Sei sulla pagina 1di 68

Riassunto manuale “Introduzione alla

psicologia del lavoro”


Autori: Guido Sarchelli; Franco Fraccaroli.

A cura di: Daniela Turano

INDICE:

CAPITOLO 1  Lo studio psicologico del lavoro

CAPITOLO 2  Lavorare oggi: esigenza di un nuovo contratto psicologico

CAPITOLO 3  Il legame psicologico tra individuo e lavoro

CAPITOLO 4  Il lavoratore e i suoi compiti

CAPITOLO 5  Psicologia e sicurezza nei luoghi di lavoro

CAPITOLO 6  Costi e ricavi del lavoro

CAPITOLO 7  Condotte lavorative anomale e controproducenti


CAPITOLO 1 – LO STUDIO PSICOLOGICO DEL LAVORO

1. CHE COSA È LA PSICOLOGIA DEL LAVORO


La psicologia del lavoro può essere considerata una disciplina scientifica che si interessa dell'interazione tra
persona e lavoro.

1.1 Disciplina scientifica


La psicologia del lavoro fa parte delle discipline psicologiche che si interessano della comprensione e
spiegazione della mente e dell'agire umano. Le conoscenze prodotte si basano prevalentemente sul metodo
scientifico, tant’è che la disciplina ha assunto una logica evidence based: è attraverso una sistematica
conoscenza dei dati della realtà che si possono costruire modelli interpretativi ed effettuare interventi
affidabili.
I metodi di ricerca costituiscono uno degli aspetti fondamentali della psicologia del lavoro.
L'osservazione sistematica, la sperimentazione, lo studio di casi, le indagini campionarie sono gli strumenti
principalmente utilizzati per validare le teorie e i modelli interpretativi.
La psicologia del lavoro opera in stretto contatto con ambienti organizzativi e con persone che in maniera
concreta incontrano problemi o cercano opportunità di sviluppo, per cui il percorso di costruzione della
conoscenza può essere più tortuoso, anche in considerazione che il comportamento umano al lavoro è troppo
complesso e strettamente legato alle caratteristiche del contesto in cui si realizza.

Per queste ragioni, in psicologia del lavoro è piuttosto frequente un approccio costruttivista che si pone
l'obiettivo di generare teorie attraverso l'analisi clinica di casi singoli, il resoconto etnografico, lo studio di
documenti, il metodo narrativo. Il percorso avviene spesso a ritroso, cioè dal dato empirico alla costruzione
di modelli teorici. Si possono inoltre trovare nella ricerca degli elementi di serendipità. Questo termine
descrive una modalità conoscitiva che presuppone intuizione, flessibilità e apertura all'esperienza, che porta
alla scoperta scientifica in maniera quasi accidentale.
L'esempio tipico di serendipità in psicologia del lavoro è quello degli studi di Elton Mayo che hanno contribuito
a mettere in luce il ruolo delle relazioni umane nei luoghi di lavoro, senza che questo fosse previsto nelle sue
ipotesi di ricerca: studiando il ruolo delle pause e degli incentivi sulla produttività, Mayo giunse a riconoscere
che la crescita di un forte senso di gruppo, con autonomia e responsabilità, favoriva un incremento nella
produttività, indipendentemente dalle soluzioni orarie o premiali adottate.

1.2 Psicologia applicata ai problemi del lavoro


Fin dalla sua nascita, nei primi decenni del secolo scorso negli Stati Uniti, la psicologia del lavoro è sempre
considerata come una disciplina con una forte valenza applicativa, in quanto presta notevole attenzione alla
soluzione dei problemi concreti degli individui e delle organizzazioni e può fornire utili contributi per lo
sviluppo delle politiche del lavoro.
La nascita del «Journal of Applied Psychology» nel 1917 ha portato all’instaurazione di un programma ben
preciso da seguire: prestare attenzione alle applicazioni pratiche della psicologia nelle attività professionali e
in particolare nel mondo degli affari, nelle scelte di carriera e nelle attività della vita quotidiana.
Dopo la metà del secolo scorso, si fece un passo indietro dalla vocazione applicativa fortemente orientata alla
soluzione dei problemi dell'industria e del capitale e si mise in evidenza una psicologia applicata che fosse più
attenta alle esigenze dei lavoratori.

Secondo Sarchielli:
 gli psicologi del lavoro possono contribuire a garantire la costante spinta all'efficienza che caratterizza le
organizzazioni di lavoro, ma non solo in termini di riduzione dei costi e semplificazione delle procedure,
bensì anche in termini di maggiore sensibilità verso gli utenti/clienti finali e di qualità della vita interna
all'organizzazione.
 gli psicologi del lavoro possono contribuire a migliorare la qualità della vita lavorativa e il benessere degli
individui nelle organizzazioni indagando: quali caratteristiche dovrebbe avere l'ambiente di lavoro per

1
favorire il benessere di tutti; come garantire equità e trasparenza nella distribuzione dei benefici; come
favorire la realizzazione delle aspirazioni individuali.
 la psicologia del lavoro può contribuire ad affrontare alcune lotte significative tipiche del mondo del lavoro
contemporaneo: gli studi sull'invecchiamento delle forze di lavoro, sulle disparità di genere e
sull'integrazione e inclusione al lavoro di persone con diversi gradi di abilità.
 la psicologia del lavoro può contribuire ad affrontare temi quali la gestione del lavoro nel tempo e nello
spazio, indagando su come affrontare i cambiamenti che stanno trasformando il lavoro, da attività svolta
in un preciso luogo e all'interno di uno schema temporale ben definito, a un'attività con minori prescrizioni
temporali e che può essere svolta anche a distanza (es. telelavoro).

1.3 Psicologia del lavoro e altre psicologie


In merito al ruolo applicativo della psicologia del lavoro, alcuni studiosi [Arnold, Cooper e Robertson]
pensano che la disciplina non rappresenti un ambito di studio a sé stante, ma sia costituita dall'applicazione
delle teorie e delle ricerche psicologiche ai contesti di lavoro, quindi la specificità della disciplina non deriva
dai contenuti e dal sapere prodotto, ma dal suo contesto di applicazione (i luoghi di lavoro).
Altri studiosi [Drenth, Thierry e de Wolff] invece, ne riconoscono il ruolo applicativo ma sottolineano
la specificità e l'autonomia della disciplina: essa non può essere vista solo come un campo di applicazione di
altre discipline o sotto-discipline psicologiche.
La psicologia del lavoro e delle organizzazioni ha guadagnato una posizione indipendente grazie ai suoi
contributi nella produzione di test e nella valutazione delle persone, nello studio dello stress e della leadership.

1.4 Psicologia del lavoro e altri ambiti scientifici


La psicologia del lavoro opera in stretto contatto con vari altri ambiti scientifici, facendo in modo che il
l’oggetto di studio “lavoro” venga analizzato dai diversi punti di vista delle molteplici discipline quali:
 SOCIOLOGIA
 SCIENZE DELLA FORMAZIONE
 MEDICINA
 GIURISPRUDENZA
 ECONOMIA
 ERGONOMIA
 SCIENZE DELL'ORGANIZZAZIONE
Ad esempio: lo studio delle conseguenze psicologiche della mancanza di lavoro non può prescindere da una
serie di conoscenze relative alle caratteristiche economiche della disoccupazione (grado di diffusione;
categorie di lavoratori più colpiti; carattere frizionale o strutturale della disoccupazione) e dai rilievi sociologici
del fenomeno (stigma sociale; processi di marginalizzazione). In questo caso, l’integrazione fra discipline
conduce verso una piena comprensione dei processi psicologici connessi con la perdita/mancanza di lavoro.
L’aspetto multidisciplinare non si ritrova solo nella ricerca ma anche nella pratica professionale tra psicologi
del lavoro e altri professionisti. Ad esempio, chi si occupa di selezione del personale oggi non può prescindere

2
dall’interazione con il mondo dei giuristi, perchè le pratiche di selezione devono tenere conto di una serie di
vincoli normativi che concernono la tutela della privacy della persona e dei suoi diritti.

1.5 Ricercatori e professionisti


E’ possibile identificare almeno due modi di fare psicologia del lavoro ai quali corrispondono due profili
professionali:
 la psicologia del lavoro come RICERCA: l’input principale per questo tipo di attività proviene da problemi
teorici, da nuovi fenomeni sociali e organizzativi che mettono in discussione impostazioni teoriche passate
o richiedono una innovazione nei modelli di riferimento. Di conseguenza, si procede: nella produzione di
nuove conoscenze, nell’elaborazione di teorie sul funzionamento umano in particolari contesti di lavoro,
nella verifica di ipotesi, nella costruzione di strumenti di misura affidabili.
A questo lavoro si dedicano principalmente i ricercatori inquadrati nel mondo accademico e nei centri di
ricerca specializzati, cioè psicologi del lavoro che operano solitamente a stretto contatto con altri
ricercatori di discipline scientifiche limitrofe.
 la psicologia del lavoro come PROFESSIONE: si tratta di un gruppo professionale di psicologi che opera con
l'intento di risolvere problematiche che emergono dal mondo del lavoro. Gli input principali arrivano da
clienti, come ad esempio dirigenti di enti e strutture pubbliche o private, responsabili del personale delle
aziende, esperti di gestione di risorse umane ecc.. che fanno determinate richieste agli psicologi.
Questi professionisti si formano all'interno dei corsi di laurea magistrale in psicologia del lavoro e delle
organizzazioni, sono solitamente iscritti all'albo professionale degli psicologi e operano secondo varie
forme contrattuali: dipendenti di aziende o strutture di servizio pubblico e privato; lavoratori autonomi
che esercitano come singoli consulenti o in forma associata. Offrono servizi nell'area della formazione,
dell'orientamento professionale, della selezione e valutazione del personale, della consulenza
organizzativa.

2. L'ARTICOLAZIONE DELLA DISCIPLINA


2.1 Livelli di analisi psicologica
La psicologia del lavoro studia il comportamento umano nelle sue varie manifestazioni che concernono il
lavoro, quindi l'interesse non si concentra solo sulla persona di fronte al proprio compito di lavoro o in
interazione con i colleghi d'ufficio, ma si estende ad altri ambiti di vita.
Ad esempio: i temi della conciliazione tra vita lavorativa e vita extra-lavorativa, gli orientamenti e
atteggiamenti verso il lavoro, il modo in cui le preferenze sessuali possono avere ripercussioni sul lavoro.
Rientrano nell'ambito di interesse della psicologia del lavoro anche i processi percettivi, cognitivi e attentivi
che sottendono alla ricezione ed elaborazione di informazioni utili per guidare l'azione al lavoro, nonché i
processi motivazionali. Costituiscono oggetto centrale di studio della disciplina gli stati emotivi, i tratti di
personalità, l'identità, gli atteggiamenti sociali, le aspettative, le attitudini e le intenzioni delle persone.
Negli studi e negli interventi di psicologia del lavoro l’oggetto di studio può essere analizzato a 5 diversi livelli
di analisi:

1. Livello di analisi intrasoggettivo: a questo livello la psicologia del lavoro si occupa di alcuni processi
intrapsichici del soggetto e mette in relazione diverse condizioni dell'esperienza psicologica.si osservano i
processi interni, consapevoli alla persona, che conducono al comportamento, alla presa di decisione e
all’elaborazione cognitiva.
Ad esempio: esaminare le esperienze di gestione dello stress lavorativo e le modalità di fronteggiamento.

2. Livello di analisi soggetto-compito: il focus riguarda l'interazione tra persona e compito lavorativo. Gli
studi si interessano di come le persone costruiscono script, mappe cognitive e modelli mentali della
situazione di lavoro. Essi sono forme internalizzate di conoscenza che guidano l'azione e sono fondamentali
per un'efficace esecuzione del compito. Questo livello di analisi viene preso in considerazione quando si
vogliono mettere in relazione le condizioni di esecuzione di un compito e le caratteristiche dell'operatore
per definirne il grado e la tipologia di attività.

3
Ad esempio: l'insorgenza di stress è considerata come l'esito di un inadeguato rapporto tra risorse della
persona (competenze) e richieste del compito lavorativo.

3. Livello di analisi di gruppo: l'attenzione dello psicologo è rivolta verso il gruppo sociale (gruppo di lavoro,
team, task force). Si tende a considerare i gruppi di lavoro come unità di analisi complessiva, piuttosto che
come somma di tanti individui. Un livello di analisi di gruppo è usato anche per studiare i processi di
apprendimento durante le esperienze di formazione e l'efficienza o i conflitti dei gruppi di lavoro.
Ad esempio: l'équipe che opera in una sala operatoria può essere studiata come un insieme per osservare
le forme di sincronismo, la combinazione delle diverse competenze, i modelli mentali condivisi del
compito.

4. Livello di analisi organizzativo: è il livello di analisi appartenente alla psicologia delle organizzazioni, una
disciplina che opera in stretta connessione con la psicologia del lavoro.
Ad esempio: gli studi che hanno esaminato le culture organizzative, intese come insieme di valori generali
che regolano la vita di una organizzazione. Lo studio di queste culture è stato molto proficuo nell'affrontare
fenomeni come: processi di fusione, incorporazione tra diverse organizzazioni, distribuzione di potere tra
diverse coalizioni organizzative, accoglienza di nuovi membri dell'organizzazione.

5. Livello di analisi sociale: è un livello di analisi che prende in esame l'individuo al lavoro secondo una
prospettiva più ampia, che considera i macroprocessi socioeconomici e culturali che regolano una società
e caratterizzano una determinata fase storica. Tutti gli atteggiamenti e orientamenti lavorativi sono
considerati come il prodotto di processi economici, culturali e normativi che caratterizzano diverse fasi
storiche e l'appartenenza a diversi gruppi sociali.
Ad esempio: studi sul significato del lavoro in paesi con diversi modelli di sviluppo economico
e con diverse strutturazioni del mercato del lavoro.

2.2 Per un'articolazione interna


Partendo dal presupposto che la psicologia del lavoro si occupi di una vasta gamma di temi, per cercare di dare
ordine e per distinguere diversi ambiti di studio e di intervento, si è cercato di distinguere 3 diverse
subdiscipline. Tale articolazione prende il via da un manuale di Drenth, Thierry e de Wolff (1998) che si articola
in quattro volumi: il primo a carattere introduttivo, il secondo dedicato alla psicologia del lavoro, il terzo alla
psicologia delle risorse umane, il quarto alla psicologia dell'organizzazione.

4
1. La PSICOLOGIA DEL LAVORO si occupa del lavoratore che persegue scopi, che apprende, che prova
esperienze psicologiche di fronte al proprio compito, nell'interpretazione del proprio ruolo e nel rapporto con
l'ambiente.
2. La PSICOLOGIA DELLE RISORSE UMANE affronta una serie di problematiche individuali e organizzative, allo
scopo di trovare il migliore adattamento possibile tra caratteristiche dell'individuo e richieste organizzative.
3. La PSICOLOGIA DELL'ORGANIZZAZIONE riguarda lo studio di gruppi e organizzazione nel suo insieme e si
pone come scopo principale quello di generare e guidare il cambiamento organizzativo.
Questa tripartizione ha un carattere prevalentemente didattico, in quanto nella ricerca e nell'intervento molto
spesso è difficile distinguere in modo chiaro in quale dei tre sottoambiti si stia operando.

3. CENNI STORICI

3.1 Agli albori


Le origini della psicologia del lavoro (o della psicologia applicata al comportamento organizzato) hanno le
proprie radici nella scuola di Wundt, dove si sono formate due figure che avranno un ruolo importante
nell'avviare la ricerca psicologica su problematiche relative al lavoro e all'organizzazione.
Hugo Munsterberg (1863-1916): si trasferì dalla Germania negli Stati Uniti per dirigere i laboratori di psicologia
ad Harvard, dove si dedicò allo studio della psicofisiologia del lavoro umano, delle abilità dei lavoratori e del
rapporto tra abilità, performance ed efficienza produttiva. Fu il primo a coniare l'espressione psicologia
industriale (1912) e a promuovere la disciplina al di fuori dei laboratori, come strumento per lo sviluppo
economico del paese. Fece ricorso per la prima volta alla «psicotecnica» in ambito industriale (disciplina che
si propone di applicare a diversi contesti della vita sociale le conoscenze psicologiche). Fu, inoltre, il precursore
delle moderne tecniche di selezione del personale, attraverso le sue attività di “accertamento dei requisiti
psicofisici al lavoro” per l'accesso a una occupazione.
James McKeen Cattell (1860-1944): egli sviluppò i suoi interessi sulle differenze individuali come determinanti
del comportamento umano. Creò i primi protocolli per la misurazione delle capacità e abilità individuali (test
mentali) e fondò la Psychological Corporation, società per la commercializzazione dei
test mentali, ponendosi come intermediario tra l'attività di ricerca scientifica e il mondo della consulenza
psicologica.
Grazie a questi contributi, nel primo ventennio del secolo scorso, furono poste le basi per lo sviluppo della
ricerca psicologica in campo industriale, militare e dei servizi. Si aprirono così nuovi scenari di utilizzo delle
conoscenze psicologiche e si sviluppò una più intensa interazione tra accademia e sistema economico.

3.2 La guerra e la razionalizzazione della produzione


Una delle prime applicazioni della psicologia alle questioni organizzative su ampia scala è costituita dalla
costruzione e somministrazione di test psicoattitudinali per la selezione e la formazione delle truppe militari
americane da inviare a combattere durante la prima guerra mondiale. A partire dall’adattamento del test di
intelligenza Stanford-Binet furono creati l'Army Alpha test e l'Army Beta test. Al termine del conflitto poi, la
stessa logica di selezione basata sulle abilità mentali fu adottata anche nell’ambito industriale per la selezione
dei lavoratori.
In realtà già alla fine del secolo precedente, Frederick Winslow Taylor, un ingegnere, mise in pratica numerose
soluzioni organizzative anticipando il lavoro di molti psicologi. Taylor è considerato il padre dello Scientific
Management: l'ingegnere ha condotto una serie di esperienze per comprendere come meglio organizzare il
lavoro umano secondo una logica puramente economica di risparmio energetico e di tempi. Un modello che
mira a semplificare i compiti, a ridurre i tempi di esecuzione, a motivare le persone in base al principio
esclusivamente estrinseco del premio di produzione. Si tratta di un modello che ha un’impostazione
«prepsicologica», nel senso che ha visione della psicologia dell'essere umano semplicistica e basata su nozioni
di senso comune e non su uno studio scientifico.
Le critiche al modello tayloristico sono arrivate dal movimento dei lavoratori e dai sindacati statunitensi, che
denunciavano l'aumento dei ritmi di lavoro, lo sfruttamento basato sul sistema premiale che forzava i

5
lavoratori alla massima produttività, i rischi legati alla sicurezza. Questi limiti ebbero risonanza in Europa dove
il taylorismo stentò a diffondersi, mentre venne adottato in Unione Sovietica.

3.3. Alla scoperta del significato psicologico del lavoro umano


Modelli organizzativi come quello taylorista e fordista hanno avuto grossi costi psicologici che gli individui che
facevano parte della catena di montaggio erano costretti a pagare:
- mancanza di significato di un compito estremamente parcellizzato,
- ripetitività di movimenti;
- ritmi regolati dal funzionamento impersonale della macchina;
- tempi forzati dalle esigenze del cottimo;
- mancanza di autonomia esecutiva;
- struttura gerarchica fortemente autoritaria;
- riduzione della rete di relazioni cooperative all'interno del luogo di lavoro.
Queste conseguenze sono state oggetto non solo di lotte operaie, ma anche di critiche della comunità
scientifica. Un primo contributo è riconosciuto alle ricerche di Elton George Mayo (1880-1949). Il suo obiettivo
era quello di individuare alcune condizioni di lavoro che potessero accrescere la produzione (orari, pause)
all’interno di una grande industria americana. Capì che vi erano alcuni aspetti sociali del lavoro da cui
dipendeva la qualità e quantità di pezzi prodotti. Mayo è conosciuto come il fondatore del movimento delle
relazioni umane, grazie al quale gli atteggiamenti, i desideri e le emozioni dei lavoratori si sono posti al centro
della ricerca e dell'intervento psicologico nei luoghi di lavoro.
L’importanza verso la valenza psicologica del lavoro umano continuò anche nell'immediato secondo
dopoguerra ad opera del Tavistock Institute of Human Relations di Londra, il quale portò avanti una serie di
ricerche e di interventi che condussero allo sviluppo di un modello di analisi Sociotecnica delle organizzazioni
di lavoro. Secondo questo modello l'organizzazione del lavoro umano deve essere esaminata come un
elemento che interagisce in modo costante con gli altri fattori produttivi, in particolare con il sistema tecnico.
Allo stesso modo, la progettazione e l’uso delle tecnologie richiedono un'attenzione particolare al «fattore
umano». L’obiettivo è trovare un equilibrio tra esigenze produttive, apparato tecnologico e caratteristiche dei
lavoratori.

3.4 La psicotecnica in Italia


Agli inizi del secolo scorso, anche in Italia vi è stata la diffusione della psicotecnica applicata a diversi ambiti di
intervento: scuola, industria, esercito. Già nel 1917 furono condotte selezioni per l’esercito basate sulle
attitudini dei piloti dell'aviazione.
Il decennio tra il 1920 e il 1930 fu caratterizzato da una convergenza tra i metodi della psicotecnica e
l'instaurarsi del regime fascista. Il programma di riforme sociali avviato in quegli anni produsse un terreno
molto fertile per le applicazioni psicologiche nello sviluppo della prima industrializzazione, soprattutto nel nord
del paese. La Carta del lavoro, promulgata nel 1927, indicava l'esigenza di una formazione tecnica per i
lavoratori e puntava a una maggiore efficienza dei sistemi produttivi; trovarono applicazione i modelli di
organizzazione aziendale del taylorismo e fordismo, sostenuti da Mussolini.
Gli anni del ventennio (1920-40) furono decisivi per il riconoscimento istituzionale della psicologia e della
psicotecnica come strumenti di sviluppo sociale. Nelle università e negli enti di ricerca si istituirono centri
di studio e consulenza; numerose furono le applicazioni in contesti istituzionali (settore pubblico, esercito,
scuola). L’attività di ricerca applicata si estendeva in varie direzioni: selezione del personale, studio dei ritmi di
lavoro, orientamento professionale, studio sugli effetti psicologici della disoccupazione, analisi degli infortuni.
Tuttavia, la promozione dei metodi della psicotecnica anche nel mondo industriale privato diede risultati
piuttosto modesti: la psicotecnica veniva considerata come un tentativo di controllo e di razionalizzazione della
vita produttiva e della società, mentre i tentativi di pianificazione produttiva e l’uso di tecniche nei processi di
selezione del personale furono percepiti come un’intromissione negli affari aziendali degli imprenditori.

6
3.5 L'esperienza del Centro di psicologia dell'Olivetti
Nel 1943 Adriano Olivetti chiese a Cesare Musatti, professore di Psicologia sperimentale di Padova
(riconosciuto padre della psicoanalisi italiana), di progettare un centro di psicologia innovativo nella sua
fabbrica. In essa, la presenza degli psicologi doveva contribuire a migliorare sia l'organizzazione e la gestione
aziendale, sia le condizioni del lavoro nelle fabbriche, dando voce agli operai stessi e alle loro esigenze.
Il centro, inizialmente chiamato Laboratorio di psicotecnica, viene annesso all'Ufficio di selezione del
personale e solo dal 1959 diviene formalmente «Centro di psicologia», come struttura autonoma. Il centro si
caratterizza per una metodologia che integra l'approccio clinico, l'osservazione e l'indagine quali-quantitativa.
Musatti aveva analizzato i tempi e i metodi di lavorazione, dimostrando empiricamente la loro astrattezza e
incoerenza rispetto ai parametri fisiologici e psicologici della condotta del lavoratore, convincendo così gli
ingegneri sull'opportunità di modificare i criteri dei cottimi aziendali. Molto famoso poi è l'intervento sul lavoro
di montaggio: a quel tempo era stata introdotta la linea di montaggio in movimento (detta transfer), in cui la
macchina da scrivere che si stava assemblando passava velocemente davanti all'operaio. Ciò causava
insoddisfazione e ansia nelle prestazioni dei lavoratori, perciò si puntò a ritornare alla linea tradizionale, più
lenta ma meno dannosa per gli operai. Rispetto alla psicologia dell'organizzazione è importante
l’insaturazione delle UMI (Unità di montaggio integrate): Si trattava di piccoli gruppi di lavoro (da 10 a 30
persone) che operavano in modo autonomo in una specifica area dello stabilimento, assumendosi la
responsabilità dell'assemblaggio, del collaudo e della diagnosi di eventuali difetti. I tempi lavorativi erano
concordati all'interno del gruppo, come pure le modalità di rotazione da parte di tutti nei diversi posti.
L’apporto della psicologia delle risorse umane nel campo della selezione del personale riguarda l'introduzione
sistematica dei colloqui psicologici, mirati a conoscere le persone, i loro atteggiamenti e aspettative. Un merito
importante di questa disciplina risiede anche nel Centro di riqualificazione operai che mirava al welfare
aziendale: lavoratori con problemi e disagi psicologici o che avevano subito gravi malattie o invalidità non
venivano demansionati ma erano seguiti personalmente con forme di counselling e programmi di
riammissione.

7
CAPITOLO 2 - LAVORARE OGGI: ESIGENZA DI UN NUOVO CONTRATTO PSICOLOGICO

1. NUOVI SCENARI PER IL LAVORO


A partire dai primi anni Ottanta la rivoluzione delle tecnologie informatiche e la globalizzazione dell'economia
hanno dato il via a una serie impressionante di cambiamenti nel mondo del lavoro così come nelle altre sfere
di vita e in numerosi ambiti della società civile.

1.1. Persistenti trasformazioni


Gran parte dei cambiamenti che ancora oggi si osservano sono stati ispirati dai principi della «lean-
production»:
 definire il valore di servizi e prodotti dal punto di vista del cliente;
 identificare attività e processi che aggiungono valore per il cliente e individuarne i legami (la cosiddetta
catena del valore);
 eliminare le attività che non producono valore aggiunto cercando di ottenere una produzione just-in-time,
con zero difetti e secondo un'ottica di miglioramento continuo;
 ridurre gli sprechi e le inefficienze nelle funzioni di sostegno (es. gestione delle risorse umane) rispetto a
quelle primarie della produzione di beni e servizi.

Ciò ha portato a importanti modifiche degli scenari lavorativi riguardanti:


L'organizzazione interna delle imprese si accenna a mutamenti come: la riduzione delle tradizionali
strutture gerarchiche a molti strati e la diffusione dei centri decisionali; la diffusione del teamwork come
strumento per un lavoro più efficace e migliorativo dei processi lavorativi; l'utilizzo diffuso delle tecnologie per
automatizzare la produzione e la progettazione. Queste e altre iniziative sono implementate nei progetti di
costruzione di «Fabbriche Intelligenti», chiamate anche «Industrie 4.0», che usano grandi basi di dati e
tecnologie digitali avanzate nei processi produttivi per produrre beni personalizzati, più velocemente e con
meno sprechi.

Il modo delle imprese di competere sui mercati concerne la persistente competizione tra le aziende che è
stata accolta come nuova strategia di sviluppo.
La competizione è stata considerata come bene necessario; si è spesso focalizzata sul possesso di alti livelli di
competenze e professionalità, sui vantaggi della lean production e su un'ampia deregolazione delle modalità
di ingresso e uscita dal mercato del lavoro.
Ne sono conseguite ristrutturazioni aziendali profonde, con ridimensionamenti, tagli di reparti e di livelli
gerarchici, fusioni ecc. che hanno permesso alle aziende di essere più forti ma flessibili e, di conseguenza,
competitive.

1.2. Alcuni tratti distintivi della forza lavoro


Anche dal lato delle persone vi sono cambiamenti di cui tener conto per una migliore comprensione della loro
esperienza lavorativa.
Età uno degli aspetti che connota la composizione della forza lavoro deriva dal fenomeno della «transizione
demografica» che consiste nell'innalzamento della speranza di vita nella popolazione dei paesi sviluppati. Ciò
comporta un «vuoto demografico» nella parte giovanile della forza lavoro. L'indice demografico denominato
Projected Old Age Dependency Ratio (POADR) è costituito dal rapporto tra persone con oltre 65 anni
(solitamente ritirate dal lavoro) e persone in età da lavoro (tra i 15 ei 64 anni).
Mentre oggi vi sono 4 potenziali lavoratori che «sostengono» una persona in pensione, nel 2060 ve ne saranno
poco meno di 2.
Generazioni si distinguono in dimensioni quantitative diverse, almeno 4 generazioni di lavoratori:
- un piccolo numero di tradizionalisti (nati fino al 1944 che in genere ricoprono posizioni imprenditoriali, di
elevata consulenza o nella magistratura)
- i baby boomers (nati tra il 1945 e il 1964, in larga parte in corso di pensionamento)
- la generazione X (nati tra il 1965 e il 1979)
- la generazione Y o millennials (nati tra il 1980 e il 1999).

8
Conflitto intergenerazionale: imputabile alle differenze tra generazioni negli atteggiamenti verso il lavoro,
negli stili di vita, nel coinvolgimento organizzativo, negli stili comunicativi, nelle priorità e nel grado di
immediatezza degli scopi da raggiungere.

Genere Il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Europa resta più basso di quello
maschile (63% vs 75% nella fascia tra 20 e 64 anni) ed è assai disomogeneo nei vari paesi.
Esso sta sensibilmente crescendo negli ultimi anni, nonostante i persistenti ostacoli allo sviluppo di carriera, le
ingiustificate differenze di trattamento salariale e la carenza dei servizi per la prima infanzia o per gli anziani
invalidi che spesso costringono le lavoratrici a interrompere i loro percorsi professionali, con successive
difficoltà di rientro.
Immigrati Dagli anni Novanta l'afflusso di emigranti risulta in costante crescita e, nonostante i vari tipi di
limitazioni poste dalla politica, la loro presenza sul lavoro risulta notevole.
Gli ambiti di inserimento tipici sono l'agricoltura, l'edilizia, il piccolo commercio con prevalenza di occupazioni
manuali faticose, a bassa attrattività, spesso pericolose e al limite della regolarità contrattuale.
L'immissione in uno stesso contesto organizzativo di differenti culture e modi di pensare comporta differenze
visibili tra gruppi minoritari e di maggioranza, è necessario perciò arginare possibili conflitti prestando
attenzione al modo con cui sviluppano relazioni intergruppi e ai potenziali effetti di categorizzazione sociale
(favoritismi in-group e discriminazioni out-group).

2. SFIDE DA AFFRONTARE

E’ importante capire quanto il cambiamento dei contesti e dei lavoratori:

a) possa rappresentare, per le persone che si stanno avvicinando al lavoro o che stanno già lavorando, una
sfida o un vincolo per le loro esperienze e progetti di vita;
b) possa divenire un tema saliente da approfondire in ambito psicologico, sia per comprendere il significato
personale e sociale dell'esperienza di lavorare sia per contribuire a realizzare contesti di lavoro
psicologicamente sostenibili.

