una relazione di partnership, la motivazione del il fornitore, l’attuazione di economie di scala.
Ad ogni modo tutte le volte che si trova un nuovo fornitore si prendono informazioni sull’esterno e si
possono dare obiettivi sfidanti ai fornitori con cui si hanno già rapporti

La negoziazione: qui si devono decidere tutte le caratteristiche riguardanti lo scambio. In primo luogo il
prezzo che può essere definito in maniera predeterminata o calcolato in base ai costi (questo caso vede le
due imprese più legate tra loro e la possibilità di avere prezzi variabili ed eventualmente flessibili). Bisogna
poi decidere le modalità di pagamento, eventuali periodicità di cambio prezzi, sconti praticabili e penali
per disservizi. Poi bisogna anche verificare e ridefinire la qualità che già in fase di progettazione il buyer
aveva inquadrato, ora può essere rivista alla luce delle competenze del fornitore. Questa parte poi porta
con se le decisioni riguardante i controlli, i resi e gli scarti, la garanzia, i servizi. Infine c’è tutta una parte di
decisioni riguardanti programmazione e logistica (lead time di rifornimento, chi si occupa della logistica,
frequenza delle consegne, modalità di gestione delle scorte, lotti minimi trasportati). Grossa importanza in
questa terza area la detengono gli accordi riguardanti gli imballaggi, i tipi di trasporto e di consegna
(sembrano marginali ma nei processi produttivi possono presentare grossi impedimenti o vantaggi).

Nel caso di acquisti complessi che prevedono una grossa collaborazione tra le parti e lo sviluppo di nuove
tecnologie diventa necessario stabilire anche come “spartirsi” la tecnologia sviluppata, il supporto tecnico
e altre modalita di collaborazione. In tutti i casi, specialmente in questi ultimi, la negoziazione non si deve
presentare come uno scontro tra le parti, ma si deve instaurare reciproca fiducia.

L’ordine: solitamente sono fatti in maniera standardizzata dalle imprese, ma possono essere molto
differenti. Solitamente sono scritti, ma possono anche essere verbali. Solitamente sono fatti da un apposito
organo dell’impresa, ma talvolta possono essere fatti direttamente dalla funzione utilizzatrice. Solitamente
si prevedono o importi o tempi fissi, ma in situazioni particolari possono variare molto sia le quantità che i
tempi (questo dipende molto dalla gestione delle scorte del cliente). In pratica possono essere di vario
tipo.

La spedizione: entrano qui in vigore gli accordi presi in fase di negoziazione. Per le imprese per cui la
puntualità è determinante per il processo produttivo, ci possono essere controlli e condivisione di
informazioni riguardo lo stato delle merci o addirittura ci possono essere degli ispettori inviati apposta per
far si che i tempi vengano rispettati.

La valutazione: la valutazione viene fatta su diversi livelli.


Un primo livello è quello delle capacità operative che riguardano la qualità del prodotto, la puntualità
(sono negativi sia i ritardi che gli anticipi), l’assistenza post vendita, la collaborazione, i contributi
progettuali, la reazione tempestiva in caso di emergenze…

Un secondo livello è quello dei fattori economico-finanziari primo fra tutti il prezzo (una cui caratteristica
importante è anche l’oscillazione). Ma non sono affatto da trascurare le dilazioni di pagamento ai fini dei
finanziamenti dell’impresa.

Il terzo livello (anche se si applica alle relazioni stabili e di collaborazione più stretta) riguarda le possibilità
di sviluppo, difatti in un ambiente altamente tecnologico è importante che il fornitore segua le innovazioni,
altrimenti occorrerà cambiare fornitore in seguito. Oltre all’aspetto tecnologico c’è anche quello
dimensionale (legato ai volumi di produzione)

Le azioni correttive: possono riguardare l’area tecnico qualitativa o quella organizzativo informativa. Nel
primo caso si trasferiscono conoscenze tecniche e talvolta si supporta pure il miglioramento, nel secondo
spesso si tratta di rendere omogenei i processi o il metodo di comunicazione, così da allineare le imprese

1.2 – I potenziali contributi e le competenze necessarie nella funzione

La funzione approvvigionamento porta molti vantaggi concreti: contenimento dei costi (economie di scala,
selezione del fornitore), riduzione del capitale investito (con dilazioni di pagamento) e miglioramento del
livello di servizio per il cliente (puntualità, qualità materiali)

