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PSICOLOGIA DEL LAVORO (Colombo, Viotti)

A cura di Simone Quagliata

PSICOLOGIA ERGONOMICA: studia le modalità di regolazione del rapporto uomo-macchina-ambiente.

PSICOLOGO CLINICO DEL LAVORO: la psicologia del lavoro e delle organizzazioni applica le teorie “classiche” della psicologia agli
ambienti di lavoro. Vi è una vera e propria fusione delle due macro-aree più importanti della psicologia: da una parte quella
“clinica”, dall’altra parte quella del “lavoro”. Lo psicologo clinico del lavoro è uno specialista dell’ambito clinico, con competenze
nell’ambito della psicologia del lavoro, in grado di “leggere” le dinamiche disfunzionali che potrebbero portare allo sviluppo di una
patologia psichica all’interno di un ambiente di lavoro.

SELEZIONE DEL PERSONALE: 1. Identificazione del fabbisogno e analisi della posizione di lavoro (analisi del lavoro*) 2.
Reclutamento 3. Screening iniziale (referenze, CV, moduli di assunzione ecc.) 4. Selezione (colloquio, test, interviste ecc.) 5.
Socializzazione 6. Training 7. Pianificazione della carriera.
* ANALISI DEL LAVORO: processo sistematico che consiste nello scoprire la natura di un lavoro scomponendolo in unità
più piccole, processo che ha come risultato uno o più prodotti scritti che specificano che cosa fa la persona quando svolge quel
lavoro e di quali capacità ha bisogno per svolgerlo efficacemente.

FORMAZIONE AZIENDALE: momento di trasmissione e di acquisizione di un sapere tecnico-professionale e psicosociale. Possiamo


avere COMPETENZE SPECIFICHE (legate al compito) o COMPETENZE TRASVERSALI (= soft-skills, utili indipendentemente dal ruolo
svolto). Le tappe per la progettazione della formazione sono: 1. Analisi dei bisogni formativi 2. Definizione degli obiettivi 3.
Progettazione del corso (contenuti e metodi) 4. Attuazione del corso 5. Valutazione dei risultati finali.

-> -> RICERCA IN ORGANIZZAZIONE: deve avere un approccio “consulenziale” e rappresenta un’occasione per fare “diagnosi
aziendale” al fine di risolvere un problema o, più semplicemente, aumentare l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione. La ricerca
in organizzazione si colloca nell’ambito del tema del “cambiamento” e dello “sviluppo organizzativo”. Procede per tappe: 1.
Contatto iniziale 2. Analisi della domanda e alleanza con la committenza 3. Definizione della proposta progettuale
(individuazione del disegno di ricerca), del cronoprogramma e dell’offerta economica 4. Contratto con l’organizzazione 5.
Comunicazione all’azienda e avvio della ricerca 6. Restituzione dei dati e definizione delle linee guida di intervento. La ricerca
può essere “quantitativa” (questionari, test, fonti statistiche ecc.), oppure “qualitativa” (colloquio, interviste, focus group, diari di
bordo, osservazione partecipante, ricerca etnografica ecc.).
-> Nell’ambito della psicologia del lavoro non è corretto asserire che i dati sono “raccolti”: i dati, infatti, sono “costruiti”
dal ricercatore attraverso procedure di interpretazione e di attribuzione di significato.

ORIENTAMENTO PROFESSIONALE: consiste nel rendere l’individuo capace di prendere coscienza delle proprie caratteristiche
personali e di svilupparle in vista di una scelta in merito all’attività professionale (obiettivo -> aiutarla a interrogarsi su “ciò che
vuole essere”, finalità -> aiutarla a “svilupparsi” e a far fronte alle transizioni biografiche).

-> -> COUNSELING: intervento specifico di sostegno in ambito sociale e sanitario con caratteristiche precise che lo distinguono dal
social-work e dalla psicoterapia. Il counseling, che può essere svolto con incontri individuali o di gruppo, ha l’obiettivo principale
di offrire un sostegno alle persone che necessitano di compiere degli “aggiustamenti” nella loro vita, aiutandole ad aumentare il
proprio livello di consapevolezza. Il sostegno offerto dal counseling può essere applicato nell’ambito dell’orientamento scolastico,
professionale, oppure essere rivolto alla promozione della salute e soprattutto alla prevenzione del disagio (= prende le distanze
da un’ottica centrata sulla “malattia”, a favore di un’ottica fondata sulla prevenzione e sulla promozione del benessere generale
della persona). Parole chiave del counseling: prevenzione, si occupa di un compito specifico, interventi di breve durata, sviluppo
delle potenzialità personali, interazione persona-ambiente. La psicoterapia, a differenza del counseling, ha il proprio focus centrato
sulla “diagnosi” e sulla “patologia”: il suo intervento mira alla cura e alla riabilitazione. I confini fra counseling e psicoterapia sono
ben evidenziati dal tribunale di Milano (sentenza n. 10289/2011) e hanno a che fare con l’applicabilità dell’art. 21 del codice
deontologico degli psicologi.

-> -> CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO: può essere definito come “il movimento di un’organizzazione dal presente stato a uno
stato futuro (desiderato) con lo scopo di aumentare la propria efficacia ed efficienza”. Il cambiamento, quindi - laddove inteso
come un atto finalizzato e deliberativo - è un vero e proprio “passaggio di stato”: da uno stato A (quello presente) a uno stato B
(quello futuro, desiderato). Sebbene non sempre il cambiamento possa essere prevenuto e pianificato, di norma si può parlare di
“cambiamento organizzativo” quando quest’ultimo è pianificato ed intenzionale (cioè quando fra lo stato A e lo stato B sono messe
in atto delle vere e proprie “azioni di cambiamento”). Il cambiamento, quindi, può essere messo in atto per la risoluzione di un
problema oppure per avviare nuove pratiche gestionali che mirino semplicemente a migliorare l’organizzazione

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(efficienza/efficacia).
• KURT LEWIN: l’obiettivo di ogni organizzazione è quello di mantenere un equilibrio costante nel tempo (omeostasi)
anche in presenza di cambiamenti. Per Lewin, quindi, il cambiamento è una temporanea instabilità che agisce
sull’equilibrio esistente.
• LUSSIER: integra il modello di Lewin e individua 5 fasi che mettono in evidenza gli aspetti gestionali del cambiamento
(definire il cambiamento, identificare le resistenze, pianificare il cambiamento, promuovere il cambiamento e controllare
il cambiamento).
• APPROCCIO SISTEMICO: ogni cambiamento ha un impatto a cascata all’interno dell’organizzazione. Il modello sistemico
è caratterizzato dall’azione congiunta di 3 componenti (INPUT -> ELEMENTI DEL CAMBIAMENTO -> OUTPUT)*.
* INPUT: potenzialità organizzativa, opportunità, minacce esterne ecc. OUTPUT: organizzativo, di gruppo o individuale ELEMENTI
DEL CAMBIAMENTO: obiettivi, aspetti organizzativi, attori organizzativi, metodi, fattori sociali ecc.

-> -> RESISTENZE AL CAMBIAMENTO: il cambiamento può generare negli individui un’ampia gamma di stati d’animo che possono
avere accezioni positive o negative e generare, di conseguenza, delle resistenze o delle difese al cambiamento. Sebbene sia
“fisiologico” provare delle resistenze di fronte ad un qualsiasi cambiamento, è sempre importante affrontarle in modo adeguato
al fine di mettere in atto delle strategie per poterle affrontare in modo costruttivo. La prima cosa da fare è individuare la loro
origine e soprattutto distinguere le “manifestazioni” dalle “conseguenze”. Le resistenze al cambiamento possono riguardare sia
l’individuo che l’intero gruppo, inoltre si possono manifestare in diversi modi: calo del rendimento lavorativo, aumento
dell’assenteismo, richieste di trasferimento, dimissioni/licenziamento, malumore, incremento dei conflitti con i capi o con i
colleghi, insoddisfazione lavorativa, sabotaggi (sciopero) burn out ecc.
Le persone supportano il cambiamento (oppure mettono in atto difese o resistenze) a seconda del tipo di risposta che danno a
queste domande: conosco e comprendo la natura del cambiamento? Il cambiamento rappresenta per me un guadagno o una
perdita? Ho fiducia in coloro che promuovono il cambiamento? Sono d’accordo con le opportunità che sembra offrire questo
cambiamento? Rispetto alla mia situazione professionale, come lo sento, lo valuto e lo percepisco questo cambiamento? Ad
occuparsi del cambiamento sono i cosiddetti “AGENTI DI CAMBIAMENTO”, essi possiedono le giuste competenze per affrontare il
cambiamento e possono essere sia interni all’azienda (leadership, vertici) che esterni alla stessa (professionisti, consulenti). I
lavoratori possono sviluppare delle resistenze anche nei confronti degli agenti di cambiamento stessi. I lavoratori devono avere
fiducia in chi gestisce il cambiamento, da questo dipende anche quelle che saranno le reazioni di fronte al cambiamento:
• REAZIONI DI SOSTEGNO: supporto attivo (i lavoratori si “attivano” per dare il loro contributo alla gestione del
cambiamento), consenso negoziale (i lavoratori accettano il cambiamento, ma vogliono “negoziare” la sua gestione con
i loro capi) o consenso passivo.
• REAZIONI DI RIFIUTO: opposizione passiva (i lavoratori si “adagiano”, per esempio riducendo la loro produttività),
resistenza attiva (sciopero, manifestazione di protesta) o, nei casi estremi, abbandono dell’organizzazione
(licenziamento).
La ricerca può essere impiegata per far fronte in modo costruttivo ai cambiamenti, si esegue attraverso una successione di fasi: 1.
Diagnosi (individua il bisogno di cambiamento) 2. Definizione degli obiettivi 3. Piano d’azione 4. Valutazione dei risultati.
-> Se in un’organizzazione il cambiamento organizzativo e strutturale non è accompagnato anche da un cambiamento culturale -
> la discrepanza tra “struttura” e “cultura” genera resistenze al cambiamento.

-> -> SOLIPSISMO TELEMATICO: propensione a vivere il web come un “rifugio” che consente di trovare sollievo dalle proprie ansie
e dai propri problemi quotidiani.

-> -> ABUSO DELLE INFORMAZIONI DISPONIBILI IN RETE: può portare al sovraccarico cognitivo (= riduzione dell’attenzione), alla
genesi di un “circolo vizioso” che determina un vero e proprio “isolamento sociale”, all’impossibilità di sperimentare nella realtà
parti di sé importanti per lo sviluppo (creazione di una “falsa identità”), alla sensazione di onnipotenza, alla sperimentazione del
fenomeno del solipsismo digitale.

-> -> NEW ADDICTIONS (= nuove dipendenze): sono classificabili come new addictions tutte le forme di dipendenza che non
prevedono l’assunzione di sostanze chimiche (abuso di internet, gioco d’azzardo, sesso, shopping, smartphone, videogiochi, serie
tv ecc.). Tutte queste attività sono generalmente considerate lecite e socialmente accettate.

-> -> CARATTERISTICHE DELLA DIPENDENZA: è patologica, ha a che fare con i sistemi di gratificazione (anche a livello cerebrale),
possiede una spinta compulsiva (la persona “non riesce a fare a meno” dell’oggetto del desiderio, quando lo ricerca prova disagio
- tensione anticipatoria - quando lo ottiene prova una sensazione momentanea di sollievo - una sorta di “scarica di piacere” a
seguito della soddisfazione), vi è una ripetitività comportamentale, la persona sperimenta un’esperienza di CRAVING (desiderio
impulsivo per l’oggetto o per la messa in atto del comportamento), vi è difficoltà nella gestione dell’auto-controllo, vi è il pensiero
ossessivo e, spesso, la persona prova sensi di colpa dopo che ha soddisfatto il bisogno.
-> L’abuso di internet è un fenomeno degno di essere osservato e studiato in quanto può favorire l’insorgenza sia di fenomeni
“sociali” che si fenomeni “clinici”.
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-> -> TECNOSTRESS: termine impiegato nell’ambito della psicologia del lavoro e delle organizzazioni per indicare lo stress legato
all’utilizzo eccessivo delle tecnologie ai fini lavorativi. L’IPER-CONNESSIONE (l’utilizzo di internet oltre l’orario di lavoro) non
permette al lavoratore di recuperare la fatica (limita le attività di recupero necessarie per il benessere), può generare conflitti tra
il lavoro e il resto della vita (conciliazione lavoro-famiglia) e può generare forme di dipendenza dal lavoro (WORKAHOLISM).
Cosa fare? -> DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE (è una misura importante che minimizza gli effetti negativi dell’iperconnessione e
che quindi promuove il benessere del lavoratore e - di conseguenza - l’aumento della sua efficacia ed efficienza sul luogo di lavoro).
A volte la dipendenza da internet è dovuta alle altissime richieste che l’organizzazione rivolge al lavoratore (in questo caso non
siamo di fronte ad una dipendenza “patologica”, ma tutto è dovuto all’OVERCOMMITMENT (= senso di responsabilità eccessiva e
sproporzionata del lavoratore che si “sforza” più di quanto richiesto).
Altri rimedi per il tecnostress -> distacco psicologico (recovery), maggior controllo sul tempo libero e impegno in attività
diverse da quelle del lavoro (hobby, passioni).

PASSIONE: può essere “ossessiva” oppure “armoniosa”. Attenzione a non incombere in una cattiva gestione delle priorità. Il
lavoratore deve svolgere la propria attività in modo “EGOSINTONICO”: non deve essere l’attività a “controllare” lui, ma deve essere
lui ad avere pieno controllo dell’attività.