2.1. Deregolazione del lavoro e flessibilità

Le strategie perseguite dai datori di lavoro hanno creato mercati del lavoro segmentati e con differenti livelli
di protezione sociale, senza creare un buon numero di lavori aggiuntivi per contrastare i rischi di
disoccupazione e per ridurre il lavoro irregolare (lavoro nero, pratiche di caporalato ecc.). In realtà la
deregolamentazione del lavoro che man mano si è venuta a creare ha solo aumentato la probabilità di lavori
temporanei precari, rafforzando la segmentazione tra lavoratori forti (insider), in posizione centrale nei
processi produttivi e con possibilità di carriera e lavoratori vulnerabili (outsider), meno pagati e con più ridotte
opportunità di sviluppo.

La flessibilità sembra essere il tratto distintivo dei contesti di lavoro moderni, possiede la connotazione
aggiuntiva di precarietà, lasciando sempre più incerto il ruolo della forza lavoro. Ora il lavoro non risulta più
un processo sicuro, prevedibile e regolamentato. Tale incertezza riguarda non solo l'accesso a un posto di
lavoro, ma i margini di manovra del lavoratore nel delineare il suo percorso di carriera. I nuovi lavori appaiono
deregolati in quanto non richiedono una stabilità di spazio e tempo e procedure standard, ma implicano la
flessibilità del lavoratore, che può autoregolarsi stabilendo il quando, il dove, il come lavorar, assumendosi
però la responsabilità del risultato che otterrà.

La flessibilità ha messo in evidenza varie dimensioni che la caratterizzano e che spesso assumono connotazioni
negative per le persone. La ricerca psicosociale sulla flessibilità ha mostrato che è come trovarsi di fronte a
un'etichetta categoriale che riguarda una classe di oggetti sociali differenti. In termini analitici possiamo
delineare:

 una flessibilità fisico-geografica, che riguarda la variabilità del dove si lavora;

9
 una flessibilità temporale, che riguarda quando si lavora e con quali norme temporali;
 una flessibilità tecnologica, che riguarda la ripartizione ottimale dei compiti tra uomo e macchina);
 una flessibilità contrattuale, come ad esempio le forme e i rapporti di lavoro atipici;
 una flessibilità funzionale, ovvero quali forme di divisione e organizzazione del lavoro e quali abilità per il
lavoratore;
 una flessibilità spazio-temporale, che riguarda soprattutto la variabilità relazionale nei team e nelle
organizzazioni virtuali e le forme di lavoro a distanza fondate sulle nuove tecnologie di comunicazione
elettronica.

Queste varie flessibilità rappresentano la crescente complessità della domanda lavorativa. Inoltre,
determinano effetti diretti sugli atteggiamenti (es. l'abbassamento della soddisfazione lavorativa) e indiretti e
negativi, sulle condotte di impegno e coinvolgimento, sulla riuscita nella prestazione, sulla vulnerabilità allo
stress, sullo stato di salute e sul benessere.

2.2. Ambivalenza della diversità tra i lavoratori

I cambiamenti socioanagrafici dei lavoratori comportano una grande eterogeneità e diversità all’interno della
forza lavoro, di conseguenza l’attenzione si sposta sugli effetti subiti dal contesto organizzativo e dalle persone
che si trovano ad interagire anche con colleghi molto dissimili da loro per atteggiamenti, valori o stili di vita.
La diversità sul lavoro si caratterizza come insieme di differenze visibili (o meno visibili direttamente) imputabili
all'età, al genere, all'appartenenza etnica, allo status socioeconomico, al livello culturale e di istruzione, alla
provenienza geografica ecc. Tali differenze diventano salienti quando si vuole creare un contesto di convivenza
nel quale ciascun lavoratore e i propri contributi vengano apprezzati.

Si potrebbero valorizzare le diversità tra i lavoratori come fonte di vantaggi organizzativi: ad esempio con la
disponibilità di un più ampio patrimonio di conoscenze e competenze, di prospettive di pensiero e punti di
vista innovativi, la presenza di più modalità di risposta adattabili alle esigenze dei clienti.
In realtà, la gestione delle diversità risulta un compito complesso per i diversity managers. Infatti, ai vantaggi
si contrappongono: disaccordi interpersonali, conflitti tra gruppi, discriminazioni latenti presenti nei vari
processi di gestione del personale (assunzione, formazione, sviluppo di carriera), abbassamento delle
prestazioni, maggiori livelli di stress. Si può dire che sarebbero necessari alcuni fattori per dare un esito
favorevole alla diversità interna:

 una strategia organizzativa orientata allo sviluppo e alle esigenze dei consumatori;
 gestione delle risorse umane che valori le differenze, prevenendo vari pregiudizi reciproci;
 un clima focalizzato sulla cooperazione;
 una leadership aperta e facilitante la partecipazione;
 caratteristiche individuali come l'apertura mentale, l'estroversione e la self efficacy.

Per quanto riguarda la diversità connessa con l'età, si è dimostrato che un ruolo importante di riduzione degli
effetti negativi è collegato a fattori come:

- la varietà delle età, in quanto una equilibrata distribuzione delle età riduce il rischio di pregiudizi;
- il grado di polarizzazione delle età, se i gruppi di età non sono troppo estremizzati e separati tra loro (es.
giovani vs anziani) si riducono i rischi di discriminazione.

Infine, hanno un notevole peso:

- le dimensioni aziendali, poiché nelle grandi aziende è più probabile un'armonica distribuzione delle età;
- la stabilità del posto di lavoro, poiché da parte dei lavoratori è vista come un beneficio, che essi ricambiano
valorizzando le logiche di cooperazione tra tutti i gruppi.

10
2.3. Sicurezza e qualità del lavoro: una meta da raggiungere

Numerose ricerche hanno evidenziato preoccupazione e critiche per l'intensificazione del lavoro e le sue
condizioni di pericolosità (ad esempio nell'edilizia, in agricoltura) e per l'aumento di stress, come conseguenza
dei modi di lavorare e delle forme contrattuali che li regolano.

Sia i fenomeni di segmentazione sia l’influenza del mercato sul lavoro portano alla distinzione tra good e bad
jobs (questi ultimi riservati a persone più socialmente vulnerabili o con scarse alternative di scelta) e
all’accentuazione delle diseguaglianze nell'accesso a un lavoro soddisfacente. Nel 2008 l'International Labour
Office ha avviato discussione sul decent work, dichiarando che è limitato dare una definizione di lavoro
dignitoso basandosi solo su parametri macro come tasso di disoccupazione, lavoro minorile, discriminazioni
di vario tipo. Si dovrebbe, invece, tenere conto anche di indicatori della qualità della vita lavorativa, delle
istanze di equità e giustizia sociale e del carattere emancipatorio del lavoro soprattutto per coloro che partono
da condizioni di svantaggio sociale. È altresì fondamentale dare valore al punto di vista del lavoratore e alla
sua esperienza soggettiva implicata nell'attività lavorativa, per quanto riguarda aspettative, desideri e
motivazioni che possiede, ma anche gli effetti esercitati sul benessere, sulla salute e sulle chances di
integrazione sociale. Anche per quelle professioni un tempo considerate sicure e prestigiose, la ricerca ha
confermato gli effetti deleteri dovuti a fenomeni come precarietà lavorativa e calo dei redditi.

La ricerca ha poi sottolineato l'importanza della significatività del lavoro per la persona. Il lavoro è dignitoso
quanto più è significativo per la persona (ovvero coerente con i suoi valori, interessi, atteggiamenti e capacità)
e può svolgere le sue funzioni primarie di sostentamento, sviluppo di connessioni sociali e mezzo di
autodeterminazione. Quando ciò non si realizza, le aspettative del lavoratore di trovare benefici nel suo lavoro
calano, per cui non sente che valga la pena di coinvolgersi. Purtroppo se da un lato l’azienda chiede al
lavoratore coinvolgimento, partecipazione e maggiori carichi di impegno, dall'altro lato le aziende hanno
diminuito la stabilità del posto di lavoro, i percorsi di carriera lineari e i tradizionali benefits. I risultati finali,
quindi, risultano troppo spesso sfavorevoli per il lavoratore; a ciò si aggiungono l'instabilità delle posizioni
lavorative e il senso di isolamento e di scarso sostegno sociale nel lavoro quotidiano, accentuando la
percezione di bassa qualità del lavoro.

2.4. La crisi della rappresentanza dei lavoratori


I sindacati tradizionalmente svolgono la triplice funzione di:

 bilanciare le diseguaglianze di potere tra lavoratori e datori di lavoro nella contrattazione dei salari e delle
condizioni di lavoro;
 “dar voce” alle preoccupazioni dei lavoratori rispetto alle esigenze di equità nei trattamenti, alla
correttezza delle procedure lavorative, alla tutela di fronte a varie forme di sfruttamento della
manodopera o ai rischi di perdita del lavoro;
 regolare il conflitto sociale affinché non assuma modalità distruttive, in occasione delle frequenti
ristrutturazioni o chiusure aziendali.

Tali funzioni hanno avuto un notevole ruolo nel miglioramento della qualità del lavorare e dei contesti di
lavoro. Per svolgere queste funzioni con efficacia, è necessario che i sindacati agiscano come forme di reale
aggregazione sociale che abbiano lo scopo di offrire ai lavoratori il riconoscimento di tutti i benefici sopra
descritti. I cambiamenti del lavoro e del mercato occupazionale incidono sui sindacati, tant’è che vi è stato un
declino quantitativo della sindacalizzazione in gran parte dei paesi industrializzati. Tra i cambiamenti
responsabili, distinguiamo: le diverse forme di deregolazione del mercato del lavoro, la riduzione dei lavori di
tipo operaio e la diffusione dei lavori flessibili, la crescita di quelli autonomi e di natura professionale, che
rendono meno forte l'esigenza di un'appartenenza sindacale. È importante sottolineare anche la distanza del
sindacato rispetto i nuovi temi di preoccupazione sociale come: la conciliazione dei tempi di lavoro, l'equità e

11
le differenze di genere, il decent work, la piena utilizzazione delle competenze dei lavoratori laureati,
l'aggressività sul lavoro e il mobbing ecc.

La composizione demografica della forza lavoro influisce sui modi con cui le organizzazioni sindacali difendono
i legittimi interessi dei lavoratori, privilegiando gli adulti rispetto ai giovani in cerca di occupazione. Gioca anche
una ridotta sensibilità di queste organizzazioni nel considerare i bisogni delle nuove categorie di lavoratori
(donne, precari, immigrati).

3. DOMANDE E RISORSE LAVORATIVE


Con i presupposti analizzati nel capitolo precedente, è normale percepire la complessità della situazione che
si trova di fronte a un lavoratore o a una persona che vuole diventarlo.

Il Job Demands-Job Resources Model organizza una serie di proprietà delle condizioni di lavoro all'interno di
due ampie categorie:

1. le domande al lavoratore che implicano l'impegno di energie fisiche e mentali (ad esempio, complessità e
pesantezza dei compiti, scadenze temporali, eccessivi carichi di lavoro fisico e mentale, micro conflitti,
insicurezza e minaccia di perdita del lavoro ecc.);
2. le risorse per il lavoratore che il contesto offre in misura più o meno adeguata e che sono funzionali al
migliore svolgimento del suo lavoro, alla riduzione dei costi fisiologici e psicologici delle domande e alla
sua crescita professionale

Tutte le domande esigono risposte in termini di prestazione lavorativa e richiedono un impegno da parte della
persona. Alcune possono essere percepite con una connotazione negativa (essere viste come ostacoli attuali
o per la crescita futura), altre invece positiva (essere considerate sfidanti, motivanti la persona e stimolanti
l'apprendimento e la sua riuscita professionale).

3.1. Domande cognitive


I lavori odierni comportano una pianificazione sempre meno rigida e più capace di adattarsi ai cambiamenti;
si definiscono rispetto a quanta possibilità di azione e di decisione permettono all'individuo, anche nella
formulazione degli stessi obiettivi e nei modi per raggiungerli.
Oltre alle capacità di resistenza psicofisica e di saper seguire regole come nei lavori tradizionali, si richiedono
crescenti abilità intellettuali di diagnosi, proposta di ipotesi di soluzione anche creative e presa di decisione.
In questo caso il lavoratore avrà enormi margini di controllo autonomo della situazione, al punto tale che
può risultare sovraccaricato dagli stimoli ambientali e dal compito di autoregolazione delle sue azioni ma può
anche sperimentare effetti positivi: confrontarsi con compiti complessi può stimolare lo sviluppo di nuovi
apprendimenti, la ricerca di nuove strategie per risolvere i problemi quotidiani, la riflessione sul proprio
modo di operare e sulle conoscenze acquisite.

3.2. Domande sociali

Poiché molto del lavoro richiesto (e degli apprendimenti necessari) si basa su scambi informali, su relazioni
interpersonali e sulla partecipazione a network sociali, la nuova domanda lavorativa implica lo scambio e la
condivisione sistematica di informazioni. Si sviluppa un apprendimento contestuale che ha basi relazionali e
che può influenzare positivamente gli atteggiamenti e i modi con cui le persone di un certo gruppo o comunità
lavorativa partecipano al loro lavoro: non si tratta più di aderire a un comando gerarchico, ma implica il
coinvolgimento in questa rete di relazioni sociali. La crescita della domanda sociale può diventare un compito
costoso per il lavoratore che deve continuamente far fronte al peso di interazioni con gli altri spesso connotate
dalla competizione, da divergenze, microconflittualità e persino condotte contro-produttive. Tuttavia queste
richieste relazionali possono essere percepite come occasioni sfidanti da parte del lavoratore per potenziare
le proprie competenze. Il carattere delle domande sociali deriva da due fattori:

12
1. la dimensione cooperativa richiesta da molti lavori (si pensi alla diffusione del teamwork, dei gruppi di
lavoro temporanei, dei gruppi di progetto, dei gruppi virtuali ecc.); la collaborazione e cooperazione sono
progettate come necessarie, ma non facili da perseguire nei contesti lavorativi odierni.
2. Esse dipendono in gran parte dalla responsabilità del lavoratore, dalla sua capacità di integrarsi nella rete
sociale e di mantenere un adeguato livello di fiducia reciproca che faciliti il lavoro collettivo.

In questo caso il lavoratore vive un doppio ruolo: come dipendente rappresentante dell'azienda; ma anche
come lavoratore percepito come indipendente al quale il consumatore dovrebbe potersi rivolgere con fiducia
per essere aiutato. Per tale situazione si è posta l’enfasi sulle nozioni di intelligenza e competenza sociale per
gestire meglio le relazioni lavorative. Con il primo termine ci si riferisce alla sensibilità nei confronti degli altri,
all'ascolto attivo, alla comprensione di pensieri, sentimenti e intenzioni dell'altro, mentre con il secondo si
sottolineano le capacità di azione verso l'altro (saper lavorare in gruppo, comunicare con efficacia).

3.3. Risorse nel contesto di lavoro

Tra le risorse del contesto alcune attengono alle caratteristiche fisiche dell'ambiente lavorativo (ad esempio,
alla disponibilità di spazi e mezzi efficienti per svolgere l'attività con il minor numero di difficoltà) o alla
strutturazione del lavoro (progettazione accurata dei compiti, varietà delle attività da svolgere, clima sociale
poco conflittuale). Altre si riferiscono ad importanti valori assegnati all'attività lavorativa come la solidarietà
tra lavoratori, il sostegno sociale, la giustizia e l'equità dei trattamenti, l'utilità, la correttezza e la responsabilità
sociale. Altre, infine, si riferiscono al modo in cui il lavoro viene organizzato e al modo in cui sono gestite le
persone, poiché questi fattori hanno un'influenza:

- nel rendere le domande più o meno complesse, più o meno difficili o sfidanti;
- nel modulare le risorse in modo che possano essere più accessibili o meglio utilizzate per lo svolgimento
delle attività;
- nell'attuare monitoraggi accurati sul livello di complessità delle domande;
- nel fornire adeguati feedback sul lavoro svolto;
- nello svolgere una supervisione supportiva con più efficaci sostegni motivazionali.

In particolare, i manager possono contribuire a un migliore equilibrio, intervenendo sulla natura e il livello
delle domande e delle risorse contestuali. Nel caso di domande eccessive (o percepite solo come ostacoli) essi
possono intervenire mediante varie azioni (es. riconsiderando la progettazione dei compiti, adeguando la
strumentazione, alleggerendo le scadenze ecc.). Nel caso non si possa intervenire sulla natura del lavoro e i
suoi rischi di sovraccarico, potrebbero essere fornite risorse supplementari (acquisizione di nuove
competenze), possono essere variati i compiti e migliorati i riconoscimenti e i premi per l'attività svolta,
sottolineando le opportunità di crescita futura, così da far percepire la situazione attuale secondo una
prospettiva positiva.

4. RISORSE PERSONALI PER FAR FRONTE ALLE DOMANDE


Il fatto che domande e risorse acquistino un peso effettivo variabile (nella misura in cui vengono percepite
come ostacoli o sfide incentivanti lo sviluppo e come sufficienti o insufficienti) mette in luce il ruolo della
persona che interagisce con il contesto e ne valuta qualità e limiti.
è importante sottolineare i suoi punti di forza ovvero le risorse personali disponibili che contribuiscono
anche a differenziare percezioni, giudizi e condotte rispetto al contesto di lavoro. Le risorse personali sono
definite come caratteristiche psicologiche o aspetti di sé, generalmente associati con la resilienza e che
riguardano l'abilità di controllare e influenzare l'ambiente con successo. Numerose evidenze di ricerca
confermano che queste risorse possono avere un effetto diretto sul benessere lavorativo, oppure un effetto
di moderazione o di mediazione (operare in un contesto con caratteristiche adeguate potenzia risorse
personali come ottimismo e self-confidence che a loro volta mediano gli esiti finali positivi per la persona).

13
Inoltre le risorse personali svolgono un ruolo importante su come viene percepito l'ambiente e su come di
conseguenza si reagisce a esso.

4.1. Significati e valori del lavoro

I valori e i significati del lavoro rappresentano risorse personali che operano come schemi di riferimento
comparativo utili per orientare e guidare le proprie scelte, capire meglio la propria esperienza lavorativa e
valutare quanto essa sia coerente con le proprie credenze e aspettative. La ricerca sui significati del lavoro ha
da tempo sottolineato che il “lavorare” non è solamente una condotta di scambio orientata al reddito, ma un
processo che è modulato dal valore attribuito al lavoro in generale, come fonte e stimolo:

 per essere e sentirsi competenti nel fare e nel progettare qualcosa di Importante per la propria vita con
riferimento a sé e agli altri;
 per definire aspetti importanti della propria identità personale e sociale;
 per costruire relazioni soddisfacenti con gli altri e integrarsi nel Proprio contesto lavorativo;
 per cercare di ottenere riconoscimenti per il proprio valore espresso Nelle azioni e nelle interazioni;
 per legittimare la propria posizione sociale attuale e le proprie aspettative di crescita socioprofessionale.

Dunque, il divenire lavoratore, comporta sì un processo di apprendimento di conoscenze e competenze


tecnico-pratiche (che sono una risorsa oggettiva per rispondere alle domande del compito) ma riguarda anche
dimensioni soggettive profonde come valori, motivazioni, sentimenti ed emozioni, desideri e intenzioni,
atteggiamenti, immagini di se stessi. Sono intese come risorse che possono determinare differenti forme di
coinvolgimento nell’interazione tra persona e contesto lavorativo. I momenti tipici per la costruzione di tali
risorse sono definiti socializzazione al lavoro (prima dell’ingresso lavorativo) e socializzazione organizzativa
(quando si è già inseriti in un contesto di lavoro).

Attualmente, purtroppo, si sta verificando uno sgretolamento dei significati del lavoro, che va di pari passo
con la crescita tra i lavoratori della sfiducia, del risentimento e di una concezione prevalentemente strumentale
del lavoro. Ciò deriva dalla delusione per non poter trovare un lavoro significativo corrispondente ai propri
valori o, in molti casi, dalle diseguali opportunità di accesso al lavoro dovute a condizioni di svantaggio
socioeconomico, culturale ed educativo.

4.2. Proattività

Secondo Ashforth il compito di autoregolazione della propria storia lavorativa da parte della persona non è
semplice poiché i suoi bisogni e motivazioni potrebbero spingerla a interiorizzare troppo velocemente il punto
di vista e le richieste dell’organizzazione. Parlando di bisogni, ci si riferisce ai:

- bisogni legati al Sé (chi sono io in quanto lavoratore?);


- dei bisogni di significato (come interpretare le domande lavorative, individuarne scopi coerenti con le
attese);
- dei bisogni di controllo, di padronanza e influenza sulla situazione (che margini di manovra ho sul lavoro?);
- bisogni di appartenenza al gruppo e di riconoscimento da parte della comunità lavorativa («come posso
essere accettato e valutato bene per quello che sono e faccio?).

Si è osservato infatti che: più la persona riesce a mantenersi attiva fin dall’ingresso nel lavoro più il suo
inserimento e adattamento risultano positivi. Affinché questo processo di interazione e influenza reciproca tra
persona e contesto lavorativo si svolga in modo soddisfacente è necessario che la persona possieda un
adeguato set di risorse psicosociali, fra le quali la proattività. Il ruolo attivo della persona è divenuto centrale
anche in relazione ai forti cambiamenti dei contesti organizzativi e delle variabili modalità di inserimento

14
occupazionale. Le ricerche empiriche sulla proactivity del lavoratore hanno messo in risalto numerose
sfaccettature di questo costrutto:

1. Alcuni studi sottolineano le strategie comportamentali che permettono di rilevare l’intenzione del
soggetto di intervenire attivamente nel percorso di inserimento, cercando di impegnarsi per migliorare la
carriera (ad esempio, mediante la consultazione dei superiori, lo Sviluppo di nuove capacità e conoscenze,
la creazione di una rete di contatti sociali).
2. Altri evidenziano i processi di negoziazione tra individuo e contesto organizzativo grazie ai quali le persone
possono tentare di ridefinire i propri compiti e ruoli organizzativi, in modo che siano congruenti con le
proprie aspettative.
3. Sono poi considerati i processi cognitivi per attribuire un senso alla realtà allo scopo di ottenere un
maggiore controllo nel modo di strutturare la situazione. Si prendono in esame le aspettative del
lavoratore che possono essere più o meno adeguate rispetto alla realtà che si incontra, generando
esperienze di congruenza cognitiva oppure di contrasto/sorpresa. Tali esperienze possono, a loro volta,
costituire elemento di facilitazione o di ostacolo dell’intero processo di inserimento lavorativo.
4. Quanto più il lavoratore che entra, o sta già operando in un dato contesto lavorativo, si impegna nel
raccogliere informazioni (per regolare il proprio stile di azione, per comprendere atteggiamenti e valori
dell’organizzazione, per ridefinire il proprio ruolo e per raggiungere un grado accettabile di integrazione
del gruppo di lavoro) e per confrontarsi con gli altri e ottenere un feedback sull’appropriatezza delle
proprie condotte e atteggiamenti, tanto più risulterebbe facilitato nel suo inserimento nel nuovo contesto.
5. La Condotta proattiva è stata definita da Crant come il «prendere Iniziativa nel migliorare le circostanze
attuali o nel crearne delle nuove; esso implica rimettere in discussione lo status quo, piuttosto che
adattarsi passivamente alle condizioni presenti» [

In generale, la proattività si riferisce a un insieme di risorse personali acquisite con l’esperienza sin dal periodo
scolastico e formativo. Esse sono funzionali a: capire cosa ci si attende da parte dell’organizzazione e cosa si
desidera personalmente dal lavoro; a negoziare in modo attivo e consapevole il proprio ruolo e la propria
presenza nell’organizzazione, con conseguenze in genere positive sia per l’azienda (efficienza, innovazione
ecc.) che per il lavoratore (ad esempio, la possibile personalizzazione del lavoro).

Prerequisiti di proattività:

- consapevolezza delle proprie qualità personali,


- consapevolezza delle proprie risorse operative
- consapevolezza dei limiti interni e dei vincoli esterni
- personalità proattiva e l’iniziativa personale

4.3. Employability

Tra le risorse personali necessarie per affrontare il lavoro un posto preminente è attribuibile anche
all’«employability». Comprende Infatti un vasto insieme di contenuti e significati molto diversi tra loro:

- conoscenze e qualificazioni formali


- competenze professionali utili per entrare nel mondo del lavoro e mantenere il lavoro;
- set di atteggiamenti, motivazioni e requisiti psicosociali (come la proattività) che sintetizzano il patrimonio
potenziale delle risorse di una persona;

Tre aspetti comuni alle varie declinazioni del costrutto di employability:

1. si tratta di «punti di forza» della persona, ovvero risorse acquisibili, funzionali a soddisfare le opportunità
di costruire un percorso di carriera significativo per la persona;

15
2. le persone differiscono tra loro non solo rispetto a risorse più oggettive (come, ad esempio, i livelli di
istruzione), ma anche nella misura e nel grado in cui esse sono disposte ad adattare tali risorse psicosociali
alle specifiche situazioni;
3. per comprendere gli esiti più o meno favorevoli dell’employability vanno considerati sia i fattori interni alle
persone sia quelli esterni legati al contesto organizzativo e occupazionale.

L’occupabilità è direttamente legata al capitale umano acquisito con la formazione e l’esperienza e al capitale
sociale frutto delle interazioni sociali e della rete di relazioni che assicurano alla persona informazioni, sostegno
solidale, opportunità di influenza sugli altri e uno status sociale più o meno soddisfacente.

Tre grandi categorie di attributi considerati risorse per l’occupazione:

1. Quelli mirati alla capacità di gestire la carriera, come il career self-management (definire obiettivi,
riflettere e pianificare le azioni), la Career resilience (saper resistere agli ostacoli con flessibilità e fiducia),
l’orientamento imprenditoriale ecc.;
2. Quelli che mettono in risalto aspetti disposizionali come la proattività, la self-efficacy, il controllo e
stabilità emozionale, l’adattabilità, il capitale psicologico ecc.;
3. Quelli di natura relazionale come la socievolezza (grado di apertura verso gli altri e capacità di costruire
reti sociali).

Una specifica attenzione merita il costrutto di Adattabilità, non è inteso nel suo significato comune di
“adesione passiva e conformità alle richieste ambientali”, bensì è un concetto che vuole indicare una strategia
di coping attivo messa in atto per gestire i compiti, le difficoltà e i traumi connessi con i ruoli e la vita lavorativa.
Si intende come una risorsa positiva, che si basa su quattro dimensioni:

1. la preparazione e interesse per la futura carriera (concern);


2. la responsabilità diretta nel controllare il proprio sviluppo professionale (control);
3. l’esplorazione dei Sé possibili nel futuro e delle opportunità (curiosity);
4. la convinzione di poter riuscire a risolvere i problemi che si incontrano nella propria storia lavorativa
(confidence, self-efficacy).

5.IL CONTRATTO PSICOLOGICO TRA LAVORATORE E ORGANIZZAZIONE

Quindi le risorse della persona rappresentano il mezzo con il quale poter gestire con efficacia le relazioni
lavorative. In tale compito sono facilitati coloro che possiedono risorse cognitive, affettive e di esperienza
adeguate per l’organizzazione, mentre rischiano di restare ai margini i molti che, non avendo lo stesso livello
di doti personali e sociali, sono costretti a subire adattamenti indesiderati.

C’è da dire, però, che in entrambi i casi (individui con elevate risorse e individui più vulnerabili o che devono
ancora acquisirle) si conferma la crescente rilevanza del ruolo della persona (con il suo patrimonio di valori,
credenze, aspettative, competenze, identità, sostegno sociale ecc.) nell’influenzare o nel negoziare patti di
reciprocità equilibrati, che non intacchino la coerenza delle aspettative e dei progetti personali di riuscita
sociale e professionale.

5.1. Natura e contenuti del contratto psicologico

Il lavoro è uno scambio tra prestazione e contro-prestazione: io lavoratore mi impegno a fare qualche cosa che
tu organizzazione mi chiedi, dedicando energie e tempo, e in cambio ricevo qualcosa di significativo e di valore
per me. Questa relazione è regolata formalmente dal contratto di lavoro, che stabilisce obblighi e doveri
reciproci relativi ai compiti e alle norme principali da seguire sul lavoro e prevede sanzioni per il loro mancato
rispetto da ambo le parti. Tuttavia, nella realtà quotidiana l’esperienza di lavoro è talmente complessa e
dinamica che molte sue sfaccettature restano indefinite e sono affidate a intese informali, non scritte, che

16
possono evolvere nel tempo. Tra queste sfaccettature ritroviamo le dimensioni motivazionali (fedeltà,
impegno, dedizione) e tutti i «comportamenti di cittadinanza organizzativa» (cioè solidarietà e aiuto agli altri
colleghi in caso di difficoltà, sostegno dei più giovani, ricerca attiva di soluzione dei problemi, diligenza e
cortesia nelle relazioni ecc.). Tutto ciò costituisce l’oggetto del Contratto psicologico. Esso assume la forma di
un accordo informale tra lavoratore e il datore di lavoro. È formato dalle percezioni individuali su ciò che è
stato promesso da parte dell’azienda (ad esempio paghe competitive, opportunità di avanzamento di carriera,
sicurezza lavorativa..) e da ciò che il dipendente si aspetta di dare in cambio all’azienda (lealtà, onestà,
impegno, senso di appartenenza, disponibilità).

5.2. Il “nuovo” contratto psicologico

Attualmente il contratto psicologico sta assumendo nuove connotazioni negative, in relazione ai nuovi modi
di lavorare e al tipo di mercato occupazionale fortemente segmentato che si è andato delineando negli ultimi
anni.Infatti, tale relazione contrattuale un tempo a lungo termine, stabile, fondata su aspetti relazionali, su
riconoscimenti concreti e su opportunità di sviluppo di identità sociali soddisfacenti è divenuta spesso di breve
termine, rinegoziabile con grande frequenza e improntata quasi esclusivamente sullo scambio economico. In
altre parole, la forma e i contenuti del contratto psicologico tradizionale stanno cambiando e si definiscono
molti tipi di relazione lungo un continuum che va da contratti psicologici di carattere relazionale a quelli di
natura transazionale, che implicano differenti aspettative da parte del lavoratore e dei datori di lavoro.

