La psicologia studia le organizzazioni a fianco di altre discipline: sociologia, economia, scienze giuridiche; tali discipline utilizzano
la ricostruzione oggettiva e in terza persona dei fatti organizzativi, distinguendo tra i processi produttivi e quelli applicativi del loro
sapere. Per la psicologia questo è inapplicabile (si perderebbe il senso della psicologia stessa). Sembra che per la psicologia il
contributo più significativo sia quello di lavorare tra la visione d’insieme dell’organizzazione e gli attori organizzativi.
Cos’è un’organizzazione?
Abbiamo due possibilità: - forme di attività processuali (l’organizzazione del seminario non era adeguata)
- forme di produzione di tali attività (L’università è un’organizzazione poco aperta ai…).
Sostanzialmente l’organizzazione è il contesto e le attività (e quindi gli attori) svolte all’interno del contesto stesso.
Per la Psicologia l’organizzazione trova significato in quanto contesto in cui gli attori, mossi da bisogni, soddisfazioni, motivazioni ,
emozioni ecc si uniscono verso un unico scopo – o scopi molteplici.
La Psicologia dell’Organizzazione si intreccia in una duplice prospettiva: quella dell’indagine psicologia verso l’attività del singolo,
gruppo o organizzazione oppure verso la comprensione del lavoro delle persone nei nuovi contesti dell’industrializzazione.
La Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni nasce dalla psicotecnica: un’evoluzione che parte dalla necessità di misurare le
capacità lavorative, la stanchezza fisica e mentale dei lavoratori per carpire la maggior parte di informazioni necessarie per
migliorare le condizioni lavorative dell’organizzazione (in termini economici e pratici).
Dalle prime applicazioni industriali sono passati più di cento anni: l’evoluzione della pratica della psicologia organizzativa è
cambiata pari passo con le forme e le idee che si ebbero nei confronti della sua applicazione. Si può dire che in questo lasso di tempo
si è modificata la valutazione dell’importanza del singolo nei confronti delle attività organizzative.
Tutto questo per dire: prima si consideravano gli uomini come macchine (Taylorismo) mentre oggi si è compreso che le motivazioni
e la psicologia del singolo estremamente importanti.
Ad oggi la situazione è diversissima: la globalizzazione, i mercati che fluttuano, internet, i sentimenti di insicurezza sono tutti fattori
che sono determinanti nei confronti della Psicologia delle Organizzazioni. Ci si trova in condizioni in cui è necessario per gli
psicologi allargare le proprie conoscenze e competenze, anche nei confronti del sistema economico.
Si rende necessario, a fronte di un’estrema globalizzazione e di una più facile predisposizione di altre organizzazioni estere
all’utilizzo di approcci diversi e più tecnologici, cambiare il punto di vista di una radicata e tradizionale Europa.
Il cambiamento più significativo è relativo alle condizioni evolutive generali e delle condizioni di vita delle nuove generazioni. Tre
aspetti minacciano le organizzazioni incapaci all’adattamento:
La migliore letteratura dello sviluppo organizzativo sottolinea che il valore aggiunto su cui successo e qualità si possono fondare è la
motivazione delle persone.
Le organizzazioni non possono più essere programmate e dirette in base a sistemi tecnologici strutturati con la speranza che durino
più a lungo possibile, ma affrontare il cambiamento con costanti monitoraggi. Questo deriva dall’assoluta volatilità della domanda
del cliente che si adatta a sua volta ai cambiamenti della società moderna.
In Italia si fatica a sostenere il continuo sviluppo competitivo perché vi è sempre stata una tendenza lassista a non seguire le regole.
Si fatica ad entrare nell’ottica del cambiamento e dell’adeguarsi a tali cambiamenti. Taluni cambiamenti sono certamente
inaccettabili (compariamo al mercato cinese?) ma altri sono obbligatori (inquinamento ambientale e sostituzione di macchine
inquinanti); di per certo il cambiamento risulta essere sempre fastidioso alle persone.
Capitolo 2 – Conoscere ed Organizzare
2.1 - Chiarimenti preliminari
La distinzione tra corso di azioni e processo non riguarda elementi materiali, bensì livelli di analisi dello stesso processo.
L’analisi del processo assume che all’interno degli eventi: - Ci sia regolarità
- Si manifesti intenzionalità.
Ne consegue che l’analisi del processo sottintende che l’intenzionalità di ogni singolo individuo (avente una percezione ed
interpretazione propria) influenzi il corso di azioni.
2.2 – Il Problema
1° problema: la natura delle operazioni mentali (cognitive) che sottendono le capacità di agire in organizzazione. È necessario dare
importanza, senza negarla ad altri fattori, al retroterra cognitivo dei componenti di un’organizzazione.
2° problema: in che modo e quanto i processi influenzano gli attori e viceversa.
Conseguenze: indagine sul piano pratico di cosa comporti comprendere e risolvere i due suddetti problemi.
Il meccanismo di collegamento tra l’emozione e la cognizione è l’attenzione. Semplicemente, il tipo di emozione elicitata influisce
sul pensiero indirizzando l’attenzione verso qualcosa di piacevole/repellente. Per contrario, la cognizione guida l’attenzione per
rilevare gli stimoli emotivi ricercati.
È interessante notare come tutta la cultura dell’emozione possa influenzare ogni aspetto organizzativo; si pensi alle protorelazioni
(alle elementari odio per il maestro d’arte repulsione al liceo per il prof d’arte).
Collusione: condivisione emozionale delle stesse simbolizzazioni affettive. Quando la collusione non è pensata, spesso si traduce
inconsapevolmente in comportamenti.
2.6 – Fatti istituzionali
La creazione di corsi d’azione determina cognitivamente la segmentazione dell’esperienza degli attori coinvolti; tale segmentazione
orienterà in maniera coordinata e interdipendente le condotte dei diversi e futuri attori coinvolti.
Un fatto istituzionale è l’intenzionalità condivisa. Ad esempio noi socialmente decidiamo intenzionalmente che una banconota abbia
un certo valore (diamo a quell’oggetto uno status, una valenza).
È necessario inoltre distinguere tra contesti e fatti istituzionali. Ad esempio il “vediamoci nel mio ufficio” non è un contesto. La
differenza sta che il primo è un’esperienza attuale mentre il secondo la descrizione di un evento o eventi possibili.
Intelaiatura istituzionale: insieme di fatti istituzionali che insistono su uno stesso processo. È l’insieme di simboli e di significati che,
condivisi e mobilitati dai singoli attori, orienta e coordina le condotte materiali dando forma al corso d’azione.
2.7 – In Pratica
Lunga discussione su come gli elementi fin ora esposti influenzino la “fiducia”. Essa può essere relativa di un cliente verso un
marchio, di un attore verso un altro attore organizzativo ecc.
Affiora però una circostanza critica fondamentale: l’impalcatura istituzionale è costruita per generare asimmetria, ovvero favorire chi
ha il controllo dell’istituzione stessa (ma va?).
Può la psicologia ridurre l’asimmetria? Questa non determina le condotte, ma le influenza quanto basta per favorirla.
Capitolo 3 – Comunicare ed Organizzare
3.1 – Chiarimenti terminologici
L’autore del capitolo ritorna sull’importanza dell’interpretazione di ogni individuo che osserva un processo a rendere diverso il corso
d’azione al processo stesso. Successivamente un’ulteriore specifica: la comunicazione è il passaggio di significati tra due o più attori
o aggregati coinvolti nel processo.
- Partecipanti della comunicazione: possono essere singoli individui (mail diretta dal capo) oppure collettivi (pubblicità);
- Finalità: a cosa mira la comunicazione; può essere alla modifica diretta del corso d’azioni oppure all’influenza pubblica;
- Strumenti: possono essere diretti (rapporto interpersonale) o indiretti (mezzi e tecnologie che mirano alla moltiplicazione di
un messaggio; internet, spam ecc).
Analizzando i partecipanti è possibile identificare dei circuiti fondamentali, cioè l’incrocio delle tipologie di partecipanti e il loro
ruolo nell’ambito comunicativo (riceventi o emittenti).
Combinando i vari attori, otteniamo incroci tra “emittenti” e “riceventi” che ci permettono di identificare 7 diversi circuiti di
comunicazione:
- Circuito A: comunicazione interpersonale o in prima persona; è sempre bidirezionale e usa strumenti uno ad uno.
- Circuito B: canali da uno a molti; come quando un relatore parla ad una comunità scientifica; spesso bidirezionale.
- Circuito C: canali da un ente verso singole persone e usa più tipi di strumenti bidirezionali. Chiamata comunicazione di
raccordo (par. 3.3).
- Circuito D: canali esclusivamente interni, usualmente monodirezionali (comunicazioni di servizio).
- Circuito E: connette enti interni ad enti esterni (business-to-business); usualmente bidirezionale e usa molti strumenti.
- Circuito F: pubblicità, marketing sociale.
- Circuito G: comunicazione di accesso. Canali come gestione di lamentele, customers satisfaction; usualmente bidirezionale
(questionari, call center).
Le comunicazioni A e B non vengono affrontate perché, seppur importantissime in organizzazione, sono fattori psicologici a monte
dell’organizzazione. Anche la comunicazione E non viene affrontata.
Proseguendo nell’analisi degli altri circuiti, è necessario sottolineare che tra emittenti e riceventi deve necessariamente coesistere un
medesimo contesto.
3.3 – Circuito C e la comunicazione di raccordo
Le comunicazioni di raccordo si riferiscono a una declinazione nel tempo e possono essere di entrata (iscrizione all’università,
prenotazione CUP) o di uscita (laurea, dimissione ospedaliera). Se è vero che alcune comunicazioni parrebbero tra singoli (allo
sportello della posta, abbiamo a che fare con una persona) ma in realtà la comunicazione avviene tra il singolo e l’ente che l’altra
persona rappresenta (nel caso, le Poste).
- Contenimento: la persona che si appresta allo sportello ha, cognitivamente, conoscenze e aspettative. Spesso le
informazioni che possiede sono fuorvianti o errate. Il Contenimento fa in modo che, donando le giuste info, la persona
possa chiaramente comprendere ciò che è necessario.
- Accoglienza: si arriva al punto in cui la persona, riconosciuta come tale, entra fisicamente in contatto con l’ente con la
quale avrà a che fare.
- Contrattuale: una volta presentatasi una comprensione simmetrica tra emittente e ricevente, si stipula un contratto tra le
parti (orari, modi di comunicazione, incontri ecc). La funzione contrattuale deve necessariamente essere sincera e
trasparente.
La sfida più ambiziosa della comunicazione in entrata è quella del costruire un ambiente che comunichi. Importanti sono gli spazi, gli
arredi, ai dispositivi informativi. A monte devono esserci progettazioni in grado di creare tale contesto.
Per ciò che concerne le comunicazioni in uscita è importante che vi sia la possibilità di mantenere e seguire nel tempo il rapporto con
il cliente/utente. Attraverso un costante scambio comunicativo è possibile “ritagliare” un modo comunicativo ad hoc per il
cliente/utente, cosa che assume importanza fondamentale nell’uscita.
Questa distinzione però affronta solo una parte del tema della distanza.
Un’altra parte, definita come marginalità, non può essere spiegata solo attraverso le condizioni di presenza. Essa è la possibilità degli
attori di interpretare, influenzare e modificare tutto il bagaglio di simboli e significati nell’organizzazione (intelaiatura organizzativa).
Ogni attore ha una diversa capacità sia individuale sia burocratica di influenzare l’intelaiatura (si pensi ad un manager o a un
operaio). In ogni modo la marginalità è tanto maggiore quanto minore è la possibilità di influenzare e plasmare l’intelaiatura.
Appare chiaro quanto la comunicazione possa influenzare il senso di appartenenza, il commitment ecc…
A pagina 61 una scheda raccoglie i principali strumenti di comunicazione interna (allega alla stampa, includendo spiegazioni a lato).
Potremmo sintetizzare che la comunicazione interna può interagire con due sistemi: l’innovazione organizzativa e la rapidità di
cambiamento di tale innovazione.
La comunicazione interna inoltre può favorire costruzioni aziendali relativi al total quality management (c’è un capitolo) che
sinteticamente conferisce discrezionalità e responsabilità a tutti gli attori, piuttosto che dare importanza al risultato finale. Tecniche
organizzative simili servono a promuovere, rafforzare e premiare i significati connessi alle prestazioni e alle capacità di fare.
In realtà la messa a punto di una buona comunicazione è il risultato di un processo complesso e articolato che prevede una serie di
operazioni preliminari e successive all’atto comunicativo in sé. Le operazioni preliminari potrebbero essere ad esempio:
Col tempo il rapporto tra emittente e ricevente è cambiato: prima la comunicazione era spesso unicamente informativa, ora diventa
uno scambio esperienziale, un modo di relazionarsi, di cercare e promettere fiducia. Un esempio è la comunicazione seduttiva,
mediante la quale l’emittente cerca di indurre il ricevente a mettere in atto determinati comportamenti, curando il contatto attraverso
modalità comunicative particolari, in modo che emerga la bellezza, la rilevanza o l’utilità di un bene/servizio. Sostanzialmente, non è
uno scambio di informazioni, ma il tentativo di rendere psicologicamente attraente un bene/servizio, in modo che appaia
indispensabile.
Questo modo di comunicazione è asimmetrico: l’incontro tra le parti è usato strumentalmente da una delle due per incrementare la
relazione a proprio favore.
Con l’approccio culturare si passa dal esaminare quantitativamente le organizzazioni al esaminare qualitativamente le stesse.
L’istituzionalizzazione è quindi un processo che avviene in un’organizzazione attraverso il tempo, che rispecchia la storia
dell’organizzazione stessa nonché le persone che ve ne fanno parte.
