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INDICE:
Per queste ragioni, in psicologia del lavoro è piuttosto frequente un approccio costruttivista che si pone
l'obiettivo di generare teorie attraverso l'analisi clinica di casi singoli, il resoconto etnografico, lo studio di
documenti, il metodo narrativo. Il percorso avviene spesso a ritroso, cioè dal dato empirico alla costruzione
di modelli teorici. Si possono inoltre trovare nella ricerca degli elementi di serendipità. Questo termine
descrive una modalità conoscitiva che presuppone intuizione, flessibilità e apertura all'esperienza, che porta
alla scoperta scientifica in maniera quasi accidentale.
L'esempio tipico di serendipità in psicologia del lavoro è quello degli studi di Elton Mayo che hanno contribuito
a mettere in luce il ruolo delle relazioni umane nei luoghi di lavoro, senza che questo fosse previsto nelle sue
ipotesi di ricerca: studiando il ruolo delle pause e degli incentivi sulla produttività, Mayo giunse a riconoscere
che la crescita di un forte senso di gruppo, con autonomia e responsabilità, favoriva un incremento nella
produttività, indipendentemente dalle soluzioni orarie o premiali adottate.
Secondo Sarchielli:
gli psicologi del lavoro possono contribuire a garantire la costante spinta all'efficienza che caratterizza le
organizzazioni di lavoro, ma non solo in termini di riduzione dei costi e semplificazione delle procedure,
bensì anche in termini di maggiore sensibilità verso gli utenti/clienti finali e di qualità della vita interna
all'organizzazione.
gli psicologi del lavoro possono contribuire a migliorare la qualità della vita lavorativa e il benessere degli
individui nelle organizzazioni indagando: quali caratteristiche dovrebbe avere l'ambiente di lavoro per
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favorire il benessere di tutti; come garantire equità e trasparenza nella distribuzione dei benefici; come
favorire la realizzazione delle aspirazioni individuali.
la psicologia del lavoro può contribuire ad affrontare alcune lotte significative tipiche del mondo del lavoro
contemporaneo: gli studi sull'invecchiamento delle forze di lavoro, sulle disparità di genere e
sull'integrazione e inclusione al lavoro di persone con diversi gradi di abilità.
la psicologia del lavoro può contribuire ad affrontare temi quali la gestione del lavoro nel tempo e nello
spazio, indagando su come affrontare i cambiamenti che stanno trasformando il lavoro, da attività svolta
in un preciso luogo e all'interno di uno schema temporale ben definito, a un'attività con minori prescrizioni
temporali e che può essere svolta anche a distanza (es. telelavoro).
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dall’interazione con il mondo dei giuristi, perchè le pratiche di selezione devono tenere conto di una serie di
vincoli normativi che concernono la tutela della privacy della persona e dei suoi diritti.
1. Livello di analisi intrasoggettivo: a questo livello la psicologia del lavoro si occupa di alcuni processi
intrapsichici del soggetto e mette in relazione diverse condizioni dell'esperienza psicologica.si osservano i
processi interni, consapevoli alla persona, che conducono al comportamento, alla presa di decisione e
all’elaborazione cognitiva.
Ad esempio: esaminare le esperienze di gestione dello stress lavorativo e le modalità di fronteggiamento.
2. Livello di analisi soggetto-compito: il focus riguarda l'interazione tra persona e compito lavorativo. Gli
studi si interessano di come le persone costruiscono script, mappe cognitive e modelli mentali della
situazione di lavoro. Essi sono forme internalizzate di conoscenza che guidano l'azione e sono fondamentali
per un'efficace esecuzione del compito. Questo livello di analisi viene preso in considerazione quando si
vogliono mettere in relazione le condizioni di esecuzione di un compito e le caratteristiche dell'operatore
per definirne il grado e la tipologia di attività.
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Ad esempio: l'insorgenza di stress è considerata come l'esito di un inadeguato rapporto tra risorse della
persona (competenze) e richieste del compito lavorativo.
3. Livello di analisi di gruppo: l'attenzione dello psicologo è rivolta verso il gruppo sociale (gruppo di lavoro,
team, task force). Si tende a considerare i gruppi di lavoro come unità di analisi complessiva, piuttosto che
come somma di tanti individui. Un livello di analisi di gruppo è usato anche per studiare i processi di
apprendimento durante le esperienze di formazione e l'efficienza o i conflitti dei gruppi di lavoro.
Ad esempio: l'équipe che opera in una sala operatoria può essere studiata come un insieme per osservare
le forme di sincronismo, la combinazione delle diverse competenze, i modelli mentali condivisi del
compito.
4. Livello di analisi organizzativo: è il livello di analisi appartenente alla psicologia delle organizzazioni, una
disciplina che opera in stretta connessione con la psicologia del lavoro.
Ad esempio: gli studi che hanno esaminato le culture organizzative, intese come insieme di valori generali
che regolano la vita di una organizzazione. Lo studio di queste culture è stato molto proficuo nell'affrontare
fenomeni come: processi di fusione, incorporazione tra diverse organizzazioni, distribuzione di potere tra
diverse coalizioni organizzative, accoglienza di nuovi membri dell'organizzazione.
5. Livello di analisi sociale: è un livello di analisi che prende in esame l'individuo al lavoro secondo una
prospettiva più ampia, che considera i macroprocessi socioeconomici e culturali che regolano una società
e caratterizzano una determinata fase storica. Tutti gli atteggiamenti e orientamenti lavorativi sono
considerati come il prodotto di processi economici, culturali e normativi che caratterizzano diverse fasi
storiche e l'appartenenza a diversi gruppi sociali.
Ad esempio: studi sul significato del lavoro in paesi con diversi modelli di sviluppo economico
e con diverse strutturazioni del mercato del lavoro.
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1. La PSICOLOGIA DEL LAVORO si occupa del lavoratore che persegue scopi, che apprende, che prova
esperienze psicologiche di fronte al proprio compito, nell'interpretazione del proprio ruolo e nel rapporto con
l'ambiente.
2. La PSICOLOGIA DELLE RISORSE UMANE affronta una serie di problematiche individuali e organizzative, allo
scopo di trovare il migliore adattamento possibile tra caratteristiche dell'individuo e richieste organizzative.
3. La PSICOLOGIA DELL'ORGANIZZAZIONE riguarda lo studio di gruppi e organizzazione nel suo insieme e si
pone come scopo principale quello di generare e guidare il cambiamento organizzativo.
Questa tripartizione ha un carattere prevalentemente didattico, in quanto nella ricerca e nell'intervento molto
spesso è difficile distinguere in modo chiaro in quale dei tre sottoambiti si stia operando.
3. CENNI STORICI
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lavoratori alla massima produttività, i rischi legati alla sicurezza. Questi limiti ebbero risonanza in Europa dove
il taylorismo stentò a diffondersi, mentre venne adottato in Unione Sovietica.
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3.5 L'esperienza del Centro di psicologia dell'Olivetti
Nel 1943 Adriano Olivetti chiese a Cesare Musatti, professore di Psicologia sperimentale di Padova
(riconosciuto padre della psicoanalisi italiana), di progettare un centro di psicologia innovativo nella sua
fabbrica. In essa, la presenza degli psicologi doveva contribuire a migliorare sia l'organizzazione e la gestione
aziendale, sia le condizioni del lavoro nelle fabbriche, dando voce agli operai stessi e alle loro esigenze.
Il centro, inizialmente chiamato Laboratorio di psicotecnica, viene annesso all'Ufficio di selezione del
personale e solo dal 1959 diviene formalmente «Centro di psicologia», come struttura autonoma. Il centro si
caratterizza per una metodologia che integra l'approccio clinico, l'osservazione e l'indagine quali-quantitativa.
Musatti aveva analizzato i tempi e i metodi di lavorazione, dimostrando empiricamente la loro astrattezza e
incoerenza rispetto ai parametri fisiologici e psicologici della condotta del lavoratore, convincendo così gli
ingegneri sull'opportunità di modificare i criteri dei cottimi aziendali. Molto famoso poi è l'intervento sul lavoro
di montaggio: a quel tempo era stata introdotta la linea di montaggio in movimento (detta transfer), in cui la
macchina da scrivere che si stava assemblando passava velocemente davanti all'operaio. Ciò causava
insoddisfazione e ansia nelle prestazioni dei lavoratori, perciò si puntò a ritornare alla linea tradizionale, più
lenta ma meno dannosa per gli operai. Rispetto alla psicologia dell'organizzazione è importante
l’insaturazione delle UMI (Unità di montaggio integrate): Si trattava di piccoli gruppi di lavoro (da 10 a 30
persone) che operavano in modo autonomo in una specifica area dello stabilimento, assumendosi la
responsabilità dell'assemblaggio, del collaudo e della diagnosi di eventuali difetti. I tempi lavorativi erano
concordati all'interno del gruppo, come pure le modalità di rotazione da parte di tutti nei diversi posti.
L’apporto della psicologia delle risorse umane nel campo della selezione del personale riguarda l'introduzione
sistematica dei colloqui psicologici, mirati a conoscere le persone, i loro atteggiamenti e aspettative. Un merito
importante di questa disciplina risiede anche nel Centro di riqualificazione operai che mirava al welfare
aziendale: lavoratori con problemi e disagi psicologici o che avevano subito gravi malattie o invalidità non
venivano demansionati ma erano seguiti personalmente con forme di counselling e programmi di
riammissione.
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CAPITOLO 2 - LAVORARE OGGI: ESIGENZA DI UN NUOVO CONTRATTO PSICOLOGICO
Il modo delle imprese di competere sui mercati concerne la persistente competizione tra le aziende che è
stata accolta come nuova strategia di sviluppo.
La competizione è stata considerata come bene necessario; si è spesso focalizzata sul possesso di alti livelli di
competenze e professionalità, sui vantaggi della lean production e su un'ampia deregolazione delle modalità
di ingresso e uscita dal mercato del lavoro.
Ne sono conseguite ristrutturazioni aziendali profonde, con ridimensionamenti, tagli di reparti e di livelli
gerarchici, fusioni ecc. che hanno permesso alle aziende di essere più forti ma flessibili e, di conseguenza,
competitive.
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Conflitto intergenerazionale: imputabile alle differenze tra generazioni negli atteggiamenti verso il lavoro,
negli stili di vita, nel coinvolgimento organizzativo, negli stili comunicativi, nelle priorità e nel grado di
immediatezza degli scopi da raggiungere.
Genere Il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Europa resta più basso di quello
maschile (63% vs 75% nella fascia tra 20 e 64 anni) ed è assai disomogeneo nei vari paesi.
Esso sta sensibilmente crescendo negli ultimi anni, nonostante i persistenti ostacoli allo sviluppo di carriera, le
ingiustificate differenze di trattamento salariale e la carenza dei servizi per la prima infanzia o per gli anziani
invalidi che spesso costringono le lavoratrici a interrompere i loro percorsi professionali, con successive
difficoltà di rientro.
Immigrati Dagli anni Novanta l'afflusso di emigranti risulta in costante crescita e, nonostante i vari tipi di
limitazioni poste dalla politica, la loro presenza sul lavoro risulta notevole.
Gli ambiti di inserimento tipici sono l'agricoltura, l'edilizia, il piccolo commercio con prevalenza di occupazioni
manuali faticose, a bassa attrattività, spesso pericolose e al limite della regolarità contrattuale.
L'immissione in uno stesso contesto organizzativo di differenti culture e modi di pensare comporta differenze
visibili tra gruppi minoritari e di maggioranza, è necessario perciò arginare possibili conflitti prestando
attenzione al modo con cui sviluppano relazioni intergruppi e ai potenziali effetti di categorizzazione sociale
(favoritismi in-group e discriminazioni out-group).
2. SFIDE DA AFFRONTARE
a) possa rappresentare, per le persone che si stanno avvicinando al lavoro o che stanno già lavorando, una
sfida o un vincolo per le loro esperienze e progetti di vita;
b) possa divenire un tema saliente da approfondire in ambito psicologico, sia per comprendere il significato
personale e sociale dell'esperienza di lavorare sia per contribuire a realizzare contesti di lavoro
psicologicamente sostenibili.
Le strategie perseguite dai datori di lavoro hanno creato mercati del lavoro segmentati e con differenti livelli
di protezione sociale, senza creare un buon numero di lavori aggiuntivi per contrastare i rischi di
disoccupazione e per ridurre il lavoro irregolare (lavoro nero, pratiche di caporalato ecc.). In realtà la
deregolamentazione del lavoro che man mano si è venuta a creare ha solo aumentato la probabilità di lavori
temporanei precari, rafforzando la segmentazione tra lavoratori forti (insider), in posizione centrale nei
processi produttivi e con possibilità di carriera e lavoratori vulnerabili (outsider), meno pagati e con più ridotte
opportunità di sviluppo.
La flessibilità sembra essere il tratto distintivo dei contesti di lavoro moderni, possiede la connotazione
aggiuntiva di precarietà, lasciando sempre più incerto il ruolo della forza lavoro. Ora il lavoro non risulta più
un processo sicuro, prevedibile e regolamentato. Tale incertezza riguarda non solo l'accesso a un posto di
lavoro, ma i margini di manovra del lavoratore nel delineare il suo percorso di carriera. I nuovi lavori appaiono
deregolati in quanto non richiedono una stabilità di spazio e tempo e procedure standard, ma implicano la
flessibilità del lavoratore, che può autoregolarsi stabilendo il quando, il dove, il come lavorar, assumendosi
però la responsabilità del risultato che otterrà.
La flessibilità ha messo in evidenza varie dimensioni che la caratterizzano e che spesso assumono connotazioni
negative per le persone. La ricerca psicosociale sulla flessibilità ha mostrato che è come trovarsi di fronte a
un'etichetta categoriale che riguarda una classe di oggetti sociali differenti. In termini analitici possiamo
delineare:
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una flessibilità temporale, che riguarda quando si lavora e con quali norme temporali;
una flessibilità tecnologica, che riguarda la ripartizione ottimale dei compiti tra uomo e macchina);
una flessibilità contrattuale, come ad esempio le forme e i rapporti di lavoro atipici;
una flessibilità funzionale, ovvero quali forme di divisione e organizzazione del lavoro e quali abilità per il
lavoratore;
una flessibilità spazio-temporale, che riguarda soprattutto la variabilità relazionale nei team e nelle
organizzazioni virtuali e le forme di lavoro a distanza fondate sulle nuove tecnologie di comunicazione
elettronica.
Queste varie flessibilità rappresentano la crescente complessità della domanda lavorativa. Inoltre,
determinano effetti diretti sugli atteggiamenti (es. l'abbassamento della soddisfazione lavorativa) e indiretti e
negativi, sulle condotte di impegno e coinvolgimento, sulla riuscita nella prestazione, sulla vulnerabilità allo
stress, sullo stato di salute e sul benessere.
I cambiamenti socioanagrafici dei lavoratori comportano una grande eterogeneità e diversità all’interno della
forza lavoro, di conseguenza l’attenzione si sposta sugli effetti subiti dal contesto organizzativo e dalle persone
che si trovano ad interagire anche con colleghi molto dissimili da loro per atteggiamenti, valori o stili di vita.
La diversità sul lavoro si caratterizza come insieme di differenze visibili (o meno visibili direttamente) imputabili
all'età, al genere, all'appartenenza etnica, allo status socioeconomico, al livello culturale e di istruzione, alla
provenienza geografica ecc. Tali differenze diventano salienti quando si vuole creare un contesto di convivenza
nel quale ciascun lavoratore e i propri contributi vengano apprezzati.
Si potrebbero valorizzare le diversità tra i lavoratori come fonte di vantaggi organizzativi: ad esempio con la
disponibilità di un più ampio patrimonio di conoscenze e competenze, di prospettive di pensiero e punti di
vista innovativi, la presenza di più modalità di risposta adattabili alle esigenze dei clienti.
In realtà, la gestione delle diversità risulta un compito complesso per i diversity managers. Infatti, ai vantaggi
si contrappongono: disaccordi interpersonali, conflitti tra gruppi, discriminazioni latenti presenti nei vari
processi di gestione del personale (assunzione, formazione, sviluppo di carriera), abbassamento delle
prestazioni, maggiori livelli di stress. Si può dire che sarebbero necessari alcuni fattori per dare un esito
favorevole alla diversità interna:
una strategia organizzativa orientata allo sviluppo e alle esigenze dei consumatori;
gestione delle risorse umane che valori le differenze, prevenendo vari pregiudizi reciproci;
un clima focalizzato sulla cooperazione;
una leadership aperta e facilitante la partecipazione;
caratteristiche individuali come l'apertura mentale, l'estroversione e la self efficacy.
Per quanto riguarda la diversità connessa con l'età, si è dimostrato che un ruolo importante di riduzione degli
effetti negativi è collegato a fattori come:
- la varietà delle età, in quanto una equilibrata distribuzione delle età riduce il rischio di pregiudizi;
- il grado di polarizzazione delle età, se i gruppi di età non sono troppo estremizzati e separati tra loro (es.
giovani vs anziani) si riducono i rischi di discriminazione.
- le dimensioni aziendali, poiché nelle grandi aziende è più probabile un'armonica distribuzione delle età;
- la stabilità del posto di lavoro, poiché da parte dei lavoratori è vista come un beneficio, che essi ricambiano
valorizzando le logiche di cooperazione tra tutti i gruppi.
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2.3. Sicurezza e qualità del lavoro: una meta da raggiungere
Numerose ricerche hanno evidenziato preoccupazione e critiche per l'intensificazione del lavoro e le sue
condizioni di pericolosità (ad esempio nell'edilizia, in agricoltura) e per l'aumento di stress, come conseguenza
dei modi di lavorare e delle forme contrattuali che li regolano.
Sia i fenomeni di segmentazione sia l’influenza del mercato sul lavoro portano alla distinzione tra good e bad
jobs (questi ultimi riservati a persone più socialmente vulnerabili o con scarse alternative di scelta) e
all’accentuazione delle diseguaglianze nell'accesso a un lavoro soddisfacente. Nel 2008 l'International Labour
Office ha avviato discussione sul decent work, dichiarando che è limitato dare una definizione di lavoro
dignitoso basandosi solo su parametri macro come tasso di disoccupazione, lavoro minorile, discriminazioni
di vario tipo. Si dovrebbe, invece, tenere conto anche di indicatori della qualità della vita lavorativa, delle
istanze di equità e giustizia sociale e del carattere emancipatorio del lavoro soprattutto per coloro che partono
da condizioni di svantaggio sociale. È altresì fondamentale dare valore al punto di vista del lavoratore e alla
sua esperienza soggettiva implicata nell'attività lavorativa, per quanto riguarda aspettative, desideri e
motivazioni che possiede, ma anche gli effetti esercitati sul benessere, sulla salute e sulle chances di
integrazione sociale. Anche per quelle professioni un tempo considerate sicure e prestigiose, la ricerca ha
confermato gli effetti deleteri dovuti a fenomeni come precarietà lavorativa e calo dei redditi.
