Sei sulla pagina 1di 39

PSICOLOGIA DEL LAVORO E

DELLE ORGANIZZAZIONI

Martina Madaffari
LEZIONI VIOTTI

LA CULTURA ORGANIZZATIVA
Si trovano tracce del tema della cultura organizzativa già prima degli anni 60, Selznick nei suoi
studi (a partire dalla ricerca presso l’Ente autonomo per la ricostruzione della vallata del
Tennessee negli USA) evidenzia la duplice dimensione dei sistemi cooperativi:
• organizzativa = l’organizzazione è vista come uno strumento concepito razionalmente per
raggiungere degli obiettivi;
• istituzionale = l’organizzazione è vista come una realtà naturale e adattiva, prodotto delle
esigenze e dei bisogni degli individui e delle pressioni sociali. L’organizzazione diventa
un’istituzione quando si «impregna» di valori:
L’istituzionalizzazione è un processo. È qualcosa che avviene a un’organizzazione attraverso il
tempo, rispecchiante la particolare storia dell’organizzazione, le persone che ne fanno parte, i
gruppi che essa incorpora e gli interessi costituiti che questi ultimi hanno creato, nonché il modo in
cui ha saputo adattarsi al suo ambiente […]. […] istituzionalizzazione significa infondere valori al di
là delle esigenze tecniche del compito immediato (Selznick, 1957)
Secondo Bion (1961):
 Gli individui sperimentano due tipi di attività, una cosciente/razionale, l’altra inconscia e
pulsionale;
 La cultura di gruppo si riferisce a stati mentali condivisi a livello di gruppo, che funzionano
come sistemi di attribuzione di senso e significato rispetto dell’esperienza.
 Cultura dell’assunto di base (evitamento del compito): Dipendenza, accoppiamento e
attacco/fuga.
 Cultura del gruppo di lavoro: centratura sul compito.

L’approccio culturale [o approccio «simbolico-interpretativo secondo Hatch (2006)] per lo studio


delle organizzazioni (cioè lo studio della cultura organizzativa o dell’organizzazione come cultura)
nasce tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.
La pubblicazione nel 1979 dello special issue di Administrative Science Quarterly dedicato ai
metodi qualitativi nella ricerca organizzativa segna i primi confini di questo approccio.

AFFERMAZIONE DELL’APPROCCIO CULTURALE ALLO STUDIO DELLE ORGANIZZAZIONI


LE MOTIVAZIONI:
 Contrasto alla prospettiva razionalista che tendeva a enfatizzare gli aspetti prettamente
«oggettivi» e «strutturali» (hard) come meritevoli di attenzione in relazione al
funzionamento della «macchina organizzativa», e tendeva a s(otto)valutare gli aspetti
soggettivi legati agli aspetti legati alle relazioni e ai sistemi di significati.
 Contrasto alla prospettiva (neo)positivista sul piano paradigmatico, nelle scienze sociali,
focalizzata sulla ricerca delle leggi generali in luogo di una prospettiva costruttivista,
interessata a comprendere le specificità locali del fenomeno organizzativo.
 Sul piano metodologico, affermazione delle metodiche di ricerca qualitative, accanto alle
quantitative nelle scienze sociali.
 Ascesa e successo di modelli organizzativi sviluppati nell’ambito di matrici culturali
differenti rispetto a quella Occidentale (USA vs. Giappone Cina …).
 La cultura come variabile interveniente (=le organizzazioni possiedono una cultura)
 La cultura come «metafora di base», cornice di significati sulla base del quale dare senso a
ciò che accade nelle organizzazioni (=le organizzazioni sono culture)
COSA È LA CULTURA ORGANIZZATIVA?
In termini generali, l’approccio culturale vede le organizzazioni come forme espressive, cioè insiemi
di significati condivisi e socialmente costruiti, all’interno dei quali sistemi strutturati di simboli
condizionano: comportamenti, pensieri, azioni ed emozioni dei soggetti all’interno del contesto
organizzativo.
La cultura genera:
• modelli cognitivi che permettono la categorizzazione e l’interpretazione di ciò che accade
in un’organizzazione (ma anche al di fuori di essa);
• modelli emotivi e affettivi che condizionano l’impegno, l’energia e il senso di
appartenenza;
• la distinzione «tra chi è dentro» e «chi è fuori» (dinamiche ingroup/outgroup).

La cultura organizzativa non ha carattere «cristallizzato», si configura come un processo dinamico


di continua costruzione, ricostruzione e decostruzione di significati, processo realizzato attraverso
decisioni e azioni individuali e collettive definite sulla base di un continuo scambio intersoggettivo
tra gli attori. (Piccardo, Benozzo, 1996).

Uno dei contributi più importanti sulla cultura organizzativa è fornito da Edgar Schein (1983, 1984,
1985) che definisce la cultura organizzativa come: “un insieme di significati che racchiudono
assunti, valori, credenze che un gruppo utilizza per affrontare situazioni problematiche di
adattamento all’ambiente esterno e di integrazione interna.”
I valori, gli assunti e le credenze trovano espressione nei comportamenti, nel linguaggio verbale e
negli artefatti materiali presenti in organizzazione.
Secondo Schein, si può parlare di cultura solo quando questi sistemi di significati sono ritenuti
«validi» e cioè come “il modo corretto e giusto” di pensare e agire di fronte alle situazioni. Se sono
ritenuti validi, questi significati saranno anche trasmessi ai nuovi membri entrati in organizzazione,
e rappresenteranno una sorta di ancoraggio, un punto di appoggio a partire dal quale è possibile
prefigurare l’azione (Piccardo, 1992).

UNA CHIAVE DI LETTURA DELLE RESISTENZE AL CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO: IL RUOLO


DELLA CULTURA
Secondo alcuni ricercatori, tra cui Van Maanen e Barley (1984) e Martin (1992), all’interno della
medesima organizzazione possono convivere più culture, e quindi sottoculture, che si
costituiscono in base alla presenza di orientamenti comuni tra i membri.
Le sottoculture si formano perché le persone che condividono alcune caratteristiche (es. età,
modo di percepire la realtà, attività o ruolo lavorativo, sesso, orientamento sessuale etc.) tendono
o a lavorare a stretto contatto o a frequentarsi in ambito lavorativo o extra-lavorativo.
Nello specifico, Martin (1992) distingue tra:
 corporate culture = cultura generale o dominante del vertice aziendale;
 sottoculture di sostegno = culture a sostegno della corporate culture;
 controculture = culture che si contrappone alla cultura dominante e traggono origine dalla
diversa distribuzione del potere e degli interessi in gioco;
 sottoculture ortogonali = culture che convivono con la cultura generale.

LE CATEGORIE ANALITICHE (Trice e Beyer, 1984)


Credenze (logos) Codici attinenti alla sfera cognitiva e inerente a ciò che è vero e ciò che
è falso
Valori (ethos) Giudizi di preferibilità con valenza deontologica (cosa è giusto e cosa è
sbagliato)
Esperienza percettiva Modo di percepire e “sentire” la realtà attraverso tutti i sensi. Si include
(pathos) anche ciò che è “bello” e ciò che è “brutto”
Dinamiche di potere (polis) Concezione e modalità di esercizio del potere, a cui si legano i
meccanismi di ingroup e outgroup
Competenze e Sapere cosa e come fare e cosa non fare all’interno dell’organizzazione
apprendimento (methodos)

LE ESPRESSIONI SIMBOLICHE (come forme astratte o tangibili, costrutti linguistici che


esprimono ambiguamente una molteplicità di significati in organizzazione (Cohen, 1974)
Linguaggio Condiziona i processi d’azione, la percezione e il pensiero
Miti Narrazioni in forma drammatizzata di vicende passate o più o meno
reali che legittimano azioni e pensieri
Storie Collezioni di aneddoti ed episodi che caratterizzano la quotidianità della
vita organizzativa
Saghe (miti+storie) Racconti o vicende spesso straordinarie legate alla nascita, allo sviluppo
e all’evoluzione dell’organizzazione. Non è un semplice racconto perché
presenta una forte connotazione evocativa ed affettiva
Riti e cerimonie (insieme di Attività che necessitano di una progettazione ed elaborazione formale
riti) (riti di passaggio, riti di degradazione etc.)
Artefatti Prodotti tangibili, concreti e palpabili della vita organizzativa (forma
dell’edificio, decorazioni, fotografie etc.)
FARE RISCERCA IN TEMA DI CULTURA ORGANIZZATIVA
Dal punto di vista teorico e metodologico, la prospettiva culturale si colloca al crocevia di tre di
discipline: psicologia, sociologia e antropologia.
La cultura come rete di significati intessuti e condivisi dai soggetti implica una visione
costruttivista della realtà. Il mondo organizzativo è così costruito in virtù delle interpretazioni
condivise che dagli attori attribuiscono alle loro esperienze comuni. La realtà è quindi costruita e
per questo non oggettivamente misurabile.
Dal punto di vista della metodologia della ricerca empirica, l’analisi delle culture organizzative può
essere svolta con una metodologia etnografica che permette di descrivere i significati attribuiti
dagli attori alla vita organizzativa (Piccardo e Benozzo, 1996; Bruni, 2003).

L’etnografia si basa su un metodo qualitativo con riferimento, in particolare, alla sociologia e


antropologia.
Gli strumenti che caratterizzano l’etnografia organizzativa sono:
 l’analisi dei documenti scritti
 l’osservazione partecipante
 l’intervista etnografia
La comprensione della cultura organizzativa avviene attraverso il punto di vista dei «nativi»,
entrando nella loro pelle, guardando con i loro occhi al fine di cogliere la realtà locale e cogliere
l’insieme di significati che costituiscono la cultura stessa.

 Preferenza per l’uso delle parole (più che per i numeri)


 Osservazione delle persone nel loro territorio (quindi osservazione «sul campo»)
 Cogliere il punto di vista dei «nativi»
 Descrizione dei dettagli del setting, dei comportamenti e del linguaggio, ovvero del campo
simbolico
 Preferenza per un disegno di ricerca non strutturato ma aperto e libero in funzione della
mutevolezza del contesto
 Rinunciare alle proprie idee preconcette e non dare nulla per scontato
 Generare ipotesi di tipo induttivo
 Favorire la descrizione del fenomeno ancora prima di interpretarlo

L’APPROCCIO PSICODINAMICO NELLA LETTURA DELLE DINAMICHE INDIVIDUALI E


SOCIALI ALL’INTERNO DELL’ORGANIZZAZIONE
IL RUOLO DEI SENTIMENTI E DELLE EMOZIONI IN ORGANIZZAZIONI

L’approccio psicodinamico, con focus sulle emozioni e sentimenti nelle organizzazioni, arriva negli
anni ’30 e parte dalla critica al modello di matrice tayloristica-fordista (la metafora più evocata è
quella dell’organizzazione come «macchina», che privilegiava una prospettiva ingegneristica,
legata all’organizzazione scientifica del lavoro, cercando di minimizzare i rischi legati
all’incertezza), secondo cui un comportamento organizzativo efficiente è il risultato di una
progettazione strutturale basata su criteri razionali volti a minimizzare i costi necessari per
raggiungere gli obiettivi.
L’approccio tayloristico prevede che lo studioso dell’organizzazione (tipicamente un ingegnere)
essendo guidato dall’obiettivo di progettare «strutture razionali», trascuri sentimenti ed emozioni
perché ininfluenti o peggio, potenziali elementi di interferenza con l’efficienza organizzativa.