- Variabile indipendente esterna all’organizzazione: norme e valori sono costruiti dal contesto.
- Variabile dipendente interna allorganizzazione: la cultura è un insieme di storie e miti che influenzano motivazione,
coesione e fedeltà nell’azienda.
- Metafora di base (root metaphor): l’organizzazione è la cultura, non la possiede come nei due approcci sopra indicati; essa
si manifesta e si esprime nel modo di agire dei suoi membri, delle azioni e decisioni.
La Martin ha, attraverso lo studio di un’azienda multinazionale, identificato 3 diversi tipi di paradigma inerenti alla cultura org.
- Integrazione: cultura come insieme di valori condivisi, generano armonia, assenza di conflitti, benessere.
- Differenziazione: cultura come differenziazione gerarchica che porta inevitabilmente alla creazione di sottoculture.
- Frammentazione: mette in dubbio l’esistenza della cultura, concentrandosi sugli aspetti incoerenti e ambigui dell’org.
Precisazioni:
Con Simbolismo interpretativo intendiamo la visione per cui una cultura è il risultato di interpretazioni condivise; la realtà è
oggettiva.
Con costruttivismo intendiamo la visione per cui la cultura non è oggettiva, ma oggettivata, resa cioè reale nella percezione ma che in
realtà non è. Da questa visione nasce l’etnografia, ovvero il modo di ricerca attraverso cui si osservano, descrivono e interpretano i
processi organizzativi.
- Discriminazione verticale: a fronte delle occupazioni casalinghe, le donne sarebbero impedite a compiere professioni
altamente responsabilizzanti.
- Discriminazione orizzontale: il fatto che la donna si sia occupata sempre delle questioni casalinghe – da cui si presume
derivino abilità di cura e relazione – spesso alcune occupazioni sono precluse alle stesse per questo motivo, mentre sono
preferibili altre più congeniali a queste caratteristiche.
Queste discriminazioni portano a quello che è definito come terziarizzazione del lavoro femminile, cioè quella segregazione
occupazionale che vede donne occupate in segmenti professionali che offrono scarsa visibilità, scarso riconoscimento e sovente
poche possibilità di carriera.
Ad oggi il fenomeno della discriminazione è ancora forte; gli approcci che studiano questo fatto si basano soprattutto su:
Accade in organizzazione che il modello “uomo” nasca e si perpetui nel tempo perché esso è un tema sotteso alla natura stessa
dell’organizzazione; di conseguenze è impossibile eliminare la discriminazione se il modello “uomo” non viene tematizzato.
La differenziazione di genere in organizzazione si rispecchia per i ruoli e per le gerarchie nella stessa; questo può essere spiegato
attraverso i seguenti 5 processi:
- Divisione del lavoro in base al genere: nella quale alla donna vengono assegnati spesso ruoli meno qualificanti;
- Produzione di simboli ed immagini: che evidenziano la suddetta divisione, con abbigliamenti, linguaggi, identificazione di
ruoli maschili/femminili.
- Relazioni tra uomini e donne: che possono definire strutture di potere e subordinazione.
- Centralità degli aspetti precedenti: questi aspetti diventano importanti per definire sé e gli altri, la propria identità.
- Importanza sociale e organizzativa: si crede necessario fare distinzioni per poter meglio distribuire risorse.
Butler sostiene che il problema di fondo, come accennato, sta proprio nella necessità di definire il genere; nel costrutto del undoing
gender si possono decostruire le concezioni sociali dividenti, che rendono normali le distinzioni uomo-donna.
Gli approcci riguardanti il tema del genere in organizzazione, accennati nell’introduzione, saranno a seguito esposti.
L’Approccio Biologico
In linea generale, vengono identificate le differenze di tipo evolutivo e/o fisiologico per definire le competenze e lo stile
comportamentale, nonché dei diversi ruoli sociali ricoperti. Kimura ad esempio sostiene che le differenze morfologiche cerebrali, che
portano gli uomini ad avere maggiori abilità visuo-spaziali e le donne ad avere maggiori capacità relazionali-empatiche, siano
significanti per definire i ruoli organizzativi di genere. Infatti non è un caso che gli uomini siano maggiormente predisposti a ruoli
professionali, manageriali e scientifici e le donne in quelli relazionali, di cura e servizio. Anche i ruoli “evolutivi”, cioè quelli
ricoperti per secoli dai nostri antenati, hanno certamente influenzato la disposizione dei ruoli di genere. Altre ricerche (Pinker)
dimostrano che anche gli ormoni hanno una certa responsabilità: il testosterone negli uomini li porta ad impegnarsi maggiormente a
livello professionale mentre l’ossitocina nelle donne all’accudimento della famiglia.
L’Approccio Socioculturale
Va oltre l’approccio biologico, dando senso alla definizione dei ruoli in base alle relazioni uomo-donna in quel determinato contesto;
infatti vi sono culture e società che hanno diversi modi di definire i ruoli di genere, anche se la prima e più immediata differenza – il
sesso vero e proprio – influisce comunque grandemente.
La socializzazione però riveste un ruolo chiave: secondo Bandura è attraverso l’apprendimento vicario e l’imitazione che i bambini e
quindi i futuri adulti apprendono quali siano i comportamenti e i modi cognitivi adatti al loro sesso.
I ruoli che vanno così definirsi nel contesto sociale e famigliare influenzano di conseguenza l’ambito lavorativo; e contesti
organizzativi così creatisi non fanno altro che rinforzare suddetti ruoli.
Va formandosi dunque un mondo del lavoro gendered, chiaramente diviso per generi. E questo modo lavorativo influenza e viene
influenzato a sua volta da un contesto ancora più ampio, cioè la società tutta.
In un contesto sociale così definito, va creandosi il metodo staffetta (Kmec): il reclutamento di nuovo personale avviene attraverso
metodi informali di comunicazione, in rete di contatti di chi già ricopre posizioni simili a quella ricercata. Ciò porta gli uomini a
rimanere più in contatto con gli uomini e viceversa per le donne; anche alcuni uomini che abbiano desiderio di ricoprire una
posizione “tipicamente femminile” potranno avere difficoltà.
Meccanismo opposto è quello della desiderabilità: la ricerca di un lavoro più redditizio e di responsabilità favorirà sempre l’uomo,
poiché la donna è ritenuta più a “rischio” di assenze per esigenze famigliari.
L’Approccio Psicoanalitico
Distaccandosi dall’approccio di sviluppo di genere di Freud (processo edipico incompiuto nelle donne = maggiore passività e
debolezza morale) altri autori hanno cercato di comprendere la natura della differenziazione psicologica di genere.
Secondo Gilligan il modello di sviluppo maschile (separazione e autonomia dalla madre) porterebbe alla maturazione di un’etica
fondata sul diritto, rigore e morale, mentre il modello femminile (attaccamento e continuità della cura materna) fa emergere un’etica
della cura e delle relazioni.
Le organizzazioni sono state costruite da uomini, e di conseguenza rispecchiano i caratteri prettamente maschili: logica, etica e
morale, piuttosto che relazioni e cure. Inoltre secondo Nicolson, nell’organizzazione si riprodurrebbero le dinamiche edipiche: la
paura di castrazione di traduce nella volontà di acquisire maggior potere per sé (e quindi rivalità) mentre l’invidia del pene sul potere
che gli uomini hanno sulle donne.
Le donne, che si trovano dunque in realtà organizzative maschili, hanno due opzioni: uscire dall’organizzazione con la
giustificazione della cura della famiglia o arrivare al compromesso di parteciparvi, ma solo con ruoli “adatti a loro”. Questa seconda
modalità conduce le donne, inevitabilmente, ad interiorizzare questi modelli. Questo si traduce in: accettazione di ruoli meno
gratificanti oppure all’accettazione delle “regole” maschili: tempo in presenza, rinuncia della famiglia, disponibilità a viaggiare e
trasferirsi.
Questo troppe volte porta le donne a dover scegliere tra carriera e affetti.
Inoltre, nel momento in cui le donne sviluppano l’identità di genere delle cure e supporto, spesso o non si sentono in possesso di
quelle qualità tipicamente maschili necessarie per la carriera (sicurezza, aggressività, assertività ecc) o se sentono di possederle,
sentono un certo senso di colpa ad aver perso quel loro lato femminile.
La soluzione sarebbe quella di rendere le organizzazioni più femminili, orientandole verso sensi di cura e relazioni.
Invisibilità: quando le donne entrarono nel mondo del lavoro (patriarcale) nessuno si pose domande riguardo le figure professionali
occupate dalle stesse. Le donne erano per così dire invisibili agli occhi lavorativi. La voce della donna, così come la sua esistenza
autonoma, non viene percepita e riconosciuta.
Differenziazione: si inizia a prendere coscienza della donna in organizzazione. Inoltre si comprendere anche che la donna è un’ottimo
strumento nei confronti di un mercato del lavoro globalizzato ed in continua espansione. La donna prende anch’essa consapevolezza
della disciminazione: non vive più come soggetto passivo-accettante le norme degli uomini. L’approccio psicologico si concentra sui
processi delle donne e degli uomini relativi al rapporto tra aspettative personali e aspirazioni, mediate fra l’altro dalla personale
percezione di sé, talvolta stereotipata.
Walby propone, per andar oltre queste discriminazioni, due linee di condotta (WIM – Women in management):
In conclusione al capitolo, è sottolineato che dar spazio al femminile accanto al maschile, andando al di là delle rivendicazioni di
uguaglianza e specificità può rappresentare un vantaggio competitivo per le organizzazioni.
Capitolo 6 – Gestire la conoscenza e apprendere nelle organizzazioni
Le teorie riguardanti l’apprendimento e la conoscenza sono talmente vaste che sarebbe impossibile elencarle tutte in un trattato; nel
seguente capitolo verranno trattati suddetti argomenti in chiave mirata nei confronti delle organizzazioni.
La seconda dimensione investigata riguarda la comprensione dell’importanza della conoscenza come fattore rilevante in
organizzazione; si è passati dal Fordiano “non devi pensare ma eseguire” alla connessione tra conoscenza e funzionalità dei
macrosistemi economici e sociali. La conoscenza si tramuta in una capacità creativa vantaggiosa per l’organizzazione.
Sembra dover apparire all’orizzonte un cambiamento: passare dai rigidi mansionari alle capacità di ruolo, che lasciano ai soggetti
discrezionalità e autonomia; passare dalla mera esecuzione procedurale all’interpretazione delle proprie capacità, dei propri compiti
anche in merito all’organizzazione.
Si passa inoltre a dare importanza non solo alla semplice knowledge (la conoscenza ciò che va fatto e in che modo) ma anche alla
knowing (cioè il processo dinamico di apprendimento individuale, di cui fa parte anche la conoscenza pratica). La conoscenza tacita
ottiene estrema rilevanza nell’esperienza degli attori organizzativi, specie a fronte di nuovi problemi inediti e di innovazione.
6.2 – Apprendere e conoscere nei contesti organizzativi. la svolta pratica secondo la sociologia del lavoro e
delle organizzazioni.
Una delle strutture di maggiore rilevanza nei confronti della conoscenza in organizzazione è la knowing in practice; essa è la
negoziazione all’interno di un sistema di azione, mediato dalla capacità di combinare la propria partecipazione in essa e dalla
reificazione (traduzione dell’esperienza in concetti semantici condivisi).
Gherardi ha individuato un insieme di teorie concettuali riguardo la conoscenza in organizzazione; di seguito le teorie:
Inoltre lo stesso Gherardi ha individuato 3 modi di dar significato alla conoscenza pratica:
- Dimensione indessicale: espressioni che risultano comprensibili nel contesto in cui vengono utilizzate e condivise;
- Accountability: capacità degli attori organizzativi di offrire spiegazioni delle loro azioni, renderle osservabili, comunicabili
e rintracciabili. Chiaro che questa dimensione abbia a che fare con tutti gli aspetti della relazione individuo-organizzazione:
mente e corpo dell’attore, azioni, cognizione, materialità del mondo.
- Reflexivity: la modalità di conferire significato alla realtà e condividerla con gli altri. È un’attività fortemente dialogica e
relazionale.
Queste tre dimensioni fanno comprendere quanto il mondo delle organizzazioni si fondi sul rapporto sociale e quanto – seppur
nell’era dell’industrializzazione questo sia venuto meno – si importante dedicarcisi; la conoscenza (soprattutto quella tacita) e
l’apprendimento in organizzazione si fondano sui rapporti sociali e il modo in cui essi vengono condivisi.
Il passare da una mera concezione cognitivista dell’apprendimento ad una più sociale permette anche di andar oltre alla definizione di
luoghi e momenti deputati all’apprendimento (ad esempio, la formazione) e dare importanza a tutte le dimensioni contesto-sociali.
6.3 – La conoscenza come risorsa anomala nella prospettiva economica. Rischio e responsabilità della
creazione di significati.
La conoscenza non può essere ritenuta un mero strumento organizzativo al pari degli altri; essa infatti non ha le caratteristiche di
qualsiasi altra merce. La conoscenza infatti ha delle caratteristiche uniche: la sua moltiplicazione, l’interpretazione della stessa,
l’autoregolazione dei rapporti sociali di chi la mette in atto; un esempio di queste caratteristiche sono insite nella conoscenza tacita.
- Efficacia: il valore della conoscenza non è solo in base alla sua efficacia, ma anche al modo di interpretazione e
distribuzione e quindi identitario.
- Moltiplicazione: la caratteristica della conoscenza di poter essere ri-usata, ri-prodotta in nuovi contesti e situazioni,
consentendo nuove disseminazioni e contaminazioni.
- Appropriazione: valore generato dalla conoscenza e sua distribuzione in termini economici e sociali. Essa è il risultato della
somma di due logiche: exploration (acquisto di nuove conoscenze) ed exploitation (ri-utilizzo e valorizzazione delle
conoscenze pregresse).
