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Possono essere:
a. innovazioni incrementali: comportano un miglioramento rispetto a un prodotto o processo dominante
b. innovazioni radicali: rottura con i prodotti o processi esistenti
Serve trovare: un perimetro delle riflessioni sull’innovazione organizzativa → dominio specifico di questioni e tematiche.
Per Alice Lam → I.O (innovazione organizzativa) → un’organizzazione crea o adotta una nuova idea o una nuova
pratica. (nb: definizione minimalistica, dettagliare di più è molto difficile)
Uno dei temi più discussi storicamente → identificazione dei vettori dei fenomeni di innovazione organizzativa.
Per Schumpeter (1883-1950): l’innovazione è la determinante principale del mutamento industriale, è la risposta creativa
dell’impresa (non solo puro adattamento), può avere luogo sia in imprese piccole sia in grandi, determina un profitto
temporaneo (scompare quando anche le altre imprese reagiscono), è un processo continuo di accumulo di conoscenza.
Per molto tempo → tecnologia considerata forza trainante dell’innovazione organizzativa → visione che rimane ancora
oggi → determinismo tecnologico
In realtà: è una visione fuorviante → la tecnologia non è quasi mai l’unico fattore determinante
(nb: è quello che sostiene anche la social construction of technology SCOT, una teoria che sostiene che le influenze
sociali influenzano e plasmano la tecnologia). La costruzione di una tecnologia per loro avviene diverse fasi:
1. Ampia flessibilità interpretativa dell’artefatto (possibilità che l’artefatto assuma diverse forme e modalità di utilizzo
in base al significato che gli adopter gli attribuiscono)
2. Azione dei “gruppi sociali rilevanti”: ne promuovono una particolare configurazione (in base alle loro esigenze e
preferenze). Competizione tra i vari gruppi sociali
3. stabilizzazione della configurazione dell’artefatto, i gruppi sociali trovano un consenso, il dominant design (a volte
avviene un lock-in della configurazione, es. tastiere del computer)
esempio: bicicletta
la prima versione aveva una ruota grande e una piccola → molto pericolosa, risponde alle esigenze degli sportivi più
“scapestrati”. Pian piano avvennero migliorie tecnologiche (telaio, ruote uguali, freni…) ma spinte dalle richieste di alcuni
gruppi sociali (donne) che necessitavano di un mezzo sicuro per spostarsi. Si impone quindi la safety bike. Ma non si è
del tutto stabilizzata, vd. nascita della mountain bike.
Critica a SCOT → enfatizza troppo la distinzione tra attori sociali e oggetti tecnologici. A questo risponde il filone della
actor network theory (ANT).
- attori umani e oggetti tecnologici sono legati in maniera indissolubile
- difficile distinguere il contributo dell’uno o dell’altro
- gli oggetti tecnologici svolgono una funzione sociale (Latour) perchè le persone “delegano” a esso una parte dei
loro comportamenti e scelte (es.semafori). Gli attori non umani assumono sembianza antropomorfa perché:
● sono stati sviluppati da umani
● sostituiscono l’azione umana
● plasmano la scelte e i comportamenti degli umani
- si parla allora di “actant” “attante” in riferimento a umani e non umani che in egual modo costruiscono la società.
QUINDI:
● appare scorretto o riduttivo ricondurre l’innovazione organizzativa solo all’innovazione tecnologica
● importanza degli attori sociali
● innovazione tecnologica e innovazione organizzativa sono espressioni di attività che contribuiscono
analogamente alla costruzione della società
Le riflessioni sull’innovazione organizzativa rientrano nel filone degli innovation studies (anni ‘60) → studiosi di molti
ambiti → interesse verso l’innovazione.
Due proposte di studi:
1. ALICE LAM (2004): individue 3 filoni principali lungo i quali si sviluppano gli studi dell’innovazione organizzativa.
FILONE FOCUS PRIORITARIO QUESTIONI PRINCIPALI UNITA’ DI ANALISI
2. Birkinshaw, Hamel e Mol (2008): più incentrati sugli studi che inquadrano le motivazioni che spingono
un’organizzazione (i dirigenti) a promuovere l’innovazione. Identificano 4 prospettive:
a) istituzionale: studi che si concentrano sull’analisi delle condizioni socio economiche e istituzionali che
favoriscono/sfavoriscono l’innovazione
b) fashion: studi che vedono l’innovazione organizzativa come allineamento a mode e tendenze ambientali
(nb: ruolo dei “fashion setter”)
c) culturale: studi che sostengono che le organizzazioni più stabili e mature (le culture) fatichino a
innovare. L’innovazione assume valenza simbolica contro i valori tradizionali dell’organizzazione.
d) razionale: studi che muovono dal presupposto che l’innovazione sia una risposta all’esigenza di far
lavorare in modo più efficiente un’organizzazione, spinta e implementata da attori razionali
Introduzione su quali possono essere le aree di un’organizzazione investite da processi innovativi. Aree individuate dalle
classificazioni più diffuse (es. quella dell’OCSE). Questa prevede che l’innovazione possa avvenire:
1. introduzione di nuovi prodotti
2. nuovi processi
3. nuove configurazioni della struttura organizzativa
4. nuove iniziative di marketing (nb: nella classificazione del libro analizzano complessivamente l’innovazione nelle
strategie delle imprese) —> permette di non riferirsi solo a imprese commerciali
QUINDI, qui:
1. innovazione delle strategie organizzative
2. innovazione delle strutture organizzative
3. innovazione dei processi lavorativi
4. innovazione dei prodotti (output sia tangibili che intangibili)
Concetto di strategia: emerge da un contesto militare (strategia come pianificazione nel medio-lungo periodo). Negli studi
organizzativi emerge negli anni ‘60 → def: pianificazione formale e intenzionale delle azioni e risorse necessarie per un
determinato obiettivo
Rimane comunque un concetto astratto, una “cornice” che racchiude e si declina in altre dimensioni dell’attività di
un’organizzazione. → quindi è importante studiarla perché ha conseguenze ampie.