-> -> CULTURA ORGANIZZATIVA: insieme di significati condivisi e socialmente costruiti che influenzano i comportamenti, gli stati
d’animo, le emozioni e le azioni degli individui che fanno parte dell’organizzazione (= l’APPROCCIO CULTURALE vede le
organizzazioni proprio in questo modo). La prospettiva culturale si colloca al crocevia di tre discipline: psicologia, sociologia e
antropologia. La cultura organizzativa è in contrasto con la prospettiva tradizionalista e con quella neo-positivista, quest’ultima
tendeva a sottovalutare gli aspetti “soggettivi” delle persone in organizzazione a favore di tutti gli aspetti “oggettivi” e
strutturali. È importante prendere consapevolezza dell’importanza dei bisogni soggettivi delle persone anche al fine di ottenere
un risultato lavorativo migliore. A tal proposito ci troviamo di fronte a due approcci: 1. Le organizzazioni POSSIEDONO cultura 2.
Le organizzazioni SONO cultura.
• SELZNICK: i sistemi cooperativi hanno una duplice dimensione, da una parte “organizzativa” (= l’organizzazione è uno
strumento concepito razionalmente per raggiungere degli obiettivi), dall’altra “istituzionale” (= sono gli individui stessi a
generare l’organizzazione grazie ai loro bisogni e alle pressioni sociali; l’organizzazione diventa un’istituzione nel
momento in cui s’impregna di valori).
• HATCH: è uno dei primi autori ad accostare il termine “cultura” all’ambito delle organizzazioni, grazie a un articolo
pubblicato nel 1979 in cui approfondisce i metodi qualitativi impiegati nella ricerca organizzativa.
• EDGAR SCHEIN: è l’autore che ha dato il maggior contributo allo studio della cultura organizzativa. Sostiene che si può
parlare di “cultura” solo nel momento in cui le persone che fanno parte dell’organizzazione “credono” fortemente e
ritengono validi i loro sistemi di significati. Se questi significati sono ritenuti validi, non solo si può parlare di cultura, ma
potranno anche essere trasmessi ai futuri membri che entreranno a far parte dell’organizzazione. Secondo Schein, inoltre,
la cultura genera dei modelli cognitivi (grazie ai quali i lavoratori possono “catalogare” e interpretare ciò che gli accade
intorno), dei modelli emotivi/affettivi (che influenzano inevitabilmente l’impegno, l’energia e il senso di appartenenza)
e la distinzione di chi è “dentro” e chi invece è “fuori” dall’organizzazione (dinamiche ingroup/outgroup).

-> -> SOTTOCULTURE: all’interno della medesima organizzazione possono convivere delle “sottoculture” che si costituiscono per il
fatto che vi sono alcune cose in comune fra i membri (età, ruolo lavorativo, orientamento sessuale, modo di percepire la realtà
ecc.). Solitamente tendono a lavorare a stretto contatto o a frequentarsi in ambito lavorativo o extra-lavorativo.

-> -> METODOLOGIA ETNOGRAFICA: si tratta di un tipo di ricerca qualitativa che permette di comprendere la cultura organizzativa
mediante il punto di vista dei “nativi” (“entrando” nella loro pelle ed “osservando” con il loro sguardo e i loro occhi al fine di
ottenere una comprensione reale della realtà della cultura in cui sono collocati). Parole chiave della metodologia etnografica:
preferisce l’utilizzo delle parole (anziché dei numeri), osserva le persone nell’ambiente in cui vivono e lavorano (osservazione
partecipante), coglie il punto di vista dei “nativi”, utilizza un disegno di ricerca aperto, libero, non strutturato (in funzione della
mutevolezza del contesto), non ha idee preconcette (non dà mai nulla per scontato), genera ipotesi induttive e protegge la cultura
(senza intervenire per modificarla).

-> -> COMPITO PRIMARIO: è il motivo principale e l’obiettivo ultimo per cui l’organizzazione si è costituita e da cui dipende la
sopravvivenza della stessa.
• LAWRENCE: secondo l’autore il compito primario genera ansia negli individui, nei gruppi e nelle organizzazioni perché li
“obbliga” a confrontarsi quotidianamente con tutto ciò che è “incerto” e che non conoscono. Secondo Lawrence vi sono
3 accezioni al compito primario:
1. Compito primario NORMATIVO (o FORMALE): è di solito definito dagli azionisti e permette di “rendere operativi” gli
scopi dell’organizzazione (= che cosa diciamo di fare).

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2. Compito primario ESISTENZIALE: è ciò che i lavoratori “pensano” di fare, il significato e l’interpretazione che danno
al loro ruolo o alla loro attività (= che cosa pensiamo di fare).
3. Compito primario FENOMENOLOGICO: è tutto ciò che può essere dedotto osservando il comportamento dei
lavoratori ed è spesso inconscio (= che cosa facciamo davvero).
Nelle aziende che offrono servizi alla persona, rispetto a quelle che vendono beni e servizi, il compito primario è di difficile
definizione: tanto più il compito primario di un’organizzazione “incarna” aspetti di vitale importanza per il genere umano, tanto
più le ansie provate fanno nascere delle “discrasie” fra i livelli descritti da Lawrence. Le aziende sanitarie, per esempio, hanno un
compito primario NORMATIVO ed ESISTENZIALE che ha a che fare con la cura e l’assistenza, e un compito primario
FENOMENOLOGICO “problematico” (= “illudere” la società che la morte possa essere evitata). In questo caso, il rischio, può essere
un eccessivo sbilanciamento sulla “cura” piuttosto che sull’assistenza e sul miglioramento della qualità di vita.
Sintomi di una cattiva definizione del compito primario: inefficacia/inefficienza, abbassamento della qualità del servizio,
insoddisfazione dell’utenza, diffidenza cronica nei confronti dei cambiamenti, conflitti, stress, burn out, super-lavoro o
assenteismo (brevi assenze, ma frequenti).

EFFETTO HAWTHORNE: il lavoratore ha la tendenza a modificare il proprio atteggiamento e la propria prestazione già solo per il
fatto che qualcuno “lo sta osservando”.

-> -> CULTURA DI GRUPPO: termine individuato da Bion che fa riferimento a un insieme di stati mentali condivisi a livello di gruppo
che permettono di dare un senso e un significato alle esperienze esperite dal gruppo stesso. Nel gruppo gli individui sperimentano
sia attività coscienti e razionali che attività inconsce e pulsionali, in questo modo si viene a creare una “MENTALITÀ DI GRUPPO”
(= cultura). Nella cultura del gruppo di lavoro il focus è centrato sul compito.

-> -> GIUSTIZIA IN ORGANIZZAZIONE: è la percezione riguardo alla correttezza del trattamento ricevuto da ciascun lavoratore
(retribuzione, percorso di carriera, benefit, riconoscimento ecc.). Si possono individuare 4 tipi di giustizia organizzativa:
• GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA: si riferisce alla correttezza degli esiti della decisione (è corretto quello che ricevo in cambio del
mio lavoro?). Deve rispettare il principio di equità (basato sul merito o sul bisogno = iniziative dirette a garantire la
sicurezza e il benessere del lavoratore) e il principio di uguaglianza (distribuzione uguale per tutti).
• GIUSTIZIA PROCEDURALE: si riferisce alla correttezza del processo che conduce agli esiti della decisione (quanto è corretto
il processo utilizzato per la decisione presa in merito al trattamento ricevuto?). Gli esiti che sfavoriscono una percezione
positiva sul piano della giustizia procedurale sono: favoritismo, mancato utilizzo di informazioni ritenute rilevanti e
mancanza di partecipazione dei diretti interessati nei processi procedurali.
• GIUSTIZIA INTERNAZIONALE: riguarda la percezione di “come ci si sente trattati dai propri superiori” (in che misura mi
sento trattato in modo dignitoso e rispettoso dal mio superiore?).
• GIUSTIZIA INFORMATIVA: riguarda la correttezza delle informazioni fornite riguardo il processo decisionale (le
informazioni sono state condivise in modo corretto?).
Come si formano le percezioni di giustizia?
• TEORIA DELL’EQUITÀ (Adams, 1965): i lavoratori si preoccupano per il loro apporto (input) e per ciò che ricevono in
cambio dall’organizzazione (output). Input = impegno, tempi, responsabilità, formazione ecc. Output = stipendio, benefit,
stima, riconoscimento ecc. Quando il lavoratore percepisce il rapporto con il proprio “capo” come scorretto, secondo
questa teoria, sarà propenso a ristabilire un equilibrio (per esempio modificando i propri input). Secondo Siegrest, i
lavoratori “accettano” di lavorare in condizioni sfavorevoli solo in questi casi: 1. Crisi economica 2. Aspettative di
miglioramento delle condizioni in futuro 3. Overcomitment (= spinte ossessive/compulsive nei confronti del lavoro).
• TEORIA EURISTICA DELLA CORRETTEZZA (Lint, 2001): i lavoratori, generalmente, si formano dei giudizi complessivi in
merito alla giustizia di un’organizzazione molto precocemente. Questi giudizi complessivi vengono utilizzati
successivamente per valutare esperienze ed eventi (evitando in questo modo ogni volta un nuovo giudizio, riconsiderando
ogni aspetto “da zero”).
-> Gli obiettivi della valutazione: i lavoratori sono in grado di fare ciò che viene loro richiesto? Hanno un’idea chiara di ciò che ci si
aspetta da loro? Occorre un intervento formativo per trasmettere loro le conoscenze e le abilità di cui hanno bisogno per svolgere
il lavoro? Hanno le risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro? Inoltre è molto importante: restituire un feedback circa il
proprio operato e contribuire alla definizione di sviluppi di carriera.

ON THE DIMENSIONALITY OF ORGANIZATIONAL JUSTICE: è lo strumento più utilizzato per misurare le 4 forme di giustizia
organizzativa.

VALUTAZIONE DELLA GIUSTIZIA: la valutazione è un processo dinamico che ha l’obiettivo di assegnare un valore all’azione svolta e
riuscire a comunicarlo agli altri (= giudizio + azione attivano il processo valutativo).

-> -> TEORIA DEL GOAL SETTING: è un metodo che permette di valutare i risultati rispetto agli obiettivi raggiunti. Si basa sui presenti
assunti: 1. Per ottenere una prestazione migliore si deve individuare un obiettivo specifico 2. L’obiettivo deve essere percepito
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come rilevante da chi lo persegue 3. È importante valutare anche i sotto-obiettivi (= obiettivi a breve termine) al fine di costruire
valutazioni in itinere 4. Per valutare al meglio possiamo usare diversi tipi di obiettivi (generici, di prestazione, comportamentali
o di apprendimento).

TECNICA FEEDFORWARD INTERVIEW (= intervista orientata al futuro): permette di individuare i punti di forza e di debolezza del
lavoratore.

COACHING: si tratta di un vero e proprio percorso che permette di ottenere continui feedback, man mano che gli obiettivi vengono
affrontati e conseguiti.

OVERRALL JUSTICE (= sopravalutazione): le persone più che focalizzarsi sui “singoli” aspetti, tendono a soffermarsi maggiormente
sui giudizi globali.

-> -> CLIMA ORGANIZZATIVO: è la trasposizione metaforica delle condizioni atmosferiche metereologiche all’ambiente sociale e
alle relazioni tra individuo e ambiente. Gli autori Moran e Volkwein distinguono 4 approcci al tema del clima:
1. CLIMA STRUTTRALE: il clima è una caratteristica intrinseca all’organizzazione che esiste indipendentemente dai membri
che vi fanno parte e dalle loro percezioni. Secondo questo approccio le condizioni strutturali rappresentano la “chiave”
per comprendere appieno gli atteggiamenti e le percezioni che i lavoratori hanno nei confronti della propria
organizzazione.
2. CLIMA PERCETTIVO: il clima origina all’interno dell’individuo (il lavoratore interpreta il clima in funzione di ciò che è
“psicologicamente corretto” per lui). È, in sostanza, un “clima psicologico”.
3. CLIMA INTERAZIONALE: il clima origina dalla condivisione delle percezioni di tutti gli “attori” presenti in organizzazione.
In questo caso il clima è il frutto di una “costruzione sociale.
4. CLIMA CULTURALE: il clima origina sia dall’interazione dei lavoratori che dal ruolo svolto dalla “cultura”.
-> Che cosa accomuna “clima” e “cultura”? Entrambi si occupano del modo in cui i lavoratori “danno senso all’ambiente”,
entrambi sono appresi attraverso un processo di socializzazione e di interazione tra i membri dell’organizzazione ed entrambi
sono tentativi di “identificare l’ambiente”.
-> Che cosa distingue “clima” e “coltura”? Il clima ha una natura mutevole, la cultura ha invece una natura stabile.

M_DOQ (Mayer_D’Amato Organizational Questionnaire): è lo strumento più importante per fare diagnosi del clima organizzativo.

-> -> ANALISI DEL CLIMA: l’analisi del clima ha l’obiettivo di ottenere informazioni su quelli che sono i punti di forza e i punti di
criticità di un’organizzazione, cercando in tal modo di intervenire nel modo più appropriato al fine di apportare un miglioramento.
L’analisi del clima può essere eseguita in 2 occasioni:
• Quando l’azienda è in una fase di stabilità: serve solo a “fotografare” la situazione e a monitorarla nel tempo.
• Quando l’azienda sta attraversando un momento di crisi: serve per far fronte alle problematiche e risolverle.
L’analisi del clima procede per tappe: 1. Definire e formare il gruppo di lavoro 2. Definire gli obiettivi generali della ricerca 3.
Analisi preliminare del contesto organizzativo (colloqui, interviste, test ecc.) 4. Individuare il campione (partecipanti della ricerca)
5. Costruire lo strumento da utilizzare nella ricerca (quantitativo/qualitativo) 6. Pre-test dello strumento 7. Avvio della ricerca e
somministrazione dello strumento 8. Analisi dei dati 9. Stesura del report e restituzione dei dati alla committenza 10.
Definizione con la committenza delle linee guida d’azione da intraprendere.