5.3. Violazione del contratto psicologico

Un modo semplice per riconoscere l’importanza del contratto psicologico è valutare le conseguenze del suo
rispetto o della sua violazione. Valutazioni positive circa il rispetto del contratto psicologico, cioè degli obblighi
reciproci, si traducono in impegno, fiducia, senso di appartenenza e implicazione organizzativa, maggiore
frequenza di comportamenti di cittadinanza organizzativa, più elevata soddisfazione lavorativa, miglioramento
della salute mentale. Se un lavoratore percepisce una violazione delle aspettative e degli obblighi del suo
contratto Psicologico si generano effetti negativi sia sul piano emotivo, sia su quello cognitivo e
comportamentale. Essi saranno più o meno forti a seconda si tratti di: un mancato adempimento di una o
poche aspettative o di una rottura di natura involontaria, collegabile a fattori esterni imprevisti oppure di una
più grave violazione unilaterale da parte dell’organizzazione che risulta del tutto ingiustificata e che rinnega le
promesse precedenti. Di conseguenza, i dipendenti ricambiano la percezione di violazione del contratto
riducendo il coinvolgimento, l’impegno e la fiducia nei confronti dei superiori, adottando comportamenti di
ritirata e manifestando l’intenzione di lasciare l’organizzazione.

17
CAPITOLO 3 - IL LEGAME PSICOLOGICO TRA INDIVIDUO E LAVORO

1. PERCHÉ LAVORARE?
In generale lavorare costituisce un'attività umana dotata di significati profondi, al punto tale da poter asserire
che esista un legame psicologico tra la persona e l'attività lavorativa, che va oltre il significato del lavoro come
obbligo e necessità economica.
Il lavoro ricopre delle funzioni psicologiche rilevanti per la persona e può costituire una opportunità per
conseguire soddisfazione, benessere, identità e per costruire relazioni sociali.
Ma molto dipende dal tipo di lavoro che si svolge, in particolare è bene fare riferimento al Lavoro apparente:
è un'occupazione dotata di stipendio, orario, contributi, regole, mansionario ma che non genera valore
aggiunto; quindi non è attività umana che trasforma e genera ricchezza e valore per la collettività.
Si possono distinguere diversi livelli in cui si struttura il legame psicologico tra la persona e il lavoro:
 Individuo che attribuisce particolare importanza per il proprio compito lavorativo («job»), per l'attività
svolta in sé. L'attaccamento al proprio lavoro in questo caso, può essere spiegato in termini di passione
professionale, competenza, soddisfazione verso i risultati che si possono ottenere, possibilità di
trasformare l'ambiente.
 Individuo che attribuisce particolare importanza verso il «lavorare in generale», ciò che gli inglesi
chiamano “work”. Il legame psicologico tra individuo e attività lavorativa può derivare dai significati
sociali che il lavorare può assumere: ovvero dai valori, dall'etica sociale, dall'appartenenza a determinati
gruppi o all'adesione a ideologie diffuse interiorizzate e fatte proprie dalla persona. Ad esempio è il caso
della forte identificazione con la propria professione da parte di molti insegnanti e di operatori in ambito
sanitario.
 Individuo che attribuisce particolare importanza al lavoro come mezzo per «stare in una
organizzazione». Il legame psicologico con il proprio lavoro può essere rafforzato attraverso
l'appartenenza all'organizzazione in cui si opera. In questo caso, prevalgono esperienze psicologiche quali
l'orgoglio, il senso di cittadinanza organizzativa, nonché la costruzione di una parte dell'identità
professionale.

2. LA MOTIVAZIONE AL LAVORO: CONTENUTI E CONTESTO

2.1. La motivazione al lavoro: definizione


In passato, attraverso il costrutto di motivazione al lavoro si è cercato di capire perché alcune persone danno
il loro meglio nei luoghi di lavoro, mentre altre hanno livelli di investimento più contenuto e altre ancora
hanno una visione solo strumentale della propria occupazione (“faccio solo ciò che occorre per portare a casa
lo stipendio”).
La motivazione può avere effetti sulla prestazione al lavoro in termini quantitativi (numero di ore lavorate;
tasso di assenteismo; quantità di beni e servizi prodotti), qualitativi (ricerca della qualità; innovazione) e
organizzativi (adesione agli obiettivi, fedeltà, senso di appartenenza).
Attualmente, invece, si è passati dall’indagare il rapporto motivazione-prestazione, verso prospettive molto
più attente alla crescita della persona (soddisfazione, benessere, realizzazione), allo sviluppo organizzativo
(autonomia, responsabilità e competenze) e al rapporto tra individuo e organizzazione (commitment
organizzativo; sentimento di cittadinanza organizzativa).
Alcuni autori [Kanfer, Chen, Pritchard e Pinder] considerano la motivazione al lavoro come un insieme di
forze che determinano la direzione, l'intensità e la persistenza dell'azione nelle esperienze che caratterizzano
la persona in rapporto al proprio lavoro.
La motivazione concerne quindi un processo di:
 scelta (direzione): tale aspetto mette in evidenza l'importanza degli scopi e la finalizzazione dell'azione
(bisogni da soddisfare, obiettivi da perseguire, progetti);
 investimento (intensità): tale aspetto specifica quali e quante energie impiegare e quanto sforzo
produrre. Si distingue il potenziale motivazionale di una persona (quanto un individuo può esprimere in

18
termini di sforzo e impegno) e la motivazione effettivamente attivata (quanto sforzo viene messo in
campo);
 azione (persistenza): tale aspetto considera la durata e la tenuta dei processi psicologici volti
all'erogazione di energia (es. prestare attenzione, praticare uno sforzo) e al raggiungimento di un
obiettivo.

Inoltre, sempre seguendo la sistematizzazione degli Autori, la motivazione al lavoro:


 poiché è un processo psicologico, non è direttamente osservabile ma può essere inferita da una serie di
fattori personali e ambientali; la nozione di sforzo (effort) è considerata come un elemento
comportamentale osservabile che più si avvicina al concetto di motivazione;
 riassume una serie di spinte individuali (pulsioni, bisogni, interessi, scopi) posta in rapporto a una serie
di fattori organizzativi (tipo di compito, sistema premiante, natura del feedback ricevuto), ambientali
(tecnologie, contesto sociale) e culturali (valori e significati attribuiti al lavoro);
 è un elemento dinamico e fluttuante poiché è soggetta a continui cambiamenti in funzione
dell'evoluzione dell’assetto psicologico dell’individuo e delle caratteristiche dell'ambiente;
 è strettamente legata all'esperienza di lavoro della persona, tuttavia fattori esterni alla sfera lavorativa
(vita familiare, tempo libero) possono esercitare una significativa influenza sulla motivazione al lavoro.

Nelle applicazioni concrete e nella ricerca, la nozione di motivazione al lavoro può essere applicata a vari
processi e su diversi piani di azione. Può essere intesa come:
 motivazione alla prestazione, concernente il concreto svolgimento del proprio compito lavorativo
(quanto darsi da fare; quanto intensamente lavorare; quali obiettivi di prestazione porsi);
 motivazione ad apprendere, relativa all'impegno da erogare nell'acquisire nuove competenze, formarsi
all’uso di nuove tecnologie e nuovi linguaggi;
 motivazione nella partecipazione a un gruppo di lavoro, che porta a proporre nuove idee, esporsi nella
risoluzione di un conflitto, aiutare gli altri a risolvere problemi.
 motivazione alla carriera, può riguardare scelte e strategie di gestione della propria carriera (es.
accettare o meno una posizione più impegnativa, affrontare un nuovo incarico o un trasferimento,
andare in pensione ecc);
 motivazione verso l'organizzazione, relativa all'investimento psicologico in attività che possano
migliorare il funzionamento organizzativo e far crescere il prestigio della propria azienda.

Considerando il carattere multiforme della motivazione al lavoro, non si può ritenere che ogni persona sia
dotata in modo permanente di un certo grado di motivazione al lavoro. Ogni individuo può essere dotato di
un potenziale di motivazione che si manifesta con diversi gradi di attivazione e intensità in funzione dei
compiti che svolge, degli obiettivi che si pone e del tipo di contesto che vive.

2.2. Motivazione intrinseca e motivazione estrinseca


Già le prime ricerche empiriche sulla motivazione al lavoro di Maslow, Herzberg in particolare, hanno
proposto una chiara distinzione tra motivazioni intrinseche e motivazioni estrinseche.

Motivazione Intrinseca: promuove una condotta lavorativa finalizzata al conseguimento di benefici e


soddisfazione che sono ricavabili dall'attività in sé. In questo caso, si tratta di una motivazione che nasce da
“dentro” l'individuo. Lo svolgimento di un lavoro interessante e coinvolgente può essere ricondotto a una
spinta interna personale che porta a trarre beneficio dallo svolgimento dell'attività in sé e porta la
soddisfazione di alcuni bisogni intrinsecamente significativi per la persona: il piacere di completare il
compito; il riuscire in un impegno difficile; il poter ricondurre il risultato ottenuto alle proprie abilità,
l'ottenere riconoscimenti.
Motivazione Estrinseca: richiede una componente esterna di strumentalità per essere attivata. Lo sforzo
erogato dal lavoratore, attraverso il comportamento, è dovuto al tentativo di conseguire dei risultati esterni
all'attività stessa: ottenere un premio, evitare una punizione, rispettare un impegno. Quindi il soggetto non

19
tiene in considerazione il raggiungimento di uno scopo interno, ma agisce in modo strumentale per ottenere
altri benefici non strettamente riconducibili all'azione in sé.

La ricerca sulla motivazione lavorativa si è concentrata per molto tempo sul rapporto tra questi due tipi di
motivazione per capire quali aspetti sono più efficaci nel motivare le condotte lavorative.
Sono in gioco elementi quali il ruolo motivante degli incentivi monetari e l'importanza di sistemi di
supervisione per controllare e sanzionare comportamenti lavorativi non adeguati, ma anche la concezione di
persona, la teoria psicologica implicita sottostante i vari tipi di gestione del personale.
Nel 1960 McGregor ha definito:

TEORIE X: tutti i modelli di gestione del personale basati su una visione dei dipendenti come indolenti, poco
ambiziosi, indifferenti alle esigenze organizzative, resistenti al cambiamento. Secondo questa
interpretazione, i lavoratori sono spinti solo dai bisogni primari, cioè quelli presenti nella parte bassa della
gerarchia di Maslow (riferimento quadro 3.2). In tal caso, le politiche del personale sono finalizzate a
sollecitare la motivazione estrinseca dei lavoratori facendo ricorso a sistemi di premi e sanzioni.
TEORIE Y: vedono i lavoratori come potenzialmente attivi, pronti ad assumersi le responsabilità e a
condividere gli obiettivi organizzativi. Secondo tale interpretazione, i lavoratori sarebbero mossi da bisogni
più elevati della scala di Maslow (autorealizzazione). In tal caso per alimentare la motivazione intrinseca dei
lavoratori si fa ricorso all'arricchimento dei compiti, all'autonomia operativa, alla partecipazione
alle decisioni.

Un aspetto ampiamente studiato per le sue importanti implicazioni operative è costituito dal rapporto tra
benefici estrinseci e intrinseci nel lavoro.

La Teoria della valutazione cognitiva [Deci e Ryan 1985] ha fornito prove a sostegno dell'ipotesi che fattori
esterni (denaro, scadenze, sorveglianza) tendono a diminuire la spinta autogenerata al lavoro.
Secondo l’ipotesi, dato che la motivazione intrinseca è sorretta da sentimenti di competenza e di autonomia,
l’eventuale introduzione di fattori esterni (benefici o obblighi) tende a mettere in discussione tali sentimenti
e a far sentire le persone maggiormente dipendenti da fattori contingenti.
A conferma della teoria, la metanalisi di Deci, Koestner e Ryan [1999] condotta su 128 studi, mostra che
alcuni incentivi tangibili (es. il denaro) compromettono in parte la motivazione intrinseca, mentre vi sono
altre situazioni in cui i benefici esterni non interferiscono.
Ad esempio, incentivi fissi e indipendenti dalla performance (es. il salario) o premi non annunciati (bonus
una tantum) non hanno effetti sulla motivazione intrinseca. Anche lodi e riconoscimenti verbali non
interferiscono con la motivazione intrinseca in quanto possiedono anche un potenziale effetto informativo
(feedback sulla prestazione). Per contro, rimproveri, richiami e sistemi di sorveglianza e controllo hanno
effetti negativi sulla motivazione intrinseca e conducono a potenziali stati di amotivazione.

La teoria proposta dagli Autori è stata oggetto di ampio dibattito. Latham e Pinder hanno messo in evidenza
l'ambivalenza e la scarsa validità ecologica dei risultati riportati, argomentando a favore di un'ipotesi additiva
in cui motivazione intrinseca ed estrinseca possono convivere. Questo perché, aldilà delle ricerche e degli
studi, nelle reali esperienze di lavoro fattori intrinseci ed estrinseci si mescolano e i margini di scelta e di
autonomia individuale sono costantemente vincolati da esigenze organizzative. In particolare, i benefici
materiali (paga, premi, incentivi) non costituiscono semplicemente un elemento strumentale ma sono una
misura implicita del prestigio e della qualità di una professione. In questo caso lo stipendio assume un
significato informativo per la persona circa la qualità del proprio operato e il livello di competenza acquisito.
Per cui si può essere intrinsecamente soddisfatti di un aumento di stipendio o di un premio poichè questi
rappresentano riconoscimento e valorizzazione delle competenze del lavoratore.

Una meta-analisi di Cerasoli, Nicklin e Ford [2014], sono state analizzate oltre 180 ricerche sulla motivazione
in diversi contesti (scuola, lavoro, salute), ed è stato mostrato che sia motivazioni intrinseche che gli incentivi
influenzano il livello della prestazione. In particolare, la motivazione intrinseca ha un peso maggiore nel
determinare la qualità della prestazione, mentre la motivazione estrinseca agisce più sulla quantità della

20
prestazione. Secondo gli autori, nella prestazione i due tipi di motivazione non sono in antagonismo, ma
sembrano operare in modo simultaneo e combinato.

QUADRO APPROFONDIMENTO
Tra le varie teorie che hanno tentato di spiegare il ruolo della motivazione al lavoro, le principali sono:
La gerarchia dei bisogni di Maslow (1943): postula che l'azione delle persone sia motivata dalla ricerca del
soddisfacimento di una serie di bisogni umani fondamentali, sintetizzabili in cinque categorie:
1. di natura fisiologica;
2. di sicurezza;
3. di appartenenza;
4. di stima e riconoscimento sociale;
5. di autorealizzazione.
Hanno un ordine gerarchico, per cui solo dopo aver saturato i bisogni di ordine inferiore (fisiologici, di
sicurezza), l'individuo progressivamente potrà dedicarsi alla realizzazione di quelli di ordine superiore (ricerca
di riconoscimento sociale; autorealizzazione).

I fattori igienici e motivanti di Herzberg (1966): secondo l’autore non tutti gli aspetti del lavoro hanno una
forza motivante e producono soddisfazione.
Alcuni fattori, denominati igienici, non hanno potere motivante in sé se presenti, ma possono minare la
motivazione se sono assenti (es. ambiente di lavoro, sicurezza occupazionale, livello di stipendio);
Altri fattori, detti motivanti, hanno invece la capacità di motivare e di generare soddisfazione
lavorativa se sono presenti (es. opportunità di sviluppo professionale, responsabilità, interesse del contenuto
del lavoro).

2.3. La teoria dell'autodeterminazione


La teoria dell'autodeterminazione (SDT, Self-
Determination Theory) di Gagné e Deci [2005] cerca
di sistematizzare i modelli precedenti e di integrare
diverse microteorie sul tema.
Il principio di base della teoria è che le persone
agiscono, come per Maslow, spinte dal soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali e innati, che però
sono di natura intrinseca. In base a tali bisogni gli individui sono naturalmente spinti a realizzare il proprio
potenziale e ad apprendere. L’obiettivo è quello di integrare le proprie esperienze in una visione coerente di
sé (meaningfulness) e di stabilire relazioni con altri che siano fondate su rispetto e reciproca attenzione.
Di conseguenza, gli ambienti di lavoro che permettono di raggiungere tali obiettivi sono quelli con maggiore
potenziale motivante.
La metanalisi, condotta da Van den Broeck e colleghi, su circa 100 ricerche sul tema ha rilevato che il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali sopra citati è correlato a una serie di comportamenti organizzativi
importanti:
- più impegno nel lavoro
- atteggiamento più favorevole
verso il proprio lavoro
- più engagement
- più produttività
- più creatività
- più proattività
- meno assenteismo
- più benessere lavorativo
- minore stress e minore
burnout

21
Nella SDT un ruolo centrale è esercitato dalla distinzione tra:
Motivazione Autonoma: è relativa ad azioni condotte a partire dalla propria volontà e da un'esperienza di
scelta. Essa è in gioco quando si agisce per il piacere di agire nell'ambito di un comportamento
deliberatamente adottato dalla persona.
Motivazione Controllata: fa riferimento a un'azione avviata sotto una pressione esterna o un obbligo ad
agire.
Inoltre, la SDT propone una classificazione delle diverse motivazioni estrinseche in funzione del loro grado di
autonomia vs controllo esterno.
Il modello prevede tre stati motivazionali generali:
1. L'AMOTIVAZIONE riguarda le situazioni in cui le persone non agiscono oppure agiscono senza intenzione
e senza uno specifico controllo sul proprio comportamento.
2. La MOTIVAZIONE INTRINSECA è un esempio di motivazione autonoma; è caratterizzata da scelta
deliberata, interesse per l'attività in sé e realizzazione personale.
3. La MOTIVAZIONE ESTRINSECA si articola in quattro categorie a seconda del grado di controllo
esterno/autonomia:
- La Motivazione Estrinseca Esternamente Regolata: si ha quando l'attività non riveste interesse per
la persona e sono necessari interventi esterni (incentivi) per far scaturire il comportamento. È un caso
estremo in cui la motivazione controllata è molto elevata a fronte di una bassa motivazione
autonoma, mentre i fattori esterni agiscono da attivatori e regolatori del comportamento motivato.
Ad esempio: è il caso di esperienze di lavoro a basso contenuto professionale e di scarsa qualità, per
cui si va avanti con la convinzione del “faccio questo lavoro per il denaro che mi permette di
procurarmi”.
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Introiettata: si basa su un processo di interiorizzazione
di obiettivi e scopi esterni che la persona fa propri ma che non accetta pienamente.
Ad esempio: è presente in colui che ha una strutturazione del Sé debole; l'individuo si autoimpone
una serie di regole di comportamento per soddisfare alcuni bisogni di definizione di sé, per evitare
stati d'ansia e per ricercare accettazione sociale, lavorando con il pensiero del “lavoro perché ciò mi
fa sentire a posto con me stesso”.
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Identificata: tipica delle situazioni in cui le persone
hanno interiorizzato in modo più completo e coerente una serie di scopi e valori esterni.
L'attivazione del comportamento parte da una deliberata scelta della persona (in autonomia), perché
grazie all'azione si potranno ottenere risultati significativi in termini di soddisfacimento di bisogni
personali e realizzazione della propria identità.
Ad esempio: l'infermiere che si prende cura del benessere del paziente svolge un compito a volte
spiacevole o non interessante in sé (quindi non intrinsecamente motivato) ma tale comportamento,
messo in atto in modo relativamente deliberato, può generare soddisfazione in quanto risponde a
valori interiorizzati dalla persona (prendersi cura del paziente e occuparsi del suo benessere).
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Integrata: rappresenta la forma più completa di
interiorizzazione di interessi e valori generati dall'esterno. L'attivazione del comportamento deriva
da una chiara identificazione di scopi, interessi e obiettivi che si integrano tra loro in una coerente
immagine di sé e con l'identità della persona. Questa forma ha un elevato grado di autonomia e un
basso controllo esterno, si avvicina concettualmente alla nozione di motivazione intrinseca, ma si
distingue da essa poiché il comportamento non è generato da un'attività interessante in sé.
Ad esempio: prendendo in considerazione l’infermiere, in questo caso la motivazione ad agire deriva
da un forte allineamento tra caratteristiche dell'attività svolta, valori e identità individuale: “agisco in
questo modo perché ciò risponde a una serie di norme etiche, competenze professionali, valori sociali
che considero parte della mia identità personale”.

Così come la teoria della valutazione cognitiva, anche la SDT mostra un certo grado di astrattezza concettuale
e di artificiosità, ma lascia spunti interessanti per lo studio del rapporto tra individuo e lavoro:
In primo luogo, con la SDT si supera la distinzione tra motivatori interni ed esterni alla persona e si delinea
un continuum che avvicina alcune forme di motivazione estrinseca alla motivazione intrinseca. Inoltre il
modello teorico non si basa su un luogo di generazione della motivazione (interno vs esterno), ma esalta
processi psicologici quali il grado di autonomia, di volizione e di scelta individuale.

22
In secondo luogo, è interessante il concetto di interiorizzazione, attraverso cui è possibile stabilire un primo
legame tra processi motivazionali e processi sociali nella costruzione dei significati del lavoro; segnalando
l'importanza dei processi di acquisizione di norme, valori e modelli culturali nel generare o inibire la
motivazione al lavoro.
In terzo luogo, l'interiorizzazione di valori e la regolazione autonoma possono essere favorite da forme di
appropriazione psicologica del proprio compito, e dipendono anche da come il lavoro è organizzato e dai
margini di autonomia lasciati al lavoratore.

2.4. Caratteristiche del lavoro e motivazione

QUADRO APPROFONDIMENTO
Con il termine job design: si indica un set
di attività e decisioni su come i compiti
lavorativi devono essere svolti all'interno
di una organizzazione. Attraverso il job
design si definiscono: le mansioni; le
responsabilità; gli obblighi; l'interazione
con le tecnologie; i ritmi e la regolazione
dei tempi; le forme di coordinamento con
altri.
Il job design è definito dal management,
ma può prendere forma anche grazie ad
azioni “bottom-up”, cioè grazie a
soluzioni ideate e sperimentate dai singoli
o all'interno dei team di lavoro.

È stato detto in precedenza che la motivazione costituisce l'esito di un intreccio tra fattori individuali (bisogni,
interessi, valori) e di contesto (compiti lavorativi, organizzazione, relazioni sociali).
Un ampio filone di studi si è occupato del ruolo dei fattori ambientali, in particolare del job design e della
sua possibile influenza sulla motivazione. È stata sviluppata una delle teorie motivazionali che ha avuto
maggiore influenza a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino a oggi: la teoria delle caratteristiche
lavorative JCM (Job Characteristics Model) di Hackman e Oldham [1980].
Secondo gli autori la motivazione intrinseca al lavoro dei dipendenti può essere stimolata da una strategia
ottimale di job design: il posto di lavoro, la divisione dei compiti e delle mansioni e gli stili di supervisione
possono essere strutturati in modo da massimizzare l’impiego. Si può intervenire sui seguenti aspetti, ritenuti
importanti per il loro potenziale motivante:
1. varietà nelle capacità richieste;
2. identità del compito (il compito rappresenta una unità significativa; è possibile comprendere il valore
aggiunto della propria prestazione);
3. significatività del compito (utilità e rilevanza per altri e per l'organizzazione);
4. autonomia (discrezionalità nello svolgimento del compito);
5. feedback (ricevere riscontri sulla validità della propria prestazione).

In base a questa teoria, l’attivazione della motivazione intrinseca può avvenire se un individuo, durante il
lavoro, è in grado di attivare tre stati psicologici:

23
 generare esperienze di apprendimento grazie alla conoscenza dei risultati ottenuti con la propria attività
(feedback);
 sperimentare la responsabilità di produrre una buona prestazione (autonomia);
 sperimentare il significato del proprio lavoro (varietà, identità e significatività).
Applicando questo schema è possibile stimare il potenziale motivazionale di ogni impiego.
Secondo gli autori, persone che hanno un elevato bisogno di crescita sono più indicate a ricoprire occupazioni
a elevato potenziale motivazionale, mentre individui a basso bisogno di crescita si adatteranno meglio a
compiti con una contenuta valenza intrinseca.

A distanza di circa 30 anni il modello di Hackman e Oldham mantiene oggi un elevato interesse, anche se
necessita ovviamente di alcuni aggiornamenti, che riguardano soprattutto le caratteristiche del lavoro e delle
organizzazioni, radicalmente mutate oggi.
Attualmente: le organizzazioni sono evolute prestando più alla valorizzazione del fattore umano; c’è stata
l'introduzione delle nuove tecnologie nel lavoro; è cresciuto il carattere sociale del lavoro; vi sono varie forme
di contratto di impiego che accentuano la flessibilità del rapporto e dei tempi di lavoro.

In particolare, Parker si è dedicata all'espansione del modello originale considerando gli sviluppi recenti. Tale
espansione si muove lungo varie direzioni, tra le quali:
Caratteristiche emergenti del lavoro  sulla base del Work Design Questionnaire (VDQ) [Morgeson e
Humphrey, 2006] le cinque caratteristiche individuate nel JCM sono state ampliate.
Altre caratteristiche del contesto sono state prese in considerazione come ad esempio il tipo di
equipaggiamento e l'ergonomia del posto di lavoro, nonché la crescente importanza delle interazioni sociali
nei luoghi di lavoro. Tutte le caratteristiche del lavoro possono essere manipolate in fase di progettazione
organizzativa e di gestione del personale, portando significativi effetti sulla motivazione dei dipendenti e sul
loro benessere psicologico.
Cambiamenti nelle organizzazioni di lavoro  le innovazioni del JCM sono conseguenti alle nuove forme di
contratto di lavoro, alla diffusione della flessibilità e alla conseguente maggiore incertezza lavorativa.
Cambiamenti significativi nelle regole del mercato del lavoro e nelle forme contrattuali possono avvenire
oggi in seguito a molti fattori e possono avere impatti negativi sulla motivazione delle persone. Tuttavia, le
soluzioni di Job Design possono esercitare un ruolo di attenuazione. Un elemento innovativo è stata la
perdita di unitarietà del lavoro nello spazio e nel tempo: l’organizzazione dei tempi di lavoro è sempre meno
omogenea oggi, prevedendo svariate forme contrattuali, così come lo spazio fisico in cui si svolge il lavoro si
è dilatato in seguito a soluzioni come il telelavoro.
La relazione tra vita lavorativa e vita familiare costituisce un ulteriore elemento emergente che impone
forme di progettazione del lavoro adeguate per sostenere la motivazione relativa alla doppia presenza
(lavoro-famiglia).

QUADRO APPROFONDIMENTO
Le caratteristiche del lavoro secondo il Work Design Questionnaire [Morgeson e Humphrey 2006].
Caratteristiche del compito: Conoscenze:
- Autonomia - Complessità del compito
- organizzazione oraria - Trattamento di informazioni
- presa di decisioni - Problem solving
- metodo di lavoro - Varietà delle competenze
- Varietà del compito - Specializzazione
- Significato del compito
- Identificazione del compito
- Feedback dal lavoro

Caratteristiche sociali: Caratteristiche del contesto:


- Supporto sociale - Ergonomia
- Interdipendenza - Domanda fisica
- Interazioni con l'esterno dell'organizzazione - Condizioni di lavoro
- Feedback da altri - Utilizzo di equipaggiamenti

24
3. LA MOTIVAZIONE AL LAVORO: PROCESSI PSICOLOGICI

3.1. Processi regolativi della motivazione al lavoro


Gli psicologi del lavoro hanno prodotto una serie di
teorie per comprendere come le persone sviluppano
interessi, valori e bisogni relativi alla sfera lavorativa e
come si genera e si mantiene nel tempo l'attivazione di
energia che sostiene il comportamento lavorativo. Tali
teorie, dette di processo, toccano diverse
problematiche psicologiche: il ruolo delle aspettative e
della valenza; l'equità e la giustizia percepita; la spinta
motivazionale generata dagli obiettivi; la funzione delle emozioni ecc. La struttura euristica di Hertel e
Wittchen [2008] assume che l'azione motivata sia parte di un complesso processo di autoregolazione della
persona che procede per fasi.
Sulla base del modello di Lewin che prevedeva una fase di «goal setting» (definizione degli obiettivi) e una
fase di «goal striving» (sforzo per raggiungere i risultati) per spiegare il comportamento orientato allo scopo,
gli studiosi hanno sviluppato altre fasi e hanno ipotizzato che ad ognuna siano associabili distinti processi
mentali di regolazione.
Il primo passo che avvia l'azione motivata è caratterizzato dalla SCELTA di un'azione sulla base di un sistema
di preferenze e di aspettative circa i possibili benefici che si possono trarre dall'impegno. Tale fase comporta
un processo di deliberazione (decisione) verso le varie opzioni di scelta e la valutazione della fattibilità.
Segue un processo di goal setting, cioè di PIANIFICAZIONE DEGLI OBIETTIVI che si vogliono raggiungere.
Sono in gioco processi implementativi di autoregolazione dedicati alla programmazione mentale di un modo
di procedere.
La terza fase prevede l’ESECUZIONE E IL CONTROLLO dell’azione per il raggiungimento dello scopo (goal
striving). L’autoregolazione del comportamento permette di valutare se si sta correttamente perseguendo
l'obiettivo. In questa fase sono centrali i processi mentali operativi che favoriscono l'azione.
Infine, una volta completata l'attività se ne possono VALUTARE GLI ESITI in termini di effettivo
raggiungimento dello scopo, benefici ottenuti e loro adeguatezza rispetto allo sforzo erogato. Anche l'attività
valutativa prevede processi di trattamento e di confronto delle informazioni rispetto a parametri prefissati
equi e giusti.
L'esito della valutazione costituirà l'input per futuri processi di autoregolazione e di selezione degli scopi.

3.2. La scelta motivazionale


Per comprendere come avviene la fase di scelta motivazionale un punto di riferimento fondamentale è
costituito dalla Teoria dell'aspettativa-strumentalità-valenza (modello VIE di Vroom, 1964).
In questa teoria la motivazione è considerata come conseguente a un percorso cognitivo di stima e
valutazione degli esiti possibili di un'azione. In particolare, il modello prevede l'intervento di tre variabili:
1. la valenza attribuita al risultato (V-Valence): cioè in che misura gli esiti attesi della propria azione sono
considerati soggettivamente positivi e attraenti;
2. la strumentalità (I= Instrumentality): la probabilità percepita (soggettiva) che lo svolgimento di una data
prestazione sia collegata a specifiche conseguenze strumentali (estrinseche) o al soddisfacimento di specifici
bisogni.;
3. l'aspettativa (E = Expectancy): la probabilità percepita (soggettiva) che un certo impegno produrrà
determinate conseguenze; Tale nozione è connessa a quella di autoefficacia percepita nel portare a termine
con successo un determinato compito.

La forza motivazionale che alimenta una determinata azione è data dal prodotto di questi tre elementi:
MOTIVAZIONE = V x I x E
È sufficiente che uno dei tre fattori (VIE) sia nullo per avere un livello di motivazione pari a 0.