Tutto questo assume un aspetto fondamentale: la conoscenza in ambito economico passa da una condizione costituita da saperi
astratti e riproducibili a uno scenario di modernità riflessiva. Questo cosa significa? Che la nuova situazione riflessiva è connessa ai
cambiamenti moderni: esigenze di confrontarsi, mercati globali, condizioni di variabilità, varietà ecc.
La conoscenza ovviamente è sempre stata presente nell’evoluzione storica del lavoro e delle organizzazione; prima però era in
sottopiano e vista comunque come un risorsa fine a ste stessa. Ad oggi, con la crescita esponenziale dello sviluppo, la conoscenza
assume nuovi significati e nuove forme. A fronte di questo sviluppo, non è più possibile avvalersi di mere conoscenze procedurali
relative al problem solving: la riflessività, una dinamica trasformazione di ste stessi a livello individuale e organizzativo può portare
ad un migliore e più malleabile uso della conoscenza. Si va oltre al mero utilizzo della tecnologia, cercando invece di far leva sulla
discrezionalità ed autonomia e non ad un uso delegato della propria conoscenza ed intelligenza (assumendosi tutti i rischi e
responsabilità individuale e collettiva). Citando Rullani:
il lavoratore neomoderno, che si colloca all’interno di una rete riflessiva, capace di criticare e
rigenerare le sue premesse, non parte da un canovaccio precostruito di azioni da fare, ma si mette
piuttosto in viaggio per esplorare insieme ad altri un mondo di possibilità che deve essere
immaginato, costruito, abitato e vissuto come reale, anche nella parte artificiale che dipende da
virtualità non ancora realizzate, ma presenti e attive tra gli uomini che danno loro senso.
6.4 – Abitare il mondo come partecipazione a pratiche di attività situata: antropologia ed ecologia della
cultura.
Un ulteriore approccio riguardo la conoscenza in organizzazione è relativo alla socioantropologia ed etnometodologia: si tratta di
analisi e ricerche che approfondiscono il legame tra cultura e l’insieme di vincoli e possibilità al nostro collocarci all’interno di
ambienti sociali.
- Cognizione distribuita (H): apprendere e conoscere si configurano come processi situazionali che generano e vengono
influenzati da cambiamenti. Ad esempio, nella guida dei vascelli o navi, la conoscenza è così articolata che diviene per
forza socialmente e cognitivamente condivisa.
- Piano situato d’azione (S): il comportamento umano, in ogni suo contesto, genera esperienza e apprendimento. Un
esperimento ha dimostrato l’intima differenza tra rapporto (e quindi conoscenza) tra uomo-macchina e uomo-contesto
sociale.
L’emergere di determinate azioni dipende dalle interpretazioni situazionali e situate degli attori. Un fattore interessante è tra tanti il
modo situazionale di gestire il rapporto uomo-macchina e la maniera in cui questo rapporto è condiviso.
Divengono importanti dunque non solo le conoscenze tacite ma anche quelle situate, sociali, negoziate tra gli attori.
6.5 – Dalla reflectivity alla reflexivity: pratiche riflessive del conoscere e dell’apprendere.
L’attività riflessiva è stata chiarita come quell’attività cognitiva che connette il pensiero all’azione; questo fa comprendere quanto si
possa spaziare su tale concetto. La riflessione porta ad una doppia conseguenza: da una parte uso critico delle informazioni
dell’ambiente e dell’altra uno strumento per modificarsi e modificare l’ambiente stesso.
Alcuni autori, partendo da questo presupposto, hanno creato una distinzione:
- Mezirow: tratta di rivisitare, validare, ri-orientare repertori di strutture simboliche che ci rendono capaci di attribuire un
senso ad eventi e situazioni. Questi habitus (modi personali di vedere il mondo) sono basati sull’esperienza, sul background
ecc. la riflessione dunque si riferisce all’attività di comprendere il modo in cui questi habitus si creano e influenzano il
nostro operato. Per utilizzare questo metodo, sono ovviamente necessarie mobilitazioni mirate a livello individuale.
- Organizing reflection: supera la dimensione singolare della riflessività portandola a un punto più organizzativo, più
condiviso. Si concentra sull’impossibilità di scindere l’individuo dal suo contesto e la conseguenze creazione e
riproduzione dei corsi d’azione.
- ?: riflessione come supporto a pratiche professionali in continua evoluzione, a fronte di richieste di mercato sempre più
variabili. L’enfasi viene posta da un lato sulle procedure e processi collettivi per farvi emergere le conoscenze implicite e
dall’altra sulla disponibilità individuale nei confronti di tali riflessioni.
Capitolo 7 – Efficacia personale e collettiva
L’efficacia personale e collettiva sono due fattori ormai ampiamente studiati, poiché si è appreso possano influenzare la produttività
organizzativa e il benessere personale.
Serve per spiegare la dimensione triangolare in cui l’individuo, il suo comportamento e l’ambiente si influenzino reciprocamente.
Molto brevemente (cose che sai) viviamo in un ambiente che ci influenza sul modo di pensare ed agire, e a nostra volta lo
influenziamo. Si pensi all’enormità della cosa.
La Human Agency
Tradotta all’italiano come “agenticità”. Si riferisce alla capacità di far accadere gli eventi, in modo da raggiungere scopi e obiettivi
sfruttando le proprie capacità. Attraverso con il rapporto sociale e ambientale gli individui sono in grado attivamente di contribuire
alla costituzione e alla modificazione della propria personalità.
Capacità di simbolizzazione
Mediante la simbolizzazione, le esperienze vengono trasformate in simboli che guidano il giudizio e l’azione; a loro volta queste
possono essere riproposte e tramandate socialmente. Grazie a questa capacità è possibile comunicare in tutto il mondo, strutturare le
relazioni ecc. Chiaro come questo possa essere importante per il mondo organizzativo.
L’apprendimento vicario è l’apprendimento per imitazione; svolge un ruolo fondamentale sin dall’infanzia anche grazie ai neuroni
specchio e agli incentivi. Possiamo definire questa serie di incentivi:
L’apprendimento vicario porta anche ad una maggiore consolidazione della sfera di conoscenza individuale.
Capacità di anticipazione
Visualizzazione degli eventi futuri da cui si possono trarre le proprie motivazioni, le ragioni, le aspettative e gli incentivi
autodeterminati. La regolazione comportamentale nei confronti dell’anticipazione è ben nota.
Capacità di Autoregolazione
Inseguendo i propri obiettivi e motivazioni, le persone interiorizzano le richieste che provengono dall’ambiente in un sistema
interiore di autoregolazione e direzione del Sé. Una volta che tale sistema è interiorizzato , questo rappresenta una guida, un
propulsore o un deterrente. L’autoregolazione delle motivazioni, affetti e azioni sono un insieme di processi psicologici come
l’autoosservazione, autovalutazione, autoreazione.
Lo Sviluppo dell’Autoefficacia
- Mastery Experience: la messa in prova diretta del successo influisce sul senso dell’autoefficacia, mentre quella del
fallimento lo compromette. È propedeutico per incrementare il senso di autoefficacia che le persone siano esposte a prove
gradualmente più complesse. Una delle strategie in organizzazione è il goal setting: tecnica motivazionale atta al
raggiungimento di obiettivi, non valutativa e circostanziale che permette all’individuo di monitorare la propria esperienza e
azione, aggiustando in corso il proprio operato.
- Vicarious Experience: associata all’osservazione di modelli di successo; è meno diretta della precedente ma assume
comunque una certa importanza in quanto suggerisce le possibili vie di successo. Il modello è più influente se è simile a chi
osserva e se il suo operato è chiaro.
- Social Persuasion: la persuasione sociale influenza il senso di autoefficacia tanto più la fonte della persuasione viene
ritenuta affidabile e credibile. Come nei casi precedenti, se si crede di essere più efficaci si tenderà ad intensificare gli
sforzi fatti. Un esempio è il coaching individuale o in gruppo: consente di osservare le proprie criticità, fissare obiettivi di
miglioramento trovando sostengo nel contempo dal coach. In questo caso l’abilità, il coinvolgimento e la credibilità del
coach influenzano pesantemente l’esito del social persuasion.
- Physical and emotional states: si riferisce al controllo della tensione interna e delle emozioni, a fronte del fatto che le
persone tendono a dare molto peso ed importanza ai propri vissuti interiori. Possono essere utili strategie di autoefficacia
quelle che fanno concentrare su monitorizzazione e di autoregolazione interiore, sul benessere psicofisico, sulla riduzione
degli umori ed affetti negativi ecc. Secondo la Rational-emotive behavior therapy le risposte emotivo-comportamentali
derivano unicamente dall’interpretazione degli eventi, non dagli eventi in sé. Appare chiaro quanto la dimensione interiore
possa influenzare il senso di autoefficacia. L’utilizzo della REBT si avvale di tecniche che mirano alla messa in discussione
delle credenze personali, prima fra tutti i filtri interpretativi della realtà che ci circonda.
Le convinzioni regolano il funzionamento attraverso quattro processi: cognitivo, motivazionale, emotivo e di orientamento nelle
scelte.
- Cognitivo: le persone con alta autoefficacia sfruttano strategie cognitive adattive, sono propense al problem solving, hanno
maggiore flessibilità strategica e determinazione nel gestire l’ambiente.
- Motivazionale: vi sono diverse teorie motivazionali citate da Bandura (attribuzione causale, aspettativa x valore, goal
setting). In tutte queste teorie (rivederle se vuoi ciascuna a pag. 169) il senso dell’autoefficacia come mediatore tra
motivazione e prestazione è fondamentale e consente di spiegare gli antecedenti della prestazione.
- Emozionali: un forte senso di coping efficacy riduce la vulnerabilità allo stress e alla depressione, aumentando la resistenza
alle avversità.
- Orientamento alle scelte: in base al senso di autoefficacia tendiamo a fare scelte nell’ambiente che lo rispecchiano (è un
cane che si morde la coda).
Il senso di autoefficacia è uno tra i più alti predittori organizzativi; diverse ricerche hanno dimostrato che tale autoefficacia favorisce
l’assimilazione di nuove tecniche, lo sviluppo di carriere, efficienza manageriale, adattamento al contesto organizzativo,
soddisfazione lavorativa e infine il commitment organizzativo.
Non dimentichiamoci però che la difficoltà dei compiti e la complessità dell’ambiente influenzano il senso di autoefficacia e
prestazione.
Complessità del compito: può essere influenzata da pensieri anticipatori e autoreferenti che riguardano valutazioni erronee causate
dalla scarsità della conoscenza in oggetto, sul senso di autoefficacia basato su competenze diverse da quelle richieste e infine una
stima incompleta di tutti i fattori e aspetti al compito.
Complessità dell’ambiente: riguardano gli aspetti di chiarezza/ambiguità, le definizioni esatte dei compiti ecc…
Chiaro che il senso di autoefficacia è più forte quando si tratta di compiti semplici e si indebolisce verso i compiti più difficili
(mantenendo sempre però estrema rilevanza).
7.3 – L’efficacia collettiva percepita
Il raggiungimento degli obiettivi organizzativi è intimamente connesso con la capacità aziendale di armonizzare le diverse
competenze individuali in un’azione collettiva; di conseguenza anche il senso di autoefficacia collettiva è ugualmente importante.
Secondo Bandura il senso di autoefficacia collettiva è la convinzione condivisa che il gruppo del quale si fa parte sia capace di
organizzare ed eseguire le azioni necessarie per produrre determinati risultati. La differenza tra i due sensi di efficacia sta
semplicemente nel tipo di obiettivi o prove prestabilite, scandite o definite, dal singolo o dal gruppo.
Alti livelli di autoefficacia collettiva si associano all’aumento dello sforzo, allo sviluppo di nuove idee, ad una maggiore resistenza
allo stress, a una maggiore perseveranza di fronte alle difficoltà; incrementano inoltre la coesione del gruppo stimolano
l’autoassegnazione di mete elevate e l’impegno nel loro raggiungimento.
Il senso di efficacia collettiva non solo influenza ovviamente la prestazione, ma anche il livello di organizational commitment
percepito, cioè l’impegno che le persone hanno con l’organizzazione e la fedeltà ad essa, nonché il senso di piacevolezza legato al
lavoro. Inoltre influenza anche il senso di citizenship (senso di appartenenza) e previene il burn-out.
È intimamente connessa con il senso di autoefficacia individuale; anche per quella collettiva l’esperienza risulta essere fondamentale
per lo sviluppo di suddetto senso. In particolare sono le prime esperienze di successo o fallimento a rivestire ruoli fondamentali per la
prestazione futura che potrà essere virtuosa o viziosa. Similmente, anche l’osservazione vicaria di altri gruppi influenza l’efficacia
collettiva. Infine anche i vissuti emotivi individuali (che inevitabilmente cozzano con quelli degli altri) contribuiscono alla
formazione del senso di autoefficacia collettiva.
- caratteristiche dei membri: come già detto, l’efficacia singola influenza la collettiva.
- caratteristiche del gruppo: coesione sociale, relazioni interpersonali, precedenti exp rivestono un ruolo importante per le
persone sul “come fare gruppo”.
- caratteristiche del compito: i diversi gradi di compiti portano a diversi gradi di interdipendenza tra membri (che quanto più
son alti, tanto più si otterranno efficacemente gli obiettivi).
- caratteristiche del contesto: la cultura organizzativa può influenzare enormemente il senso di efficacia collettiva. Ad
esempio una cultura individualista avrà sicuramente risultati differenti da una collettivista, proprio a causa delle differenze
contestuali percepite.