-> -> DIAGNOSI DEL CLIMA: costituisce un importante punto di partenza per avviare azioni e strategie di cambiamento organizzativo
(ci permette di osservare “come sta” in quel momento l’azienda e, eventualmente, di intervenire).

ATMOSFERA SOCIALE (o ATMOSFERA PSICOLOGICA): termine individuato da Lewin, Lippitt e White (1939) per indicare quel
“sistema di percezioni che i protagonisti di un campo psicologico giudicano pertinente in uno spazio e in un tempo dato”.

-> -> GRUPPO: Lewin definisce il gruppo come “Un qualcosa di più della somma dei suoi membri, un qualcosa che possiede una
propria specifica struttura”. Potremmo quindi definire il gruppo come una “totalità dinamica” in grado di generare pensieri,
comportamenti e azioni distinti da quelli dei singoli membri. È molto importante saper distinguere il “gruppo” dal “gruppo di
lavoro”:
• GRUPPO: interazioni stabili tra i membri, vi sono norme implicite che regolano i rapporti all’interno e all’esterno del
gruppo (ingroup/outgroup).
• GRUPPO DI LAVORO: ha a che fare con il raggiungimento di un compito.

-> -> CICLO DI VITA DI UN GRUPPO:

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1. Fase di FORMING: è il momento in cui il gruppo si forma e i membri s’incontrano per la prima volta. In questa fase i
rapporti sono ancora “superficiali”, finalizzati allo scambio di informazioni e alla conoscenza reciproca.
2. Fase di STORMING: qui emergono le differenze personali, i membri del gruppo si confrontano (e a volte si “scontrano”)
al fine di definire il proprio ruolo. In alcuni casi, i gruppi, possono sciogliersi già in questa fase.
3. Fase di NORMING: un gruppo entra in questa fase quando ha superato i conflitti riguardanti l’attribuzione dei ruoli e del
potere, in sostanza quando i membri sono “pronti” a mediare rispetto alla definizione dei ruoli e delle norme.
4. Fase di PERFORMING: in questa fase il gruppo porta avanti i compiti assegnati (sono le richieste a determinare il gruppo
stesso). Questa fase è caratterizzata dalla cooperazione e dall’interdipendenza. Il successo di questa fase ci fa capire
quanto il gruppo si sia integrato efficacemente.
-> una 5° fase (fase di ADJOURNING) è quella che coincide con l’eventuale scioglimento del gruppo.

PRESSIONE SOCIALE ALLA CONFORMITÀ NEL GRUPPO: le persone in situazioni sociali tendono a prendere decisioni diverse rispetto
a quello che farebbero individualmente, a ignorare le proprie valutazioni, conformandosi a quelle degli altri.

GROUP THINK: rappresenta una situazione in cui, soprattutto in presenza di pressioni e urgenze esterne, il lavoratore riduce lo
“sforzo” di comprendere la situazione (per esempio non si “sforza” di individuare possibili alternative per superare l’ostacolo).

SOCIAL LOAFING (= gioco sociale): il lavoratore limita il proprio impegno nelle attività di gruppo perché il contributo individuale,
nel lavoro di gruppo, è poco riconosciuto.

FREE RIDING: tendenza a non collaborare e a non partecipare alle attività.

BYSTANDING (= ignorare): il lavoratore “ignora”, non interviene per dare il proprio contributo (in questo modo pregiudica la riuscita
dell’intero lavoro).

-> -> WILFRED BION: sulla base dei suoi studi pioneristici riguardo ai processi di gruppo (militari, 2° guerra mondiale), distinse 2
tendenze principali della vita di gruppo:
1. Tendenza VERSO il compito primario: cultura del gruppo di lavoro (i membri del gruppo sono intenti a individuare un
compito definibile e vogliono valutare la propria efficacia facendolo).
2. Tendenza ad EVITARE il compito primario: cultura dell’assunto di base (tendenza spesso inconscia = il comportamento
del gruppo è diretto a soddisfare le necessità inconsce dei suoi membri evitando in questo modo di provare ansia e
conflitti interni).
-> queste due tendenze possono essere considerate come il desiderio di lavorare e affrontare la realtà e, dall’altra, il desiderio
di evitarla quando è dolorosa o quando provoca conflitti psicologici nei membri del gruppo.

-> -> ASSUNTI DI BASE: Bion ha individuato 3 assunti di base. Gli assunti di base sono una sorta di “copioni emozionali” messi in
atto inconsciamente dal gruppo:
1. DIPENDENZA (BaD): il gruppo si riunisce allo scopo di essere sorretto da un capo (leader) dal quale dipendere totalmente
(dipendenza patologica). Il gruppo, quindi, si affida totalmente a un leader di tipo carismatico che “miracolosamente” li
farà uscire da tutti i propri problemi.
2. ATTACCO E FUGA (BaAF): il gruppo funziona in base alla credenza che vi sia un nemico dalla quale difendersi (= attacco)
oppure dal quale scappare (= fuga). Il gruppo lavora come se il suo compito primario fosse quello di aggredire e/o fuggire,
percepisce una situazione di pericolo imminente, dunque guarda al leader per escogitare un’azione adeguata (ma il
compito dei membri è solo quello di seguire).
3. ATTESA MESSIANICA (BaA): il gruppo ha la credenza inconscia che, qualunque siano i problemi del gruppo, un evento
futuro o l’arrivo di un nuovo leader li salverà. Il gruppo è completamente concentrato sul futuro (= difficoltà nel restare
nel “presente”).
Com’è possibile riconoscere gli assunti di base? Quali sono i sintomi? Nelle riunioni lo scopo non è chiaro, i membri del gruppo si
espongono di meno e vengono a meno le loro facoltà critiche, il gruppo nel suo insieme sembra avere una missione mal definita
(ma comunque appassionante e coinvolgente), vi è una scarsa capacità di tollerare le frustrazioni, vengono favorite le soluzioni
veloci, risulta difficile avere atteggiamenti di “dubbio” circa il modo di operare del gruppo (chi li solleva viene ignorato o,
addirittura, deriso e preso per “pazzo”), viene considerato troppo terrificante accettare delle nuove idee (idee che spesso
potrebbero apportare un cambiamento positivo).
Cosa prevede il superamento dell’assunto di base? Prevede la possibilità di sviluppare un lavoro efficiente e coerente con il
compito primario (al gruppo è richiesto di: tollerare la frustrazione legata all’incertezza, adottare una maggiore apertura verso
l’esterno, riconoscere le differenze individuali fra i membri appartenenti al gruppo (e le competenze che ciascuno può apportare),
imparare dall’esperienza.
Bion sostiene che il gruppo può utilizzare gli assunti di base in modo “SOFISTICATO” (= utilizzo dell’assunto di base in modo
“costruttivo”, con un’accezione utile al raggiungimento del compito primario). Esempio del pronto soccorso: l’assunto di base di
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“attacco e fuga” potrebbe essere d’aiuto al personale sanitario nel compito di gestire un’emergenza (come se stessero attaccando
un “mostro” - l’evento critico - da debellare il più presto possibile).

-> -> COMPETENZA: è un sistema di risposte dell’individuo basate sul “saper agire” in un determinato contesto. La competenza
mobilita le risorse individuali secondo delle modalità ben definite. La competenza possiede una doppia valenza:
• Valenza tecnico-professionale (competenza specifica -> legata al compito).
• Valenza di natura trasversale (competenza trasversale/SOFT-SKILLS -> utile indipendentemente dal compito e dal ruolo
svolto).

-> -> SOCIALIZZAZIONE ORGANIZZATIVA: la socializzazione organizzativa è molto importante e rappresenta un aspetto che và ben
oltre al semplice apprendimento degli aspetti tecnici di un lavoro. Riguarda il “come interagire e come comportarsi”, ovvero il
“trovare il proprio posto all’interno dell’organizzazione”. Il passaggio dalla condizione di “esterno” a quella di “interno” implica il
processo di INTEGRAZIONE nella cultura dell’organizzazione. La socializzazione organizzativa, quindi può essere definita come il
processo attraverso cui il lavoratore acquisisce le conoscenze e le abilità sociali utili per assumere un determinato ruolo
all’interno dell’organizzazione in cui si trova (= acquisizione di strategie utili per “districarsi” nelle diverse situazioni in cui si può
ritrovare).
Il nucleo centrale della socializzazione organizzativa riguarda l’incertezza: come mi trovero? Sarò in grado di svolgere il nuovo
lavoro? Come mi devo comportare? A partire da questo presupposto: il processo di socializzazione può essere stressante per il
lavoratore (-> la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, in questi ultimi anni, si sta concentrando - a tal proposito - su cosa
possano fare le organizzazioni per favorire il processo di integrazione del lavoratore = INSERIMENTO).

5 FATTORI COLLEGATI ALL’INSERIMENTO:


1. COMPLIANCE (ottemperanza): è importante semplificare le pratiche burocratiche e gli adempimenti formali connessi al
lavoro (un disbrigo non agevole può disconfermare le aspettative del neo-assunto).
2. CLARITY (chiarezza): è importante che le informazioni date al neo-assunto siano chiare (sia da un punto di vista
quantitativo che qualitativo).
3. CONNECTION (collegamento): è importante che l’azienda faccia sentire il neo-assunto “accettato” e pienamente
integrato nel sistema sociale dell’organizzazione.
4. CONFIDENCE (fiducia): è importante che l’azienda faccia sentire il neo-assunto “sicuro di sé stesso” (il neo-assunto deve
essere fiducioso sul fatto che sarà in grado di svolgere i compiti richiesti).
5. CULTURE (cultura): riguarda la socializzazione delle norme e dei valori dell’organizzazione (nonché il confronto del
neoassunto con i sistemi di senso e significato proprio del contesto organizzativo).

PROCESSO DI SOCIALIZZAZIONE: 1. Reclutamento (primo momento in cui il dipendente entra a diretto contatto con
l’organizzazione, l’azienda deve fornire informazioni chiare che consentano di sviluppare aspettative realistiche del lavoro) 2.
Contratto psicologico (è ciò che il lavoratore si aspetta di ricevere in cambio dall’organizzazione) 3. Orientamento (l’azienda
realizza programmi di informazione strutturati dove i lavoratori hanno la possibilità di ricevere informazioni riguardo al nuovo
lavoro) 4. Interni dell’organizzazione (è molto importante che l’organizzazione promuova una cultura di apertura e di inclusività
nei confronti dei “nuovi arrivati” e che preveda momenti più o meno formali di incontro e di confronto tra i “nuovi arrivati” e gli
“interni”).

STRESS: lo stress può essere definito come la risposta di adattamento all’ambiente nonché la base psicofisiologica ed energetica
che si attiva di fronte a una novità o all’attesa di un avvenimento che il soggetto percepisce come minaccioso e in grado di
danneggiare il proprio benessere. In linea generale con il termine “stress” si descrive il carico a cui un sistema (organismo) è
sottoposto. La risposta dell’organismo allo stress è fondamentale ai fini adattivi, cioè per la sopravvivenza. Lo stress non è sempre
negativo: può essere positivo (eustress), oppure negativo (distress).
-> Stress e sistema immunitario: lo stress a breve termine stimola il sistema immunitario, lo stress protratto inibisce il sistema
immunitario (effetto inibitorio sui linfociti Th1 che proteggono da virus e da neoplasie).

STRESSOR: stimolo esterno all’organismo, identificabile come “innesco” della catena dello stress.

STRESS REACTION: risposta dell’organismo allo stimolo (= reazione) - la “reazione di attacco e fuga”, per esempio, è uno stress
reaction.

REAZIONE DI ATTACCO O FUGA (“FIGHT OR FLIGHT”): il nostro organismo, di fronte a ciò che è percepito come una minaccia, si
predispone rapidamente (10-20 secondi) all’attacco o alla fuga (-> aumento FC/FR/PA, maggiore irrorazione sanguigna e di
ossigeno verso gli organi “nobili” come il cuore e il cervello, aumento degli zuccheri nel sangue utili come “carburante”, aumento
dell’attenzione in quanto il cervello è focalizzato sulla percezione dei fattori di “allerta”).

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STRAIN: reazione di esaurimento dell’organismo a un impatto prolungato dello stressor (lo stimolo è inevitabile e continuo e
l’organismo non ha gli “strumenti” per poterlo gestire efficacemente) -> prelude alla malattia.

-> -> SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO (Seyle, 1936): la reazione da stress è vista come un sistema di adattamento
fisiologico, che procede per fasi, indispensabile ai fini della sopravvivenza:
1. Prima reazione di allarme: ci si prepara per affrontare o per fuggire dallo stressor.
2. Resistenza: vengono messe in campo delle risorse aggiuntive al fine di mantenere un equilibrio interno.
3. Esaurimento: sopraggiunge qualora lo sforzo, troppo intenso o prolungato, richieda ulteriori risorse non più disponibili.