Questo schema viene spesso utilizzato per capire quali potrebbero essere le minacce per il perseguimento di una
strategia.
Tradizionalmente → strategie elaborate dai top manager, i sottoposti eseguono. ORA: le responsabilità di elaborazione,
implementazione e controllo delle strategie sono distribuite su tutta la gerarchia.
NB: sono spunti e stimoli tendenzialmente non vincolanti.
Quando si idea una strategia → necessaria visione verso il futuro (imprevedibile) → necessaria dinamicità.
Sempre Mintzberg, 1987 propone 5 usi diversi che si possono fare delle strategie:
1. STRATEGIA COME PROGRAMMA: definizione più tradizionale, visione della strategia come razionale e
funzionale. Prende forma attraverso un’attività di pianificazione svolta in anticipo e interessa un arco temporale
ben definito (semestre, anno, biennio,...) al termine → valutata e rivisitata
2. STRATEGIA COME STRATAGEMMA (ploy): le organizzazioni a volte innescano dei “giochi” che non
rappresentano l’effettiva finalità che esse intendono perseguire, ma sono strumentali a creare le condizioni per
poi dispiegare le strategie a tali scopi (la reale strategia).
Es. Amazon → spesso vende prodotti a prezzi molto più convenienti rispetto ai suoi concorrenti (“leadership di
costo”), però si riducono così i margini di profitto. In realtà l’obiettivo di Amazon è fidelizzare i clienti attraverso
questa strategia, fino ad arrivare ad un quasi monopolio (leadership di mercato)
3. STRATEGIA COME SCHEMA DI AZIONI RICORRENTI E COERENTI TRA LORO: può svilupparsi anche senza
pianificazione iniziale. Schemi emergono senza essere stati progettati (es. jazz, calcio → ci sono alcuni schemi
predefiniti ma poi si crea mentre si fa)
4. STRATEGIA COME POSIZIONAMENTO dell’organizzazione rispetto all’ambiente di riferimento (l’organizzazione
cerca il proprio ruolo e spazio d’azione). Il posizionamento strategico può avvenire all’inizio o dopo
(ri-posizionamento)
5. STRATEGIA COME PROSPETTIVA: (vision) → come l’organizzazione costruisce la sua identità (ad es. può
adottare strategie “aggressive”. “sostenibili”, “innovative”, “responsabili”,...). L’immagine che essa vuole proporre.
NB: una non esclude l’altra, e un’organizzazione può avere più di una strategia
Comunque, è importante che una strategia sia condivisa attraverso un flusso di azioni coerenti tra loro. Tale flusso
combina 3 dimensioni:
- intenzionalità (ciò che l’org. intende perseguire)
- le azioni e le decisioni (che danno forma alla strategia)
- gli aspetti comunicativi formali/informali (permettono la formulazione, condivisione, legittimazione,
stabilizzazione di una strategia)
Quali sono i fattori che portano collettivamente a reputare innovativa una strategia? Come fa un’innovazione strategica ad
essere accolta e riconosciuta non solo dall’organizzazione che la propone ma da una più ampia rete di attori sociali?
Le strategie che emergono come “innovative” tendono poi a essere imitate da altre organizzazioni dello stesso campo
organizzativo → soggette a pressioni isomorfiche (Powell, DiMaggio, 1991).
L’isomorfismo può essere il risultato di processi:
➔ coercitivi: pressioni legislative, attese culturali del contesto sociale, o imposizioni di organizzazioni che su di
essa esercitano potere
➔ mimetici: le organizzazioni tendono a modellarsi su organizzazioni simili, operanti nello stesso settore e che
reputano più legittime e più prospere
➔ normativi: pressioni derivanti da strutture educative e dalle reti professionali trasversali alle organizzazioni
Distinguere tra un’innovazione e un semplice allineamento a tendenze ambientali. Snow e Hambrick (1980) evidenziano
il carattere relativo di strategia → conviene allora valutare l’omogeneità/eterogeneità delle strategie adottate dalle
organizzazioni che operano in uno stesso ambiente
→ così è più facile verificare lo scostamento di una nuova strategia da quelle preesistenti (possiamo capire se è
una novità “new to the world” o un allineamento a altre che hanno già innovato).
● ambiente con molta omogeneità di fondo: più facile verificare l’effettiva innovatività di una strategia
● ambiente con eterogeneità: più difficile (ma le innovazioni sono più numerose e più frequenti vista la maggiore
predisposizione alla dinamicità)
NB: a volte le organizzazioni dipingono innovative delle strategie che non lo sono molto, ma l’innovatività è un’importante
fonte di legittimazione per un’organizzazione
(di per sé le organizzazioni preferiscono l’inerzia, quindi continuare a usare soluzioni vecchie per problemi nuovi)
Snow e Hambrick propongono 4 approcci che potrebbero dare un punto di vista più articolato:
a) un osservatore esterno (ricercatore) compie delle interviste, studia i documenti e altri dati
b) autovalutazione da parte del manager: deve spiegare perché la strategia è innovativa MA in rapporto a soluzioni
adottate da concorrenti e stakeholder, solo se vale per tutta l’organizzazione e ricompresa in un arco temporale
ampio
c) valutazione esterna da osservatori privilegiati (istituzioni, consulenti, esperti, concorrenti…)
d) verificare disponibilità e attendibilità di indicatori oggettivi
Questo permetterebbe di andare oltre la “patina retorica” che spesso ricopre le innovazioni delle strategie.