Questa funzione è una di quelle che entra più in contatto con le altre (operation, finanza…) e per questo il
ruolo dell’approvvigionatore deve essere svolto da chi ha competenze multiple (commerciali, tecniche,
legali, logistiche, amministrative e manageriali)

2.1 – L’eterogeneità dei rifornimenti e l’esigenza di linee guida

Si possono acquistare sul mercato diverse tipologie di beni: materie prime, semilavorati, componenti,
prodotti finiti, materiali ausiliari (non fanno parte del prodotto,es lubrificante), materiali per riparazioni e
manutenzione, servizi (spesso con impatto competitivo modesto, es pulizie)

2.2 – I dati strutturali e di contesto che influenzano le politiche di approvvigionamento

Le attività di approvvigionamento si svolgono in maniera diversa a seconda di:

• Dipendenza dall’esterno dell’impresa: se fa molto ricorso al mercato sicuramente sarà più incline a
sviluppare molto questa funzione, se invece è abbastanza autonoma probabilmente la funzione
approvvigionamenti non è nemmeno prevista.
• Dimensioni dell’impresa: se un impresa è grande ha più canali di accesso (per esempio può
importare direttamente), inoltre le aziende più grandi hanno più esperienza e più informazioni
rispetto alle piccole.
• Settore dell’impresa: questo influenza la strategia competitiva dell’impresa e quindi si riflette sulle
tattiche di approvvigionamento (si può puntare sulla qualità o se si producono commodities si
punta al prezzo)
• Settore del fornitore: in particolare la concentrazione dell’offerta (numero di fornitori), ritmo di
innovazione del settore (se è alta occorre trovare un fornitore affidabile sempre al passo coi tempi),
localizzazione dei fornitori (se sono in stati diversi oltre alla distanza ci possono essere problemi
legali o legati all’instabilità dei paesi in via di sviluppo).
2.3 – Le caratteristiche del prodotto e gli approcci al mercato di rifornimento

Possiamo determinare 4 tipologie di approccio in base a valore di acquisto del prodotto e alla richiesta di
differenziazione (ovvero distinzione tra commodities e specialities).

• E-purchasing: sono commodities a basso valore di acquisto, qui si compra su internet e si allarga la
base dei fornitori, non si investono risorse per il prodotto perche costa poco e non è importante
• Tradizionale: sono specialities a basso valore di acquisto, anche qui non siamo interessati a
scegliere bene il prodotto visto il poco interesse economico
• Alleanze: sono commodities ad alto valore di acquisto, comincia a diventare interessante un
approccio più studiato (si possono così risparmiare più soldi di quanti se ne spendono nel processo
di approvvigionamento). Per spuntare un prezzo migliore si possono fare alleanze con altre imprese
• Co-design: sono specialities ad alto valore di acquisto, qui l’interesse è centrale sicuramente conta
molto la scelta del prodotto che va ben curata spesso coinvolgendo il fornitore stesso e creando
partnership.

2.4 – La costruzione del portafoglio degli acquisti e le politiche di approvvigionamento

Per classificare gli acquisti si può anche seguire la matrice di Kraljic, le due variabili stavolta sono
importanza (ovvero se l’acquisto influisce sulla redditività dell’azienda o per i costi o per la sua forte
componente di differenziazione) e rischiosità (che indica quanto è forte il potere contrattuale del
fornitore). Avremo quindi una distinzione degli acquisti in:

• Strategici: alta importanza e alta rischiosità. Si realizzano alleanze stabili col fornitore dopo averlo
accuratamente selezionato esaminando tutte le alternative.
• Colli di bottiglia: bassa importanza e alta rischiosità. Si attivano tutti i fornitori del mercato, così da
essere sicuri di sapere sempre dove trovare questo bene rischioso. Si fanno scorte per sicurezza
• Effetto leva: alta importanza e bassa rischiosità. È qui che bisogna risparmiare si fa leva sul potere
contrattuale analizzando comunque bene il fornitore e il prodotto acquistato.
• Non critici: bassa importanza e bassa rischiosità. Si cerca di fare leva sul potere d’acquisto e portare
a casa un prodotto di media qualità che non crei malfunzionamenti.