-> -> STRESS LAVORO-CORRELATO (stress lavorativo): lo stress si manifesta quando il lavoratore percepisce uno “squilibrio” tra le
richieste avanzate nei suoi confronti e le risorse che ha a disposizione per potervi fare fronte. Il benessere del lavoratore, quindi,
dipende da un equilibrio tra il livello di ansia attivato dal ruolo e la sua capacità di ricoprire quel ruolo (quanto è in grado di
tollerare l’ansia?).
Secondo Jaques, il lavoro possiede 2 componenti:
• Una componente PRESCRITTIVA: di per sé non è ansiogena, per perseguirla il lavoratore deve semplicemente
applicare le sue conoscenze tecniche.
• Una componente DISCREZIONALE: è in questa componente che risiede la fonte principale di ansia, perché è
connessa al “senso di responsabilità” derivante dall’applicazione del proprio lavoro.
- > dicembre 2010: per legge le aziende (pubbliche o private) hanno l’obbligo di valutare il rischio derivante dalla potenziale
presenza di stress correlato all’attività lavorativa (art. 28 del D.Lgs. 81/08 e dell’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8
ottobre 2004 - Identificazione delle misure di tutela necessarie per la riduzione o l’eliminazione del rischio stress).
Come intervenire?
-> strategie preventive oppure strategie riparative.
• Prevenzione PRIMARIA: ridurre tutti i “fattori di rischio” che potrebbero provocare stress nei lavoratori.
• Prevenzione SECONDARIA: intervenire per migliorare l’adattamento della persona al proprio contesto lavorativo con
l’obiettivo di modificare il modo in cui i lavoratori rispondono alle situazioni stressanti al fine di minimizzare l’esperienza
dei sintomi di stress.
• Prevenzione TERZIARIA: l’obiettivo è la cura, la riabilitazione, il rientro al lavoro (qui il lavoratore è affetto da patologie
stress-lavoro correlato conclamate).

JOB DEMAND-CONTROL MODEL (modello DC): il modello DC concepisce lo stress occupazionale come uno squilibrio tra 2
condizioni organizzative:
1. Le richieste avanzate sul lavoro (carico di lavoro, tempo a disposizione ecc.): sono considerate dai lavoratori come fonti
di stress psicologico e di ansia legata a sentimenti di “insicurezza”.
2. La libertà decisionale (o il controllo percepito): riguarda il “quanto il lavoratore può decidere e agire in autonomia” e il
“quanto gli è permesso di mettere in atto le proprie competenze”.
-> limiti di questo modello: tiene conto solo di alcune caratteristiche lavorative, non tiene conto delle “specificità contestuali”.

ERI- EFFORT REWARD IMBALANCE (modello ER): il modello ER concepisce lo stress occupazionale come una discrepanza tra
“ricompensa” e “impegno profuso/capacità individuali” (stress -> mi sto impegnando molto, eppure non ricevo alcuna
gratificazione).
-> limiti di questo modello: tiene conto solo di alcune caratteristiche lavorative, non tiene conto delle “specificità
contestuali”.

-> -> LEADERSHIP: la parola “leader” compare per la prima volta nel 13° secolo, mentre la parola “leadership” nella prima metà
del 19° secolo per indicare l’influenza politica e il controllo del parlamento inglese. “To lead” significa “condurre”
(etimologicamente “andare per primo”). Tuttavia, il tema della leadership, diventa cruciale negli studi della psicologia del lavoro a
partire dalla metà del ‘900. L’autore a cui si deve il merito di aver sistematizzato la grande dispersione e frammentazione di questi
studi è senza dubbio Bass. In generale potremmo definire la “leadership” come l’azione di aver seguito e di conseguire dei risultati.
Centrale, dunque, è la relazione con i follower (= seguaci) a cui si legano i concetti di integrità, fiducia e giustizia.
I leader “devono dare l’esempio”: spesso il nostro stile d’attaccamento lo proponiamo anche all’interno dell’organizzazione.
La difficoltà nell’individuare una definizione esaustiva del termine “leadership” è legata alla confusione spesso esistente rispetto
al temine “MANAGEMENT”:
• Leadership: relazione d’influenza tesa a realizzare significativi cambiamenti. Nella leadership emergono 2 aspetti chiave:
gli obiettivi e le persone.
• Management: relazione di autorità finalizzata a vendere e produrre beni e/o servizi come esito di un’attività coordinata.

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-> -> LEADER VS MANAGER:
Leader Manager
Orientamento Crea visione e strategia. Pianifica e gestisce il budget.
Scopo Costruisce e consolida una cultura condivisa, Organizza e sceglie i collaboratori, dirige e controlla,
sostiene la crescita dei collaboratori, riduce i confini crea confini gerarchici.
gerarchici.
Relazioni Dedica attenzione alle persone, ispira e motiva i Dedica attenzione agli oggetti, alla produzione e alla
follower, agisce come coach e come facilitatore. vendita di beni e/o servizi.
Risultati Guida il cambiamento (potere personale). Mantiene la stabilità (posizione di potere).

-> -> TEORIA DEL “GRANDE UOMO” (le primissime teorie sulla leadership erano proprio quelle basate sul “grande uomo”): alla
base di questa teoria vi è l’idea che alcune persone possiedano caratteristiche che le rendono “leader naturali” (tratti di
personalità, abilità, motivazioni ecc.). Le caratteristiche che, secondo questa teoria, fanno di un uomo un “leader naturale” sono:
lealtà, iniziativa, persistenza, socialità, autostima, adattabilità, estroversione, prontezza, mascolinità, conservatorismo e
dominanza.

-> -> TEORIE BASATE SUL COMPORTAMENTO (Lewin, Lippitt e White, anni ’40): nel loro famoso studio misero a confronto 3 stili di
conduzione dei gruppi:
• Conduzione basata su una leadership AUTORITARIA: è un leader che tende a centralizzare l’autorità (trae potere dalla
posizione che ricopre, gestisce il potere attraverso il controllo, le ricompense e le forme di coercizione).
• Conduzione basata su una leadership DEMOCRATICA: delega l’autorità agli altri, incoraggia la partecipazione, si affida
alla conoscenza e alla competenza dei follower.
• Conduzione basata su una leadership “LAISSEZ-FAIRE”: è la tendenza del leader a essere “passivo” nella relazione con il
gruppo (evita di agire in maniera proattiva, limita le sue azioni d’intervento solo laddove esplicitamente richiesto dal
gruppo).

LO STILE DECISIONALE DEL CAPO (Tannenbaum e Schmidt, 1958): si tratta di uno schema (o griglia) in cui in un estremo vi è una
leadership centrata sul capo, in un altro estremo una leadership centrata sui subordinati. Risponde alla domanda: quanto il leader
utilizza la sua autorità e quanto, invece, concede un maggiore potere discrezionale ai propri subordinati?

-> -> GRIGLIA MANAGERIALE (Managerial grid - Blake e Mouton, 1964): il modello s’interroga sulla domanda “il leader è più
interessato alle persone o alla produzione?” e, attraverso la compilazione di un questionario, identifica diverse modulazioni dello
stile di leadership (leader debole, manipolatore, amichevole, moderato o “della squadra” -> tra questi 5 stili di leadership vi è
inoltre un leader IDEALE, capace di sintetizzare il massimo punteggio nel questionario in entrambe le dimensioni):
- Produzione + Persone Minimo sforzo per raggiungere gli obiettivi, scarso impegno e scarso senso di appartenenza.
+ Produzione - Persone L’efficienza deriva dal fatto che l’elemento relazionale non è l’aspetto centrale.
- Produzione + Persone Alta attenzione ai bisogni relazionali (il gruppo spesso individua 2 leader -> manager + leader).
+ Produzione + Persone Comune interesse per gli scopi, ottima qualità dei rapporti <- leader IDEALE

LA LEADERSHIP SITUAZIONALE (Hersey e Blanchard, 1982): il modello valuta la “maturità dei collaboratori” (i collaboratori sono
più orientati alle relazioni o al compito?). Per fare ciò, analizza diverse capacità che possono, o meno, avere i collaboratori:
prescrivere, vendere, coinvolgere e delegare. Questo modello implica anche una dimensione di sviluppo: se all’inizio, con compiti
di una certa complessità, è bene che il leader venda e prescriva, nel corso del tempo le abilità e la sicurezza dei collaboratori
possono crescere e dunque la maturità stimata si può modificare nella storia relazionale che lega leader e follower.

-> -> LEADERSHIP TRASFORMAZIONALE (transformational leadership): tale concetto nasce intorno al 1985, da quel momento la
leadership non è più qualcosa che è “capace di rispondere prontamente ad una situazione”, bensì un qualcosa in grado di
“anticipare l’azione”. La leadership trasformazionale è un processo legato al cambiamento e alla crescita: il leader individua i
bisogni dei follower ed è in grado di trasformare i propri follower in futuri leader. *
* Non confondere la leadership trasformazionale con la LEADERSHIP TRANSAZIONALE (= caratterizzata dall’uso di sistemi di
ricompensa da parte del leader per mantenere “alta” la motivazione dei collaboratori -> la ricompensa monetaria in realtà NON
è un fattore motivante)

-> -> LEADERSHIP ESEMPLARE: facilita la crescita dei collaboratori attraverso l’apprendimento dall’esperienza e il raggiungimento
dei risultati attraverso l’apertura al cambiamento.

-> -> EMPOWERING LEADERSHIP (anni ’90): è un leader che punta a responsabilizzare i suoi collaboratori e a favorire la creatività
(= l’esperienza e l’errore sono occasioni di crescita e di apprendimento). Il rapporto fra leader e follower si basa sulla
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CONDIVISIONE DEL POTERE. Caratteristiche: fa in modo che i collaboratori ricevano informazioni puntuali e continue sulla
prestazione organizzativa, fa in modo che i collaboratori possano apprendere le conoscenze e le competenze adeguate per
contribuire agli obiettivi organizzativi, dà ai collaboratori il “potere” di prendere decisioni significative, aiuta i collaboratori a
comprendere il significato e l’importanza del loro lavoro, riconosce quanto è importante il contributo dei suoi collaboratori.

TENDENZA NARCISISTICA DEL LEADER: a volte alcuni leader hanno una fiducia in sé stessi esasperata, non considerano quelli che
sono i limiti e i vincoli che - talvolta - possono portare al fallimento (= zone d’ombra del leader). Spesso, questo tema, è associato
alla TENDENZA NARCISISTICA DEL LEADER, ovvero un leader che desidera ottenere consenso ad ogni costo, costruendo l’illusione
della perfezione e dimenticando la dote dell’umiltà. Il pericolo più importante del narcisismo consiste nel rendere difficile a un
leader l’abbandono della propria posizione di potere. Presto o tardi, chi ha una posizione di potere dovrà staccarsene e, per un
leader, il distacco dal “potere” è particolarmente difficile. La difficoltà ad abbandonare il proprio “potere” può spiegare la ragione
per cui molti leader insistono a mantenerla anche quando devono abbandonare il loro ruolo -> DEPRESSIONE
DELL’AMMINISTRATORE DELEGATO (= reazione che sopraggiunge quando si è stati per troppo tempo in una posizione di potere).
Il pensionamento, per esempio, mette il leader di fronte a molte difficoltà spesso dolorose -> CONSAPEVOLEZZA DI PERDITA
(perdita di ottimismo, salute, vitalità, fiducia nel futuro, reputazione, notorietà, contatti pubblici ecc.).

IL LATO OSCURO DELLA LEADERSHIP (The dark side - Conger, 1990):


• Nella visione: riflette i bisogni egoistici del leader, non è misurata sulle risorse, non è flessibile ai cambiamenti esterni.
• Nella comunicazione: i toni sono eccessivi, si minimizza l’informazione negativa, si crea un’illusione di controllo.
• Nelle relazioni: la gestione delle relazioni è scarsa, tra i gruppi di lavoro vi è rivalità e dipendenza.

LEGGE DEL TAGLIONE E SENSI DI COLPA: un elemento di complicazione di fronte alla prospettiva di dover abbandonare il proprio
“potere” è il timore (spesso inconscio) di ricevere una particolare punizione. Proprio per questo “timore” (a volte infondato) la
leadership si può accompagnare alla paranoia e può essere legata al senso di colpa (tutto ciò può portare il leader a evitare o
comunque a ridurre al minimo i conflitti, per non stimolare l’ira di altre persone). Il “potere”, in tal senso, rappresenterebbe uno
scudo protettivo (la prospettiva di lasciare la carica può essere accompagnata dal timore ansioso di scatenare ritorsioni da parte
di persone danneggiate in passato). Un altro timore è che la propria eredità possa essere distrutta (in senso simbolico, il desiderio
di lasciare dietro di sé un ricordo delle proprie realizzazioni può essere paragonato a quello di “sconfiggere la morte” -> ciò può
portare il leader a provare una vera e propria invidia per le nuove generazioni).

-> -> ECCESSI DELLA LEADERSHIP:


• INCOMPETENZA: il leader non possiede conoscenze professionali adeguate e perde credibilità agli occhi del gruppo.
• TROPPA COMPETENZA: il leader è troppo esperto e non riesce a farsi comprendere, oppure si arrabbia se il gruppo non
capisce “tutto e subito”.
• AUTORITARISMO: il leader si pone come “comandante” e tende a manipolare il gruppo a suo piacimento, senza
negoziazione.
• BONTÀ ECCESSIVA: il leader è timoroso di esporre i componenti del gruppo a fatiche eccessive, disagi o frustrazioni,
limitando in questo modo le occasioni di cambiamento e apprendimento.
• DISINTERESSE: il leader è convinto che la sua funzione non sia importante per cui si allontana dal gruppo.
• INTERESSE PRIVATO: il leader cerca di utilizzare il gruppo per ottenere vantaggi personali e non riconosce i meriti dei
componenti.