ESEMPIO: una persona priva di occupazione che deve attivarsi nella ricerca di un nuovo impiego. La scelta
cognitiva di impegnarsi in tale azione di ricerca dipende dall'effetto combinato dei tre elementi sopra indicati.
In primo luogo, la valenza attribuita al lavorare. Se il lavoro non è considerato dalla persona come un valore
importante, si può registrare un minore impegno nella ricerca. Se invece ha una forte valenza positiva per la

25
persona, allora ottenere un impiego costituisce un risultato che può produrre soddisfazione, benessere.
Pertanto, la generazione di forza motivazionale sarà maggiore.
La strumentalità riguarda la probabilità percepita che all'azione intrapresa (cercare il lavoro) siano associati
alcuni esiti positivi (trovare lavoro) e alcuni benefici (avere più autonomia finanziaria). In questo caso la
motivazione verte sulle caratteristiche percepite del rapporto tra azione e i suoi possibili benefici. Se si
considera che sono disponibili solo occupazioni noiose e mal retribuite, questa anticipazione degli esiti
condurrà a una flessione della motivazione ad agire.
L'aspettativa che il proprio impegno nella ricerca dell'impiego possa condurre ai risultati sperati (trovare una
occupazione) è il terzo attivatore. In tal caso, una bassa autoefficacia percepita può far sembrare l'obiettivo
come irraggiungibile o troppo difficile da conseguire.

Sviluppi recenti si sono occupati di rendere il modello più operativo e più legato ai processi di scelta e di
decisioni che concernono la sfera lavorativa e organizzativa, facendo particolare attenzione:
 ai diversi ambiti nei quali si collocano gli scopi delle persone (lavoro, famiglia, tempo libero), per cui
l'analisi verte su come le persone integrano, regolano e ordinano gerarchicamente diversi scopi.
 alle diverse dimensioni dello scopo, per cui in riferimento all'esecuzione di un compito lavorativo, si tiene
conto di come: alcuni possono essere orientati a svolgere al meglio il processo, altri possono essere
orientati ai risultati; si può avere una focalizzazione su scopi qualitativi (fare le cose bene) o quantitativi
(fare il più possibile); gli scopi possono avere un ancoraggio individuale («faccio le cose meglio che
posso»), esterno riferito ad altri significativi («voglio arrivare agli stessi risultati ottenuti dal mio collega»)
o esterno riferito a standard normativi («devo raggiungere quanto prefissato dal mio superiore»).

Nel concetto di orientamento allo scopo, un supporto è fornito dal concetto di goal orientation, ovvero uno
schema di riferimento e un sistema di credenze piuttosto stabile relativi allo stile personale adottato per
orientare i propri scopi. Solitamente sono ipotizzate tre modalità distinte di orientamento allo scopo:
 orientamento all'apprendimento, individuazione di scopi che hanno a che fare con l'acquisizione di
conoscenza;
 orientamento alla performance, individuazione di scopi realizzabili in cui sia possibile mostrare la propria
competenza ed essere valutati positivamente;
 orientamento all’evitamento della performance, scelta di scopi non sfidanti, in cui non si incorre in
valutazioni esterne.

3.3. La pianificazione degli obiettivi


Alla fase deliberativa di scelta fa seguito la definizione operativa degli scopi e l'implementazione, cioè
l’impostazione delle condizioni per la realizzazione di un piano. Con la teoria del «goal setting» di Locke e
Latham [1990] l'attenzione si sposta dall'individuo inteso come elaboratore di piani e intenzioni, a un livello
più articolato in cui entrano in gioco l'individuo e l'organizzazione intesa come entità sociale che propone,
definisce e impone obiettivi. Gli autori hanno cercato di definire quali sono gli obiettivi motivanti, come
devono essere costruiti e quali sono i fattori che possono facilitarne o inibirne il ruolo motivante nei contesti
lavorativi. Ipotesi della teoria del goal setting:
1. Gli obiettivi prefissati in un contesto organizzativo possono avere una valenza motivante per l'individuo e
accentuano il suo sforzo.
2. Affinchè l'obiettivo sia motivante, dev’essere difficile e impegnativo (sfidante), ma allo stesso tempo
realizzabile e conseguibile. La difficoltà dell'obiettivo non è percepita in egual modo da tutti, perciò va
commisurata con le caratteristiche della persona o del gruppo.
3. L'obiettivo non dev’essere generico ma piuttosto specifico e chiaro e formulato in modo che sia possibile
valutarne il conseguimento.

Obiettivi con queste caratteristiche mobilitano una serie di processi cognitivi connessi con l'attivazione di
energia e l'orientamento del comportamento intenzionale:
 Focalizzazione: focus dell'attenzione su informazioni concernenti l'obiettivo stesso.
 Intensità: mobilitazione dello sforzo concentrato e finalizzato al conseguimento del risultato.
 Persistenza: continuità dello sforzo e dell'azione orientata allo scopo.
 Strategie: ideazione e adozione di strategie di azione finalizzate all'ottenimento del risultato.

26
Inoltre, la teoria prevede una serie di condizioni contestuali che garantiscono il potere motivante degli
obiettivi:
- l’accettazione e condivisione degli obiettivi da parte dei lavoratori, pertanto la partecipazione attiva
nella definizione dei progetti operativi aumenta il valore attribuito agli obiettivi.
- il grado di legittimazione e fiducia nei confronti dell'autorità che definisce gli scopi e le mete, se una
fonte è percepita come attendibile e giusta, l’obiettivo è più facilmente accettato dai subordinati.
- i feedback ricevuti circa il raggiungimento degli obiettivi; esso, infatti, per il suo elevato potere
informativo, costituisce un'occasione di autoregolazione e può generare reazioni emotive correlate ai
processi motivazionali (es. orgoglio in caso di feedback positivi, imbarazzo e frustrazione in caso di
feedback negativi).
- il sentimento di autoefficacia percepita, per cui persone con elevata autoefficacia percepita rispondono
in modo più favorevole a obiettivi sfidanti e impegnativi.

La teoria del goal setting ha dato vita anche a prospettive di gestione delle risorse umane e a tecniche
manageriali.

3.4. Autoregolazione e controllo del comportamento


Il terzo step dello schema prevede il passaggio all'azione, l'avvio di una fase di tensione verso il risultato (goal
striving) e una dei processi di monitoraggio, controllo e regolazione del comportamento. È su questi aspetti
che si sono concentrate le recenti teorie motivazionali.
L'autoregolazione può essere intesa come una serie di processi psicologici (pensiero, ragionamento,
attenzione, regolazione emotiva, azioni) che permette alla persona di controllare i propri comportamenti,
orientati allo scopo, al variare del tempo e dei cambiamenti di contesto.
Tali processi includono attività di:
 monitoraggio, indica la raccolta di informazioni sul proprio comportamento per verificare il procedere
dell'azione verso lo scopo;
 autovalutazione, permette di confrontare le proprie prestazioni e quelle di altri;
 reazione interna, riguarda i processi interni attivati a seguito delle due precedenti attività
(aggiustamento comportamentale, autopunizione o di autogratificazione, meccanismi di risposta
emotiva).

L'autoregolazione si riferisce al controllo di se stessi per mantenere un’accettabile congruenza tra il proprio
self e alcuni standard di comportamento preferiti. È un'attività cosciente, fondata sulla rappresentazione
interna degli obiettivi, intesi come condizioni alle quali si punta. Essa è finalizzata a mantenere il controllo
sulla realizzazione dei piani e il conseguimento degli obiettivi.

L'elemento in comune dei modelli dell'autoregolazione è l'idea che le persone nei luoghi di lavoro sono
attivamente impegnate nell'allocare le risorse a disposizione e nel regolare l'azione.
Attraverso l’allocazione di risorse si determina quanto tempo, energia cognitiva, attenzione, sforzo fisico,
perseveranza vadano dedicati a diversi piani d'azione e progetti.
Con la regolazione dell'azione ci si riferisce all'attività interna con cui si determinano le condotte, si aumenta
o diminuisce lo sforzo, si persevera o si abbandona, si modifica il piano di azione.

La nozione di autoefficacia percepita interviene in tali processi e, se da un lato favorisce un orientamento


più aperto di sfida e di controllo percepito sulla situazione, dall'altro lato l'autoefficacia è costantemente
messa alla prova dalle esperienze della persona; successi o fallimenti possono modificarne l'assetto,
incrementarla o inibirla.
Un altro elemento importante che entra in gioco nei modelli di autoregolazione è la proattività, che indica
la tendenza generale della persona a mettere in atto comportamenti generati in modo autonomo, orientati
verso il futuro e finalizzati al cambiamento.

27
3.5. Valutare gli esiti: equità dello scambio, percezione di giustizia, rispetto del contratto
psicologico
L’ultimo step del processo dell'azione motivata è la valutazione degli esiti, alla quale si associano aspetti che
riguardano la percezione di giustizia e di equità dello scambio.
Secondo la Teoria dell'equità di Adams [1963] le persone regolano il proprio comportamento sociale in base
a un principio di equità: valutano il rapporto tra ciò che essi danno (sforzo) rispetto a ciò che ricevono (premi)
in un determinato contesto.
Il sentimento di iniquità è di solito costruito sulla base di un confronto sociale: è un bilancio effettuato in
rapporto a ciò che altri (colleghi in situazioni simili) si ritiene abbiano investito/ottenuto.
Il concetto di equità è quindi costruito sulla base una regola sociale che definisce le modalità giuste di
distribuzione delle risorse e che poggia su diversi principi: uno strumentale di difesa degli interessi personali,
uno sociale di confronto con gli altri, un principio morale che spinge le persone ad adottare regole e valori
fondati sul giusto modo di fare le cose.

La percezione di non equità spinge le persone a riportare in equilibrio la situazione attraverso alcune
strategie cognitive e comportamentali:
 Modifica degli input o dei risultati: riduzione di impegno e sforzo oppure tentativo di aumentare i
benefici ottenibili.
 Modifica dei referenti: cambiare individuo o gruppi utilizzati come riferimento per il confronto sociale.
 Modifica del bilancio risorse/risultati: riconsiderare il valore delle risorse immesse o dei risultati
ottenuti.
 Abbandono: uscire dall'organizzazione e cercare una nuova collocazione occupazionale.

Dall’espansione del modello dello scambio di Adams si sviluppa la Teoria della giustizia organizzativa
[Greenberg e Colquitt 2005]. Essa prende in considerazione, oltre alla percezione dell'equità, anche le
caratteristiche generali del contesto sociale in cui si generano tali scambi sociali.
In questo caso le persone percepiscono diversi gradi di equità, imparzialità di trattamento e giustizia,
valutando come le organizzazioni distribuiscono risorse e riconoscimenti. In base a tale percezione, si
stabilisce il livello di fiducia nei confronti dell'organizzazione con conseguenti livelli di implicazione
motivazionale.
È proposta la distinzione tra i concetti di:
 giustizia distributiva: la credenza che i benefici siano distribuiti in modo equo e congruo alle attese;
 giustizia procedurale: la credenza che i modi di allocare e distribuire le risorse da parte
dell'organizzazione siano adeguati;
 giustizia interpersonale: la percezione di come si viene trattati all'interno dell'organizzazione in termini
di rispetto e dignità.

in base a tale distinzione, si ritiene che la percezione di giustizia si basi:


- sulla quantità di benefici ricevuti in assoluto e nel confronto di quanto ottenuto da altri.
- dalle modalità secondo le quali i benefici (o le sanzioni) sono distribuiti.
- sulla base dei modelli di comunicazione interna, il rispetto di regole e diritti e dignità delle persone.

28
CAPITOLO 4 - IL LAVORATORE E I SUOI COMPITI

1. LAVORO: UNA PLURALITÀ DI SIGNIFICATI


Il termine “LAVORO” possiede significati complessi.
In generale indica qualsiasi esplicazione di energia volta a uno scopo mentre, più in particolare, consiste
nell'applicazione delle facoltà fisiche, intellettuali ed emotive di una persona rivolte alla produzione di un
bene o di un servizio.

WORK è il termine inglese che indica il lavoro come attività umana diretta a uno scopo, di grande valore
per la persona e per la società.
JOB  è il termine inglese utilizzato per designare l'attività concreta, svolta per un dato tempo sulla base di
requisiti oggettivi (ad esempio, qualifiche, tecnologie e mezzi di lavoro ecc.) e soggettivi (ad esempio,
motivazioni).

2. ATTIVITÀ LAVORATIVA: AZIONI E OPERAZIONI IN UN CONTESTO


Citando l’esempio di Engestrom che descrive l'attività di un pediatra che lavora nel pronto soccorso di un
ospedale, si può asserire che lo scopo finale dell'attività lavorativa del medico (fare una diagnosi) sia
raggiunto attraverso momenti diversi, nei quali si realizzano interazioni significative tra differenti elementi
che, nel complesso, formano un sistema di azione.
Più in generale si può dire che lavorare significa svolgere un insieme di attività che il lavoratore (il soggetto),
con una certa sequenza ordinata, indirizza su un oggetto, per raggiungere scopi di rilevanza pratica, con la
mediazione di strumenti e di significati (culturali e sociali) presenti in un determinato contesto.

Attività lavorativa  condotta finalizzata a un insieme di scopi, mete, risultati attesi propri o assegnati
dall'organizzazione. L'attività è scomponibile in azioni.
Azioni  sono delineate secondo un piano definito (es. cosa fare prima e perché) e controllate dalla persona
con differenti meccanismi di feedback. A loro volta, sono scomponibili in unità più elementari: le operazioni.
Operazioni  sottoinsieme di condotte che permettono di raggiungere scopi più delimitati, ma funzionali
all'attuazione delle azioni.
Singoli gesti  sono le unità ancora più piccole, per effettuare le operazioni.
Prestazione  è un concetto molto utilizzato per descrivere, misurare e valutare un'attività di lavoro.
All’interno del suo campo di applicazione è contenuta l’attivazione di un processo (ovvero una sequenza di
diverse attività) per produrre un esito.
Oltre a ciò, questo termine racchiude due differenti significati: le condotte e i processi interni e
comportamentali finalizzati agli scopi; gli esiti delle azioni.

Per comprendere un'attività lavorativa occorre considerare i seguenti aspetti:


1. Il decorso osservabile dell'attività: ovvero le condotte manifestate secondo una data sequenza temporale
delle azioni; a struttura gerarchica delle attività; gli ostacoli o problemi di coordinamento nella sequenza
delle azioni;
2. I processi cognitivi e i vissuti soggettivi dell'attività: le attività e azioni sono sostenute da differenti
processi cognitivi e affettivi che si esprimono nella: definizione degli scopi, pianificazione,
controllo/regolazione, valori ed emozioni che orientano i criteri di scelta delle mete e la volontà di
perseguirle;
3. Significati sociali e mediazioni oggettivabili: intervengono nel modo di impostare la situazione,
organizzare ed eseguire le singole azioni. Prevedono interazioni sociali dirette e indirette, regole. Sono un
fattore di regolazione sociale dell'attività che integra le modalità di autoregolazione del lavoratore.

29
3. ATTIVITÀ LAVORATIVA TRA COMPITI PRESCRITTI E COMPITI REALI
Differenza tra compiti prescritti dall'azienda e attività lavorativa reale svolta dal lavoratore:
compiti prescritti  sono indicazioni formali che esprimono le richieste lavorative alle quali il lavoratore
deve rispondere con la sua attività. Essi concernono gli obiettivi da raggiungere, i mezzi e le procedure da
usare, la divisione dei compiti tra vari operatori, i tempi da rispettare, gli esiti attesi e i ricavi presumibili, le
condizioni esterne entro cui operare. Spesso queste indicazioni sono accompagnate da istruzioni scritte che
formalizzano le attività da eseguire.
compiti realmente svolti dal lavoratore  fanno parte delle «pratiche lavorative» con cui il lavoratore
affronta e risolve a modo suo i problemi concreti del lavoro. Tali pratiche si discostano spesso dai compiti
assegnati, a causa dell’alto tasso di variabilità della situazione di lavoro; nonostante ciò possono portare
comunque esiti finali positivi.

In primo luogo, la distanza tra compiti prescritti e reali deriva da una moltitudine di situazioni variabili:
 gli imprevisti
 le variazioni quantitative o qualitative della produzione
 l’uso di mezzi ritenuti inadeguati od obsoleti;
 la variazione dei tempi di lavoro
 la definizione di gruppi di lavoro che funzionano in modo un po' diverso da quanto programmato
Di fronte a queste possibilità, il lavoratore mette in atto delle soluzioni originali che lo portano a svolgere i
suoi compiti in maniera diversa rispetto a quanto gli è stato assegnato, ma presentando gli stessi risultati.
In secondo luogo, l'attività lavorativa risulta distante dai compiti formalizzati perché essi, in fondo, sono stati
progettati e definiti male.
In terzo luogo, la variabilità deriva dagli stessi lavoratori, con particolare importanza verso le differenze
individuali nel modo di lavorare imputabili all'età, al genere, al grado di esperienza posseduta, alla
formazione ricevuta, alle competenze professionali, alle motivazioni, allo stato psicofisiologico ecc..

Gli scostamenti, quindi, non sono violazioni in senso stretto, ma reinterpretazioni dei compiti e delle regole
e adattamenti (detti compromessi operativi) messi in atto dal lavoratore per conseguire, seguendo strade
diverse, i risultati attesi.
Il grado di scostamento tra compiti prescritti e reali rappresenta un'area di indagine per:
- capire come ridurre le difficoltà di realizzazione del lavoro da parte del lavoratore con interventi specifici;
- conoscere meglio il tipo di influenza esercitata dai fattori di variabilità presenti nel contesto;
- valutare il costo cognitivo ed emotivo dei compromessi operativi messi in atto dal lavoratore.

30
4. I COMPITI COME ESIGENZE E DOMANDE AL LAVORATORE
L’attività lavorativa può essere rappresentata come un insieme di richieste (compiti prescritti e reali) o
esigenze più o meno pressanti anche sul piano temporale al quale il lavoratore si propone di rispondere.
Tra le varie esigenze, possiamo distinguere:
Esigenze fisiche  Si pensi al trasporto di carichi, all'uso di strumenti che prevedono sforzi, alla necessità di
mantenere a lungo posture particolari, la necessità di applicare la propria potenza muscolare, il buon
equilibrio corporeo, la coordinazione neuromuscolare.
Esigenze ambientali  Sono implicati gli effetti sull'organismo dovuti alla concentrazione di sostanze
pericolose, al microclima, al rumore, alle vibrazioni.
Esigenze sensoriali Si riferiscono: alla ricezione e discriminazione di stimoli connessi con le varie fonti di
informazione, agli organi di senso interessati (es. acutezza visiva).
Esigenze sensomotorie Derivano dai dispositivi usati e riguardano, ad esempio, il numero e la varietà dei
comandi, il livello di precisione, compatibilità tra i vari gesti e movimenti di risposta richiesti, arti interessati
al movimento ecc.
Esigenze cognitive Alcune derivano direttamente dalle caratteristiche dei compiti (es. chiarezza delle
istruzioni), altre sono connesse allo stato del lavoratore, alla sua esperienza alle sue competenze (livello di
vigilanza, grado di attenzione focalizzata, memorizzazione).
Esigenze relazionali Riguardano trasversalmente la maggior parte dei compiti e ruoli (comprendere
differenti linguaggi, scambi comunicativi, modalità di interazione dei gruppi di lavoro, l'interazione
cooperativa o conflittuale).

La specifica combinazione di queste esigenze che si realizza nella situazione concreta, giustifica la strategia
di risposta del lavoratore, espressa con la sua prestazione. Bisogna tenere presenti i numerosi fattori di
variabilità che possono influenzare il grado di criticità delle richieste lavorative e stimolare compromessi
operativi.

QUADRO APPROFONDIMENTO
Le esigenze del lavoro si esprimono sia nello spazio fisico (ufficio) sia nello spazio temporale.
Il tempo di lavoro va considerato secondo alcuni parametri oggettivi che, a parità di altre condizioni, possono
intensificare le richieste lavorative:
- la durata (tempo di impegno giornaliero, settimanale, mensile, annuale);
- la localizzazione temporale (la definizione delle pause lavorative e dell'orario di lavoro);
- la scansione temporale (i ritmi di lavoro);
- il grado di discrezionalità del lavoratore nel controllo dei tempi di lavoro (es. tempi più o meno
determinati dalle macchine);
- la relazione tra tempi lavorativi e tempi personali (lavoro in famiglia, tempo libero).
Rispetto a tali parametri, si sono sviluppati profondi conflitti tra lavoratori e aziende. Attualmente si è giunti
a strategie di negoziazione tra le parti per individuare vantaggi sia per le imprese che per i lavoratori (ad
esempio, flessibilità degli orari di entrata e uscita, part-time).

5. LA PRESTAZIONE LEGATA AI COMPITI, CONTESTUALE E ADATTIVA


Secondo l'impostazione tradizionale del lavoro, una prestazione era considerata buona se, una volta
assegnati i compiti, questi venivano svolti con impegno. Le misure adottate per valutare la prestazione erano
corrispondenti al principio focalizzato sui compiti operativi prescritti.
Ma ad oggi è noto che la semplice traduzione operativa dei compiti prescritti non corrisponde quasi mai
all'insieme di attività che il lavoratore mette in atto.
A partire dagli anni Novanta, le riflessioni scientifiche sulla prestazione giungono a due importanti
conclusioni:
1. è importante tenere distinti gli aspetti della prestazione che corrispondono ai risultati finali, da quelli che
riguardano le diverse attività svolte dal lavoratore per raggiungerli.
2. si riconosce alla prestazione un'articolazione interna che comprende differenti dimensioni:
- competenza nello svolgere attività inerenti ai compiti tecnici;
- dimensioni che riguardano gli aspetti sociali della prestazione, indispensabili per gestire
efficacemente le interazioni con strumenti, colleghi e capi.

31
Questa nuova prospettiva viene descritta facendo riferimento all'originario modello a 8 dimensioni proposto
da Campbell.

5.1. La prestazione legata ai compiti (task performance)


Nel descrivere la struttura latente della prestazione Campbell propone di considerare 8 dimensioni, cinque
delle quali si riferiscono alla prestazione inerente i compiti lavorativi:
1. efficienza nei compiti specifici
2. efficienza nei compiti non specifici
3. efficienza nella comunicazione orale e scritta
4. efficienza nella supervisione/leadership
5. efficienza manageriale e amministrativa

Le altre tre dimensioni si riferiscono ad aspetti della prestazione che implicano un differente grado di
coinvolgimento personale, una capacità di autoregolazione e disciplina rispetto alle condotte lavorative
attese, capacità di sostenere il buon funzionamento di un team.
Sintetizzando, si individuano due grandi categorie di condotte funzionali allo svolgimento dei compiti
richiesti:
a) condotta che riguarda direttamente la trasformazione dei materiali grezzi in beni e servizi (ad esempio,
operare su una macchina, fare una visita medica, fare una lezione ecc.);
b) condotte per il mantenimento ottimale delle funzioni tecniche, di distribuzione, di coordinamento, di
supervisione per valorizzare e conservare l'efficienza della parte tecnica del lavoro.

Le dimensioni della prestazione relative ai compiti (task performance) si articolano diversamente tra loro,
cioè possono essere presenti in modo parziale o qualche dimensione può essere assente, a seconda del tipo
di lavoro. Inoltre esse risultano più esplicitamente legate alle conoscenze e agli apprendimenti tecnico-
professionali.

5.2. La prestazione contestuale (contextual performance)


Borman e Motowidlo adottano per primi la distinzione tra task e contextual performance.
task performance  si riferisce a quando i lavoratori, usando conoscenze e capacità tecniche, svolgono i
compiti specifici del loro lavoro.
contextual performance  si riferisce a quando si esplicitano condotte non direttamente legate ai compiti
di ruolo, ma che sostengono la qualità dei rapporti psicosociali nel contesto di lavoro: gestione costruttiva
delle relazioni con i colleghi, i capi, i clienti; fornire aiuto ai lavoratori più giovani; facilitare la cooperazione
in un gruppo di lavoro; il persistere nel proprio impegno di lavoro anche quando le condizioni esterne non
sono favorevoli ecc.
32
In generale, si possono riconoscere due importanti funzioni di condotte non tecniche:
1. rendere più fluide le relazioni sociali esistenti rafforzandole e diffondendole.
2. riguarda in generale le condotte proattive nell'organizzazione, ovvero le condotte che esprimono
l'intenzione personale di farsi carico dei problemi che riguardano la propria organizzazione.

Considerare gli aspetti contestuali della prestazione ha una notevole rilevanza pratica, perché può essere un
criterio con cui integrare il feedback sulle prestazioni svolte, riconoscere e premiare l'impegno lavorativo.

Le tre grandi determinanti della prestazione che spiegano gran parte delle possibili differenze individuali
rispetto al conseguimento dei risultati attesi:
 La conoscenza dichiarativa riguarda la conoscenza da parte del lavoratore delle informazioni inerenti al
lavoro, agli scopi delle attività e delle proprie caratteristiche e qualità personali. Essa è funzione della
formazione ricevuta e dell'esperienza lavorativa.
 La conoscenza procedurale e le skills si riferiscono al “saper come fare” una certa attività, dunque, sono
chiamate in causa le skills psicomotorie, cognitive, fisiche, interpersonali e di gestione del self.
 Le motivazioni lavorative determinano la prestazione, soprattutto le scelte di impegnare energie nel
lavoro, di definire a quale livello impegnarsi e quanto persistere nello sforzo. In questo caso hanno
influenza sia aspetti legati alla personalità sia fattori di attrazione e autoregolazione presenti nel contesto
di lavoro.

Le dimensioni della contextual performance risultano più trasversali e comuni a quasi tutti i tipi di lavoro.
Inoltre, sono connesse alle motivazioni e alle caratteristiche personali del lavoratore.

5.3. La prestazione adattiva (adaptive performance)


Con costrutto di prestazione adattiva si intende riconoscere come il lavoratore risponda alle richieste dei
compiti e dei ruoli, anche sulla base del grado di versatilità e tolleranza all'incertezza posseduti.
sono esempi di prestazioni adattive funzionali al conseguimento di buoni risultati: inserirsi in un nuovo team
e diventare subito efficiente, impegnarsi per imparare un nuovo software, gestire situazioni di emergenza,
affrontare in maniera adeguata le diversità (culturali, etniche, ideologiche ecc.) che caratterizzano i
quotidiani rapporti di lavoro.
Con il termine adattivo non ci si riferisce a una sorta di accettazione passiva delle richieste, ma al contrario
alle capacità proattive descritte precedentemente.
Gli elementi tipici dell'adaptive performance:
 gestire emergenze e situazioni di crisi.
 gestire situazioni stressanti.
 risolvere problemi creativamente.
 imparare di continuo nuovi compiti, l'uso di tecnologie e procedure tecniche.
 affrontare situazioni lavorative incerte e impreviste.
 dimostrare adattabilità interpersonale.
 dimostrare adattabilità culturale e valoriale.
 dimostrare adattabilità alle diverse situazioni fisico-ambientali.

6. VARIAZIONI DELLA PRESTAZIONE


La prestazione di un lavoratore può subire delle variazioni nel corso del tempo, nonché difficoltà nel
mantenere un equilibrio tra task, contextual e adaptive performance.
I numerosi fattori di variabilità implicano aggiustamenti e compromessi operativi funzionali al
raggiungimento dei risultati, ma possono anche rivelarsi non stabili nel tempo.
Innanzitutto si distingue tra: variazioni a breve termine, dovute in genere a imprevisti sul lavoro o a
condizioni psicofisiche transitorie, come la stanchezza, e variazioni progressive e a più lungo termine.
Si è cercato di comprendere quali siano i fattori responsabili di tali cambiamenti, che portano sia decrementi
della prestazione ma anche variazioni positive.

Le variazioni positive sono connesse ai processi di apprendimento sul lavoro (workplace learning) in quanto
la partecipazione alla vita della comunità lavorativa e il fare esperienza dei suoi modi di pensare e di agire

33
facilitano cambiamenti nella struttura cognitiva e motivazionale, soprattutto in termini di sviluppo delle
skills. Questi cambiamenti si ripercuotono sulle diverse dimensioni della prestazione.
In particolare, man mano che si diventa esperti e si è socialmente ben inseriti:
a) si riduce la necessità di un controllo passo dopo passo delle azioni, le azioni divengono più rapide e in parte
automatiche;
b) è prioritaria la conoscenza procedurale e si esprimono nuove capacità lavorative che riducono i tempi di
realizzazione, le inefficienze, i rischi di errore e facilitano il miglioramento della prestazione.

I decrementi nelle prestazioni sono stati analizzati in relazione alle carenze di conoscenza dichiarativa,
procedurale e di skills della persona e al tipo di interazione tra il lavoratore e il suo lavoro, con i relativi
strumenti usati in un contesto tecnico e sociale concreto.
Sia nel caso in cui vi siano carenze nelle caratteristiche della persona sia in quello in cui siano presenti
incertezze nel tipo di interazione lavoratore-macchina, l’attenzione è posta sulla possibilità di mantenere
un buon livello di prestazione di fronte ai diversi ostacoli provenienti dalle condizioni di esecuzione anche
dalle interferenze ambientali di natura fisica o sociale. Queste interferenze, infatti, possono operare
distraendo il lavoratore dagli obiettivi primari, riducendo l'attivazione e la motivazione nel corso del tempo
e determinando un notevole affaticamento.

Si fa riferimento al costrutto di carico di lavoro mentale per indicare una condizione mentale in cui l’individuo
“è pieno di impegni” e “deve fare troppe cose contemporaneamente”, ovvero il costo complessivo che il
lavoratore paga per mantenere un buon livello di prestazione.
Nel concetto di carico di lavoro si considerano vari elementi:
- il tipo di richieste imposte dal compito
- il livello di prestazione raggiunto
- il livello di sforzo del lavoratore
- la percezione di sentirsi sovra o sottocarico.
Il lavoratore ha a disposizione una quantità limitata di risorse mentali e quando le richieste sono
sproporzionate, in eccesso o troppo basse, sperimenta una condizione rispettivamente di sovraccarico o di
sottocarico che influenza negativamente la prestazione.
In concreto, il carico di lavoro e le sue variazioni dipendono dall'interazione tra le richieste del lavoro e le
abilità e risorse cognitive e motivazionali dell'individuo.

Sulla base di questo, si è ipotizzato un sistema di protezione della performance fondato sull'autoregolazione
compensatoria da parte del lavoratore:
 si osserva una notevole resistenza al decadimento della prestazione per i compiti primari (prioritari),
poichè significativi per il lavoratore, svolti in pubblico, inoltre richiedono competenze che il lavoratore
possiede.
 se emergono rischi per il mantenimento di un buon livello di prestazione ed essa è percepita come
importante, si attivano circuiti di feedback che permettono di far utilizzare risorse personali aggiuntive
(tenute di riserva) per riportare la situazione a uno standard accettabile.

34
Tre principali strategie di risposta compensatoria:
1. Aumento dello sforzo (engagement), sostenuto dal desiderio di ottenere il risultato atteso e da una riserva
di energie per le situazioni impreviste. Questa risposta non può essere protratta a lungo, altrimenti si
sperimenta una condizione di stress incontrollabile.
2. Ritiro dell'impegno (disengagement) nelle attività secondarie o abbassando il livello di velocità e
accuratezza. Si ha un decremento qualitativo o quantitativo della prestazione.
3. Sopportare lo stress (strain mode), si tratta di un impegno diretto a superare gli ostacoli per mantenere
gli obiettivi della prestazione. Utilizzando tutte le risorse cognitive e comportamentali disponibili, vi è il
rischio di forte affaticamento e stress.