La ricerca ha poi sottolineato l'importanza della significatività del lavoro per la persona. Il lavoro è dignitoso
quanto più è significativo per la persona (ovvero coerente con i suoi valori, interessi, atteggiamenti e capacità)
e può svolgere le sue funzioni primarie di sostentamento, sviluppo di connessioni sociali e mezzo di
autodeterminazione. Quando ciò non si realizza, le aspettative del lavoratore di trovare benefici nel suo lavoro
calano, per cui non sente che valga la pena di coinvolgersi. Purtroppo se da un lato l’azienda chiede al
lavoratore coinvolgimento, partecipazione e maggiori carichi di impegno, dall'altro lato le aziende hanno
diminuito la stabilità del posto di lavoro, i percorsi di carriera lineari e i tradizionali benefits. I risultati finali,
quindi, risultano troppo spesso sfavorevoli per il lavoratore; a ciò si aggiungono l'instabilità delle posizioni
lavorative e il senso di isolamento e di scarso sostegno sociale nel lavoro quotidiano, accentuando la
percezione di bassa qualità del lavoro.
bilanciare le diseguaglianze di potere tra lavoratori e datori di lavoro nella contrattazione dei salari e delle
condizioni di lavoro;
“dar voce” alle preoccupazioni dei lavoratori rispetto alle esigenze di equità nei trattamenti, alla
correttezza delle procedure lavorative, alla tutela di fronte a varie forme di sfruttamento della
manodopera o ai rischi di perdita del lavoro;
regolare il conflitto sociale affinché non assuma modalità distruttive, in occasione delle frequenti
ristrutturazioni o chiusure aziendali.
Tali funzioni hanno avuto un notevole ruolo nel miglioramento della qualità del lavorare e dei contesti di
lavoro. Per svolgere queste funzioni con efficacia, è necessario che i sindacati agiscano come forme di reale
aggregazione sociale che abbiano lo scopo di offrire ai lavoratori il riconoscimento di tutti i benefici sopra
descritti. I cambiamenti del lavoro e del mercato occupazionale incidono sui sindacati, tant’è che vi è stato un
declino quantitativo della sindacalizzazione in gran parte dei paesi industrializzati. Tra i cambiamenti
responsabili, distinguiamo: le diverse forme di deregolazione del mercato del lavoro, la riduzione dei lavori di
tipo operaio e la diffusione dei lavori flessibili, la crescita di quelli autonomi e di natura professionale, che
rendono meno forte l'esigenza di un'appartenenza sindacale. È importante sottolineare anche la distanza del
sindacato rispetto i nuovi temi di preoccupazione sociale come: la conciliazione dei tempi di lavoro, l'equità e
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le differenze di genere, il decent work, la piena utilizzazione delle competenze dei lavoratori laureati,
l'aggressività sul lavoro e il mobbing ecc.
La composizione demografica della forza lavoro influisce sui modi con cui le organizzazioni sindacali difendono
i legittimi interessi dei lavoratori, privilegiando gli adulti rispetto ai giovani in cerca di occupazione. Gioca anche
una ridotta sensibilità di queste organizzazioni nel considerare i bisogni delle nuove categorie di lavoratori
(donne, precari, immigrati).
Il Job Demands-Job Resources Model organizza una serie di proprietà delle condizioni di lavoro all'interno di
due ampie categorie:
1. le domande al lavoratore che implicano l'impegno di energie fisiche e mentali (ad esempio, complessità e
pesantezza dei compiti, scadenze temporali, eccessivi carichi di lavoro fisico e mentale, micro conflitti,
insicurezza e minaccia di perdita del lavoro ecc.);
2. le risorse per il lavoratore che il contesto offre in misura più o meno adeguata e che sono funzionali al
migliore svolgimento del suo lavoro, alla riduzione dei costi fisiologici e psicologici delle domande e alla
sua crescita professionale
Tutte le domande esigono risposte in termini di prestazione lavorativa e richiedono un impegno da parte della
persona. Alcune possono essere percepite con una connotazione negativa (essere viste come ostacoli attuali
o per la crescita futura), altre invece positiva (essere considerate sfidanti, motivanti la persona e stimolanti
l'apprendimento e la sua riuscita professionale).
Poiché molto del lavoro richiesto (e degli apprendimenti necessari) si basa su scambi informali, su relazioni
interpersonali e sulla partecipazione a network sociali, la nuova domanda lavorativa implica lo scambio e la
condivisione sistematica di informazioni. Si sviluppa un apprendimento contestuale che ha basi relazionali e
che può influenzare positivamente gli atteggiamenti e i modi con cui le persone di un certo gruppo o comunità
lavorativa partecipano al loro lavoro: non si tratta più di aderire a un comando gerarchico, ma implica il
coinvolgimento in questa rete di relazioni sociali. La crescita della domanda sociale può diventare un compito
costoso per il lavoratore che deve continuamente far fronte al peso di interazioni con gli altri spesso connotate
dalla competizione, da divergenze, microconflittualità e persino condotte contro-produttive. Tuttavia queste
richieste relazionali possono essere percepite come occasioni sfidanti da parte del lavoratore per potenziare
le proprie competenze. Il carattere delle domande sociali deriva da due fattori:
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1. la dimensione cooperativa richiesta da molti lavori (si pensi alla diffusione del teamwork, dei gruppi di
lavoro temporanei, dei gruppi di progetto, dei gruppi virtuali ecc.); la collaborazione e cooperazione sono
progettate come necessarie, ma non facili da perseguire nei contesti lavorativi odierni.
2. Esse dipendono in gran parte dalla responsabilità del lavoratore, dalla sua capacità di integrarsi nella rete
sociale e di mantenere un adeguato livello di fiducia reciproca che faciliti il lavoro collettivo.
In questo caso il lavoratore vive un doppio ruolo: come dipendente rappresentante dell'azienda; ma anche
come lavoratore percepito come indipendente al quale il consumatore dovrebbe potersi rivolgere con fiducia
per essere aiutato. Per tale situazione si è posta l’enfasi sulle nozioni di intelligenza e competenza sociale per
gestire meglio le relazioni lavorative. Con il primo termine ci si riferisce alla sensibilità nei confronti degli altri,
all'ascolto attivo, alla comprensione di pensieri, sentimenti e intenzioni dell'altro, mentre con il secondo si
sottolineano le capacità di azione verso l'altro (saper lavorare in gruppo, comunicare con efficacia).
Tra le risorse del contesto alcune attengono alle caratteristiche fisiche dell'ambiente lavorativo (ad esempio,
alla disponibilità di spazi e mezzi efficienti per svolgere l'attività con il minor numero di difficoltà) o alla
strutturazione del lavoro (progettazione accurata dei compiti, varietà delle attività da svolgere, clima sociale
poco conflittuale). Altre si riferiscono ad importanti valori assegnati all'attività lavorativa come la solidarietà
tra lavoratori, il sostegno sociale, la giustizia e l'equità dei trattamenti, l'utilità, la correttezza e la responsabilità
sociale. Altre, infine, si riferiscono al modo in cui il lavoro viene organizzato e al modo in cui sono gestite le
persone, poiché questi fattori hanno un'influenza:
- nel rendere le domande più o meno complesse, più o meno difficili o sfidanti;
- nel modulare le risorse in modo che possano essere più accessibili o meglio utilizzate per lo svolgimento
delle attività;
- nell'attuare monitoraggi accurati sul livello di complessità delle domande;
- nel fornire adeguati feedback sul lavoro svolto;
- nello svolgere una supervisione supportiva con più efficaci sostegni motivazionali.
In particolare, i manager possono contribuire a un migliore equilibrio, intervenendo sulla natura e il livello
delle domande e delle risorse contestuali. Nel caso di domande eccessive (o percepite solo come ostacoli) essi
possono intervenire mediante varie azioni (es. riconsiderando la progettazione dei compiti, adeguando la
strumentazione, alleggerendo le scadenze ecc.). Nel caso non si possa intervenire sulla natura del lavoro e i
suoi rischi di sovraccarico, potrebbero essere fornite risorse supplementari (acquisizione di nuove
competenze), possono essere variati i compiti e migliorati i riconoscimenti e i premi per l'attività svolta,
sottolineando le opportunità di crescita futura, così da far percepire la situazione attuale secondo una
prospettiva positiva.
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Inoltre le risorse personali svolgono un ruolo importante su come viene percepito l'ambiente e su come di
conseguenza si reagisce a esso.
I valori e i significati del lavoro rappresentano risorse personali che operano come schemi di riferimento
comparativo utili per orientare e guidare le proprie scelte, capire meglio la propria esperienza lavorativa e
valutare quanto essa sia coerente con le proprie credenze e aspettative. La ricerca sui significati del lavoro ha
da tempo sottolineato che il “lavorare” non è solamente una condotta di scambio orientata al reddito, ma un
processo che è modulato dal valore attribuito al lavoro in generale, come fonte e stimolo:
per essere e sentirsi competenti nel fare e nel progettare qualcosa di Importante per la propria vita con
riferimento a sé e agli altri;
per definire aspetti importanti della propria identità personale e sociale;
per costruire relazioni soddisfacenti con gli altri e integrarsi nel Proprio contesto lavorativo;
per cercare di ottenere riconoscimenti per il proprio valore espresso Nelle azioni e nelle interazioni;
per legittimare la propria posizione sociale attuale e le proprie aspettative di crescita socioprofessionale.
Attualmente, purtroppo, si sta verificando uno sgretolamento dei significati del lavoro, che va di pari passo
con la crescita tra i lavoratori della sfiducia, del risentimento e di una concezione prevalentemente strumentale
del lavoro. Ciò deriva dalla delusione per non poter trovare un lavoro significativo corrispondente ai propri
valori o, in molti casi, dalle diseguali opportunità di accesso al lavoro dovute a condizioni di svantaggio
socioeconomico, culturale ed educativo.
4.2. Proattività
Secondo Ashforth il compito di autoregolazione della propria storia lavorativa da parte della persona non è
semplice poiché i suoi bisogni e motivazioni potrebbero spingerla a interiorizzare troppo velocemente il punto
di vista e le richieste dell’organizzazione. Parlando di bisogni, ci si riferisce ai:
Si è osservato infatti che: più la persona riesce a mantenersi attiva fin dall’ingresso nel lavoro più il suo
inserimento e adattamento risultano positivi. Affinché questo processo di interazione e influenza reciproca tra
persona e contesto lavorativo si svolga in modo soddisfacente è necessario che la persona possieda un
adeguato set di risorse psicosociali, fra le quali la proattività. Il ruolo attivo della persona è divenuto centrale
anche in relazione ai forti cambiamenti dei contesti organizzativi e delle variabili modalità di inserimento
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occupazionale. Le ricerche empiriche sulla proactivity del lavoratore hanno messo in risalto numerose
sfaccettature di questo costrutto:
1. Alcuni studi sottolineano le strategie comportamentali che permettono di rilevare l’intenzione del
soggetto di intervenire attivamente nel percorso di inserimento, cercando di impegnarsi per migliorare la
carriera (ad esempio, mediante la consultazione dei superiori, lo Sviluppo di nuove capacità e conoscenze,
la creazione di una rete di contatti sociali).
2. Altri evidenziano i processi di negoziazione tra individuo e contesto organizzativo grazie ai quali le persone
possono tentare di ridefinire i propri compiti e ruoli organizzativi, in modo che siano congruenti con le
proprie aspettative.
3. Sono poi considerati i processi cognitivi per attribuire un senso alla realtà allo scopo di ottenere un
maggiore controllo nel modo di strutturare la situazione. Si prendono in esame le aspettative del
lavoratore che possono essere più o meno adeguate rispetto alla realtà che si incontra, generando
esperienze di congruenza cognitiva oppure di contrasto/sorpresa. Tali esperienze possono, a loro volta,
costituire elemento di facilitazione o di ostacolo dell’intero processo di inserimento lavorativo.
4. Quanto più il lavoratore che entra, o sta già operando in un dato contesto lavorativo, si impegna nel
raccogliere informazioni (per regolare il proprio stile di azione, per comprendere atteggiamenti e valori
dell’organizzazione, per ridefinire il proprio ruolo e per raggiungere un grado accettabile di integrazione
del gruppo di lavoro) e per confrontarsi con gli altri e ottenere un feedback sull’appropriatezza delle
proprie condotte e atteggiamenti, tanto più risulterebbe facilitato nel suo inserimento nel nuovo contesto.
5. La Condotta proattiva è stata definita da Crant come il «prendere Iniziativa nel migliorare le circostanze
attuali o nel crearne delle nuove; esso implica rimettere in discussione lo status quo, piuttosto che
adattarsi passivamente alle condizioni presenti» [
In generale, la proattività si riferisce a un insieme di risorse personali acquisite con l’esperienza sin dal periodo
scolastico e formativo. Esse sono funzionali a: capire cosa ci si attende da parte dell’organizzazione e cosa si
desidera personalmente dal lavoro; a negoziare in modo attivo e consapevole il proprio ruolo e la propria
presenza nell’organizzazione, con conseguenze in genere positive sia per l’azienda (efficienza, innovazione
ecc.) che per il lavoratore (ad esempio, la possibile personalizzazione del lavoro).
Prerequisiti di proattività:
4.3. Employability
Tra le risorse personali necessarie per affrontare il lavoro un posto preminente è attribuibile anche
all’«employability». Comprende Infatti un vasto insieme di contenuti e significati molto diversi tra loro:
1. si tratta di «punti di forza» della persona, ovvero risorse acquisibili, funzionali a soddisfare le opportunità
di costruire un percorso di carriera significativo per la persona;
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2. le persone differiscono tra loro non solo rispetto a risorse più oggettive (come, ad esempio, i livelli di
istruzione), ma anche nella misura e nel grado in cui esse sono disposte ad adattare tali risorse psicosociali
alle specifiche situazioni;
3. per comprendere gli esiti più o meno favorevoli dell’employability vanno considerati sia i fattori interni alle
persone sia quelli esterni legati al contesto organizzativo e occupazionale.
L’occupabilità è direttamente legata al capitale umano acquisito con la formazione e l’esperienza e al capitale
sociale frutto delle interazioni sociali e della rete di relazioni che assicurano alla persona informazioni, sostegno
solidale, opportunità di influenza sugli altri e uno status sociale più o meno soddisfacente.
1. Quelli mirati alla capacità di gestire la carriera, come il career self-management (definire obiettivi,
riflettere e pianificare le azioni), la Career resilience (saper resistere agli ostacoli con flessibilità e fiducia),
l’orientamento imprenditoriale ecc.;
2. Quelli che mettono in risalto aspetti disposizionali come la proattività, la self-efficacy, il controllo e
stabilità emozionale, l’adattabilità, il capitale psicologico ecc.;
3. Quelli di natura relazionale come la socievolezza (grado di apertura verso gli altri e capacità di costruire
reti sociali).
Una specifica attenzione merita il costrutto di Adattabilità, non è inteso nel suo significato comune di
“adesione passiva e conformità alle richieste ambientali”, bensì è un concetto che vuole indicare una strategia
di coping attivo messa in atto per gestire i compiti, le difficoltà e i traumi connessi con i ruoli e la vita lavorativa.
Si intende come una risorsa positiva, che si basa su quattro dimensioni:
Quindi le risorse della persona rappresentano il mezzo con il quale poter gestire con efficacia le relazioni
lavorative. In tale compito sono facilitati coloro che possiedono risorse cognitive, affettive e di esperienza
adeguate per l’organizzazione, mentre rischiano di restare ai margini i molti che, non avendo lo stesso livello
di doti personali e sociali, sono costretti a subire adattamenti indesiderati.
C’è da dire, però, che in entrambi i casi (individui con elevate risorse e individui più vulnerabili o che devono
ancora acquisirle) si conferma la crescente rilevanza del ruolo della persona (con il suo patrimonio di valori,
credenze, aspettative, competenze, identità, sostegno sociale ecc.) nell’influenzare o nel negoziare patti di
reciprocità equilibrati, che non intacchino la coerenza delle aspettative e dei progetti personali di riuscita
sociale e professionale.
Il lavoro è uno scambio tra prestazione e contro-prestazione: io lavoratore mi impegno a fare qualche cosa che
tu organizzazione mi chiedi, dedicando energie e tempo, e in cambio ricevo qualcosa di significativo e di valore
per me. Questa relazione è regolata formalmente dal contratto di lavoro, che stabilisce obblighi e doveri
reciproci relativi ai compiti e alle norme principali da seguire sul lavoro e prevede sanzioni per il loro mancato
rispetto da ambo le parti. Tuttavia, nella realtà quotidiana l’esperienza di lavoro è talmente complessa e
dinamica che molte sue sfaccettature restano indefinite e sono affidate a intese informali, non scritte, che
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possono evolvere nel tempo. Tra queste sfaccettature ritroviamo le dimensioni motivazionali (fedeltà,
impegno, dedizione) e tutti i «comportamenti di cittadinanza organizzativa» (cioè solidarietà e aiuto agli altri
colleghi in caso di difficoltà, sostegno dei più giovani, ricerca attiva di soluzione dei problemi, diligenza e
cortesia nelle relazioni ecc.). Tutto ciò costituisce l’oggetto del Contratto psicologico. Esso assume la forma di
un accordo informale tra lavoratore e il datore di lavoro. È formato dalle percezioni individuali su ciò che è
stato promesso da parte dell’azienda (ad esempio paghe competitive, opportunità di avanzamento di carriera,
sicurezza lavorativa..) e da ciò che il dipendente si aspetta di dare in cambio all’azienda (lealtà, onestà,
impegno, senso di appartenenza, disponibilità).
Attualmente il contratto psicologico sta assumendo nuove connotazioni negative, in relazione ai nuovi modi
di lavorare e al tipo di mercato occupazionale fortemente segmentato che si è andato delineando negli ultimi
anni.Infatti, tale relazione contrattuale un tempo a lungo termine, stabile, fondata su aspetti relazionali, su
riconoscimenti concreti e su opportunità di sviluppo di identità sociali soddisfacenti è divenuta spesso di breve
termine, rinegoziabile con grande frequenza e improntata quasi esclusivamente sullo scambio economico. In
altre parole, la forma e i contenuti del contratto psicologico tradizionale stanno cambiando e si definiscono
molti tipi di relazione lungo un continuum che va da contratti psicologici di carattere relazionale a quelli di
natura transazionale, che implicano differenti aspettative da parte del lavoratore e dei datori di lavoro.
Un modo semplice per riconoscere l’importanza del contratto psicologico è valutare le conseguenze del suo
rispetto o della sua violazione. Valutazioni positive circa il rispetto del contratto psicologico, cioè degli obblighi
reciproci, si traducono in impegno, fiducia, senso di appartenenza e implicazione organizzativa, maggiore
frequenza di comportamenti di cittadinanza organizzativa, più elevata soddisfazione lavorativa, miglioramento
della salute mentale. Se un lavoratore percepisce una violazione delle aspettative e degli obblighi del suo
contratto Psicologico si generano effetti negativi sia sul piano emotivo, sia su quello cognitivo e
comportamentale. Essi saranno più o meno forti a seconda si tratti di: un mancato adempimento di una o
poche aspettative o di una rottura di natura involontaria, collegabile a fattori esterni imprevisti oppure di una
più grave violazione unilaterale da parte dell’organizzazione che risulta del tutto ingiustificata e che rinnega le
promesse precedenti. Di conseguenza, i dipendenti ricambiano la percezione di violazione del contratto
riducendo il coinvolgimento, l’impegno e la fiducia nei confronti dei superiori, adottando comportamenti di
ritirata e manifestando l’intenzione di lasciare l’organizzazione.