Le convinzioni dell’autoefficacia – come abbiamo visto – sono ancorate a situazioni specifiche (al contrario di autostima, locus of
control ecc). Ma come misurare il senso di autoefficacia e sfruttarlo per migliorare?
Anzitutto, per ciò che concerne il senso di efficacia collettivo, è necessario tener presente 2 aspetti: i giudizi sulle proprie abilità e su
quelle altrui e la percezione di come i membri del gruppo siano capaci di operare insieme nel raggiungere risultati comuni.
1 – sommatoria delle efficacie personali dei singoli membri in situazioni in cui le attività svolte sono impostate come additive;
2 – Aggregazione dei giudizi dei singoli in relazione alla capacità dell’intero gruppo di operare sinergicamente (attività
interdipendenti).
3 – rilevazione concordata congiuntamente tra tutti i membri (aspetta e spera).
La chiave è il livello di interdipendenza: essa determina il tipo di operazionalizzazioni da adottare. Ad esempio, laddove ci sia alta
interdipendenza le credenze sull’efficacia del gruppo saranno maggiormente predittive del risultato che verrà conseguito.
L’origine della consapevolezza all’appartenenza nasce quando c’è la sensazione di un “noi”, un’identità collettiva nella quale ciascun
membro può rispecchiarsi, condividendo scopi ed idee comuni. Possono prendere forma nel gruppo fenomeni di identificazione intra-
membri, che ne fondano in realtà la coesione e modellano norme socialmente condivise e accettate. Spesso nel gruppo primario è
possibile far emergere la propria vera natura: all’interno di questo gruppi infatti vi si possono trovare condizioni e norme che nel
contesto sociale più allargato sono usualmente inibite. È altresì vero che il gruppo può anche costituire, oltre il senso di appartenenza
e sicurezza, ulteriori restrizioni che vanno oltre quelle sociali, come regole e tabù (si pensi ai gruppi estremisti religiosi) che limitano
invece le espressioni individuali. In ogni modo alcuni autori (Freud, Bion) hanno sostenuto che solo all’interno del gruppo possono
sorgere dinamiche intrapsichiche uniche e che possono aumentare le potenzialità individuali da una parte e diminuire il
funzionamento mentale, emotivo e morale dall’altra; in entrambi casi questi sono fattori che possono o meno contribuire al
raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
- determinanti inconsce del comportamento nei confronti del cambiamento: non sempre il cambiamento è ben accetto, e
questo può essere vissuto sia consciamente sia inconsciamente;
- centralità dell’intenzione al cambiamento: i soggetti si autodeterminano nella scelta di dare avvio al mutamento;
- setting collaborativo tra consulenti e soggetti interessati: ai consulenti, in quanto neutrali, vengono proiettati tutti i vissuti
emotivi dei soggetti. Il rapporto funge da comprensione e interiorizzazione del cambiamento.
Moran e Volkwein distinguono 4 approcci diversi riguardo il clima organizzativo: Strutturale, Percettivo, Interattivo e Culturale.
L’approccio Strutturale
Il clima organizzativo esiste a prescindere dai membri e le loro percezioni; sono le condizioni della struttura che determinano gli
atteggiamenti, i valori e le percezioni che i membri hanno. Quindi il clima è oggettivo ma da luogo a percezioni soggettive.
Il clima viene visto come il set di caratteristiche che distingue l’organizzazione dalle altre, che dura nel tempo e che influenza i
comportamenti degli individui. Gli stimoli vengono poi mediati soggettivamente.
La leadership influenza molto il clima organizzativo, i comportamenti e la personalità dei soggetti.
L’approccio è limitato perché non spiega come mai nella stessa organizzazione possano nascere diversi tipi di climi organizzativi;
inoltre non vengono considerate le interazioni intra-group nella stessa organizzazione.
L’approccio percettivo
Questo approccio colloca il clima organizzativo all’interno dell’individuo. L’analisi che i soggetti fanno nei confronti
dell’organizzazione non è solo oggettiva (che riguarda quegli aspetti oggettivi della stessa) ma soprattutto soggettiva, mediata cioè da
quegli aspetti che sono psicologicamente significatici per loro. Viene fatta dunque una distinzione tra clima organizzativo (oggettivo)
e clima psicologico (soggettivo, riferito ad attributi individuali che influenzano e vengono influenzati dal clima organizzativo).
L’approccio è limitato poiché si concentra solo sulle dinamiche individuali, senza prendere in considerazione le dinamiche interattive
tra le persone e l’ambiente.
L’approccio interattivo
Può essere consideato una sintesi dei due precedenti. Il clima è il risultato delle percezioni individuali delle dinamiche organizzative.
La realtà è considerata come il risultato di una costruzione sociale e percettiva degli individui che utilizzano simboli, comunicano e
acquisiscono gradualmente la propria identità nel contesto sociale di appartenza.
Il limite è costutito dal fatto che la prospettiva non spiega come l’ambiente influenzi l’interazione tra i membri.
L’approccio culturale
Come l’interattivo, pone l’attenzione sull’interazione tra membri dell’organizzazione ma evidenzia maggiormente il ruolo
fondamentale che la cultura svolge nella formazione dei processi che producono il clima organizzativo. Si pone l’attenzione quindi
sui fattori degli approcci precedenti, ma visti non più da aspetti prevalentemente psicologici ma più sociolocici (dei gruppi).
La cultura organizzativa è l’insieme di significati condivisi dai membri del gruppo e quindi non esiste nella cognizione individuale
ma nelle interazioni tra individui. In che modo clima e cultura sono in relazione? Di seguito:
- clima e cultura si occupano del modo in cui i membri danno senso all’organizzazione (significati condivisi);
- clima e cultura sonno appresi attraverso processi di socializzazione;
- clima e cultura sono modi per identificare l’ambiente;
- cultura è estremamente astratta e il clima è una sua manifestazione.
Ora si discute principalmente di un clima collettivo che dia importanza sia alle dimensioni percettive individuali sia alle relazioni
intra-gruppo nell’ambiente. D’Amato descrive così il clima collettivo: percezioni di procedure e norme organizzative che sono
diffuse attraverso reti relazionali e influenzano il comportamento organizzativo.
Evidenze di ricerca hanno dimostrato che il clima collettivo è strettamente correlato alla soddisfazione lavorativa; seppur connessi,
presentano la differenza che il primo è una realtà percepita dall’esterno mentre la seconda è una percezione interiore psicologica che
può derivare dal primo (quindi correlazionale e non causa-effetto).
Non è sufficiente limitarsi a registrare le motivazioni ufficiali (obiettivi, procedure ecc) poiché esse non sono sufficienti a
comprendere il clima organizzativo. Gli obiettivi da stilare durante gli interventi devono essere realistici; obiettivi troppo ambiziosi,
seppur magari stimolanti da un punto di vista ideale, possono essere deleteri per la vita organizzativa.
L’analisi del clima organizzativo racchiude in sé rischi e benefici; di seguito la lista dei benefici:
La tempistica
La procedura
Nel successivo paragrafo vengono esemplificati gli step che devono essere seguiti proceduralmente; essi ovviamente non rispettano
una rigidità, anzi è necessario che il consulente riesca a districarsi tra essi a seconda dell’organizzazione con cui ha a che fare e il
momento di vita della stessa.
Gli step operativi
Step1 – Individuazione del Gruppo di lavoro: istituire il gruppo di lavoro che si occuperà dell’organizzazione (professionisti e
ricercatori). È necessario che il gruppo rimanga costante durante l’intervento e che ognuno abbia ben chiaro il proprio ruolo e quello
degli altri membri. Il team avrà piena responsabilità del progetto e si dovrà occupare anche di mantenere informati i vertici
organizzativi.
Step 2 – Definizione degli obiettivi generali: sarà negoziato il contenuto dell’analisi e degli obiettivi da raggiungere.
Step 3 – Analisi preliminare del contesto organizzativo: la prima analisi esplorativa sarà fatta dai professionisti per cogliere gli aspetti
organizzativi che non possono essere percepiti dal management (oltre ovviamente l’analisi di tutte le documentazioni ricevute
dall’azienda). Gli strumenti principali: osservazione delle prassi organizzative, colloqui con il personale, interviste mirate (si tratta di
“girare” nei reparti e conoscere su pelle la vita organizzativa).
Step 4 – La definizione degli obiettivi specifici: lla luce delle informazioni raccolte nella precedente fase, si stabiliscono quali siano
gli obiettivi realistici da conseguire e le fasi operative del lavoro (tenendo conto delle potenzialità e dei limiti aziendali).
Step 5 – Scelta della popolazione: definizione della popolazione che sarà coinvolta nelle successive fasi. Talvolta gli obiettivi fissati
costringono a dover operare con gruppi specifici. In grandi organizzazioni a volte si può pensare di raccogliere dati di una
popolazione numerosa nei vertici e quadri messi a disposizione dall’azienda, e analizzare direttamene solo un campione di persone.
Qualsiasi scelta si faccia, è necessario tenere a mente sempre quale impatto possa avere sulla vita organizzativa.
Step 6 – Messa a punto della metodologia e scelta degli strumenti di rilevazione: a fonte della raccolta di informazioni si può
decidere quale approccio usare, se quantitativo o qualitativo.
Il quantitativo utilizza questionari strutturati, consente raccolta di info dirette e da la possibilità di quantificare le percezioni
individuali e i vissuti organizzativi.
Il qualitativo sfrutta interviste individuali e di gruppo riuscendo a cogliere gli aspetti soggettivi della vita organizzativa.
Ovviamente non è imprescindibile l’uso dell’uno o dell’altro: se c’è la possibilità ed è utile è possibile sfruttare entrambi gli approcci.
Si possono infine distinguere tra strumenti tailor-made (fatti su misura per l’azienda) oppure ready-made (precostruiti, si avvalgono
maggiormente delle ricerche scientifiche).
Infine è possibile utilizzare anche il Organizational Questionnaire di D’Amato, che risulta essere adatto a qualsiasi organizzazione e
livelli di scolarità; tale strumento indaga dieci principali dimensioni:
Step 7 – Verifica della funzionalità della procedura e delle tecniche: l’attività pianificata viene prima somministrata a un primo
gruppo campione. In sintesi è un simulazione.
Step 8 – Raccolta estensiva dei dati: se la simulazione è positiva, si passa alla somministrazione vera e propria.
Step 9 – Elaborazioni statistiche: si procede alle seguenti analisi: confronto risultati complessivi con i dati nazionali e confronti tra le
componenti organizzative definite mediante le variabili indipendenti ritenute rilevanti (lavoro, età, anzianità, inquadramento ecc).
Step 10 – Prima lettura dei dati e stesura del report provvisorio: la prima lettura è fatta all’interno del team di lavoro. In questa fase
vengono avanzate le prime ipotesi interpretative.
Step 11 – Incontro con i responsabili/committenti: dare feedback. Usualmente i dirigenti e sindacati sono i primi ad essere informati.
Possono emergere critiche positive in grado di far pianificare successivi interventi ad hoc.
Step 12 – Ritorno delle informazioni ai partecipanti: feedback ai partecipanti in modalità che loro stessi possano esprimere il proprio
punto di vista (che può favorire la comprensione di quello altrui, favorendo la coscienza collettiva). In questa fase è possibile leggere
i dati sotto nuovi punti di vista.
Step 13 – Stesura del report finale: terrà conto di tutte le info raccolte e delle reazioni organizzative ai feedback. Questo è un buon
momento per verificare se e quali siano effettivamente le azioni da intraprendere, quali e quanti saranno i cambiamenti/miglioramenti
raggiunti.
Step 14 – L’osservatorio permanente: l’analisi continua, questa è stata solo una prima fase. I dati raccolti ora serviranno in futuro per
nuovi paragoni e nuovi interventi (da qui è utile predisporre un osservatorio permanente).
Capitolo 10 – La Leadership
La leadership è la dimensione della personalità, strumento per raggiungere i risultati, determinante processi di gruppo, esercizio di
influenza, forma di persuasione, relazione di potere e arte di avere seguito. Chiaro quanto sia importante la relazione della leadership
con i follower, nonché l’etica dell’integrità, della fiducia e della giustizia.
Spesso viene confusa con il management, ma non è così: quest’ultimo infatti è il raggiungimento degli obiettivi organizzativi in
maniera efficace ed efficiente, attraverso la pianificazione, l’organizzazione, la costruzione dello staff, la direzione e il controllo delle
risorse organizzative. Leadership e management quindi non sono la stessa cosa, anzi, il loro rapporto è estremamente utile per
approfondire il discorso delle organizzazioni.
- Autocratico: centralizzazione dell’autorità, prende il potere dalla posizione e lo gestisce attraverso il controllo, le
ricompense e forme di coercizione.
- Democratico: delega l’autorità agli altri, incoraggia la partecipazione, si affida alla conoscenza e competenza dei follower.
- Laissez-faire: esercizio passivo, lascia fare ai follower ed interviene solo quando richiesto dagli stessi.
- l’autocratico portò a buone prestazioni quando il leader era presente, ma nascevano sentimenti negativi tra leadership e
follower.
- Il democratico portò a prestazioni qualitative migliori e affettività positiva e rimanevano tali anche in assenza del leader.
Una ricerca successiva (Michigan e Ohio, 2001)portò al riconoscimento di due stili di leadership “ecologici” (cioè che esistevano
nella realtà lavorativa):
- Job-centered: centrato sul lavoro, rilevato da scale che misurano l’enfasi sugli obiettivi e la facilitazione del lavoro;
- Employee-centered: centrato sulla persona, rilevato da scale che misurano il supporto ai collaboratori e la facilitazione
dell’interazione.
Anche Likert individuò diversi stili di leadership: autoritario minaccioso, autoritario benevolente, consultativo e partecipativo.