Primi studi che mettono in evidenza i limiti di questo approccio ingegneristico sono gli studi di
Elton Mayo (psicologo sociale, considerato il padre della psicologia del lavoro e delle
organizzazioni) alla Western Electric di Chicago che evidenziano come tutta una serie di aspetti,
estranei alla progettazione del lavoro, influenzino la performance degli operai.
Questi aspetti si ritrovano nelle relazioni tra operai, con i ricercatori che stanno conducendo lo
studio, nei sentimenti e nelle emozioni che gli operai provano (il cosiddetto effetto Hawthorne=
l’effetto dell’interesse nei confronti degli operai).
Questo è considerato il primo vero studio che segna l’inizio della psicologia delle organizzazioni e
del lavoro, e apre la strada agli studi su quanto sia importante la sfera soggettiva nel lavoro.

L’APPROCCIO PSICODINAMICO APPLICATO ALLE ORGANIZZAZIONI


 Cerca di dare conto degli aspetti «più irrazionali» del comportamento organizzativo
focalizzandosi sulle emozioni.
 Si focalizza in particolar modo sulle emozioni negative (gli aspetti ansiogeni) e cerca di
comprendere in che modo esse possano contribuire al cattivo funzionamento
dell’organizzazione a vari livelli.
 Postula l’esistenza di una dimensione inconscia = l’interpretazione di certi fatti, processi,
comportamenti richiede di assumere l’esistenza di qualcosa che non è direttamente
osservabile, è il postulato fondamentale per aderire all’approccio psicodinamico.
 L’approccio psicodinamico è complementare all’approccio culturale.
Spesso viene usata la metafora dell’iceberg = l’iceberg rappresenta l’organizzazione, la parte
che vediamo in superficie rappresenta tutti gli aspetti culturali (credenze, valori, significati
attribuiti all’esperienza), mentre nella parte non osservabile tutto ciò che si può indagare con
l’approccio psicodinamico; sono entrambe le parti interrelate.
Dobbiamo riuscire ad usare un approccio olistico tenendo conto degli aspetti teorici di
entrambi gli approcci in modo da avere una più profonda indagine e analisi dell’organizzazione
che abbiamo davanti.

IL TAVISTOCK INSTITUTE E IL TIHR


È un ospedale diurno e centro di formazione che nasce nel corso della Prima guerra mondiale con
interazioni tra psichiatra e psicologia dinamica, lavorava in parallelo con l’esercito.
Negli anni ‘40 -’45 la Tavistock Clinic si occupa per conto del Governo di selezione del personale
militare, riabilitazione sociale dei reduci, trattamento delle nevrosi di guerra, attraverso interventi
individuali e di gruppo; vengono messi appunti metodi su sintomatologie molto importanti (Bion, i
gruppi terapeutici di guarigione per traumi).
Finita la guerra, c’è la ricostruzione sociale e la dimensione sociale rinasce e pian piano il Tavistock
inizia a ricevere dalla comunità una serie di richieste di terapie che non riguardano più solo i
gruppi ma anche l’individuale e le organizzazioni (scuole, comuni, istituzioni), e sempre più le
aziende, riprendendo in mano l’economia e i capitali, si interessano a questo tipo di approccio da
applicare alla vita organizzativa e lavorativa.
Nel 1946 viene fondato il Tavistock Institute of Human Relations (TIHR, ed è assorbito dal SSN
Inglese) in risposta a “domande sociali massicce” dalla community: ricerche-azioni che avviano
consulenze terapeutiche prendendo in carico domande sia individuali sia sociali.
Si inizia a riflettere sul fatto che se sull’individuo ha senso usare un approccio psicodinamico, allora
per le organizzazioni si cerca di integrare più teoriche della psicologia sia sociale che clinica.
Le teorie che si iniziano a sviluppare nell’ambito delle relazioni sono teorie che cercando di
catturare il fenomeno organizzativo nella sua complessità e integrità.
La più importante è quella proposta da Eric Trist: TEORIA DEL SISTEMA SOCIOTECNICO
Il focus di attenzione è:
• sulla relazione dei soggetti con l’organizzazione e con il lavoro
• sulla specificità dell’ambiente socio-economico e culturale nel quale tale relazione si
colloca e si dispiega.
L'approccio socio-tecnico identifica due principali componenti del sistema organizzativo:
 il sottosistema tecnico, costituito non solo dalla tecnologia in senso stretto, ma anche dalle
altre risorse materiali e da tutte le prescrizioni, esplicite o tacite, connesse al funzionamento
del sistema stesso (procedure, regole, sanzioni, ecc.)
 il sottosistema sociale che riguarda le modalità d'interazioni tra le persone, gli schemi
cognitivi utilizzati per dar senso e affrontare i problemi emergenti, gli automatismi, i valori di
riferimento adottati: in altre parole, l'insieme delle condizioni sociali di funzionamento del
sistema.
A questa prospettiva teorica viene integrato il concetto di inconscio: le istituzioni e le
organizzazioni sono dotati non solo di strutture e funzioni direttamente osservabili, ma anche di
una vita inconscia paragonabile a quella descritta dalla psicoanalisi nell’individuo; perseguono
pertanto compiti inconsci oltre a quelli consci e questi influiscono sia sulla loro efficienza, sia sul
grado di stress vissuto dal personale. (Obholzer e Roberts 1994)
Quello che fa l’approccio psicodinamico applicato alle organizzazioni è quindi postulare un
parallelismo tra funzionamento dell’individuo e funzionamento delle organizzazioni, entrambi
hanno dietro i propri processi visibili e osservabili una seria di aspetti e funzionamenti che possono
essere spiegati solo facendo riferimento al concetto di inconscio organizzativo.
Per comprendere come funziona l’inconscio gli studiosi all’interno del TIHR iniziano a studiare tutti
quei concetti già disponibili in psicologia clinica e testarli nei processi organizzativi.
Oltre all’inconscio, essi indagano molto il processo dei meccanismi di difesa:
FREUD
I meccanismi di difesa si riferiscono a processi psicologici, che avvengono in modo automatico,
involontario, o inconscio, mediante le quali l’essere umano tenta di escludere dalla
consapevolezza impulsi, pensieri ed emozioni inaccettabili. Questi processi hanno lo scopo di
sollevare dalle ansie che possono sorgere (per es. legate al tentativo di contenere emozioni in
conflitto tra loro). Sono meccanismi di per sé adattivi ( e ci permettono la sopravvivenza) ma
possono anche rappresentare modalità patologiche.
KLEIN
I vissuti e le fantasie connessi alle prime esperienze oggettuali (di relazione con il mondo e con gli
oggetti esterni) si riproducono nel rapporto adulto con oggetti diversi ma con significati analoghi
(proiezione e introiezione) = la teoria delle relazioni oggettuali (seno buono e seno cattivo).
BION
L’individuo, in un gruppo, ritorna regressivamente a meccanismi mentali primitivi attraverso i quali
perde la sua individualità.
Schemi mentali collettivi riconducibili a tre situazioni: assunto di base di: dipendenza;
accoppiamento; attacco e fuga.

ORGANIZZAZIONE E LE DIFESE CONTRO LE ANSIE


Come gli individui, anche le organizzazioni sviluppano difese contro emozioni difficili che sono
troppo minacciose o troppo dolorose per essere riconosciute. Queste emozioni possono essere
una risposta a minacce esterne così come in reazione ad aspetti del compito da perseguire o a
conflitti che si ingenerano tra gruppi.
Alcune difese organizzative sono salutari e possono aiutare a far fronte allo stress, ma altre,
proprio come accade per l’individuo, possono ostacolare il contatto con la realtà e in questo
modo danneggiare o bloccare l’organizzazione nel raggiungimento dei suoi obiettivi e
nell’adattarsi alle circostanze che cambiano.
Quindi l’idea è di usare il sapere legato alla psicologia dinamica per capire come lavorare
nell’intervento delle aziende, si studiano le relazioni interne in un’azienda al fine di identificare i
modi per migliorare la collaborazione tra tutti i livelli del personale e aiutare l’azienda a
implementarli: Eliott Jaques (1917-2003) e Glacier Metal Company (1948); Jaques mentre attua i
percorsi di psicoanalissi con i gruppi di lavoratori inizia a mettere a punto una teoria specifica
referita alle organizzazioni: “i sistemi sociali sul luogo di lavoro funzionano per difendere i
lavoratori dalle ansie inconsce inerenti il lavoro stess (in certe condizioni le organizzazioni
diventano un paradosso). Grazie a questa capacità possono essere (anche se rigidi e “scomodi”),
resistenti al cambiamento.”
Il nucleo del contributo della prospettiva psicodinamica alla lettura del fenomeno organizzativo
mette al centro il concetto di compito primario:
“La vita organizzativa è percorsa da ansietà, inerenti sia la dimensione operativa, cioè le azioni e le
decisioni che consentono (o dovrebbero consentire) di raggiungere gli obiettivi connessi al compito
primario, sia la dimensione relazionale, cioè l’intreccio di percezioni, sentimenti ed emozioni che
scaturiscono dalla collaborazione, dal confronto tra gli individui, dal loro lavorare insieme in vista
di questi obiettivi. Al fine di evitare, annullare, ridurre, contenere o mascherare queste ansietà essi
ricorrono a molteplici meccanismi di difesa che, pur originando dalla storia di ciascuno, vengono di
fatto ad assumere un carattere condiviso e socializzato”. [Quaglino, 1996, Psicodinamica della Vita
Organizzativa]

IL CONCETTO DI COMPITO PRIMARIO


Misurarsi con un compito complesso genera ansia perché richiede di tollerare la complessità del
compito e di tollerare l’ansia; il compito primario:
 definisce il traguardo e le finalità a un tempo strategica e operativa dell’organizzazione.
 dalla sua realizzazione dipende la sopravvivenza dell’organizzazione nell’ambiente esterno.
 è di per sé ansiogeno perché chiama gli individui, i gruppi e le organizzazioni a mettersi a
confronto con la capacità di tollerare la complessità e l’ansia associata al confronto con ciò
che non si conosce (es. l’ambiente esterno/l’altro da cui la domanda deriva) e alla necessità
di esercitare discrezionalità.
Tre accezioni di compito primario date da
 Normativo: detto anche formale/intuitivo, rende operativi gli ampi scopi
dell’organizzazione ed è di solito definito dagli azionisti [per la PA la definizione è al
livello legislativo] “che cosa diciamo di fare”.
 Esistenziale: ciò che le persone in una organizzazione pensano di seguire, il significato e
l’interpretazione che essi danno del loro ruolo e delle loro attività: “che cosa pensiamo
di fare”.
 Fenomenologico: è quello che può essere dedotto dal comportamento delle persone e
del quale possono non essere consapevoli: “che cosa facciamo davvero”.

• LE PECULIARITA’ DEL COMPITO PRIMARIO NELLE ORGANIZZAZIONI DI SERVIZI ALLA PERSONA


Tendenzialmente la pratica che mette al centro l’aspetto ansioso del compito primario ed esami le
dinamiche connesse a questo aspetto per comprendere le cause del cambiamento del contesto
organizzativo si focalizza più su organizzazioni che erogano servizi alla persona, partendo dal
presupposto che è più in quei contesti che il compito primario diventa più rischioso per
l’organizzazione in sé (rispetto che alle organizzazioni che producono beni tangibili).
Nei servizi alla persona, a differenza dalle aziende che erogano beni materiali, il compito primario
è di difficile definizione.
In questi contesti, è quasi sempre definito come l’esito della “trasformazione” o conversione a cui
il soggetto preso in carico è andato incontro durante il percorso effettuato. Quindi per definire il
compito primario di una organizzazione di servizi alla persona è innanzitutto necessario
considerare qual è lo stato diverso che si intende o che si desidera e poi come il sistema propone
di determinarlo.
Esito incerto/condizioni contestuali rilevanti/il successo non è solo legato alle abilità
dell’operatore/difficoltà e rischi legati alla identificazione di uno stato ideale (il ritorno alla
normalità: ma qual è la normalità? /la guarigione completa? Oppure il miglioramento della qualità
della vita?)