2.5 – L’influenza del ciclo di vita del prodotto

Abbiamo usato il ciclo di vita del prodotto per spiegare i diversi approcci di marketing per ogni fase. Ora
vediamo come queste fasi influenzino anche la funzione approvvigionamenti. Prima ancora
dell’introduzione abbiamo la progettazione, qui si provano a progettare al meglio quindi si ricerca co-
design col fornitore. In fase di introduzione si cerca flessibilità per il perfezionamento del prodotto, quindi
anche qui sarà importante collaborare coi fornitori. Nella fase di sviluppo la flessibilità richiesta si sposta
sui volumi, quindi probabilmente si farà ricorso a più di un fornitore. In fase di maturità l’importante è
abbattere i costi facendo leva sui grandi volumi e sul miglioramento dei processi (la puntualità diventa
importante come un buon rapporto col fornitore). In fase di declino occorre stare molto attenti ai prezzi
per evitare che i costi superino i ricavi, si diminuiscono le scorte e il volume degli ordini.

2.6 – La ricerca di forme di collaborazione coi fornitori

Tempo fa si guardava al rapporto col fornitore come ad un rapporto occasionale, legato alla singola
transazione. Oggi invece si cercano forme di collaborazione che possono essere più o meno sviluppate.
Oltre al prezzo quindi si terrà molto conto anche della qualità e delle tempistiche. Si può dire che lo
sviluppo di una partnership procede per fari step (si richiedono al fornitore sempre competenze più
complesse): capacità di miglioramento, sviluppo tecnologico, collaborazione a progetti, allineamento
culturale. Questi step sono incrementali, ma non si deve per forza arrivare all’ultimo prima o poi, infatti ci
possono essere fornitori a cui si richiede solo innovazione e tecnologia senza la necessità della co-
progettazione.

2.7 – L’evoluzione organizzativa della funzione approvvigionamenti

La funzione approvvigionamenti può essere svolta a vari livelli di organizzazione. Noi ne evidenziamo 3;
visione funzionale, visione interfunzionale, visione sistemica. La prima è orientata al rifornimento (con
tutti gli aspetti tecnici ed operativi che comporta), poi può evolvere anche in una logica più commerciale
(ricerche di mercato, contrattazione..). La seconda vede interagire la funzione approvvigionamenti con le
altre, quindi sarà molto importante la collaborazione in un ottica di ottimizzazione congiunta. La terza
prevede di considerare nel complessivo le competenze delle imprese e incorporarle con secondo la propria
strategia aziendale. È qui che nascono più facilmente le partnership (che gli approvvigionatori devono
gestire) in un orientamento volto al creare valore per il cliente.

2.8 – Le linee guida del cambiamento

L’evoluzione che si ha in tempi moderni della funzione approvvigionamento si può realizzare seguendo le
seguenti linee guida:

1. Decidere cosa svolgere internamente e cosa esternamente (all’interno si tiene ciò che da vantaggio)
2. Orientare le politiche di approvvigionamento (cosa è rischioso, cosa influisce sul fatturato…)
3. Definire le strategie di approvvigionamento (con quanti fornitori mi relaziono, quali obiettivi ho…)
4. Determinare attraverso quali benchmark si giudicano e si selezionano i fornitori
5. Determinare con quali fornitori si vuole sviluppare una collaborazione e a che livello
6. Coi fornitori prescelti instaurare una partnership fino all’integrazione delle culture aziendali
7. Sviluppare un processo di crescita comune e continuo miglioramento (mantenere i rapporti)

3 – Gli elementi emergenti e il loro impatto

Negli ultimi anni sono cambiati alcuni fattori (mercati instabili, più assortimento, flessibilità, innovazione…)
perciò ci si è avvicinati più all’ esternalizzazione delle attività non core e al mantenimento solo di quelle
funzioni caratteristiche che aggiungono valore per il cliente. Perciò si è registrato un aumento delle spese
sugli acquisti sul fatturato. La funzione approvvigionamenti per questo ha acquisito ancora più importanza.

La conseguenza è che si sono incentivate le collaborazioni e gli approccio agli acquisti che guardano al
medio/lungo periodo oltre che al breve. Difatti dalla collaborazione si possono ottenere vantaggi operativi
(che danno risultati nel breve periodo) e vantaggi legati all’allargamento delle competenze, al supporto
dato dai fornitori… Oltre ai vantaggi questo ha portato anche a più rigidità e a spendere energie per
coltivare un rapporto di fiducia.