-> -> BURNOUT: sindrome psicologica che può manifestarsi come condizione a un’esposizione cronica a stressor di natura
interpersonale sul luogo di lavoro. Il burnout è caratterizzato da 3 dimensioni: esaurimento emotivo (= vissuto di esaurimento o
“prosciugamento” delle risorse dell’operatore), depersonalizzazione (= distacco mentale dell’operatore nei confronti dell’utenza)
e ridotta efficacia personale (= senso di inadeguatezza e di sfiducia che l’operatore nutre verso sé stesso e verso le proprie
competenze professionali).
Il concetto di “burnout”, al tempo, non nacque in ambito accademico, bensì come problema sociale. I primi studi (Freudenberg e
Maslach, 1974-1976) osservarono che la sindrome coinvolgeva soprattutto lavoratori a stretto contatto con persone disagiate o
richiedenti aiuto, operanti nel sociale (medici, infermieri, psicologi, educatori ecc.). Il rapporto operatore/utente assume una
rilevanza centrale. Numerosi sono i modelli che si sono occupati del tema del burnout:
• MODELLO DI MASLASH: il focus di Maslash è sulla sintomatologia e sulle fasi dell’evoluzione della sindrome (3
dimensioni):
1. Esaurimento emotivo: prosciugamento delle risorse emotive del lavoratore.
2. Depersonalizzazione: atteggiamento di “distacco mentale” ed emotivo del lavoratore nei confronti dell’utenza.
3. Ridotta efficacia professionale: descrive il senso di adeguatezza e fiducia che il lavoratore nutre verso se stesso e
verso le proprie competenze professionali.
• MODELLO DI GOLEMBIEWSKI: depersonalizzazione (dovuta al sovraccarico emotivo) -> riduzione della realizzazione
professionale -> esaurimento emotivo.
Simone Quagliata 10
-> il “distacco” rappresenta di per sé una risposta sana (protegge l’operatore dall’identificarsi troppo con l’utente),
diventa disfunzionale se portato all’eccesso e se comporta l’adozione di una visione cinica e “de-umanizzante”.
• MODELLO FASICO DI EDELWICK & BRODSKY (1980): questo modello definisce il burnout come un processo progressivo di
disillusione e di perdita degli ideali che in origine avevano spinto la persona a intraprendere una professione di aiuto. Gli
autori, nello specifico, individuano 4 fasi di tale processo:
1. Stadio dell’IDEALISMO e dell’ENTUSIAMO: i lavoratori canalizzano le loro energie e risorse sul lavoro. Possiedono
motivazioni consce (-> aiutare gli altri), ma anche motivazioni inconsce (-> esercitare potere).
2. Stadio della STAGNAZIONE: i lavoratori cominciano a realizzare che il lavoro non soddisfa appieno i loro bisogni. Si
assiste a una diminuzione dell’entusiasmo e compaiono i primi segni di fatica (senso di squilibrio tra le energie
impiegate e i risultati ottenuti).
3. Stadio della FRUSTRAZIONE: i lavoratori valutano la possibilità di allontanarsi dal lavoro oppure di modificare il loro
comportamento (-> allontanamento “simbolico” e distacco emotivo).
4. Stadio dell’APATIA: i lavoratori decidono di investire meno energia possibile sul lavoro ed evitano di prendersi
responsabilità.
• PROSPETTIVA CLINICA (Freudenberg): questo modello individua i “profili personologici” che tendono ad essere più
predisposti allo sviluppo del burnout:
- Personalità narcisistica (super achiever): persone che s’impegnano tantissimo (hanno un “commitment” molto
elevato), presentano quindi un’immagine di sé iper-idealizzata.
- Tratto nevrotico-ansioso: persone che hanno un Super Io forte e persecutorio.
- Tratto ossessivo-compulsivo: persone con tendenza al controllo.
- People-oriented (= orientati sulla persona): persone che idealizzano la “relazione umana” e le professioni d’aiuto in
generale.
• MODELLO DI MASLASH (e Leiter & Jackson, 1996) -> JOB BURNOUT: questo modello individua 6 “fattori di rischio” che,
laddove vi sia disequilibrio individuo-organizzazione, potrebbe portare il lavoratore a sviluppare il job burnout (= conflitto
di valori, mancanza di giustizia distributiva, mancanza di giustizia procedurale, mancanza di senso di comunità,
mancanza di controllo e sovraccarico lavoratico).
• TEORIA DELL’EQUITÀ NELLO SCAMBIO SOCIALE (2006): secondo questo modello tutti i rapporti possono essere
considerati come forme di “scambio sociale”. Tale “scambio sociale” può essere simmetrico (= regolato da norme che
garantiscono un equilibrio da ambo le parti) oppure asimmetrico (= regolato da norme che, invece, possono divenire
causa di effetti negativi sulla salute fisica e psichica del lavoratore). Secondo questo modello, quindi, il burnout potrebbe
emergere quando: non vi è reciprocità nel rapporto con i destinatari del servizio, nel rapporto con il gruppo di lavoro
(conflitto con i colleghi) e nel rapporto con l’organizzazione (disaffezione dall’organizzazione).

-> -> WORKAHOLIC: dipendenza caratterizzata dal bisogno “incontrollato” di lavorare incessantemente, tale da creare interferenze
non trascurabili sul piano della salute individuale, sulla qualità delle relazioni e in qualsiasi altro aspetto della sfera extra-lavorativa.
Il termine “workaholism” è stato coniato da Oates nel 1971 sulla falsariga del termine “alcoholic” (= alcolizzato). In Giappone il
fenomeno è chiamato “Karoshi” (= morte per eccesso di lavoro), è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti
cardiaci e ischemici. Spesso si associa anche al suicidio. Nella società occidentale il fenomeno è raramente stigmatizzato, al
contrario è a volte incoraggiato o comunque associato a caratteristiche individuali positive, al successo, al potere e alla ricchezza.
Da un punto di vista clinico (sebbene non sia ancora riconosciuto dal DSM): disordine clinico caratterizzato da sintomi sia di
tipo internalizzante (ansia, compulsione, ossessione) che di tipo esternalizzante (comportamenti di dipendenza).
Le caratteristiche di questa dipendenza, nello specifico, sono: SALIENZA (= il lavoro domina il pensiero e i comportamenti
anche “al di fuori dal lavoro”), TRASFORMAZIONE DELL’UMORE (= il lavoro viene associato a stati di umore che, soggettivamente,
possono essere di eccitazione, di fuga o di tranquillità), TOLLERANZA (= il lavoratore è costretto, per star bene, ad aumentare
“sempre di più” il suo impiego lavorativo), ASTINENZA (= il lavoratore, quando è costretto a non lavorare, è irritabile e ne risente
anche da un punto di vista umorale), CONFLITTI (= vi è una difficoltà nelle relazioni interpersonali) e RICADUTA (= dopo periodi in
cui il lavoratore è riuscito a gestire la propria dipendenza dalle attività lavorative, ricade in comportamenti eccessivi, se possibile
ancor più estremi).
• WORKAHOLIC COME TRATTO DI PERSONALITÀ: secondo alcuni autori (McMillan, O’Driscoll, Marsh e Brady (2001), il
workaholic potrebbe corrispondere a un tratto di personalità: insorge negli individui a partire dalla tarda adolescenza
(qualche volta anche già a partire dall’infanzia), risulta stabile nei differenti contesti lavorativi e può essere “esacerbato”
da stimoli ambientali stressanti <- non esistono studi longitudinali che confermano questa teoria (= perché tale
dipendenza è più elevata in certi contesti professionali specifici, rispetto ad altri?).
• PSICOLOGIA DELLA SALUTE OCCUPAZIONALE (OHP): allo sviluppo del workaholic concorrono i fattori legati al contesto
socio-organizzativo*, le caratteristiche del lavoro e la personalità del lavoratore.
* domande lavorative eccessive, ambiguità di ruolo, cultura organizzativa competitiva o che esalta eccessivamente il successo
individuale, rinforzo da parte di colleghi e superiori, sistemi valutativi e premiati (basati esclusivamente sulla produttività),
incertezza in termini retributivi e contrattuali.

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CARRIERA:
- Anni ’50-‘60: la carriera è intesa come “carriera lavorativa e professionale” in riferimento alla sequenza, alla durata, alle posizioni
lavorative e alle promozioni ottenute (-> focus su elementi esterni, “oggettivi”).
- Anni ’60-‘90: la carriera è studiata nella “relazione di adattamento individuo-organizzazione”.
- Anni ’60: la carriera è analizzata in base ai principi del life stage (= fasi di sviluppo durante tutta la vita dell’individuo -> si “aprono
le porte” alla psicologia dello sviluppo e del ciclo di vita il cui principale autore di riferimento è Super). <- TEORIA DI SUPER - Anni
’90: la carriera è vista come sviluppo “senza confini” basato sull’acquisizione di competenze che deriva dal passaggio a più contesti
organizzativi.

-> -> TEORIA DI SUPER: negli anni ’50 l’autore definisce la carriera come un “processo decisionale che porta a scelte professionali
che sono strettamente correlate al concetto di Sé e che hanno a che fare con una buona integrazione tra sé e il proprio ambiente
di lavoro”. Negli anni ’80 Super ci parla di LIFE-CAREER RAINBOW in cui s’incrociano 2 dimensioni:
• Life-span -> arco di vita costituito da delle tappe di sviluppo.
• Life-space -> è lo spazio di vita (es. la casa o l’ufficio).
-> La “maturità di carriera” dipenderà dalla capacità di realizzare compromessi tra i diversi ruoli (concetto di sé, risorse
cognitive/emotive a disposizione e aspettative proprie e altrui).
Limiti della teoria di Super? È un modello stadiale e le tappe evolutive si susseguono in una progressione gerarchica e normativa.

-> -> PROSPETTIVA DEL CICLO DI VITA (<- importante): secondo l’approccio del ciclo di vita lo sviluppo, che si lega inevitabilmente
al tema delle transizioni, è un processo con le seguenti caratteristiche: dura tutta la vita, è multidimensionale e multidisciplinare,
è caratterizzato da alternanze di “guadagni” e di “perdite” (ad ogni età) ed è calato nella realtà storica e sociale. L’approccio del
ciclo di vita identifica il binomio stabilità-cambiamento e quindi la possibilità per ognuno di noi di alternanze nell’arco dell’intera
vita fra progressioni, ma anche regressioni.

-> -> TRANSIZIONI BIOGRAFICHE: secondo l’approccio sociologico sono passaggi, più o meno normati, da uno stato all’altro in cui
vi sono situazioni di stabilità e/o di cambiamento a lungo termine (= traiettorie).
-> Da cosa dipende l’esito delle transizioni in termini di rischi o di protezione per il benessere dell’individuo? Dipende da una serie
di fattori: dal senso di controllo, dalla percezione della propria autoefficacia, dalla propria capacità di fronteggiare situazioni
nuove e di integrare la “nuova” identità con quella precedente.
• MODELLO DELLA SFIDA DELLO SVILUPPO UMANO (Hendry e Kloep, 2001): secondo questo modello gli esiti possibili sono:
1. Sviluppo 2. Stagnazione 3. Deterioramento.

-> -> STRATEGIE DI COPING: gli studi sulle strategie di coping sono particolarmente rilevanti nei programmi di sostegno alle
transizioni di lavoro. Il “coping” può essere definito come uno “sforzo cognitivo e comportamentale in costante cambiamento,
utile per gestire specifiche richieste esterne o interne che il soggetto ritiene possano mettere alla prova o eccedere le sue risorse”.
(esempi: razionale, di sostegno, di evasione, di evitamento ecc.). Gli individui utilizzano le strategie di coping per “negoziare” i
propri cambiamenti di vita e le proprie transizioni lavorative. Le strategie di coping possono influenzare gli esiti della risoluzione
delle difficoltà legate all’esistenza dell’individuo.

-> -> TURNING POINT (anche chiamati “punti svolta”): eventi che imprimono una diversa direzione o correzione al corso della vita
individuale. I turning-point sono tali quando il soggetto, RETROSPETTIVAMENTE, se li rappresenta come punti di svolta (->
soggettività del turning-point). La persona, nel dettaglio, vede mutare il proprio profilo identitario e, quando “attraversa” il
mutamento, è in grado di definire e raccontare sé stesso e il proprio cambiamento.
-> Parole chiave del turning point: mutamento, sviluppo, cambiamento, consapevolezza del proprio sé, movimento, soggettività,
sfide, contesto sociale di riferimento e identità (esempi -> matrimonio, scelta del percorso di studi, uscita di casa, nuovo lavoro,
lutto ecc.).

Altri approcci riguardanti la carriera:


• APPROCCIO “SVILUPPO-CONTESTO”: secondo tale approccio le scelte professionali sono determinate (anche)
dall’influenza dei contesti in cui l’individuo è collocato (famiglia di origine, scuola, gruppo di pari ecc.). Il riferimento
teorico di questo approccio è il MODELLO ECOLOGICO DI BRONFENBRENNER (-> microsistema, mesosistema, ecosistema
e macrosistema).
• COSTRUTTIVISMO: studia “come l’individuo costruisce il mondo psichico e sociale attraverso i processi cognitivi individuali
e intrapsichici”. In sostanza, studia la carriera lungo l’arco della vita in funzione del significato che l’individuo attribuisce
a questo evento e alla narrazione che ne consegue -> individuo attivo (= attraverso la narrazione, l’individuo racconta
una “storia di carriera”).

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• SOCIO-COSTRUTTIVISMO: il mondo psichico e sociale sono “costruiti” nelle interazioni sociali e nelle pratiche discorsive.
La carriera, quindi, è il prodotto di pratiche discorsive e sociali che “replicano” le istruzioni, le norme culturali e i quadri
ideologici dominanti (es. dicotomia tra lavori “femminili” e “maschili”).
• SOCIO-COSTRUTTIVISMO: l’autore di riferimento è Bandura, ha l’obiettivo di comprendere come gli individui sviluppino
gli interessi di carriera, formulino le loro scelte di carriera e valutino i livelli di performance. Il modello di riferimento è
quello del SELF-EFFICACY (Social-Cognitive Career Theory -> credenze circa la propria capacità di raggiungere gli obiettivi).
• LA CARRIERA SENZA CONFINI: la carriera è vista come un’evoluzione dinamica, non lineare in cui gioca un ruolo
fondamentale l’influenza reciproca tra individuo e organizzazione. Si parla di “carriera senza confini” in termini di
“successo psicologico” con riferimento agli obiettivi personali della persona (piuttosto che quelli definiti
“convenzionalmente” da terzi) -> concetto di “PROTEAN CAREER” (= processo gestito dalla persona e che comprende le
diverse esperienze che la persona stessa fa nei diversi contesti -> da “Proteo”, la divinità del mare in grado di cambiare
forma a proprio piacimento).