Lo sforzo di mantenersi concentrati nella realizzazione dei compiti primari può condurre alla perdita di
efficienza in altre dimensioni della prestazione. In quanto ritenuti meno centrali per la prestazione, i compiti
secondari risentono della scarsa disponibilità di risorse e rischiano di degradare quelli primari.

7. ANALIZZARE IL LAVORO: APPROCCI E STRUMENTI


I numerosi cambiamenti dei contesti di lavoro, in aggiunta alla diffusione di nuove tecnologie e allo sviluppo
di nuove modalità relazionali all’interno del rapporto di lavoro, convergono:
a) nel determinare variazioni continue nei profili professionali tradizionali;
b) nel generare nuovi profili professionali;
c) nel produrre cambiamenti nei modi di impostare, eseguire il lavoro e nell'impegno delle persone a portarlo
a termine.

Per indagare questi cambiamenti si ricorre all'analisi del lavoro: un processo di raccolta e valutazione delle
informazioni sui comportamenti lavorativi, sugli strumenti usati e sul contesto lavorativo. È uno strumento
decisivo per la progettazione del lavoro, la correzione di modi di lavorare inadeguati, il miglioramento delle
esperienze lavorative ecc.
L'analisi del lavoro ha un valore strategico (strategic job analysis) in due sensi:
1. essa cerca di comprendere le sovrapposizioni, i loro elementi comuni, i possibili interscambi di
competenze più ampie e applicabili a più lavori, così da favorire un uso flessibile del capitale umano
senza gli ostacoli delle qualifiche e delle mansioni. Se un lavoratore ha competenze che vanno oltre
l'attuale ruolo svolto, può essere incoraggiato a svilupparle nella prospettiva di una posizione lavorativa
più soddisfacente per lui e per l'organizzazione.
2. porta i vari attori interessati a riflettere su quello che fanno, per valutare meglio la loro situazione (es. se
il lavoro corrisponde alle attese, progetti futuri ecc) e per cercare di contribuire al cambiamento della
loro attuale condizione sulla base dell'esperienza e della conoscenza diretta del loro lavoro.

7.1. Funzioni dell'analisi del lavoro


Aree funzionali interessate dall’analisi del lavoro:
Politiche del personale ad esempio: selezione del personale (descrizione delle attività e delle esigenze
lavorative che comportano conoscenze e di skills); valutazione delle prestazioni (considerare se le
prestazioni sono corrispondenti alle richieste); definizione di un sistema corretto di pianificazione del
personale (reclutamento, tempi e metodi da usare per il rimpiazzo dei lavoratori); costruzione di un sistema
premiante equo.
Job design  Le informazioni ricavate dall'analisi del lavoro sono alla base dei processi di correzione e di
progettazione del lavoro finalizzati a una gestione delle attività più sicura e più soddisfacente per le persone.
Sicurezza lavorativa  L'analisi del lavoro individua i punti critici dell'organizzazione del lavoro rispetto alla
sicurezza e alla prevenzione dei rischi psicofisici e psicosociali da stress collegabili con i processi, i tempi di
lavoro e con lo sforzo fisico e mentale richiesto.
Formazione e «instructional design»  Queste attività si avvalgono di un'analisi preventiva (need analysis)
fondata sull'analisi del lavoro. In particolare, le caratteristiche del progetto formativo sono inferibili e
connesse con le esigenze della prestazione, le risorse cognitive e affettive del lavoratore e le modalità di
apprendimento.

35
Orientamento e «counselling» di carriera  Sia per i giovani al loro primo impiego sia per gli adulti in
cambiamento lavorativo la possibilità di usufruire di informazioni attendibili nei loro processi decisionali
deriva dalla conoscenza del lavoro effettivo che l'analisi del lavoro può evidenziare.
Classificazioni e profili professionali  è dall'analisi del lavoro che possono essere delineati gli insiemi di
competenze che caratterizzano un profilo professionale onde facilitare l'incontro tra domanda e offerta di
lavoro.

7.2. In cosa consiste l'analisi del lavoro?


L'analisi del lavoro si riferisce alla corretta identificazione delle responsabilità, dei compiti, delle attività reali
e dei requisiti per svolgere il lavoro. Non è un’attività semplice da svolgere, ci sono molti elementi legati al
contesto di lavoro e alle persone che lavorano di cui tenere conto contemporaneamente per arrivare a un
quadro informativo attendibile su ciò che è importante sapere per migliorare l’ambito lavorativo. Bisogna
considerare ad esempio la grande variabilità delle situazioni lavorative, i cambiamenti delle richieste delle
aziende e la forte mobilità del mercato del lavoro.
In questo senso, l’analisi del lavoro tradizionale basata sulla descrizione di un job circoscritto e stabile («job
analysis», analisi della posizione) non è più sufficiente e si deve passare a una più ampia «work analysis» che
permetta di cogliere meglio: le attività concrete realizzate in un dato contesto; la variabilità e l'ampiezza delle
responsabilità, dei compiti e delle competenze di cui la persona ha bisogno per lavorare con soddisfazione.
Si deve disporre di uno schema concettuale (vedi figura a fine paragrafo) che permetta di avere una visione
d’insieme del lavoro e di collegare le variabili legate al contesto e quelle personali/collettive che influenzano
le condotte lavorative; in più, è bene privilegiare lo studio del lavoro focalizzandosi sui lavoratori reali e
coinvolgendoli nell'analisi.

In merito al secondo aspetto, sono stati delineati due grandi approcci all'analisi del lavoro: quelli «work-
oriented» e quelli «worker-oriented».
I primi sono interessati a descrivere i compiti indipendentemente dal lavoratore che li svolge, i secondi si
propongono soprattutto di individuare le attività e gli attributi cognitivi, affettivi e comportamentali del
lavoratore per svolgere bene tali compiti.
I metodi centrati sul lavoro tendono a essere più oggettivi, mentre quelli worker-oriented risultano più
influenzati dal lavoratore e dalla sua esperienza. Nonostante ciò, questi ultimi sono più adatti a far capire in
cosa consista lavorare in un contesto variabile e in continuo cambiamento e a far emergere le pratiche
lavorative reali rispetto alle prescrizioni.
Un'estensione dell'approccio centrato sul lavoratore è rappresentato dal «Competency Modeling»: esso si
focalizza sulle competenze nella forma di una combinazione di motivazioni, caratteristiche di personalità e
del self per svolgere al meglio le prestazioni lavorative. Ci si focalizza sulla valutazione delle conoscenze e
capacità generali della persona e del suo potenziale piuttosto che sulla corrispondenza tra le sue capacità
attuali e quanto richiesto dal lavoro. In tal modo si cercano informazioni sulle qualità delle persone che
rendano più fluida la gestione del capitale umano da parte dell'organizzazione e soprattutto permettano di
conoscere in anticipo e di ottimizzare tale patrimonio di fronte a cambiamenti del lavoro e a nuove esigenze
della produzione.
Questo discorso vale anche per attributi di carattere aspecifico o trasversali (es. creatività, volontà di
apprendimento, apertura di pensiero, capacità di problem solving, cooperazione e risoluzione di conflitti ecc)
che costituiscono elementi significativi per svolgere con successo la contextual e adaptive performance in
molte posizioni professionali.

Per avviare l'analisi delle pratiche lavorative, si fa riferimento all'approccio sistemico della scuola francese
di Jean Leplat. Esso è utile perché permette di avere un quadro d'insieme della situazione lavorativa che aiuti
a cogliere i legami tra diversi fattori che intervengono sulla prestazione e a selezionare i metodi e gli strumenti
più adatti per ricavare le informazioni.

ESEMPIO: Proviamo ad analizzare il lavoro di un infermiere


In questa analisi non si parte quasi mai da zero. Si possono trarre informazioni preliminari rifacendosi ai
documenti e ai dati di archivio per comprendere gli obiettivi prioritari di questo lavoro, la struttura e il modo
di funzionare del reparto in cui questo infermiere lavora. Su questa base si possono evidenziare dei punti di

36
attenzione per la nostra osservazione (ad esempio il tipo di turni diurni e notturni che l'infermiere deve
rispettare).
Sapendo che vi è un'interazione sistemica tra azienda sanitaria e lavoratore potremo meglio renderci conto
di come procedere, ad esempio, per rilevare e descrivere i potenziali scarti tra i compiti prescritti e quelli
realmente svolti dall'infermiere.
Lo strumento che intendiamo usare ci deve specificare, in quel reparto ospedaliero che stiamo analizzando:
a) gli obiettivi;
b) le condizioni di esecuzione;
c) i tempi lavorativi;
d) il tipo di organizzazione del lavoro gestita da un primario più o meno capace sul piano manageriale;
e) l'ambiente fisico;
f) i rapporti di natura sociale.
Questi fattori di contesto ci danno un'idea della complessità del lavoro e delle richieste alle quali il nostro
infermiere deve far fronte usufruendo delle proprie risorse.
A questo punto, con la disponibilità dell'infermiere a parlare del suo lavoro, si vanno a descrivere e analizzare
le attività, intese sia come insiemi di azioni e operazioni per raggiungere gli scopi effettivi (espressi nei
compiti reali) sia come processi mentali coinvolti nella prestazione infermieristica; e anche gli esiti del lavoro,
intesi come prestazione finale ma anche come possibili effetti sulla persona (di tipo positivo come la
soddisfazione o negativo come fatica) che agiscono sul suo modo di affrontare il lavoro.
Nel caso in cui si voglia approfondire l'analisi, arrivando a un grado di dettaglio più elevato, si possono
utilizzare specifiche tecniche di task analysis di componenti del lavoro dell’infermiere.

7.3. Task analysis


È definita come lo studio dettagliato dei compiti di un lavoratore (cosa fa e come lo fa) espresso in termini
di azioni finalizzate allo scopo da raggiungere con la prestazione.
Tale analisi si concentra sui compiti, sulla sequenza logica e temporale delle azioni, sull'intensità dello sforzo
mentale e sulle modalità di gestione delle informazioni.
Consente anche di:
 identificare i costi fisici e mentali dell'attività lavorativa;
 evidenziare i «punti critici» dell'attività (es. rischi di errore);
 prendere decisioni in merito alla possibilità di automatizzare i processi o usare specifici dispositivi a
sostegno della prestazione al fine di ridurre la fatica o migliorare l'efficienza;

37
 definire meglio le specifiche capacità e le competenze richieste al lavoratore;
 identificare i bisogni di formazione e i percorsi formativi più adatti rispetto ai modi con cui attualmente
viene svolta la prestazione.

Il primo passo della task analysis consiste nell’osservazione diretta del lavoratore nella sua attività, con la
possibilità di parlare con lui o videoregistrare una sessione di lavoro.
Vi sono due processi generali che caratterizzano la task analysis:
Il primo processo descrive in maniera ricca la situazione reale di lavoro per cogliere gli obiettivi e le condizioni
di esecuzione: come vengono fatte le azioni e perché; cosa succede prima e dopo le azioni.
Il secondo processo cerca di rappresentare le azioni cercando di cogliere il loro grado di corrispondenza
rispetto al contesto. Si scompongono in maniera gerarchica le attività in componenti sempre più piccole
collegate tra loro da differenti tipi di relazione logica o temporale. In pratica, si parte con una prima
descrizione generale di ciò che sta facendo il lavoratore e attraverso la risposta a domande dirette si cerca di
arrivare a una descrizione più dettagliata.

Il percorso della task analysis segue diversi step: ottenere informazioni accurate per la descrizione,
rappresentarla in modo preciso, mostrare il risultato provvisorio al lavoratore interessato per eventuali
integrazioni e correzioni, usare il risultato finale come input per altre attività connesse (proposte di modifica
del lavoro, di progettazione ecc.).

Le domande utili per la Task Analysis:

Perchè?

COSA SI STA FACENDO Quali azioni


Quali azioni
precedono? (O DEVE ESSERE FATTO) seguono?

Come?

La «Hierarchical Task Analysis» (HTA) è una tecnica classica per la raccolta delle informazioni utili a
descrivere dettagliatamente il lavoro. Essa rappresenta una ulteriore specificazione, infatti si basa sulla
descrizione dei compiti secondo un procedimento di decomposizione degli scopi e dell'attività in sub-
elementi, legati tra loro in modo gerarchico. Arriva a un livello notevole di dettaglio specificando
minuziosamente le sequenze di azioni necessarie per raggiungere gli scopi. Dopo la raccolta delle
informazioni, viene usata una rappresentazione grafica ad albero i cui rami sono costituiti da unità sempre
più piccole. Specifica anche le qualità e gli attributi dei lavoratori che svolgono l'attività.

7.4. Cognitive task analysis


La «Cognitive Task Analysis» (CTA) può essere intesa come un'evoluzione della task analysis stimolata dai
cambiamenti del lavoro. Si riferisce ai processi mentali coinvolti nelle azioni. Essa è indicata quando i compiti
sono complessi mal strutturati, incerti, dinamici, quando coinvolgono decisioni individuali o di gruppo o
richiedono interazioni con tecnologie sofisticate.
La CTA cerca di capire cosa le persone pensano, di quali conoscenze dispongono, come organizzano le
informazioni necessarie per il loro lavoro, come utilizzano le proprie competenze. Descrivere:
a) come sono raccolte le conoscenze e le informazioni rilevanti da parte del lavoratore;
b) come esse sono rappresentate mentalmente;
c) come vengono usate.

38
In particolare, devono essere esplorate:
 la conoscenza dichiarativa (riferita a fatti, oggetti, concetti, principi e regole relativi a un dato ambito e
alle loro relazioni) che viene analizzata mediante tecniche grafiche che rappresentano i legami tra vari
concetti;
 la conoscenza procedurale (come effettuare un certo lavoro, quali passi si devono eseguire e quali
alternative sono disponibili). Comprende anche quei saperi pratici (conoscenza tacita) legati
all'esperienza. L'analisi viene effettuata mediante:
a) interviste retrospettive rispetto al compito effettuato;
b) ricostruendo una mappa concettuale delle azioni e della loro sequenza;
c) mostrando una rappresentazione grafica del compito e delle azioni e facendo domande al lavoratore
per far emergere discrepanze o integrazioni;
d) usando la tecnica del «pensare ad alta voce» mentre si svolge un compito;
e) usando tecniche di analisi del discorso.
 la conoscenza strategica che riguarda il problem solving e i piani di azione, le alternative predisposte in
caso di insuccesso. L'analisi si basa su tecniche di decisione che consistono, ad esempio, nell'intervistare
un lavoratore esperto e far identificare eventi lavorativi che hanno sfidato le sue conoscenze e la sua
expertise e che sono stati risolti.

L'analisi dei tre diversi tipi di conoscenza permetterà di trarre informazioni utili per comprendere meglio la
prestazione) e per definire meglio i requisiti della prestazione e i suoi possibili sostegni.

7.5. Quali sono i prodotti finali dell'analisi del lavoro?


I due prodotti essenziali di un'analisi del lavoro:

Descrizione del lavoro («job description») consiste in un breve report che riporta compiti, metodi di
lavoro, procedure, attrezzature utilizzate, standard di prestazione e responsabilità della posizione lavorativa
analizzata all'interno di una data area di attività. Nella descrizione basata su metodi work-oriented si
accentua la descrizione del task (compiti prescritti) in quella worker-oriented si evidenziano le azioni
lavorative del lavoratore, per inferire le conoscenze e le capacità possedute o necessarie. Si riportano:
 Denominazione e tipo di lavoro.
 Attività e procedure.
 Le condizioni di esecuzione.
 Conoscenze e competenze richieste.
 I risultati del lavoro.

La specificazione del lavoro («person specification») In questo documento si pone attenzione alle
caratteristiche del lavoratore che sono ritenute più importanti per lo svolgimento ottimale del compito e del
ruolo lavorativo. Rappresenta l'esito dell'analisi del lavoro worker-oriented e del competency modeling che
si focalizza su aree di attività e su competenze di ordine generale.
Di solito sono messe in risalto le caratteristiche KSAO:
 job knowledge (K): insieme di informazioni e nozioni (formali-disciplinari, informali-esperienziali)
applicate nell'esecuzione di un compito;
 skills (S): capacità messe in atto nella prestazione mediante gesti, sequenze di azioni, interazioni persone
e macchine ecc.;
 abilities (A): ad esempio, abilità numerica, spaziale, induttiva e deduttiva, di previsione, di analisi, di
sintesi ecc.);
 other characteristics (O): sono altre caratteristiche della persona sottoforma di variabili latenti, inferite
dal comportamento.

Questi quattro insiemi di caratteristiche possono essere specificati soprattutto mediante l'analisi dei singoli
tasks e rappresentano una fonte informativa circa il potenziale di sviluppo della persona, espresso in termini
di competenze e di risorse psicosociali.

39
CAPITOLO 5 – PSICOLOGIA E SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

1. CHE COSA È LA SICUREZZA SUL LAVORO


Secondo le statistiche dell’INAIL, in Italia circa 500.000 infortuni sul lavoro sono denunciati ogni anno, e di
questi, circa 1.000 sono mortali. Ogni giorno, più di 1.300 infortuni e 3 morti bianche.
Incidenti sul lavoro e infortuni costituiscono un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo.
Nel parlare di sicurezza sul lavoro si va a toccare un'ampia gamma di eventi e di comportamenti lavorativi:
condotte imprudenti nell'uso di attrezzatture, singoli episodi isolati che si ripetono con inquietante
frequenza, gravi catastrofi (esplosioni nelle miniere, incidenti aerei ecc).
La sicurezza sul lavoro ha a che fare non solo con la sicurezza dei lavoratori ma anche di utenti, pazienti e
clienti, ad esempio come accade in ambito sanitario, dove l'adozione di adeguati protocolli di
comportamento lavorativo tende a tutelare la salute e la sicurezza dell'operatore, dei pazienti e dei familiari.
Beus, McCord e Lohar suggeriscono che la sicurezza sul lavoro è un attributo delle organizzazioni di lavoro:
vi è sicurezza laddove vi è una bassa probabilità di minaccia fisica, immediata o differita, alle persone, alla
proprietà e all'ambiente, durante lo svolgimento di un'attività di lavoro.

2. ERRORE UMANO E INCIDENTI


7 gennaio 2005. Il treno Interregionale (IR) proveniente da Verona per Bologna, avrebbe dovuto «effettuare
incrocio» A Crevalcore, in località Bolognina con un treno merci proveniente da Bologna. La linea ferroviaria
è infatti a binario unico. I treni invece entrarono in collisione all'ingresso della stazione. L'IR non rispettò un
segnale rosso di fermata in ingresso alla stazione. L'impatto provocò la morte di 17 persone e altre 80
rimasero ferite. Le indagini hanno accertato l'errore umano. Probabilmente a causa della nebbia, il
macchinista dell'IR non ha visto il segnale di stop. Risulta, però semplicistico attribuire le cause di un incidente
così grave alla sola «svista» di una persona. Si possono sottolineare alcune “falle” organizzative che hanno
costituito gli antecedenti causali di questo disastro:
1. Sulla zona gravava una nebbia fittissima con 50 metri di visibilità. In quelle zone è un fattore di rischio ben
noto ma il sistema di segnalazione non è risultato idoneo a far fronte alle condizioni climatiche.
2. Da decenni erano in corso lavori di raddoppio dei binari su quella linea ferroviaria, per cui l'obsolescenza
strutturale ha reso più problematica la gestione della sicurezza sulla linea.
3. Entrambi i convogli erano dotati del sistema di sicurezza di “ripetizione del segnale” (per cui di solito al
passaggio a un semaforo i macchinisti ricevono un impulso da terra al quale devono rispondere per
confermare di aver visto il segnale; in caso di mancata risposta, il treno viene automaticamente fermato).
Ma nella tratta interessata dall'incidente la tecnologia di terra non era stata ancora attivata.
4. La stazione Crevalcore-Bolognina dal 2003 era stata trasformata da stazione passeggeri a semplice posto
di blocco intermedio per l'incrocio dinamico dei treni. Secondo l'ordinanza, tali incroci sono senza dubbio
esposti a un elevato rischio catastrofico in caso di errore umano.
5. L'incrocio tra i due treni non era segnalato sulle “schede treno” dei macchinisti, né sono stati attivati
sistemi informativi supplementari (telefonate a bordo del treno) per allertare il personale sulla presenza
dell'incrocio non programmato.

Se solo uno di questi elementi fosse stato preso debitamente in considerazione, l'incidente non avrebbe
avuto luogo. La sicurezza (o in questo caso la mancata sicurezza) è una combinazione complessa dove
interagiscono fattori strutturali (adeguatezza delle infrastrutture), tecnologici (funzionalità di strumenti di
protezione), gestionali e organizzativi (attenzione manageriale ai fattori di rischio; allocazione del personale;
sistemi di comunicazione) e individuali (comportamento dell'operatore; competenze e abilità; livello di
fatica). È dall'insieme di tali elementi, che può scaturire l'incidente o la catastrofe, anche se molto spesso le
analisi di tipo giornalistico si soffermano solo sull'ultimo elemento: l'errore umano.
Secondo Landy e Conte [2007], il contributo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni allo studio della
sicurezza sul lavoro può essere articolato in diversi approcci.

Quelli di tipo individualistico, che affrontano il problema analizzando il singolo operatore:


 Approccio Ingegneristico-Ergonomico, è finalizzato a prevenire incidenti e comportamenti insicuri
operando su tecnologie e interazione persona-macchina.

40
 Approccio Centrato Sulla Gestione Delle Risorse Umane, prevede interventi mirati a selezionare e
formare le persone in modo da evitare il più possibile condotte insicure.
 Approccio Motivazionale, è diretto a far cambiare atteggiamenti e comportamenti delle persone per
quanto concerne la percezione del rischio e la violazione di norme.

Quelli che sottolineano il ruolo del contesto organizzativo e sociale:


 Approccio Della Cultura Della Sicurezza, considera il ruolo dei leader nel diffondere e far rispettare la
sicurezza nei luoghi di lavoro.
 Approccio Del Clima Di Sicurezza, prende in considerazione il modo in cui le persone percepiscono il
funzionamento collettivo di una organizzazione in rapporto alla sicurezza.

Propensione Individuale agli Incidenti (Accident Proneness)  può essere definita come la tendenza di una
persona a sperimentare più incidenti, rispetto agli altri individui, dovuta a caratteristiche stabili di
personalità. È difficile se non impossibile isolare l'effetto di tratti stabili di personalità o di atteggiamenti
nell'accadimento di eventi complessi come gli incidenti sul lavoro. In tali eventi entrano in gioco fattori di
contesto, fattori situazionali e organizzativi. Da una metanalisi che ha preso in esame il rapporto tra i 5 fattori
di personalità del modello Big Five e comportamenti di sicurezza è risultato che i fattori di coscienziosità e
amicalità sono associati a comportamenti sicuri, mentre nevroticismo ed estroversione risultano debolmente
relati a comportamenti non sicuri.

3. TASSONOMIA DI ERRORI UMANI


Reason e Rasmussen hanno contribuito in modo significativo alla classificazione dei «comportamenti non
sicuri» da parte dell’essere umano che possono condurre a esiti negativi. Il modello di Reason considera
errori e intenzioni come due concetti inscindibili; per cui per capire i primi è necessario cogliere il livello di
intenzionalità degli atti. La tassonomia degli errori si basa su una distinzione generale tra: atti non
intenzionali e atti intenzionali.

3.1. Comportamenti non intenzionali


I comportamenti non intenzionali sono comportamenti che non sono eseguiti seguendo le intenzioni del
soggetto. Si distinguono in due tipi a seconda della loro natura:
1. Sviste o disattenzioni («slips»): l'errore è provocato da azioni che deviano dal loro corso previsto, senza
che l'individuo se ne renda immediatamente conto. L'intenzione è corretta ma l'azione non è congruente
con tale intenzione. Tali sviste avvengono solitamente nello svolgimento di compiti routinari (quando si
mettono in atto dei comportamenti “sopra pensiero” con poca attenzione)
2. Dimenticanze («lapses»): consistono in errori di memorizzazione, di recupero di dati dalla memoria
nell'esecuzione di un compito. Tali errori sono attribuibili ad azioni mancate o a omissioni.
I comportamenti «non sicuri» dovuti ad atti non intenzionali (slips e lapses) sono riferiti solitamente a
malfunzionamento cognitivo e costituiscono dei fallimenti di esecuzione di un compito. Tali atti sono perlopiù
presenti in compiti di tipo routinario, molto familiari e basati sull'uso di competenze elementari e di processi
cognitivi automatici.
Un esempio piuttosto frequente è riferito alle cosiddette dimenticanze dopo una interruzione. Avvengono
quando uno schema di azione viene interrotto (da fattori di disturbo o se l'attenzione è focalizzata su altro)
e risulta poi difficile riprendere lo schema operativo al punto in cui lo si è lasciato.
Anche il sovraccarico di lavoro può essere un importante predittore di disattenzioni e dimenticanze.
Slips e Lapses costituiscono una fonte di errore umano estremamente rischiosa, soprattutto perché sono
imprevedibili e di difficile individuazione.

3.2. Comportamenti intenzionali


I comportamenti intenzionali prevedono una pianificazione da parte dell’agente. Si articolano anch'essi in
due sottocategorie:
1. Sbagli («mistakes»): l'errore è prodotto da un'intenzione errata che genera un'azione anch'essa sbagliata.
La discrepanza si registra tra intenzione originaria e conseguenze del comportamento.
2. Violazioni («violations»): l'errore è provocato da un comportamento deliberatamente adottato non
congruente a istruzioni, norme e codici che spesso causa incidenti. Nei luoghi di lavoro, le violazioni possono

41
riguardare il non completo rispetto delle norme nell'uso di attrezzature meccaniche o il mancato ricorso a
sistemi di protezione. Al di fuori del contesto di lavoro, si assiste nella circolazione del traffico a violazioni di
elementari misure di sicurezza.

Anche gli sbagli (mistakes) hanno alla base un malfunzionamento cognitivo, in questo caso legato al giudizio,
alla scelta e alla pianificazione di determinate azioni. Alla base dell'errore c'è una errata interpretazione del
problema o delle soluzioni adottate per risolverlo.
Gli sbagli a loro volta si articolano in:
- errori riferiti a prestazioni rule-based: si manifestano principalmente nei compiti di problem solving dove
non vengono applicate le adeguate regole di soluzione (es. errata interpretazione di un segnale di allarme
antincendio).
- errori riferiti a prestazioni knowledge-based: sono dovuti a limiti conoscitivi associati al compito e a
circostanze impreviste e non familiari. Avvengono quando le conoscenze e le competenze sono
insufficienti per affrontare il compito. Sono tipici di compiti lavorativi di elevato profilo, dove sono in
gioco le capacità interpretative delle persone coinvolte.

Janis propone una strategia di problem solving che si articola in vari passaggi e che dovrebbe consentire di
contenere tali tipi di errori knowledge-based:
1. formulazione del problema (individuare pericoli da evitare, vantaggi da ottenere, costi tollerabili);
2. uso delle risorse informative (utilizzo di informazioni già possedute; produzione di nuova conoscenza);
3. analisi e riformulazione (riformulazione del problema sulla base delle nuove informazioni; generazione
di opzioni alternative);
4. valutazione e selezione (valutazione delle varie opzioni; in che misura soddisfano i criteri iniziali; scelta
dell'opzione migliore);
5. esecuzione e supervisione (adozione di piani operativi e monitoraggio).
I knowledge-based mistakes non consistono in un fallimento temporaneo del sistema cognitivo, piuttosto
derivano da una deliberata scelta di un corso di azione non sicuro da parte dell'individuo. Sono azioni
intenzionali, consapevoli e finalizzate a un obiettivo.
(es. non utilizzo di sistemi di protezione durante lo svolgimento del lavoro per ridurre i tempi di esecuzione
o per evitare condizioni non confortevoli)

Anche le Violations si distinguono ulteriormente in:


• Violazioni di routine: fanno parte di un repertorio comportamentale abituale della persona e si ripetono
regolarmente. Le violazioni possono essere distinte in funzione dello scopo per cui sono attivate: rispondono
all'esigenza di tagliare i tempi di esecuzione del compito, gestire un sovraccarico di lavoro; rispondono al
bisogno di ottenere una gratificazione psicologica dal lavoro o di voler mostrare bravura e temerarietà;
possono essere la conseguenza della credenza che, poiché le norme sono troppo rigide, seguirle renda
impossibile eseguire il compito;
• Violazioni eccezionali: sono atti intenzionali che si manifestano in occasioni particolari a fronte di
circostanze specifiche.

Reason identifica tre grandi limiti del nostro funzionamento cognitivo che possono essere considerati come
precursori psicologici degli errori (slips, lapses e mistakes):
 Razionalità limitata: riguarda la difficoltà nel trattare la grande mole di informazioni che riceviamo in
modo razionale e consapevole.
 Razionalità imperfetta: sostenuta dalla presenza di numerose scorciatoie nel ragionamento umano ed
errori strutturali nei processi di stima, giudizio e decisione.
 Razionalità riluttante: riguarda la difficoltà a intraprendere elaborazioni di informazioni complesse e per
lunghi periodi di tempo, a condurre il ragionamento analitico.

È difficile intervenire sull'accadimento degli errori umani, tuttavia possono essere prese contromisure di
“protezione” per ridurre il potenziale impatto negativo di tali errori. Questo compito è delegato
principalmente a progettisti, ergonomi e tecnici.

42
4. SICUREZZA COME PRODOTTO ORGANIZZATIVO

4.1. La gestione organizzativa della sicurezza


Con i lavori di Turner [1978] e Perrow [1984], l'attenzione si è spostata sull'influenza di fattori organizzativi
nella dinamica degli incidenti:
 le decisioni
 i sistemi di coordinamento e controllo
 la formazione degli operatori
 i processi di comunicazione, l'integrazione e lo scambio di informazione
 la conoscenza e la sua circolazione all'interno del sistema organizzativo
 le culture della sicurezza

Con la diffusione di un approccio centrato sulla gestione organizzativa della sicurezza si è entrati nella «terza
era della sicurezza».
Nei suoi studi Perrow [1984] sostiene che gli incidenti sono inevitabili in quei sistemi caratterizzati da
interazioni complesse e connessioni strette.
Turner [1978] evidenzia come gli incidenti siano generati dall'incompatibilità tra le assunzioni culturali
dell'organizzazione (come si pensa vadano le cose) e la realtà (come di fatto le cose funzionano).
A partire dal lavoro di questi due studiosi si è andata superando la condanna preventiva verso l’errore umano,
a favore di un'indagine di tipo organizzativo. La fallibilità umana spesso è facilitata da alcuni contesti
organizzativi che comportano degli error-inducing systems (ad esempio scarsa manutenzione).
Anche le violazioni vengono concepite in modo diverso: conformarsi o meno alle regole della sicurezza è il
risultato delle norme implicite della cultura del gruppo di riferimento e del suo modo di concepire il rischio e
la sicurezza.
Queste nuove consapevolezze hanno spostato l'attenzione sulla costruzione sociale della sicurezza: il posto
di lavoro sicuro non è solo un luogo dove non avvengono incidenti ma è un luogo dove diversi gruppi di
individui (dirigenti, supervisori, lavoratori, manutentori, istituzioni) interagiscono creando quotidianamente
una cultura della sicurezza, attraverso: le politiche di gestione dei rischi, i regolamenti e gli accordi
contrattuali, i protocolli di svolgimento di specifiche operazioni.
Un importante ruolo nella cultura di sicurezza è ricoperto dalle organizzazioni sindacali, che da molto tempo
hanno posto la sicurezza al centro delle politiche di tutela dei lavoratori, considerandola come uno degli
aspetti fondamentali della qualità del lavoro su cui costruire l'identità del lavoratore.