3.2 – L’internazionalizzazione delle fonti di rifornimento

Grazie alle information tecnologies, ai trasporti moderni e a causa all’aumento della competitività spesso le
aziende moderne si approvvigionano da mercati anche molto distanti dalla loro area geografica di
collocamento. Ultimamente gli ostacoli si sono ridotti molto e non solo le grandi ma anche le piccole
imprese hanno cominciato ad avere rapporti internazionali. Le piccole imprese sono spinte da una
riduzione dei costi, le grandi prima facevano affidamento a mediatori, poi mano a mano (prima
occasionalmente poi in maniera frequente) hanno cominciato ad avere rapporti diretti, fino ad avere un
sistema di rifornimento stabile ed integrato (non come le partnership locali ma verso quella direzione).

Ci possono essere anche molti svantaggi legati all’approvvigionamento internazionale: la fluttuazione dei
cambi, i problemi politici, problemi di comunicazione, grandi costi di relazione e il coordinamento logistico.
Quindi un approccio internazionale richiede un allocazione di risorse ingente , perciò se da un lato il prezzo
di listino è molto conveniente, parlando in termini di total cost of ownership il divario si abbassa molto.
Non è quindi infrequente mantenere rapporti con collaboratori locali.

3.3 – Lo sviluppo delle tecnologie ICT

Lo sviluppo delle Information and comunication tecnologies ha portato a immensi vantaggi che sono
visibili in ogni fase dell’approvvigionamento

Manifestazione del fabbisogno: soprattutto per i rifornimenti ripetiti o comunque già regolati da un
contratto il sistema informatico può identificare ciò di cui si necessita in base a ciò che si è utilizzato

Definizione delle specifiche: grazie ai sistemi CAD e CAM si possono fare progetti virtuali condivisibili
praticamente in tempo reale, inoltre con questi si è uniformato il “linguaggio di progettazione”. Inoltre ci
sono anche applicativi che permettono di simulare il funzionamento (così da risparmiare sui prototipi)

Ricerca di fornitori: si possono ora mantenere l’elenco dei fornitori e delle loro caratteristiche in via
informatica (condivisibile e molto più rapido che il cartaceo). Si può gestire automaticamente l’invio di
richieste e la valutazione delle stesse (facendo elaborare al computer KPI prestabiliti). I motori di ricerca e
internet inoltre hanno reso possibile entra in contatto molto più facilmente con nuovi fornitori.

Negoziazione: le informazioni reperibili su internet sono di grosso aiuto all’approvvigionatore che così
accresce il suo potere contrattuale (non essendo più uno sprovveduto). Nella definizione del contratto
inoltre si possono simulare le variazioni di contratto con software in questo modo si gioca più a “carte
scoperte” col fornitore.

Emissione degli ordini: possono essere elaborati in automatico e solitamente per la gestione del magazzino
si utilizzano codici a barre o i moderni RFID per segnalare cosa e quando viene spedito

Spedizione: si possono seguire meglio le fasi di consegna tracciando la merce e condividendo col
cliente/fornitore l’informazione

Valutazione: sono molte le informazioni che occorrono per valutare un fornitore e possono essere
registrate (ed elaborate per essere rese più esplicative) attraverso sistemi informatici. Inoltre si può
monitorare sempre così da vedere gli effetti degli interventi correttivi.

Sono nati poi i software gestionali ERP (Enterprise resource planning). Questi software raccolgono tutte le
informazioni relative alle risorse (e non solo) e le condividono con tutta l’impresa (si favorisce il
collegamento tra le funzioni e la cooperazione interna).

Altri grandi vantaggi sono dati dall’utilizzo di internet che causano grandi variazioni nelle modalità di
interazione. Si dividono in 2 categorie i processi aziendali supportati da queste tecnologie:
1. E-procurement: che supportano la ricerca dei fornitori e la gestione degli acuisti. Al suo interno
troviamo e-sourcing (legati alla ricerca e selezione dei fornitori) e e-catalog (basati sui cataloghi on
line)
2. E-supply chain: supportano tutti i passaggi della relazione fornitore-cliente automatizzando il ciclo
ordine, consegna, fatturazione e facilitando le attività di collaborazione. Al suo interno troviamo e-
supply execution (legati a tutte le questioni operative, qualitative, logistiche…) ed e-supply
collaboration (legati a tutte quelle attività di collaborazione stretta come il co-design).
Se ben utilizzati questi processi portano alla riduzione delle scorte, abbattimento tempi di risposta
agli ordini, contenimento dei tempi di sviluppo, incremento del servizio.

L’utilizzo di internet snellisce i rapporti favorendo quelli occasionali e consentendo una grande
condivisione di informazioni nei rapporti collaborativi. Riduce inoltre alcuni costi di processo perché
automatizza.