Si decise di creare uno strumento che fosse in grado di misurare quale fosse lo stile efficace di leadership; venne messa a punto la
Leader Behavior Description Questionnaire (LBDQ, Stogdill), dalla quale emersero due dimensioni di leadership principali:
- Leader debole: ha punteggi bassi su entrambe le dimensioni e limita i suoi sforzi giusto per mantenere la sua posizione;
- Leader manipolatore: il suo interesse è la produzione e tende ad attirare altri strumentalmente;
- Leader amichevole: poco interesse per la produttività e molto interesse per le relazioni;
- Leader moderato: ha interessi intermedi in entrambe le dimensioni ed è orientato a mantenere buon clima e buone
prestazioni;
- Leader della squadra: è interessato fortemente ad entrambe le dimensioni, cercando di ottenere il meglio alimentando al
contempo un buon clima di gruppo.
Il modello di contingenza (Fiedler) connette situazioni e leadership: gli stili dei leader (che dipendono da motivazioni al compito o
motivazioni alle relazioni) devono essere valutati in relazione alle caratteristiche della situazione:
- Relazione tra leader e follower: è la dimensione più importante poiché determina quanto la situazione sia favorevole al
leader. Più positive son le relazioni, più è probabile che il leader possa esercitare influenza;
- Struttura del compito: in che modo sono strutturati i compiti (facili da comprendere, equi ecc) contribuiscono ad una
situazione favorevole;
- Potere di posizione: se questa è elevata il leader può esercitare la propria influenza.
Fiedler ha poi creato un modello in cui è necessario rispondere a delle domande – che indagano le tre caratteristiche specificate sopra
– per identificare le situazioni e lo stile di leadership più appropriato.
Altri autori (Hersey e Blanchard) hanno proposto un modello che si basa sulla maturità dei collaboratori ad affrontare i compiti. A
seconda del tipo di maturità (fig. 10.4 pag 242) il leader potrà scegliere tra questi stili:
- Prescrizione (maturità bassa): fornire istruzioni dettagliate, modi e tempi per realizzazione del compito. Il processo
decisionale è autonomo.
- Vendita di una buona realizzazione del compito: si forniscono info dettagliate e si spiega al contempo le motivazioni
dell’importanza del successo (livello maturità medio-bassa).
- Coinvolgimento (maturità medio-alta): dedicarsi poco al fornire info specifiche o al conseguimento dell’obiettivo e
dedicarsi maggiormente sulle relazioni, incoraggiando i collaboratori.
- Delegare quando la maturità è alta: si danno alti livelli di discrezionalità, fornendo poche info e rispondendo a dubbi se
emergenti.
Il modello – che viene riconosciuto come uno dei più completi relativi alla relazione situazione/leadership – prevede anche uno
sviluppo: non è detto che nella stessa azienda o addirittura per lo stesso compito i livelli di maturità non crescano e quindi lo stile di
leadership non possa evolversi anch’esso.
- Collaboratori: si fa riferimento al grado dell’essere guidati, dal locus of control, alle loro abilità;
- Contesto: struttura del compito, ripetitività, l’autorità formale del leader, il gruppo di lavoro.
Una volta definita la situazione in base a questi contesti, si potrà scegliere lo stile più adeguato:
- Direttivo: se i follower richiedono una direzione autoritaria, se hanno un locus of control esterno e abilità basse; il compito
è complicato o ambiguo.
- Di Sostegno: follower locus of control interno e sono competenti. Compito semplice ma il gruppo lavoro non supporta (per
questo interviene il leader).
- Partecipativo: follower vogliono essere coinvolti, locus of control interno e sono competenti. Il compito può essere
complesso e il leder fa partecipare alle procedure decisionali il gruppo lavoro.
- Realizzativo: follower aperti a una leadership autocratica (cioè con pieno potere), locus of control interno e abilità elevata.
Il contesto è caratterizzato da un compito semplice e elevata autorità. Il leader è sia direttivo sia di sostegno.
Questo modello è ancora sotto ricerca: l’applicazione risulta difficile poiché non è chiaro in che modo si possa esattamente definire
uno stile di leadership adeguato.
Il modello leader-member exchange studia la relazione diretta e diadica “leader-collaboratore”. In questa relazione si possono
formare due tipi di relazioni di scambio: in-group exchange (leader e follower sviluppano reciprocità e condivisione) e out-group
exchange (leader esprime volontà di controllo). In questo modello si è compreso che i follower tendono a ricambiare la relazione di
elevata qualità da parte del leader, con comportamenti di cittadinanza organizzativa e di partecipazione, influenzando così a loro
volta la qualità della vita in azienda.
È chiaro dunque che molti aspetti significativi questa relazione influenza anche la prestazione, la soddisfazione, turnover,
commitment e come detto cittadinanza organizzativa.
La leadership trasformazionale invece si concentra sugli aspetti ideologici, quali comportamenti carismatici, i messaggi visionari e
ispirazionali, la comunicazione non verbale, stimolazione a livello intellettuale e emozionale. Il processo che innescano sono
finalizzati alla trasformazione e alla crescita. Il leader trasformazionale è colui che è in grado di comprendere i bisogni dei follower e
trasformarli a loro volta in leader. Il profilo delle azioni ideali del leader sarebbero (le 4 I):
Il leader quindi deve accompagnare in un processo di apprendimento e approfondimento del proprio potere. È necessario che il leader
apprenda come divenire tale; i comportamenti da seguire, in sintesi, sarebbero:
Si rende necessario comprendere quanto queste dinamiche possano influenzare la buona opera del leader.
Sono state identificate 3 aree di studi che si concentrano sul tema delle differenze:
Jan Grant sostiene che vi sono alcuni elementi femminili che sono ormai imprescindibili da una buona riuscita della vita
organizzativa; questi sono la capacità di:
- comunicazione e cooperazione: le donne sviluppano sin dall’infanzia l’attitudine alla comunicazione e coop.
- affiliazione e l’attaccamento: predisposizione a creare e sostenere legami
- Potere: gli uomini lo vedono come controllo; le donne come uno strumento per gli altri, non sugli altri.
- Emotività e vulnerabilità: le donne vedono più facilmente le proprie lacune ed esprimono maggiormente emozioni e
insicurezza. Ciò porta ad una maggiore accuratezza nelle valutazioni.
- Intimità e cura: capacità di empatia verso gli altri.
La Sargent sostiene invece che l’androginia (ovvero lo stile di leadership che contiene mascolinità e femminilità elevati
simultaneamente) sia una condizione essenziale per le organizzazioni. Nei contesti organizzativi attuali la valorizzazione di tutti gli
aspetti di leadership deve essere presente.
Tipologia
- Decisioni programmate: affrontano problemi strutturati e conosciuti (manutenzioni, routine) e che consentono l’utilizzo di
procedure standard pianificate.
- Decisioni non programmate: affrontano problemi non strutturati, imprevisti, che non consentono l’uso di procedure
standard e che richiedono invece soluzioni originali ed innovative. Questo tipo di decisione si articola a sua volta in:
o Decisioni tattiche: affrontano problemi che non modificherebbero gli obiettivi organizzativi, bensì aventi effetti a
breve-medio termine ma che richiedono ugualmente una buona dose d’improvvisazione e creatività;
o Decisioni strategiche: hanno più rilevanza e alto livello di rischio, in quanto modificano strategie a lungo
termine.
Il Modello razionale
Questo modello si riferisce al fatto che l’uomo, in quanto essere razionale, possa prendere decisioni perfettamente razionali,
soddisfando il principio di massimizzazione dei risultati. Questo modello prevede diverse fai in cui l’individuo dovrebbe passare per
raggiungere una decisione razionale:
1. Ricognizione del problema: analisi di ciò che crea un divario tra la situazione presente e quella desiderata;
2. Definizione del problema e degli obiettivi: si analizza approfonditamente il problema e le possibili soluzioni ad esso;
3. Definizione criteri della decisione: si definiscono i requisiti delle decisioni per essere accettabili e funzionali al problema;
4. Generazione delle alternative: individuazione di tutte le possibili alternative.
5. Valutazione delle alternative: si analizzano le alternative secondo i criteri del punto 3;
6. Scelta della soluzione: si identifica la soluzione ottimale;
7. Implementazione della soluzione: si intraprende il corso d’azione prestabilito;
8. Valutazione e controllo della decisione: si valuta se la decisione presa è funzionale; la decisione è un processo circolare che
può essere ripreso e ripetuto in base alle esigenze.
L’efficacia della razionalità si basa su: razionalità assoluta del decisore, indipendenza dello stesso dall’ambiente, l’irrilevanza delle
sue emozioni, disponibilità assoluta delle info e la capacità di valutare le info in parallelo (tutte le info allo stesso tempo).
Simon comprese che l’idea del decisore del precedente modello come essere razionale infallibile fosse inadeguata; propose dunque
che il decisore disponesse di razionalità limitata e intenzionale. Seppur dotati quindi dell’intenzione di raggiungere la decisione più
razionale, i decisori sono influenzati da:
- Elaborazione delle info: le info possibili sui problemi sono maggiori rispetto a quelle analizzabili dal decisore che quindi si
accontenta delle info gestibili.
- Utilizzo di euristiche: uso di strategie generali di comportamento che si costituiscono a partire di dati immagazzinati.
- Principio della soddisfazione: il decisore può tendere a scegliere la prima soluzione “soddisfacente” piuttosto che quella
ottimale.
Altri modelli di decision making
Thompson ha creato un modello che si basa sull’essere in accordo o in disaccordo tra gli attori decisionali sugli obiettivi e sui metodi
da utilizzare. Si creano dunque quattro diversi approcci:
- Approccio Razionale: accordo sui metodi e sugli obiettivi; nessuna incertezza e nessuna ambiguità.
- Approccio incrementale: disaccordo sui metodi e accordo sugli obiettivi; alta incertezza e bassa ambiguità.
- Approccio Politico: accordo sui metodi ma disaccordo sugli obiettivi; bassa incertezza e alta ambiguità.
- Approccio “cestino della spazzatura”: disaccordo sui metodi e obiettivi; alta incertezza e alta ambiguità.
Le influenze interne
Un esperimento portò alla scoperta dell’effetto di inquadramento: le persone possono prendere decisioni differenti riguardo lo stesso
problema a seconda di come questi problemi vengono descritti (ad esempio in termini di guadagno o di perdita).
Un altro tipo di influenza può derivare dalla dissonanza cognitiva, cioè quell’emozione che si prova quando si percepisce incoerenza
tra ciò che si pensa di essere e i comportamenti messi in atto. Questo può portare non solo ad influenzare il processo decisionale in
sé, ma anche il decisore a continuare sin dopo la scelta a rimuginare sugli aspetti positivi della non scelta e gli aspetti negativi della
scelta effettuata.
Le influenze esterne
Influenze di processo:
- Divisione del lavoro: la limitazione della comunicazione crea distorsioni e omissioni nella ricerca e diffusione info;
- Gerarchia organizzativa: i subordinati faticano a comunicare coi superiori e questi ultimi filtrano tali messaggi dai
subordinati.
- Qualità e accessibilità dell’informazione: non sempre è facilitato l’ingresso di info attendibili o di qualità;
- Limiti di tempo: spesso, in quanto obbligati dalla situazione, si tende a scegliere la soluzione più veloce e non quella più
efficace;
- Comunicazioni informali: spesso causano fraintendimenti.
- Incapacità “insegnata”: una formazione mal progettata può inficiare il processo decisionale; ad esempio un decisore che
non è stato addestrato a prendere decisioni in assenza di procedure può paralizzarsi.
- Responsabilità limitata: questa può portare i decisori a non poter prendere decisioni efficaci o veloci perché sono costretti a
richiedere il consenso da chi è gerarchicamente più in alto.
A metà strada tra l’influenza interna e quell’esterna c’è l’intensificazione dell’impegno, cioè quel perseverare in un corso d’azioni
nonostante i risultati ottenuti non sono all’altezza delle aspettative e c’è uno spreco di risorse ed energie nella sua realizzazione.
Seppur paradossale, questo fenomeno accade a causa di:
Non esiste l’approccio giusto per ogni problema: è la natura stessa del problema e il suo contesto a determinare se sia più corretto
avere un solo decisore o un gruppo.
I vantaggi del processo decisionale in gruppo sono:
A pagina 289 in tab. 12.1 è presente una tabella di confronto tra individuo/gruppo.
Visto che la decisione all’unanimità è assai rara, spesso la soluzione ottimale è quella relativa alla condivisione sostenibile, della
decisione per consenso.
Un metodo proposto per facilitare questa evenienza è quello del brainstorming dove:
Limiti del brainstorming: non tutti riescono ad aprirsi, si manifesta il blocco produttivo (chi è in attesa del proprio turno si dimentica
le idee che aveva avuto).
- Gruppo Nominale: il gruppo è solo di nome; tutti i partecipanti scrivono e poi espongono le loro idee. Poi tutti votano
l’idea che reputano migliore.
- Gruppo Delphi: esposizione del problema e questionario (o foglio bianco) per possibili soluzioni a tutti i membri. Il
moderatore raccoglie le idee, le inoltra a tutti e questi ultimi possono votarle, rielaborarle in maniera anonima. Si ripete
finché non si raggiunge una soluzione condivisa.
Schwenk ha ideato una figura, detta l’avvocato del diavolo, che ha il compito di analizzare in modo critico le proposte e le
argomentazioni del gruppo cercando di scoprire ogni debolezza o omissione. Quando l’avvocato del diavolo termina la relazione e la
espone, il resto del gruppo deve controbattere in maniera costruttiva; il processo si ripete finché entrambe le parti non sono
soddisfatte.
In ultima analisi, da ricordare che il metodo telematico ha assunto importanza nel modo di comunicare; questo metodo porta con sé
dei vantaggi/svantaggi: assenza di segnali paraverbiali o non verbali nella comunicazione (espressioni, tono di voce), scambio sociale
limitato e possibilità di superare inibizioni e conflittualità.