Infatti, tanto più Il compito primario di una organizzazione incardina aspetti di “vitale”
importanza per il genere umano [Obholzer & Zavier Roberts, 1996], tanto più le ansie associate
favoriscono il nascere di rilevanti discrasie tra i livelli descritti da Lawrence.

Esempio da manuale è il contesto ospedaliero: il primario delle istituzioni sanitarie incardina


aspetti di “vitale” importanza per il genere umano, le ansie associate favoriscono il nascere di
rilevanti discrasie tra i livelli descritti da Lawrence: normativo/esistenziale: cura, assistenza,
ricerca, formazione ….
Fenomenico: tenere sotto controllo la morte, fornire ai membri della società l’illusione che la
morte possa essere evitata.
 Rischi: Eccessivo sbilanciamento sulla cura piuttosto che sull’assistenza e sottovalutazione in
termini di investimenti, sviluppo di competenze e di servizi/ poca attenzione a una dimensione
assistenziale volta al sostegno della qualità della vita [in presenza o meno di patologie] e
focalizzazione di sistemi volti alla [e alla ricerca della] cura …

• CATTIVE DEFINIZIONI DI COMPITO PRIMARIO


Le ansie esistenti a livello di società, comunità, organizzazioni, gruppi e individui [etc …] di fronte ai
problemi a cui le organizzazioni di servizi alla persona devono rispondere possono generare cattive
definizioni del compito primario e precludere/ridurre “a priori” l’efficacia di quelle stesse
organizzazioni, quindi non rispondere al compito in modo adeguato.
Le più comuni sono:
• Definire obiettivi irrealistici (il mito della guarigione. Es. negazione/minimizzazione del
rischio di recidiva sui tumori mammari genera mancanza di informazione, supporto
psicologico alle pazienti al primo episodio= la recidiva può rappresentare un trauma)
• Definire il compito in modo vago (una associazione non profit che ad es. identifica il target
[le donne vittime di violenza] ma non in termini stringenti il tipo di servizio che si intende
erogare, ossia quale aspetto del soggetto multiproblematico prendere in carico [sostegno
emotivo, economico, sostenere nel percorso di recisione dei legami con il partner, aiutarle
a raggiungere uno stato di indipendenza …?]
• Reificazione degli obiettivi (il sistema universitario odierno: definizione di standard che
definiscono la produttività scientifica di un ricercatore in termini dindi paper pubblicati in
un dato periodo cela e cerca di tenere sotto controllo le ansie verso un compito primario
complesso e dagli esiti incerti: la progressione della conoscenza in un dato settore
disciplinare).
• Negazione della necessità di ridefinire il compito a seguito di un cambiamento
proveniente/imposto dall’esterno (es. tagli di fondi che non consentono di mantenere gli
standard precedenti).
• Definire obiettivi includenti aspetti difficilmente conciliabili tra loro (il carcere racchiude
in sé l’obiettivo di sicurezza e di riabilitazione con un pesante sbilanciamento verso il
primo. Ci sono due dipartimenti che seguono in modo giustapposto questi due obiettivi e
ognuno vive l’altra parte come “limitante”).

• SINTOMI DELLA CATTIVA DEFINIZIONE DEL COMPITO PRIMARIO

LA GIUSTIZIA IN ORGANIZZAZIONE
La giustizia in organizzazione è un tema trasversale e riguarda:
Ø La percezione riguardo alla correttezza del trattamento ricevuto da ciascuno in
organizzazione
Ø Percorso di carriera
Ø Salario
Ø Benefit
Ø Riconoscimento
Ø Risorse per lo svolgimento del proprio lavoro

STUDI CLASSICI: QUATTRO FORME DI GIUSTIZIA ORGANIZZATIVA

• GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA
Si riferisce alla correttezza (fairness) degli esiti della decisione; una decisione è considerata giusta,
quando è conforme alla regola di allocazione scelta.
Se dovessimo pensare ad una domanda che incarna e ci fa capire la giustizia distributiva
sicuramente sarebbe: “è corretto ciò che ricevo in cambio del mio lavoro?”
Tendenzialmente i criteri che vengono usati in organizzazione sono:
o principio di equità: basato sul merito o sul bisogno
o principio di eguaglianza: prevede che siano distribuiti in modo uguale a tutti
Ovviamente i principi vengono percepiti in maniera diversa in base ai contesti culturali in cui sono
inseriti.

• GIUSTIZIA PROCEDURALE
Si riferisce alla correttezza del processo che conduce gli esiti delle decisioni.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “quanto è corretto il processo utilizzato per la decisione
presa in merito al trattamento ricevuto?”
Ad esempio, se i criteri o le procedure usate per valutare i dipendenti sono giusti.
Elementi che sfavoriscono una percezione positiva sul piano della giustizia procedurale:
o favoritismo
o mancato utilizzo di informazioni disponibili ritenute rilevanti
o mancanza di partecipazione dei diretti interessati al processo decisionale

• GIUSTIZIA INTERNAZIONALE
Si riferisce alla percezione di come ci si sente trattati dai propri superiori, si sovrappone
concettualmente in parte ai costrutti che descrivono lo stile di leadership.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “in che misura mi sento trattato in modo dignitoso
rispetto ai miei superiori?”
Questa giustizia modera gli effetti negativi dell’ingiustizia distributiva sullo stress e la soddisfazione
(es: mancati benefit)

• GIUSTIZIA INFORMATIVA
Si riferisce alla correttezza delle informazioni fornite riguardo al processo decisionale.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “le informazioni riguardo al processo decisionale sono
state condivise in modo corretto (fairness)?”
Essa modera gli effetti negativi dell’ingiustizia distributiva sullo stress e la soddisfazione (es.
mancati benefit) ma meno intensamente della giustizia internazionale.
SCALA USATA COME STRUMENTO DI MISURAZIONE DELLE 4 FORME DI GIUSTIZIA
ALTRE CONCETTUALIZZAZIONI DI GIUSTIZIA

 overall justice: parte dal presupposto che le persone piuttosto che focalizzarsi su singoli
aspetti, effettuino valutazioni di tipo più olistico. Questa prospettiva ha ottenuto qualche
sostegno sul piano empirico (Ambrose & Schminke, 2009).
 bidimensionalità del costrutto, proponendo la distinzione tra giustizia e ingiustizia. Il
presupposto di partenza è che mentre la giustizia può considerarsi qualche cosa di atteso,
l’ingiustizia è solitamente considerata come qualcosa con elevato gradiente di salienza. A
discredito di questa concettualizzazione vi è il fatto che le due sottodimensioni hanno in
media una correlazione di 0.80.

EVIDENZE DELLE NEUROSCIENZE


Studi basati su tecniche di neuroimaging hanno osservato che:
 ottenere un’offerta percepita come giusta o al contrario percepita come ingiusta attiva area
celebrali differenti
 l’ingiustizia procedurale e distributiva attivano arre celebrali differenti
Sono studi che iniziano a confermare le teorie dette.

COME SI FORMANO LE PERCEZIONI DI GIUSTIZIA


• TEORIA DELL’EQUITA’ (Adams, 1965)
È la teoria più importante, ha ricevuto molte critiche ma ha un’euristica talmente ampia che ha
ricevuto consensi e conferme.
Il principio fondamentale qual è? Il criterio da cui si sviluppo questa teoria: i dipendenti si
preoccupano che il loro apposto (input) e ciò che ricevono dall’organizzazione in cambio (output)
stiano nello stesso rapporto di input e output di altri individui in posizioni comparabili.
Input= parliamo di istruzione, impegno, tempo ed esperienza portate in organizzazione,
responsabilità etc.
Output= lo stipendio, il benefit, la stima e i riconoscimenti, lo sviluppo della carriera, le
responsabilità ricoperte etc.
Questa teoria identifica una serie di azioni che l’individuo può intraprendere nel momento in cui si
manifesta una condizione di squilibrio tra questi due: se il rapporto tra input e output è
considerato scorretto (unfair), secondo la teoria dell’equità l’individuo sarà portato a ristabilire
l’equilibrio. Principali strategie:
Ø Modificarel’input (ad esempio smettere di aggiornarsi e sviluppare skills)
Ø Modificare i risultati
Ø Distorcere la percezione rispetto a sé
Ø Distorcere la percezione rispetto agl ialtri
Ø Cambiare il termine di paragone
Ø Lasciare l’impego

Siegrest (1996) però specifica 3 condizioni in cui gli individui tendono a sopportare e accettare di
lavorare in condizioni inique:
 Crisi economica
 Aspettative di miglioramento delle condizioni in futuro
 Overcomitment = tendenza che hanno alcune persone a mettersi in condizioni di eccessivo
lavoro, persone che hanno tratti di personalità di tipo A legati al perfezionismo, ansiogeno,
che tendono a permanere in queste condizioni di disequilibrio.
Essere esposti a condizioni di ingiustizia per lunghi periodi fa male alla salute e alla comunità.

• TEORIA EURISTICA DELLA CORRETTEZZA (Lind, 2001)


Basata su principi fondamentali i quali:
 Gli individui si formano giudizi complessivi sulla giustizia su una organizzazione su una supervisione
molto precocemente.
 Questi giudizi complessivi vengono utilizzati successivamente per valutare esperienze ed eventi in
organizzazioni, evitando di formulare ogni volta un nuovo giudizio riconsiderando ogni aspetto «da
zero».
 Mano a mano che ricevono «conferme» i giudizi complessivi tendono a funzionare come
«euristiche cognitive».
 Significativi scostamenti dall’atteso possono portare a rivedere il giudizio complessivo e portare alla
modificazione dell’euristica.
LA VALUTAZIONE IN ORGANIZZAZIONE

Tema trasversale, è un qualcosa che porta ad attribuire dei giudizi rispetto al proprio operato.
L’effetto del valutare, da valúta, dal lat. valeo: valere, potere; avere potenza, forza; essere capace
di; avere efficacia, valore, vigore, influenza, pregio, merito; contribuire; tendere, mirare; essere
sano, stare bene, essere forte; sussistere, essere valido; avere significato, significare.
Al tempo stesso viene definito come:
- Valutare in relazione a un valore economico,
“dare un prezzo”
- Valorizzare, aggiungere valore, “dare un
significato”

I SIGNIFICATI: VERIFICARE E CONTROLLARE


Ø Verificare significa in latino far vero, cioè accertare se un determinato risultato atteso è
stato raggiunto.
Ø Controllo ha le sue radici etimologiche nel francese contre-rôle, contro-registro, registro
tenuto in doppia copia che permette di garantire l’esattezza delle operazioni compiute.
Se la verifica e il controllo sono azioni sostanzialmente statiche finalizzate ad accertare qualcosa di
stabilito a priori, la valutazione è un processo dinamico, finalizzato a “costruire correggendo”.

La valutazione è anche analisi dell’implicito, dell’informale, della duplicità degli interessi e dei
significati in gioco: è la lettura dei sistemi di interrelazione di un contesto sociale e produce
comprensione. Mentre la valutazione apre a sviluppi futuri, il controllo – fine a se stesso – sancisce
la fine di un’azione decretandone il successo o l’insuccesso in termine di omogeneità o scostamenti
dal modello. Ciò che giustifica il controllo è la ricerca dell’errore, mentre la valutazione procede dal
dubbio.