Si sono inoltre formate molte aste on-line e strumenti RFX che si dividono in: RFI (request for information)
si richiedono informazioni ai fornitori, RFP (proposal) si richiedono soluzioni tecniche, RFQ (quote) si
richiedono preventivi. A questo si aggiungono i marketplace virtuali dove si incontra domanda ed offerta.

C’è però da dire che negli acquisti di grande importanza internet passa in secondo piano come strumento
di supporto, difatti dove è necessario capirsi bene lo scambio di informazioni non può limitarsi all’utilizzo
del web, ma deve essere affiancato dalla creazione di una relazione.

Capitolo 10

1 – Gli ambiti della finanza aziendale

La finanza copre tante aree di attività

Decisioni di investimento: gli investimenti possono riguardare tutte le aree aziendali e l’obiettivo è creare
valore per l’azionista

Decisioni di finanziamento: deve bilanciare le fonti di finanziamento tra debito e capitale proprio. Poi
bisogna anche vedere nello specifico quali debiti accollarsi o come aumentare il capitale proprio

Pianificazione finanziaria: attraverso i budjet si prevedono carenze o eccedenze di denaro e si decide come
farvi fronte

Finanza straordinaria: talvolta gli obiettivi di budjet non vengono raggiunti quindi ci si ritrova con più
denaro del previsto (che quindi va investito) o con meno (quindi bisogna cercare finanziamenti)

Gestione della liquidità: si cerca di prevedere i flussi di cassa e far si che la liquidità non sia mai troppa o
troppo poca

Gestione dei rischi finanziari: bisogna assumersi dei rischi ma tenerli sempre sotto controllo, ci sono
strumenti che permettono di valutare il rischio e tenerlo monitorato

Corporate governance: si supportano le decisioni della direzione e si possono sviluppare: incentivi per
allineare l’interesse dei manager con quelli degli azionisti (es stock option) e/o sistemi di controllo

Ribadiamo che l’obiettivo della funzione finanziaria è quello di massimizzare il valore degli azionisti
2 – Le decisioni di investimento

Dal momento che quando si investe lo si fa aspettandosi un tasso di rendimento, quindi si vuole ricevere
più di quanto si è investito. Per valutare gli investimenti si attualizza il valore netto dei flussi di cassa futuri
(un po’ come si è già visto nel capitolo 2).

2.1 – Le radici del VAN: Elementi di matematica finanziaria

Come abbiamo già visto Cn = C0 (1+r), questa formula ci permette di sapere quanto varrà tra n anni una
somma C0 che si possiede nel presente. Il VAN (valore attuale netto) si ottiene però attualizzando i flussi di
cassa futuri (fa in pratica il ragionamento opposto di quello spiegato con la formula). Perciò l’operazione
che dovremo fare diventa:

VAN= - I0 + …… I0=investimento

I dati importanti da conoscere per poter utilizzare questo strumento sono i valori dei flussi di cassa di tutti
gli anni che si possono stimare come vedremo in seguito

Potremmo trovarci nel caso in cui riceviamo una vendita perpetua, beh questa, se attualizzata tende ad un
numero finito perché andando molto avanti negli anni la somma attualizzata diventa pressoché nulla.
Questo numero finito si calcola così: VA = FC/r.

Però può anche essere una cifra che aumenta periodicamente, in tal caso si calcola con la seguente
formula: VA = FC/(r-g)

2.2 – Il VAN come valutazione per i progetti di investimento

Prevedendo i flussi di cassa generati da un investimento di cui si conoscono le spese e conoscendo il costo
opportunità del capitale (r) si può valutare quanto un investimento crei valore.

2.3 – La determinazione dei flussi di cassa

Bisogna però sapersi calcolare i flussi di cassa futuri per poter calcolare il VAN. Si parte da un conto
economico in logica differenziale. Poi, dopo aver calcolato le tasse, si raggiungono gli ammortamenti e le
variazioni del capitale circolante netto (incassi ed esborsi anticipati/posticipati e valore di magazzino) così
da ragionare in logica di flussi di cassa e non di costi e ricavi.