Disfunzioni della presa di decisione in gruppo.
I gruppi hanno:
- La tendenza al rischio: si tende a percepire minor responsabilità e quindi a correre più rischi;
- Spesso però gli individui avevano anche più cautela dal passare a decisioni individuali a decisioni di gruppo;
- Stoner individuo la polarizzazione del gruppo: la possibilità di rischio dipende principalmente dalle preferenze individuali,
dal contesto, dalle info ricevute e le modalità di discussione.
- Groupthinking: spesso il livello di coesione del gruppo inficiava la presa di decisioni; si preferiva il gruppo alla decisione.
Un tentativo di aggiornamento dei modelli razionali è stato mosso da Bordley con la sua teoria della decisione prescrittiva, dove
assume che sia necessario prendere in considerazione sia le influenze interne ed esterne che intervengono nella decisione. La PDT
propone 12 passi (pag. 295) per raggiungere una buona decisione.
Altri autori hanno rilevato che il modello razionale porta spesso all’errore recidivo: una volta presa una decisione corretta
difficilmente si cambiano i modi di operare e di ricerca di soluzioni, anche a fronte delle mutazioni dei problemi.
La NDM – traducibile con “presa di decisione naturale” – è stato creato da alcuni autori che si sono occupati di presa di decisione in
condizioni difficili e complesse (scarsità di tempo, incertezza, ambiguità, limiti individuali, influenze esterne ecc).
L’obiettivo è analizzare le modalità attraverso cui le persone ricostruiscono un senso nei confronti del processo di decisione,
considerandolo però attraverso un punto di vista ecologico.
Il tentativo di spostarsi in contesti ecologici viene criticata per la scarsità di strumenti analitici. L’unico vantaggio dallo studio
ecologico è quello di incrementare la consapevolezza di sé degli individui.
Altri autori però, riprendendo la NDM, fondano una razionalità ecologica, un modo di prendere decisioni in base alla propria
esperienza e soprattutto in base al contesto ambientale in cui questa deve essere presa.
Al contratrio della razionalità classica – che mira al raggiungimento di modelli condivisibili con tutti – quello della razionalità
ecologica si concentra sulla situazionalità e sull’efficacia delle euristiche che individui (anche non esperti nel processo decisionale)
possano prendere buone decisioni in base al contesto in cui si trovano.
Capitolo 13 – Cambiamento e sviluppo Organizzativo
13.1 – Lo scenario del cambiamento organizzativo
Domande che ci si pone all’inizio del capitolo:
- Cosa porta gli attori a cambiare qualcosa del loro “organizzare”, del modo di fare ed essere?
- Com’è stato definito il cambiamento organizzativo?
- Come viene gestito un cambiamento organizzativo?
Le organizzazioni cambiamento secondo spinte interne od esterne, oppure pianificando o adeguandosi alle situazioni non prevedibili.
Gli attori si devono muovere (influenzati dai cambiamenti sociali) verso un territorio che non ha più confini e verso una condizione
in cui rapidità, gestione dell’urgenza e velocità di esecuzione sono caratteristiche fondamentali per il mantenimento della posizione
del mercato.
Le definizioni di cambiamento
Spesso il cambiamento organizzativo è confuso con lo sviluppo organizzativo; per evitare questo Quaglino presenta le seguente
definizione: il cambiamento è un atto deliberato caratterizzato da un passaggio nel tempo da uno stato presente A ad uno stato futuro
B. Lo stato A è caratterizzato da una situazione problematica che interferisce con la normale stabilità; lo stato B rappresenta la
situazione auspicata in cui l’organizzazione raggiunge la condizione attesa. Il cambiamento è volto ad affrontare un problema agendo
sul sistema tecnico o sociale. In questo atto si combinano capacità diagnostiche e abilità tecniche.
Il Modello di Lewin
Secondo Lewin gli individui – singoli o gruppi - tendono a voler raggiungere l’omeostasi. Lo studioso dunque sostiene che il
cambiamento è quel momento di instabilità tra situazione presente e omeostasi desiderata. Le fasi del cambiamento secondo l’autore
sono:
- Scongelamento dalla situazione presente: diminuzione della motivazione, prestazione, soddisfazione rappresentano delle
spinte che possono rendere precaria l’omeostasi. A fronte di questo il management deve individuare perché vi siano queste
diminuzioni, agire sulle spinte al cambiamento inibendo le resistenze al cambiamento e attivare lo scongelamento.
- Azioni di cambiamento: messa in moto di azioni per cercare di influenzare gli attori organizzativi e tutte le strutture
generali dell’organizzazione.
- Una volta raggiunta, attraverso le azioni citate, una nuova omeostasi è possibile attivare una nuova fase di ricongelamento:
i cambiamenti desiderati sono rinforzati e stabilizzati.
Il Modello di Lussier
Questo modello integra il modello di Lewin, evidenziando maggiormente gli aspetti gestionali del cambiamento, attraverso 5 fasi:
- Definizione del Cambiamento: chiarire se l’obiettivo è diretto ad aspetti strutturali, tecnologici o sociali;
- Identificazione delle resistenze: comprendere fonte ed intensità delle resistenze messe in atto dagli attori organizzativi;
- Pianificazione Cambiamento: progettazione e supervisione del cambiamento;
- Promozione del Cambiamento: divulgazione del bisogno e delle necessità del cambiamento (rendere espliciti bisogni e
necessità, coinvolgimento degli attori ecc);
- Controllare il cambiamento: accertarsi se avviene e come si mantiene nel tempo.
Il Modello Sistemico
Questo approccio sostiene che ogni cambiamento – piccolo o grande – può avere effetti a cascata sull’intera organizzazione.
L’organizzazione è vista come l’insieme di 3 fattori che si influenzano reciprocamente; questi sono:
- Input: missione e visione dell’organizzazione. La missione è l’insieme di ragioni che spinge un’organizzazione a
comportarsi in un certo modo, la visione rappresenta l’obiettivo a lungo termine, ciò che la stessa vuole diventare.
- Oggetti del Cambiamento: tutto ciò che può essere oggetto di mutamento (aspetti organizzativi, fattori sociali, metodi,
obiettivi, attori ecc…
- Output: risultati attesi del cambiamento; il raggiungimento dipendono dal piano strategico adottato.
Il modello sistemico prevede che un singolo cambiamento negli oggetti possa avere effetto su tutti i 3 fattori sopra indicati.
13.3 – Le resistenze al Cambiamento
Spesso il cambiamento non è ben accetto e ci si pone dinanzi a questo con fenomeni di difese (rifiuto, negazione - psicodinamica). È
importante dunque non sottovalutare le dimensioni individuali, soggettive, emozionali e relazionali riguardo alla resistenza.
Farsi coinvolgere dal cambiamento non è facile; favorire un change-oriented behavior è una responsabilità del management. È
importante dunque, durante una fase di cambiamento, analizzare tutte le emozioni individuali e di gruppo che vengono provate. La
comprensione di queste è un’ottima strategia per affrontare il cambiamento organizzativo.
Vi sono diversi tipi di resistenze: individuali (derivanti da aspetti come commitment, soddisfazione lavorativa, personalità, locus of
control ecc) o di gruppo.
Le resistenze individuali
- Incertezza e insicurezza per il nuovo: il cambiamento è percepito come una minaccia nei confronti della propria sicurezza.
Esse possono essere di natura psicologica, economica o sociale. La reazione può essere quella di attivare comportamenti
regressivi o di rifiuto.
- Selezione percettiva delle informazioni: tendenza ad assimilare informazioni coerenti con opinioni, schemi cognitivi
personali utilizzati ecc…
- Abitudini: il cambiamento può portare a situazioni poco prevedibili; questo porta alla sensazione di assenza di controllo.
Le resistenze di gruppo
- Dinamiche legate al potere e ai conflitti: quando il cambiamento è percepito come discriminatorio (meglio per alcuni a
discapito di altri) si possono creare forti opposizioni o ostruzionismi.
- La struttura e la cultura organizzativa: un’organizzazione fondata specialmente su gerarchie, burocrazie, suddivisioni
rigide di ruoli e procedure sarà meno incline al cambiamento.
Agenti di cambiamento
Sono coloro che si preoccupano di indagare e comprendere le cause di resistenze e provvedere all’estinzione di esse. È importante:
individuare l’origine delle resistenze, distinguendo manifestazioni e conseguenze; inoltre saper individuare le resistenze nei confronti
del cambiamento in sé o nei confronti delle procedure per attivarlo. Per minimizzare le resistenze assume un ruolo fondamentale
l’utilizzo di canali di comunicazione organizzativa efficaci. Una ricerca ha dimostrato che il ricevere comunicazioni precise e
puntuali sul cambiamento da parte del management non solo diminuiva la possibilità di insorgenza di resistenze, ma incrementava la
soddisfazione lavorativa, il benessere psicologico e il commitment.
Un tentativo guidato e sostenuto dal top management, volto a migliorare lo sviluppo organizzativo nel tempo
(empowerment, apprendimento, capacità di problem solving) attraverso una gestione collaborativa e continua
della cultura organizzativa con l’aiuto di un consulente e l’uso della teoria di riferimento.
Di seguito si prenderà in considerazione l’Action Research, la ricerca-azione (RA) come metodo per perseguire lo sviluppo
organizzativo –
Le Definizioni
- RA è un modo di intervenire all’interno del contesto organizzativo con un intento trasformativo partendo dalla richiesta
commissionata oppure dalle volontà di un ricercatore.
- RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione. La produzione di conoscenza dovrà essere congiunta e
affondare le sue radici nella pratica. Ad esempio il ruolo del RA sarebbe quello di esplicitare conoscenze tacite all’interno
dell’organizzazione.
- RA è una filosofia, un modo di tessere e di vivere che interpreta e vive la partecipazione come testimonianza e come
metodologia. È una ricerca con, per e attraverso le persone, non sulle persone.
- RA è un processo di cambiamento.
- RA è una metodologia di ricerca prevalentemente qualitativa. È una pratica riflessiva e di cooperazione avente nel gruppo
cause e scopi comuni. È un passaggio da comunità di ricerca a gruppo.
Le prospettive
Il conflitto risulta ancora più marcato ed importante in organizzazione proprio a fronte delle problematicità sopra citate.
- Il modello strutturale: tratta i diversi parametri del sistema (procedure, norme, incentivi) che possono influenzare il
conflitto; Thomas divide le variabili in: predisposizioni comportamentali, le pressioni sociali, la struttura degli incentivi e i
ruoli e procedure.
- Il modello processuale: tratta la sequenza temporale degli eventi che accadono durante la genesi e lo sviluppo del conflitto.
Non tutti i conflitti hanno le stesse caratteristiche strutturali né i medesimi modi processuali.
Watson e Dutton inseriscono un’ulteriore distinzione: il modello di conflitto interunità che valorizza l’organizzazione come contesto
entro cui si può manifestare il conflitto (quindi danno valore al contesto).
Un’ultima ricerca categorizza ulteriormente il conflitto ponendosi la domanda: “Il conflitto cosa riguarda?”. Si ha:
- Task conflict: conflitti riguardo al compito, che riguardano dispute circa la distribuzione e allocazione delle risorse, dei
differenti punti di vista circa procedure e politiche ecc;
- Relationship conflict: discordanze connesse a gusti e stili personali, valori, preferenze ecc.
14.4 – Il conflitto e la vita organizzativa: alcuni punti di attenzione
È stato compreso che il conflitto influenza la soddisfazione lavorativa, il livello di turnover, il commitment, lo stress e il benessere
organizzativo. Sono dunque necessarie delle strategie per la gestione del conflitto. Nonostante ciò le vie per la comprensione del
conflitto e il modo di gestirlo sono ancora parzialmente inesplorate.
- Positivi: maggiore qualità di idee, dibattiti costruttivi, uso migliore delle risorse, individuazione di soluzioni, valutazioni
precise sul potere, alleanze e priorità organizzative.
- Negativi: clima ostile, disfunzioni gruppi di lavoro, aumento dell’ansia, timore, frustrazioni, paura del rifiuto, perdita del
senso e del ruolo.
Un po’ come con i livelli d’ansia, alcuni autori hanno ipotizzato esserci una curvilinea ottimale di rapporto tra conflitto/prestazione.
Alcune ricerche hanno dimostrato la correlazione tra soddisfazione e conflitto; non è chiaro però che l’assenza del conflitto porti a
soddisfazione o assenza di soddisfazione porti a conflitti. In ogni modo è chiaro che la relazione è vicendevole.
In sintesi si può dire che:
Emergono due prospettive su come il conflitto possa influenzare la percezione di efficacia individuale e collettiva:
- Information-processing perspective: il quantitativo di conflitto non deve essere troppo elevato né troppo basso, altrimenti il
senso di efficacia viene meno;
- Conflict typology frameworki: distingue tra il conflitto del compito o delle relazioni (task e relationship, visti prima),
adducendo che il primo conduce i soggetti a considerare più prospettive e diverse soluzioni mentre il secondo inficia il
buon funzionamento organizzativo (minore efficacia e innovazione).
Viene data, da alcuni autori, l’importanza alla cultura organizzativa del conflitto, il modo cioè contestuale dell’organizzazione di
vedere e gestire il conflitto. All’interno del gruppo i pattern di gestione del conflitto si basano su:
Il tipo di emozioni elicitate nel team influenzano il tipo di conflitto e il modo di reagirvi.
Il tipo di organizzazione e cultura della stessa influenza i conflitti esperiti; ad esempio nelle organizzazioni private l’alto
orientamento al risultato mitiga i potenziali effetti negativi del conflitto, mentre in quelle pubbliche orientate al supporto e servizio il
conflitto relazionale assume una valenza minacciosa. Il tipo di organizzazione e cultura organizzativa influenzano notevolmente il
conflitto.