GLI OBIETTIVI DELLA VALUTAZIONE DELLA PRESTAZIONE


Rispondere a domande come queste:
 Le persone sono in grado di fare ciò che viene loro richiesto? Hanno una idea chiara di ciò che
si aspetta da loro?
 Occorre un intervento formativo per trasmettere le conoscenze e le abilità di cui hanno il
bisogno per fare il lavoro?
 Hanno le risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro?
Inoltre:
 Restituire un feedback circa il proprio operato
 Contribuire alla definizione di sviluppi di carriera

TIPOLOGIE DI VALUTAZIONE TRADIZIONALI


Secondo la letteratura possono essere basate sui:
 Tratti di personalità
 I risultati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati
 Valutazione basate su indicatori comportamentali
• VALUTARE I RISULTATI RISPETTO AGLI OBIETTIVI: LA TEORIA DEL GOAL SETTING (Lathan &
Locke,1991)
Afferma la centralità di connettere la valutazione a fissare un obiettivo sfidante e specifico
condurrà a una prestazione migliore rispetto a un obiettivo vago e facile.
Presuppone una relazione lineare tra difficoltà dell’obiettivo e prestazione, ossia: Il dipendente
deve avere competenze e risorse per raggiungere l’obiettivo/L’obiettivo deve essere considerato
rilevante e significativo da chi lo deve perseguire.
Devonoessererimandatifeedbackrispettoall’andamentoeiprogressifatti durante il percorso (può
essere utile fissare obbiettivi prossimali e distali).

• ESEMPIO DI VALUTAZIONE BASATA SU INDICATORI COMPORTAMENTALI: EDUMETER


Ø Esempi item su scala di risposta 1-4 (per niente soddisfatto-del tutto soddisfatto)
Ø Le modalità d'esame sono state definite in modo chiaro?
Ø Gli orari di svolgimento dell'attività' didattica sono rispettati?
Ø Il personale docente è effettivamente reperibile per chiarimenti e spiegazioni?
Ø Il carico di studio richiesto da questo insegnamento è proporzionato ai crediti (CFU)
assegnati?
Ø Le conoscenze preliminari da me possedute sono risultate sufficienti per la comprensione
degli argomenti trattati?
Ø Il materiale didattico (indicato o fornito) è adeguato allo studio della materia?
Le attività didattiche (indicato o fornito) è adeguato allo studio della materia?
Ø Le attività didattiche integrative (esercitazioni, laboratori, seminari, ecc) sono utili ai fini
dell’apprendimento? (se non sono previste attività didattiche integrative lasciare in
bianco).
Ø Il docente espone gli argomenti in modo chiaro?

• ALTRE TECNICHE ALTERNATIVE A QUELLE TRADIZIONALI

 La tecnica feedforward interview (intervista orientata al futuro): conduce il dipendente a


individuare nella prestazione punti di forza e di debolezza al fine di creare le condizioni per
il miglioramento futuro.
 Coaching: inserisce la valutazione all’interno di un percorso di coaching, consentendo di
ottenere feedback continui a mano a mano che gli obiettivi vengono affrontati.
IL CLIMA ORGANIZZATIVO

• IL CLIMA COME “ATMOSFERA SOCIALE”


Lewin, Lippitt, White (1939) parlano di clima in termini di atmosfera sociale, definita come:
“Qualcosa di intangibile, una proprietà̀ della situazione complessiva [...]. L’atmosfera psicologica è
quindi quel sistema di percezioni [...] che i protagonisti di un campo psicologico giudicano
pertinente in uno spazio e in un tempo dato”.
Lewin= la teoria del campo, nello specifico l’esperimento del campo estivo sulla leadership.
Il clima è una trasposizione metaforica delle condizioni atmosferiche-metereologiche all’ambiente
sociale e alle relazioni tra individuo e ambiente.

GLI APPROCCI IN TEMA DI CLIMA ORGANIZZATIVO


Nel 1992 Moral e Volkwein distinguono gli studi esistenti sul clima in quattro approcci nelle
rassegne di studi sul clima (al cui non dare un ordine cronologico però):

• STRUTTURALE
Il clima come caratteristica dell’organizzazione, che esiste indipendentemente dai membri e delle
loro percezioni. L’organizzazione influenza le percezioni ma non il contrario.
Secondo questo approccio le condizioni strutturali sono la chiave per capire valori, atteggiamenti e
percezioni che i membri hanno verso l’organizzazione (dimensione, tipo di struttura, la complessità
sistemica, la struttura dell’autorità, gli obiettivi organizzativi ....).
Si riconosce il ruolo di «mediazione» (=da filtri tra l’organizzazione e le percezioni soggettive dei
lavoratori) delle variabili personali (personalità, capacità valori personali...) che funzionerebbero
da filtro nel passaggio dalla realtà oggettiva alla percezione soggettiva.
All’interno di questo approccio si evidenziano il lavoro di Campbell e colleghi (1970):
Il clima è letto come set di caratteristiche descrittive e distintive dell’organizzazione e si focalizza
su 4 dimensioni specifiche: autonomia individuale, struttura e posizioni, sistemi di ricompensa,
grado di considerazione e sostegno nei confronti dei dipendenti.
Critiche:
Ø mancanza di evidenze empiriche circa la corrispondenza tra caratteristiche strutturali e
percezione soggettiva individuale
Ø non spiega come mai in una organizzazione possono coesistere climi diversi
Ø non considera l’influenza dei processi interattivi nella costruzione delle percezioni
individuali (= è postulata un’influenza unidrezionale organizzazione vs individuo).

• PERCETTIVO
Il clima origina all’interno dell’individuo che interpreta le variabili situazionali in funzione di ciò
che è psicologicamente significativo per lui (il focus quindi è sugli individui, il clima parte da una
concezione individuale).
All’interno di questo approccio si evidenziano i lavori di: James e Jones (1974) distinguono tra:
Ø clima organizzativo =inteso come una serie di attributi e i loro effetti principali
Ø clima psicologico = inteso come attributi personali attraverso cui l’individuo trasforma
l’interazione tra fattori organizzativi e caratteristiche personali in una serie di aspettative,
atteggiamenti e comportamenti.
Questo approccio quindi, a differenza dello strutturale, vede un’influenza bidirezionale tra
individuo e organizzazione, l’individuo interpreta gli attributi dell’organizzazione influenzando il
clima organizzativo che a sua volta influenza il clima psicologico.
Joyce e Slocum (1982) = ripropongono il dualismo di James e Jones utilizzando il concetto di
“mappe cognitive” = mappe cognitive che a sua volta rappresentano lo strumento con il quale
l’organizzazione viene percepita e interpretata.
Critiche: non viene preso in considerazione il ruolo processi sociali e degli scambi interpersonali
nello sviluppo delle «mappe cognitive», poiché queste mappe sono individuali e non si capisce
come mai queste mappe siano però condivise.

• INTERAZIONALE
Il clima origina dalla condivisione delle percezioni degli attori organizzativi (scuole di pensiero:
fenomenologia e interazionismo simbolico).
Concetto di intersoggettività utilizzato per descrivere il fondamentale processo grazie al quale si
costruisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, valori e credenze di individui che
condividono un medesimo contesto.
Quando i membri di un contesto interagiscono si verifica uno scambio di esperienze e percezioni e,
in tal modo, le mappe cognitive si modificano e assumono contorni simili a livello interindividuale.
Il clima è frutto di una costruzione sociale (= si focalizza interamente sull’individuo e i suoi scambi
sociali dai quali si generano le mappe cognitive).
Critiche: non spiega come l’ambiente influenzi le interazioni fra i membri di un contesto
organizzativo.

• CULTURALE
Il clima origina dall’interazione tra gli individui (come per l’approccio interattivo) MA evidenzia
anche il ruolo della cultura (intesa come insieme di significati condivisi dagli attori organizzativi)
nella formazione dei processi in grado di produrre il clima.
Cosa accomuna clima e cultura?
- Entrambi si occupano del modo in cui i membri dell’organizzazione danno senso
all’ambiente
- Entrambi sono appresi attraverso un processo di socializzazione e di interazione tra i
membri dell’organizzazione
- Entrambi sono tentativi di identificare l’ambiente

Cosa distingue cultura e clima, sapendo che la cultura è qualcosa di astratto e il clima, invece, è la
sua manifestazione concreta?
CULTURA CLIMA
Natura stabile Natura mutevole
Influisce sul clima in modo stabile È frutto di variazione nell’ambiente interno
ed esterno all’organizzazione
Rimanda a qualcosa di astratto che si Si esprime nei gesti, nelle espressioni
percepisce “nell’aria” come assunti non detti, quotidiane, negli atteggiamenti
impliciti nell’organizzazione

SVILUPPI RECENTI
Da clima organizzativo a climi collettivi definibili come percezioni di procedure e processi
organizzative che sono diffuse attraverso le reti relazionali e influenzano il comportamento
organizzativo (D’Amato e Majer, 2005).
L’interesse si sposta sulla ricerca delle relazioni tra clima e altre variabili organizzative (climate for
something):
• Soddisfazione lavorativa
• Motivazione
• Creatività
• Stress &Burnout
• Benessere
• Mobbing
Il clima come concetto onnicomprensivo della descrizione dei processi organizzativi: giustizia,
partecipazione, relazioni sociali, comunicazione, clima di sicurezza ...

QUESTIONARIO MULTIDIMENSIONALE PER LA DIAGNOSI DEL CLIMA ORGANIZZATIVO


L’M_DOQ è uno strumento di diagnosi del clima organizzativo; assunto di base: clima =
dimensione multidimensionale (13 dimensioni):
Ø Team (13 item). Es “Nel mio reparto/ufficio c’è un forte spirito di cooperazione”
Ø Rapporto con I superiori (9 item). Es. “I responsabili trascurano di considerare i
suggerimenti dei subordinati”
Ø Job involvement (10 item). Es. “Il mio lavoro mi permette di usare ogni mia capacità e
conoscenza”
Ø Autonomia (7 item). Es. “Nel mio lavoro ho l’occasione di prendere iniziative personali”
Ø Libertà (8 item). Es. “Le persone hanno la possibilità di esprimersi liberamente”
Ø Coerenza (10 item). Es. “La direzione prende le decisioni riguardanti l’organizzazione del
lavoro senza consultare il personale
Ø Dinamismo (11 item). Es. “Qui vengono incoraggiate le idee innovatrici e originali”
Ø Job description (7 item). Es. “Le funzioni connesse al mio ruolo sono chiaramente definite”
Ø Equità (10 item). Es. “Nella mia azienda un certo numero di dirigenti beneficiano di
vantaggi non giustificati”
Ø Sviluppo (10 item). Es. “La mia azienda cerca di adattarsi ai cambiamenti sociali e politici”
Comunicazione (9 item). Es. “È difficile ottenere delle informazioni chiare, precise e certe”
Environment (6 item). Es. “Gli ambienti di lavoro sono confortevoli”
Ø Incentivazione (6 item). Es. “Nella mia azienda i sistemi di incentivazione sono chiari e
applicati con correttezza”

LA RICERCA IN TEMA DI “CLIMA ORGANIZZATIVO”


Perché fare ricerca su questo tema?
La diagnosi del clima costituisce un importante punto di partenza per avviare azioni e strategie di
cambiamento organizzativo, in un’ottica di ricerca azione.

Quali opportunità e quali rischi quando si fa ricerca su questo tema?


Per quanto riguarda le opportunità, la ricerca permette di:
• Ottenere informazioni sulle aree di criticità e sui punti forti dell’organizzazione
• Stimolare i singoli a fare chiarezza sulle loro percezioni individuali e aiuta a razionalizzare i
problemi
• Preparare al cambiamento
Per quanto riguarda i rischi, la ricerca può:
• Contribuire a scatenare tensioni sopite o aspettative che possono venire disattese (con
conseguente vissuto di frustrazione e di sfiducia nei confronti dell’organizzazione)
• Creare resistenze da parte di chi non vuole la ricerca o non è stato coinvolto
adeguatamente

Quando fare ricerca su questo tema?