2.4 – Principali accorgimenti per evitare gli errori più comuni

Spesso si considerano i costi sommersi (costi già sostenuti prima di valutare il progetto). Questi costi sono
inevitabili e già avvenuti quindi non vanno considerati. Altre volte si considerano costi comuni ovvero costi
che ci sarebbero stati in ogni caso anche se l’investimento non fosse stato attuato. Poi ci sono invece i costi
opportunità che vanno considerati (sono quei costi o ricavi che si rendono possibili in quanto viene liberata
una risorsa o viene occupata, quella risorsa potrebbe essere impiegata o se viene liberata allora può essere
impiegata, questo genera costi e ricavi differenziali)

Un altro errore sta nel considerare l’inflazione, bisogna in questo caso fare una scelta, o la si considera (sia
per calcolare i flussi di cassa sia per calcolare il costo opportunità del capitale) o non la si considera affatto.
L’errore quindi si ha solo quando la si considera solo in uno dei due calcoli (flussi di cassa e WACC). Un
errore tipico è quello di includere gli interessi passivi nei flussi di cassa (questi sono già considerati nel
costo opportunità del capitale). Infine bisogna ricordarsi, spesso ci si dimentica, di far rientrare il capitale
circolante nell’ultimo anno preso in considerazione (si pagano i debiti e si incassano i crediti, e il magazzino
viene liquidato).

2.5 – La determinazione del costo medio ponderato del capitale

WACC = [Re E + Rd(1-Tc) D]/(D+E)

La formula è proprio una media ponderata sulle forme di finanziamento dell’impresa debito (D) e equity
(E). Re ed Rd sono il costo del capitale netto e il costo del debito.

Re =Rf + β(Rm-Rf)

Il costo del CN viene calcolato partendo dal rendimento di investimenti privi di rischio (Rf), questi
investimenti sono per esempio i titoli di stato. E un parametro beta (β) che dipende dal settore di
riferimento e viene calcolato da riviste ed enti operanti nel mercato. Questo parametro è moltiplicato per
la differenza tra il rendimento di mercato e il rendimento a rischio nullo.

Il costo del debito viene calcolato in base a come è strutturato il debito, questo però va “scontato”. Infatti
sappiamo che “indebitarsi è bello” deducendo gli oneri fiscali prima di calcolare le tasse in conto
economico si ha un’ abbassamento finale delle imposte. Dobbiamo perciò scontare il costo del debito con
quale proporzione di tasse ci fa risparmiare.

2.6 – Il VAN e il tasso interno di rendimento (TIR)

Il TIR è quel WACC o costo opportunità del capitale che annulla il VAN. Quindi per calcolare il TIR occorre
prima aver calcolato il VAN. Se il TIR è più alto del WACC allora il VAN sarà positivo quindi l’investimento è
conveniente. Però il TIR non si presta molto a comparare investimenti. Infatti avere un TIR maggiore non
equivale ad avere un VAN maggiore se per esempio si parte da investimenti di entità diversa (un
investimento con un TIR elevatissimo ma a fronte di un piccolissimo importo iniziale non genera grandi
entrate). Inoltre si possono trovare anche più TIR dal momento che la formula del VAN presenta degli
elevamenti del tipo (1+r)n ci sono quindi più soluzioni per l’equazione che eguaglia il VAN a zero.

Per questi motivi si consigli sempre di usare il VAN e ci utilizzare il TIR solo per meglio descrivere il progetto
d’investimento. Solo il VAN misura la creazione assoluta di valore per l’azionista.

3 – Decisioni di struttura finanziaria

La grande incognita di chi gestisce le fonti di finanziamento è: esiste una struttura finanziaria ottimale?
Come faccio a determinarla? La struttura dipende da come sono gestiti i finanziamenti che possono essere
diversissimi tra loro. Le caratteristiche che può avere un finanziamento sono (tempo, provenienza,
modalità di remunerazione, privilegi di rimborso e modalità, garanzie..). la caratteristica più importante
comunque è principalmente la seconda, nello specifico grossi cambiamenti avvengono se un finanziamento
è fatto con capitale proprio (capitale netto) o con debito bancario.

3.1 – La struttura finanziaria ottimale in assenza di imposte

Se non esistessero le tasse, costi di transazione, costi di dissesto/fallimento, asimmetrie informative e i


mercati fossero completamente efficienti, allora sarebbe inutile distinguere il capitale proprio dal debito
perché praticamente un investitore avrebbe stessi diritti e doveri di una banca. In queste condizioni quindi
ottimali conta solo quanto si ha non come lo si è reperito.
3.2 – La struttura finanziaria ottimale in presenza di imposte societarie

Introducendo nel nostro sistema ottimale le imposte diventa vantaggiosissimo ricorrere al debito piuttosto
che al capitale proprio. Infatti nella maggior parte dei paesi (Italia e USA compresi) gli oneri fiscali vengono
sottratti prima del calcolo delle imposte generando dei benefici fiscali (quindi praticamente abbassano
quella parte del ricavato che va allo Stato tramite le imposte). Ne consegue che la forma di finanziamento
ottimale si quella che ricorre solo al debito.