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CAPITOLO 3 - IL LEGAME PSICOLOGICO TRA INDIVIDUO E LAVORO
1. PERCHÉ LAVORARE?
In generale lavorare costituisce un'attività umana dotata di significati profondi, al punto tale da poter asserire
che esista un legame psicologico tra la persona e l'attività lavorativa, che va oltre il significato del lavoro come
obbligo e necessità economica.
Il lavoro ricopre delle funzioni psicologiche rilevanti per la persona e può costituire una opportunità per
conseguire soddisfazione, benessere, identità e per costruire relazioni sociali.
Ma molto dipende dal tipo di lavoro che si svolge, in particolare è bene fare riferimento al Lavoro apparente:
è un'occupazione dotata di stipendio, orario, contributi, regole, mansionario ma che non genera valore
aggiunto; quindi non è attività umana che trasforma e genera ricchezza e valore per la collettività.
Si possono distinguere diversi livelli in cui si struttura il legame psicologico tra la persona e il lavoro:
Individuo che attribuisce particolare importanza per il proprio compito lavorativo («job»), per l'attività
svolta in sé. L'attaccamento al proprio lavoro in questo caso, può essere spiegato in termini di passione
professionale, competenza, soddisfazione verso i risultati che si possono ottenere, possibilità di
trasformare l'ambiente.
Individuo che attribuisce particolare importanza verso il «lavorare in generale», ciò che gli inglesi
chiamano “work”. Il legame psicologico tra individuo e attività lavorativa può derivare dai significati
sociali che il lavorare può assumere: ovvero dai valori, dall'etica sociale, dall'appartenenza a determinati
gruppi o all'adesione a ideologie diffuse interiorizzate e fatte proprie dalla persona. Ad esempio è il caso
della forte identificazione con la propria professione da parte di molti insegnanti e di operatori in ambito
sanitario.
Individuo che attribuisce particolare importanza al lavoro come mezzo per «stare in una
organizzazione». Il legame psicologico con il proprio lavoro può essere rafforzato attraverso
l'appartenenza all'organizzazione in cui si opera. In questo caso, prevalgono esperienze psicologiche quali
l'orgoglio, il senso di cittadinanza organizzativa, nonché la costruzione di una parte dell'identità
professionale.
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termini di sforzo e impegno) e la motivazione effettivamente attivata (quanto sforzo viene messo in
campo);
azione (persistenza): tale aspetto considera la durata e la tenuta dei processi psicologici volti
all'erogazione di energia (es. prestare attenzione, praticare uno sforzo) e al raggiungimento di un
obiettivo.
Nelle applicazioni concrete e nella ricerca, la nozione di motivazione al lavoro può essere applicata a vari
processi e su diversi piani di azione. Può essere intesa come:
motivazione alla prestazione, concernente il concreto svolgimento del proprio compito lavorativo
(quanto darsi da fare; quanto intensamente lavorare; quali obiettivi di prestazione porsi);
motivazione ad apprendere, relativa all'impegno da erogare nell'acquisire nuove competenze, formarsi
all’uso di nuove tecnologie e nuovi linguaggi;
motivazione nella partecipazione a un gruppo di lavoro, che porta a proporre nuove idee, esporsi nella
risoluzione di un conflitto, aiutare gli altri a risolvere problemi.
motivazione alla carriera, può riguardare scelte e strategie di gestione della propria carriera (es.
accettare o meno una posizione più impegnativa, affrontare un nuovo incarico o un trasferimento,
andare in pensione ecc);
motivazione verso l'organizzazione, relativa all'investimento psicologico in attività che possano
migliorare il funzionamento organizzativo e far crescere il prestigio della propria azienda.
Considerando il carattere multiforme della motivazione al lavoro, non si può ritenere che ogni persona sia
dotata in modo permanente di un certo grado di motivazione al lavoro. Ogni individuo può essere dotato di
un potenziale di motivazione che si manifesta con diversi gradi di attivazione e intensità in funzione dei
compiti che svolge, degli obiettivi che si pone e del tipo di contesto che vive.
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tiene in considerazione il raggiungimento di uno scopo interno, ma agisce in modo strumentale per ottenere
altri benefici non strettamente riconducibili all'azione in sé.
La ricerca sulla motivazione lavorativa si è concentrata per molto tempo sul rapporto tra questi due tipi di
motivazione per capire quali aspetti sono più efficaci nel motivare le condotte lavorative.
Sono in gioco elementi quali il ruolo motivante degli incentivi monetari e l'importanza di sistemi di
supervisione per controllare e sanzionare comportamenti lavorativi non adeguati, ma anche la concezione di
persona, la teoria psicologica implicita sottostante i vari tipi di gestione del personale.
Nel 1960 McGregor ha definito:
TEORIE X: tutti i modelli di gestione del personale basati su una visione dei dipendenti come indolenti, poco
ambiziosi, indifferenti alle esigenze organizzative, resistenti al cambiamento. Secondo questa
interpretazione, i lavoratori sono spinti solo dai bisogni primari, cioè quelli presenti nella parte bassa della
gerarchia di Maslow (riferimento quadro 3.2). In tal caso, le politiche del personale sono finalizzate a
sollecitare la motivazione estrinseca dei lavoratori facendo ricorso a sistemi di premi e sanzioni.
TEORIE Y: vedono i lavoratori come potenzialmente attivi, pronti ad assumersi le responsabilità e a
condividere gli obiettivi organizzativi. Secondo tale interpretazione, i lavoratori sarebbero mossi da bisogni
più elevati della scala di Maslow (autorealizzazione). In tal caso per alimentare la motivazione intrinseca dei
lavoratori si fa ricorso all'arricchimento dei compiti, all'autonomia operativa, alla partecipazione
alle decisioni.
Un aspetto ampiamente studiato per le sue importanti implicazioni operative è costituito dal rapporto tra
benefici estrinseci e intrinseci nel lavoro.
La Teoria della valutazione cognitiva [Deci e Ryan 1985] ha fornito prove a sostegno dell'ipotesi che fattori
esterni (denaro, scadenze, sorveglianza) tendono a diminuire la spinta autogenerata al lavoro.
Secondo l’ipotesi, dato che la motivazione intrinseca è sorretta da sentimenti di competenza e di autonomia,
l’eventuale introduzione di fattori esterni (benefici o obblighi) tende a mettere in discussione tali sentimenti
e a far sentire le persone maggiormente dipendenti da fattori contingenti.
A conferma della teoria, la metanalisi di Deci, Koestner e Ryan [1999] condotta su 128 studi, mostra che
alcuni incentivi tangibili (es. il denaro) compromettono in parte la motivazione intrinseca, mentre vi sono
altre situazioni in cui i benefici esterni non interferiscono.
Ad esempio, incentivi fissi e indipendenti dalla performance (es. il salario) o premi non annunciati (bonus
una tantum) non hanno effetti sulla motivazione intrinseca. Anche lodi e riconoscimenti verbali non
interferiscono con la motivazione intrinseca in quanto possiedono anche un potenziale effetto informativo
(feedback sulla prestazione). Per contro, rimproveri, richiami e sistemi di sorveglianza e controllo hanno
effetti negativi sulla motivazione intrinseca e conducono a potenziali stati di amotivazione.
La teoria proposta dagli Autori è stata oggetto di ampio dibattito. Latham e Pinder hanno messo in evidenza
l'ambivalenza e la scarsa validità ecologica dei risultati riportati, argomentando a favore di un'ipotesi additiva
in cui motivazione intrinseca ed estrinseca possono convivere. Questo perché, aldilà delle ricerche e degli
studi, nelle reali esperienze di lavoro fattori intrinseci ed estrinseci si mescolano e i margini di scelta e di
autonomia individuale sono costantemente vincolati da esigenze organizzative. In particolare, i benefici
materiali (paga, premi, incentivi) non costituiscono semplicemente un elemento strumentale ma sono una
misura implicita del prestigio e della qualità di una professione. In questo caso lo stipendio assume un
significato informativo per la persona circa la qualità del proprio operato e il livello di competenza acquisito.
Per cui si può essere intrinsecamente soddisfatti di un aumento di stipendio o di un premio poichè questi
rappresentano riconoscimento e valorizzazione delle competenze del lavoratore.
Una meta-analisi di Cerasoli, Nicklin e Ford [2014], sono state analizzate oltre 180 ricerche sulla motivazione
in diversi contesti (scuola, lavoro, salute), ed è stato mostrato che sia motivazioni intrinseche che gli incentivi
influenzano il livello della prestazione. In particolare, la motivazione intrinseca ha un peso maggiore nel
determinare la qualità della prestazione, mentre la motivazione estrinseca agisce più sulla quantità della
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prestazione. Secondo gli autori, nella prestazione i due tipi di motivazione non sono in antagonismo, ma
sembrano operare in modo simultaneo e combinato.
QUADRO APPROFONDIMENTO
Tra le varie teorie che hanno tentato di spiegare il ruolo della motivazione al lavoro, le principali sono:
La gerarchia dei bisogni di Maslow (1943): postula che l'azione delle persone sia motivata dalla ricerca del
soddisfacimento di una serie di bisogni umani fondamentali, sintetizzabili in cinque categorie:
1. di natura fisiologica;
2. di sicurezza;
3. di appartenenza;
4. di stima e riconoscimento sociale;
5. di autorealizzazione.
Hanno un ordine gerarchico, per cui solo dopo aver saturato i bisogni di ordine inferiore (fisiologici, di
sicurezza), l'individuo progressivamente potrà dedicarsi alla realizzazione di quelli di ordine superiore (ricerca
di riconoscimento sociale; autorealizzazione).
I fattori igienici e motivanti di Herzberg (1966): secondo l’autore non tutti gli aspetti del lavoro hanno una
forza motivante e producono soddisfazione.
Alcuni fattori, denominati igienici, non hanno potere motivante in sé se presenti, ma possono minare la
motivazione se sono assenti (es. ambiente di lavoro, sicurezza occupazionale, livello di stipendio);
Altri fattori, detti motivanti, hanno invece la capacità di motivare e di generare soddisfazione
lavorativa se sono presenti (es. opportunità di sviluppo professionale, responsabilità, interesse del contenuto
del lavoro).
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Nella SDT un ruolo centrale è esercitato dalla distinzione tra:
Motivazione Autonoma: è relativa ad azioni condotte a partire dalla propria volontà e da un'esperienza di
scelta. Essa è in gioco quando si agisce per il piacere di agire nell'ambito di un comportamento
deliberatamente adottato dalla persona.
Motivazione Controllata: fa riferimento a un'azione avviata sotto una pressione esterna o un obbligo ad
agire.
Inoltre, la SDT propone una classificazione delle diverse motivazioni estrinseche in funzione del loro grado di
autonomia vs controllo esterno.
Il modello prevede tre stati motivazionali generali:
1. L'AMOTIVAZIONE riguarda le situazioni in cui le persone non agiscono oppure agiscono senza intenzione
e senza uno specifico controllo sul proprio comportamento.
2. La MOTIVAZIONE INTRINSECA è un esempio di motivazione autonoma; è caratterizzata da scelta
deliberata, interesse per l'attività in sé e realizzazione personale.
3. La MOTIVAZIONE ESTRINSECA si articola in quattro categorie a seconda del grado di controllo
esterno/autonomia:
- La Motivazione Estrinseca Esternamente Regolata: si ha quando l'attività non riveste interesse per
la persona e sono necessari interventi esterni (incentivi) per far scaturire il comportamento. È un caso
estremo in cui la motivazione controllata è molto elevata a fronte di una bassa motivazione
autonoma, mentre i fattori esterni agiscono da attivatori e regolatori del comportamento motivato.
Ad esempio: è il caso di esperienze di lavoro a basso contenuto professionale e di scarsa qualità, per
cui si va avanti con la convinzione del “faccio questo lavoro per il denaro che mi permette di
procurarmi”.
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Introiettata: si basa su un processo di interiorizzazione
di obiettivi e scopi esterni che la persona fa propri ma che non accetta pienamente.
Ad esempio: è presente in colui che ha una strutturazione del Sé debole; l'individuo si autoimpone
una serie di regole di comportamento per soddisfare alcuni bisogni di definizione di sé, per evitare
stati d'ansia e per ricercare accettazione sociale, lavorando con il pensiero del “lavoro perché ciò mi
fa sentire a posto con me stesso”.
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Identificata: tipica delle situazioni in cui le persone
hanno interiorizzato in modo più completo e coerente una serie di scopi e valori esterni.
L'attivazione del comportamento parte da una deliberata scelta della persona (in autonomia), perché
grazie all'azione si potranno ottenere risultati significativi in termini di soddisfacimento di bisogni
personali e realizzazione della propria identità.
Ad esempio: l'infermiere che si prende cura del benessere del paziente svolge un compito a volte
spiacevole o non interessante in sé (quindi non intrinsecamente motivato) ma tale comportamento,
messo in atto in modo relativamente deliberato, può generare soddisfazione in quanto risponde a
valori interiorizzati dalla persona (prendersi cura del paziente e occuparsi del suo benessere).
- La Motivazione Estrinseca Con Regolazione Integrata: rappresenta la forma più completa di
interiorizzazione di interessi e valori generati dall'esterno. L'attivazione del comportamento deriva
da una chiara identificazione di scopi, interessi e obiettivi che si integrano tra loro in una coerente
immagine di sé e con l'identità della persona. Questa forma ha un elevato grado di autonomia e un
basso controllo esterno, si avvicina concettualmente alla nozione di motivazione intrinseca, ma si
distingue da essa poiché il comportamento non è generato da un'attività interessante in sé.
Ad esempio: prendendo in considerazione l’infermiere, in questo caso la motivazione ad agire deriva
da un forte allineamento tra caratteristiche dell'attività svolta, valori e identità individuale: “agisco in
questo modo perché ciò risponde a una serie di norme etiche, competenze professionali, valori sociali
che considero parte della mia identità personale”.
Così come la teoria della valutazione cognitiva, anche la SDT mostra un certo grado di astrattezza concettuale
e di artificiosità, ma lascia spunti interessanti per lo studio del rapporto tra individuo e lavoro:
In primo luogo, con la SDT si supera la distinzione tra motivatori interni ed esterni alla persona e si delinea
un continuum che avvicina alcune forme di motivazione estrinseca alla motivazione intrinseca. Inoltre il
modello teorico non si basa su un luogo di generazione della motivazione (interno vs esterno), ma esalta
processi psicologici quali il grado di autonomia, di volizione e di scelta individuale.
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In secondo luogo, è interessante il concetto di interiorizzazione, attraverso cui è possibile stabilire un primo
legame tra processi motivazionali e processi sociali nella costruzione dei significati del lavoro; segnalando
l'importanza dei processi di acquisizione di norme, valori e modelli culturali nel generare o inibire la
motivazione al lavoro.
In terzo luogo, l'interiorizzazione di valori e la regolazione autonoma possono essere favorite da forme di
appropriazione psicologica del proprio compito, e dipendono anche da come il lavoro è organizzato e dai
margini di autonomia lasciati al lavoratore.
QUADRO APPROFONDIMENTO
Con il termine job design: si indica un set
di attività e decisioni su come i compiti
lavorativi devono essere svolti all'interno
di una organizzazione. Attraverso il job
design si definiscono: le mansioni; le
responsabilità; gli obblighi; l'interazione
con le tecnologie; i ritmi e la regolazione
dei tempi; le forme di coordinamento con
altri.
Il job design è definito dal management,
ma può prendere forma anche grazie ad
azioni “bottom-up”, cioè grazie a
soluzioni ideate e sperimentate dai singoli
o all'interno dei team di lavoro.
È stato detto in precedenza che la motivazione costituisce l'esito di un intreccio tra fattori individuali (bisogni,
interessi, valori) e di contesto (compiti lavorativi, organizzazione, relazioni sociali).
Un ampio filone di studi si è occupato del ruolo dei fattori ambientali, in particolare del job design e della
sua possibile influenza sulla motivazione. È stata sviluppata una delle teorie motivazionali che ha avuto
maggiore influenza a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino a oggi: la teoria delle caratteristiche
lavorative JCM (Job Characteristics Model) di Hackman e Oldham [1980].
Secondo gli autori la motivazione intrinseca al lavoro dei dipendenti può essere stimolata da una strategia
ottimale di job design: il posto di lavoro, la divisione dei compiti e delle mansioni e gli stili di supervisione
possono essere strutturati in modo da massimizzare l’impiego. Si può intervenire sui seguenti aspetti, ritenuti
importanti per il loro potenziale motivante:
1. varietà nelle capacità richieste;
2. identità del compito (il compito rappresenta una unità significativa; è possibile comprendere il valore
aggiunto della propria prestazione);
3. significatività del compito (utilità e rilevanza per altri e per l'organizzazione);
4. autonomia (discrezionalità nello svolgimento del compito);
5. feedback (ricevere riscontri sulla validità della propria prestazione).
In base a questa teoria, l’attivazione della motivazione intrinseca può avvenire se un individuo, durante il
lavoro, è in grado di attivare tre stati psicologici:
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generare esperienze di apprendimento grazie alla conoscenza dei risultati ottenuti con la propria attività
(feedback);
sperimentare la responsabilità di produrre una buona prestazione (autonomia);
sperimentare il significato del proprio lavoro (varietà, identità e significatività).
Applicando questo schema è possibile stimare il potenziale motivazionale di ogni impiego.
Secondo gli autori, persone che hanno un elevato bisogno di crescita sono più indicate a ricoprire occupazioni
a elevato potenziale motivazionale, mentre individui a basso bisogno di crescita si adatteranno meglio a
compiti con una contenuta valenza intrinseca.
A distanza di circa 30 anni il modello di Hackman e Oldham mantiene oggi un elevato interesse, anche se
necessita ovviamente di alcuni aggiornamenti, che riguardano soprattutto le caratteristiche del lavoro e delle
organizzazioni, radicalmente mutate oggi.
Attualmente: le organizzazioni sono evolute prestando più alla valorizzazione del fattore umano; c’è stata
l'introduzione delle nuove tecnologie nel lavoro; è cresciuto il carattere sociale del lavoro; vi sono varie forme
di contratto di impiego che accentuano la flessibilità del rapporto e dei tempi di lavoro.
In particolare, Parker si è dedicata all'espansione del modello originale considerando gli sviluppi recenti. Tale
espansione si muove lungo varie direzioni, tra le quali:
Caratteristiche emergenti del lavoro sulla base del Work Design Questionnaire (VDQ) [Morgeson e
Humphrey, 2006] le cinque caratteristiche individuate nel JCM sono state ampliate.