• Nelle fasi di stabilità
• Quando l’azienda attraversa un periodo di crisi e di particolare tensione/difficoltà

Quali sono le fasi della ricerca in tema di “clima organizzativo”?


Ø Definizione e formazione del gruppo di lavoro
Ø Definizione degli obiettivi generali di ricercar
Ø Analisi preliminare del contesto organizzativo (colloqui, interviste a testimoni privilegiati,
osservazioni)
Ø Costruzione del campione (partecipanti alla ricerca) versus coinvolgimento dell’intera
popolazione
Ø Costruzione dello strumento (questionario o della traccia d’intervista/focus group) a partire
dai contributi (articoli e testi) pubblicati a livello nazionale e/o internazionale. Gli strumenti
saranno adattati al contest
Ø Fase di pre-test del questionario (in caso di somministrazione di uno strumento
quantitativo)
Ø Avvio della ricerca e somministrazione del questionario o svolgimento delle interviste
singole o focus group
Ø Analisi dei dati
Ø Stesura del report di restituzione dei risultati (intermedio e definitivo) alla committenza, ai
sindacati, alle parti sociali coinvolte e ai dipendenti che hanno partecipato alla ricerca
Ø Definizione con la committenza delle eventuali linee d’azione da intraprendere
LAVORARE IN GRUPPO

• CHE COSA È IL GRUPPO?


«il gruppo è qualche cosa di più, o meglio, qualche cosa di diverso, della somma dei suoi membri:
ha una struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne
costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza tra i membri, bensì la loro
interdipendenza»
(Lewin, 1951, p.152)
Il gruppo è considerato una totalità dinamica (= non è più solo la somma dei suoi membri), un
soggetto sociale organizzato in grado di generare comportamenti, pensieri, azioni, valori distinti da
quelli dei singoli membri.

IL GRUPPO IL GRUPPO DI LAVORO


• È caratterizzato da interazioni stabili tra i • Il gruppo di lavoro è caratterizzato da
membri processi di differenziazione e integrazione
• Differenziazioni in termini di ruoli e/o in relazione ad un compito (obiettivo) =
status condizione necessaria per essere un
• Presenza di norme implicite che regolano i gruppo di lavoro, ruoli di coordinamento.
rapporti all’interno dell’ingroup e
dell’outgroup

• I PIANI DI ANALISI DEL GRUPPO DI LAVORO


La dimensione dello stare insieme, che è conseguenza della necessità umana di associarsi per
soddisfare i bisogni di affettivi e di affiliazione individuale (predominanza della sfera emotiva).
La dimensione del fare insieme, legata alla dimensione operativa, dell’agire introducendo piani di
azione e svolgendo compiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi (predominanza della
sfera cognitiva).

IL CICLO DI VITA DEL GRUPPO (CHE DIVENTA GRUPPO DI LAVORO) (TUCKMAN, 1965)
Modello che identifica 4 fasi ricorsive nella vita dei gruppi, la cui durata e avvicendamento non
sono prevedibili a priori.
1. La fase di forming: il momento in cui il gruppo si forma e i membri si incontrano per la
prima volta. In questa fase le interazioni tra le persone sono in genere di tipo superficiale,
finalizzate allo scambio di informazioni e alla conoscenza reciproca. Il gruppo comincia a
focalizzare l’obiettivo e i compiti e a discutere norme, tempi e metodi. Sentimenti
prevalenti dei singoli: incertezza circa la possibilità di dare fiducia al gruppo, ansia rispetto
al proprio ruolo e al proprio contributo e all’immagine di sé. I livelli di conflittualità sono in
genere molto bassi.
2. La fase di storming: emergono le differenze personali e i membri del gruppo si confrontano
(qualche colta scontrano) nel tentativo di definire il proprio ruolo anche in relazione alla
struttura di potere. Possono emergere conflitti e resistenze. In alcuni casi, i gruppi possono
sciogliersi in questa fase.
3. La fase di norming: un gruppo entra in questa fase quando ha superato i conflitti circa i
ruoli e il potere e i membri sono pronti a mediare al fine di definire ruoli (bilanciando i
bisogni individuali a quelli del gruppo) e le norme. Nei gruppi che entrano nella fase del
norming, si osserva una fiducia reciproca tra i membri progressivamente più elevata.
4. La fase di performing: i gruppi portano avanti i compiti e le richieste che determinano il
gruppo stresso. Questa fase tende a essere caratterizzata da cooperazione e
interdipendenza trai membri. Il livello di performance osservato è funzione della capacità
dei membri del GDL di «differenziarsi» e «integrarsi» efficacemente. Dal pdv affettivo-
relazionale, la fiducia negli altri membri del GDL è un elemento cardine in questa fase;
l’assenza di fiducia può compromettere la qualità della performance di gruppo.
5. La fase di adjourning coincide con lo scioglimento del gruppo.

Tuckman ha fatto anche altri studi, che prevedono l’inclusione di una fase di decadenza che può
presentarsi più frequentemente dopo la fase di performing (ma non necessariamente) e può
prevedere:
Ø De-norming: le norme implicite e esplicite che il gruppo si era dato vengono meno con il
procedere dello svolgimento del compito.
Ø De-strorming: il dissenso non si manifesta apertamente e rimane latente, generando
resistenze individuali e impedendo la costruzione di un senso di fiducia reciproca tra i
membri:
Ø De-forming: il gruppo di lavoro si disgrega, si creano sottogruppi che mirano ad assumere il
controllo e il progetto (o sue parti) viene abbandonato.

CRITICITA’ DEL LAVORO IN GRUPPO


• LA TENDENZA ALLA CONFORMITA’
La pressione sociale alla conformità: le persone in situazioni sociali tendono a prendere decisioni
diverse rispetto a quello che farebbero individualmente, a ignorare le proprie valutazioni,
conformandosi a quelle degli altri (es: esperimento Asch, Zimbardo)

• LA POLARIZZAZIONE
Nelle discussioni interne al gruppo tende a verificarsi una polarizzazione o estremizzazione delle
decisioni prese (ciò può verificarsi sia nella direzione della rischiosità che della prudenza).
L’esito finale può essere un processo decisorio distorto o anche una divisione grave nel gruppo.
Le oscillazioni che si determinano nel gruppo a causa dei fenomeni di polarizzazione di fronte a
situazioni di incertezza e ambiguità, potrebbero tradursi in modalità inefficienti di funzionamento
del gruppo.
L’eccesiva coesione può favorire in alcuni casi la polarizzazione.

• IL GROUP THINK
Rappresenta una situazione in cui, soprattutto in presenza di pressioni e urgenze esterne, si riduce
lo sforzo di comprendere la situazione e verificare i dati della realtà e di discutere sulle possibili
alternative rispetto a un certo corso di azioni dato per scontato. Tende a esserci una eccessiva e
generica fiducia nelle capacità del gruppo e del leader. Le conseguenze possono essere: decisioni
sbagliate, scadenti soluzioni.

• LA DIFFUSIONE DELLE RESPONSABILITA’


Social loafing: tendenza a limitare il proprio impegno nelle attività di gruppo, essendo il contributo
individuale poco riconoscibile.
Free riding: la tendenza a non collaborare e a non partecipare alle attività
Bystanding: un individuo non interviene per dare il proprio contributo, pregiudicando la riuscita del
lavoro.
IL CONTRIBUTO DI BION SUI GRUPPI DI LAVORO

“L’attività del gruppo di lavoro è ostacolata, deviata e talvolta favorita, da certe altre attività
mentali che hanno in comune l’attributo di forti tendenze emotive. Queste attività, a prima vista
caotiche, acquistano una certa strutturazione se si ammette che esse derivano da alcuni assunti di
base comuni a tutto il gruppo”
(Bion, 1959)

Con Lewin avevamo visto che il gruppo è più della sommatoria delle sue parti, e con Bion
cerchiamo di capire cosa si intenda con questo; nello specifico capire come mai l’individuo nel
contesto gruppale tenda ad annullare la propria identità ed attraverso proiezioni e introiezioni
colludere con gli altri membri del gruppo soprattutto in certe circostanze.
Bion si è concentrato su ciò che non funzionava, nello specifico sulla tendenza di evitamento al
compito primario  sulla base dei suoi studi pioneristici sui processi di gruppo sui gruppi di
militari operanti durante il II conflitto mondiale, distinse due tendenze principali nella vita del
gruppo: la tendenza verso il lavoro sul compito primario e una seconda tendenza, spesso
inconscia, a evitare il lavoro sul compito primario, che lui definiva la cultura dell’assunto di base.

Tendenzialmente ci sono due tipologie di culture a cui il gruppo può aderire:


Ø Cultura del gruppo di base  la prima risponde al desiderio da parte del gruppo di
confrontarsi col complito, sono attivi i processi di integrazione e differenziazione, si vuole
superare la sfida; i membri sono intenti a eseguire un compito definibile e vogliono
valutare la propria efficacia facendolo.
Ø Cultura dell’assunto di base dall’altra c’è la cultura dell’assunto di base, in cui l’individuo
si annulla per aderire ad una specifica identità di gruppo che risponde in modo preciso e
sistematico al desiderio di evadere la realtà perché è difficile ed incerta, e perché provoca
conflitto psicologico all’interno dei singoli o dei membri del gruppo e si attivano i cosiddetti
assunti di base; il comportamento del gruppi è diretto a cercare di soddisfare le necessità
inconsce dei suoi membri riducendo ansia e conflitti interni.
Importante tener presente della presenza dell’inconscio collettivo.

CULTURA DELL’ASSUNTO DI BASE


Bion riconobbe nel suo lavoro di osservazione empirica 3 assunti di base, a ognuno dei quali è
associato un complesso particolare di emozioni, pensieri e comportamenti (già presenti
nell’inconscio collettivo/individuale):
 Dipendenza (BaD)= Un gruppo dominato da BaD si comporta come se il proprio compito
primario fosse esclusivamente quello di provvedere alla soddisfazione dei bisogni e dei
desideri dei suoi membri. Leader = catalizzatore per una forma di dipendenza patologica
che inibisce la crescita e lo sviluppo, è importante soprattuto in questo assunto.
 Attacco e fuga (BaAF)= Il gruppo lavora come se il suo compito primario fosse quello di
aggredire e/o fuggire da un nemico. Si assume una situazione di pericolo imminente. Il
gruppo guarda al leader per escogitare una azione adeguata; il compito dei membri è solo
quello di seguire.
 Attesa messianica (BaA)= Si basa sulla credenza collettiva inconscia che, qualunque siano i
problemi e i bisogni effettivi del gruppo, un evento futuro li risolverà. Il gruppo è
completamente focalizzato verso il future, ma come difesa contro le difficoltà del presente.
È possibile riconoscere gli assunti di base in base a sintomi che suggeriscono che essi siano in
azione?
1. Nelle riunioni lo scopo non è chiaro. Membri del gruppo perdono facoltà critiche e le loro
capacità individuali; il gruppo nel suo insieme sembra avere una missione mal definita ma
appassionatamente coinvolgente.
2. Scarsa capacità da parte del gruppo di sopportare le frustrazioni, vengono quindi favorite le
soluzioni veloci.
3. Mancanza di confronto con la realtà. I rimandi provenienti da esterni vengono negati e/o
ignorati. Per esempio, anziché cercare nuove info, il gruppo si isola dal mondo esterno e si
ritira nella paranoia.
4. Risulta impossibile avere atteggiamenti dubbiosi circa il modo di operare nel gruppo. Chi li
solleva viene ignorato o denigrato (giudicato pazzo, sciocco ...)
5. Viene considerato troppo terrificante accettare una nuova idea che potrebbe offrire una
spinta in avanti, perché questo prevede che si mettano in discussione i propri presupposti e
che si verifichi una perdita di ciò che è familiare e prevedibile.