3.3 – La struttura finanziaria ottimale in presenza di imposte societarie e personali

Se si introducono anche le imposte societarie e personali allora non è più detto che convenga ricorrere al
debito piuttosto che al capitale proprio. Cerchiamo di capirlo attraverso un esempio: supponiamo che un
impresa abbia come reddito operativo 1 euro.

Se questo euro prende la via del debito non occorre sottrarre le tasse, ma poi si applicano le tasse
societarie quindi bisogna toglierci 1*Tpd = Tpd. Perciò ne rimane 1- Tpd.

Se questo euro prende la via dell’equity prima viene tassato. Seguendo la logica di prima rimane 1-Tc. Poi
avviene un ulteriore tassazione (su ciò che è rimasto). Quindi si sottrae (1-Tc)* Tpe. In pratica rimane (1-Tc)*(
1-Tpe)

Quindi in base a come sono tra loro i vari tassi, sarà più conveniente l’equity o il debito. In Italia (almeno
fino al 2006) Tpd e Tpe sono uguali, quindi rimane vantaggioso indebitarsi.

3.4 – Imposte, costi di dissesto/fallimento e la Trade-off Theory

Quindi fin ora sembra che indebitarsi sia molto più conveniente che finanziarsi con capitale proprio.
Sfortunatamente l’indebitamento porta con se un grande rischio: indebitarsi troppo spesso porta al
dissesto finanziario e poi al fallimento. Se si arriva anche solo nella prima di queste due fasi crolla la fiducia
che i collaboratori hanno nell’azienda, per questo si ha abbandono di personale e richieste di pagamento
da parte dei fornitori. In pratica si arriva ad abbassare moltissimo i margini e di conseguenza i profitti.
Inoltre in caso di fallimento la liquidazione dell’azienda viene fatta al di sotto del suo valore di libro con
un’ingente perdita di valore.

Quindi l’obiettivo ora sembra quello di indebitarsi il più possibile, senza però eccedere nel rischio ed
incombere nel dissesto o nel fallimento, ed è proprio questa la condizione ottimale che cercavamo. Questa
però dipende da impresa ad impresa e, per una stessa impresa, da periodo a periodo, quindi la trade-off
theory punta ad individuare quali sono i settori in cui le imprese possono permettersi di rischiare di più o di
meno.

3.5 – La peching order theory

Non abbiamo ovviamente tolto tutte le ipotesi di “mondo perfetto” che avevamo fatto all’inizio,
dovremmo ancora fare i conti con: asimmetrie informative, costi di transazione, inefficienze dei mercati…

Prendere in considerazione tutti i fattori diventa davvero troppo complesso, quindi ci limiteremo ad
enunciare quello che sostiene la pecking order theory (teoria dell ordine di scelta) che da una classifica di
quali siano le forme di finanziamento che le imprese preferiscono:

1. Autofinanziamento
2. Debito a breve
3. Debito a medio/lungo termine
4. Capitale netto

Questo spiga perché le imprese siano più restie ad indebitarsi di quanto la trade-off theory non sostenga,
c’è inoltre da dire che non indebitarsi è un vantaggio perché da la possibilità di indebitarsi successivamente
mantenendo il rischio comunque contenuto, questa è una grande potenzialità che può far cogliere
opportunità importanti alle imprese.

4.1 – Corporate governance, public companies, separazione tra proprietà e controllo

Corporate governance: insieme di regole e relazioni riguardanti il controlle e il governo di un impresa

Public company: imprese la cui proprietà è divisa su tanti azionisti che ne possiedono una piccola
percentuale. Questa forma aziendale è tipica della Gran Bretagna e degli USA, in Europa centrale (e anche
in Italia) le aziende sono quasi tutte di proprietà (o comunque c’è qualcuno che possiede una maggioranza
significativa delle azioni). Se chi gestisce un impresa non è il proprietario (o lo è in modo molto poco
coinvolgente dal momento che possiede solo una piccola percentuale della proprietà) possono insorgere
dei problemi legati alla gestione. Difatti può darsi che un manager faccia più i suoi interessi che quelli degli
azionisti che posseggono l’impresa. Da questa inefficienza gestionale nascono i costi di agenzia.