Altre caratteristiche del contesto sono state prese in considerazione come ad esempio il tipo di
equipaggiamento e l'ergonomia del posto di lavoro, nonché la crescente importanza delle interazioni sociali
nei luoghi di lavoro. Tutte le caratteristiche del lavoro possono essere manipolate in fase di progettazione
organizzativa e di gestione del personale, portando significativi effetti sulla motivazione dei dipendenti e sul
loro benessere psicologico.
Cambiamenti nelle organizzazioni di lavoro le innovazioni del JCM sono conseguenti alle nuove forme di
contratto di lavoro, alla diffusione della flessibilità e alla conseguente maggiore incertezza lavorativa.
Cambiamenti significativi nelle regole del mercato del lavoro e nelle forme contrattuali possono avvenire
oggi in seguito a molti fattori e possono avere impatti negativi sulla motivazione delle persone. Tuttavia, le
soluzioni di Job Design possono esercitare un ruolo di attenuazione. Un elemento innovativo è stata la
perdita di unitarietà del lavoro nello spazio e nel tempo: l’organizzazione dei tempi di lavoro è sempre meno
omogenea oggi, prevedendo svariate forme contrattuali, così come lo spazio fisico in cui si svolge il lavoro si
è dilatato in seguito a soluzioni come il telelavoro.
La relazione tra vita lavorativa e vita familiare costituisce un ulteriore elemento emergente che impone
forme di progettazione del lavoro adeguate per sostenere la motivazione relativa alla doppia presenza
(lavoro-famiglia).
QUADRO APPROFONDIMENTO
Le caratteristiche del lavoro secondo il Work Design Questionnaire [Morgeson e Humphrey 2006].
Caratteristiche del compito: Conoscenze:
- Autonomia - Complessità del compito
- organizzazione oraria - Trattamento di informazioni
- presa di decisioni - Problem solving
- metodo di lavoro - Varietà delle competenze
- Varietà del compito - Specializzazione
- Significato del compito
- Identificazione del compito
- Feedback dal lavoro
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3. LA MOTIVAZIONE AL LAVORO: PROCESSI PSICOLOGICI
La forza motivazionale che alimenta una determinata azione è data dal prodotto di questi tre elementi:
MOTIVAZIONE = V x I x E
È sufficiente che uno dei tre fattori (VIE) sia nullo per avere un livello di motivazione pari a 0.
ESEMPIO: una persona priva di occupazione che deve attivarsi nella ricerca di un nuovo impiego. La scelta
cognitiva di impegnarsi in tale azione di ricerca dipende dall'effetto combinato dei tre elementi sopra indicati.
In primo luogo, la valenza attribuita al lavorare. Se il lavoro non è considerato dalla persona come un valore
importante, si può registrare un minore impegno nella ricerca. Se invece ha una forte valenza positiva per la
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persona, allora ottenere un impiego costituisce un risultato che può produrre soddisfazione, benessere.
Pertanto, la generazione di forza motivazionale sarà maggiore.
La strumentalità riguarda la probabilità percepita che all'azione intrapresa (cercare il lavoro) siano associati
alcuni esiti positivi (trovare lavoro) e alcuni benefici (avere più autonomia finanziaria). In questo caso la
motivazione verte sulle caratteristiche percepite del rapporto tra azione e i suoi possibili benefici. Se si
considera che sono disponibili solo occupazioni noiose e mal retribuite, questa anticipazione degli esiti
condurrà a una flessione della motivazione ad agire.
L'aspettativa che il proprio impegno nella ricerca dell'impiego possa condurre ai risultati sperati (trovare una
occupazione) è il terzo attivatore. In tal caso, una bassa autoefficacia percepita può far sembrare l'obiettivo
come irraggiungibile o troppo difficile da conseguire.
Sviluppi recenti si sono occupati di rendere il modello più operativo e più legato ai processi di scelta e di
decisioni che concernono la sfera lavorativa e organizzativa, facendo particolare attenzione:
ai diversi ambiti nei quali si collocano gli scopi delle persone (lavoro, famiglia, tempo libero), per cui
l'analisi verte su come le persone integrano, regolano e ordinano gerarchicamente diversi scopi.
alle diverse dimensioni dello scopo, per cui in riferimento all'esecuzione di un compito lavorativo, si tiene
conto di come: alcuni possono essere orientati a svolgere al meglio il processo, altri possono essere
orientati ai risultati; si può avere una focalizzazione su scopi qualitativi (fare le cose bene) o quantitativi
(fare il più possibile); gli scopi possono avere un ancoraggio individuale («faccio le cose meglio che
posso»), esterno riferito ad altri significativi («voglio arrivare agli stessi risultati ottenuti dal mio collega»)
o esterno riferito a standard normativi («devo raggiungere quanto prefissato dal mio superiore»).
Nel concetto di orientamento allo scopo, un supporto è fornito dal concetto di goal orientation, ovvero uno
schema di riferimento e un sistema di credenze piuttosto stabile relativi allo stile personale adottato per
orientare i propri scopi. Solitamente sono ipotizzate tre modalità distinte di orientamento allo scopo:
orientamento all'apprendimento, individuazione di scopi che hanno a che fare con l'acquisizione di
conoscenza;
orientamento alla performance, individuazione di scopi realizzabili in cui sia possibile mostrare la propria
competenza ed essere valutati positivamente;
orientamento all’evitamento della performance, scelta di scopi non sfidanti, in cui non si incorre in
valutazioni esterne.
Obiettivi con queste caratteristiche mobilitano una serie di processi cognitivi connessi con l'attivazione di
energia e l'orientamento del comportamento intenzionale:
Focalizzazione: focus dell'attenzione su informazioni concernenti l'obiettivo stesso.
Intensità: mobilitazione dello sforzo concentrato e finalizzato al conseguimento del risultato.
Persistenza: continuità dello sforzo e dell'azione orientata allo scopo.
Strategie: ideazione e adozione di strategie di azione finalizzate all'ottenimento del risultato.
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Inoltre, la teoria prevede una serie di condizioni contestuali che garantiscono il potere motivante degli
obiettivi:
- l’accettazione e condivisione degli obiettivi da parte dei lavoratori, pertanto la partecipazione attiva
nella definizione dei progetti operativi aumenta il valore attribuito agli obiettivi.
- il grado di legittimazione e fiducia nei confronti dell'autorità che definisce gli scopi e le mete, se una
fonte è percepita come attendibile e giusta, l’obiettivo è più facilmente accettato dai subordinati.
- i feedback ricevuti circa il raggiungimento degli obiettivi; esso, infatti, per il suo elevato potere
informativo, costituisce un'occasione di autoregolazione e può generare reazioni emotive correlate ai
processi motivazionali (es. orgoglio in caso di feedback positivi, imbarazzo e frustrazione in caso di
feedback negativi).
- il sentimento di autoefficacia percepita, per cui persone con elevata autoefficacia percepita rispondono
in modo più favorevole a obiettivi sfidanti e impegnativi.
La teoria del goal setting ha dato vita anche a prospettive di gestione delle risorse umane e a tecniche
manageriali.
L'autoregolazione si riferisce al controllo di se stessi per mantenere un’accettabile congruenza tra il proprio
self e alcuni standard di comportamento preferiti. È un'attività cosciente, fondata sulla rappresentazione
interna degli obiettivi, intesi come condizioni alle quali si punta. Essa è finalizzata a mantenere il controllo
sulla realizzazione dei piani e il conseguimento degli obiettivi.
L'elemento in comune dei modelli dell'autoregolazione è l'idea che le persone nei luoghi di lavoro sono
attivamente impegnate nell'allocare le risorse a disposizione e nel regolare l'azione.
Attraverso l’allocazione di risorse si determina quanto tempo, energia cognitiva, attenzione, sforzo fisico,
perseveranza vadano dedicati a diversi piani d'azione e progetti.
Con la regolazione dell'azione ci si riferisce all'attività interna con cui si determinano le condotte, si aumenta
o diminuisce lo sforzo, si persevera o si abbandona, si modifica il piano di azione.
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3.5. Valutare gli esiti: equità dello scambio, percezione di giustizia, rispetto del contratto
psicologico
L’ultimo step del processo dell'azione motivata è la valutazione degli esiti, alla quale si associano aspetti che
riguardano la percezione di giustizia e di equità dello scambio.
Secondo la Teoria dell'equità di Adams [1963] le persone regolano il proprio comportamento sociale in base
a un principio di equità: valutano il rapporto tra ciò che essi danno (sforzo) rispetto a ciò che ricevono (premi)
in un determinato contesto.
Il sentimento di iniquità è di solito costruito sulla base di un confronto sociale: è un bilancio effettuato in
rapporto a ciò che altri (colleghi in situazioni simili) si ritiene abbiano investito/ottenuto.
Il concetto di equità è quindi costruito sulla base una regola sociale che definisce le modalità giuste di
distribuzione delle risorse e che poggia su diversi principi: uno strumentale di difesa degli interessi personali,
uno sociale di confronto con gli altri, un principio morale che spinge le persone ad adottare regole e valori
fondati sul giusto modo di fare le cose.
La percezione di non equità spinge le persone a riportare in equilibrio la situazione attraverso alcune
strategie cognitive e comportamentali:
Modifica degli input o dei risultati: riduzione di impegno e sforzo oppure tentativo di aumentare i
benefici ottenibili.
Modifica dei referenti: cambiare individuo o gruppi utilizzati come riferimento per il confronto sociale.
Modifica del bilancio risorse/risultati: riconsiderare il valore delle risorse immesse o dei risultati
ottenuti.
Abbandono: uscire dall'organizzazione e cercare una nuova collocazione occupazionale.
Dall’espansione del modello dello scambio di Adams si sviluppa la Teoria della giustizia organizzativa
[Greenberg e Colquitt 2005]. Essa prende in considerazione, oltre alla percezione dell'equità, anche le
caratteristiche generali del contesto sociale in cui si generano tali scambi sociali.
In questo caso le persone percepiscono diversi gradi di equità, imparzialità di trattamento e giustizia,
valutando come le organizzazioni distribuiscono risorse e riconoscimenti. In base a tale percezione, si
stabilisce il livello di fiducia nei confronti dell'organizzazione con conseguenti livelli di implicazione
motivazionale.
È proposta la distinzione tra i concetti di:
giustizia distributiva: la credenza che i benefici siano distribuiti in modo equo e congruo alle attese;
giustizia procedurale: la credenza che i modi di allocare e distribuire le risorse da parte
dell'organizzazione siano adeguati;
giustizia interpersonale: la percezione di come si viene trattati all'interno dell'organizzazione in termini
di rispetto e dignità.
28
CAPITOLO 4 - IL LAVORATORE E I SUOI COMPITI
WORK è il termine inglese che indica il lavoro come attività umana diretta a uno scopo, di grande valore
per la persona e per la società.
JOB è il termine inglese utilizzato per designare l'attività concreta, svolta per un dato tempo sulla base di
requisiti oggettivi (ad esempio, qualifiche, tecnologie e mezzi di lavoro ecc.) e soggettivi (ad esempio,
motivazioni).
Attività lavorativa condotta finalizzata a un insieme di scopi, mete, risultati attesi propri o assegnati
dall'organizzazione. L'attività è scomponibile in azioni.
Azioni sono delineate secondo un piano definito (es. cosa fare prima e perché) e controllate dalla persona
con differenti meccanismi di feedback. A loro volta, sono scomponibili in unità più elementari: le operazioni.
Operazioni sottoinsieme di condotte che permettono di raggiungere scopi più delimitati, ma funzionali
all'attuazione delle azioni.
Singoli gesti sono le unità ancora più piccole, per effettuare le operazioni.
Prestazione è un concetto molto utilizzato per descrivere, misurare e valutare un'attività di lavoro.
All’interno del suo campo di applicazione è contenuta l’attivazione di un processo (ovvero una sequenza di
diverse attività) per produrre un esito.
Oltre a ciò, questo termine racchiude due differenti significati: le condotte e i processi interni e
comportamentali finalizzati agli scopi; gli esiti delle azioni.
29
3. ATTIVITÀ LAVORATIVA TRA COMPITI PRESCRITTI E COMPITI REALI
Differenza tra compiti prescritti dall'azienda e attività lavorativa reale svolta dal lavoratore:
compiti prescritti sono indicazioni formali che esprimono le richieste lavorative alle quali il lavoratore
deve rispondere con la sua attività. Essi concernono gli obiettivi da raggiungere, i mezzi e le procedure da
usare, la divisione dei compiti tra vari operatori, i tempi da rispettare, gli esiti attesi e i ricavi presumibili, le
condizioni esterne entro cui operare. Spesso queste indicazioni sono accompagnate da istruzioni scritte che
formalizzano le attività da eseguire.
compiti realmente svolti dal lavoratore fanno parte delle «pratiche lavorative» con cui il lavoratore
affronta e risolve a modo suo i problemi concreti del lavoro. Tali pratiche si discostano spesso dai compiti
assegnati, a causa dell’alto tasso di variabilità della situazione di lavoro; nonostante ciò possono portare
comunque esiti finali positivi.
In primo luogo, la distanza tra compiti prescritti e reali deriva da una moltitudine di situazioni variabili:
gli imprevisti
le variazioni quantitative o qualitative della produzione
l’uso di mezzi ritenuti inadeguati od obsoleti;
la variazione dei tempi di lavoro
la definizione di gruppi di lavoro che funzionano in modo un po' diverso da quanto programmato
Di fronte a queste possibilità, il lavoratore mette in atto delle soluzioni originali che lo portano a svolgere i
suoi compiti in maniera diversa rispetto a quanto gli è stato assegnato, ma presentando gli stessi risultati.
In secondo luogo, l'attività lavorativa risulta distante dai compiti formalizzati perché essi, in fondo, sono stati
progettati e definiti male.
In terzo luogo, la variabilità deriva dagli stessi lavoratori, con particolare importanza verso le differenze
individuali nel modo di lavorare imputabili all'età, al genere, al grado di esperienza posseduta, alla
formazione ricevuta, alle competenze professionali, alle motivazioni, allo stato psicofisiologico ecc..
Gli scostamenti, quindi, non sono violazioni in senso stretto, ma reinterpretazioni dei compiti e delle regole
e adattamenti (detti compromessi operativi) messi in atto dal lavoratore per conseguire, seguendo strade
diverse, i risultati attesi.
Il grado di scostamento tra compiti prescritti e reali rappresenta un'area di indagine per:
- capire come ridurre le difficoltà di realizzazione del lavoro da parte del lavoratore con interventi specifici;
- conoscere meglio il tipo di influenza esercitata dai fattori di variabilità presenti nel contesto;
- valutare il costo cognitivo ed emotivo dei compromessi operativi messi in atto dal lavoratore.
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4. I COMPITI COME ESIGENZE E DOMANDE AL LAVORATORE
L’attività lavorativa può essere rappresentata come un insieme di richieste (compiti prescritti e reali) o
esigenze più o meno pressanti anche sul piano temporale al quale il lavoratore si propone di rispondere.
Tra le varie esigenze, possiamo distinguere:
Esigenze fisiche Si pensi al trasporto di carichi, all'uso di strumenti che prevedono sforzi, alla necessità di
mantenere a lungo posture particolari, la necessità di applicare la propria potenza muscolare, il buon
equilibrio corporeo, la coordinazione neuromuscolare.
Esigenze ambientali Sono implicati gli effetti sull'organismo dovuti alla concentrazione di sostanze
pericolose, al microclima, al rumore, alle vibrazioni.
Esigenze sensoriali Si riferiscono: alla ricezione e discriminazione di stimoli connessi con le varie fonti di
informazione, agli organi di senso interessati (es. acutezza visiva).
Esigenze sensomotorie Derivano dai dispositivi usati e riguardano, ad esempio, il numero e la varietà dei
comandi, il livello di precisione, compatibilità tra i vari gesti e movimenti di risposta richiesti, arti interessati
al movimento ecc.
Esigenze cognitive Alcune derivano direttamente dalle caratteristiche dei compiti (es. chiarezza delle
istruzioni), altre sono connesse allo stato del lavoratore, alla sua esperienza alle sue competenze (livello di
vigilanza, grado di attenzione focalizzata, memorizzazione).
Esigenze relazionali Riguardano trasversalmente la maggior parte dei compiti e ruoli (comprendere
differenti linguaggi, scambi comunicativi, modalità di interazione dei gruppi di lavoro, l'interazione
cooperativa o conflittuale).
La specifica combinazione di queste esigenze che si realizza nella situazione concreta, giustifica la strategia
di risposta del lavoratore, espressa con la sua prestazione. Bisogna tenere presenti i numerosi fattori di
variabilità che possono influenzare il grado di criticità delle richieste lavorative e stimolare compromessi
operativi.
QUADRO APPROFONDIMENTO
Le esigenze del lavoro si esprimono sia nello spazio fisico (ufficio) sia nello spazio temporale.
Il tempo di lavoro va considerato secondo alcuni parametri oggettivi che, a parità di altre condizioni, possono
intensificare le richieste lavorative:
- la durata (tempo di impegno giornaliero, settimanale, mensile, annuale);
- la localizzazione temporale (la definizione delle pause lavorative e dell'orario di lavoro);
- la scansione temporale (i ritmi di lavoro);
- il grado di discrezionalità del lavoratore nel controllo dei tempi di lavoro (es. tempi più o meno
determinati dalle macchine);
- la relazione tra tempi lavorativi e tempi personali (lavoro in famiglia, tempo libero).
Rispetto a tali parametri, si sono sviluppati profondi conflitti tra lavoratori e aziende. Attualmente si è giunti
a strategie di negoziazione tra le parti per individuare vantaggi sia per le imprese che per i lavoratori (ad
esempio, flessibilità degli orari di entrata e uscita, part-time).
31
Questa nuova prospettiva viene descritta facendo riferimento all'originario modello a 8 dimensioni proposto
da Campbell.
Le altre tre dimensioni si riferiscono ad aspetti della prestazione che implicano un differente grado di
coinvolgimento personale, una capacità di autoregolazione e disciplina rispetto alle condotte lavorative
attese, capacità di sostenere il buon funzionamento di un team.
Sintetizzando, si individuano due grandi categorie di condotte funzionali allo svolgimento dei compiti
richiesti:
a) condotta che riguarda direttamente la trasformazione dei materiali grezzi in beni e servizi (ad esempio,
operare su una macchina, fare una visita medica, fare una lezione ecc.);
b) condotte per il mantenimento ottimale delle funzioni tecniche, di distribuzione, di coordinamento, di
supervisione per valorizzare e conservare l'efficienza della parte tecnica del lavoro.
Le dimensioni della prestazione relative ai compiti (task performance) si articolano diversamente tra loro,
cioè possono essere presenti in modo parziale o qualche dimensione può essere assente, a seconda del tipo
di lavoro. Inoltre esse risultano più esplicitamente legate alle conoscenze e agli apprendimenti tecnico-
professionali.
Considerare gli aspetti contestuali della prestazione ha una notevole rilevanza pratica, perché può essere un
criterio con cui integrare il feedback sulle prestazioni svolte, riconoscere e premiare l'impegno lavorativo.