CULTURA DEL GRUPPO DI LAVORO


Che cosa richiede?
Il superamento dell’assunto di base prevede possibilità di sviluppare un lavoro efficiente coerente
con il compito primario. Al gruppo e ai suoi membri è richiesto:
1. La capacità di tollerare la frustrazione legata all’incertezza ricerca soluzione concreta
2. La capacità di affrontare la realtà/apertura verso l’esterno
3. Riconoscere le differenze tra i membri del gruppo e le competenze che ciascuno di essi può
apportare  le persone sono li perché possono portare un contributo nello sviluppo del
compito primario
4. Imparare dall’esperienza

LA VALENZA ADATTIVA DELLA CULTURA DELL’ASSUNTO DI BASE


L’assunto di base è sempre qualcosa di negativo e da evitare o può essere in certi casi adattivo?
Bion (1967) sostiene che un gruppo può utilizzare le culture degli assunti di base in modo
“sofisticato”, mobilitando le emozioni dell’assunto nella ricerca costruttiva del compito primario.
Sono stati osservati degli esempi, soprattutto nei contesti sanitari:
Ø In un reparto di ortopedia, la mobilitazione di BaD può essere usata per creare una
atmosfera di calma ed efficienza incoraggiando i pazienti a mettersi nelle mani del
personale in modo fiducioso e dipendente. (“come se” al personale ci si potesse fidare
ciecamente ...).
Ø In un pronto soccorso, il BaAF potrebbe sostenere il personale nel compito di gestire con
successo l’arrivo di un paziente che necessita di un pronto intervento (“come se” stessero
attaccando un nemico da sconfiggere ...).
Ø 3. In un reparto materno-infantile, il BaA, potrebbe trovare un uso sofisticato nel rapporto
con la paziente, esortando a sostenere l’ansia e la fatica legate al travaglio, infondendo un
senso di speranza legato a ciò che verrà dopo (“come se” con il parto coincidesse con la
risoluzione della sofferenza..)
In questi casi, i Ba possono aiutare il gruppo in una situazione critica (o che potenzialmente lo può
diventare) a fronteggiare la realtà attraverso una semplificazione emotiva: viene di fatto ignorato
che ci sono altri aspetti in gioco in quella stessa situazione che sono molto ansiogeni (es. ll
personale medico- infermieristico dell’ortopedia può anche commettere errori, il parto può
concludersi in modo indesiderato, il paziente o i parenti del PS possono essere angosciati e oltre
alle procedure mediche potrebbero avere bisogno di conforto ...).
Tuttavia, questa sorta di copione emozionale (ben collaudato perché in passato si è spesso rivelato
efficace) serve a migliorare la focalizzazione sul compito “eliminando” le fonti di ansia a esso
associate sia del personale che dei pazienti ....
IL PROCESSO DI SOCIALIZZAZIONE

Quando si parla di socializzazione organizzativa si deve far riferimento alla competenza.


La competenza è un sistema di risposte dell’individuo basate sul saper agire in un contesto dato e
che mobilita risorse individuali secondo finalità ben definite.

Gli elementi chiave coinvolti nell’attivazione del sistema di risposte sono:


Ø risorse del soggetto (adeguamento dei propri schemi cognitivi – strategie, conoscenze su di
se’, sulle proprie risorse – alle esigenze del compito, repertorio di abilità);
Ø richieste del contesto  (attivazione delle competenze tecnico-professionali specifiche e
trasversali).
La competenza ha una duplice componente: tecnico-professionale e una componente di natura
trasversale (legata al controllo del contesto sociale) che sono tra loro profondamente interrelate;
il processo di socializzazione è maggiormente focalizzato sugli elementi di natura trasversale; le
abilità legate al controllo del contesto sociale sono centrali nei processi di costruzione sei
significati e nel nucleo centrale della cultura organizzativa.

LA SOCIALIZZAZIONE ORGANIZZATIVA
Cosa significa studiare il processo di socializzazione?
Il processo di socializzazione va oltre l’apprendimento degli aspetti tecnici di un lavoro (ruolo o
posizione formale all’interno di una organizzazione); riguarda invece l’acquisizione delle norme
scritte e non scritte su come interagire e comportarsi e di trovare il proprio posto nel tessuto
sociale dell’organizzazione.
Il passaggio dalla condizione da esterno a quello di interno implica il processo di «integrazione»
nella cultura dell’organizzazione (l’individuo contribuisce a dare forma al contesto).

Quando parliamo di socializzazione facciamo riferimento al neo-assunto che inizia a lavorare in un


contesto lavorativo, ma avviene anche quando ci sono passaggi di ruolo o cambiamento da
contesti ad altri contesti.

Il processo di socializzazione può essere definito come il processo attraverso cui un individuo
acquisisce le conoscenze e le abilità sociali ad assumere un determinato ruolo in organizzazione
(Van Maanen, Schein, 1979).
L’esito più importante di tale processo consiste nell’acquisizione di strategie da parte del soggetto
per fronteggiare le diverse situazioni sociali, esercitando su queste un controllo attivo ed efficace.
La socializzazione descrive un processo secondo cui il soggetto si appropria della propria realtà
sociale e focalizza le condizioni a cui il soggetto riesce a definire e a mantenere un ruolo attivo nel
processo di biunivoco influenzamento che intrattiene con l’organizzazione (formale e informale).

Qual è l’elemento che rende così importante studiare la socializzazione e che può risultare una
criticità? I processi che possono generare alti livelli di incertezza.
Il processo di socializzazione all’organizzazione per l’individuo contiene un rischio nella misura in
cui contiene una quantità di elementi che espongono all’incertezza ( come mi troverò? Sarò in
grado di fare il nuovo lavoro? Come mi devo comportare?).
Il processo di socializzazione infatti può essere stressante.
Gli studi organizzativi classici si son soprattutto concentrati nel comprendere e osservare come
l’individuo gestisce l’incertezza per integrarsi efficacemente; le tendenze più recenti invece sono
maggiormente interessate a indentificare modelli che consentano di comprendere cosa le
organizzazioni possano fare per ridurre le ambiguità e favorire il processo di inserimento.

I 5 FATTORI COLLEGATI ALL’INSERIMENTO (IL MODELLO DI BAUER)

1) COMPLIANCE (ottemperanza): si riferisce al disbrigo della documentazione burocratica e


degli adempimenti formali connessi al lavoro. Un disbrigo non agevole di questi aspetti può
disconfermare le aspettative del neoassunto.
2) CLARITY (chiarezza): si riferisce alla quantità e alla qualità delle informazioni a disposizione
di un/a neoassunt*.
3) CONNECTION (collegamento): si riferisce al senso di accettazione e integrazione all’interno
del sistema sociale dell’organizzazione. Inizialmente il focus è sul «sentirsi accettati»; con il
tempo, anche la costruzione di relazioni positive (sul piano professionale e non) diventa
rilevante.
4) CONFIDENCE (fiducia): si riferisce al successo che il dipendente pensa di poter avere nello
svolgimento dei compiti associati al suo ruolo. Questo aspetto è influenzato sia da aspetti
di contesto ad es. dalla chiarezza con cui l’organizzazione comunica le proprie aspettative
verso il ruolo ricoperto, sia da aspetti legati alla soggettività del/la dipendente (livelli di
autostima, autoefficacia, etc).
5) CULTURE (cultura): riguarda la socializzazione delle norme, dei valori dell’organizzazione,
nonché il confronto dei/lle neoassunti/e con i sistemi di senso e significato propri del
contesto organizzativo.

I PUNTI DI ATTENZIONE DAL PUNTO DI VISTA DELL’ORGANIZZAZIONE


Ci sono aspetti che l’organizzazione può attuare per garantire il successo della socializzazione
organizzativa nel proprio contesto:
Ø RECLUTAMENTO: rappresenta il primo momento in cui il dipendente entra a diretto
contatto con l’organizzazione. Offrire l’opportunità di acquisire elementi che riguardano la
dimensione culturale dell’organizzazione consente al candidato di sviluppare valutazioni
accurate rispetto all’ambiente di lavoro. Inoltre, è stata rilevata la centralità, a questo step,
di fornire informazioni che consentano di sviluppare aspettative realistiche del lavoro.
Ø CONTRATTO PSICOLOGICO: il contratto psicologico è costituito dalle credenze che gli
individui hanno rispetto a ciò che dovrebbero dare all’organizzazione e ciò che si aspettano
di ricevere in cambio.
Ø ORIENTAMENTO: consiste tipicamente in programmi di informazione strutturati, condotti
dall’organizzazione stessa, in cui i nuovi assunti ricevono informazioni sul nuovo lavoro e
l’ambiente lavorativo.
Ø GLI INTERNI DELL’ORGANIZZAZIONE: è importante promuovere una cultura di apertura e
inclusività nei confronti dei nuovi arrivati e prevedere momenti più o meno formali di
incontro/confronto (mentoring, momenti di socializzazione, colloqui con i superiori
gerarchici) tra nuovi arrivati e «gli interni».
DEFINIRE LO STRESS E LA CORRELAZIONE COL LAVORO

 Lo stress è la risposta di adattamento all’ambiente quindi, la base psicofisiologica ed energetica


che si attiva di fronte a una novità, all’attesa di un avvenimento significativo o minaccioso o
inconsueto (Favretto 1994), che è ritenuto dal soggetto sfidare o eccedere le proprie risorse e
danneggiare il proprio benessere (Lazarus e Folkman 1984).
Prima di tutto lo stress, quindi, ha una valenza adattativa, non è necessariamente negativa e, la
risposta appunto dell’organismo allo stress, è fondamentale per la sopravvivenza.

• LA RISPOSTA DELL’ORGANISMO A SEGUITO DELL’EVENTO STRESSANTE:


Il nostro corpo si predispone (tempo richiesto 10-20 sec) alla reazione classica del “fight or flight”,
ovvero il combatti o fuggi, attuando:
 aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa = maggiore irrorazione
sanguigna dei vari distretti dell’organismo, cioè disponibilità di ossigeno in circolo
 con un aumento della disponibilità di zuccheri – cioè di carburante - nel sangue
 migliore distribuzione del sangue verso organi nobili (cuore e cervello)
Durante lo stress:
 Aumento dell’attenzione: il cervello è focalizzato sulla percezione di fattori di “allerta”
 Aumenta l’output cardiaco
 Accelerazione della respirazione
 Re-indirizzamento del flusso sanguigno al fine di aumentare la perfusione e il “carburante”
al cervello, cuore e muscoli

• LA SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO, Seyle, 1936


La reazione da stress è identificata come un sistema di adattamento fisiologico indispensabile alla
sopravvivenza quando mutano le condizioni ambientali.
La risposta organica o «sindrome generale di adattamento» (S.G.A.) si sviluppa per fasi, da una
prima reazione d’allarme e di preparazione per affrontare o rifuggire gli “stressor”, alla seconda di
resistenza dove vengono introdotte risorse aggiuntive per mantenere l’equilibrio interno, ad una
terza di esaurimento qualora lo sforzo, troppo intenso o prolungato, richieda ulteriori risorse non
più disponibili.
ALLARME
• Fase di shock: riduzione dei parametri fisiologici
• Fase di controshock: produzione di adrenalina e noradrenalina
finalizzate all’aumento dei parametri fisiologici per facilitare la
risposta allo stress.
RESISTENZA
Prolungamento della reazione innescata nella fase di
controschock fino a quando lo stimolo stressogeno permane.
Ruolo centrale del cortisolo un ormone con funzione
antinfiammatoria che lenisce il dolore generato dalla permanenza
dello stato di attivazione dell’organismo.
ESAURIMENTO
Se non c’è adattamento e/o vi è una esposizione prolungata alla
fonte stressogena, l’organismo va incontro a esaurimento
energetico a causa del sovraccarico funzionale avvenuto nella
fase di resistenza.
TIPI DI STRESS:

Ø EUSTRESS: stress positivo, c’è un adattamento positivo da parte dell’individuo nei confronti
del proprio ambiente e sono esperienze che portano all’apprendimento e maggior
autostima  arriva quando il livello dello stress è alto abbastanza da motivarti all’azione
per portare a termine il tuo obiettivo.
Ø DISTRESS: lo stress diventa cronico così come la reazione alla risposta ansiogena, il fisico
diventa più debole  arriva quando il tuo livello di stresso è o troppo alto o troppo basso e
la tua testa e il tuo corpo iniziano a crollare e rispondere male agli stressors.