4.2 – Le principali soluzioni ai costi di agenzia originati dalla separazione fra proprietà e controllo

Ci sono diversi meccanismi per ridurre i costi di agenzia o meglio allineare gli obiettivi di proprietà e
controllo.

1. Se un manager non gestisce bene l’impresa per gli azionisti le quotazioni delle azioni calano o non
crescono come dovrebbero. Quando questo accade si diventa possibili prede di raiders che possono
compiere una scalata all’impresa. Significa che acquistano l’impresa e la risanano dalla mala
gestione, cos’ da far salire il valore delle azioni e poterla rivendere, oppure la si acquista
semplicemente per vendere separatamente le sue attività. Questo ovviamente incentiva il
management che altrimenti viene sostituito. Inoltre ci si può difendere da questi attacchi
aumentando il debito, fondendosi o diffondendo previsioni errate
2. Altra cosa che può riallineare gli obietti tra proprietà e controllo è il consiglio di amministrazione.
Questo ha proprio il compito di collegare le due entità è qui che si incontra un consiglio eletto dai
proprietari e tra i proprietari (azionisti) e l’amministratore delegato o CEO (a capo del
management). Questo organo perciò è doveroso nelle public companies e previsto dalla maggior
parte dei codici di autodisciplina aziendali. Sfortunatamente in Italia i manager, anche se
inefficienti, non vengono spesso licenziati.
3. Un’altra soluzione molto usata è quella di dare incentivi al management nel perseguimento degli
obietti della proprietà. Spesso gli azionisti vogliono massimizzare il prezzo delle azioni, quindi
bisogna legare la remunerazione del controllo con l’andamento di mercato delle azioni. Sono molto
utilizzati gli stock option plans che prevedono che ai manager vengano attribuiti dei titoli di
impresa non commercializzabili per un vesting period ovvero il periodo in cui il controllo sarà
amministrato da quel manager (poi al massimo si fanno delle proroghe). Quindi il manager non può
vendere queste azioni e non può abbandonare l’impresa altrimenti perde le azioni. Con questa
soluzione si risolvono i problemi di agenzia e si possono abbassare gli stipendi manageriali grazie
alla grande remunerazione delle azioni.
Utilizzare stock option plan ha però degli svantaggi: i manager tendono più al rischio (non sono
previsti “malus” nel caso in cui si peggiorino le condizioni aziendali), si possono dare premi sbagliati
(il management è mediocre ma il momento è favorevole per il settore dell’impresa), alla fine del
vesting period il management potrebbe fare brutti scherzi (perfino cadere nell’illegalità per alzare il
suo guadagno prima di abbandonare l’impresa).
Ci sono poi altri metodi per incentivare tra cui l’economic value added (EVA) che si basa su quanto
valore un manager ha creato; per calcolarlo si guarda (come nel capitolo 2) quanto ha reso il
capitale gestito dal manager e lo si confronta con quanto la proprietà si aspetta che questo capitale
renda
4. Infine si può monitorare l’attività manageriale, questo è difficile che sia fatto da un proprietario se
la proprietà è molto frammentata, perciò si fa fare ciò a investitori attivi (cioè quelli che sono
presenti nell’impresa oltre che ad averci investito). Investitori naturali sono le banche, i fondi
comuni, i fondi pensione e le assicurazioni.

4.3 – La struttura proprietaria delle imprese italiane e i conflitti di interesse tra azionisti di maggioranza e
minoranza

In Italia le imprese o sono a conduzione familiare (la famiglia detiene il 100% delle azioni) oppure la
maggioranza non è assoluta ma relativa. Quindi siamo distanti dalle public companies statunitensi, qui il
conflitto tra proprietà e controllo è minore o assente (la proprietà è ben identificata o è direttamente lei a
gestire l’impresa), ma c’è un altro conflitto che viene a crearsi: quello tra azionisti di maggioranza e
azionisti di minoranza. Questa problematica è presente soprattutto nei gruppi aziendali dove grazie al
controllo indiretto un impresa capogruppo può ritrovarsi a controllarne un'altra avendo meno del 10%
delle azioni. In questo modo la capogruppo potrebbe indurre nella controllata politiche a proprio vantaggio
e a svantaggio della controllata stessa (e quindi dei suoi azionisti di minoranza).

Negli ultimi anni sono entrate in vigore norme e diritti che impediscano questa cosa, gli azionisti di
minoranza per esempio possono accordarsi per eleggere più di un rappresentante per il CDA.

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