-> -> TEORIA DI HOLLAND (dei tipi di personalità e degli ambienti lavorativi): questa teoria ha esercitato molta influenza nella
pratica dell’orientamento professionale: le scelte di carriera sono l’espressione della “personalità individuale”, inoltre le persone
che lavorano nello stesso contesto o settore, hanno “personalità simili” (della serie -> dimmi chi sei e ti dirò che lavoro farai).
Nella teoria di Holland il concetto centrale è rappresentato dagli INTERESSI PROFESSIONALI.
Le personalità individuate da Holland (acronico RIASEC) -> Realistic (REALISTICA = ancorato a “cose”, ama il contatto con i
materiali, è una personalità tendenzialmente conformista, onesta, materialista, pragmatica e persistente), Investigative
(INVESTIGATIVA/INTELLETTUALE = ama lavorare con le idee, ha bisogni cognitivi, ama risolvere i problemi, è una personalità
analitica, cauta, critica, curiosa, precisa e razionale), Artistic (ARTISTICA = ama l’estetica e la creatività, è una personalità emotiva,
idealista, anticonformista e intuitiva), Social (SOCIALE = ama lavorare con e per gli altri, è una personalità cooperativa, amichevole,
generosa, empatica, sensibile e comprensiva), Enterpresing (IMPRENDITORIALE = ama le posizioni di potere, di gestione degli
altri, di responsabilità, è una personalita avventurosa, ambiziosa, energica, esibizionista e ottimista), Conventional
(CONVENZIONALE = ama i compiti ripetitivi, routinari, è una personalità conformista, coscienziosa, metodica, efficiente, rigida,
obbediente e prudente).

-> -> TEORIA DELLE “ANCORE DI CARRIERA” (elaborata da Schein -> SÉ PROFESSIONALE): secondo Schein la carriera è un processo
di socializzazione caratterizzato dalla negoziazione tra individuo e organizzazione ed è influenzata da fattori stabili dell’identità
individuale. A partire da questo presupposto l’autore individua la sua “teoria delle ancore di carriera” definite come un’insieme
di autopercezioni basate su successi lavorativi, valutazioni provenienti da terzi che l’individuo ha rispetto a talenti, motivazioni,
bisogni, valori e interessi che guidano le scelte professionali. Il simbolo dell’ancora rimanda agli aspetti centrali del Sé a cui la
persona non rinuncerà nei momenti di transizioni di ruolo.
-> Edgar Schein, nelle sue ricerche, analizza come le persone possano assumere un ruolo attivo nella gestione della propria
esperienza di lavoro. L’autore opera una netta distinzione tra il primo momento d’ingresso lavorativo e i primi anni di impiego che
lo seguono. Le persone, in itinere, si “costruiscono” ambizioni, sogni e speranze che possono “venire a galla” solo grazie
all’esperienza e al confronto con la realtà lavorativa. Quindi, dopo qualche anno di lavoro, il lavoratore acquisisce tali
consapevolezze: da qui nasce la metafora delle ancore di carriera, intese come un insieme di talenti, bisogni e valori che servono
a “guidare” il lavoratore verso una carriera desiderata. Conoscere le proprie ancore di carriera significa orientare la propria
carriera verso obiettivi precisi e coerenti con il proprio Sé professionale.
-> LE 9 (+ 1) ANCORE DI CARRIERA: 1. Competenza manageriale 2. Competenza tecnica 3. Creatività e intraprendenza 4.
Autonomia e indipendenza 5. Identità 6. Servizio 7. Stabilità organizzativa 8. Sicurezza geografica 9. Varietà 10. Integrazione
stile di vita.

LAVORATORE ANZIANO: non esiste una definizione univoca e condivisa di “lavoratore anziano”. Per la “politica europea” il termine
si riferisce a un lavoratore di età compresa tra i 55 e i 64 anni. Vi è però accordo su chi deve essere considerato “anziano”
(definizione socialmente condivisa) -> 67 anni per gli italiani. Nella società occidentale il passaggio alla “geriatria” è collocato a 65
anni.

SOSTENIBILITÀ: uno dei maggiori problemi è l’incompatibilità tra la capacità funzionale del lavoratore anziano e il livello di richieste
sul lavoro (-> ciò che l’organizzazione richiede al lavoratore è compatibile con le capacità funzionali residue del lavoratore
stesso?): le richieste lavorative, generalmente, non si riducono con l’età (ma, haimè, si riducono le capacità lavorative della
persona). Con il passare del tempo si riduce dapprima la capacità fisica, solo dopo la capacità mentale (anche se con l’età aumenta
la prevalenza dei disturbi mentali “comuni” come l’ansia e la depressione).
-> SOSTENIBILITÀ SECONDO L’UNIONE EUROPEA (UE): l’UE ha individuato dei criteri che, se presenti, permettono alla persona di
rimanere il più a lungo possibile sul luogo di lavoro nonostante l’avanzare dell’età: 1. Possibilità di far fronte ad altre responsabilità
compatibilmente con l’orario di lavoro 2. Aggiornamento delle proprie competenze per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro

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3. Autonomia personale di cui il lavoratore dispone per far fronte alle esigenze lavorative (nella misura in cui le condizioni di
lavoro proteggano la sua salute nel lungo periodo). Per l’UE è molto importante avere ambienti di lavoro “sani” e soprattutto
sicuri per ogni età.
-> Un esempio di sostenibilità: BMW. Dal 2007 ha creato uno stabilimento “a misura” dei suoi lavoratori “over 55” (= dispositivi
ergonomici ad hoc, fisioterapista, area relax ecc.) -> + 7% della produttività in un anno!

CAPACITÀ MENTALI/FISICHE NELL’ANZIANO: nell’invecchiamento i cambiamenti fisiologici che portano alla riduzione delle capacità
mentali hanno a che fare con la sfera della percezione, dell’elaborazione delle informazioni e del controllo motorio (= attività
psicomotoria e cognitiva rallentata, diminuzione della memoria a breve termine, tempi di reazione più lenti, lentezza
nell’apprendimento di temi complessi). La capacità di lavoro fisico di un lavoratore di 65 anni è circa la metà di quella di una
persona di 25 anni (la riduzione della capacità fisica comincia dopo i 50 anni).

WORK ABILITY: misura della capacità di un lavoratore di svolgere il proprio lavoro nel momento presente e nel prossimo futuro,
rispetto alle richieste della propria mansione e alle proprie risorse fisiche e mentali (-> quanto sono in grado di realizzare il mio
lavoro con le risorse fisiche e mentali che in questo momento ho a disposizione e con ciò che mi sta chiedendo l’azienda?).
Inizialmente questo strumento era utilizzato per misurare il grado di disabilità.

-> -> WORK HEALTH BALANCE (= “equilibrio salute-lavoro”): è un costrutto individuato da due ricercatori dell’Università Bicocca
di Milano (Massimo Miglioretti e Andrea Gragnano) che serve per misurare la “compatibilità” tra il dominio della salute e quello
lavorativo (al giorno d’oggi molte persone “malate” proseguono a lavorare -> quanto è compatibile la malattia con il lavoro?).
caratteristiche per “costruire” luoghi di lavoro inclusivi per lavoratori di tutte le età (-> MODELLO
AGE MANAGEMENT: definisce le = questo modello promuove la diffusione del “business case for age-diversity”, cioè la
DELLA FONDAZIONE DI DUBLINO promozione di una maggiore consapevolezza intorno ai vantaggi che un’azienda può ottenere
laddove s’interessa alle differenze d’età dei suoi lavoratori). L’obiettivo è quello di creare un equilibrio tra le diverse generazioni
di lavoratori, permettendo alle fasce più anziane di restare sul mercato del lavoro il più a lungo possibile adattandosi
costantemente alle mutevoli esigenze di formazione e di prestazione.
-> È molto importante creare un ambiente e un clima organizzativo che favorisca la presenza, l’accettazione e la
convivenza di più generazioni di lavoratori.

DIFFERENZE INDIVIDUALI SECONDO MURPHY E GUION (1996, 1998): secondo gli autori le differenze individuali utili per la
comprensione del comportamento lavorativo sono 1. Abilità cognitive e psicomotorie 2. Personalità 3. Interessi 4. Valori.

ABILITÀ: il termine “abilità” rimanda a un “saper fare”, alla messa in atto di strategie efficaci per collegare e integrare capacità e
richieste. Le abilità sono: 1. Intelligenza e abilità cognitive 2. Abilità fisiche 3. Abilità percettivo-motorie.
• Intelligenza (fattore "G") e abilità cognitive: capacità mentale che comprende la capacità di ragionamento, di
progettazione, di problem solving, di pensare in modo astratto, di cogliere e capire idee complesse, di imparare
velocemente e di apprendere dall’esperienza.
• Abilità fisiche (forza, flessibilità muscolare e resistenza fisica), abilità sensoriali (funzioni fisiche della vista, dell’udito, del
tatto, del gusto e dell’olfatto), abilità psico-motorie (coordinazione, destrezza e tempi d’azione).

TRATTI DI PERSONALITÀ IMPORTANTI SUL LAVORO: SELF-CONCEPT (= valori, credenze, competenze, obiettivi personali), LOCUS
OF CONTROL (= grado di controllo personale delle situazioni), SELF-MONITORING (= controllo del proprio comportamento
autoespressivo), AUTOSTIMA (= opinione sul proprio valore basata sull’auto-osservazione), AUTOEFFICACIA (= percezione della
propria riuscita in diverse situazioni), BISOGNO DI RIUSCIRE/AFFILIAZIONE/POTERE (= fattori motivanti del comportamento),
PROATTIVITÀ (= accettare e ricercare attivamente i cambiamenti).

-> -> BIG FIVE (modello a 5 fattori di personalità): personalità -> comportamenti lavorativi -> performance. Secondo questo
modello è possibile descrivere la personalità in base a 5 fattori principali (fattori universali, relativamente stabili durante l’età
adulta) e predire i risultati lavorativi (-> in che modo il lavoratore reagisce agli stimoli?).
Scale Sotto-scale Caratteristiche

1. COSCIENZIOSITÀ Scrupolosità, perseveranza. Responsabile, prudente, orientato al


risultato.
2. ENERGIA Dinamismo, dominanza. Socievole, assertivo, ambizioso, energico.
3. AMICALITÀ Cooperatività, empatia, cordialità, Collaborativo, affabile, amichevole.
atteggiamento amichevole.
4. STABILITÀ EMOTIVA Controllo dell’emozione e degli impulsi. Sicuro, calmo, poco ansioso.

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5. APERTURA MENTALE Apertura alla cultura e all’esperienza. Curioso, intelligente, fantasioso,
indipendente.

INTERESSI PROFESSIONALI: sono differenze individuali relativamente stabili basate sull’identità personale che riguardano le
preferenze per determinate attività lavorative e che influenzano i comportamenti lavorativi attraverso i processi motivazionali.
Rimandano a una “visione di sé stessi”. Possiedono le seguenti caratteristiche:
• Hanno una componente disposizionale: sono relativamente stabili nel tempo, il periodo in cui risultano più facilmente
modificabili coincide con l’infanzia e con la prima adolescenza. Possono comunque modificarsi in base all’esperienza di
di vita.
• Sono espressi come “forma di preferenze”: gli interessi sono manifestati come “preferenza per lo svolgimento di una
determinata attività o in un determinato contesto lavorativo”.
• Riflettono l’identità personale: gli interessi professionali correlano significativamente con le dimensioni di personalità.

VALORI PERSONALI: l’ampia letteratura sull’argomento vede i “valori” personali come credenze (= le persone agiscono in base a
ciò che preferiscono), obiettivi (= scopi che le persone intendono raggiungere) e come stati desiderabili (= obiettivi, scopi
indipendenti da situazioni specifiche, sono applicati come standard normativi per scegliere le proprie condotte comportamentali).

-> -> VALORI LAVORATIVI: rimandano a ciò che le persone ritengano debba essere soddisfatto in risposta al ruolo lavorativo
ricoperto, contribuiscono quindi a spiegare cosa MOTIVA le persone verso il raggiungimento di obiettivi ritenuti importanti. I
valori lavorativi, in sostanza, influenzano gli atteggiamenti, i comportamenti, la scelta e lo sviluppo di carriera dei lavoratori, sono
relativamente stabili e possono facilmente cambiare nel passaggio dall’adolescenza alla vita adulta.
• ROKEACH (1937) distingue tra VALORI TERMINALI (-> preferenze per obiettivi finali da raggiungere nel corso della vita,
es. vita confortevole, felicità, riconoscimento sociale ecc.) e VALORI STRUMENTALI (-> sono i mezzi utili per ottenere gli
obiettivi terminali, es. avere una mente aperta, il coraggio nell’affermare le proprie idee, la razionalità ecc.).
• ALLPORT e collaboratori (1931) hanno individuato 6 categorie di valori: teoretici (interesse per il ragionamento e il
pensiero sistematico), economici (interesse per l’utilità e la praticità), estetici (interesse per la bellezza, l’estetica e la
forma), sociali (interesse per le persone e le relazioni interpersonali), politici (interesse per il potere), religiosi (interesse
per l’unità, per la comprensione dell’universo come entità globale).
• Valori in ambito organizzativo -> VALORI INTRINSECI (-> si riferiscono al lavoro in sé, ai compiti “tipici” del lavoro che si
sta svolgendo), VALORI ESTRINSECI (-> valori personali congruenti con quelli organizzativi o del gruppo di lavoro).