Pubbliche amministrazioni → originariamente modello della burocrazia di ispirazione weberiana. Poi new public
management (secondo cui la conformità alla norma non è più sufficiente per governare gli enti pubblici moderni):
- l’ambiente cambia velocemente: quel modello non si sapeva adattare abbastanza rapidamente
- le aspettative dei cittadini si diversificano: la standardizzazione dell’erogazione dei servizi non va bene
Quindi, riforme:
● aumento della discrezionalità dei dirigenti della PA (anche se sempre dentro la cornice normativa)
● introduzione di misure di valutazione delle performance organizzative
● controllo degli output (piuttosto che sulle procedure)
● decentralizzazione delle attività (destrutturare gli apparati grandi)
● introdurre/incrementare competitività tra gli enti pubblici (stimolo a miglior performance)
● adottare stili tipici delle organizzazioni private
● uso più parsimonioso e vincolato delle risorse pubbliche
→ le pubbliche amministrazioni sono state aziendalizzate (anche per l’influenza della diffusione delle teorie neoliberiste)
Logica d’azione organizzativa: concetto legato all’approccio istituzionalista, si lega all’idea di “logica istituzionale”, intesa
come assunto, convinzione, norma che consente all’individuo di dare un significato alla realtà. Nelle organizzazioni si
riconosce e condivide una determinata logica d’azione (rappresentazione “idealtipica”).
Più logiche istituzionali possono convivere in un’organizzazione (ibrida). Es. imprese sociali (da un lato operano
stabilmente nel mercato, dall’altro però rifiutano lo scopo lucrativo).
Potrebbero sembrare logiche in contrasto tra loro. Tali organizzazioni hanno come scopo ad esempio far fronte ad
esigenze che le imprese tradizionali non affrontano.
Conciliare diverse visioni all’interno di un’organizzazione è molto difficile (pressanti opere di calibratura e bilanciamento).
Anche in questo caso, l’innovazione strategica emerge in seguito a dinamiche di cambiamento socioeconomico di più
ampia portata (come appunto l’emersione di nuove esigenze)
Struttura sociale= distribuzione dei ruoli e dei compiti che ciascuna organizzazione assegna ai propri membri
Si fonda su 2 meccanismi:
1. principio di distribuzione dell’autorità (definizione di una linea di gerarchia)
2. principio di distribuzione di compiti e funzioni
Ci sono, oltre a questi meccanismi di differenziazione, dei meccanismi di “integrazione” che fanno convergere tutti verso
degli obiettivi comuni.
Sono stati riconosciuti diversi modelli di struttura sociale, ma in realtà sono più che altro delle ipotesi. Ogni
organizzazione ha una struttura fluida, informale, con rapporti tra le persone che vanno ben oltre le rappresentazioni
formali.
Generalmente rappresentata con → ORGANIGRAMMA (divisione delle funzioni in orizzontale, gerarchia in verticale) →
ma ignora: capacità, esperienza, competenze, anzianità, dialettica, rapporti…
NB: a volte esistono degli spazi di informalità, non riconosciuti ufficialmente, ma dove alcuni riescono ad avere più potere
di altri che secondo la struttura formale avrebbero più autorità (es. tecnici nella fabbrica di sigarette dello studio di
Crozier)
A partire dall’epoca della rivoluzione industriale (nb: originata sulla spinta di alcune invenzioni di macchine) → il criterio
della divisione del lavoro ha assunto sempre più valore (a partire da Adam Smith nel libro “la ricchezza delle nazioni”).
Portò a:
● aumento della produttività complessiva
● specializzazione
● figure di coordinamento tra le varie funzioni
● meccanizzazione di molte attività
NB: Smith non intendeva la divisione del lavoro solo a livello micro, ma anche meso (una più articolata configurazione
delle organizzazioni in subunità collettive, settori, aree di specializzazione) e macro (specializzazione delle
organizzazioni in base alle rispettive attività produttive).
Questo portò ad un aumento della complessità organizzativa → aumenta il personale, la necessità di massimizzare il
rendimento finanziario delle attività imprenditoriali.
Emergono quindi proposte teoriche di analisi e progettazione organizzativa sempre più consone a questo mutato
scenario.
→ Henri Fayol: scrive la sua “ricetta” per le attività dirigenziali (il management), e i “principi del management”, i criteri ai
quali il manager si deve attenere nello svolgere il loro lavoro (nb: questi ricadono sulle dinamiche di progettazione
delle strutture organizzative)
Es.: principio di divisione del lavoro, principio secondo cui un lavoratore deve avere un unico superiore, principio della
“unità di direzione” (stesso dirigente per obiettivi simili).
Fayol inoltre valorizzò l’uso dell’ORGANIGRAMMA:
- deve indicare chiaramente che ogni subunità organizzativa ha un superiore
- delineare con chiarezza l’autorità gerarchica
- permette di osservare se i conflitti tra i dipartimenti interni sono ben tracciati e definibili
- consente di verificare che la centralizzazione del potere sia bilanciata (tra esigenze di centralizzazione e
decentramento del comando)
- indicazione esplicita dei vice (se mancasse il superiore)
Studia anche il tema dell’ampiezza del controllo manageriale = il controllo manageriale è efficace fintanto che il numero
di subordinati è inferiore a una determinata soglia (tra 5 e 10 unità)
CRITICHE: eccessiva attenzione al funzionamento delle pratiche formali, vengono ignorate le pratiche informali che
svolgono un ruolo importante in un’organizzazione.
NB: proprio per rispondere alle mancanze di queste correnti nasce nello stesso periodo una “Scuola delle Relazioni
Umane” che pone al centro dell’attenzione proprio il lavoratore come essere umano e i suoi bisogni
Nuovo problema → conciliare gli equilibri tra i proprietari e i manager (nb: in passato queste due figure coincidevano,
poi distinte).