Nel ‘69 Teigenbaum propose un concetto di “qualità totale” che riguarda sia appunto sia la qualità del prodotto e dei processi di
produzione e anche tutto ciò che ha a che fare con la soddisfazione della clientela.
Un’ulteriore evoluzione si è avuta con la Company Wide Quality Control, un sistema di gestione che implica la partecipazione alla
qualità dal top manager all’ultimo lavoratore dell’azienda.
Si giunge infine all’allargamento del concetto di qualità verso il significato di qualità positiva: la non-difettosità e la qualità del
processo produttivo sono molto importanti, ma diventano essenziali anche le aspettative verificate, misurate o supposte dal cliente.
- Qualità Attesa: qualità che il cliente si aspetta di ricevere; può essere esplicita o implicita, cioè data per scontata.
- Qualità Progettata: è quella che l’organizzazione si propone di raggiungere; non sempre questa qualità e quella precedente
coincidono.
- Qualità Erogata: è associata all’erogazione e non alla realizzazione; questa è la qualità realmente raggiunta in fase di
operazione e può differire da quella progettata.
- Qualità Percepita: qualità che il cliente riscontra nel servizio. È la sintesi di aspetti soggettivi ed oggettivi.
- Qualità Confrontata: la qualità che il cliente confronta con esperienze precedenti.
Ma esistono sfumature più complesse di soddisfazione: la qualità latente o eccitante ne è un esempio. Questa copre stati di
soddisfazione che potremmo definire superiori perché non attesi. Produrre qualità latente implica da parte dell’organizzazione
un’ottima competenza di anticipazione.
Un altro fattore da tenere conto è l’aspettativa del cliente.
- Enti normatori: realizzano ed armonizzano gli standard organizzativi a quelli internazionali rispettando le norme (le norme
son quelle regole ad esempio ISO);
- Enti di accreditamento: riconoscono ad un ente la capacità di svolgere compiti specifici
- Enti di Certificazione: si occupano di constatare che le norme utilizzate siano corrette e nel caso rilasciare una
certificazione attestante la qualità;
- Azienda: considerata l’ultimo tassello della qualità, poiché l’utilizzatrice finale delle norme accennate sopra, nonché
richiedente eventuale di certificazioni di qualità. Le certificazioni che può ottenere un’azienda sono quella del prodotto o
servizio (qualità raggiunta dallo stesso) oppure la certificazione del sistema di gestione aziendale (qualità, ambiente e
sicurezza) che riguarda le problematiche organizzative.
- Valori di base, che sono comuni e diffusi a tutti gli attori organizzativi;
- Strategia operativa, orientata al perseguimento della qualità;
- Miglioramento continuo, tendente all’eccellenza che per definizione è irraggiungibile;
- Coinvolgimento di tutte le componenti organizzative;
- Innovazione Kaizen: idea dell’innovazione come processo da attuare in piccoli passi – contrapposta al breakthrough che
postula che l’innovazione si basi su grandi e rivoluzionari cambiamenti. Il Kaizen è una forte influenza Nipponica.
A pag 368 è presente una tabella che distingue le caratteristiche del vecchio modello TQM rispetto a quello nuovo.
- Centralità del concetto di processo: si concentra sulla definizione, gestione e miglioramento dei processi organizzativi;
- Attenzione di tutti gli attori al miglioramento continuo e riduzione dei tempi, costi e sprechi;
- Concentrazione per applicare i due precedenti punti;
- Enfasi sul cliente: attenzione delle richieste, soddisfazione, servizio al cliente, diffusione delle conoscenze al cliente;
- Management my facts: utilizzo di dati e info oggettive e rilevabili con strumenti statistici;
- Coinvolgimento di tutti gli attori, favorimento della formazione, empowerment e implementazione dei self-managed team;
- Enfasi sulla gestione trasversale e non verticale;
- Supplier partnership: coinvolgimento fornitori per mantenere la qualità del servizio;
- Valorizzazione della qualità come strategia competitiva.
La metafora sull’arena ci porta a comprendere che le emozioni del singolo possono influenzare notevolmente il corretto svolgimento
del corso d’azioni in organizzazione. Le emozioni – elicitate ed espresse – colorano la vita organizzativa di sé. Le emozioni non sono
semplici sottoprodotti della vita organizzativa, ma le cause e le conseguenze della stessa.
- Ansie paranoidi di essere distrutti o annientati (nel gruppo questa possibilità è più bassa);
- Ansie depressive, timori di perdere qualcosa di desiderato o amato.
Queste forme d’ansia portano l’individuo a generare ogni tipo di meccanismi di difesa.
La gestione dell’ansia dunque rispecchia una fondamentale importanza per la generazione delle emozioni in organizzazione.
Molti sono i fattori che possono generare ansia: burocrazie troppo restrittive e fisse, ambigue responsabilità e procedure, eccessiva
distanza tra capi e collaboratori che induce la formazione di fantasie – rappresentazioni individuali che si creano a fronte di una non
sufficiente quantità di dati raccolta.
Viene anche considerato il rapporto con il proprio capo, che richiama alle volte il tipo di rapporti genitoriali infantili. Senza ombra di
dubbio l’analisi delle emozioni in organizzazione, dal punto di vista psicodinamico, non può che arricchire la gestione delle
organizzazioni.
Il contesto, in questo approccio, viene estremamente valorizzato come motore principale delle emozioni. Basi pensare a come certe
emozioni siano correlati a costrutti sociali (invidia per un posto gerarchico migliore), a come certe parole emozione-correlate siano
cariche di significati sociali e contestuali.
Anche il contesto in cui vengono espresse le emozioni conta: infatti impariamo non solo come elicitare le emozioni, ma anche
quando e in che modo esternarle.
Un esempio è la fatica o lavoro emotivo che si presenta quando in organizzazione un individuo è costretto ad azioni che non
coincidono con lo stato emotivo di quel momento ed egli è costretto a controllare ciò che provano e il modo di esprimerlo, se
consentito.
Inoltre l’espressione delle emozioni è contestuale anche al tipo di professione: ad esempio le infermiere devono esprimere amore e
cura, un allenatore entusiasmo, un insegnante passione ecc…
Quando però le risorse che servono a mantenere la maschera della finzione riguardo al tipo di emozioni provate vs emozioni da
esprimere/non esprimere si esauriscono, insorge la possibilità di burnout, di stress lavorativo.
La Psicologia dei Consumi è ricca di conoscenze disomogenee, sia per un marcato pluralismo metodologico, sia per forti
polarizzazioni e tensioni interne. Alcune tra queste sono:
- Rapporto tra saperi di base e saperi locali: i saperi generali e di base si fondano sul comportamento della mente mentre
quelli locali si rifanno alla contestualità dei saperi.
- Saperi scientifici e saperi pratici: differenziazione tra un sapere accademico e la praticità di quest’ultimo.
- Rappresentazione del consumatore in prospettiva industriale e post-industriale: viene spiegato che c’è stato un
cambiamento di rappresentazione ma né perché né come sia avvenuto.
Queste polarizzazioni rendono il lavoro di creazione di un corpus omogeno difficile se non impossibili.
Visioni
Le visioni riguardo la psicologia del consumo – da parte degli psicologi che l’hanno affrontata – sono state:
- Livello Individuale: si pone l’attenzione a livello individuale: chi osserverà e come potrà e arriverà a consumare. Questo
approccio non tiene conto del contesto, vede il consumatore e l’oggetto di consumo egualmente astratti. Alcune teorie, per
lo più cognitive, furono utilizzate per dar forza a questo approccio.
- Livello Macrosociale: tipico approccio dominante nella sociologia dei consumi, è nato a causa dell’esplodere della
domanda e della richiesta. Si inizia a differenziare l’oggetto di consumo in base alle varie caratteristiche di gruppi
macrosociali (ad esempio auto di lusso e auto utilitarie).
- Livello Microsociale: sviluppatosi dopo gli anni 90, questo modello è di più facile comprensione se suddiviso in 3 livelli:
o Situazionalità: il consumatore non è più universale, bensì è propenso a definirsi (scopi, condotti, progetti) in uno
specifico ambito di consumo.
o Esperienza: l’esperienza del consumatore diviene un dato rilevante e cruciale per la comprensione del consumo
stesso. Il consumatore dunque è coinvolto con l’azienda in un processo di co-costruzione di beni e servizi ma
soprattutto di esperienza. Si passa da un brand building a un brand affinity.
o Interazione: l’interazione tra consumatori diviene estremamente importante, considerando inoltre il network di
possibili comunicazioni che possono avvenire al giorno d’oggi.
Snodi
Schifo di paragrafo, si passa alle conclusioni. Alla fine di questo capitolo mi viene da chiedermi, tra tante belle parole, quanti siano
effettivamente i concetti affrontati. Pessimo capitolo, da saltare eventualmente.
Capitolo 18 – Marketing sociale, responsabilità e sostenibilità
18.1 – Significati, finalità e pianificazione
Il marketing sociale, avvalendosi delle tecniche di marketing, mira a dare importanza a diversi complessi problemi sociali, come la
prevenzione di patologie, promozione di stili di vita salutari, la sicurezza stradale, tutela dell’ambiente ecc.
Il marketing sociale può essere inteso come la “progettazione, la realizzazione e il controllo dei programmi finalizzati ad aumentare
l’accettabilità di una causa o di un’idea sociale; esso utilizza i concetti della segmentazione del mercato, della facilitazione, degli
incentivi e della teoria dello scambio per massimizzare la risposta del gruppo obiettivo”.
Più sinteticamente il marketing sociale può essere inteso come l’utilizzo di strategie che possano influenzare il comportamento dei
singoli o dei gruppi a favore degli stessi o della società intera.
La differenza con il classico marketing sta che quest’ultimo ha il fine di ricevere un vantaggio individuale, usualmente economico,
mentre il marketing sociale punta ad ottenere benefici collettivi.
- Cambiamenti cognitivi: ad esempio potenziando le conoscenze relative ad un problema con l’esposizione delle possibili
soluzioni da adottare;
- Cambiamenti d’azione: promuovendo le azioni da intraprendere entro un determinato periodo di tempo;
- Cambiamenti di comportamento: incentivando stili di vita positivi e l’abbandono di stili di vita negativi;
- Cambiamenti di valori: tramite la modifica di ideali e credenze, come la promozione delle pari opportunità.
Il marketing sociale dunque si caratterizza da tipologia dell’offerta, finalità dell’offerta e il carattere dell’offerta.
La realizzazione di un buon piano di marketing sociale prevede l’articolazione delle seguenti fasi:
- Analisi del contesto/ambiente: approfondimento dell’ambiente sociale, politico, culturale, economico, domanda e
concorrenza con il fine di trovare eventuali forze in grado di sostenere il piano;
- Sviluppo del piano di marketing: sulla base del punto precedente e in base alle proprie risorse disponibili, vengono definiti
gli obiettivi e le strategie.
- Implementazione/realizzazione dell’intervento;
- Audit/controllo e valutazione dell’efficacia.
Gli strumenti utilizzati e le diverse metodiche d’indagine possono essere riassunte quanto segue:
- Focus group: discussioni di gruppo, moderate da un paio di ricercatori, in cui vengono trattati gli argomenti di maggiore
interesse;
- Interviste ai testimoni privilegiati: esperti, politici ecc, utili per ottenere informazioni sugli utenti target;
- Survey: indagine quantitative svolte attraverso questionari. Si definisce chi dovrà rispondere, la numerosità campionaria e
le modalità di selezione.
- Esperimento: creare e fare un esperimento per poter constatare in laboratorio le dinamiche di causa/effetto tra le variabili
considerate.
- Osservazione: molto costosa, comporta l’osservazione diretta (ad esempio, in una campagna pro differenziazione rifiuti, si
potrebbero osservare le persone nel gesto di buttare i rifiuti).
- Tecniche implicite: procedure svolte usualmente al pc per comprendere il valore semantico che gli individui danno ai
determinati fattori (ad esempio comparizione frase “raccolta differenziata” e comprendere se viene inserita tra “cose buone
o cose cattive”).
- Ricerca etnografica: che si basa sul presupposto che per creare un messaggio forte sia necessario inserirsi nella cultura
oggetto, e non solo valutarla all’esterno.
- Prezzo: costi – non necessariamente economici - che l’utente dovrà sostenere per raggiungere l’obiettivo;
- Placement: facilità e comodità di accesso al cambiamento proposto e l’accessibilità del prodotto;
- Promozione: l’unica parte che rimane simile al marketing classico, tratta dei canali di distribuzione e la scelta di questi.
La Progettazione del prodotto sociale
Il prodotto va ben oltre le sue caratteristiche fisiche; esistono 3 livelli del prodotto da definire in fase di progettazione:
- Core product: vantaggi che l’utenza desidera o si aspetta di avere in cambio al comportamento adottato;
- Actual product: il prodotto vero, il comportamento da adottare;
- Augmented product: tutti i beni tangibili e i servizi che accompagnano il prodotto. Determinano il successo di una
campagna di marketing sociale.
Possono essere monetari o non monetari; quelli monetari possono essere inclusi nei augmented product (ad esempio cerotti per la
nicotina sono un costo monetario relativo all’adottamento di comportamenti anti fumo). I costi non monetari possono essere tempo,
sforzo, energia da utilizzare, nonché rischi o disagi – reali o percepiti che siano – relativi all’adozione del comportamento richiesto.
Diverse sono le strategie utilizzate per poter far fronte ad eventuali sensazioni negative nei confronti del prezzo: un esempio è quello
della gestione dei costi effettivi del augmented product (ribassare al 50% un telefono ipercostoso dopo 6 mesi dell’uscita) oppure
affidarsi ad enti famosi o ritenuti importanti nei rispettivi ambiti (Greenpeace per l’ambiente, associazioni mediche per la salute ecc).