Le tre grandi determinanti della prestazione che spiegano gran parte delle possibili differenze individuali
rispetto al conseguimento dei risultati attesi:
La conoscenza dichiarativa riguarda la conoscenza da parte del lavoratore delle informazioni inerenti al
lavoro, agli scopi delle attività e delle proprie caratteristiche e qualità personali. Essa è funzione della
formazione ricevuta e dell'esperienza lavorativa.
La conoscenza procedurale e le skills si riferiscono al “saper come fare” una certa attività, dunque, sono
chiamate in causa le skills psicomotorie, cognitive, fisiche, interpersonali e di gestione del self.
Le motivazioni lavorative determinano la prestazione, soprattutto le scelte di impegnare energie nel
lavoro, di definire a quale livello impegnarsi e quanto persistere nello sforzo. In questo caso hanno
influenza sia aspetti legati alla personalità sia fattori di attrazione e autoregolazione presenti nel contesto
di lavoro.
Le dimensioni della contextual performance risultano più trasversali e comuni a quasi tutti i tipi di lavoro.
Inoltre, sono connesse alle motivazioni e alle caratteristiche personali del lavoratore.
Le variazioni positive sono connesse ai processi di apprendimento sul lavoro (workplace learning) in quanto
la partecipazione alla vita della comunità lavorativa e il fare esperienza dei suoi modi di pensare e di agire
33
facilitano cambiamenti nella struttura cognitiva e motivazionale, soprattutto in termini di sviluppo delle
skills. Questi cambiamenti si ripercuotono sulle diverse dimensioni della prestazione.
In particolare, man mano che si diventa esperti e si è socialmente ben inseriti:
a) si riduce la necessità di un controllo passo dopo passo delle azioni, le azioni divengono più rapide e in parte
automatiche;
b) è prioritaria la conoscenza procedurale e si esprimono nuove capacità lavorative che riducono i tempi di
realizzazione, le inefficienze, i rischi di errore e facilitano il miglioramento della prestazione.
I decrementi nelle prestazioni sono stati analizzati in relazione alle carenze di conoscenza dichiarativa,
procedurale e di skills della persona e al tipo di interazione tra il lavoratore e il suo lavoro, con i relativi
strumenti usati in un contesto tecnico e sociale concreto.
Sia nel caso in cui vi siano carenze nelle caratteristiche della persona sia in quello in cui siano presenti
incertezze nel tipo di interazione lavoratore-macchina, l’attenzione è posta sulla possibilità di mantenere
un buon livello di prestazione di fronte ai diversi ostacoli provenienti dalle condizioni di esecuzione anche
dalle interferenze ambientali di natura fisica o sociale. Queste interferenze, infatti, possono operare
distraendo il lavoratore dagli obiettivi primari, riducendo l'attivazione e la motivazione nel corso del tempo
e determinando un notevole affaticamento.
Si fa riferimento al costrutto di carico di lavoro mentale per indicare una condizione mentale in cui l’individuo
“è pieno di impegni” e “deve fare troppe cose contemporaneamente”, ovvero il costo complessivo che il
lavoratore paga per mantenere un buon livello di prestazione.
Nel concetto di carico di lavoro si considerano vari elementi:
- il tipo di richieste imposte dal compito
- il livello di prestazione raggiunto
- il livello di sforzo del lavoratore
- la percezione di sentirsi sovra o sottocarico.
Il lavoratore ha a disposizione una quantità limitata di risorse mentali e quando le richieste sono
sproporzionate, in eccesso o troppo basse, sperimenta una condizione rispettivamente di sovraccarico o di
sottocarico che influenza negativamente la prestazione.
In concreto, il carico di lavoro e le sue variazioni dipendono dall'interazione tra le richieste del lavoro e le
abilità e risorse cognitive e motivazionali dell'individuo.
Sulla base di questo, si è ipotizzato un sistema di protezione della performance fondato sull'autoregolazione
compensatoria da parte del lavoratore:
si osserva una notevole resistenza al decadimento della prestazione per i compiti primari (prioritari),
poichè significativi per il lavoratore, svolti in pubblico, inoltre richiedono competenze che il lavoratore
possiede.
se emergono rischi per il mantenimento di un buon livello di prestazione ed essa è percepita come
importante, si attivano circuiti di feedback che permettono di far utilizzare risorse personali aggiuntive
(tenute di riserva) per riportare la situazione a uno standard accettabile.
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Tre principali strategie di risposta compensatoria:
1. Aumento dello sforzo (engagement), sostenuto dal desiderio di ottenere il risultato atteso e da una riserva
di energie per le situazioni impreviste. Questa risposta non può essere protratta a lungo, altrimenti si
sperimenta una condizione di stress incontrollabile.
2. Ritiro dell'impegno (disengagement) nelle attività secondarie o abbassando il livello di velocità e
accuratezza. Si ha un decremento qualitativo o quantitativo della prestazione.
3. Sopportare lo stress (strain mode), si tratta di un impegno diretto a superare gli ostacoli per mantenere
gli obiettivi della prestazione. Utilizzando tutte le risorse cognitive e comportamentali disponibili, vi è il
rischio di forte affaticamento e stress.
Lo sforzo di mantenersi concentrati nella realizzazione dei compiti primari può condurre alla perdita di
efficienza in altre dimensioni della prestazione. In quanto ritenuti meno centrali per la prestazione, i compiti
secondari risentono della scarsa disponibilità di risorse e rischiano di degradare quelli primari.
Per indagare questi cambiamenti si ricorre all'analisi del lavoro: un processo di raccolta e valutazione delle
informazioni sui comportamenti lavorativi, sugli strumenti usati e sul contesto lavorativo. È uno strumento
decisivo per la progettazione del lavoro, la correzione di modi di lavorare inadeguati, il miglioramento delle
esperienze lavorative ecc.
L'analisi del lavoro ha un valore strategico (strategic job analysis) in due sensi:
1. essa cerca di comprendere le sovrapposizioni, i loro elementi comuni, i possibili interscambi di
competenze più ampie e applicabili a più lavori, così da favorire un uso flessibile del capitale umano
senza gli ostacoli delle qualifiche e delle mansioni. Se un lavoratore ha competenze che vanno oltre
l'attuale ruolo svolto, può essere incoraggiato a svilupparle nella prospettiva di una posizione lavorativa
più soddisfacente per lui e per l'organizzazione.
2. porta i vari attori interessati a riflettere su quello che fanno, per valutare meglio la loro situazione (es. se
il lavoro corrisponde alle attese, progetti futuri ecc) e per cercare di contribuire al cambiamento della
loro attuale condizione sulla base dell'esperienza e della conoscenza diretta del loro lavoro.
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Orientamento e «counselling» di carriera Sia per i giovani al loro primo impiego sia per gli adulti in
cambiamento lavorativo la possibilità di usufruire di informazioni attendibili nei loro processi decisionali
deriva dalla conoscenza del lavoro effettivo che l'analisi del lavoro può evidenziare.
Classificazioni e profili professionali è dall'analisi del lavoro che possono essere delineati gli insiemi di
competenze che caratterizzano un profilo professionale onde facilitare l'incontro tra domanda e offerta di
lavoro.
In merito al secondo aspetto, sono stati delineati due grandi approcci all'analisi del lavoro: quelli «work-
oriented» e quelli «worker-oriented».
I primi sono interessati a descrivere i compiti indipendentemente dal lavoratore che li svolge, i secondi si
propongono soprattutto di individuare le attività e gli attributi cognitivi, affettivi e comportamentali del
lavoratore per svolgere bene tali compiti.
I metodi centrati sul lavoro tendono a essere più oggettivi, mentre quelli worker-oriented risultano più
influenzati dal lavoratore e dalla sua esperienza. Nonostante ciò, questi ultimi sono più adatti a far capire in
cosa consista lavorare in un contesto variabile e in continuo cambiamento e a far emergere le pratiche
lavorative reali rispetto alle prescrizioni.
Un'estensione dell'approccio centrato sul lavoratore è rappresentato dal «Competency Modeling»: esso si
focalizza sulle competenze nella forma di una combinazione di motivazioni, caratteristiche di personalità e
del self per svolgere al meglio le prestazioni lavorative. Ci si focalizza sulla valutazione delle conoscenze e
capacità generali della persona e del suo potenziale piuttosto che sulla corrispondenza tra le sue capacità
attuali e quanto richiesto dal lavoro. In tal modo si cercano informazioni sulle qualità delle persone che
rendano più fluida la gestione del capitale umano da parte dell'organizzazione e soprattutto permettano di
conoscere in anticipo e di ottimizzare tale patrimonio di fronte a cambiamenti del lavoro e a nuove esigenze
della produzione.
Questo discorso vale anche per attributi di carattere aspecifico o trasversali (es. creatività, volontà di
apprendimento, apertura di pensiero, capacità di problem solving, cooperazione e risoluzione di conflitti ecc)
che costituiscono elementi significativi per svolgere con successo la contextual e adaptive performance in
molte posizioni professionali.
Per avviare l'analisi delle pratiche lavorative, si fa riferimento all'approccio sistemico della scuola francese
di Jean Leplat. Esso è utile perché permette di avere un quadro d'insieme della situazione lavorativa che aiuti
a cogliere i legami tra diversi fattori che intervengono sulla prestazione e a selezionare i metodi e gli strumenti
più adatti per ricavare le informazioni.
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attenzione per la nostra osservazione (ad esempio il tipo di turni diurni e notturni che l'infermiere deve
rispettare).
Sapendo che vi è un'interazione sistemica tra azienda sanitaria e lavoratore potremo meglio renderci conto
di come procedere, ad esempio, per rilevare e descrivere i potenziali scarti tra i compiti prescritti e quelli
realmente svolti dall'infermiere.
Lo strumento che intendiamo usare ci deve specificare, in quel reparto ospedaliero che stiamo analizzando:
a) gli obiettivi;
b) le condizioni di esecuzione;
c) i tempi lavorativi;
d) il tipo di organizzazione del lavoro gestita da un primario più o meno capace sul piano manageriale;
e) l'ambiente fisico;
f) i rapporti di natura sociale.
Questi fattori di contesto ci danno un'idea della complessità del lavoro e delle richieste alle quali il nostro
infermiere deve far fronte usufruendo delle proprie risorse.
A questo punto, con la disponibilità dell'infermiere a parlare del suo lavoro, si vanno a descrivere e analizzare
le attività, intese sia come insiemi di azioni e operazioni per raggiungere gli scopi effettivi (espressi nei
compiti reali) sia come processi mentali coinvolti nella prestazione infermieristica; e anche gli esiti del lavoro,
intesi come prestazione finale ma anche come possibili effetti sulla persona (di tipo positivo come la
soddisfazione o negativo come fatica) che agiscono sul suo modo di affrontare il lavoro.
Nel caso in cui si voglia approfondire l'analisi, arrivando a un grado di dettaglio più elevato, si possono
utilizzare specifiche tecniche di task analysis di componenti del lavoro dell’infermiere.
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definire meglio le specifiche capacità e le competenze richieste al lavoratore;
identificare i bisogni di formazione e i percorsi formativi più adatti rispetto ai modi con cui attualmente
viene svolta la prestazione.
Il primo passo della task analysis consiste nell’osservazione diretta del lavoratore nella sua attività, con la
possibilità di parlare con lui o videoregistrare una sessione di lavoro.
Vi sono due processi generali che caratterizzano la task analysis:
Il primo processo descrive in maniera ricca la situazione reale di lavoro per cogliere gli obiettivi e le condizioni
di esecuzione: come vengono fatte le azioni e perché; cosa succede prima e dopo le azioni.
Il secondo processo cerca di rappresentare le azioni cercando di cogliere il loro grado di corrispondenza
rispetto al contesto. Si scompongono in maniera gerarchica le attività in componenti sempre più piccole
collegate tra loro da differenti tipi di relazione logica o temporale. In pratica, si parte con una prima
descrizione generale di ciò che sta facendo il lavoratore e attraverso la risposta a domande dirette si cerca di
arrivare a una descrizione più dettagliata.
Il percorso della task analysis segue diversi step: ottenere informazioni accurate per la descrizione,
rappresentarla in modo preciso, mostrare il risultato provvisorio al lavoratore interessato per eventuali
integrazioni e correzioni, usare il risultato finale come input per altre attività connesse (proposte di modifica
del lavoro, di progettazione ecc.).
Perchè?
Come?
La «Hierarchical Task Analysis» (HTA) è una tecnica classica per la raccolta delle informazioni utili a
descrivere dettagliatamente il lavoro. Essa rappresenta una ulteriore specificazione, infatti si basa sulla
descrizione dei compiti secondo un procedimento di decomposizione degli scopi e dell'attività in sub-
elementi, legati tra loro in modo gerarchico. Arriva a un livello notevole di dettaglio specificando
minuziosamente le sequenze di azioni necessarie per raggiungere gli scopi. Dopo la raccolta delle
informazioni, viene usata una rappresentazione grafica ad albero i cui rami sono costituiti da unità sempre
più piccole. Specifica anche le qualità e gli attributi dei lavoratori che svolgono l'attività.
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In particolare, devono essere esplorate:
la conoscenza dichiarativa (riferita a fatti, oggetti, concetti, principi e regole relativi a un dato ambito e
alle loro relazioni) che viene analizzata mediante tecniche grafiche che rappresentano i legami tra vari
concetti;
la conoscenza procedurale (come effettuare un certo lavoro, quali passi si devono eseguire e quali
alternative sono disponibili). Comprende anche quei saperi pratici (conoscenza tacita) legati
all'esperienza. L'analisi viene effettuata mediante:
a) interviste retrospettive rispetto al compito effettuato;
b) ricostruendo una mappa concettuale delle azioni e della loro sequenza;
c) mostrando una rappresentazione grafica del compito e delle azioni e facendo domande al lavoratore
per far emergere discrepanze o integrazioni;
d) usando la tecnica del «pensare ad alta voce» mentre si svolge un compito;
e) usando tecniche di analisi del discorso.
la conoscenza strategica che riguarda il problem solving e i piani di azione, le alternative predisposte in
caso di insuccesso. L'analisi si basa su tecniche di decisione che consistono, ad esempio, nell'intervistare
un lavoratore esperto e far identificare eventi lavorativi che hanno sfidato le sue conoscenze e la sua
expertise e che sono stati risolti.
L'analisi dei tre diversi tipi di conoscenza permetterà di trarre informazioni utili per comprendere meglio la
prestazione) e per definire meglio i requisiti della prestazione e i suoi possibili sostegni.
Descrizione del lavoro («job description») consiste in un breve report che riporta compiti, metodi di
lavoro, procedure, attrezzature utilizzate, standard di prestazione e responsabilità della posizione lavorativa
analizzata all'interno di una data area di attività. Nella descrizione basata su metodi work-oriented si
accentua la descrizione del task (compiti prescritti) in quella worker-oriented si evidenziano le azioni
lavorative del lavoratore, per inferire le conoscenze e le capacità possedute o necessarie. Si riportano:
Denominazione e tipo di lavoro.
Attività e procedure.
Le condizioni di esecuzione.
Conoscenze e competenze richieste.
I risultati del lavoro.
La specificazione del lavoro («person specification») In questo documento si pone attenzione alle
caratteristiche del lavoratore che sono ritenute più importanti per lo svolgimento ottimale del compito e del
ruolo lavorativo. Rappresenta l'esito dell'analisi del lavoro worker-oriented e del competency modeling che
si focalizza su aree di attività e su competenze di ordine generale.
Di solito sono messe in risalto le caratteristiche KSAO:
job knowledge (K): insieme di informazioni e nozioni (formali-disciplinari, informali-esperienziali)
applicate nell'esecuzione di un compito;
skills (S): capacità messe in atto nella prestazione mediante gesti, sequenze di azioni, interazioni persone
e macchine ecc.;
abilities (A): ad esempio, abilità numerica, spaziale, induttiva e deduttiva, di previsione, di analisi, di
sintesi ecc.);
other characteristics (O): sono altre caratteristiche della persona sottoforma di variabili latenti, inferite
dal comportamento.
Questi quattro insiemi di caratteristiche possono essere specificati soprattutto mediante l'analisi dei singoli
tasks e rappresentano una fonte informativa circa il potenziale di sviluppo della persona, espresso in termini
di competenze e di risorse psicosociali.
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CAPITOLO 5 – PSICOLOGIA E SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO
Se solo uno di questi elementi fosse stato preso debitamente in considerazione, l'incidente non avrebbe
avuto luogo. La sicurezza (o in questo caso la mancata sicurezza) è una combinazione complessa dove
interagiscono fattori strutturali (adeguatezza delle infrastrutture), tecnologici (funzionalità di strumenti di
protezione), gestionali e organizzativi (attenzione manageriale ai fattori di rischio; allocazione del personale;
sistemi di comunicazione) e individuali (comportamento dell'operatore; competenze e abilità; livello di
fatica). È dall'insieme di tali elementi, che può scaturire l'incidente o la catastrofe, anche se molto spesso le
analisi di tipo giornalistico si soffermano solo sull'ultimo elemento: l'errore umano.
Secondo Landy e Conte [2007], il contributo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni allo studio della
sicurezza sul lavoro può essere articolato in diversi approcci.
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Approccio Centrato Sulla Gestione Delle Risorse Umane, prevede interventi mirati a selezionare e
formare le persone in modo da evitare il più possibile condotte insicure.
Approccio Motivazionale, è diretto a far cambiare atteggiamenti e comportamenti delle persone per
quanto concerne la percezione del rischio e la violazione di norme.
Propensione Individuale agli Incidenti (Accident Proneness) può essere definita come la tendenza di una
persona a sperimentare più incidenti, rispetto agli altri individui, dovuta a caratteristiche stabili di
personalità. È difficile se non impossibile isolare l'effetto di tratti stabili di personalità o di atteggiamenti
nell'accadimento di eventi complessi come gli incidenti sul lavoro. In tali eventi entrano in gioco fattori di
contesto, fattori situazionali e organizzativi. Da una metanalisi che ha preso in esame il rapporto tra i 5 fattori
di personalità del modello Big Five e comportamenti di sicurezza è risultato che i fattori di coscienziosità e
amicalità sono associati a comportamenti sicuri, mentre nevroticismo ed estroversione risultano debolmente
relati a comportamenti non sicuri.
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riguardare il non completo rispetto delle norme nell'uso di attrezzature meccaniche o il mancato ricorso a
sistemi di protezione. Al di fuori del contesto di lavoro, si assiste nella circolazione del traffico a violazioni di
elementari misure di sicurezza.
Anche gli sbagli (mistakes) hanno alla base un malfunzionamento cognitivo, in questo caso legato al giudizio,
alla scelta e alla pianificazione di determinate azioni. Alla base dell'errore c'è una errata interpretazione del
problema o delle soluzioni adottate per risolverlo.
Gli sbagli a loro volta si articolano in:
- errori riferiti a prestazioni rule-based: si manifestano principalmente nei compiti di problem solving dove
non vengono applicate le adeguate regole di soluzione (es. errata interpretazione di un segnale di allarme
antincendio).