• RELAZIONE TRA STRESS E PERFORMANCE:

Ai margini troviamo le condizioni estreme di alti e


bassi livelli di stress, dove in entrambi i casi la
performance sarà bassa, se gli stimoli sono troppo
bassi c’è una povertà di motivazione all’attivazione;
mentre invece in centro c’è un allineamento di
risorse del soggetto e caratteristiche dello stimolo.

• STRESS E SISTEMA IMMUNITARIO


Si dice ci sia un effetto double face, ovvero lo stress di breve durata stimola il sistema immunitario
se esso è acuto e breve; al contrario se esso è protratto a lungo allora inibisce il sistema
immunitario (=inibendo i linfociti Th1 che proteggono da virus e neoplasie)

IMPATTO DEL DISTRESS :

• MANIFESTAZIONI SINTOMI COMPORTAMENTALI DISFUNZIONALI


o ABUSO DI ALCOLICI
o TABAGISMO
o ABUSO DI SOSTANZE: TRANQUILLANTI, STIMOLANTI, STUPEFACENTI
o ISOLAMENTO SOCIALE
o REAZIONI AGGRESSIVE AUTO-ETERODIRETTE
o TURBE DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

• MANIFESTAZIONI COMPORTAMENTALI SINTOMATICI INDICATIVI DI STRESS


o ATTEGGIAMENTI DI “FUGA” DALLE SITUAZIONI SOCIALI
o DECREMENTO DELLA PERFORMANCE
o DIFFICOLTÀ NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI
o COMPORTAMENTI ANTISOCIALI

• MANIFESTAZIONI PSICOLOGICHE EMOTIVE


o TENSIONE
o ANSIA SITUAZIONALE ED ANTICIPATORIA
o DEPRESSIONE
o IRRITABILITÀ/INSOFFERENZA
o FACILITÀ AL PIANTO
o VISSUTI DI IMPOTENZA
o INSICUREZZA
o CADUTA MOTIVAZIONALE
o DISINTERESSE

• MANIFESTAZIONI PSICOLOGICHE DISFUNZIONI COGNITIVE


o SCARSA CONCENTRAZIONE
o DIFFICOLTÀ DI MEMORIZZAZIONE
o DIFFICOLTÀ AD APPRENDERE
o COSE NUOVE
o FACILITÀ A DIMENTICARE
o SENSO DI CONFUSIONE
o INCERTEZZA DECISIONALE
o POLARIZZAZIONE IDEATIVA

• MANIFESTAZIONI FISIOLOGICHE
o TRANSITORIE MODIFICAZIONI FISIOLOGICHE: ESCREZIONE DI CATECOLAMINE,
AUMENTO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA
o DISTURBI DEL SONNO
o DISTURBI DEL RITMO CARDIACO
o DISPNEA, CEFALEA, AUMENTO DELLA GLICEMIA
o PARESTESIE, TIC NERVOSI, TREMORI

• MANIFESTAZIONI PATOLOGICHE IN GENERALE


o GASTROINTESTINALI
o CARDIOVASCOLARI
o NEUROPSICHIATRICHE: DISTURBO DEPRESSIVO, FOBIE, DISTURBI DELL’ADATTAMENTO,
DISTURBI DA PANICO
o IMMUNOLOGICHE
o Neuroendocrino (es. diabete)

GLOSSARIO DEI TERMINI DELLO STRESS


◦ STRESS: termine generale che descrive il «carico» a cui un sistema (es. un organismo) è
sottoposto.
◦ STRESSOR: stimolo esterno all’organismo, identificabile come «innesco» della catena che
descrive il fenomeno dello stress.
◦ STRESS REACTION: risposta dell’organismo allo stimolo [flight or fight].
◦ STRAIN: reazione di esaurimento dell’organismo a un impatto prolungato dello stressor [lo
stimolo è inevitabile, continuo e l’organismo non ha gli strumenti per gestirlo] / prelude la
malattia.
◦ EUSTRESS: descrive un processo in cui l’organismo risponde in modo adattivo a
stimoli/circostanze estern*.
◦ DISTRESS: descrive un processo in cui un organismo risponde in modo disadattivo a uno
stimolo/circostanze estern*.
I MODELLI TEORICI E DI ANALISI DELLO STRESS LAVORATIVO

Secondo Jaques il lavoro si compone di una componente prescrittiva (di per sé non ansiogena, per
l’assolvimento della quale è sufficiente applicare conoscenze tecniche, disposizioni e procedure) e
una componente discrezionale, in cui risiede la fonte principale di ansia, essendo connessa alla
responsabilità derivante dall’esercizio autonomo della discrezionalità legata all’incertezza e alla
responsabilità del compito primario.

Il benessere e la funzionalità individuale richiedono un equilibrio tra il livello di ansia attivato dal
ruolo e la capacità da parte di chi ricopre il ruolo di tollerare l’ansia stessa Jaques parte dai temi
dell’inconscio dell’ansia per formulare la definizione di stress che sostanzialmente prende in causa
il tema dell’equilibrio tra capacità individuali di fronteggiare le richieste e le richieste stesse
previste dal ruolo.

Lo stress si manifesta quando le persone percepiscono uno squilibrio tra le richieste avanzate nei
loro confronti e le risorse a loro disposizione per far fronte a tali richieste (OSHA-EU).

IL JOB DEMAND-CONTROL MODEL (JDC) , KARASEK E THEORELL 1979

Hanno individuato questi ricercatori un modello che si focalizza su due caratteristiche specifiche
del lavoro e sulla loro combinazione al fine di comprendere le condizioni che espongono ad un
maggiore stress negativo (distress) e per verificare se gli effetti del distress ha conseguenze.

Il modello DC concepisce lo stress occupazionale come uno squilibrio tra due condizioni
organizzative (demand-control):

— Le richieste avanzate sul lavoro (ossia carico di lavoro, tempo, ecc.), considerate come
fonti di stress psicologico e di ansia legata al sentimento di insicurezza;
— La libertà decisionale o controllo percepito, definito da una parte dall’autonomia
decisionale in merito alle questioni relative al proprio lavoro e dall’altra dal grado di
discrezionalità che ha il lavoratore nell’utilizzo delle sue competenze.

Secondo i ricercatori la combinazione di queste due condizioni dà origine a 4 condizioni che


portano ad outcam differenti tra loro:

1) ALTO CONTROLLO E BASSE RICHIESTE  Soddisfazione, appagamento per il proprio,


lavoro basso stress
2) ALTO CONTROLLO E ALTE DOMANDE  Active Learning, Motivazione allo Sviluppo di
nuovi Modelli comportamentali, eustress
3) BASSO CONTROLLO E BASSE DOMANDE Tedio, monotonia, scarse opportunità di
apprendimento, distress a causa di eccessiva povertà di stimoli;
4) BASSO CONTROLLO E ALTE DOMANDE  distress e rischio di malattia fisica
EFFORT REWARD IMBALANCE (ERI) , SIEGRIST 1996
Il modello E-R concepisce lo stress come una discrepanza tra ricompensa e impegno profuso
/ capacità individuali. Le dimensioni considerate sono:
— Impegno lavorativo (Effort): arico di lavoro, interruzioni, pressione del tempo, richiesta di
straordinario, responsabilità.
— Ricompense (Reward): stima dei colleghi e dei superiori, promozione e salario e stabilità
del lavoro; sia in termini materiali (compenso, benefit) che immateriale (stima, supporto,
promozione, prospettive di carriera.
 uno sbilanciamento tra le domande e le ricompense (la domanda percepita è più pesante della
ricompensa) provoca uno squilibrio che genera stress negativo, solo questo prende in
considerazioni non altre combinazioni.
Condizioni di disequilibrio:
 Dipendenza: il lavoratore non riesce a sottrarsi dalla condizione iniqua (crisi economica).
 Strategia: il lavoratore subisce una situazione iniqua perché ritiene che in futuro potrà
ottenere dei vantaggi.
 Overcommitment: in presenza di tratti di personalità che favoriscono l’ipercoinvolgimento
lavorativo.
 a parte la strategia forse, le altre promuovono tutte comunque condizioni di distress.

• I LIMITI DEI MODELLI JDC ED ERI


 Tengono conto solo di alcune caratteristiche lavorative
 Non tengono conto delle specificità contestuali

JOB DEMAND-RESOURCE MODEL , DEMEROUTI ET AL. 2001

PERSONAL
RESOURCES

Principi:
Ø Le caratteristiche del contesto da tenere in considerazione variano a seconda dei contesti
occupazionali e sono raggruppabili in due principali macro-categorie: domande e risorse.
Ø Le domande sono primariamente responsabili di iniziare un processo di consumo di risorse
[energy-depletion process]. Funzionano come stressors.
Ø Le risorse sono identificate come «initiators» di un processo motivazionale.
Ø Buffering hypothesis: le risorse moderano gli effetti negativi degli stressor.
Ø Booster hypothesis: una condizione di elevate risorse può «slateralizzare» l’effetto positivo
delle domande sulla motivazione.
Le risorse personali mediano/moderano la relazione tra domande/risorse e outcomes.

LA NORMATIVA SULLO STRESS LAVORO-CORRELATO IN ITALIA

Dal dicembre 2010 esiste l’obbligo di valutare in ogni organizzazione, pubblica o privata, il rischio
derivante dalla potenziale presenza di stress correlato all’attività lavorativa, ai sensi dell’art. 28 del
D.Lgs. 81/08 e dall’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004, e di identificare
eventuali misure di tutela necessarie per la riduzione o l’eliminazione del rischio stress.

La finalità riguarda l’adozione di misure ex-post e, in prospettiva, ex-ante in chiave preventiva.

• FAMIGLIE DI INTERVENTI DI GESTIONE DELLO STRESS


JOB BURNOUT

Il concetto di burnout non nasce in ambito accademico, bensì come “problema sociale”.
I primi studi condotti parallelamente da Freudenberg (1974) e Maslach (1976) osservano una
forma specifica di disagio lavorativo che coinvolge lavoratori operanti nel sociale (medici,
infermieri, psicologi, insegnanti, educatori ecc.), coloro, cioè, che a vario titolo lavorano a stretto
contatto con persone disagiate e/o richiedenti aiuto 
In tale forma di disagio che verrà poi definita burnout sembra che:
 il rapporto operatore/utente assuma una rilevanza centrale
 l’operatore riporti una difficoltà a mantenere un adeguato equilibrio tra i propri e gli altrui
bisogni
Il meccanismo di burnout sembra essere un’attivazione da parte del lavoratore che tende a
sviluppare il processo di esaurimento che porta ad annullare i bisogni dell’operatore stesso e
quindi a mettere in primo piano i problemi dell’utenza.