4.2. Gli errori latenti e i «near miss»


Reason [2003] sostiene che ogni organizzazione dispone di una serie di difese multistrato costruite per
premunirsi contro gli incidenti: si tratta di barriere successive, ognuna progettata per supportare le altre. In
un mondo ideale, questi strati difensivi sarebbero intatti; nella realtà al contrario, essi sono pieni di «buchi»
(da qui il nome di Swiss Cheese Model).

L'autore afferma che ogni incidente è generato dall'intreccio di:


 errori attivi: sono associati alle prestazioni degli operatori di prima linea, che spesso attivano
materialmente l'incidente; i loro effetti sono immediatamente percepiti e, dunque, i facilmente
individuabili.
 condizioni latenti: sono associate ad attività distanti dal luogo dell'incidente (es. attività manageriali,
normative e organizzative). Le conseguenze degli errori possono rimanere silenti nel sistema anche per
lungo tempo e diventare evidenti solo quando si combinano con altri fattori.

Quando un incidente organizzativo accade, esso ha origine dalla concatenazione di svariati fattori che
nascono dai molti livelli del sistema (istituzionale, organizzativo, professionale, tecnologico, individuale), ai
quali si combina un fattore scatenante locale (di solito un atto non sicuro), apre alla possibilità che i rischi si
insinuino nel sistema.
La possibilità che accada un incidente dipende da una traiettoria di opportunità, che parte dalle decisioni
errate ai livelli gestionali, attraversa tutto il sistema, superando le difese, fino a generare l'incidente.

43
Gli incidenti non sono generati da una singola causa, ma da un insieme di eventi e di fattori scatenanti (di
natura umana, sociale, organizzativa, tecnologica) che, entrando in relazione tra loro e in presenza di deboli
difese del sistema, aumentano la
possibilità dell'accadimento disastroso.

Rispetto agli errori attivi, le condizioni


latenti sono presenti nel sistema prima
dell'evento avverso, e questo implica
che possono essere scoperte e riparate
prima che causino un danno. Non si
possono eliminare le condizioni latenti
nel sistema, perché sono il prodotto
inevitabile di ogni decisione strategica
(di progettazione, manutenzione,
comunicazione, selezione, formazione),
però si può renderle visibili a coloro che
operano nelle organizzazioni, affinché le
più pericolose di esse possano essere
corrette.

Near Miss  è un evento che avrebbe potuto avere conseguenze dannose, ma che non si è concretizzato in
un incidente. Esso costituisce una opportunità per l'organizzazione ed è molto utile perché:
1. se si traggono le giuste conclusioni e si agisce di conseguenza, questi quasi-incidenti possono funzionare
protezione per mobilitare le difese del sistema in futuro.
2. i quasi-incidenti forniscono informazioni qualitative su come i piccoli fallimenti difensivi possono poi
creare incidenti più grandi;
3. sfruttando la loro numerosa presenza rispetto agli incidenti concreti, è possibile fare un'analisi
quantitativa e qualitativa più approfondita;
4. forniscono un promemoria dei rischi che il sistema deve affrontare.

5. IL CLIMA DI SICUREZZA
clima di sicurezza  questa nozione deriva da quella di clima organizzativo, che indica le percezioni condivise
tra i membri di una organizzazione riguardo gli aspetti dell'ambiente sociale (es. qualità della comunicazione;
modalità di regolazione dei conflitti) e tali percezioni servono da schemi di riferimento per guidare i
comportamenti di ruolo.
Il clima di sicurezza riguarda un sistema specifico di percezioni riferite al modo in cui nell'organizzazione si
guarda alla sicurezza; esso fornisce al lavoratore informazioni su quali sono le priorità dell'organizzazione,
per cui il lavoratore deduce quali condotte saranno premiate e quali invece sanzionate.
Esso costituisce una dimensione soggettiva, proprio perché è il prodotto di una interpretazione del contesto
da parte del lavoratore. Secondo Weick, si parla della costruzione sociale di un clima di sicurezza, grazie al
contributo dei vari gruppi e comunità di lavoro.
Organizzazioni con climi di sicurezza più positivi tendono a promuovere comportamenti più sicuri.
Zohar e Luria caratterizzano il clima di sicurezza su diversi livelli di analisi:
Livello organizzativo formale: il clima di sicurezza si costruisce mediante l'adozione di politiche di sicurezza
e procedure, attraverso atti formali e disposizioni ufficiali.
Livello di analisi di gruppo: considera le pratiche concrete e l'esecuzione dei compiti da parte dei gruppi di
lavoro. Il tutto è definito da un sistema di regole tacitamente condivise tra i membri del gruppo e i supervisori.
Acquista molta importanza, infatti, la qualità delle comunicazioni tra leader e subordinati.
Degli stili di direzione trasformazionali, aperti, basati su un'intensa comunicazione interna relativa alla
sicurezza e che valorizzano il contributo dei membri, favoriscono un clima di sicurezza positivo più di stili di
direzione correttivi basati sul controllo e il monitoraggio, l'individuazione degli errori e dei “colpevoli”.

44
La ricerca ha proposto diverse dimensioni per studiare la percezione da parte dei lavoratori del clima di
sicurezza in una organizzazione:
1. Atteggiamenti della direzione aziendale verso la sicurezza
2. Pratiche di gestione delle risorse umane
3. Livello di rischio nei vari compiti lavorativi
4. Sostegno dei supervisori
5. Processi interni al gruppo di lavoro
6. Relazioni tra gruppi
7. Pressione e ritmi di lavoro

6. LA PRESTAZIONE SICURA: INDICAZIONI DALLE RICERCHE


La ricerca empirica può contribuire all'individuazione di nuove linee di intervento nell’ambito della sicurezza
lavorativa. L’attenzione delle ricerche è focalizzata sull'analisi di un modello in cui è centrale la nozione di
“prestazione sicura”. Essa fa riferimento a: azioni e comportamenti degli individui durante lo svolgimento
del proprio compito, che sono finalizzati a promuovere sicurezza e benessere dei lavoratori, dei clienti, del
pubblico e dell'ambiente, allo scopo di ridurre la probabilità che si verifichino incidenti e infortuni.
Essa comprende: una serie di attività individuali (safety compliance) riferite all'osservanza di norme,
procedure e uso di misure protettive; una serie di comportamenti organizzativi (safety participation)
finalizzati a migliorare le condizioni di sicurezza quali la comunicazione e segnalazione di rischi.

La prestazione sicura può essere prevista sulla base di alcuni antecedenti prossimali:
 motivazione alla sicurezza: quanto una persona si impegna a garantire standard di sicurezza e quale
valenza è associata al comportamento sicuro;
 conoscenza relativa ai temi della sicurezza: conoscenze riferite ai rischi, alle procedure, alle norme.
Ma anche sulla base di alcuni antecedenti distali:
 fattori legati all'ambiente di lavoro, sia di tipo strutturale sia di carattere psicosociale;
 fattori di carattere individuale: caratteristiche di personalità (es. coscienziosità della persona) e gli
atteggiamenti verso il lavoro e la sicurezza.

Antecedenti della prestazione sicura:


 l'importanza del clima di sicurezza nel favorire una migliore conoscenza sulle questioni relative alla
sicurezza in uno specifico ambiente di lavoro e nell'incrementare la motivazione verso comportamenti
sicuri;
 il contributo di aspetti individuali nel determinare il comportamento sicuro;
 il ruolo importante di conoscenze e motivazione nel favorire la prestazione sicura;
 la prestazione sicura costituisce un predittore di incidenti e infortuni (più i comportamenti al lavoro sono
attenti alla promozione della sicurezza e al rispetto delle norme, meno eventi negativi si registrano)

Tali risultati mostrano che investimenti nella formazione per aumentare la sensibilità in tema di sicurezza
possono avere delle rilevanti ricadute sui comportamenti di sicurezza di tutta l’organizzazione.
Il ruolo della motivazione alla
sicurezza diventa fondamentale: se la
persona è motivata verso la sicurezza
e tutto ciò che concerne, di
conseguenza attuerà un minor
numero di violazioni e sarà più attenta
nell'individuare misure di prevenzione
e nell'assumersi responsabilità
organizzative sulle questioni connesse
alla sicurezza.

45
CAPITOLO 6 - COSTI E RICAVI DEL LAVORO

1. GLI ESITI DEL LAVORARE


L'esperienza lavorativa può comportare due modalità di esiti: un esito desiderato (es. la soddisfazione) e un
esito negativo (es. lo stress lavorativo). Queste variabili sono spesso intrecciate tra loro e soprattutto
retroagiscono, si correlano o assumono una vera e propria funzione causale di cambiamento o di interferenza
nell'esperienza concreta e nella regolazione delle condotte del lavoratore.
Il lavoro concreto ha una «doppia faccia»: offre opportunità alla persona di soddisfare i propri desideri e
aspettative, ma presenta in molti casi notevoli prezzi da pagare.

2. SODDISFAZIONE LAVORATIVA
La soddisfazione lavorativa comporta un atteggiamento favorevole verso il lavoro che si esplica attraverso la
componente emozionale (vissuto generale di appagamento, emozioni piacevoli per il lavoro svolto) e la sua
componente cognitiva (giudizio favorevole sul bilancio tra costi e ricavi dell'attività svolta).
Il concetto di soddisfazione lavorativa è considerato da molto tempo uno degli esiti lavorativi più ricercati dal
lavoratore. È capace di influenzare numerose condotte lavorative, tant’è che è stato usato spesso per
riconoscere aspetti qualitativi dell'esperienza lavorativa partendo da presupposti teorici differenti.
• Modelli di discrepanza in questo caso la soddisfazione lavorativa deriva dalla mancanza di discrepanze
tra le percezioni del lavoro svolto e stati psicologici come valori e aspettative. Si tratta del raggiungimento
più o meno completo delle attese derivanti dalle motivazioni intrinseche o estrinseche per cui si lavora o
dall'equilibrio tra investimenti fatti e ricavi ottenuti.
• Modelli disposizionali e di personalità le differenze individuali nella soddisfazione lavorativa hanno una
base di partenza di pari condizioni lavorative, per cui sono connesse a caratteristiche individuali della persona
(autoefficacia, capacità di tollerare lo stress ecc.).
Da un lato abbiamo la soddisfazione del lavoro generata da un’elevata self-efficacy, dall’altro lato l'affettività
negativa è rilevante nel far percepire l'esperienza lavorativa come poco soddisfacente.
Le persone con elevata affettività negativa sono più pessimisti riguardo l’attività lavorativa: tendono a
sovrastimare gli elementi di minacciosità ambientale, a percepire in maniera negativa le richieste e le varie
circostanze lavorative, a provare preoccupazione e ansia, a vivere stati di tensione e stress.
• Modelli situazionali le caratteristiche della situazione lavorativa (e in particolare le varie componenti del
lavoro) possono influenzare la soddisfazione.
Ad esempio il Job Characteristic Model di Hackman e Oldham [1976] basa le motivazioni al lavoro sulla
relazione tra la persona e cinque tipi di caratteristiche di un lavoro ben progettato e perciò attraente e
motivante: la varietà, il grado di autonomia, lo svolgere attività significative, dotate di un'identità e il
feedback ricevuto per quanto viene effettuato.
• Altri aspetti situazionali come il reddito, la sicurezza, la stabilità del posto e la qualità delle condizioni
fisico-ambientali.

2.1. Soddisfazione e reddito


Nel rapporto di lavoro gioca un ruolo centrale la contropartita materiale offerta dall'organizzazione: la
retribuzione concreta espressa in forma diretta (lo stipendio) o indiretta (promozioni, modalità
pensionistiche e assicurative, benefici collettivi aziendali).
La condizione lavorativa e i lavori possono essere classificati secondo un continuum bipolare di possibili ricavi
positivi (good job) e negativi (bad job) per la soddisfazione e il benessere.
Il sistema premiante dell’organizzazione opera con l'obiettivo di attrarre l'ingresso e rafforzare la presenza
attiva sul lavoro delle persone, oltre a sostenere la loro produttività, incentivare la loro appartenenza
organizzativa, ridurre le occasioni di uscita precoce alla ricerca di alternative ecc.
Un aumento delle ricompense migliora le condizioni di vita, gli stili di consumo, la gestione del tempo libero,
il prestigio sociale, mentre se la distribuzione di tali ricompense non rispetta i criteri di equità, il livello di
soddisfazione lavorativa diminuisce.

46
2.2. Soddisfazione lavorativa e prestazione
La soddisfazione lavorativa viene spesso analizzata come possibile antecedente di condotte lavorative
efficaci. Si sono osservati legami diretti di comportamenti altruistici con la riduzione dei tassi di assenteismo
e di turnover; legami tra comportamenti anomali e controproducenti ridotti dal livello di soddisfazione; il
rapporto tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione in generale per la vita; In particolare è stato studiato il
legame tra soddisfazione lavorativa e produttività.
In particolare è molto discussa l'idea che “se una persona è soddisfatta lavora meglio e di più”, le cui verifiche
empiriche non sono unanimi.
Judge e colleghi, nella loro metanalisi, trovano una correlazione assai modesta tra soddisfazione e
produttività lavorativa, ed essa tende a crescere fino a 0,30-0,50 quando il lavoro è più ricco e complesso. La
ricerca di Zelenski, Murphy e Jenkins invece conferma l’ipotesi: sulla base di misure multiple della happiness
(soddisfazione per la vita e per singoli aspetti del lavoro, affettività positiva) e su un disegno di ricerca in parte
longitudinale, essa dimostra maggiore produttività sia analizzando i lavoratori con alti punteggi di felicità, sia
evidenziando che le persone con maggiore produttività operano in una condizione di maggiore soddisfazione
e mostrano più alta affettività positiva.
Nello specifico, si è osservato che questa relazione è influenzata da numerosi fattori: i mezzi, le condizioni di
lavoro e gli scopi dell'attività, minore pressione a ottenere elevati rendimenti, volontà e competenza del
lavoratore determinanti nel lavoro, opportuni riconoscimenti sociali ecc.

2.3. Emozioni lavorative e soddisfazione


Spesso lo stato dell'umore e le emozioni vissute dal lavoratore sono in relazione con la soddisfazione
lavorativa, essi sono considerati predittori della soddisfazione globale.
Nella distinzione tra emozioni positive e negative ci si preoccupa spesso degli effetti disfunzionali di quelle
negative sugli atteggiamenti o sui comportamenti, in realtà sia le emozioni positive che negative svolgono
una funzione adattiva.

Ad esempio: un'emozione negativa come la rabbia può indurre comportamenti impulsivi inopportuni, ma
un'altra emozione altrettanto negativa come la paura può invece facilitare atteggiamenti e condotte più
attente di fronte a un potenziale rischio lavorativo.
Inoltre, si è osservato che stati di umore negativo (es. un modesto grado di scetticismo) con molta probabilità
rendono la persona più puntigliosa nel cercare soluzioni non routinarie, meno suscettibile ad essere
influenzata da chi vorrebbe persuaderla di qualcosa di cui non è convinta.

Un ambito particolarmente importante riguarda la gestione delle emozioni. Nella regolazione delle
emozioni, il soggetto mette in atto un lavoro emotivo allo scopo di corrispondere alle attese, regole e
prescrizioni emotive tipiche dell'organizzazione in cui lavora.
Ci sono due principali strategie di gestione:
 strategie superficiali («surface acting»)  attraverso le quali si cerca di cambiare l’espressione delle
emozioni senza cercare di modificare ciò che si prova veramente. In alcuni tipi di lavoro (servizi educativi,
sanitari, front-office) il modo in cui si manifestano le emozioni risponde a regole precise (disponibilità,
affabilità, cortesia, sorriso ecc.) e il lavoratore che si adatta a tali regole dovrà esprimerle all'esterno
anche quando non le sente veramente proprie, andando a mascherare il suo vero stato emotivo.
 strategie più profonde («deep acting»)  richiedono che il lavoratore controlli e modifichi il suo stato
emotivo per renderlo coerente con le attese e poi lo esprima nella forma desiderata.
In entrambi i casi (simulazione o cambiamento) è richiesto un impegno aggiuntivo da parte del lavoratore,
dunque è prevedibile un aumento della fatica emotiva.

Esiste anche una terza strategia più spontanea che consiste nel provare effettivamente le emozioni attese
e quindi non sono richiesti particolari sforzi di aggiustamento.

3. «ENGAGEMENT»
Il termine «engagement» è un importante fattore positivo per l'esperienza lavorativa, contiguo a quello di
soddisfazione. Sono state individuate tre differenti prospettive che definiscono l'engagement come:

47
1. un set di risorse motivazionali collegate alle altre risorse personali dell’individuo, che sono funzionali sia
al raggiungimento dei risultati concreti sia allo sviluppo professionale;
2. uno stato psicologico durevole, strettamente connesso con l'esperienza di emozioni positive. Il lavoratore
sente un forte interesse per il suo ruolo lavorativo e opera in modo tale da superare gli standard normali di
impegno e di prestazione; prova inoltre un senso di forte coinvolgimento personale con la sua organizzazione,
ricavandone ispirazione, sentimenti di autoaffermazione e soddisfazione emotiva;
3. un positivo e appagante stato di benessere che si esprime attraverso il lavoro ben svolto.

Kahn [1990] definisce l'engagement come l'opportunità di ricavare energie per la costruzione del Sé
direttamente dal legame con il ruolo lavorativo. Con l'engagement la persona esprime se stessa sul piano
fisico, mentale, emozionale nel lavoro che fa e lo sforzo e l'impegno attuati si giustificano proprio perché la
persona si identifica con il suo lavoro. L'engagement esprime una piena presenza psicologica sul lavoro, che
consiste nel sentirsi coinvolti, attenti, connessi e integrati con le attese del ruolo lavorativo.

Nell'engagement si ritrovano le due dimensioni principali di energia e di identificazione con il lavoro. Macey
e Schneider [2008] propongono una distinzione tra diversi tipi di engagement:
trait engagement in riferimento alla personalità proattiva;
state engagement  per intendere l'involvement;
engagement comportamentale per considerare i comportamenti di cittadinanza organizzativa
(comportamenti altruistici non legati esplicitamente al ruolo lavorativo).

3.1. Come si presentano i lavoratori engaged?


 mostrano alti livelli di energia
 entusiasti del loro lavoro
 così immersi nel lavoro che non si rendono conto del tempo che passa
 profondamente legati al loro lavoro anche sul piano affettivo
 percepiscono il loro ruolo come assai impegnativo, cioè come fosse una sfida significativa da vincere.

Queste caratteristiche potrebbero far pensare ad una possibile sovrapposizione dell'engagement con il
«workaholism» (ovvero una condotta lavorativa atipica, connotata negativamente che si esprime in un
esagerato sforzo e impegno nell'attività lavorativa). In realtà, nell'engagement le persone lavorano molto
perché amano il loro lavoro e non perché sono spinti da forze interne alle quali non sanno resistere. Inoltre,
la loro situazione è esagerata al punto da mettere a rischio il proprio benessere e le relazioni interpersonali.

3.2. Da cosa dipende l'engagement?


 Fattori di contesto: tutti gli aspetti fisici, tecnici, sociali e organizzativi del lavoro che riducono la
pressione e il costo psicologico delle richieste lavorative, e sono visti come opportunità e risorse. Tali
aspetti funzionano come fattori di motivazione sia intrinseca sia estrinseca in quanto costituiscono
strumenti per ottenere più facilmente i risultati lavorativi attesi.
 Caratteristiche personali: presenza di risorse personali e esperienza sistematica di emozioni positive. Si
è vista l'importanza di valutazioni positive su di sé come:
- percezione di autoefficacia  poter riuscire nei compiti e controllare le difficoltà;
- resilienza insieme di fattori protettivi che esprimono la capacità di affrontare attivamente e
positivamente condizioni stressanti odierni e futuri;
- stima di sé;
- ottimismo tendenza affettiva a vedere la realtà come positiva e ad aspettarsi in ogni caso risultati
positivi.

3.3. Conseguenze dell'engagement


La condizione di engagement è considerata come un fattore che produce esiti positivi a livello individuale e
organizzativo. Essa è correlata positivamente con il miglioramento delle prestazioni di ruolo, con la bassa
intenzione di lasciare il lavoro, con l'erogazione di servizi di qualità ecc. Il miglioramento dei risultati lavorativi
si ottiene perchè i lavoratori engaged sperimentano più facilmente emozioni positive, vivono una condizione
di benessere psicofisico, creano relazioni supportanti e diffondono agli altri il loro entusiasmo migliorando

48
così il clima di lavoro. Questi aspetti hanno una funzione motivante e rendono possibile un pieno utilizzo
delle capacità e conoscenze applicabili ai compiti lavorativi e un'efficace risposta alle richieste situazionali.

4. FATICA FISICA, MENTALE ED EMOTIVA

4.1. Definizioni
I lavoratori sono da sempre soggetti a varie forme di fatica (fisica, mentale ed emozionale) in relazione a:
- tipo e quantità di richieste lavorative
- tempi e ritmi di lavoro
- scadenze assegnate
- condizioni fisiche, tecniche e organizzative

 La Fatica Fisica è di tipo muscolare ed è connessa con richieste lavorative di carattere psicomotorio.
Dipende dal consumo delle riserve di energia, con necessità di reintegrazione mediante il riposo e il sonno
(«serbatoio di energie») per ristorare e riportare alla condizione ottimale la persona. Quando tale
serbatoio non può assicurare il ristoro si parla di fatica cronica o patologica. La fatica fisica è tipica, ma
non esclusiva, del lavoro prevalentemente manuale.
 La Fatica Mentale è definita come un processo che conduce al decremento della performance e alla
modifica dello stato emotivo della persona. Si presenta in risposta a richieste di natura cognitiva, emotiva
e relazionale, che implicano un sovraccarico di lavoro.
 La Fatica Emotiva è collegata al lavoro emotivo e alle situazioni che comportano un'intensa attività di
relazione con le persone e di adattamento psicosociale come nei casi di forte cambiamento organizzativo,
di downsizing, di conflitto interpersonale e di gruppo. Il lavoratore ha la percezione di essere svuotato di
energie dalle crescenti richieste emozionali degli altri e di percepire il sentimento di esaurimento che
comporta il sovraccarico emozionale.

La fatica è un fenomeno complesso che coinvolge profondamente l'organismo umano determinando


variazioni negli apparati muscolari, endocrini, metabolici, sensoriali e mentali. Essa ha anche una funzione
adattiva, in quanto rappresenta un segnale di allerta che diviene funzionale al benessere del lavoratore,
proprio perché lo spinge a fare una pausa e a non fissarsi sull'attività assegnata oltre un livello
potenzialmente dannoso.

4.2. Criteri differenziali

In ogni caso di fatica descritto sopra, soprattutto nella fatica mentale, vanno considerate due caratteristiche
tipiche:
1. un decremento delle capacità di lavoro e delle prestazioni lavorative;

49
2. un'esperienza soggettiva di disagio e avversione per l'attività, una tendenza a ridurre la spinta a continuare
il lavoro e a cercare il riposo; un insieme di sentimenti della persona (sentirsi stanchi, esauriti, esausti) che
sono da considerare nella distinzione tra fatica mentale e altre esperienze negative del lavoratore come la
noia (espressione della monotonia lavorativa) o la saturazione (sensazione di apatia).

4.3. Effetti della fatica


Lo stato di fatica fisica risulta temporaneo e reversibile. Si ritorna a una condizione normale attraverso dei
cambiamenti delle richieste lavorative/stimoli ambientali e, soprattutto, usufruendo di pause lavorative, del
riposo e del sonno.
La fatica mentale è in genere una conseguenza dello svolgimento di compiti con elevato livello di difficoltà
che coinvolgono i processi cognitivi di ricezione ed elaborazione dell'informazione per un periodo prolungato
di tempo. Si valuta con questionari, scale di self-assessment, elettroencefalogramma. Comporta addirittura
cambiamenti del tracciato EEG.
A differenza delle situazioni di noia e monotonia, il recupero dei decrementi della prestazione non è
immediato, richiede tempo anche se si cambiano le condizioni di lavoro e i compiti.
La fatica mentale si esprime mediante l'interferenza su vari subsistemi cognitivi:
- la percezione, riduzione dei movimenti oculari, della discriminazione dei segnali, della soglia percettiva;
- l'elaborazione dell'informazione, allungamento dei tempi di reazione e di decisione, incertezza

decisionale, aumento della disattenzione, adozione di strategie di risposta rischiose;


- la memoria, difficile memorizzazione, difetti nel richiamo delle informazioni presenti nella memoria a
breve termine, disturbi nei processi di ricerca delle informazioni.
Il decremento delle prestazioni si determina solo se non esiste la possibilità di compensare in qualche modo
la carenza.

4.4. Noia e saturazione lavorativa


Secondo Thackray la NOIA è una condizione vicina alla fatica mentale, caratterizzata dalla percezione di stare
in un contesto povero di stimoli, con attività ripetitive e con cicli temporali di lavoro brevi, che si susseguono
senza sosta.
Caratteristiche di questa condizione: uno stato attentivo insoddisfacente, bassa attivazione psicofisica, con
tratti di tristezza, vissuti di solitudine e facile distraibilità, mancanza di interesse e attrattiva per quello che si
fa, difficoltà di concentrazione sui compiti (sono percepiti come richiedenti sforzi esagerati e poco in sintonia
con le proprie aspettative).
Il lavoratore annoiato: lavora poco, si ritira dall'impegno, compie errori nella prestazione, ha un’alta
probabilità di provocare incidenti e infortuni.
Compiti troppo semplici, ripetitivi, poco stimolanti hanno maggiore probabilità di essere fonte di noia, anche
se molto dipende da come essi vengono percepiti e interpretati dalla persona e dalle implicazioni emotive
che essi determinano.
Sono state considerate alcune differenze individuali nell'esperienza di noia: alcune persone necessitano di
maggiori stimoli (gli estroversi) per mantenere il loro livello di attivazione e dunque vanno più facilmente
incontro a esperienze di noia.
Si è considerata, inoltre, la cosiddetta suscettibilità o predisposizione alla noia.
Oltre alla riduzione dell'efficienza e della produttività, la noia è collegata all'insoddisfazione, all'aumento di
manifestazioni ansioso-depressive e alla riduzione del benessere individuale.
L'esperienza di noia giustifica anche condotte disfunzionali e controproducenti per cercare di ristorarsi come,
ad esempio, usare internet in ufficio per proprio divertimento o perdere tempo coi colleghi con chiacchiere
durante il lavoro, fino ad arrivare a condotte più gravi come i “comportamenti di ritirata”, come assentarsi,
arrivare in ritardo, commettere atti di vandalismo o sabotaggio.

Ci sono molti tipi di lavoro che si caratterizzano per la ripetitività delle mansioni e dei compiti specifici: in
questo caso ci si sente stanchi, sazi del lavoro che si fa, quasi nauseati. A questo proposito si parla di
SATURAZIONE o sazietà lavorativa (mental satiation, Mojzische Schulz-Hardt).
Essa è una conseguenza di un lavoro ripetitivo, monotono e con scarse valenze affettive che si esprime con
vissuti emotivi di apatia, irritabilità e avversione per i compiti. Si ipotizza che entrino in gioco due tipi di

50
processi: il primo di natura motivazionale (perdita della motivazione intrinseca ad agire), il secondo di natura
volitiva (mancanza di volontà di agire) con sentimenti di avversione per i compiti e irritabilità.

4.5. Linee di prevenzione della fatica mentale


Le prospettive di correzione e di prevenzione del rischio di eccessiva fatica si basano su una valida
progettazione (o riprogettazione) del lavoro. Le linee di intervento riguardano:
- il design dei posti e della struttura dei compiti,
- il miglioramento della compatibilità tra richieste lavorative e capacità cognitive e competenze della
persona;
- il miglioramento del coordinamento tra attività;
- il miglioramento nella distribuzione delle pause durante la giornata lavorativa;
- la predisposizione di programmi per migliorare il rilassamento e facilitare l'efficacia del riposo e del sonno
quando il lavoratore è a casa.

5. LO STRESS LAVORATIVO

5.1. Esigenze di affrontare il problema dello stress


Lo stress lavorativo è un fenomeno preoccupante: è diffuso sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di
sviluppo; è presente nei diversi settori lavorativi e coinvolge le più svariate categorie professionali; influenza
la vita privata dei lavoratori, la famiglia, le responsabilità civiche e i differenti contesti di vita.
Da molti anni le istituzioni ribadiscono l'esigenza di prevenire i tradizionali rischi lavorativi fisici e ambientali,
e si focalizzano sui nuovi rischi legati alle trasformazioni del lavoro.
Tra i rischi lavorativi di natura prevalentemente psicosociale sono indicati: lo stress, la depressione, l'ansia,
vari tipi di dipendenza, la violenza sul lavoro, le molestie e le intimidazioni.
In Europa sono stati presi in carico provvedimenti normativi e organizzativi sul tema generale del benessere
psicosociale sul lavoro. È stato siglato nel 2004 un importante accordo tra sindacati dei lavoratori e
associazioni di categoria dei datori di lavoro sul tema dello stress, della sua valutazione e degli interventi
migliorativi che sono alla base delle normative dei singoli paesi.

5.2. Definizioni
Lo STRESS è un processo complesso che comincia con le richieste poste alla persona dal lavoro e procede
attraverso vari tipi di valutazione percettiva di tali richieste. Tali valutazioni soggettive sono connesse con
varie risposte di adattamento fisico-biologico, psicologico e comportamentale, coinvolgendo l'intera persona
e i suoi vissuti esperienziali. Se l'adattamento non ristabilisce l'equilibrio minacciato o si hanno risposte
disadattive rispetto all'eccesso di richieste lavorative, si possono determinare conseguenze negative (a breve
e lungo termine) anche gravi per la persona.