- errori riferiti a prestazioni knowledge-based: sono dovuti a limiti conoscitivi associati al compito e a
circostanze impreviste e non familiari. Avvengono quando le conoscenze e le competenze sono
insufficienti per affrontare il compito. Sono tipici di compiti lavorativi di elevato profilo, dove sono in
gioco le capacità interpretative delle persone coinvolte.
Janis propone una strategia di problem solving che si articola in vari passaggi e che dovrebbe consentire di
contenere tali tipi di errori knowledge-based:
1. formulazione del problema (individuare pericoli da evitare, vantaggi da ottenere, costi tollerabili);
2. uso delle risorse informative (utilizzo di informazioni già possedute; produzione di nuova conoscenza);
3. analisi e riformulazione (riformulazione del problema sulla base delle nuove informazioni; generazione
di opzioni alternative);
4. valutazione e selezione (valutazione delle varie opzioni; in che misura soddisfano i criteri iniziali; scelta
dell'opzione migliore);
5. esecuzione e supervisione (adozione di piani operativi e monitoraggio).
I knowledge-based mistakes non consistono in un fallimento temporaneo del sistema cognitivo, piuttosto
derivano da una deliberata scelta di un corso di azione non sicuro da parte dell'individuo. Sono azioni
intenzionali, consapevoli e finalizzate a un obiettivo.
(es. non utilizzo di sistemi di protezione durante lo svolgimento del lavoro per ridurre i tempi di esecuzione
o per evitare condizioni non confortevoli)
Reason identifica tre grandi limiti del nostro funzionamento cognitivo che possono essere considerati come
precursori psicologici degli errori (slips, lapses e mistakes):
Razionalità limitata: riguarda la difficoltà nel trattare la grande mole di informazioni che riceviamo in
modo razionale e consapevole.
Razionalità imperfetta: sostenuta dalla presenza di numerose scorciatoie nel ragionamento umano ed
errori strutturali nei processi di stima, giudizio e decisione.
Razionalità riluttante: riguarda la difficoltà a intraprendere elaborazioni di informazioni complesse e per
lunghi periodi di tempo, a condurre il ragionamento analitico.
È difficile intervenire sull'accadimento degli errori umani, tuttavia possono essere prese contromisure di
“protezione” per ridurre il potenziale impatto negativo di tali errori. Questo compito è delegato
principalmente a progettisti, ergonomi e tecnici.
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4. SICUREZZA COME PRODOTTO ORGANIZZATIVO
Con la diffusione di un approccio centrato sulla gestione organizzativa della sicurezza si è entrati nella «terza
era della sicurezza».
Nei suoi studi Perrow [1984] sostiene che gli incidenti sono inevitabili in quei sistemi caratterizzati da
interazioni complesse e connessioni strette.
Turner [1978] evidenzia come gli incidenti siano generati dall'incompatibilità tra le assunzioni culturali
dell'organizzazione (come si pensa vadano le cose) e la realtà (come di fatto le cose funzionano).
A partire dal lavoro di questi due studiosi si è andata superando la condanna preventiva verso l’errore umano,
a favore di un'indagine di tipo organizzativo. La fallibilità umana spesso è facilitata da alcuni contesti
organizzativi che comportano degli error-inducing systems (ad esempio scarsa manutenzione).
Anche le violazioni vengono concepite in modo diverso: conformarsi o meno alle regole della sicurezza è il
risultato delle norme implicite della cultura del gruppo di riferimento e del suo modo di concepire il rischio e
la sicurezza.
Queste nuove consapevolezze hanno spostato l'attenzione sulla costruzione sociale della sicurezza: il posto
di lavoro sicuro non è solo un luogo dove non avvengono incidenti ma è un luogo dove diversi gruppi di
individui (dirigenti, supervisori, lavoratori, manutentori, istituzioni) interagiscono creando quotidianamente
una cultura della sicurezza, attraverso: le politiche di gestione dei rischi, i regolamenti e gli accordi
contrattuali, i protocolli di svolgimento di specifiche operazioni.
Un importante ruolo nella cultura di sicurezza è ricoperto dalle organizzazioni sindacali, che da molto tempo
hanno posto la sicurezza al centro delle politiche di tutela dei lavoratori, considerandola come uno degli
aspetti fondamentali della qualità del lavoro su cui costruire l'identità del lavoratore.
Quando un incidente organizzativo accade, esso ha origine dalla concatenazione di svariati fattori che
nascono dai molti livelli del sistema (istituzionale, organizzativo, professionale, tecnologico, individuale), ai
quali si combina un fattore scatenante locale (di solito un atto non sicuro), apre alla possibilità che i rischi si
insinuino nel sistema.
La possibilità che accada un incidente dipende da una traiettoria di opportunità, che parte dalle decisioni
errate ai livelli gestionali, attraversa tutto il sistema, superando le difese, fino a generare l'incidente.
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Gli incidenti non sono generati da una singola causa, ma da un insieme di eventi e di fattori scatenanti (di
natura umana, sociale, organizzativa, tecnologica) che, entrando in relazione tra loro e in presenza di deboli
difese del sistema, aumentano la
possibilità dell'accadimento disastroso.
Near Miss è un evento che avrebbe potuto avere conseguenze dannose, ma che non si è concretizzato in
un incidente. Esso costituisce una opportunità per l'organizzazione ed è molto utile perché:
1. se si traggono le giuste conclusioni e si agisce di conseguenza, questi quasi-incidenti possono funzionare
protezione per mobilitare le difese del sistema in futuro.
2. i quasi-incidenti forniscono informazioni qualitative su come i piccoli fallimenti difensivi possono poi
creare incidenti più grandi;
3. sfruttando la loro numerosa presenza rispetto agli incidenti concreti, è possibile fare un'analisi
quantitativa e qualitativa più approfondita;
4. forniscono un promemoria dei rischi che il sistema deve affrontare.
5. IL CLIMA DI SICUREZZA
clima di sicurezza questa nozione deriva da quella di clima organizzativo, che indica le percezioni condivise
tra i membri di una organizzazione riguardo gli aspetti dell'ambiente sociale (es. qualità della comunicazione;
modalità di regolazione dei conflitti) e tali percezioni servono da schemi di riferimento per guidare i
comportamenti di ruolo.
Il clima di sicurezza riguarda un sistema specifico di percezioni riferite al modo in cui nell'organizzazione si
guarda alla sicurezza; esso fornisce al lavoratore informazioni su quali sono le priorità dell'organizzazione,
per cui il lavoratore deduce quali condotte saranno premiate e quali invece sanzionate.
Esso costituisce una dimensione soggettiva, proprio perché è il prodotto di una interpretazione del contesto
da parte del lavoratore. Secondo Weick, si parla della costruzione sociale di un clima di sicurezza, grazie al
contributo dei vari gruppi e comunità di lavoro.
Organizzazioni con climi di sicurezza più positivi tendono a promuovere comportamenti più sicuri.
Zohar e Luria caratterizzano il clima di sicurezza su diversi livelli di analisi:
Livello organizzativo formale: il clima di sicurezza si costruisce mediante l'adozione di politiche di sicurezza
e procedure, attraverso atti formali e disposizioni ufficiali.
Livello di analisi di gruppo: considera le pratiche concrete e l'esecuzione dei compiti da parte dei gruppi di
lavoro. Il tutto è definito da un sistema di regole tacitamente condivise tra i membri del gruppo e i supervisori.
Acquista molta importanza, infatti, la qualità delle comunicazioni tra leader e subordinati.
Degli stili di direzione trasformazionali, aperti, basati su un'intensa comunicazione interna relativa alla
sicurezza e che valorizzano il contributo dei membri, favoriscono un clima di sicurezza positivo più di stili di
direzione correttivi basati sul controllo e il monitoraggio, l'individuazione degli errori e dei “colpevoli”.
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La ricerca ha proposto diverse dimensioni per studiare la percezione da parte dei lavoratori del clima di
sicurezza in una organizzazione:
1. Atteggiamenti della direzione aziendale verso la sicurezza
2. Pratiche di gestione delle risorse umane
3. Livello di rischio nei vari compiti lavorativi
4. Sostegno dei supervisori
5. Processi interni al gruppo di lavoro
6. Relazioni tra gruppi
7. Pressione e ritmi di lavoro
La prestazione sicura può essere prevista sulla base di alcuni antecedenti prossimali:
motivazione alla sicurezza: quanto una persona si impegna a garantire standard di sicurezza e quale
valenza è associata al comportamento sicuro;
conoscenza relativa ai temi della sicurezza: conoscenze riferite ai rischi, alle procedure, alle norme.
Ma anche sulla base di alcuni antecedenti distali:
fattori legati all'ambiente di lavoro, sia di tipo strutturale sia di carattere psicosociale;
fattori di carattere individuale: caratteristiche di personalità (es. coscienziosità della persona) e gli
atteggiamenti verso il lavoro e la sicurezza.
Tali risultati mostrano che investimenti nella formazione per aumentare la sensibilità in tema di sicurezza
possono avere delle rilevanti ricadute sui comportamenti di sicurezza di tutta l’organizzazione.
Il ruolo della motivazione alla
sicurezza diventa fondamentale: se la
persona è motivata verso la sicurezza
e tutto ciò che concerne, di
conseguenza attuerà un minor
numero di violazioni e sarà più attenta
nell'individuare misure di prevenzione
e nell'assumersi responsabilità
organizzative sulle questioni connesse
alla sicurezza.
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CAPITOLO 6 - COSTI E RICAVI DEL LAVORO
2. SODDISFAZIONE LAVORATIVA
La soddisfazione lavorativa comporta un atteggiamento favorevole verso il lavoro che si esplica attraverso la
componente emozionale (vissuto generale di appagamento, emozioni piacevoli per il lavoro svolto) e la sua
componente cognitiva (giudizio favorevole sul bilancio tra costi e ricavi dell'attività svolta).
Il concetto di soddisfazione lavorativa è considerato da molto tempo uno degli esiti lavorativi più ricercati dal
lavoratore. È capace di influenzare numerose condotte lavorative, tant’è che è stato usato spesso per
riconoscere aspetti qualitativi dell'esperienza lavorativa partendo da presupposti teorici differenti.
• Modelli di discrepanza in questo caso la soddisfazione lavorativa deriva dalla mancanza di discrepanze
tra le percezioni del lavoro svolto e stati psicologici come valori e aspettative. Si tratta del raggiungimento
più o meno completo delle attese derivanti dalle motivazioni intrinseche o estrinseche per cui si lavora o
dall'equilibrio tra investimenti fatti e ricavi ottenuti.
• Modelli disposizionali e di personalità le differenze individuali nella soddisfazione lavorativa hanno una
base di partenza di pari condizioni lavorative, per cui sono connesse a caratteristiche individuali della persona
(autoefficacia, capacità di tollerare lo stress ecc.).
Da un lato abbiamo la soddisfazione del lavoro generata da un’elevata self-efficacy, dall’altro lato l'affettività
negativa è rilevante nel far percepire l'esperienza lavorativa come poco soddisfacente.
Le persone con elevata affettività negativa sono più pessimisti riguardo l’attività lavorativa: tendono a
sovrastimare gli elementi di minacciosità ambientale, a percepire in maniera negativa le richieste e le varie
circostanze lavorative, a provare preoccupazione e ansia, a vivere stati di tensione e stress.
• Modelli situazionali le caratteristiche della situazione lavorativa (e in particolare le varie componenti del
lavoro) possono influenzare la soddisfazione.
Ad esempio il Job Characteristic Model di Hackman e Oldham [1976] basa le motivazioni al lavoro sulla
relazione tra la persona e cinque tipi di caratteristiche di un lavoro ben progettato e perciò attraente e
motivante: la varietà, il grado di autonomia, lo svolgere attività significative, dotate di un'identità e il
feedback ricevuto per quanto viene effettuato.
• Altri aspetti situazionali come il reddito, la sicurezza, la stabilità del posto e la qualità delle condizioni
fisico-ambientali.
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2.2. Soddisfazione lavorativa e prestazione
La soddisfazione lavorativa viene spesso analizzata come possibile antecedente di condotte lavorative
efficaci. Si sono osservati legami diretti di comportamenti altruistici con la riduzione dei tassi di assenteismo
e di turnover; legami tra comportamenti anomali e controproducenti ridotti dal livello di soddisfazione; il
rapporto tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione in generale per la vita; In particolare è stato studiato il
legame tra soddisfazione lavorativa e produttività.
In particolare è molto discussa l'idea che “se una persona è soddisfatta lavora meglio e di più”, le cui verifiche
empiriche non sono unanimi.
Judge e colleghi, nella loro metanalisi, trovano una correlazione assai modesta tra soddisfazione e
produttività lavorativa, ed essa tende a crescere fino a 0,30-0,50 quando il lavoro è più ricco e complesso. La
ricerca di Zelenski, Murphy e Jenkins invece conferma l’ipotesi: sulla base di misure multiple della happiness
(soddisfazione per la vita e per singoli aspetti del lavoro, affettività positiva) e su un disegno di ricerca in parte
longitudinale, essa dimostra maggiore produttività sia analizzando i lavoratori con alti punteggi di felicità, sia
evidenziando che le persone con maggiore produttività operano in una condizione di maggiore soddisfazione
e mostrano più alta affettività positiva.
Nello specifico, si è osservato che questa relazione è influenzata da numerosi fattori: i mezzi, le condizioni di
lavoro e gli scopi dell'attività, minore pressione a ottenere elevati rendimenti, volontà e competenza del
lavoratore determinanti nel lavoro, opportuni riconoscimenti sociali ecc.
Ad esempio: un'emozione negativa come la rabbia può indurre comportamenti impulsivi inopportuni, ma
un'altra emozione altrettanto negativa come la paura può invece facilitare atteggiamenti e condotte più
attente di fronte a un potenziale rischio lavorativo.
Inoltre, si è osservato che stati di umore negativo (es. un modesto grado di scetticismo) con molta probabilità
rendono la persona più puntigliosa nel cercare soluzioni non routinarie, meno suscettibile ad essere
influenzata da chi vorrebbe persuaderla di qualcosa di cui non è convinta.
Un ambito particolarmente importante riguarda la gestione delle emozioni. Nella regolazione delle
emozioni, il soggetto mette in atto un lavoro emotivo allo scopo di corrispondere alle attese, regole e
prescrizioni emotive tipiche dell'organizzazione in cui lavora.
Ci sono due principali strategie di gestione:
strategie superficiali («surface acting») attraverso le quali si cerca di cambiare l’espressione delle
emozioni senza cercare di modificare ciò che si prova veramente. In alcuni tipi di lavoro (servizi educativi,
sanitari, front-office) il modo in cui si manifestano le emozioni risponde a regole precise (disponibilità,
affabilità, cortesia, sorriso ecc.) e il lavoratore che si adatta a tali regole dovrà esprimerle all'esterno
anche quando non le sente veramente proprie, andando a mascherare il suo vero stato emotivo.
strategie più profonde («deep acting») richiedono che il lavoratore controlli e modifichi il suo stato
emotivo per renderlo coerente con le attese e poi lo esprima nella forma desiderata.
In entrambi i casi (simulazione o cambiamento) è richiesto un impegno aggiuntivo da parte del lavoratore,
dunque è prevedibile un aumento della fatica emotiva.
Esiste anche una terza strategia più spontanea che consiste nel provare effettivamente le emozioni attese
e quindi non sono richiesti particolari sforzi di aggiustamento.
3. «ENGAGEMENT»
Il termine «engagement» è un importante fattore positivo per l'esperienza lavorativa, contiguo a quello di
soddisfazione. Sono state individuate tre differenti prospettive che definiscono l'engagement come:
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1. un set di risorse motivazionali collegate alle altre risorse personali dell’individuo, che sono funzionali sia
al raggiungimento dei risultati concreti sia allo sviluppo professionale;
2. uno stato psicologico durevole, strettamente connesso con l'esperienza di emozioni positive. Il lavoratore
sente un forte interesse per il suo ruolo lavorativo e opera in modo tale da superare gli standard normali di
impegno e di prestazione; prova inoltre un senso di forte coinvolgimento personale con la sua organizzazione,
ricavandone ispirazione, sentimenti di autoaffermazione e soddisfazione emotiva;
3. un positivo e appagante stato di benessere che si esprime attraverso il lavoro ben svolto.
Kahn [1990] definisce l'engagement come l'opportunità di ricavare energie per la costruzione del Sé
direttamente dal legame con il ruolo lavorativo. Con l'engagement la persona esprime se stessa sul piano
fisico, mentale, emozionale nel lavoro che fa e lo sforzo e l'impegno attuati si giustificano proprio perché la
persona si identifica con il suo lavoro. L'engagement esprime una piena presenza psicologica sul lavoro, che
consiste nel sentirsi coinvolti, attenti, connessi e integrati con le attese del ruolo lavorativo.
Nell'engagement si ritrovano le due dimensioni principali di energia e di identificazione con il lavoro. Macey
e Schneider [2008] propongono una distinzione tra diversi tipi di engagement:
trait engagement in riferimento alla personalità proattiva;
state engagement per intendere l'involvement;
engagement comportamentale per considerare i comportamenti di cittadinanza organizzativa
(comportamenti altruistici non legati esplicitamente al ruolo lavorativo).
Queste caratteristiche potrebbero far pensare ad una possibile sovrapposizione dell'engagement con il
«workaholism» (ovvero una condotta lavorativa atipica, connotata negativamente che si esprime in un
esagerato sforzo e impegno nell'attività lavorativa). In realtà, nell'engagement le persone lavorano molto
perché amano il loro lavoro e non perché sono spinti da forze interne alle quali non sanno resistere. Inoltre,
la loro situazione è esagerata al punto da mettere a rischio il proprio benessere e le relazioni interpersonali.
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così il clima di lavoro. Questi aspetti hanno una funzione motivante e rendono possibile un pieno utilizzo
delle capacità e conoscenze applicabili ai compiti lavorativi e un'efficace risposta alle richieste situazionali.
4.1. Definizioni
I lavoratori sono da sempre soggetti a varie forme di fatica (fisica, mentale ed emozionale) in relazione a:
- tipo e quantità di richieste lavorative
- tempi e ritmi di lavoro
- scadenze assegnate
- condizioni fisiche, tecniche e organizzative
La Fatica Fisica è di tipo muscolare ed è connessa con richieste lavorative di carattere psicomotorio.
Dipende dal consumo delle riserve di energia, con necessità di reintegrazione mediante il riposo e il sonno
(«serbatoio di energie») per ristorare e riportare alla condizione ottimale la persona. Quando tale
serbatoio non può assicurare il ristoro si parla di fatica cronica o patologica. La fatica fisica è tipica, ma
non esclusiva, del lavoro prevalentemente manuale.
La Fatica Mentale è definita come un processo che conduce al decremento della performance e alla
modifica dello stato emotivo della persona. Si presenta in risposta a richieste di natura cognitiva, emotiva
e relazionale, che implicano un sovraccarico di lavoro.