Questo processo inizia infatti a prendere forma a inizio Novecento → “rivoluzione manageriale”. Questo portò a
rimarcare ancora di più la divisione e la differenziazione dei ruoli e degli interessi.
Presupposti che alimentarono il percorso di separazione tra proprietà e controllo e l’innovazione delle strutture
organizzative sono:
1.La separazione tra potere politico e potere esecutivo nelle pubbliche amministrazioni
Prima della Rivoluzione Francese → la res publica era proprietà del monarca → affida l’amministrazione su base
fiduciaria. Questo sistema va in crisi:
- perché gli Stati si espandono territorialmente: crescente complessità di coordinamento
- per il malcontento popolare verso la classe degli intendenti amministrativi
Spinta verso Stati di diritto → in ambito amministrativo viene introdotta una logica di regolazione burocratica dei ruoli
lavorativi e dei rapporti tra potere politico e potere esecutivo → in uno scenario idealtipico non dovevano esserci
interferenze tra le due sfere.
Una struttura organizzativa gestita burocraticamente deve soddisfare dei criteri essenziali:
a) assenza di sovrapposizioni tra i ruoli degli uffici interni
b) assegnazione esclusiva di un compito a ciascun ufficio
c) chiarezza delle linee di trasmissione dell’autorità tra i vari uffici che si devono diramare prioritariamente lungo
delle traiettorie verticali dall’alto verso il basso
Al tempo era rivoluzionario → principio dell’uniformità dell’azione amministrativa nei confronti ora di tutti i cittadini. Questo
doveva garantire l’assenza di discrezionalità (NB: messa in discussione e confutata)
Nelle organizzazioni private → “riforma manageriale” = processo che portò molte aziende ad assumere delle figure
professionali che si sarebbero occupate della gestione delle attività imprenditoriali (MANAGER)
PERCHÉ? Perché le imprese si erano espanse molto e era cresciuta la loro complessità gestionale.
Questo risolse il problema della successione dinastica → non era detto che i discendenti fossero altrettanto capaci o
interessati → si assumono persone esterne, estranee alla famiglia.
Alfred Chandler (1993) sostiene che l’adozione di una o l’altra struttura organizzativa rispecchia la strategia di
un’impresa → quindi l’innovazione delle strutture organizzative è frutto di un mutamento di strategie.
Metà ‘800: chi aveva incarichi direttivi spesso aveva sia compiti di natura gestionale che compiti di natura tecnica →
questo è ok finchè l’azienda è piccola.
Questo trovò una formalizzazione nella “STRUTTURA FUNZIONALE” → basata sul criterio della ripartizione della
“funzione” a ciascuna subunità → questo modello risponde all’esigenza di focalizzare le attività di gruppi specifici membri
dell’organizzazione verso compiti distinti → evitare sovrapposizioni e ridondanze
Questo comportò un allargamento delle dimensioni dell’attività e del raggio d’azione di molte imprese. La divisione
funzionale cominciava a non essere più sufficiente per quella tale complessità.
→ si crea: modello di struttura formale articolato interamente su più divisioni operative, individuate sulla base di
alcuni criteri di suddivisione (es. tipologia di clientela, territorio di riferimento, linea produttiva,...).
● ognuna delle divisioni ha discreta autonomia organizzativa
● decentramento di autorità e responsabilità gestionali
● diviene una sommatoria di più strutture funzionali (le funzioni tipicamente dipartimentalizzate vengono
replicate all’interno di ciascuna divisione)
CRITICITA’:
★ difficoltà di coordinamento tra le varie divisioni (potrebbero agire come compartimenti stagni)
★ funzioni replicate e ridondanti (specie di natura amministrativa)
Inoltre il ritmo di miglioramento della potenza di calcolo dei computer è impressionante in poco tempo e il costo rimane
pressoché sempre lo stesso. La digitalizzazione dei dati permette l’uso combinatorio di dati eterogenei provenienti da
diverse fonti.
NB: questo spinge anche a convergenze tra settori diversi (es. automobilistico e tecnologie digitali per innovazioni nel
campo della mobilità come le self-driving cars).
“Industria 4.0” → ricorso sempre più pervasivo all’uso di informazioni digitalizzate nei processi lavorativi (facilitandone
l’automazione e la flessibilità).
Magone e Mazali (2016) riconoscono un insieme di tecnologie abilitanti, ossia che consentono di declinare in forma
sempre più digitale molte attività produttive:
- i dispositivi attraverso i quali si delinea la Internet of Things (infrastruttura comunicativa per l’interazione tra
oggetti diversi, oltre che tra persone)
- i big data, ossia le tecnologie che consentono la produzione, raccolta ed elaborazione di enormi volumi di dati
digitali (NB: conseguenze importanti: non serve più campionare perchè ho a disposizione molti più dati, non
servirà più arrivare a conclusioni che spiegano il fenomeno -causa-effetto- ma basterà osservarlo)
- l’addictive manufacturing (“stampa 3d”): manufatti anche complessi fatti con l’aggiunta di sequenziale di strati di
materiale. Vantaggi: riduzione degli scarti, con la stessa macchina si possono produrre manufatti diversi
(flessibilità e versatilità della produzione).
AUTOMAZIONE:
La parola “automazione” (automation) è una contrazione dell’espressione “automatic production” e indica i processi
lavorativi in cui il lavoro umano viene sostituito con macchine e tecnologie. Termine coniato nel ‘47 dal vicepresidente
della Ford.