Definisce il luogo in cui il comportamento designato verrà effettuato o dove si utilizzeranno o acquisteranno eventuali augmented
products. L’obiettivo è rendere di facile accessibilità il comportamento voluto e difficile quelli alternativi.
Alcune volte esistono delle difficoltà che gli utenti possono riscontrare per raggiungere l’obiettivo; per ovviare a questo alcuni autori
hanno proposto questa serie di fattori facilitativi:
- Avvicinare la location
- Estendere l’orario in cui un utente può usufruire di un servizio
- Essere presenti al momento della decisione: ad esempio predisporre dei controlli del tasso alcolemico fuori da discoteche
oppure ricordare sistematicamente l’importanza di un dieta equilibrata.
- Rendere la location più attraente: ad esempio l’accessibilità e la presentabilità di percorsi ciclabili
- Superare le barriere psicologiche legate alla distribuzione: partecipare ad una campagna contro l’alcool spesso può
significare aver avuto problemi con l’alcool; questo crea disagi psicologici. Per questo motivo nascono associazioni
anonime come gli Alcolisti Anonimi
- Essere più accessibili della concorrenza
- Rendere il comportamento concorrente più difficile
- Essere presenti dove gli utenti fuori target fanno compere o si ritrovano: ad esempio campagne contro il fumo potrebbero
essere collocate fuori dai bar, cinema ecc.
- Integrarsi con i canali di distribuzione esistenti adattati ovviamente al target di riferimento.
È il momento più rappresentativo di qualsiasi campagna di marketing. In questa fase è essenziale un tipo di comunicazione
persuasiva, concentrandosi sulla fonte, il contenuto del messaggio e i canali di comunicazione.
- Fonte: possono essere complementari e diverse. Una di queste è lo sponsor (fonte attendibile), oppure i partner (cioè
persone, organizzazioni che partecipano più attivamente alla progettazione; spesso la frase “in collaborazione con” indica
la presenza di quel partner). Poi ancora esistono i testimonial che conferiscono al comportamento promosso fascino,
carisma, potere e/o prestigio.
- Contenuto del messaggio: è necessario definire nei confronti degli utenti: 1 - cosa devono fare, 2 - cosa devono sapere e in
3 - che modo devono credere. Per il punto 1, un utile modo è quello di dividere il comportamento in sotto-comportamenti:
se il comportamento finale è “ridurre le emissioni” i sotto-comportamenti potrebbero essere “usare la bici, comprare auto
elettriche, spegnere gli elettrodomestici in stand-by ecc”. Per il punto 2 è utile diffondere dati statistici del comportamento
da adottare. Per il punto 3 la situazione è più ardua: non è una mera diffusione di informazioni, ma un cambio di credenze;
è utile dunque far comprendere la rilevanza delle credenze erronee che favoriscono il comportamento alternativo.
- Canali di comunicazione: la messa in atto di strategie creative dovrebbe seguire alcune regole di base: presentare
l’incisività del messaggio, focalizzazione dei benefici, elicitazione della paura (nel caso in cui questa non era cosciente, ad
esempio nel caso del cancro). In ogni modo i messaggi sulla paura dovrebbero essere incisi e coinvolgenti: ad esempio un
messaggio come “l’anno scorso il numero di morti in autostrada è diminuito del 20%” (non molto efficace, sembra più
statistico e meno umanizzato) potrebbe essere sostituito da “l’anno scorso abbiamo salvato la vita a 500 automobilisti come
te”.
18.4 – Il Controllo
Infine si rende necessario misurare e comprendere in che modo e quanto sia potuto essere efficace il messaggio di marketing. I 5
aspetti della misurazione da tenere a mente sono:
- Scopo della misurazione: correttiva, di valutazione del conseguimento degli obiettivi, per aumento dei finanziamenti ecc…
- Oggetto della mis: risultati a breve o lungo termine, impatto della comunicazione, analisi dei costi e profitti ecc…
- Strumenti della mis: metodi qualitativi (focus group, colloqui) e/o quantitativi (questionari) ecc..
- Momenti per la mis: due momenti: durante la campagna e a fine campagna.
- costi della misurazione: dipende da quanto si è voluto investire.
Con il primo (CRM) si intende quel tipo di marketing che, rispecchiando le caratteristiche del social marketing, si occupa del
benessere del consumatore, dell’azienda e della società tutta, in una formazione di win-win-win.
Con il secondo (GM) si intendono tutte quelle iniziative correlate all’assoluzione di desideri e bisogni umani attraverso un impatto
meno dannoso possibile nei confronti dell’ambiente e del mondo.
Si sta lentamente investendo sul consumatore: da ricettore attivo del marketing a consumatore critico, responsabile, che vuole avere
prodotti di qualità ma anche essere consapevole del rispetto ambientale. Uno degli approcci più diffusi riguarda l’uso di prodotti
biologici.
Vero però che si creano contraddizioni sia nei prodotti sia nei comportamenti umani: non sempre gli approcci ambientali sono
facilmente perseguiti da tutti – si pensi solo al costo dei prodotti bio.
Infatti si sono rilevati aumenti nelle preoccupazioni ambientali (emotive) nonché di coscienza ambientale (cognitiva) ma purtroppo
spesso sono in contraddizione con i comportamenti realmente messi in atto. Inoltre molti si sono dichiarati non completamente
disponibili a compiere sacrifici personali nell’interesse della protezione ambientale. Questo perché le persone tendono a dar più peso
a benefici immediati personali piuttosto che benefici collettivi a lungo termine.
Da un punto di vista psicologico è stato riscontrato che chi adotta comportamenti pro-ambientali ha caratteristiche individuali come:
alta coscienziosità, locus of control interno, elevati valori morali ecc. Sostanzialmente queste persone hanno un elevato senso di self-
efficacy, si sentono cioè responsabili del mondo e sono consapevoli del fatto che possono cambiarlo.
Capitolo 19 – La Gestione delle Emergenze
Nel presente capitolo verranno affrontate le attività in organizzazione relative alle helping professions (vigili del fuoco, ambulanze,
volontari, protezione civile ecc). La Psicologia dell’emergenza tratta delle emozioni e dei comportamenti relativi alle emergenze,
siano esse naturali o artificiali, e sia dal punto di vista della vittima sia dal punto di vista del soccorritore. L’emozione, in questi casi,
può essere predittiva dei comportamenti durante un’emergenza: disadattivi oppure adattivi alla sopravvivenza. Un fattore come delle
emergenze usualmente è la loro imprevedibilità, rendendo le persone coinvolte psicologicamente impreparate o solo minimamente
preparate ad affrontarle.
Da queste caratteristiche nasce il crisis management, cioè la modalità di preparazione e trattamento delle emergenze che ha il fine di
creare strategie utili per poter affrontare le emergenze causate dall’uomo, in modo da poterle interrompere e contenere eventuali
danni. La psicologia dell’emergenza si propone quindi di riportare a livelli di normalità le situazioni, i comportamenti e le emozioni
degli individui coinvolti. Nel particolare, la psicologia delle emergenze si occupa di:
Prevenzione
Intervento
Racchiude tutte le possibili azioni da attuare dopo l’inizio dell’evento di crisi. Le principali sono:
Riabilitazione del singolo e della comunità sia da un punto di vista fisico e pratico, sia psicologico. Usualmente queste tecniche si
rendono necessarie quando i sistemi di prevenzione e d’intervento non siano state efficaci. Infatti l’uso di queste strategie implica che
la crisi è avvenuta è probabilmente avrà effetti negativi per molto tempo. Questo comporta purtroppo la probabilità di ripresentarsi di
ulteriori crisi e la diminuzione di probabilità di vivere situazioni individuali di resilienza. Spesso si utlizzano le tecniche di defusing e
debriefing (vedi più avanti).
19.3 – I Rischi Psicosociali per il personale dell’emergenza
Di seguito l’analisi dei rischi, non solo delle vittime dirette, ma anche del personale di soccorso. Al contrario dell’immaginario
comune, i soccorritori spesso soffrono di disturbi psicologici, sociali e fisici a fronte di eventi traumatici. Uno dei fattori psicologici
più rilevanti e stressanti per il soccorritore è l’imprevedibilità dell’evento: per quanto possa essere ragguagliato, non sa esattamente
cosa si troverà di fronte. E già questo è emotivamente forte; se ci aggiungiamo una scarsa conoscenza su come affrontare la
situazione e formazione, le conseguenze emotive possono essere tragiche. Infine anche corpi feriti, senza vita, mutilati, situazioni di
rischio per la propria vita, incrementano ancor di più i disagi postumi.
Stress
Lo stress è uno dei disagi più comuni nel personale di soccorso; seppur l’evento traumatico in sé è un fattore di stress rilevante, non è
il solo che può far insorgere disagi. Infatti l’evento può sfociare in stress-post traumatico se vi sono combinazioni di stress acuto e
stress cronico, influenzate da tendenze individuali e di personalità, nonché la pregressa storia individuale di traumi. Ricerche hanno
dimostrato che se l’evento traumatico è già stato vissuto dal personale di soccorso, esso riuscirà a farvi fronte in maniera più
esaustiva rispetto ad eventi nuovi. Un aspetto da tenere a mente per contrastare l’effetto del trauma è la ristrutturazione cognitiva:
rivalutare la situazione sotto solo aspetti positivi piuttosto che negativi. Un’altra strategia di coping è la condivisione sociale con
colleghi che hanno vissuto anch’essi quella situazione.
Traumatizzazione vicaria
Per questioni di contatto diretto con le vittime, il personale di soccorso può alle volte assimilare vicariamente le forme di malessere
psico-fisico provate dalle vittime stesse – per carattere ed intensità. La vittimizzazione secondaria è chiamata appunto
traumatizzazione vicaria; essa è l’effetto della relazione che l’operatore di soccorso instaura con una vittima avente un disturbo post-
traumatico da stress. Da notare infatti che le sintomatologie del DSM sono sovrapponibili.
Burnout
Nonostante possa essere applicato a tutte le professioni, il burnout si elicita specialmente in professioni di soccorso a causa di
esaurimenti emotivi, depersonalizzazioni e ridotte percezioni di self-efficacy derivanti dal contatto con i traumatizzati. Anche in
questo caso gli stressor devono essere sia acuti sia cronici. La depersonalizzazione spesso è il risultato di una strategia di difesa:
questa componente impersonale è data dalla necessità di staccarsi dai traumi altrui, onde evitare l’eccessivo coinvolgimento. Questo
meccanismo di difesa però, essendo molto impegnativo, porta a sensazioni di sovraffaticamento e abusi di risorse psico-fisiche.
Ricordiamo infatti che il termine burnout è così inteso a causa di una sensazione di chi lo vive: l’impressione di aver bruciato tutte le
energie.
Il Defusing
Da to Defuse (ing. Disinnescare). Consiste in una discussione di gruppo, effettuata nelle prime ore successive all’evento critico. Può
essere considerato un primo “soccorso emotivo” delle vittime (dirette ed indirette). Lo scopo è la condivisione sociale quindi
l’evitamento di sensazioni di isolamento. Usualmente il gruppo di defusing è composto da 6-8 persone aventi vissuto il medesimo
trauma. Di seguito le fasi:
Serve a condividere, far comprendere esattamente alle persone l’accaduto e incrementare la sensazione di “non essere da soli”. I
conduttori non devono necessariamente essere psicologi; si tratta in fondo di un primo aiuto di condivisione.
Il Debriefing
Specialmente usata per il disturbo post-traumatico e quello vicario, il debriefing è definibile in maniera più completa con Critical
Incident Stress Debriefing (CISD), cioè quell’efficace processo psicologico che consente di limitare la possibilità che le reazioni
sviluppate immediatamente all’evento critico possano aggravarsi e cronicizzarsi, trasformandosi in sindromi più gravi. Usualmente
prima del debriefing è d’uopo ricorrere al defusing; a differenza di quest’ultimo, il debriefer deve necessariamente essere un
professionista in psicologia. Il debriefing può essere:
- Individuale: rivolto ad un’unica persona, vittima diretta o indiretta, avente avuto un trauma; usualmente si ricorre ad un
unico debriefer.
- Di gruppo: rivolta al gruppo; 2/3 debriefer, di cui almeno 1 psicologo. Il contesto di gruppo è migliore rispetto
all’individuale. Spesso si usa la tecnica della narrazione come strumento psicologicamente protettivo.
La prima fase del debriefing è di carattere razionale-cognitivo: i partecipanti devono ricostruire realisticamente l’accaduto.
Successivamente viene richiesto di descrivere ed esteriorizzare i contenuti emotivi vissuti durante l’evento e dopo di esso. Tale
meccanismo favorisce l’autoconsapevolezza sia del fatto sia di ciò che si è provato.
A livello temporale sarebbe indicato effettuare il debriefing tra le 24 e 96 ore successive al trauma: momento in cui sostanzialmente
gli individui iniziano a strutturarsi psicologicamente nei confronti del trauma ma allo stesso tempo non ci sia cristallizzati o i ricordi
siano ormai sfuocati.
Un altro fattore è l’omogeneità del gruppo: stesso lavoro o mansione, stesso evento traumatico e in numero non superiore a 15.
Il debriefing può essere succeduto da fasi di follow-up, che possono avvenire telematicamente (telefono o posta elettronica).
In italia questa tecnica non è ancora diffusa: nonostante le evidenze empiriche non è ancora presente fortemente nella nostra cultura.
Sotto questo aspetto la psicologia delle organizzazioni assume un ruolo fondamentale per la formazione di esperti e la diffusione di
tali pratiche.