La Fatica Emotiva è collegata al lavoro emotivo e alle situazioni che comportano un'intensa attività di
relazione con le persone e di adattamento psicosociale come nei casi di forte cambiamento organizzativo,
di downsizing, di conflitto interpersonale e di gruppo. Il lavoratore ha la percezione di essere svuotato di
energie dalle crescenti richieste emozionali degli altri e di percepire il sentimento di esaurimento che
comporta il sovraccarico emozionale.
In ogni caso di fatica descritto sopra, soprattutto nella fatica mentale, vanno considerate due caratteristiche
tipiche:
1. un decremento delle capacità di lavoro e delle prestazioni lavorative;
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2. un'esperienza soggettiva di disagio e avversione per l'attività, una tendenza a ridurre la spinta a continuare
il lavoro e a cercare il riposo; un insieme di sentimenti della persona (sentirsi stanchi, esauriti, esausti) che
sono da considerare nella distinzione tra fatica mentale e altre esperienze negative del lavoratore come la
noia (espressione della monotonia lavorativa) o la saturazione (sensazione di apatia).
Ci sono molti tipi di lavoro che si caratterizzano per la ripetitività delle mansioni e dei compiti specifici: in
questo caso ci si sente stanchi, sazi del lavoro che si fa, quasi nauseati. A questo proposito si parla di
SATURAZIONE o sazietà lavorativa (mental satiation, Mojzische Schulz-Hardt).
Essa è una conseguenza di un lavoro ripetitivo, monotono e con scarse valenze affettive che si esprime con
vissuti emotivi di apatia, irritabilità e avversione per i compiti. Si ipotizza che entrino in gioco due tipi di
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processi: il primo di natura motivazionale (perdita della motivazione intrinseca ad agire), il secondo di natura
volitiva (mancanza di volontà di agire) con sentimenti di avversione per i compiti e irritabilità.
5. LO STRESS LAVORATIVO
5.2. Definizioni
Lo STRESS è un processo complesso che comincia con le richieste poste alla persona dal lavoro e procede
attraverso vari tipi di valutazione percettiva di tali richieste. Tali valutazioni soggettive sono connesse con
varie risposte di adattamento fisico-biologico, psicologico e comportamentale, coinvolgendo l'intera persona
e i suoi vissuti esperienziali. Se l'adattamento non ristabilisce l'equilibrio minacciato o si hanno risposte
disadattive rispetto all'eccesso di richieste lavorative, si possono determinare conseguenze negative (a breve
e lungo termine) anche gravi per la persona.
Gli studi più recenti recuperano un aspetto positivo dell'esperienza di stress (Selye la chiama «eustress» o
stress positivo, contrapposto a quello di «distress»). In realtà i diversi fattori di stress possono attivare
emozioni che la persona può interpretare come negative o positive in relazione alle proprie credenze.
Tali fattori possono essere percepiti come sfide stimolanti. La possibilità di vedere lo stress come opportunità
spinge a coltivare con cura le differenti risorse personali e situazionali utili per il buon funzionamento della
persona (es. strategie di coping).
Il termine, nella sua etimologia, richiama sia l'azione di sottoporre qualcuno o qualcosa a una pressione sia
l'esito finale subìto o tollerato della pressione stessa.
Si utilizza il doppio significato del termine in questo modo:
a) stress (o processo di stress) per denominare un processo articolato che chiama in causa stimoli,
modalità di elaborazione della persona ed esiti, immediati o a più lungo termine;
b) stressors per indicare eventi o fattori di richiesta che l'individuo incontra nella sua esperienza e che,
a certe condizioni, possono attivare il processo di stress;
c) strain per categorizzare le reazioni fisiologiche, psicologiche e comportamentali adottate dalla
persona nel breve o lungo periodo;
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d) coping strategies per indicare un insieme di sforzi e capacità di risposta strategica per far fronte,
ridurre o tollerare le richieste attivate da un'interazione persona-ambiente percepita come stressante;
e) stress outcomes per definire le conseguenze dello strain sia a livello individuale che organizzativo e
sociale.
Il modello domanda-controllo di Karasek [«Job Demands-Control Model» 1979] prevede che la relazione
tra richiesta lavorativa e possibilità di controllo (possibilità decisionale) possa determinare l'avvio del
processo di stress in grado di determinare lo strain lavorativo anche di tipo cronico.
Quattro tipi di esperienza psicosociale di lavoro:
- lavori ad alto strain (alta domanda e basso controllo);
- lavori a basso strain (bassa domanda e alto controllo);
- lavori attivi (alta domanda e alto controllo);
- lavori passivi (bassa domanda e basso controllo).
La situazione ritenuta più negativa è quella in cui all'elevata domanda lavorativa corrisponde una scarsa
discrezionalità e possibilità decisionale. Il modello è stato successivamente arricchito con l'introduzione di
una terza dimensione: il sostegno sociale (si parla in questo caso di «Demand-Control-Support Model»), che
è valido come aiuto in caso di difficoltà (sostegno strumentale) e come condivisione dei vissuti emotivi
(sostegno socioemotivo); svolge una funzione di moderazione dell'impatto negativo delle richieste lavorative
sulla persona, soprattutto nella condizione dei lavori ad alto strain.
Il modello Effort/Reward Imbalance sostiene che non sono solo gli sforzi per rispondere alle richieste
lavorative che portano allo strain, ma che sia
fondamentale la percezione di squilibrio tra sforzi e
ricompense. In particolare, lo sforzo elevato associato
a basse ricompense rappresenta un rischio per il
benessere soggettivo e una serie di conseguenze di
strain fino al burnout.
Questo funziona anche come moderatore della
relazione tra sforzo-ricompense ed esiti finali (livello
di benessere), agendo sia sui costi (sottostimandoli)
sia sui ricavi (sovrastimandoli). In tal caso si maschera
almeno temporaneamente una situazione di
squilibrio costi-ricavi che può in seguito condurre a
gravi effetti di strain.
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lavorative ci si è focalizzati anche su stressors di carattere trasversale la carriera lavorativa e organizzativa
(instabile o bloccata), le connessioni tra contesti lavorativi ed extralavorativi e la «job insecurity» (percezioni
di incertezza occupazionale e di precarietà).
Koslowsky [1998] propone una classificazione per livello dei vari stressor lavorativi:
STRESSORS INDIVIDUALI
1. «stressors» soggettivamente percepiti riguardano:
- la percezione di una situazione stressante senza tener conto di una eventuale corrispondenza con
specifici attributi oggettivi della situazione stessa (lo stressor effettivo è dato da una valutazione
soggettiva globale del tipo «questa situazione è per me stressante»);
- la percezione di inadeguatezza dei compensi monetari;
- la percezione di ostilità dell'ambiente.
2. «stressors» connessi a caratteristiche oggettive dell'occupazione Ci si riferisce:
- alle modalità di impiego (con percezioni di più probabile strain per gli impieghi part-time o di tipo
precario);
- al tipo di occupazione;
- al tempo impiegato per recarsi al lavoro;
- ai frequenti viaggi per ragioni di lavoro;
- a due speciali life events tipici dell'esperienza lavorativa: il cambiamento di lavoro e il pensionamento
(percezione dei possibili effetti negativi sull'identità personale).
3. i job stressors in senso stretto si riferisce a ciò che è più vicino allo spazio psicologico della persona e
viene percepito come capace di influenzare le sue condotte lavorative. Pertanto si riferisce:
- alle richieste del compito valutando se esse eccedano la possibilità di un adattamento o siano troppo
dispendiose o troppo carenti rispetto alle proprie risorse;
- alle pressioni di ruolo, sottolineando i rischi derivanti dalla scarsa disponibilità di informazioni per
operare (fonte dell'ambiguità di ruolo), dalla presenza di richieste e aspettative in contrasto con i valori
e le attese individuali (origine principale del conflitto di ruolo), dall'incapacità di utilizzare in modo
soddisfacente le risorse del lavoratore (insufficienza di ruolo);
- all'assunzione di responsabilità nei confronti di persone, intesa come costo potenziale per le complesse
decisioni da prendere nei confronti dei subordinati;
- alle relazioni con i superiori, se sono non eque, ingiuste o scorrette;
- ai ritmi di lavoro sproporzionati rispetto ai tempi di esecuzione di un compito;
- al sovraccarico mentale;
- al sottocarico mentale e alla monotonia;
- alle possibilità di autonomia decisionale e di controllo sul proprio lavoro quotidiano e sulle modalità per
fronteggiare eventuali imprevisti.
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STRESSORS EXTRAORGANIZZATIVI
Gli studi cercando di mettere in evidenza le interazioni tra vari tipi di stressors che in forma combinata
possono attivare un processo di stress. Vengono considerate tre principali categorie di stressors che non
sono direttamente legate alla mansione o al ruolo lavorativo:
1. Valori e aspettative diventano fonte di stress soprattutto quando assumono un significato
conflittuale per la persona o sono impossibili da conseguire per la presenza di ostacoli e impedimenti nel
normale ambiente di vita lavorativa ed extralavorativa;
2. Ambiente fisico e sociale si tratta di un vasto insieme di possibili stressors che riguardano sia
l'ambiente fisico sia quello sociale. La semplice esposizione non determina necessariamente reazioni
negative di stress, in quanto è necessario che lo stimolo superi una certa soglia oltre la quale si ha la
probabilità di attivare anche il processo di stress in aggiunta agli effetti fisici diretti.
Fra gli effetti più considerati ritroviamo:
- il rumore, che oltre a procurare eventuali danni uditivi, influenza negativamente la prestazione
agendo sul livello di attivazione psicofisiologica e sui processi cognitivi, attivando anche reazioni
negative sul piano emozionale e comportamentale.
- la densità sociale (numero di persone per unità di spazio) e l'esperienza soggettiva di affollamento
risultano associate a effetti di stress.
- la temperatura, viene considerata per gli effetti di aumento della vulnerabilità ad altri stimoli
ambientali.
- agenti tossici o inquinanti di natura chimica.
- qualità dell'ambiente fisico e sociale (es. presenza di criminalità).
3. Fattori legati alla casa e alla famiglia e alla vita quotidiana
- life events particolarmente impegnativi e di vasta portata (es. divorzio, lutto, disoccupazione,
processo di stress da perdita del lavoro)
- eventi di più ristrette dimensioni, ma ritenuti stressanti in quanto cumulabili nel corso del tempo o
capaci di ampliare gli effetti dei diversi tipi di stressors (es. restare imbottigliati nel traffico, arrivare
tardi a un appuntamento importante, perdere la chiave di casa ecc.)
Quindi le tensioni di un ambiente di vita possono influire sull'altro creando situazioni di incompatibilità o di
conflitto:
il tempo consumato in un ambito rischia di essere sottratto dall'altro;
le situazioni di tensione percepite e subite in un ambito possono influire o riversarsi nell'altro ambito (è
il cosiddetto spill-over effect);
comportamenti ammissibili in un ambito possono rivelarsi inadeguati e contraddittori nell'altro ambito.
Stanchezza, contrarietà o conflitti accumulati nel tempo possono produrre interferenze cognitive nella
qualità e quantità delle prestazioni in ciascuno dei due ambiti, attivando percezioni di inadeguatezza,
sovraccarico, disagio psicologico. Questi aspetti sono particolarmente studiati in relazione alla condizione
femminile e al duplice ruolo di responsabilità, familiari e lavorative, vissuto dalle donne (dual career).
FATTORI INDIVIDUALI le differenti risorse individuali possono far variare la percezione di minacciosità o
di gravità degli eventi rispetto al proprio self, così come la valutazione delle proprie capacità di far fronte agli
eventi.
Ad esempio, la reazione di ansia allo stress sarebbe peggiorata da tratti nevrotici di instabilità emotiva.
Locus Of Control svolge una notevole influenza: le persone orientate internamente (che credono nel
potere personale di controllare e influenzare gli eventi) dimostrano di reggere meglio situazioni ambigue
rispetto a quelle orientate esternamente (le quali ritengono di non avere influenza sugli eventi e li vedono
dominati dal potere di altri).
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Nella stessa direzione positiva del locus interno operano la self-efficacy (percezione di padronanza della
situazione e di competenza nell'influenzare l'ambiente esterno) e l'ottimismo disposizionale.
Avere la tendenza ad aspettarsi risultati favorevoli nel futuro, porta il soggetto a scegliere strategie attive per
far fronte alle difficoltà attuali e migliorare il controllo della situazione.
Hardy Personality [Kobasa, 1979] personalità coraggiosa, audace o vigorosa, caratterizzata da
convinzione nel controllo, nell'impegno e nella sfida: i manager con tale personalità reggono meglio le
situazioni di tensione e adottano strategie più appropriate e risolutive.
Personalità di Tipo A [Friedman e Rosenman 1974] riguarda persone connotate da competitività estrema,
agonismo per il successo, aggressività repressa con sforzo, fretta, impazienza, attività incessante,
ipervigilanza, alterazioni del tono di voce, tensione nella muscolatura facciale, sentimento di urgenza del
tempo e di sfida delle responsabilità. Il soggetto mostra performance assai elevate ma tende a subire più
gravi conseguenze dello stress.
Situazione Ambigua (Role Ambiguity) è un fattore di stress a cui si fa costante riferimento e risulta
modulato dalle differenze individuali nel grado di tolleranza emozionale dell'incertezza e nella capacità
mentale di assumere iniziative strategiche per ridurla e risolverla.
Rispetto alle differenze tra gruppi sociali, invece, Kasl sostiene che i fattori di vulnerabilità dei gruppi nei
contesti lavorativi siano:
- fattori sociodemografici (età e grado di istruzione)
- posizione sociale (ad esempio, vivere da soli)
- stile comportamentale (comportamenti di tipo A)
- competenza e capacità
- salute fisica
- legati a caratteristiche non lavorative (qualità dei rapporti familiari).
FATTORI LEGATI AL LAVORO si tiene in considerazione il grado di controllo che la persona può esercitare
sul lavoro (es. influenzare il ritmo di lavoro, i tempi, le procedure).
FATTORI DI TIPO ORGANIZZATIVO anche in questo caso si tiene conto del grado di controllo in vari ambiti,
come il clima psicosociale (aperto, equo, non eccessivamente competitivo ecc.) e soprattutto il sostegno
sociale.
Poter disporre di sostegni sociali adeguati sia sul lavoro che in ambito extralavorativo può essere inteso come
una variabile che influenza direttamente le cause di stress (effetto preventivo), le misure di rimedio (effetto
curativo) e che modera l'azione del fattore di stress (effetto tampone o buffering effect).
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Tuttavia un elevato livello di motivazione fa mantenere alto il livello di prestazione a dispetto di condizioni
stressanti. Del resto, è risaputo che un lavoratore fortemente motivato perseveri nel suo lavoro, rimuovendo
i sintomi di fatica e spesso pagandone in seguito le conseguenze.
Esiti per la vita personale portando come conseguenza, ad esempio la riduzione dei significati attribuiti al
lavoro; l'interferenza con la vita familiare; l'impoverimento della vita sociale.
Esiti socioeconomici e organizzativi lo stress provoca effetti sulla produttività, oltre a tener conto delle
milioni di giornate di lavoro che vanno perdute, portando enormi costi economici. I costi sociali e organizzativi
indiretti derivano da fenomeni come assenteismo, turnover, perturbazioni del clima organizzativo, diffusione
di forme di conflittualità latente, perdite di efficienza dei processi di lavoro, aumento dei comportamenti di
ritirata ecc.
5.6. Burnout
BURNOUT è una forma grave di stress cronico, identificato inizialmente nell'ambito delle occupazioni
caratterizzate da un'ampia quota di rapporti lavorativi con persone.
Esso comprende 3 componenti:
depersonalizzazione: un atteggiamento negativo verso il proprio lavoro denominato cinismo, che ad
esempio nelle professioni di aiuto si esprime con l'aumento della distanza psicologica tra l'operatore e
l'utente/cliente, percepito negativamente;
esaurimento emotivo: dovuto a un eccessivo coinvolgimento emozionale che drena energie, poi si
raffredda e si inaridisce;
senso di ridotta efficacia professionale: nel lavoro con gli altri si percepisce di non riuscire più a realizzare
le proprie capacità e aspettative di riuscita.
Il burnout è studiato in relazione al Work Engagement, nell'ambito del modello teorico dello stress chiamato
Job Demands-Resources Model [Schaufeli e Salanova 2007]. Questo approccio considera insieme sia gli esiti
negativi dello stress lavorativo, come il burnout, sia quelli di carattere positivo come l'engagement.
Nel contesto di lavoro le domande lavorative possono divenire stressors capaci di determinare conseguenze
anche gravi; tuttavia, sono presenti anche risorse funzionali al raggiungimento degli obiettivi del lavoratore.
Le «Job Demands» e le «Job Resources» guidano due distinti processi:
a) quello di indebolimento del benessere, ovvero domande troppo impegnative che consumano le energie
mentali, emotive e fisiche dei lavoratori;
b) quello motivazionale, che sostiene un aumento dell'impegno, basso cinismo, prestazioni eccellenti e una
riduzione dell'impatto delle richieste lavorative.
Le job demands sono gli antecedenti del burnout, le job resources sono correlate al work engagement.
Il lavoratore in stato di burnout mostra sentimenti di impotenza a risolvere i problemi e una crisi di identità
professionale che esprime in risposte difensive disfunzionali: rigidità comportamentale, indifferenza, apatia,
distacco psicologico, sospettosità, ostilità e relazioni aggressive.
I primi segni dovrebbero essere rapidamente diagnosticati per affrontarli sia attraverso il sostegno sociale,
sia tramite forme temporanee di rotazione delle mansioni o di affidamento di nuovi progetti professionali.
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5.7. Strategie di «coping» e di gestione dello stress
Per gestire una condizione di stress negativo Lazarus e Folkman [1984] esaltano l’uso del COPING, inteso
come insieme di strategie psicofisiologiche, cognitive e comportamentali che hanno una funzione protettiva.
Vengono identificate tre principali categorie di strategie:
1. quelle centrate sul problema si riferiscono ad azioni direttamente orientate a rimuovere le cause che
sono all'origine del processo di stress;
2. quelle centrate sulle emozioni, si riferiscono ad azioni che cercano di modificare il significato attribuito
all'evento, attenuandone la salienza emozionale (ristrutturazione cognitiva della situazione);
3. quelle centrate sui sintomi, indirizzate a rafforzare le capacità di risposta e di resistenza agli stressors (ad
esempio, attraverso varie tecniche di rilassamento, di meditazione o l'esercizio fisico); cercando di
minimizzare il rischio di conseguenze gravi anche con il sostegno degli altri.
Negli ultimi anni si è approfondito un altro insieme di fattori protettivi: quelli connessi con la resilienza. Si
tratta di fattori che possono aumentare le possibilità di recupero e di resistenza psicofisica, oltre che generare
emozioni positive e di benessere e far riconoscere i possibili vantaggi per la persona della situazione vissuta.
Le persone resilienti tendono a usare forme di coping attivo, a riprogettare la situazione, a cercare l'aiuto
degli altri e a evitare la fuga e il diniego delle avversità o il disimpegno. La resilienza viene, inoltre, associata
a un orientamento ottimistico, ad affettività positiva e persino al buon umore.