Anche Marx aveva teorizzato il ruolo delle macchine e le conseguenze di questa sostituzione: il lavoro umano si sarebbe
limitato a alimentazione e manutenzione delle macchine. A partire dagli anni ‘70, due strade divergenti:
- alcune imprese seguono strategie di mass automation: rendere più efficienti i processi produttivi per la
produzione di beni di massa
- altre smart automation: automazione più flessibile, per poter produrre beni diversificati e/o più specializzati
Richard Normann (1984) presenta una forma idealtipica per spiegare cosa sono i servizi:
- hanno consistenza immateriale
- richiedono contatto diretto tra fornitore e beneficiario
- prevedono la partecipazione del beneficiario nella loro realizzazione (sono cose “su misura”)
- non accumulabili o immagazzinabili
NB: l’erogazione di un servizio in realtà presenta qualche forma di “materializzazione” oppure rappresentano un
passaggio complementare alla produzione di un bene materiale. I più vicini all’idealtipo sono i “servizi alla persona”.
QUINDI → un servizio “puro” non potrebbe essere protagonista di innovazione, ma i servizi legati a un prodotto
(prodotto-servizio) sì.
Innovazione → del prodotto che i servizi “accompagnano”, delle possibilità di uso di un prodotto, del risultato che esso
permette di conseguire…
Esempio: innovazione del servizio scolastico → introduzione delle piattaforme di e-learning a distanza ha reso obsoleta la
necessità della compresenza tra erogatore e destinatario e la contemporaneità di produzione-utilizzo. Il servizio in questa
prospettiva assume una dimensione materiale più consistente.
Esempio: può non cambiare il beneficio finale ma la modalità d’accesso, come con i servizi di streaming musicale (non
occorre più un dispositivo apposito). Anche qui cambia il livello di materialità (in questo caso diminuisce).
Prodotto: intendiamo in senso ampio l’output di un’attività lavorativa (quindi sia prodotto materiale che servizio, sia
servizi collegati come garanzie o assicurazioni).
Il fatto che un prodotto sia innovativo non significa che questo avrà sicuramente successo (ci sono molti esempi).
→ il successo di un prodotto non è il risultato della sua “supremazia tecnica” o del presunto grado di innovatività ma
viceversa il livello di innovatività va definito in base al grado di diffusione (teorici della SCOT Social Construction of
Technology)
→ questo perché la diffusione di un prodotto non dipende solo dalle sue caratteristiche tecniche, ma da un insieme di
fattori sociali (interazioni)
Attribuire carattere di “innovatività” ad un prodotto ha grande valenza simbolica (per la promozione e diffusione, per le
reputazione…). Le chiavi di lettura per misurare questo attributo sono molte.
→ l’innovatività si presenta come un passaggio che permette di identificare un “prima” e un “dopo” . Viene delineata
metaforicamente una frattura (come traccia di questa discontinuità). Questa si può analizzare da più punti di vista:
“localizzandone” il punto di rottura: l’innovatività può essere sul piano tecnologico, sul piano del marketing, sul
piano di esperienza d’uso per gli utenti, sul piano dell’organizzazione dei processi di produzione, sul piano
organizzativo. I punti di rottura possono essere anche molteplici.
analizzandone la portata:i prodotti possono essere dei breakthrough (“aprono un varco”) ma è raro (es. il primo
telefono cellulare) oppure dei me too products, cioè che ricalcano i tratti e le funzionalità di un’innovazione
precedente (portata molto minore). Può anche avvenire un “trasferimento di innovazione da un ambito ad un
altro.
valutandone l’ampiezza e il significato: Henderson e Clark (1990) studiano le diverse configurazioni e significati
che un prodotto innovativo può assumere. Per loro la dicotomia “radicale-incrementale” era riduttiva. Ampliano
dunque le categorie interpretative con due distinte chiavi di lettura:
● ampiezza della discontinuità che un’innovazione introduce sul piano della conoscenza di base necessaria
per lo sviluppo di un prodotto (conoscenza dei suoi componenti)
● ampiezza della discontinuità che porta sul piano dell’architettura complessiva di un prodotto (conoscenza
dell’integrazione dei suoi componenti)
1) innovazione incrementale: minimi cambiamenti sia sul piano dei componenti sia sul piano dell’architettura di un
prodotto
2) innovazione modulare: importanti cambiamenti nei componenti, minimi cambiamenti sull’architettura
3) innovazione radicale: innovazione che incide contemporaneamente sui componenti e sull’architettura
4) innovazione architetturale: cambiamenti che incidono molto sull’architettura del prodotto ma non sui suoi
componenti
NB: sostengono che le innovazioni architetturali sono vantaggiose per le imprese: si sfrutta il patrimonio di conoscenze
che si hanno già.
Lo schema qui presentato è importante perché introduce l’idea di una multidimensionalità nell’analisi dell’innovazione.
I prodotti innovativi non è scontato che abbiano successo, anzi, spesso hanno difficoltà.
Joseph Schumpeter (1939) → sostiene che gli innovatori hanno difficoltà per colpa dell’inerzia + resistenze da parte
delle possibili “vittime” (es. altri imprenditori) → l’imprenditore deve stimolare la genesi di una domanda per quel suo
prodotto.
Anche Stinchcombe sostiene che in qualunque contesto sociale, le organizzazioni tendono ad assumere caratteristiche
omogenee (delle “popolazioni organizzative”). Qui forme dissonanti sono difficili da introdurre. L’innovatore deve
sostenere l’onere della novità.
(nb: per questo i tassi di mortalità delle nuove organizzazioni sono alti).
Queste supposizioni teoriche sono poi state confermate da numerosi studi di carattere empirico (ricerche della Product
Development and Management Association PDMA). E’ stato dimostrato ad esempio che non basta un’idea sola per un
nuovo prodotto, ne servono di più che poi vengono scartate.