Gli studi più recenti recuperano un aspetto positivo dell'esperienza di stress (Selye la chiama «eustress» o
stress positivo, contrapposto a quello di «distress»). In realtà i diversi fattori di stress possono attivare
emozioni che la persona può interpretare come negative o positive in relazione alle proprie credenze.
Tali fattori possono essere percepiti come sfide stimolanti. La possibilità di vedere lo stress come opportunità
spinge a coltivare con cura le differenti risorse personali e situazionali utili per il buon funzionamento della
persona (es. strategie di coping).

Il termine, nella sua etimologia, richiama sia l'azione di sottoporre qualcuno o qualcosa a una pressione sia
l'esito finale subìto o tollerato della pressione stessa.
Si utilizza il doppio significato del termine in questo modo:
a) stress (o processo di stress)  per denominare un processo articolato che chiama in causa stimoli,
modalità di elaborazione della persona ed esiti, immediati o a più lungo termine;
b) stressors  per indicare eventi o fattori di richiesta che l'individuo incontra nella sua esperienza e che,
a certe condizioni, possono attivare il processo di stress;
c) strain  per categorizzare le reazioni fisiologiche, psicologiche e comportamentali adottate dalla
persona nel breve o lungo periodo;

51
d) coping strategies  per indicare un insieme di sforzi e capacità di risposta strategica per far fronte,
ridurre o tollerare le richieste attivate da un'interazione persona-ambiente percepita come stressante;
e) stress outcomes  per definire le conseguenze dello strain sia a livello individuale che organizzativo e
sociale.

In ambito scientifico si considerano tre orientamenti definitori:


1. quelli che si focalizzano soprattutto sulle fonti di stress (richieste, eventi e agenti stressanti o stressors);
2. quelli che si soffermano soprattutto sulle risposte allo stress (es. reazioni fisiologiche, psicologiche);
3. quelli che si propongono di analizzare l'interazione tra persona e ambiente.
Gli approcci teorici che si rifanno alle prime due definizioni sono i più antichi ed eccessivamente semplificati:
la persona è concepita come recettore passivo e sottovalutando tutto il resto.
Il terzo orientamento, cerca di comprendere le dinamiche dell’interazione dei fattori in gioco: sostiene che
lo stress e i suoi effetti non risiedono solo nell'individuo o solo nell'ambiente lavorativo, ma nella forma
assunta dall'interazione tra queste due componenti.

Il modello domanda-controllo di Karasek [«Job Demands-Control Model» 1979] prevede che la relazione
tra richiesta lavorativa e possibilità di controllo (possibilità decisionale) possa determinare l'avvio del
processo di stress in grado di determinare lo strain lavorativo anche di tipo cronico.
Quattro tipi di esperienza psicosociale di lavoro:
- lavori ad alto strain (alta domanda e basso controllo);
- lavori a basso strain (bassa domanda e alto controllo);
- lavori attivi (alta domanda e alto controllo);
- lavori passivi (bassa domanda e basso controllo).

La situazione ritenuta più negativa è quella in cui all'elevata domanda lavorativa corrisponde una scarsa
discrezionalità e possibilità decisionale. Il modello è stato successivamente arricchito con l'introduzione di
una terza dimensione: il sostegno sociale (si parla in questo caso di «Demand-Control-Support Model»), che
è valido come aiuto in caso di difficoltà (sostegno strumentale) e come condivisione dei vissuti emotivi
(sostegno socioemotivo); svolge una funzione di moderazione dell'impatto negativo delle richieste lavorative
sulla persona, soprattutto nella condizione dei lavori ad alto strain.

Il modello Effort/Reward Imbalance sostiene che non sono solo gli sforzi per rispondere alle richieste
lavorative che portano allo strain, ma che sia
fondamentale la percezione di squilibrio tra sforzi e
ricompense. In particolare, lo sforzo elevato associato
a basse ricompense rappresenta un rischio per il
benessere soggettivo e una serie di conseguenze di
strain fino al burnout.
Questo funziona anche come moderatore della
relazione tra sforzo-ricompense ed esiti finali (livello
di benessere), agendo sia sui costi (sottostimandoli)
sia sui ricavi (sovrastimandoli). In tal caso si maschera
almeno temporaneamente una situazione di
squilibrio costi-ricavi che può in seguito condurre a
gravi effetti di strain.

5.3. Fattori di stress


Gli stressors lavorativi sono i fattori dello stress ambientale, espressi sotto forma di: richieste e carico di
lavoro per l'individuo, elementi di minaccia per l'equilibrio dei suoi rapporti con l'ambiente, eventi che
mettono alla prova le capacità di tolleranza individuale.
In genere, si presta attenzione sia al contenuto del lavoro sia al contesto ove si svolge il lavoro stesso.
Negli studi sugli stressors Cooper, Dewe e O'Driscoll [2001] hanno analizzato in una prima fase le cause
riferibili all'ambiente fisico e al job; successivamente, l'attenzione si è spostata sui fattori connessi ai ruoli
organizzativi. Da questo momento, con le trasformazioni del lavoro, del mercato occupazionale e delle regole

52
lavorative ci si è focalizzati anche su stressors di carattere trasversale  la carriera lavorativa e organizzativa
(instabile o bloccata), le connessioni tra contesti lavorativi ed extralavorativi e la «job insecurity» (percezioni
di incertezza occupazionale e di precarietà).

Koslowsky [1998] propone una classificazione per livello dei vari stressor lavorativi:

STRESSORS INDIVIDUALI
1. «stressors» soggettivamente percepiti  riguardano:
- la percezione di una situazione stressante senza tener conto di una eventuale corrispondenza con
specifici attributi oggettivi della situazione stessa (lo stressor effettivo è dato da una valutazione
soggettiva globale del tipo «questa situazione è per me stressante»);
- la percezione di inadeguatezza dei compensi monetari;
- la percezione di ostilità dell'ambiente.
2. «stressors» connessi a caratteristiche oggettive dell'occupazione  Ci si riferisce:
- alle modalità di impiego (con percezioni di più probabile strain per gli impieghi part-time o di tipo
precario);
- al tipo di occupazione;
- al tempo impiegato per recarsi al lavoro;
- ai frequenti viaggi per ragioni di lavoro;
- a due speciali life events tipici dell'esperienza lavorativa: il cambiamento di lavoro e il pensionamento
(percezione dei possibili effetti negativi sull'identità personale).
3. i job stressors in senso stretto  si riferisce a ciò che è più vicino allo spazio psicologico della persona e
viene percepito come capace di influenzare le sue condotte lavorative. Pertanto si riferisce:
- alle richieste del compito valutando se esse eccedano la possibilità di un adattamento o siano troppo
dispendiose o troppo carenti rispetto alle proprie risorse;
- alle pressioni di ruolo, sottolineando i rischi derivanti dalla scarsa disponibilità di informazioni per
operare (fonte dell'ambiguità di ruolo), dalla presenza di richieste e aspettative in contrasto con i valori
e le attese individuali (origine principale del conflitto di ruolo), dall'incapacità di utilizzare in modo
soddisfacente le risorse del lavoratore (insufficienza di ruolo);
- all'assunzione di responsabilità nei confronti di persone, intesa come costo potenziale per le complesse
decisioni da prendere nei confronti dei subordinati;
- alle relazioni con i superiori, se sono non eque, ingiuste o scorrette;
- ai ritmi di lavoro sproporzionati rispetto ai tempi di esecuzione di un compito;
- al sovraccarico mentale;
- al sottocarico mentale e alla monotonia;
- alle possibilità di autonomia decisionale e di controllo sul proprio lavoro quotidiano e sulle modalità per
fronteggiare eventuali imprevisti.

STRESSORS DI GRUPPO E ORGANIZZATIVI


Sono da considerare:
 sia le influenze dirette sia quelle indirette che partono dal contesto sociale e culturale,
dall'organizzazione, dal gruppo di lavoro fino al singolo individuo. Cox, Griffiths e Rial-Gonzales [2000]
sottolineano che spesso lavorare in una organizzazione può essere percepito dal lavoratore come una
costrizione e una minaccia ai propri progetti e alla propria identità personale e sociale. L'organizzazione
ha quindi un’influenza indiretta sullo stress che si aggiunge a quella diretta, esercitata attraverso i compiti
e i ruoli assegnati.
 gli effetti negativi del clima relazionale e di rapporti interpersonali scadenti e anche dello scarso sostegno
sociale.
 i cambiamenti tecnologici, che diventano fonte di stress soprattutto quando non sono progettati e attuati
con cura. L'utilizzo eccessivo e senza pause ragionevoli dei dispositivi elettronici (fissi e mobili) e il
conseguente sovraccarico cognitivo per la continuativa gestione delle informazioni sono alla base degli
effetti stressanti. Oggi si sta sviluppando l'attenzione per il cosiddetto technostress.
 gli effetti sui lavoratori derivanti dalla instabilità lavorativa crescente (licenziamenti effettivi e minaccia
di disoccupazione, cambiamenti forzati del posto di lavoro).

53
STRESSORS EXTRAORGANIZZATIVI
Gli studi cercando di mettere in evidenza le interazioni tra vari tipi di stressors che in forma combinata
possono attivare un processo di stress. Vengono considerate tre principali categorie di stressors che non
sono direttamente legate alla mansione o al ruolo lavorativo:
1. Valori e aspettative  diventano fonte di stress soprattutto quando assumono un significato
conflittuale per la persona o sono impossibili da conseguire per la presenza di ostacoli e impedimenti nel
normale ambiente di vita lavorativa ed extralavorativa;
2. Ambiente fisico e sociale  si tratta di un vasto insieme di possibili stressors che riguardano sia
l'ambiente fisico sia quello sociale. La semplice esposizione non determina necessariamente reazioni
negative di stress, in quanto è necessario che lo stimolo superi una certa soglia oltre la quale si ha la
probabilità di attivare anche il processo di stress in aggiunta agli effetti fisici diretti.
Fra gli effetti più considerati ritroviamo:
- il rumore, che oltre a procurare eventuali danni uditivi, influenza negativamente la prestazione
agendo sul livello di attivazione psicofisiologica e sui processi cognitivi, attivando anche reazioni
negative sul piano emozionale e comportamentale.
- la densità sociale (numero di persone per unità di spazio) e l'esperienza soggettiva di affollamento
risultano associate a effetti di stress.
- la temperatura, viene considerata per gli effetti di aumento della vulnerabilità ad altri stimoli
ambientali.
- agenti tossici o inquinanti di natura chimica.
- qualità dell'ambiente fisico e sociale (es. presenza di criminalità).
3. Fattori legati alla casa e alla famiglia e alla vita quotidiana 
- life events particolarmente impegnativi e di vasta portata (es. divorzio, lutto, disoccupazione,
processo di stress da perdita del lavoro)
- eventi di più ristrette dimensioni, ma ritenuti stressanti in quanto cumulabili nel corso del tempo o
capaci di ampliare gli effetti dei diversi tipi di stressors (es. restare imbottigliati nel traffico, arrivare
tardi a un appuntamento importante, perdere la chiave di casa ecc.)

Quindi le tensioni di un ambiente di vita possono influire sull'altro creando situazioni di incompatibilità o di
conflitto:
 il tempo consumato in un ambito rischia di essere sottratto dall'altro;
 le situazioni di tensione percepite e subite in un ambito possono influire o riversarsi nell'altro ambito (è
il cosiddetto spill-over effect);
 comportamenti ammissibili in un ambito possono rivelarsi inadeguati e contraddittori nell'altro ambito.
Stanchezza, contrarietà o conflitti accumulati nel tempo possono produrre interferenze cognitive nella
qualità e quantità delle prestazioni in ciascuno dei due ambiti, attivando percezioni di inadeguatezza,
sovraccarico, disagio psicologico. Questi aspetti sono particolarmente studiati in relazione alla condizione
femminile e al duplice ruolo di responsabilità, familiari e lavorative, vissuto dalle donne (dual career).

5.4. Fattori di moderazione della relazione «stressors»-esiti di stress


L'impatto degli stressors sulle persone è moderato da numerose variabili.
Esse riguardano sia la dotazione di risorse psicosociali della persona sia le caratteristiche del contesto (es.
cultura di appartenenza, livello delle conoscenze, livello di esperienza, commitment organizzativo, resilienza
e coping ecc.). Questa multifattorialità spiega la forte variabilità delle risposte allo stress e la difficoltà di
effettuare valutazioni diagnostiche rapide e accurate. Le principali categorie di variabili moderatrici:
individuali, lavorative e organizzative.

FATTORI INDIVIDUALI  le differenti risorse individuali possono far variare la percezione di minacciosità o
di gravità degli eventi rispetto al proprio self, così come la valutazione delle proprie capacità di far fronte agli
eventi.
Ad esempio, la reazione di ansia allo stress sarebbe peggiorata da tratti nevrotici di instabilità emotiva.
Locus Of Control  svolge una notevole influenza: le persone orientate internamente (che credono nel
potere personale di controllare e influenzare gli eventi) dimostrano di reggere meglio situazioni ambigue
rispetto a quelle orientate esternamente (le quali ritengono di non avere influenza sugli eventi e li vedono
dominati dal potere di altri).
54
Nella stessa direzione positiva del locus interno operano la self-efficacy (percezione di padronanza della
situazione e di competenza nell'influenzare l'ambiente esterno) e l'ottimismo disposizionale.
Avere la tendenza ad aspettarsi risultati favorevoli nel futuro, porta il soggetto a scegliere strategie attive per
far fronte alle difficoltà attuali e migliorare il controllo della situazione.
Hardy Personality [Kobasa, 1979]  personalità coraggiosa, audace o vigorosa, caratterizzata da
convinzione nel controllo, nell'impegno e nella sfida: i manager con tale personalità reggono meglio le
situazioni di tensione e adottano strategie più appropriate e risolutive.
Personalità di Tipo A [Friedman e Rosenman 1974]  riguarda persone connotate da competitività estrema,
agonismo per il successo, aggressività repressa con sforzo, fretta, impazienza, attività incessante,
ipervigilanza, alterazioni del tono di voce, tensione nella muscolatura facciale, sentimento di urgenza del
tempo e di sfida delle responsabilità. Il soggetto mostra performance assai elevate ma tende a subire più
gravi conseguenze dello stress.
Situazione Ambigua (Role Ambiguity)  è un fattore di stress a cui si fa costante riferimento e risulta
modulato dalle differenze individuali nel grado di tolleranza emozionale dell'incertezza e nella capacità
mentale di assumere iniziative strategiche per ridurla e risolverla.

Rispetto alle differenze tra gruppi sociali, invece, Kasl sostiene che i fattori di vulnerabilità dei gruppi nei
contesti lavorativi siano:
- fattori sociodemografici (età e grado di istruzione)
- posizione sociale (ad esempio, vivere da soli)
- stile comportamentale (comportamenti di tipo A)
- competenza e capacità
- salute fisica
- legati a caratteristiche non lavorative (qualità dei rapporti familiari).

FATTORI LEGATI AL LAVORO  si tiene in considerazione il grado di controllo che la persona può esercitare
sul lavoro (es. influenzare il ritmo di lavoro, i tempi, le procedure).

FATTORI DI TIPO ORGANIZZATIVO  anche in questo caso si tiene conto del grado di controllo in vari ambiti,
come il clima psicosociale (aperto, equo, non eccessivamente competitivo ecc.) e soprattutto il sostegno
sociale.
Poter disporre di sostegni sociali adeguati sia sul lavoro che in ambito extralavorativo può essere inteso come
una variabile che influenza direttamente le cause di stress (effetto preventivo), le misure di rimedio (effetto
curativo) e che modera l'azione del fattore di stress (effetto tampone o buffering effect).

5.5. Le conseguenze dello stress


Le principali categorie che prendono in considerazione gli esiti dello stress:
Esiti psicofisici  Già Selye [1956] aveva segnalato diverse malattie indicative di strain: malattie
cardiovascolari e bronchiali, le disfunzioni gastrointestinali, il diabete, i disturbi neuropsichici. Assai comuni
sono i risultati delle ricerche che collegano lo stress a disturbi cutanei, tiroidei, muscolo-scheletrici, all'asma,
all'obesità, al diabete, a difetti del sistema immunitario, alla colite ulcerosa, cefalee ed emicrania. Inoltre, tra
le forme più gravi di stress vi è il disturbo post-traumatico da stress connesso a eventi critici importanti
(traumi da incidenti anche sul lavoro, catastrofi ecc.).
Esiti psicologici e di disagio psichico  sono stati riscontrati effetti sul funzionamento cognitivo con
riduzione dell'attenzione e concentrazione sui compiti, disturbi nelle funzioni mnestiche, perdita del sonno,
percezione di trovarsi sotto tensione continua e di non potersi riposare. In aggiunta, vi sono anche le
connotazioni emozionali negative, come ansia, paura, senso di colpa, irritabilità, tristezza e depressione.
Esiti comportamentali sul lavoro  si fa riferimento a condotte disfunzionali come:
- rotture e interruzione dei comportamenti di ruolo;
- aumento dei comportamenti di ritirata come ritardi e assenteismo;
- sviluppo di reazioni aggressive, verbali e fisiche;
- squilibri nella vita non lavorativa;
- crescita di condotte auto-lesive (es. uso di alcol, psicofarmaci).

55
Tuttavia un elevato livello di motivazione fa mantenere alto il livello di prestazione a dispetto di condizioni
stressanti. Del resto, è risaputo che un lavoratore fortemente motivato perseveri nel suo lavoro, rimuovendo
i sintomi di fatica e spesso pagandone in seguito le conseguenze.
Esiti per la vita personale  portando come conseguenza, ad esempio la riduzione dei significati attribuiti al
lavoro; l'interferenza con la vita familiare; l'impoverimento della vita sociale.
Esiti socioeconomici e organizzativi  lo stress provoca effetti sulla produttività, oltre a tener conto delle
milioni di giornate di lavoro che vanno perdute, portando enormi costi economici. I costi sociali e organizzativi
indiretti derivano da fenomeni come assenteismo, turnover, perturbazioni del clima organizzativo, diffusione
di forme di conflittualità latente, perdite di efficienza dei processi di lavoro, aumento dei comportamenti di
ritirata ecc.

5.6. Burnout
BURNOUT  è una forma grave di stress cronico, identificato inizialmente nell'ambito delle occupazioni
caratterizzate da un'ampia quota di rapporti lavorativi con persone.
Esso comprende 3 componenti:
 depersonalizzazione: un atteggiamento negativo verso il proprio lavoro denominato cinismo, che ad
esempio nelle professioni di aiuto si esprime con l'aumento della distanza psicologica tra l'operatore e
l'utente/cliente, percepito negativamente;
 esaurimento emotivo: dovuto a un eccessivo coinvolgimento emozionale che drena energie, poi si
raffredda e si inaridisce;
 senso di ridotta efficacia professionale: nel lavoro con gli altri si percepisce di non riuscire più a realizzare
le proprie capacità e aspettative di riuscita.

Il burnout è studiato in relazione al Work Engagement, nell'ambito del modello teorico dello stress chiamato
Job Demands-Resources Model [Schaufeli e Salanova 2007]. Questo approccio considera insieme sia gli esiti
negativi dello stress lavorativo, come il burnout, sia quelli di carattere positivo come l'engagement.
Nel contesto di lavoro le domande lavorative possono divenire stressors capaci di determinare conseguenze
anche gravi; tuttavia, sono presenti anche risorse funzionali al raggiungimento degli obiettivi del lavoratore.
Le «Job Demands» e le «Job Resources» guidano due distinti processi:
a) quello di indebolimento del benessere, ovvero domande troppo impegnative che consumano le energie
mentali, emotive e fisiche dei lavoratori;
b) quello motivazionale, che sostiene un aumento dell'impegno, basso cinismo, prestazioni eccellenti e una
riduzione dell'impatto delle richieste lavorative.
Le job demands sono gli antecedenti del burnout, le job resources sono correlate al work engagement.

Il lavoratore in stato di burnout mostra sentimenti di impotenza a risolvere i problemi e una crisi di identità
professionale che esprime in risposte difensive disfunzionali: rigidità comportamentale, indifferenza, apatia,
distacco psicologico, sospettosità, ostilità e relazioni aggressive.
I primi segni dovrebbero essere rapidamente diagnosticati per affrontarli sia attraverso il sostegno sociale,
sia tramite forme temporanee di rotazione delle mansioni o di affidamento di nuovi progetti professionali.

56
5.7. Strategie di «coping» e di gestione dello stress
Per gestire una condizione di stress negativo Lazarus e Folkman [1984] esaltano l’uso del COPING, inteso
come insieme di strategie psicofisiologiche, cognitive e comportamentali che hanno una funzione protettiva.
Vengono identificate tre principali categorie di strategie:
1. quelle centrate sul problema si riferiscono ad azioni direttamente orientate a rimuovere le cause che
sono all'origine del processo di stress;
2. quelle centrate sulle emozioni, si riferiscono ad azioni che cercano di modificare il significato attribuito
all'evento, attenuandone la salienza emozionale (ristrutturazione cognitiva della situazione);
3. quelle centrate sui sintomi, indirizzate a rafforzare le capacità di risposta e di resistenza agli stressors (ad
esempio, attraverso varie tecniche di rilassamento, di meditazione o l'esercizio fisico); cercando di
minimizzare il rischio di conseguenze gravi anche con il sostegno degli altri.

Negli ultimi anni si è approfondito un altro insieme di fattori protettivi: quelli connessi con la resilienza. Si
tratta di fattori che possono aumentare le possibilità di recupero e di resistenza psicofisica, oltre che generare
emozioni positive e di benessere e far riconoscere i possibili vantaggi per la persona della situazione vissuta.
Le persone resilienti tendono a usare forme di coping attivo, a riprogettare la situazione, a cercare l'aiuto
degli altri e a evitare la fuga e il diniego delle avversità o il disimpegno. La resilienza viene, inoltre, associata
a un orientamento ottimistico, ad affettività positiva e persino al buon umore.

5.8. Gestione dello stress nei contesti organizzativi


Un'efficace gestione del processo di stress dovrebbe compiere due funzioni principali:
1. ridurre o almeno controllare i fattori che determinano eccessi di richieste lavorative;
2. aumentare le risorse (lavorative e personali) che facilitano un equilibrio tra costi e ricavi dell'esperienza
lavorativa.

Nei contesti organizzativi sono individuabili almeno 3 livelli di intervento:


1. Individuale: mettendo in atto strategie per favorire una buona esperienza lavorativa al singolo lavoratore
(es. riduzione dei carichi di lavoro, l'attenzione ai problemi esterni interferenti con il lavoro);
2. Gruppo di lavoro: con il miglioramento delle capacità di collaborazione, di comunicazione, di decisione
condivisa;
3. Organizzativo: con interventi sia preventivi (job design) che correttivi (riprogettazione) dell'ambiente per
eliminare o attenuare le potenziali fonti di stress.

Interventi preventivi descritti da Balducci [2015]:


 identificazione e valutazione precoce degli stressors;
 prevenzione primaria (riduzione degli stressors);
 prevenzione secondaria del danno per preservare il benessere e facilitare la gestione attiva dello stress
 prevenzione terziaria, focalizzata su trattamento e riabilitazione.

Tali finalità possono essere raggiunte solo se esistono: atteggiamenti favorevoli da parte delle aziende in
tema di sicurezza, salute e benessere dei lavoratori, e una partecipazione attiva dei lavoratori alle diverse
fasi di diagnosi, valutazione e intervento migliorativo delle situazioni di lavoro.
In italia è stato introdotto il decreto legislativo 81/08, che garantisce un’identificazione precoce dei rischi da
stress lavorativo di cui le organizzazioni devono farsi carico obbligatoriamente, predisponendo il Documento
di valutazione dei rischi (DVR). Il ciclo di controllo per la gestione del rischio psicosociale consiste in una serie
di fasi ripetute nel tempo che richiedono il coinvolgimento
di tutti gli stakeholders (dirigenza, lavoratori, medici ecc).
Esso prevede le fasi:
1. individuazione dei pericoli e delle persone a rischio di stress;
2. valutazione dei rischi esistenti;
3. decisione sulle misure preventive per eliminare o controllare tali rischi;
4. intervento con azioni e piani concreti;
5. controllo, riesame e aggiornamento periodico.

57
CAPITOLO 7 - CONDOTTE LAVORATIVE ANOMALE E CONTROPRODUCENTI

1. IL LATO OSCURO DEL LAVORO


Spesso in campo lavorativo avvengono episodi illeciti e di microcriminalità: utilizzo a fini privati degli
strumenti di lavoro aziendale, complicità nell'accettare od offrirsi per il “lavoro nero”, varie forme di inciviltà
nei rapporti interpersonali, vicende di prevaricazione e di violenza tra capi e lavoratori o tra lavoratori stessi.
Queste forme di devianza lavorativa tipiche nelle categorie di operai e impiegati, in realtà, sono manifestate
anche da imprenditori, dirigenti e funzionari pubblici (es. violazioni delle regole dei concorsi pubblici, uso di
modalità non eque nella selezione del personale, manomissioni di conti correnti dei clienti da parte di
impiegati di banca, falsificazione dei bilanci aziendali, frodi, occultamento di beni, partecipazione al sistema
delle tangenti).
Tali condotte anomale (definite come la faccia nascosta e oscura del comportamento lavorativo”) sembrano
corrispondere a un sistema di relazioni lavorative inadeguato, che facilita l'emergere di intenzioni e azioni
delle persone estremizzate verso il polo della devianza.

2. I COMPORTAMENTI CONTROPRODUCENTI
I comportamenti anomali nei contesti di lavoro incidono negativamente sul funzionamento organizzativo,
sulla produttività e sulla reputazione dell'organizzazione.

2.1. Definizioni e precisazioni


Varie definizioni:
Condotte Antisociali  per descrivere quelle azioni che sono tese a danneggiare l'organizzazione, i lavoratori
e i clienti;
Condotte Disfunzionali  si tratta di condotte motivate, messe in atto da singoli o da più persone e che
hanno conseguenze negative per le persone, i gruppi e l'organizzazione;
Devianza Lavorativa  vista come condotta volontaria dei lavoratori che viola norme organizzative e
minaccia il benessere dell'organizzazione e dei suoi membri;
Counterproductive Workplace Behavior (CWB)  termine utilizzato per focalizzarsi su condotte intenzionali
attuate dai lavoratori, che sono considerate contrarie ai legittimi interessi dell'organizzazione. Si può tradurre
tale locuzione con Condotte Controproduttive O Antiproduttive o con l'aggettivo “controproducente”, per
sottolineare gli effetti sulla produttività, sull'organizzazione ma anche sulle persone.

Al di là dei diversi termini usati, vi sono delle seguenti caratteristiche principali del fenomeno che sono
condivise:
- sono condotte intenzionali o volontarie indirizzate da singoli individui o da gruppi contro gli interessi di
un'organizzazione;
- hanno sia una componente reattiva (o impulsiva, emozionale) sia una componente più strumentale o
proattiva;
- sono attivate dai lavoratori verso la produzione, verso la proprietà dell'organizzazione e i suoi assets o
anche verso il capitale umano;
- assumono connotazioni differenti a seconda che si esprimano come azioni illegali (contro le norme
formali), immorali (violano codici etici condivisi) o devianti (non rispettano standard comportamentali,
regole sociali o procedure organizzative).

Caratteristica della Volontarietà: se i comportamenti controproducenti sono intenzionalmente pianificati,


tutto ciò che determina conseguenze negative sulla produttività e sulle persone, ma si verifica
accidentalmente, non rientra in questa categoria (es. effetti degli errori umani, di cattive istruzioni
lavorative).
Caratteristica della Legittimità: riguarda la legittimità degli interessi organizzativi. Non tutte le condotte che
minacciano l'armonia della vita organizzativa sono classificabili come comportamenti contro-produttivi (es.
il rifiuto di fare straordinari oltre una certa soglia).

58
Molte condotte controproduttive (es. sciopero) possono essere considerate come espressione di una
protesta (individuale e collettiva) per contrastare situazioni lavorative ingiuste o di strumentalizzazione e
sfruttamento dei lavoratori.

2.2. Quali finalità dei comportamenti controproducenti?


Vardi e Weitz [2004] hanno esaminato il significato dell'intenzione di attuare condotte controproducenti.
Una persona svolge tali comportamenti, perché:
1. perché ha sviluppato un atteggiamento favorevole verso quel tipo di comportamenti e crede che le
conseguenze siano positive per sé.
2. perché la norma soggettiva della persona tollera quel certo comportamento.

Gli autori hanno identificato 3 tipi di intenzioni di base:


1. Condotte intenzionali finalizzate a trarre benefici per sé stessi e indirizzate verso l'interno
dell'organizzazione (si va a colpire l'organizzazione stessa);
2. Condotte intenzionali che procurano vantaggi per l'organizzazione e indirizzate verso l'esterno
dell'organizzazione (si vanno a colpire concorrenti e clienti);
3. Condotte intenzionali con finalità distruttive e indirizzate verso l'interno o l'esterno dell'organizzazione.

2.3. Uno schema concettuale


Gli stessi autori propongono un modello interpretativo che collega i possibili antecedenti dell'intenzione con
le diverse manifestazioni comportamentali controproducenti.
I fattori che caratterizzano ogni esperienza lavorativa (classificati per livello: individuale, del posto di lavoro,
di gruppo e di organizzazione) possono divenire antecedenti delle condotte contro-produttive.

A livello individuale:
 inadeguato sviluppo morale della
persona
 la tendenza al disimpegno morale
 la bassa stima di sé
 le scarse motivazioni alla riuscita
 il locus of control esterno
 l'irascibilità, l'impulsività e
l'instabilità emotiva
 la scarsa socievolezza
 ruolo delle emozioni negative
(affettività negativa)

A livello del posto di lavoro:


 le condizioni di lavoro costrittive
e frustranti
 compiti illegittimi assegnati al
lavoratore (richieste inadeguate
o sproporzionate rispetto al ruolo
e alle mansioni ufficiali)

A livello del gruppo:


 l'esistenza di norme interne troppo tolleranti
 l'eccessiva coesione e le dinamiche di gruppo che favoriscono il contagio di atteggiamenti devianti
 il «social loafing» (apatia e disimpegno di qualche membro che approfitta della tolleranza degli altri per
contribuire poco al lavoro collettivo)
 il «cyber-loafing» (utilizzo del tempo di lavoro per mandare e-mail o navigare sul web per fini privati e a
scapito del lavoro comune)

59
 il «groupthink» (conformismo di gruppo, con scarsa discussione critica interna ed eccessiva dipendenza
dal leader)

A livello di organizzazione:
 scarsa chiarezza degli obiettivi da raggiungere e al loro grado di incoerenza e conflittualità
 i sistemi di controllo adottati dal management (troppo oppressivi e punitivi oppure troppo lassisti)
 le condotte incoerenti e non etiche dei dirigenti
 forme di non equità di trattamento e di ingiustizia
 la presenza di capi e supervisori che commettono abusi
 l'inadeguatezza dei processi di socializzazione lavorativa

3. WORKAHOLISM>>
WORKAHOLISM questo termine descrive una condotta di lavoro atipica con effetti controproducenti per
la persona, che si esprime con un eccessivo impegno, sforzo e coinvolgimento della persona stessa nelle
attività inerenti il proprio ruolo lavorativo.
È la condotta adottata da quelle persone che non riescono a “staccare dal lavoro”, tant’è che se lo portano
ovunque e in ogni momento della giornata (a casa, sul treno, nel weekend).
Talvolta, esse possono apparire contente della loro situazione e sono giudicate molto efficienti e di successo;
in altri casi sembrano invece ossessionate, infelici e incapaci di riposarsi sino a farsi del male.
Si può parlare di una vera e propria dipendenza dal lavoro che emerge, in prevalenza, tra persone che
ricoprono posizioni di responsabilità e lavoratori autonomi che non hanno stabilito chiari confini tra lavoro e
non lavoro. Connotazioni dei tipi diversi di workaholist:
1. la compulsività: un modo di vivere la relazione con il proprio lavoro che risponde a un bisogno interno,
quasi incontrollabile, di arrivare a un risultato;
2. il bisogno di un meticoloso controllo della situazione: da cui derivano l’incremento continuo degli sforzi
e il perfezionismo della condotta lavorativa;
3. tensione competitiva per la riuscita professionale e il rafforzamento della propria identità di carriera.