GLI STUDI DI MASLACH


A partire dagli anni 70/80 avendo individuato questo disagio che però in letteratura ancora non
esisteva comincia a concettualizzare e sistematizzare il burnout (= per renderlo da fenomeno
esistenziale a sindrome).
Questi studi erano centrati sull’intercettare:
 sintomatologia
 le fasi che scandiscono lo sviluppo e l’evoluzione nell’interazione con il contesto esterno

Maslach, Leiter e Jackson mettono su uno studio gigantesco, con campioni molto grandi dove si
cerca di approfondire attraverso l’intervista quali sono i vissuti di queste persone.

Il burnout viene definito come una sindrome psicologica che può manifestarsi come conseguenza
a una esposizione cronica a stressors di natura interpersonale sul luogo di lavoro.
Tre principali dimensioni caratterizzzano la prensenza della sindrome:
Ø Esaurimento emotivo dimensione che più di tutte presenta delle analogie concettuali con
lo stress (Schaufeli & Dierendonck, 1993) e descrive il vissuto di esaurimento o
prosciugamento delle risorse emotive dell’operatore.
Ø Depersonalizzazione richiama la presenza di atteggiamenti di distacco mentale ed emotivo
da parte dell’operatore nei confronti dell’utenza.
Ø Ridotta efficacia personale descrive il senso di adeguatezza e di fiducia che l’individuo
nutre verso sé stesso e le proprie competenze professionali. Concetto che presenta una
parziale sovrapposizione con quello di auto-efficacia (Bandura, 1977).

MODELLO DI MASLACH 1982

SOVRACCARICO EMOTIVO  ESAURIMENTO EMOTIVO  DEPERSONALIZZAZIONE 


RIDIMENSIONALIZZAZIONE REALIZZAZIONE PROFESSIONALE
MODELLO DI GOLEMBIEWSKI 1986/88

SOVRACCARICO EMOTIVO  DEPERSONALIZZAZIONE  RIDIMENSIONALIZZAZIONE


REALIZZAZIONE PROFESSIONALE  ESAURIMENTO EMOTIVO

Il distacco rappresenta una risposta sana in quanto protegge l’operatore dall’identificarsi troppo
con l’utente; diventa disfunzionale (“depersonalizzazione”) se portata all’eccesso e se comporta
l’adozione di una visione cinica e “de-umanizzante”.

IL MODELLO FASICO DI EDELWICK E BROSDKY 1980


Il burnout viene definito come un processo progressivo di disillusione e di perdita degli ideali che
lo avevano in origine spinto a intraprendere una professione di aiuto. Nello specifico riconoscono
4 principali fasi di tale processo:
1)  Stadio dell’idealismo e dell’entusiasmo: i lavoratori canalizzano la maggior parte delle loro
risorse (tempo, potenziale ecc.) sul lavoro. In tale stadio convivono motivazioni consapevoli (es.
aiutare gli altri) e inconsce (es. esercitare potere).
2)  Stadio della stagnazione: realizzazione che il lavoro non soddisfa a pieno i propri bisogni. Si
assiste a diminuzione dell’entusiasmo e compaiono i primi segni di fatica. Senso di squilibrio tra le
energie impiegate e i risultati ottenuti.
3) Stadio della frustrazione: valutazione della possibilità di allontanarsi dal lavoro oppure
modificazione del comportamento (allontanamento simbolico: distacco emotivo). Fase
caratterizzata da vissuti di perdita e crisi di valori: sperimentazione di fallimento, comparsa di sensi
di colpa e perdita di autostima.
4) Stadio dell’apatia: investimento di meno energia possibile sul lavoro ed evitamento delle
responsabilità.

GLI STUDI DI FREUDENBERG E LA PROSPETTIVA CLINICA


Cerca di individuare i profili personologici che tendono a essere più propensi allo sviluppo del
burnout, si costituisce un filone orientato a capire quali tipi di persone sono predisposte, associare
la casistica del burnout alla personalità.
Individua delle personalità “infiammabili”:
 Il super achiever (Freudenberg, 1974) o personalità narcisistica (Fischer, 1983): persone
con un commitment molto elevato che presentano una immagine iper-idealizzata di sé
stessi
 Tratto nevrotico-ansioso (Cherniss, 1980): presenza di un Super-Io forte e persecutorio
 Tratto ossessivo-compulsivo: tendenza al controllo
 People-oriented: dinamica indentitaria influenzata dalla idealizzazione della “relazione
umana” e delle “professioni di aiuto”

La prospettiva organizzativa e occupational health psychology sviluppa modelli funzionali alla


comprensione del fenomeno del burnout in relazione al contesto organizzativo e identifica dei
fattori di rischio e di protezione sul luogo di lavoro rispetto all’insorgenza del burnout nei diversi
contesti lavorativi.
IL MODELLO DI MASLACH, LEITER & JACKSON (1996)
Propongono una nuova versione di strumenti per identificare il burnout e una ri-identificazione
dello stesso, generalizzando il concetto di burnout (disimpegno lavorativo) ed applicazione dello
stesso anche ai non professionista dell’aiuto.
Vengono individuate 6 aree in cui il
“mismatch” individuo-organizzazione
conduce allo sviluppo di burnout 

LA TEORIA DELL’EQUITA’ NELLO SCAMBIO SOCIALE: SCHAUFELI & ENZMANN


Tutti i rapporti possono essere considerati come forme di scambio sociale (teoria equità di Adams,
1967). Esse possono essere di tipo:
 simmetrico cioè regolate da norme che garantiscono equilibrio tra ciò che è messo in
campo dalle due parti
 asimmetrico generano invece iniquità e possono essere causa di effetti negativi sul piano
della salute psichica e fisica del lavoratore [imbalance between give and take”]

Il burnout può emergere in conseguenza a uno


squilibrio prolungato tra investimenti e risultati,
richieste e risorse [“people give too much and
receive too little in return”]

SVILUPPI RECENTI:
Nel 2019 il burn-out è stato incluso nell’ 11ma revision dell ICD (International Classification of
Diseases, dove è definito “occupational phenomenon”. Non risulta quindi classificato come una
condizione medica. É inserito nella sezione ‘Factors influencing health status or contact with
health services.
“Burn-out is a syndrome conceptualized as resulting from chronic workplace stress that has not
been successfully managed. It is characterized by three dimensions:
 feelings of energy depletion or exhaustion
 increased mental distance from one’s job, or feelings of negativism or cynicism related to
one's job;
 reducedprofessionalefficacy.
Burn-out refers specifically to phenomena in the occupational context and should not be applied
to describe experiences in other areas of life.” (ICD-11)
WORKAHOLISM
ORIGINE E PRIME DEFINIZIONI:
“Workaholic” è stato coniato da Oates (1971), sulla falsariga del termine “alcoholic”, per indicare
una dipendenza caratterizzata da un bisogno incontrollato di lavorare incessantemente [...] tale da
creare interferenze non trascurabili con la salute individuale, la qualità delle relazioni
interpersonali e, in generale, qualsiasi altro aspetto della sfera extra-lavorativa.

PROSPETTIVA CLINICA:
Viene considerato un disordine clinico caratterizzato da sintomi sia di tipo internalizzante (ansia,
compulsione, ossessione) che di tipo esternalizzante (i.e..; comportamenti di dipendenza).
Tuttavia, non è ancora riconosciuto nel DSM come disturbo perché:
 non ci sono evidenze empiriche sufficienti rispetto al grado di nocività sulla salute
individuale
 manca accordo circa la sintomatologia associata al disordine

CARATTERISTICHE DELLA DIPENDENZA:


Ø Salienza: il lavoro rappresenta l’attività più importante della vita di una persona,
dominandone il pensiero e i comportamenti anche al di fuori dei tradizionali luoghi e tempi
di lavoro.
Ø Trasformazione dell’umore: il lavoro viene associato a stati di umore che soggettivamente
possono variare dall’eccitazione, alla fuga, alla tranquillità.
Ø Tolleranza: il dipendente da lavoro è costretto ad aumentare progressivamente e
gradualmente la quantità di tempo passato a svolgere attività lavorative.
Ø Astinenza: il dipendente da lavoro subisce negativamente, a livello psicologico (irritabilità,
cambi di umore) le situazioni in cui non gli è permesso di lavorare come i periodi di ferie, la
malattia, ecc...
Ø Conflitti: emerge nella persona affetta da dipendenza da lavoro una difficoltà nelle reazioni
interpersonali (colleghi, familiari), nelle relazioni con altre attività non lavorative (hobby) e
personali (perdita di controllo).
Ø Ricaduta: dopo periodi in cui il lavoratore è riuscito a gestire la propria dipendenza dalle
attività lavorative, ricade in comportamenti eccessivi, se possibile ancor più estremi.

TEORIA DELL’EQUITA’ DI ADAMS:


Siegrest nel 11996 però specifica tre condizioni in cui gli individui possono accettare di lavorare in
condizioni inique:
 Crisi economica
 Aspettative di miglioramento delle condizioni in futuro
 Overcomitment (forma di dipendenza (?))

IL WORKHOLISM COME TRATTO DI PERSONALITA’


McMillan, O’Driscoll, Marsh, e Brady (2001) sottolineano come la teoria della personalità applicata
al workaholism permetta di individuarlo come un insieme stabile di comportamenti che:
 insorge negli individui a partire dalla tarda adolescenza, qualche volta anche a partire
dall’infanzia
 risulta stabile nei differenti contesti lavorativi
 e può essere esacerbato da stimoli ambientali come lo stress
Tuttavia, non esistono studi longitudinali che consentano di confermare questa teoria.
Queste teorie hanno il limite di non riuscire a spiegare la presenza significativamente più elevata
del comportamento in certi contesti professionali e organizzativi.

IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA DELLA SALUTE OCCUPAZIONALE (OHP) NEL DEFINIRE IL


RUOLO DEGLI ASPETTI «SITUAZIONALI» NELLO SVILUPPO DEL WORKAHOLISM
Schaufeli, Taris, e Bakker (2008) definiscono il Workaholism come la tendenza a lavorare
eccessivamente in modo compulsivo. Quest’ultima definizione, racchiude in sé gli elementi centrali
del Workaholism (il lavorare eccessivamente e l’ossessione verso il lavoro), riprendendo solo in
parte l’originaria definizione fornita da Oates (1971).
Gli studi che ne conseguono nel campo OHP mettono in luce alcuni aspetti importanti del
fenomeno:
- Il ruolo dei fattori di contesto socio-organizzativo e delle caratteristiche del lavoro
- L’interazione tra variabili di personalità e fattori contestuali

CARATTERISTICHE DEL CONTESTO ORGANIZZATIVO (che creano il vortice del risucchio lavorativo):
Ø Domande lavorative eccessive Ambiguità di ruolo
Ø cultura organizzativa competitiva, o che esalta eccessivamente il successo individuale
oppure che propone una acritica identificazione con gli scopi aziendali.
Ø Processi di socializzazione, rinforzo da parte dei colleghi e dei superiori
Ø Sistemi valutativi e premiali basati esclusivamente sulla produttività
Ø Incertezza in termini retributivi & contrattuali

Le caratteristiche di personalità moderano la relazione tra caratteristiche del contesto e


workaholism.

IL RUOLO DEL CONTESTO SOCIO-CULTURALE MACRO


In Giappone, il fenomeno è identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro), è
largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle
eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti. Si associa a questo fenomeno anche il
karo-jisatsu, termine che indica il suicidio al quale ricorrono gli impiegati che soffrono di
depressione correlata all’eccesso di lavoro.
Nelle società occidentali l’eccesso di lavoro tende raramente a essere stigmatizzato, ma piuttosto
a essere associato a caratteristiche individuali positive (resilienza, elevato status sociale, fascino,
avere personalità brillanti ..) oltre che a successo, potere e ricchezza.

Potrebbero piacerti anche