Un prodotto inoltre può avere successo immediato o a distanza di tempo.
Alcuni però (vd. Castellion e Markham) sostengono che i tassi di insuccesso in realtà siano così alti perchè nelle ricerche
della PDMA si misura il successo al momento della commercializzazione di un prodotto, mentre invece andrebbe
misurato prima, durante la sua “gestazione”, prima che venga messo sul mercato.
Misurando così i tassi di insuccesso sono effettivamente più bassi.
Inoltre → quando un prodotto viene commercializzato lo sviluppo non si ferma (può assumere nuove valenza d’uso,
nuove potenzialità, nuovi significati).
Everett Rogers (1962): pubblica un libro, Diffusion of Innovation → la diffusione di un’innovazione è un fenomeno che va
colto sulla base di 4 fattori:
1. l’innovazione in sé, ossia il prodotto/servizio che è oggetto di un fenomeno di diffusione
2. i canali di comunicazione che favoriscono la diffusione del prodotto
3. il tempo lungo il quale il processo di diffusione si dipana
4. il sistema sociale all’interno del quale si verifica la diffusione
Questi elementi concorrono a delineare l’esito della diffusione di un prodotto innovativo. Rogers mette a fuoco ognuno di
essi.
- vantaggio relativo: nb: concetto di “affordance” (diverse attività che un soggetto può svolgere con un artefatto) +
inquadra anche i diversi significati che i soggetti possono attribuire a un prodotto (nb: non è detto che ciò che
viene considerato beneficio da alcuni lo sia per tutti)
- compatibilità: rispetto a norme e valori di un contesto sociale, con pratiche e idee diffuse in precedenza, con
bisogni degli utilizzatori. NB: secondo Rogers più alto è il livello di coerenza, maggiore è la possibilità di successo
di un prodotto
- livello di complessità: che secondo Rogers non è una caratteristica intrinseca all’oggetto ma dipende dalle
percezioni esterne dei soggetti che ne fanno utilizzo.
- sperimentabilità: possibilità di provare il prodotto prima di acquistarlo effettivamente → avvicinare il possibile
acquirente al prodotto e al suo utilizzo
- osservabilità: se gli acquirenti possono percepire concretamente quali sono le migliorie e l’innovatività del
prodotto questo ne favorisce la diffusione
Gli utilizzatori (più o meno volontariamente) agiscono come “agenti del cambiamento”. Con la propria esperienza d’uso gli
adopter possono incidere sulle scelte di altri potenziali adopter.
→ il ruolo dei primi adopter è particolarmente importante per l’esito del processo di diffusione → “EFFETTO
CAROVANA”
→ imitazione come comportamento per ridurre l’incertezza nei confronti di quel nuovo prodotto innovativo
→ imitazione per allinearsi alle tendenze e alle mode ambientali (a prescindere da che vantaggi questa innovazione può
dare)
Sono studi con importanti implicazioni a livello di marketing (obiettivo strumentale) → capire a chi indirizzare il marketing
per far partire un prodotto innovativo sul mercato.
Anche in questo campo importante studioso è Everett Rogers il quale individua 3 questioni importanti per classificare i
diversi adopter:
★ la classificazione deve essere esaustiva (comprendere l’intera gamma di adopter)
★ deve dar luogo a delle categorie mutualmente esclusive (un individuo in una sola categoria)
★ categorie costruite seguendo un unico criterio di classificazione
(lui utilizza: tempestività nell’acquisizione di un’innovazione) → “innovativeness”
Sulla base di questo criterio di “innovativeness” egli individua 5 categorie (assunto: la diffusione avviene con una
distribuzione normale):
L’opera di Rogers ha avuto molto successo, soprattutto sul piano del marketing e della comunicazione pubblicitaria, ma
non è stata comunque esente da critiche.
LA VELOCITA’ DI DIFFUSIONE DEI PRODOTTI INNOVATIVI - obiezioni a Rogers sul piano metodologico
=il tempo necessario affinché il processo di diffusione di un prodotto raggiunga un determinato tasso
Però altri (come Hall, Ratcliff e Doshi) fanno degli studi sulla diffusione di alcuni prodotti, e notano che in realtà la
distribuzione non è una normale (ci sono stati alcuni prodotti, come ad esempio il televisore, la cui distribuzione è stata
molto più veloce)
QUINDI: la velocità di acquisizione non è una costante, ma varia in base a una molteplicità di fattori
I FATTORI AMBIENTALI NELLA DIFFUSIONE DEI PRODOTTI INNOVATIVI - critiche a Rogers sul piano teorico
Questi spunti derivano da studi di matrice neoistituzionalista= convinti che l’ambiente esterno eserciti qualche tipo di
pressione sulle scelte degli individui
I network products sono beni e servizi la cui diffusione segue traiettorie particolari. Sono beni che possono offrire benefici
e valore se connessi tra loro (es. telefono: assume un valore solo se usato da una collettività di utenti).
I beni stand-alone invece sono beni che possono dare un beneficio a chi li usa anche se solo, perchè hanno
caratteristiche intrinseche che danno valore.
Ci sono beni che possono essere contemporaneamente network products e stand-alone come ad esempio un computer:
sono uno o l’altro in base all’uso che se ne fa.
I network products traggono valore dall’ampiezza del network al quale fanno riferimento. Quindi il valore di un network
product è direttamente proporzionale all’ampiezza della rete di cui fa parte.
NB: network potrebbe anche essere in base alla capillarità dell’accesso al servizio (vd. bancomat → quanti più sportelli ci
sono tanto più l’accesso è rapido)
Si parla di “effetto rete” → insieme di benefici che derivano dalla possibilità di interagire con altri attori che utilizzano il
medesimo prodotto
● effetti diretti: benefici che si traggono dall’ampiezza del network (es. social networks danno la possibilità, data la
loro ampiezza, di trovare persone con stessi gusti, interessi,...)