Le persone che vivono questa condizione mostrano:


1. un alto coinvolgimento anche emotivo con il lavoro
2. una forte spinta motivazionale interna
3. un non molto elevato piacere di lavorare.

Nelle ricerche empiriche queste tre dimensioni sono correlate sia con altre caratteristiche personali sia con
il tipo di contesto lavorativo. Nella condizione di workaholism è presente una sottovalutazione dei rischi sia
psicofisici sia di isolamento affettivo e sociale che possono portare poi a impatti negativi sul benessere, la
soddisfazione di vita, le relazioni interpersonali e la vita sociale.
Si sono trovati stretti legami tra workaholism e stress: alti valori nella dimensione motivazionale
corrispondono a bassi livelli di benessere emotivo; mentre alti livelli del piacere di lavorare comportano una
minore presenza di stress.
Anche i legami tra workaholism e stati emotivi di carattere negativo (es. pessimismo e scoraggiamento)
sono stati verificati. Meno nette sono le relazioni con problemi di salute, anche se ciò può derivare dal fatto
che le persone coinvolte potrebbero sottostimare i loro piccoli problemi di salute essendo quasi sempre
focalizzate sul lavoro che fanno. Tale sottovalutazione rischia però di essere disfunzionale, accrescendo la
probabilità di subire danni futuri.
Questa condizione è stata associata anche a personalità di tipo A (eccessivo attivismo, senso di urgenza delle
scadenze ecc.), a tratti di perfezionismo, con forte preoccupazione di controllo della situazione e a rigidità
comportamentale.

Il workaholism non va confuso con l'entusiasmo per il lavoro, in quanto, in questo caso, la persona si sente
molto coinvolta nel suo lavoro, ma ne ricava anche una forte soddisfazione, non si sente pressata a
continuare senza limiti il lavoro che sta facendo e, soprattutto, mantiene un equilibrato distacco del lavoro
dalle altre sfere di vita.

60
Secondo Snir e Harpaz [2000] vi è una connessione tra workaholism e significati attribuiti al lavoro. Nel
confronto con gli altri lavoratori, i “workaholics” considerano il lavoro molto più centrale per la propria vita,
valorizzano le motivazioni intrinseche e danno un minore peso alle relazioni interpersonali; per cui si sentono
continuamente spinti a coinvolgersi personalmente nel loro lavoro.
Con il procedere del tempo, però, il lato spiacevole di questa situazione è sia di natura psicofisica (stanchezza
cronica, cefalee, insonnia, smania) che relazionale (isolamento) con effetti negativi soprattutto nel contesto
familiare.

Per quale ragione viene mantenuto questo tipo di comportamento atipico?


L’interpretazione comune paragona il lavoro eccessivo alla dipendenza, e fa pensare al fatto che la persona
entri in un circolo vizioso dal quale non riesce a uscire, anche rendendosi conto delle conseguenze.

Tuttavia, si ipotizza che vi sia qualche beneficio particolare che avviare tale circolo come, ad esempio, la
percezione di poter ottenere una promozione o buone valutazioni dai superiori. Questi comportamenti
vengono poi appresi e rinforzati con l'esperienza positiva del riconoscimento ottenuto, e diventano una
condotta stabile nel tempo. Ciò soprattutto quando si parla di lavori di prestigio, a reddito medio-alto e
quando il lavoratore mostra alcune caratteristiche personali e disposizionali.
Si può sostenere che: se nello sviluppo del workaholism prevalgono meccanismi di apprendimento è più facile
adottare strumenti per un possibile cambiamento della situazione, mentre se risulta dominante il peso
assegnato ai tratti di personalità è più difficile correggere un repertorio di condotte ormai troppo stabilizzato.

4. AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA NEI LUOGHI DI LAVORO


Schat e Kelloway [2005] parlano di aggressività lavorativa come: comportamento di individui, dentro e fuori
da un'organizzazione, che è diretto a danneggiare uno o più lavoratori e che si svolge in ambito lavorativo.
Questa definizione comprende una vasta gamma di condotte aggressive sia fisiche sia psicologiche che sono
attivate da diverse fonti, dentro e fuori dall'organizzazione.
I termini aggressività e violenza lavorativa hanno due significati differenti: la violenza è una forma specifica
di aggressività tesa a ledere fisicamente una persona, mentre l'aggressività può non comportare condotte
violente.

I motivi per cui preoccuparsi di aggressività e violenza nel lavoro:


1. Tali fenomeni esprimono un peggioramento della qualità dei contesti organizzativi e delle logiche di
funzionamento tradizionale.
2. Le organizzazioni sono diventate ambienti complessi, saturi di insicurezza e incertezza e poveri di
realistiche prospettive future per le persone, tant’è che si verificano manifestazioni di eccessiva
competizione interindividuale per le risorse in diminuzione e ostilità intra e intergruppi.
3. È inoltre probabile che questi atteggiamenti caratterizzano la vita sociale quotidiana dei soggetti e
tendono poi ad essere inglobati agli ambienti di lavoro.

4.1. Forme di aggressività e violenza


I bersagli delle azioni aggressive sono le persone, come i superiori, i colleghi o i subordinati, e l'organizzazione.
Le manifestazioni aggressive si classificano in base a 3 dimensioni:
 fisica/verbale
 attiva/passiva
 diretta/indiretta

Secondo Vardi e Weitz, le condotte fisiche aggressive nel contesto di lavoro possono essere:
 condotte dirette attive (es. un assalto), o dirette passive (es. rifiuto di fornire le risorse previste)
 indirette attive (es. rubare o nascondere uno strumento di lavoro), o indirette passive (es. non
impegnarsi in favore di qualcuno visto come un nemico);

Le condotte aggressive verbali si distinguono in:


 condotte dirette attive (es. insulti, minacce, urla), o dirette passive (es. non rispondere alla chiamata
telefonica della persona nemica).

61
 condotte aggressive indirette attive (es. diffondere pettegolezzi e rumors), o condotte indirette passive
(es. omettere informazioni necessarie, non smentire pettegolezzi o false voci).

4.2. Interpretazioni del fenomeno


Diversi approcci per spiegare i fenomeni aggressivi nei contesti di lavoro:
1. Modello Comportamentista: spiega che le risposte aggressive derivano da una situazione di frustrazione,
che si realizza ogni volta che il contesto lavorativo determina costrizioni o blocchi alle azioni delle persone
di raggiungere uno scopo. La frustrazione suscita delle risposte tese alla ricerca di alternative per
raggiungere i risultati attesi; ma tali risposte vanno ad interferire sul normale funzionamento lavorativo,
peggiorando il clima di lavoro, stimolando atteggiamenti controproducenti e, soprattutto, condotte di
ostilità.
2. Giustizia Organizzativa: sottolinea che gli atti aggressivi possono essere la risposta alla percezione di
ingiustizia nella distribuzione dei costi e benefici (giustizia distributiva), nelle procedure di funzionamento
organizzativo (giustizia procedurale) e nelle relazioni (giustizia interpersonale).
Folger e Baron parlano di crisi della fiducia organizzativa, sostenendo che quando gli individui
percepiscono che il contesto lavorativo ha tradito la fiducia iniziale, tendono a reagire pesantemente,
prima con sentimenti di sfiducia, poi con condotte che esprimono risentimento, ostilità e aggressività.
Le risposte di aggressività e violenza sono analizzate anche come espressione della
3. Violazione Del Contratto Psicologico [Johnson e O’Leary-Kelly, 2003]: per cui, se il lavoratore si rende
conto di una rottura o di una violazione degli obblighi e delle promesse espresse nel contratto, è possibile
che si incrini pesantemente la relazione fiduciaria e siano attivate risposte di tipo aggressivo.

4.3. Due miti da sfatare


Nella ricerca si adotta un paradigma di studio che considera i tre principali insiemi di variabili che
interagiscono e nella costruzione delle risposte aggressive: le caratteristiche individuali, i fattori
organizzativi e ambientali e gli aspetti socioculturali.
Riconoscere gli effettivi legami tra questi insiemi di variabili aiuta a superare due credenze comuni: l'esclusiva
individualizzazione dell'aggressività e la sua relazione diretta con la malattia mentale.

Spesso si tende a dare una definizione del profilo del lavoratore potenzialmente aggressivo, basandosi
sull’identificazione delle caratteristiche individuali connesse con l'aggressività. In realtà, secondo Barling,
Dupré e Kelloway [2009] si tratta di un mito da sfatare poiché le ricerche empiriche sottolineano risultati
inconcludenti o contraddittori sul ruolo delle variabili personali nella genesi dell'aggressività sui luoghi di
lavoro:
Relazione con l’età talvolta con il crescere dell'età, si riducono le risposte aggressive; tuttavia, in molti casi,
esse non risultano correlate con l'età.
Status socioeconomico  si sono viste solo sporadicamente manifestazioni aggressive collegate a una
condizione sfavorevole sul piano del reddito.
Relazione con l'appartenenza etnica non compaiono risultati di rilievo.
Variabili psicologiche (cognitive, affettive e di personalità)  mostrano legami non sempre forti, ma
relativamente frequenti con l'aggressività.
Apprendimento di condotte ostili (per precedenti esperienze di aggressività) è importante prenderlo in
considerazione per giustificare la scelta e di tali condotte da parte di un lavoratore.

Anche la relazione tra condotte di violenza e malattia mentale rappresenta un mito da sfatare:
solo l'abuso di sostanze e l'alcolismo hanno trovato conferme empiriche di un loro legame con condotte
aggressive sul posto di lavoro, mentre più incerti risultati riguardano sindromi depressive e ansiose.

Gli autori non sostengono un rapporto di causalità lineare tra caratteristiche individuali e risposte aggressive,
ma collocano tali variabili in una posizione intermedia tra contesto di lavoro e risposta aggressiva. Quindi si
può dire che alcune caratteristiche personali tendono ad accentuare il ruolo di provocazione del contesto e
a rafforzare la probabilità di comparsa di manifestazioni aggressive.

62
5. «MOBBING»
MOBBING  è un termine che esprime un insieme eterogeneo di manifestazioni negative nei contesti di
lavoro, caratterizzato, ad esempio, da insulti, critiche distruttive alle persone, offese verbali e fisiche,
angherie, abusi e prevaricazioni nella vita quotidiana. Le conseguenze di tali azioni consistono in umiliazioni
provate dalle vittime, sentimenti di offesa subita, fino ad arrivare ad esperienze di strain grave che
comportano anche l'uscita dal lavoro (che probabilmente è lo scopo ultimo di queste manifestazioni di
aggressività) sia a peggioramenti ulteriori del funzionamento e del clima organizzativo.

5.1. Definizioni e caratteristiche principali


Elementi del mobbing:
a) le azioni di attacco, offesa, esclusione di qualcuno, allo scopo di intaccare i suoi compiti lavorativi normali;
b) tale interazione conflittuale anomala fatta in modo ripetuto e regolare per un certo periodo di tempo,
c) la presenza di un'asimmetria di posizione (la vittima ha in genere una posizione sociale inferiore).

Infatti il mobbing costituisce un'esperienza di relazioni interpersonali negative tra diversi attori: il
“mobbizzato”  la vittima, il “mobber” colui che svolge comportamenti ai danni della vittima e il “co-
mobber” (o side-mobber) gli spettatori che spesso sono anche complici delle azioni dannose.

elementi di base per delineare questo fenomeno:


Condotte di «mobbing»  oggettivamente i comportamenti messi in atto hanno una natura negativa, ma
molto dipende dalla percezione della vittima che sente tali atti negativi ripetuti come ostili e intimidatori
verso di sé. Il conflitto diventa mobbing quando vi è l'insistente ripetizione che spinge a un riconoscimento
soggettivo di essere vittima di qualcuno.
Leymann [1990] propone cinque classi di condotte che intaccano:
1. la reputazione della vittima (calunnie, esaltazione di difetti, giudizi volutamente sbagliati, rimproveri);
2. le sue possibilità di comunicare con i colleghi (ordini impartiti ai colleghi nei quali si chiede di evitare
contatti con la vittima);
3. le relazioni sociali in generale (limitazioni di espressione, interruzioni del discorso, blocchi della posta
elettronica);
4. la qualità dell'occupazione e delle mansioni (assegnazione di compiti futili, demansionamento,
confinamento in ambienti scomodi);
5. salute e benessere (minacce di violenza e di sexual harassment).

Frequenza e durata Tra i criteri di definizione del mobbing sono stati indicati la frequenza e durata degli
atti negativi per contraddistinguere questo fenomeno da altri tipi di conflitto nei luoghi di lavoro, meno
vessatori. Si considerano episodi negativi che ricorrono settimanalmente per un periodo di circa 6 mesi.

Asimmetria di potere  Mobber e vittima sono in condizione asimmetrica di potere. Di conseguenza, il


conflitto viene rafforzato dalla condizione di inferiorità (fisica, sociale e psicologica) e accentua l’impotenza
della vittima. Si conclude con conseguenze negative per la vittima.
È ancora più tipico quando la vittima è una donna: di solito è colpita più frequentemente e riporta più effetti
sul piano del benessere psicologico.

Tipologie di mobbing Sono in uso diverse classificazioni:


MOBBING VERTICALE: gli atti negativi sono svolti da un superiore con l’obiettivo di spingere il subordinato
ad andarsene. Sono spesso coinvolti più o meno passivamente i colleghi (side-mobbers) che talvolta
assecondano il superiore per paura di conseguenze o per quieto vivere;
MOBBING ORIZZONTALE: i colleghi svolgono attivi negativi ripetuti verso un lavoratore, con l’obiettivo di
escluderlo dal loro contesto sociale (la presenza di diversità nei contesti di lavoro legate a etnia, religione,
disabilità fisiche ecc. amplia il rischio di questo fenomeno);
MOBBING STRATEGICO: gli atti negativi di prevaricazione sono finalizzati a espellere un lavoratore, sapendo
già come sostituirlo (questo fenomeno riguarda anche posizioni di dirigenza, soprattutto con contratti
temporanei).

63
5.2. Antecedenti e conseguenze
Il mobbing è un fenomeno multideterminato che chiama in causa:
- i fattori organizzativi, si considerano gli stressors ambientali inerenti il ruolo lavorativo, uno stile di
leadership lassista che non da indirizzi chiari sulle regole da rispettare;
- i fattori sociali si considerano quelli relativi a relazioni intra-gruppo mal gestite: l'ostilità tra i lavoratori,
l'invidia sociale, le pressioni e le dinamiche di gruppo orientate a identificare un capro espiatorio possono
rivelarsi fattori di mobbing,
- i fattori individuali considerano il ruolo di ridotte competenze professionali, sociali e di sensibilità e
intelligenza emotiva sia l'importanza di fattori disposizionali di personalità come l'ansia, una ridotta
coscienziosità e alta introversione.

Le due principali conseguenze del mobbing:


 il deterioramento del benessere e il disadattamento ambientale della persona: con possibili alterazioni
dell'equilibrio psicofisiologico (vertigini, insonnia, disturbi dell'attenzione ecc.); con alterazioni
comportamentali (disturbi dell'alimentazione, uso eccessivo di psicofarmaci, alcol ecc.); con forme di
disagio psicologico grave e con possibile comparsa di sindromi di natura psichiatrica (depressione, ansia,
forme nevrotiche di tipo ossessivo e disturbi da stress post-traumatico);
 il peggioramento delle relazioni lavorative: clima aziendale sfavorevole (sottogruppi e coalizioni che
minano la coesione); abbassamento degli standard di efficacia ed efficienza nelle prestazioni (le relazioni
professionali di cooperazione diventano problematiche); calo del commitment e abbassamento della
fiducia organizzativa.

Il mobbing si configura come un fenomeno che va oltre le conseguenze di disagio psicologico e psicosociale,
diventando un reato perseguibile in base al codice penale e risarcibile in quanto fonte di danno.

6. I RITARDI SUL LAVORO


PRESENTARSI AL LAVORO IN RITARDO rappresenta una condotta contro-produttiva indirizzata sulla
produzione, che ha implicazioni economiche evidenti derivanti sia dal minor tempo lavorato sia da
inefficienza degli uffici o dei gruppi di lavoro.
Non si tratta solo di una cattiva prestazione dell'interessato, ma anche di una condotta incivile e irrispettosa
degli altri: i colleghi che devono temporaneamente supplire l'assente, possono a lungo andare non
sopportare questa situazione, provare risentimenti o addirittura cercare di imitarla.
Le manifestazioni specifiche del ritardo riguardano il mancato rispetto all'orario di ingresso lavorativo. Altri
fenomeni simili comprendono le pause ingiustificate o troppo lunghe e numerose durante la giornata o il
fermarsi a lungo a chiacchierare con i colleghi in orario di lavoro.
Il ritardo sul lavoro è una condotta “relativamente invisibile” nel senso che può facilmente passare
inosservata, soprattutto se l'organizzazione è abbastanza grande.

Naturalmente non tutti i ritardi hanno lo stesso significato; si devono considerare alcuni parametri come la
loro frequenza e la durata in una certa fase della vita lavorativa.
- ritardo cronico: crescente frequenza e durata;
- ritardo stabile periodico: stabile durata e frequenza;
- ritardo casuale: senza uno specifico pattern di durata e frequenza.

6.1. Antecedenti del ritardo


Koslowsky [2000] propone un modello di spiegazione del ritardo che prevede due possibili percorsi:
1. Il primo parte dalla considerazione di atteggiamenti negativi verso l'organizzazione o di forti percezioni
di non equità (con basso coinvolgimento sul lavoro, insoddisfazione ecc.). Essi sono il motore principale
dei comportamenti di ritirata, tra cui appunto il ritardo. La situazione può poi evolvere in peggio,
passando dal ritardo a condotte controproducenti più importanti come l'assenteismo.
2. Il secondo considera antecedenti che possono agire direttamente nel determinare la risposta del ritardo
e poi interagire con gli atteggiamenti e le percezioni negative per giungere a tale risultato.
Si parla di un insieme di fattori specifici del ritardo che comprendono:

64
- alcune caratteristiche generali di personalità, come la bassa coscienziosità;
- il tipo di percezione del tempo, come nel caso di persone che non hanno una buona percezione del
tempo e sono cronicamente in ritardo anche nella vita sociale;
- il contesto culturale, ad esempio in alcune culture il valore attribuito alla puntualità sul lavoro può
essere assai ridotto;
- il pendolarismo, prende in considerazione diversi fattori tra i quali i mezzi pubblici o privati usati per
raggiungere il posto di lavoro, il traffico, le condizioni ambientali;
- il tipo di equilibrio tra lavoro e famiglia, nei casi di conflitto di responsabilità tra lavoro e famiglia è
probabile un effetto diretto sulle condotte di ritardo.

7. ASSENTEISMO E TURNOVER
Assenteismo e turnover sono due condotte che, insieme al Ritardo, rientrano nei comportamenti di ritirata.
Molti degli studi inerenti le motivazioni al lavoro, l'insoddisfazione e lo stress assumono l'assenteismo e il
turnover come indicatori di un malfunzionamento organizzativo del lavoro.
Fare delle assenze ingiustificate (o con false giustificazioni) può essere inteso almeno in tre modi diversi:
1. come una strategia di violazione delle regole per ricavare vantaggi personali immediati;
2. come una forma di protesta individuale;
3. come un atto direttamente indirizzato a procurare danni all'organizzazione.
In alcuni casi, addirittura, le persone che hanno intenzione di lasciare l'attuale lavoro per trovarne un altro
migliore mettono in atto un insistente assenteismo, riducendo il coinvolgimento sul lavoro che stanno
facendo.

7.1. Caratteristiche e significati dell'assenteismo e del turnover


Se la persona non vede uno stretto legame tra essere presenti sul lavoro e risultati lavorativi è probabile che
consideri poco importante recarsi al lavoro con assiduità, per cui solo la disciplina e il controllo esterni
funzionano come dissuasori delle assenze.
C’è da dire che di base, la presenza lavorativa si rinforza con il rispetto del contratto psicologico e assicura la
continuità lavorativa, che viene percepita come significativa per ottenere i risultati attesi. La soddisfazione
lavorativa rafforza il significato psicologico della presenza.

La presenza lavorativa in alcuni casi può però assumere una connotazione deviante: il PRESENTEISMO,
ovvero la presenza sul lavoro anche quando si è ammalati.
Questo fenomeno tende a crescere in relazione all'aumento dell'insicurezza lavorativa, della precarietà dei
contratti di lavoro, della facilità con cui si può essere rimpiazzati e della presenza di workaholism. È più
comune quando si svolgono lavori a elevata responsabilità, per i quali il lavoratore si sente indispensabile e
quando esistono politiche organizzative basate su forti pressioni e sanzioni in caso di assenteismo.
L'ASSENTEISMO è un comportamento complesso che meriterebbe di essere trattato dai dirigenti in modo
meno generalizzato, impegnandosi a distinguere l'assenteismo volontario da quello involontario, giustificato
da reale malattia.
Nonostante l’assenteismo possa avere giustificazioni attenuanti (es. una reazione all'insoddisfazione
lavorativa, un modo per gestire eccessivi carichi familiari ecc.) rappresenta in ogni caso una risposta
individuale che resta illecita e opportunistica.

In altri termini, l'essere assenti non è solo qualcosa di passivo, ma talvolta esprime un segnale di
preoccupazione per una condizione lavorativa insoddisfacente e significare un abbozzo di strategia di
cambiamento, di contrattazione informale per avere condizioni lavorative migliori, soprattutto in carenza di
altri canali collettivi per affrontare questo problema.
Riguardo il tema della relazione tra soddisfazione e assenteismo, si ipotizza una causalità inversa ovvero
sarebbe l'assenteismo a causare insoddisfazione (rimproveri dai superiori per l’assenza, giudizi negativi dai
colleghi, effetti negativi sul salario e la carriera) e ciò avvierebbe un circolo vizioso, con possibili effetti di
ritirata dall'organizzazione.

Il TURNOVER è inteso come uscita volontaria da un'organizzazione che può avvenire per differenti ragioni.
Alcune di queste ragioni si potrebbero evitare se l’organizzazione le riconosce come segnale di

65
malfunzionamento e apporta i necessari cambiamenti (es. salari troppo bassi, cattive condizioni di lavoro,
sovraccarichi di lavoro).
Altre sono più difficili da affrontare, poichè originano da cause personali dei lavoratori sulle quali
l’organizzazione non ha controllo (ingressi lavorativi intenzionalmente temporanei, decidere di ritornare a
studiare, cambiare città ecc.).

7.2. Antecedenti e conseguenze


Tra i numerosi antecedenti dell'assenteismo e del turnover si considerano:
 le caratteristiche del contesto socioeconomico che tendono ad agire come variabili moderatrici (il tasso
di disoccupazione alto, il grado di apertura del mercato locale, le caratteristiche di employability della
persona). In pratica, anche quando è elevata l'intenzione di abbandonare l'attuale lavoro poco
soddisfacente, questi fattori riescono a bloccare o rallentare la sua effettiva traduzione in condotte di
abbandono e ricerca di alternative.
 le percezioni e valutazioni relative alla qualità del contesto di lavoro: in particolare ci si riferisce al clima
organizzativo più o meno positivo, al sistema di controllo più o meno rigido adottato dall'organizzazione,
alle politiche di gestione che valorizzano più o meno le persone, alle scarse opportunità di carriera, alle
violazioni del contratto psicologico ecc.;
 il sistema di norme interne al gruppo di lavoro che si è venuto creando rispetto alle assenze: solitamente
le norme di gruppo rappresentano una pressione a mantenere la presenza a tutti i costi; ma può capitare
che, invece, si determina una sorta di norma di accettazione di un certo livello di assenza, entro certi
limiti tollerabile dalla stessa organizzazione.

Fare assenze ingiustificate (o sperimentare un eccessivo turnover) ha numerosi risvolti:


 economici: una riduzione dell'efficienza produttiva e della reputazione aziendale; la non adeguatezza dei
sistemi adottati per la selezione e la formazione; l'adozione di ulteriori sistemi di controllo ecc.
 organizzativi: i colleghi non accettano facilmente che qualcuno resti a lungo assente ingiustificato; gli
effetti sulle modalità di partecipazione e confronto sociale all'interno dell'organizzazione; gli effetti sulla
persona stessa che, mettendo in atto tali condotte, esprime un «segnale d'allarme» circa la qualità
dell'esperienza lavorativa che sta sperimentando.

8. CONDOTTE CONTRO LA PROPRIETÀ


Il potenziale pericolo proveniente dall'esterno di un'organizzazione produttiva e di servizi è da tempo
monitorato da persone specializzate e da numerosi strumenti elettronici antintrusione e antitaccheggio, allo
scopo di ridurre i danni per la proprietà e per le persone.
Accanto al monitoraggio dei rischi esterni si è sviluppato un deciso interesse verso i rischi interni per la
proprietà, tra i quali si collocano: fenomeni di appropriazione indebita di denaro, materiali, prodotti,
strumenti di lavoro, dati informativi.

Per comprendere le ragioni che spingono a compiere un furto in azienda, anche in questo caso si ipotizza
un'interazione tra caratteristiche personali e fattori situazionali.
Ad esempio: si ipotizza un contesto organizzativo lassista, con regole poco chiare e un clima di tolleranza
rispetto a questi comportamenti, i sistemi di controllo vengono trascurati e vi è la presenza di esempi negativi
(dirigenti e colleghi)  tutto ciò può stimolare atteggiamenti noncuranti dei beni comuni e incentivare
determinate condotte.

Le appropriazioni indebite rappresentano di fatto l'espressione di una condotta antisociale individuale che
si verifica più facilmente quando: vi è una bassa identificazione organizzativa, insoddisfazione e inadeguato
adattamento al lavoro.
In alcuni casi tale condotta è considerata come modalità di adesione alle norme (devianti) del gruppo sociale
di riferimento e come reazione inadeguata di protesta verso le ingiustizie.

66
Rientrano nella categoria dei comportamenti controproduttivi anche:
Vandalismo: è assimilabile alle condotte incivili discusse precedentemente ed è contiguo ai frequenti episodi
di natura antisociale osservabili anche fuori dai contesti lavorativi: l'uso irresponsabile dei beni pubblici, la
scarsa pulizia delle strade, i graffiti sui muri delle città o addirittura devastazioni nelle scuole o nelle aule
universitarie.
Sabotaggio: è attuato per mezzo di episodi espressi in forme tradizionali o moderne come la diffusione di
virus informatici da parte di hackers.
Le forme classiche del sabotaggio hanno un carattere collettivo e spesso rispondono a istanze ideologiche di
cambiamento della situazione di sfruttamento del lavoro e di alienazione dei lavoratori. Può avere anche un
significato di protesta nei confronti delle direzioni aziendali e di contrasto per riportare a un migliore
equilibrio i rapporti sociali interni. Queste forme collettive agiscono secondo una strategia di aumento del
controllo collettivo della situazione lavorativa.
Le forme individuali possono riguardare anch’esse la proprietà, la reputazione, i prodotti e servizi
dell'azienda ed essere attuate di nascosto, provocando danni localizzati o generali sull'organizzazione.
Queste condotte esprimono risentimento e vendetta personale rispetto a torti subiti da parte dei capi o dei
colleghi, ma anche bisogni di distruttività, di ricerca di sensazioni forti, di avidità o di evitamento dell'impegno
lavorativo.

Conseguenze delle condotte contro la proprietà:


Per l'organizzazione:
- le perdite finanziarie dirette
- perdite finanziarie per reintegrare gli oggetti rubati o danneggiati
- perdite di reputazione (immagine di un'azienda non sicura)
- incrinatura del clima di fiducia
Per i lavoratori:
- sentimenti di preoccupazione e sospetto
- interferenza sulla fiducia nei rapporti interpersonali
- percezione di minacciosità ambientale
- assunzione di condotte eccessivamente guardinghe che interferiscono con il normale svolgimento
dei normali compiti

9. SINTESI DELLE LINEE DI INTERVENTO


La ricerca scientifica ribadisce l'importanza di cogliere i meccanismi che stanno alla base delle condotte
controproducenti, evitando di ridurli a semplici risposte di tipo psicopatologico individuale e sottolineando,
invece, il ruolo di numerosi fattori responsabili della loro genesi. È centrale l'interazione tra fattori personali
e del contesto lavorativo, che stimola reazioni emotive e cognitive, che facilitano la messa in atto di tali
comportamenti.
Sarebbe utile rilevare precocemente gli aspetti personali implicati nelle condotte controproduttive, così da
agire, ma la difficoltà nel mettere in atto questa strategia pone l’accento su approccio realistico in cui si
monitorano e migliorano le caratteristiche del contesto lavorativo e delle modalità di gestione
dell’organizzazione, affinché il lavoro sia più motivante e menoa stressante.
Progettare il lavoro e gestirlo con coerenti politiche amministrative e del personale comporta un più facile
conseguimento di risultati produttivi e di benessere. È utile:
a) incentivare un buon match tra desideri, capacità del lavoratore e richieste del lavoro;
b) ridurre gli impedimenti tecnici, procedurali e organizzativi che interferiscono sulla prestazione e sullo
svolgimento del ruolo;
c) verificare le possibili condizioni di sovraccarico e di squilibrio tra vita lavorativa e personale;
d) assicurarsi della reale applicazione dei principi di giustizia e trasparenza;
e) assicurarsi che le relazioni con i capi e tra i collaboratori siano fondate su principi di rispetto reciproco;
f) preparare i capi a riconoscere i primi segnali di malessere per farsene carico in tempo con opportuni
interventi evitando che si protraggano ulteriormente.

67

Potrebbero piacerti anche