Tali finalità possono essere raggiunte solo se esistono: atteggiamenti favorevoli da parte delle aziende in
tema di sicurezza, salute e benessere dei lavoratori, e una partecipazione attiva dei lavoratori alle diverse
fasi di diagnosi, valutazione e intervento migliorativo delle situazioni di lavoro.
In italia è stato introdotto il decreto legislativo 81/08, che garantisce un’identificazione precoce dei rischi da
stress lavorativo di cui le organizzazioni devono farsi carico obbligatoriamente, predisponendo il Documento
di valutazione dei rischi (DVR). Il ciclo di controllo per la gestione del rischio psicosociale consiste in una serie
di fasi ripetute nel tempo che richiedono il coinvolgimento
di tutti gli stakeholders (dirigenza, lavoratori, medici ecc).
Esso prevede le fasi:
1. individuazione dei pericoli e delle persone a rischio di stress;
2. valutazione dei rischi esistenti;
3. decisione sulle misure preventive per eliminare o controllare tali rischi;
4. intervento con azioni e piani concreti;
5. controllo, riesame e aggiornamento periodico.
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CAPITOLO 7 - CONDOTTE LAVORATIVE ANOMALE E CONTROPRODUCENTI
2. I COMPORTAMENTI CONTROPRODUCENTI
I comportamenti anomali nei contesti di lavoro incidono negativamente sul funzionamento organizzativo,
sulla produttività e sulla reputazione dell'organizzazione.
Al di là dei diversi termini usati, vi sono delle seguenti caratteristiche principali del fenomeno che sono
condivise:
- sono condotte intenzionali o volontarie indirizzate da singoli individui o da gruppi contro gli interessi di
un'organizzazione;
- hanno sia una componente reattiva (o impulsiva, emozionale) sia una componente più strumentale o
proattiva;
- sono attivate dai lavoratori verso la produzione, verso la proprietà dell'organizzazione e i suoi assets o
anche verso il capitale umano;
- assumono connotazioni differenti a seconda che si esprimano come azioni illegali (contro le norme
formali), immorali (violano codici etici condivisi) o devianti (non rispettano standard comportamentali,
regole sociali o procedure organizzative).
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Molte condotte controproduttive (es. sciopero) possono essere considerate come espressione di una
protesta (individuale e collettiva) per contrastare situazioni lavorative ingiuste o di strumentalizzazione e
sfruttamento dei lavoratori.
A livello individuale:
inadeguato sviluppo morale della
persona
la tendenza al disimpegno morale
la bassa stima di sé
le scarse motivazioni alla riuscita
il locus of control esterno
l'irascibilità, l'impulsività e
l'instabilità emotiva
la scarsa socievolezza
ruolo delle emozioni negative
(affettività negativa)
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il «groupthink» (conformismo di gruppo, con scarsa discussione critica interna ed eccessiva dipendenza
dal leader)
A livello di organizzazione:
scarsa chiarezza degli obiettivi da raggiungere e al loro grado di incoerenza e conflittualità
i sistemi di controllo adottati dal management (troppo oppressivi e punitivi oppure troppo lassisti)
le condotte incoerenti e non etiche dei dirigenti
forme di non equità di trattamento e di ingiustizia
la presenza di capi e supervisori che commettono abusi
l'inadeguatezza dei processi di socializzazione lavorativa
3. WORKAHOLISM>>
WORKAHOLISM questo termine descrive una condotta di lavoro atipica con effetti controproducenti per
la persona, che si esprime con un eccessivo impegno, sforzo e coinvolgimento della persona stessa nelle
attività inerenti il proprio ruolo lavorativo.
È la condotta adottata da quelle persone che non riescono a “staccare dal lavoro”, tant’è che se lo portano
ovunque e in ogni momento della giornata (a casa, sul treno, nel weekend).
Talvolta, esse possono apparire contente della loro situazione e sono giudicate molto efficienti e di successo;
in altri casi sembrano invece ossessionate, infelici e incapaci di riposarsi sino a farsi del male.
Si può parlare di una vera e propria dipendenza dal lavoro che emerge, in prevalenza, tra persone che
ricoprono posizioni di responsabilità e lavoratori autonomi che non hanno stabilito chiari confini tra lavoro e
non lavoro. Connotazioni dei tipi diversi di workaholist:
1. la compulsività: un modo di vivere la relazione con il proprio lavoro che risponde a un bisogno interno,
quasi incontrollabile, di arrivare a un risultato;
2. il bisogno di un meticoloso controllo della situazione: da cui derivano l’incremento continuo degli sforzi
e il perfezionismo della condotta lavorativa;
3. tensione competitiva per la riuscita professionale e il rafforzamento della propria identità di carriera.
Nelle ricerche empiriche queste tre dimensioni sono correlate sia con altre caratteristiche personali sia con
il tipo di contesto lavorativo. Nella condizione di workaholism è presente una sottovalutazione dei rischi sia
psicofisici sia di isolamento affettivo e sociale che possono portare poi a impatti negativi sul benessere, la
soddisfazione di vita, le relazioni interpersonali e la vita sociale.
Si sono trovati stretti legami tra workaholism e stress: alti valori nella dimensione motivazionale
corrispondono a bassi livelli di benessere emotivo; mentre alti livelli del piacere di lavorare comportano una
minore presenza di stress.
Anche i legami tra workaholism e stati emotivi di carattere negativo (es. pessimismo e scoraggiamento)
sono stati verificati. Meno nette sono le relazioni con problemi di salute, anche se ciò può derivare dal fatto
che le persone coinvolte potrebbero sottostimare i loro piccoli problemi di salute essendo quasi sempre
focalizzate sul lavoro che fanno. Tale sottovalutazione rischia però di essere disfunzionale, accrescendo la
probabilità di subire danni futuri.
Questa condizione è stata associata anche a personalità di tipo A (eccessivo attivismo, senso di urgenza delle
scadenze ecc.), a tratti di perfezionismo, con forte preoccupazione di controllo della situazione e a rigidità
comportamentale.
Il workaholism non va confuso con l'entusiasmo per il lavoro, in quanto, in questo caso, la persona si sente
molto coinvolta nel suo lavoro, ma ne ricava anche una forte soddisfazione, non si sente pressata a
continuare senza limiti il lavoro che sta facendo e, soprattutto, mantiene un equilibrato distacco del lavoro
dalle altre sfere di vita.
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Secondo Snir e Harpaz [2000] vi è una connessione tra workaholism e significati attribuiti al lavoro. Nel
confronto con gli altri lavoratori, i “workaholics” considerano il lavoro molto più centrale per la propria vita,
valorizzano le motivazioni intrinseche e danno un minore peso alle relazioni interpersonali; per cui si sentono
continuamente spinti a coinvolgersi personalmente nel loro lavoro.
Con il procedere del tempo, però, il lato spiacevole di questa situazione è sia di natura psicofisica (stanchezza
cronica, cefalee, insonnia, smania) che relazionale (isolamento) con effetti negativi soprattutto nel contesto
familiare.
Tuttavia, si ipotizza che vi sia qualche beneficio particolare che avviare tale circolo come, ad esempio, la
percezione di poter ottenere una promozione o buone valutazioni dai superiori. Questi comportamenti
vengono poi appresi e rinforzati con l'esperienza positiva del riconoscimento ottenuto, e diventano una
condotta stabile nel tempo. Ciò soprattutto quando si parla di lavori di prestigio, a reddito medio-alto e
quando il lavoratore mostra alcune caratteristiche personali e disposizionali.
Si può sostenere che: se nello sviluppo del workaholism prevalgono meccanismi di apprendimento è più facile
adottare strumenti per un possibile cambiamento della situazione, mentre se risulta dominante il peso
assegnato ai tratti di personalità è più difficile correggere un repertorio di condotte ormai troppo stabilizzato.
Secondo Vardi e Weitz, le condotte fisiche aggressive nel contesto di lavoro possono essere:
condotte dirette attive (es. un assalto), o dirette passive (es. rifiuto di fornire le risorse previste)
indirette attive (es. rubare o nascondere uno strumento di lavoro), o indirette passive (es. non
impegnarsi in favore di qualcuno visto come un nemico);
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condotte aggressive indirette attive (es. diffondere pettegolezzi e rumors), o condotte indirette passive
(es. omettere informazioni necessarie, non smentire pettegolezzi o false voci).
Spesso si tende a dare una definizione del profilo del lavoratore potenzialmente aggressivo, basandosi
sull’identificazione delle caratteristiche individuali connesse con l'aggressività. In realtà, secondo Barling,
Dupré e Kelloway [2009] si tratta di un mito da sfatare poiché le ricerche empiriche sottolineano risultati
inconcludenti o contraddittori sul ruolo delle variabili personali nella genesi dell'aggressività sui luoghi di
lavoro:
Relazione con l’età talvolta con il crescere dell'età, si riducono le risposte aggressive; tuttavia, in molti casi,
esse non risultano correlate con l'età.
Status socioeconomico si sono viste solo sporadicamente manifestazioni aggressive collegate a una
condizione sfavorevole sul piano del reddito.
Relazione con l'appartenenza etnica non compaiono risultati di rilievo.
Variabili psicologiche (cognitive, affettive e di personalità) mostrano legami non sempre forti, ma
relativamente frequenti con l'aggressività.
Apprendimento di condotte ostili (per precedenti esperienze di aggressività) è importante prenderlo in
considerazione per giustificare la scelta e di tali condotte da parte di un lavoratore.
Anche la relazione tra condotte di violenza e malattia mentale rappresenta un mito da sfatare:
solo l'abuso di sostanze e l'alcolismo hanno trovato conferme empiriche di un loro legame con condotte
aggressive sul posto di lavoro, mentre più incerti risultati riguardano sindromi depressive e ansiose.
Gli autori non sostengono un rapporto di causalità lineare tra caratteristiche individuali e risposte aggressive,
ma collocano tali variabili in una posizione intermedia tra contesto di lavoro e risposta aggressiva. Quindi si
può dire che alcune caratteristiche personali tendono ad accentuare il ruolo di provocazione del contesto e
a rafforzare la probabilità di comparsa di manifestazioni aggressive.
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5. «MOBBING»
MOBBING è un termine che esprime un insieme eterogeneo di manifestazioni negative nei contesti di
lavoro, caratterizzato, ad esempio, da insulti, critiche distruttive alle persone, offese verbali e fisiche,
angherie, abusi e prevaricazioni nella vita quotidiana. Le conseguenze di tali azioni consistono in umiliazioni
provate dalle vittime, sentimenti di offesa subita, fino ad arrivare ad esperienze di strain grave che
comportano anche l'uscita dal lavoro (che probabilmente è lo scopo ultimo di queste manifestazioni di
aggressività) sia a peggioramenti ulteriori del funzionamento e del clima organizzativo.
Infatti il mobbing costituisce un'esperienza di relazioni interpersonali negative tra diversi attori: il
“mobbizzato” la vittima, il “mobber” colui che svolge comportamenti ai danni della vittima e il “co-
mobber” (o side-mobber) gli spettatori che spesso sono anche complici delle azioni dannose.
Frequenza e durata Tra i criteri di definizione del mobbing sono stati indicati la frequenza e durata degli
atti negativi per contraddistinguere questo fenomeno da altri tipi di conflitto nei luoghi di lavoro, meno
vessatori. Si considerano episodi negativi che ricorrono settimanalmente per un periodo di circa 6 mesi.
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5.2. Antecedenti e conseguenze
Il mobbing è un fenomeno multideterminato che chiama in causa:
- i fattori organizzativi, si considerano gli stressors ambientali inerenti il ruolo lavorativo, uno stile di
leadership lassista che non da indirizzi chiari sulle regole da rispettare;
- i fattori sociali si considerano quelli relativi a relazioni intra-gruppo mal gestite: l'ostilità tra i lavoratori,
l'invidia sociale, le pressioni e le dinamiche di gruppo orientate a identificare un capro espiatorio possono
rivelarsi fattori di mobbing,
- i fattori individuali considerano il ruolo di ridotte competenze professionali, sociali e di sensibilità e
intelligenza emotiva sia l'importanza di fattori disposizionali di personalità come l'ansia, una ridotta
coscienziosità e alta introversione.
Il mobbing si configura come un fenomeno che va oltre le conseguenze di disagio psicologico e psicosociale,
diventando un reato perseguibile in base al codice penale e risarcibile in quanto fonte di danno.
Naturalmente non tutti i ritardi hanno lo stesso significato; si devono considerare alcuni parametri come la
loro frequenza e la durata in una certa fase della vita lavorativa.
- ritardo cronico: crescente frequenza e durata;
- ritardo stabile periodico: stabile durata e frequenza;
- ritardo casuale: senza uno specifico pattern di durata e frequenza.
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- alcune caratteristiche generali di personalità, come la bassa coscienziosità;
- il tipo di percezione del tempo, come nel caso di persone che non hanno una buona percezione del
tempo e sono cronicamente in ritardo anche nella vita sociale;
- il contesto culturale, ad esempio in alcune culture il valore attribuito alla puntualità sul lavoro può
essere assai ridotto;
- il pendolarismo, prende in considerazione diversi fattori tra i quali i mezzi pubblici o privati usati per
raggiungere il posto di lavoro, il traffico, le condizioni ambientali;
- il tipo di equilibrio tra lavoro e famiglia, nei casi di conflitto di responsabilità tra lavoro e famiglia è
probabile un effetto diretto sulle condotte di ritardo.
7. ASSENTEISMO E TURNOVER
Assenteismo e turnover sono due condotte che, insieme al Ritardo, rientrano nei comportamenti di ritirata.
Molti degli studi inerenti le motivazioni al lavoro, l'insoddisfazione e lo stress assumono l'assenteismo e il
turnover come indicatori di un malfunzionamento organizzativo del lavoro.
Fare delle assenze ingiustificate (o con false giustificazioni) può essere inteso almeno in tre modi diversi:
1. come una strategia di violazione delle regole per ricavare vantaggi personali immediati;
2. come una forma di protesta individuale;
3. come un atto direttamente indirizzato a procurare danni all'organizzazione.
In alcuni casi, addirittura, le persone che hanno intenzione di lasciare l'attuale lavoro per trovarne un altro
migliore mettono in atto un insistente assenteismo, riducendo il coinvolgimento sul lavoro che stanno
facendo.
La presenza lavorativa in alcuni casi può però assumere una connotazione deviante: il PRESENTEISMO,
ovvero la presenza sul lavoro anche quando si è ammalati.
Questo fenomeno tende a crescere in relazione all'aumento dell'insicurezza lavorativa, della precarietà dei
contratti di lavoro, della facilità con cui si può essere rimpiazzati e della presenza di workaholism. È più
comune quando si svolgono lavori a elevata responsabilità, per i quali il lavoratore si sente indispensabile e
quando esistono politiche organizzative basate su forti pressioni e sanzioni in caso di assenteismo.
L'ASSENTEISMO è un comportamento complesso che meriterebbe di essere trattato dai dirigenti in modo
meno generalizzato, impegnandosi a distinguere l'assenteismo volontario da quello involontario, giustificato
da reale malattia.
Nonostante l’assenteismo possa avere giustificazioni attenuanti (es. una reazione all'insoddisfazione
lavorativa, un modo per gestire eccessivi carichi familiari ecc.) rappresenta in ogni caso una risposta
individuale che resta illecita e opportunistica.
In altri termini, l'essere assenti non è solo qualcosa di passivo, ma talvolta esprime un segnale di
preoccupazione per una condizione lavorativa insoddisfacente e significare un abbozzo di strategia di
cambiamento, di contrattazione informale per avere condizioni lavorative migliori, soprattutto in carenza di
altri canali collettivi per affrontare questo problema.
Riguardo il tema della relazione tra soddisfazione e assenteismo, si ipotizza una causalità inversa ovvero
sarebbe l'assenteismo a causare insoddisfazione (rimproveri dai superiori per l’assenza, giudizi negativi dai
colleghi, effetti negativi sul salario e la carriera) e ciò avvierebbe un circolo vizioso, con possibili effetti di
ritirata dall'organizzazione.
Il TURNOVER è inteso come uscita volontaria da un'organizzazione che può avvenire per differenti ragioni.
Alcune di queste ragioni si potrebbero evitare se l’organizzazione le riconosce come segnale di
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malfunzionamento e apporta i necessari cambiamenti (es. salari troppo bassi, cattive condizioni di lavoro,
sovraccarichi di lavoro).
Altre sono più difficili da affrontare, poichè originano da cause personali dei lavoratori sulle quali
l’organizzazione non ha controllo (ingressi lavorativi intenzionalmente temporanei, decidere di ritornare a
studiare, cambiare città ecc.).
Per comprendere le ragioni che spingono a compiere un furto in azienda, anche in questo caso si ipotizza
un'interazione tra caratteristiche personali e fattori situazionali.
Ad esempio: si ipotizza un contesto organizzativo lassista, con regole poco chiare e un clima di tolleranza
rispetto a questi comportamenti, i sistemi di controllo vengono trascurati e vi è la presenza di esempi negativi
(dirigenti e colleghi) tutto ciò può stimolare atteggiamenti noncuranti dei beni comuni e incentivare
determinate condotte.
Le appropriazioni indebite rappresentano di fatto l'espressione di una condotta antisociale individuale che
si verifica più facilmente quando: vi è una bassa identificazione organizzativa, insoddisfazione e inadeguato
adattamento al lavoro.
In alcuni casi tale condotta è considerata come modalità di adesione alle norme (devianti) del gruppo sociale
di riferimento e come reazione inadeguata di protesta verso le ingiustizie.
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Rientrano nella categoria dei comportamenti controproduttivi anche:
Vandalismo: è assimilabile alle condotte incivili discusse precedentemente ed è contiguo ai frequenti episodi
di natura antisociale osservabili anche fuori dai contesti lavorativi: l'uso irresponsabile dei beni pubblici, la
scarsa pulizia delle strade, i graffiti sui muri delle città o addirittura devastazioni nelle scuole o nelle aule
universitarie.
Sabotaggio: è attuato per mezzo di episodi espressi in forme tradizionali o moderne come la diffusione di
virus informatici da parte di hackers.
Le forme classiche del sabotaggio hanno un carattere collettivo e spesso rispondono a istanze ideologiche di
cambiamento della situazione di sfruttamento del lavoro e di alienazione dei lavoratori. Può avere anche un
significato di protesta nei confronti delle direzioni aziendali e di contrasto per riportare a un migliore
equilibrio i rapporti sociali interni. Queste forme collettive agiscono secondo una strategia di aumento del
controllo collettivo della situazione lavorativa.
Le forme individuali possono riguardare anch’esse la proprietà, la reputazione, i prodotti e servizi
dell'azienda ed essere attuate di nascosto, provocando danni localizzati o generali sull'organizzazione.
Queste condotte esprimono risentimento e vendetta personale rispetto a torti subiti da parte dei capi o dei
colleghi, ma anche bisogni di distruttività, di ricerca di sensazioni forti, di avidità o di evitamento dell'impegno
lavorativo.
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