● effetti indiretti: es. social network come porta d’accesso a altri servizi
Per un bene di rete sono importanti gli STANDARD (es.disposizione dei tasti sulla tastiera, formati di video…)
→ adesione ad uno standard: imprescindibile per far parte di una rete → garantisce compatibilità
→ alcuni si oppongono allo standard (iOS vs Android) → permettono l’accesso a differenti beni complementari
(le persone tendono a tenere lo stesso per inerzia, incertezza verso l’altro, non si vuole imparare)
Il compito dell’innovatore allora risulta più difficile se si parla di un bene di rete → elevata selezione degli attori in gioco →
situazioni di oligopolio (che è effettivamente una tendenza dominante).
NB: qui parlando di innovazione ci riferiamo a quella tecnologica, ma si ricordi che non è l’unica forma di innovazione che
esiste.
NB2: lo studio delle conseguenze dell’innovazione sull’occupazione non va inteso solo come logica di causalità →
dinamica di circolarità e compenetrazione tra le dinamiche
NB3: il rapporto tra innovazione e occupazione si può analizzare sotto diverse angolature:
1. relazione in termini quantitativi: variazione dei livelli di occupazione nelle circostanze di un rilevante processo
innovativo
2. relazione in termini qualitativi: quest’ottica si concentra sulle “traiettorie” dell’innovazione e come queste possono
colpire diversi tipi di occupazione o favorire la nascita di nuovi profili occupazionali
Alcuni processi di innovazione, più di altri, sono davvero uno spartiacque anche dal punto di vista occupazionale.
Dalla Rivoluzione Industriale → “luddismo” → ribellione da parte di operai inglesi convinti che le nuove macchine
avrebbero sostituito il loro lavoro → distruggono i macchinari (si rifanno alle azioni di Ned Ludd)
= un primordiale moto di dissenso verso l’innovazione.
Raffigura una tendenza che è rimasta, cioè quella di percepire l’innovazione come una minaccia all’occupazione, c’è un
sentimento di “ansia” verso l’innovazione tecnologica (Vickers, Ziebarth, 2015)
Il problema è che nel passaggio tra breve e medio/lungo periodo si rischia che si verifichino degli eventi che
compromettono le potenzialità di recupero dei livelli occupazionali che l’innovazione potrebbe offrire → esempio:
produzione agricola anni Venti USA → il surplus creato dalle migliorie tecnologiche non venne assorbito, il lavoro venne
quindi svalutato, causa di disoccupazione e svalutazione salari → crisi (anni ‘30)
NB: è difficile stabilire se la causa di un aumento/calo di occupazione sia direttamente l’innovazione o se sia dovuta a altri
fattori sociali che intervengono (es. deregolamentazione, globalizzazione…)
Le discipline economiche hanno giocato un grande ruolo in questo dibattito. Si sono affermate linee interpretative diverse,
“approccio neoclassico” o teorie “neoschumpeteriane”.
Teorie neoclassiche: considerano l’innovazione un fenomeno esogeno rispetto alla crescita economica promossa
dall’azione imprenditoriale → l’innovazione è un processo che prende forma al di fuori delle imprese (laboratori di
ricerca,...). Le imprese ne colgono solo i frutti.
All’inizio si perdono posti di lavoro, ma questi possono essere recuperati grazie ai meccanismi di equilibratura del
mercato (gli individui accettano di cambiare lavoro e averne uno a reddito minore pur di continuare ad avere un reddito)
Teorie neoschumpeteriane: l'innovazione matura come fenomeno endogeno alla competizione di mercato, le imprese
sono capaci di generare innovazione.
Secondo loro la disoccupazione che si crea in questo caso non è permanente ma comunque più difficile da riassorbire.
Ma per rispondere alla domanda iniziale è opportuno riprendere la distinzione fatta da Pianta, che distingue 3 livelli di
osservazione:
1. livello delle singole imprese: il più difficile da esaminare. Tendenzialmente le imprese più innovative sono
quelle che espandono più velocemente la produzione (però è difficile dire se questo avvenga a spese delle
imprese non innovative)
2. livello settoriale: Paul Sylos Labini (1989): se l’innovazione si traduce in “risparmio di lavoro” la produttività
aumenta tanto che il numero di lavoratori in quel settore diventa ridondante. Cercare di verificare se l’aumento di
produttività provoca un calo di occupazione. Se l’innovazione non è di un processo ma di un prodotto, cercare di
capire se quel prodotto ha generato mutamenti dei livelli occupazionali (ma così si rischia di tornare al livello
singolo)
3. livello macroeconomico: ampliare anche il lasso di tempo che si analizza (i cambiamenti macro avvengono nel
lungo periodo). Dal 1870 si è passati da un equilibrio malthusiano, a uno scenario post-malthusiano, fino a un
regime moderno di crescita
● malthusiano: la crescita demografica era ferma così come gli avanzamenti tecnologici → poco aumento
della produttività individuale
● post-malthusiano: la popolazione inizia ad aumentare, così come le innovazioni. La crescita
demografica riesce a coprire la ridondanza di manodopera che l’aumento di produttività genera (questo
perché cresce la domanda)
● regime moderno di crescita (Galor, Weil): dagli anni 30 del Novecento (paesi occidentali). La
produttività individuale aumenta di continuo mentre i tassi di crescita demografica rimangono stabili. (nb:
è viceversa nei Paesi in via di sviluppo). Quindi l’equilibrio post-malthusiano non regge. E’ importante
allora l’effetto di altri provvedimenti (ad es. la riduzione dell’orario di lavoro → si dà la possibilità a più
persone di lavorare): Provvedimenti da parte di istituzioni, forze sindacali, imprese.