-> -> VIOLENZA E AGGRESSIONI: le violenze possono avere il proprio focus sulle finalità, sulle caratteristiche della condotta
aggressiva/violenta o sulla fonte.

-> -> Violenza e aggressioni con focus sulla FINALITÀ:


Finalità non SALIENTE Finalità SALIENTE
La condotta aggressiva riflette primariamente una reazione • Denigrazione finalizzata a svalutare l’operato della
emotiva del soggetto (= incivility). vittima (= social undermining).
• Coercizione finalizzata a ottenere favori non legati alla
sfera lavorativa (= sexual harassment).
• Eventi criminosi.

-> -> Violenza e aggressioni con focus sulle CARATTERISTICHE DELLA CONDOTTA AGGRESSIVA/VIOLENTA: qui rientrano le
violenze psicologiche e le aggressioni fisiche.

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-> -> Violenza e aggressioni con focus sulla FONTE: la fonte può essere interna/esterna e:
Tipo I Tipo II Tipo III
(Worker-on-worker violence)
Chi perpetra la violenza non ha una Chi perpetra la violenza è un Chi perpetra la violenza appartiene allo
relazione legittima con il contesto utente/cliente/destinatario di servizi stesso contesto lavorativo a cui
lavorativo colpito (evento erogati dall’organizzazione (il paziente appartiene il soggetto colpito (il medico
criminoso/rapina). fa violenza all’infermiere). fa violenza a un infermiere).

Sono più esposti i luoghi di lavoro dove In Europa è in costante aumento -> Cause? Carichi di lavoro cronicamente
si maneggia denaro o dove è presente “emergenza epidemica”. Il personale eccessivi, conflitti di ruolo, poche
merce di valore. sanitario è la categoria a maggior rischio risorse/strumenti, mancata integrazione
(DEA, psichiatria, sale d’attesa, geriatria tra mission e obiettivi, scarsa
ecc.). La scorretta gestione della pianificazione ecc.
Esposizione a eventi criminosi = -
soddisfazione lavorativa, - performance relazione utente-operatore aggressivo
e + propensione ad abbandonare il può portare a un’escalation con Conseguenze? Esaurimento, stress,
lavoro. conseguenze ingenti sulla qualità del disturbi del sonno, difficoltà di
servizio. conciliazione tra domini di vita,
diminuzione della performance,
assenteismo, rischio di escalation di
violenza.

-> -> SINDROME DA STRESS POST-TRAUMATICA (SSPT): si manifesta attraverso 3 sintomi: intrusione, evitamento e aumento dei
livelli di attivazione (= iperarousal). La SSPT, entro certi limiti, è da considerarsi una risposta fisiologica (= normal) a un evento
eccezionale (= abnormal). La presenza di SSPT non implica una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (PTDS), tuttavia la
letteratura ha evidenziato che elevati livelli di SSPT a oltre una settimana dall’evento sia predittivo dell’insorgenza di PTDS. La
risposta a un evento traumatico è molto soggettiva ed è influenzata da 3 fattori:
Fattori PRE-TRAUMA Fattori PERI-TRAUMA Fattori POST-TRAUMA
Caratteristiche del soggetto (es. età, Caratteristiche dell’evento (es. Strategie di coping, supporto sociale,
genere, titolo di studio, traumi aggressore con arma, durata, presenza supporto organizzativo ecc.
pregressi ecc.). di altre vittime ecc.).
Cosa devono fare le organizzazioni? Interventi preventivi o riparativi: costruire “mappe di rischio” utili per orientare gli addetti
ai lavori a individuare soggetti e gruppi a maggiore rischio di cronicizzazione della sindrome da stress post-traumatico o realizzare
interventi mirati di prevenzione primaria e terziaria. Interventi di job design (sviluppare forme di supporto pre-peripost evento).
Implementare i sistemi di monitoraggio che consentano di individuare e “captare” i segnali “deboli” della presenza di
comportamenti aggressivi per prevenire eventuali gravi conseguenze. Sviluppare politiche e azioni volte ad aumentare la
consapevolezza rispetto al problema della violenza sui luoghi di lavoro (= SENSIBILIZZAZIONE).
Quali risorse moderano la relazione tra aggressione verbale e burnout? -> MODELLO JD-R (2001):
• Aggressione verbale come job demand: aspetti emotivo-relazionali che richiedono “sforzi” e che sono associati a dei
“costi psicologici” (= burnout).
• Job resources: aspetti psicologici, sociali e organizzativi che sostengono il lavoratore nel raggiungimento degli
obiettivi e diminuiscono i costi psicologici associati.

-> -> MOTIVAZIONE: può essere definita come il complesso di forze che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel
corso del tempo. La motivazione al lavoro riguarda il “fare” le attività e lo “stare” in organizzazione; rimanda quindi a un’energia
che s’investe nel lavoro e nelle organizzazioni. I comportamenti funzionali al lavoro si basano proprio su una buona motivazione
lavorativa. In linea generale esistono 2 approcci teorici al tema della “motivazione”:
• 1° -> analisi dei contenuti della motivazione (= che cos’è la motivazione? Maslow, McClelland, Alderfer, Herzberg).
• 2° -> analisi dei processi che conducono all’espressione di una certa motivazione (= quali variabili legano la dinamica
motivazionale? Vroom, Adams, Locke).

1° gruppo -> analisi dei contenuti (= che cos’è la motivazione?):


-> -> MASLOW: Abram Maslow pensava che la motivazione fosse caratterizzata da 5 bisogni e propose un modello gerarchico (a
piramide) dove collocò questi bisogni lungo una scala evolutiva (-> bisogni fisiologici/di base, di sicurezza, di affetto, di stima e di
autorealizzazione). Se i bisogni primari non sono soddisfatti, non potranno essere soddisfatti nemmeno quelli secondari. Kurt
Lewin aggiunse in seguito il “bisogno di conoscenza” (= acquisire nozioni al fine di ottenere opportunità per crescere).

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MCCLELLAND: partendo dal “bisogno di riuscire”, individuò 3 ordini motivazionali (1. Motivazione al potere 2. Motivazione
all’affiliazione 3. Motivazione al successo). A questi 3 si aggiunse la motivazione alla competenza.

-> -> HERZBERG: questo autore individua la distinzione fra “fattori di igiene” (= prevenzione) e “fattori motivazionali”:
Fattori di igiene Fattori motivazionali
Quando presenti riducono l’insoddisfazione, ma non sono in Se assenti non producono insoddisfazione, ma quando
grado di produrre motivazione (es.: stipendio, ambiente di presenti generano motivazione (es.: valorizzazione del lavoro,
lavoro adeguato, sicurezza sul lavoro ecc.). Utili per la ricevere feedback costruttivi, riconoscimenti ecc.).
prevenzione.

2° gruppo -> analisi dei processi (= quali variabili legano la dinamica della motivazione?)

VROOM: l’autore è interessato a individuare le variabili che mediano la relazione tra i “bisogni” e le “condotte”. Definisce la
motivazione come un’energia mobilitata per il compimento di un corso d’azione, che spinge verso una sequenza
comportamentale che porta a una certa ricompensa”.

ADAMS: secondo l’autore la principale variabile che regola il processo motivazionale è l’equità percepita, intesa come la
valutazione soggettiva del livello di equità presente in un contesto sociale. Adams ci parla di 2 tipi di percezioni: 1. Percezione di
equità interna (= rimanda al confronto tra il risultato ottenuto e il lavoro fornito) 2. Percezione di equità esterna (= è il confronto
tra “se stessi” e gli altri).

LOCKE -> TEORIA DELLA DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI: secondo l’autore gli obiettivi sono alla base della motivazione e
costituiscono i fattori che dirigono il comportamento (sono delle “determinanti cognitive” dell’azione). Le caratteristiche degli
obiettivi, sono: consapevolezza, forza, aspettativa di successo, specificità e difficoltà (-> SELF-EFFICACY di Bandura).

-> -> COME RILEVARE LA MOTIVAZIONE?


Misure indirette Misure dirette
Prestazione lavorativa (lavora poco? = poca motivazione), Commitment (= impegno), overcommitment (impegno
assenteismo, turnover, ritardi ecc. eccessivo, attaccamento patologico al lavoro), cittadinanza
organizzativa ecc.

-> -> BUONE PRATICHE PER MOTIVARE IN ORGANIZZAZIONE (= come motivare i lavoratori?): 1. Buon clima (che favorisca la
riduzione dell’intenzione di abbandonare l’organizzazione) 2. Progettare le attività lavorative nella direzione di una maggiore
discrezionalità, autonomia e chiarezza di ruolo 3. Comunicazione interna chiara, trasparente ed efficace 4. Promuovere la
partecipazione organizzativa (maggiore socializzazione/integrazione), 5. Formazione continua 6. Adeguata retribuzione 7. Offrire
la possibilità di crescita professionale (= carriera) 8. Valorizzare il lavoro nel rispetto delle differenze.

PSICOLOGIA POSITIVA: nasce a partire dalla II guerra mondiale con l’obiettivo di rendere migliori le vite delle persone, nonché
identificare e coltivare le loro capacità. La psicologia positiva, quindi, sottolinea il ruolo delle risorse e delle potenzialità
dell’individuo.

-> -> FLOW AT WORK (-> stato di flow, Csikszentmihalyi, pioniere della psicologia positiva): può essere definito come uno stato di
consapevolezza in cui le persone sono fortemente immerse in una data attività, la amano intensamente, si divertono a praticarla.
Lo stato di flow è un picco a breve termine caratterizzato da: 1. Absorption (Assorbimento = stato di concentrazione totale, il
soggetto è completamente immerso nel proprio lavoro, il tempo scorre velocemente e il soggetto nemmeno se ne accorge) 2.
Work enjoyment (Divertimento sul lavoro = al soggetto piace il proprio lavoro, sperimenta emozioni positive) 3. Intrinsic
motivation (Motivazione intrinseca= i lavoratori motivati intrinsecamente sono interessati al proprio lavoro, vogliono continuare
a svolgerlo e lo fanno con piacere).
-> Gli individui sperimentano il flow più frequentemente sul lavoro, che non durante il tempo libero.
-> I ricercatori concordano sul fatto che il vissuto di flow si presenta quando gli individui percepiscono un equilibrio tra la sfida
che una situazione presenta e le risorse che possiedono per far fronte a tale sfida (esempio del tennista: un giocatore
professionista sperimenta un equilibrio solo se si confronta con un avversario “abile” quanto lui -> il gioco lo coinvolge perché la
sfida è “interessante” e quindi deve dare il suo meglio per vincere l’avversario / al contrario, se il giocatore professionista si trova
di fronte a un avversario meno bravo di lui, proverà noia, monotonia e quindi un minore equilibrio). Applicato all’esperienza
lavorativa, ciò significa che i lavoratori dovrebbero sperimentare il vissuto di flow soprattutto quando le richieste lavorative
corrispondono alle loro abilità professionali (-> il MODELLO JOB DEMANDS-RESOURCES ha dimostrato che le risorse lavorative
offrono un contributo positivo all’impegno e alle prestazioni degli individui).

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-> -> HARMONIOUS PASSION (HP, passione armoniosa): interiorizzazione volontaria che porta l’individuo a scegliere di svolgere
l’attività che gli piace. Tale attività occupa uno spazio significativo, ma non predominante nell’identità dell’individuo (che rimane
in “armonia” con tutti gli altri aspetti della sua vita). L’HP: 1. Genera emozioni positive esperite durante l’attività 2. Favorisce la
concentrazione, l’assorbimento e lo stato di flow 3. Minimizza le emozioni negative dopo l’impegno nel compito 4. La persona è
in grado di controllare l’attività in modo egosintonico (decide quando iniziarla e quando finirla) 5. Non genera conflitti con le altre
sfere della vita della persona 6. Favorisce l’autonomia e la motivazione.

-> -> JOB CRAFTING (= creazione di lavoro): fanno “job crafting” i lavoratori che “modellano” il loro lavoro (è come se lo facessero
“a loro misura”). In questo processo, in sostanza, i lavoratori cambiano in modo attivo il “disegno” del loro lavoro scegliendone i
compiti, negoziandone i contenuti e dando un significato alle proprie mansioni. I cambiamenti che i lavoratori mettono in atto,
possono essere: 1. Cambiamenti fisici 2. Cambiamenti cognitivi (= cambiamenti nel modo di percepire il proprio lavoro).
-> JD-R MODEL (Tims et al, 2012): questo modello concettualizza il job crafting come il cambiamento che i lavoratori attivano in
relazione alle loro domande e risorse lavorative (riguarda proprio il “comportamento agito” dai lavoratori, al fine di
aggiustare/allineare il loro lavoro alle loro preferenze, motivazioni e bisogni). Secondo gli autori che sostengono questo modello,
il job crafting può portare il lavoratore ad assumere 3 diversi tipi di comportamento: 1. Aumento delle risorse (strutturali/sociali)
2. Aumento delle domande lavorative/sfide 3. Diminuzione delle domande lavorative.