Nonostante l’ansia per gli effetti dell’innovazione sull’occupazione sia rimasta costante, l’evoluzione del rapporto tra le
due risulta essere mutevole nel tempo.
● nell’800 le tecnologie hanno avuto un ruolo di sostituzione del lavoro umano, mentre nel ‘900 hanno svolto un
ruolo complementare
● effetto di selezione: dei lavoratori (l’innovazione colpisce principalmente i lavoratori meno qualificati)
Queste dimensioni prefigurano delle polarizzazioni, che si possono “misurare” lungo due assi:
1) la variazione quantitativa della domanda di lavoro (numero di lavoratori che si trovano agli estremi dei continuum
come lavoratori qualificati-lavoratori non qualificati, lavoratori di routine.lavoratori di non routine
2) la variazione relativa delle retribuzioni medie delle diverse categorie di lavoratori (lavoratori qualificati, lavoratori
non qualificati, lavoratori di routine…)
Da qui si può trarre un bilancio degli effetti dell’innovazione sull’occupazione (in occidente):
le figure professionali che più ne hanno beneficiato sono quelle impegnate in attività di non-routine e con un profilo di alto
livello sul piano educativo. Sono stati penalizzati i lavoratori di routine con bassi livelli di istruzione.
NB: questo svantaggio è stato mitigato (soprattutto in Europa) dall’azione istituzionale di sindacati e lo Stato → hanno
regolamentato il mercato del lavoro e attenuato la polarizzazione salariale
Sono stati ideati “meccanismi di compensazione” istituzionali e imprenditoriali per riportare equilibrio tra domanda e
offerta di lavoro. Secondo Vivarelli i meccanismi di compensazione che si possono rintracciare in letteratura sono 6:
1.Idea che se si producono nuovi macchinari, la produzione di questi stessi macchinari possa occupare quei lavori che
per colpa dei macchinari risultano di troppo MA non è detto che tutte possano essere rioccupate e non è detto che tutte
possano avere le competenze per farlo, non è detto inoltre che siano disposti a trasferirsi (se la produzione avviene via)
2.Ipotesi di riduzione dei prezzi: dovuta alle migliorie di produzione portate dall’innovazione, farebbe crescere la
domanda di quel prodotto facendo anche ricrescere la necessità di manodopera MA davvero riescono a ridurre il prezzo?
3.Crescita degli investimenti: grazie ai maggiori profitti di cui dispongono gli imprenditori che reinvestono in nuove
attività MA non è detto che abbiano le competenze per il nuovo lavoro, inoltre non è detto che l’imprenditore voglia
investire (e non sperperare) i suoi aumentati profitti.
4.Riduzione dei salari: come possibile soluzione di riequilibrio (vd. dibattito tra neoclassici e neoschumpeteriani)
5.Quelli che aumentano il proprio reddito (proprietari e chi mantiene il posto di lavoro) hanno più propensione a
spendere e quindi aumenta la domanda e questa aumenta la domanda di lavoro MA non è detto l’innovazione porti a
migliori condizioni per molte persone e non è detto che comunque queste sviluppino una maggiore propensione al
consumo
6.L’innovazione può portare alla creazione di nuovi prodotti: ciò alimenta la domanda di forza lavoro MA non è detto
abbiano le competenze, inoltre spesso un nuovo prodotto “sostituisce” il precedente, non si espande la gamma di prodotti
disponibili (vd. declino di Kodak a confronto del successo di Instagram, che occupa molte meno persone perchè è molto
più digitalizzata)
Questa ansia secondo alcuni è esagerata (e lo dimostrerebbe anche la storia), come dice Autor (2015) che ha cercato di
relativizzare quest’ansia.
Secondo altri autori invece hanno rimarcato le potenzialità delle attuali tecnologie rispetto al passato → possibile
profonda rivoluzione dei ruoli di responsabilità tra attori umani e non umani.
Intelligenza artificiale: cioè dotare alcune tecnologie di capacità di sviluppare ragionamento induttivo e elaborare
autonomamente delle decisioni → potrebbe essere un ulteriore passo avanti.
Comunque, per quanto riguarda l’occupazione, con il passaggio al nuovo millennio abbiamo identificato diverse tendenze:
➢ polarizzazione delle opportunità occupazionali tra lavoratori molto qualificati e poco qualificati
➢ aumento occupazione per lavori non di routine
➢ i lavoratori molto qualificati hanno migliorato la loro condizione, perché la tecnologia non ha sostituito il loro
lavoro, bensì lo ha perfezionato
➢ discrepanze perché: le credenziali di accesso a posizioni più qualificate sono sempre di più (formazione,
esperienza), quelle per posizioni qualificate invece sono poche → si allarga l’offerta di lavoro
➢ quindi: molto qualificate aumento salario, poco qualificate calo salario
Si ricordi però che tutti questi mutamenti sono avvenuti in un’epoca di grandi cambiamenti internazionali con la
globalizzazione, che avrebbe incrementato ulteriormente queste disuguaglianze dal punto di vista di occupazione e
salario → soprattutto nei paesi che sono diventati più importatori (Moore, Ranjan)
Sono inoltre aumentate le attività di esternalizzazione delle imprese (per avere prodotti e manodopera a prezzi più bassi),
causando una competizione al ribasso dei costi di produzione.
→ nel breve periodo i livelli di occupazione dei paesi originari calano
→ nel lungo periodo si riequilibrano?
Controverso, la globalizzazione continua ad essere fonte di incertezza e timore per quanto riguarda i suoi effetti
sull’occupazione