-> -> WORK ENGAGEMENT (= impegno lavorativo): gli studi suggeriscono che le risorse lavorative sono associate in modo positivo
al work engagement (= impegno lavorativo) -> le risorse come il feedback, i supporti sociali, la possibilità di variare/assumere
competenze, hanno un valore sulla motivazione estrinseca (poiché sono strumentali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi)
e sulla motivazione intrinseca (poiché sostengono la crescita, l’apprendimento e lo sviluppo della persona).
-> Quando i lavoratori s’interfacciano con elevate domande (sfide) e hanno sufficienti risorse a disposizione, aumenta
il loro work engagement (= impegno lavorativo) e, di conseguenza, la loro performance lavorativa.
-> Qual è la differenza fra “work engagement” e “flow at work”? La differenza sta nella continuità temporale: work engagement
-> è duraturo, stabile nel tempo / flow at work -> è un “picco”, si consuma nel breve periodo.
-> Caratteristica in comune fra “work engagement” e “flow at work”? Entrambi hanno a che fare con l’assorbimento (secondo
Bakker la relazione tra i due è dinamica).

-> -> JOB INSECURITY (= insicurezza lavorativa): può essere definita come la discrepanza tra il livello di sicurezza sperimentato da
una persona e quello che la persona stessa preferirebbe. L’insicurezza lavorativa è un concetto multidimensionale che, oltre al
timore di perdere il lavoro, comprende anche una serie di altre paure e timori (condizioni di impiego, posizione all’interno
dell’organizzazione, opportunità di carriera ecc.). Centrale è il concetto di INSICUREZZA, che può avere 2 connotazioni:
1. Incertezza quantitativa: minaccia di perdita del posto di lavoro, minaccia relativa alla perdita di alcuni aspetti connessi al
proprio lavoro.
2. Incertezza qualitativa: condizioni di impiego (salario, orario, luogo di lavoro ecc.), posizione nell’organizzazione,
opportunità di carriera, status (-> il timore della perdita o la perdita effettiva degli aspetti “qualitativi” può avere
ricadute anche più rilevanti o almeno equivalenti a quelle legate alla perdita del posto di lavoro o della retribuzione
sul benessere soggettivo).
Conseguenze del senso di instabilità lavorativa? Aumento dei livelli di stress sul breve periodo, compromissione della salute fisica
ed emotiva (depressione) nel lungo periodo + compromissione dell’identità personale e sociale ancorata agli aspetti dell’identità
professionale + ridotta performance e soddisfazione lavorativa.
I lavoratori con contratti precari hanno minore accesso alle occasioni di training e formazione circa il proprio lavoro e in materia
di salute e sicurezza, tendono a svolgere lavori più pericolosi e a lavorare in condizioni peggiori in assenza di protezioni.

DISOCCUPAZIONE: la perdita del lavoro rappresenta un’esperienza altamente traumatica (= vissuti di ansia, depressione, ridotta
salute fisica/mentale, ricadute significative sull’identità personale, diminuzione del senso di autoefficacia e dell’autostima -
numerose ricerche associano la disoccupazione a comportamenti insalubri per la salute come il fumo, l’alcol e l’inattività fisica).
Quali sono le reazioni individuali e le risposte alla perdita del lavoro? 3 fasi: 1) Sentimenti di turbamento/negazione seguiti da
periodi di generale ottimismo 2) Crescenti difficoltà durante le quali si comprende la gravità della propria condizione, specie dopo
numerosi tentativi di ricerca di una nuova occupazione 3. Sentimenti di sconforto/demoralizzazione.

MCKEE-RYAN E KINICKI (2002): secondo i due autori le persone interpretano la perdita del posto di lavoro utilizzando 5 elementi:
1) Work-role centrality (= centralità del ruolo di lavoro): la centralità del lavoro ed il valore attribuito al ruolo.
2) Coping resources (= strategie di coping a disposizione): l’insieme delle caratteristiche individuali e delle condizioni
ambientali, sociali e finanziarie da cui una persona può attingere per far fronte alla situazione.
3) Cognitive appraisal (= valutazione cognitiva): la valutazione cognitiva dalla quale deriva l’attribuzione causale per la
perdita del posto di lavoro.
4) Coping strategies (= strategie di coping): l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali necessari per gestire le
richieste interne ed esterne.
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5) Human capital / employability (= capitale umano): grado di istruzione, status professionale, insieme di competenze e
rete di contatti che determinano il grado di riempiegabilità percepita.
6) Demographics (= aspetti demografici): genere, numero di familiari a carico e durata del periodo di disoccupazione.

Conciliazione lavoro-famiglia

Il tema della conciliazione lavoro-famiglia è di grande attualità, viene utilizzato nelle valutazioni stress lavoro-correlato in quanto
incide sullo stress e sul benessere generale del lavoratore. Le organizzazioni sono tenute a farsene carico. Si è cominciato a parlare
e a interessarsi maggiormente a questo tema quando vi è stato un aumento delle donne nel mercato del lavoro, ma anche con la
presenza di genitori “single”, coppie dual worker (= in cui entrambi lavorano) e dual career (= in cui entrambi sono impegnati in
una carriera). Sono anche cambiati i valori (“è più importante la famiglia, della carriera” o viceversa). Altre questioni sono legate
alle caratteristiche del welfare state (leggi dello stato italiano -> l’Italia, purtroppo, non è un paese molto “supportivo” a differenza
di altri paesi ad esempio del nord Europa). Potremmo definire la conciliazione lavoro-famiglia come segue: “la conciliazione rinvia
a un processo dinamico, influenzato da variabili personali, relazionali, contestuali e organizzative, che conduce a un equilibrio
soddisfacente per la persona, in un dato momento, tra le richieste (di tempo, responsabilità e impegno) dai diversi domini di
vita e le risorse disponibili, oltre che il desiderio di investire in questi stessi domini”.
EQUILIBRIO -> il tema della conciliazione lavoro-famiglia, quindi, rimanda al concetto di equilibrio: 1. Un equilibrio
materiale-organizzativo (rimanda alla presenza di soluzioni pro-conciliazione “pratiche” che aiutano il lavoratore a “conciliare” -
es. richiesta di part-time, asilo nido sul luogo di lavoro ecc.) 2. Un equilibrio psicologico-emotivo (è un equilibrio “interno” alla
persona - es. l’azienda mi mette a disposizione l’asilo nido, ma io mi sento comunque a disagio a lasciare il mio bambino da solo
per andare a lavoro = senso di colpa).

SENSE OF ENTITLEMENT (= “senso del diritto”): insieme di elementi soggettivi, quali credenze e sentimenti, rispetto a ciò che viene
considerato “dovuto” ed “equo” dalla persona (-> quanto percepisco che sia un mio diritto ricevere delle agevolazioni
proconciliazione?). Ciascuno di noi ha un diverso senso del diritto di ricevere supporto al fine di migliorare il proprio equilibrio
lavorofamiglia -> molto spesso, nelle nostre organizzazioni, le persone hanno un basso senso del diritto di ricevere un supporto,
quindi - alla fine - non lo chiedono (part-time, permessi ecc.).

I modelli teorici in tema di conciliazione lavoro-famiglia possono essere distinti in 2 “filoni”: 1. I modelli che vedono la conciliazione
come un problema (-> conflitto di ruolo + spillover negativo) 2. I modelli che vedono la conciliazione come un’opportunità (->
arricchimento + spillover positivo).
Conciliazione lavoro-famiglia come PROBLEMA:
• CONFLITTO DI RUOLO: è la teoria più diffusa e più utilizzata -> il lavoro e la famiglia comportano l’assunzione di due ruoli
(ruolo lavorativo + ruolo del genitore), quindi il tutto è visto come un “conflitto di ruoli” dove i due ruoli sono
incompatibili fra loro. Alcune persone investono più in un ruolo e disinvestono nell’altro ruolo, questo spesso genera
stress. Possiamo parlare sia di conflitto “famiglia-lavoro”, sia di conflitto “lavoro-famiglia” (il conflitto è bidirezionale,
asimmetrico e reciproco). Come può proteggersi il lavoratore da questo conflitto? TEORIA DELLA CONSERVAZIONE DELLE
RISORSE = cercare di conservare il più possibile le risorse a disposizione (non esaurirle, cercare di proteggerle e di
ottenerne sempre di più).
• SPILLOVER NEGATIVO (spillover = “espansione”, qualcosa che passa “da un contesto all’altro”): questa teoria ipotizza una
sostanziale somiglianza tra quanto avviene al lavoro e quanto avviene nella vita privata (= l’esperienza che una persona
fa sul lavoro, può influenzare l’esperienza che fa a casa nella famiglia). Il vissuto negativo sul lavoro si ripercuote anche
a casa o viceversa (le emozioni negative che vivo sul lavoro “me le porto a casa”, o viceversa). Conciliazione lavoro-
famiglia come OPPORTUNITÀ:
• ARRICCHIMENTO: queste teorie rimandano al tema dell’arricchimento; in realtà, stare in 2 ruoli può portare a dei
vantaggi, cioè può essere fonte di arricchimento (questo accade quando le risorse generate in un ruolo, possono
migliorare la qualità di vita anche nell’altro ruolo). Possiamo avere degli “arricchimenti strumentali” (es. un’abilità
acquisita sul lavoro viene utilizzata anche in famiglia, o viceversa) o degli “arricchimenti affettivi” (es. le emozioni positive
vissute a casa, “me le porto a lavoro” -> SPILLOVER POSITIVO).

SUPPORTI NELLA CONCILIAZIONE LAVORO-FAMIGLIA: welfare state (politiche nazionali/europee pro-conciliazione), supporto
organizzativo (iniziative pro-conciliazione), supporto da parte dei superiori (= supporto formale) o dai colleghi, supporto familiare
(= supporto informale) ecc.
-> Le organizzazioni che “hanno a cuore” e che s’impegnano nella facilitazione della conciliazione lavoro-famiglia, sono quelle
fondate su una CULTURA FAMILY-FRIENDLY (= insieme di valori e credenze circa la tendenza dell’organizzazione a valorizzare e
sostenere l’integrazione e la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa).

Simone Quagliata 19
SOLUZIIONI PRO-CONCILIAZIONE: benefit/servizi -> flessibilità, nidi aziendali, convenzioni con il territorio, counseling soluzioni
contrattuali -> part-time, tempo ridotto, teleworking supporto dei capi (secondo la ricerca è il più efficace) -> commitment, ascolto
e sostegno, qualità delle relazioni supporto dei colleghi (secondo la ricerca è il meno efficace) -> qualità delle relazioni,
comprensione, sostegno concreto, cambio turni ecc.
-> è sempre importante che l’azienda prima faccia un’analisi dei bisogni di conciliazione e che poi ne monitori nel tempo
i risultati.

BARRIERE ORGANIZZATIVE: sono fattori che impediscono alle organizzazioni di attuare delle politiche di sostegno familiare e/o
fattori che riducono l’efficienza di queste iniziative (es. aziende dove prevale una cultura “maschilista”, paesi dove non vi sono
leggi adeguate, aziende con scarso supporto manageriale ecc.). Una forma importante di barriera organizzativa è il WORK-FAMILY
BACKLASH (= letteralmente significa “contraccolpo lavoro-famiglia”, è l’insieme di risentimenti di ostilità che chi “prova” a
conciliare il lavoro e la famiglia percepisce dai propri superiori e dai propri colleghi - es. una lavoratrice chiede un part-time perché
non riesce a conciliare il lavoro con la famiglia, i capi glie lo concedono ma “glie lo fanno pesare”). Le aziende devono stare molto
attente all’EQUITÀ DISTRIBUITA (Adams) = ok agevolare il lavoratore, ma “occhio” a non “svantaggiare” tutti gli altri.

Approfondimenti…

Quali sono i COMPORTAMENTI FUNZIONALI AL LAVORO? I comportamenti funzionali al lavoro si basano tutti su una buona
motivazione lavorativa. Sono: 1.FLOW AT WORK 2. HARMONIOUS PASSION = passione armoniosa (polo disfunzionale -> obsessive
passion = passione ossessiva) 3. JOB CRAFTING 4. WORK ENGAGEMENT = impegno lavorativo (polo disfunzionale ->
workaholic).

ELTON MAYO: è stato il fondatore del movimento delle relazioni umane.

HARDINESS (= “robustezza”): è la resistenza psicologica allo stress, fa riferimento a un tratto della personalità associato alla
capacità di una persona di gestire e di rispondere a eventi di vita stressanti con strategie di coping che trasformano le circostanze
potenzialmente “sfortunate” in opportunità di crescita.

Rispetto alle SOTTOCULTURE, Martin (1992) distingue: CORPORATE CULTURE (= cultura “generale”, dominante del vertice
aziendale), SOTTOCULTURE DI SOSTEGNO (= culture a sostegno della corporate culture), CONTROCULTURE (= cultura che si
contrappone alla cultura “dominante” e che trae origine dalla diversa distribuzione del potere e degli interessi in gioco) e
SOTTOCULTURE ORTOGONALI (= culture che convivono con la cultura generale).

Rispetto alla LEADERSHIP -> TEORIA DEI TRATTI: secondo questa teoria le persone ereditano determinate qualità e tratti che le
rendono più inclini alla leadership.

Rispetto alla LEADERSHIP -> LEADERSHIP SITUAZIONALE: i leader si adattano alla situazione in cui si trovano, cambiando lo stile a
seconda di come cambia la situazione (scelgono il percorso d’azione migliore sulla base delle variabili situazionali). Centrale è il
concetto di cambiamento. Anche i follower possono cambiare la sua situazione, il suo stato mentale ed emotivo.

Rispetto allo STRESS -> MODELLO JOB DEMAND-RESOURCE (di Bakker e Demerouti, 2001): le caratteristiche del contesto da tenere
in considerazione variano a seconda dei contesti occupazionali e sono raggruppabili in 2 macro-categorie:
• Domande: sono primariamente responsabili di iniziare un processo di consumo di risorse (funzionano come stressor).
• Risorse: sono identificate come “initiators” di un processo motivazionale (le risorse moderano gli effetti negativi degli
stressor).

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