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DELLE ORGANIZZAZIONI
Martina Madaffari
LEZIONI VIOTTI
LA CULTURA ORGANIZZATIVA
Si trovano tracce del tema della cultura organizzativa già prima degli anni 60, Selznick nei suoi
studi (a partire dalla ricerca presso l’Ente autonomo per la ricostruzione della vallata del
Tennessee negli USA) evidenzia la duplice dimensione dei sistemi cooperativi:
• organizzativa = l’organizzazione è vista come uno strumento concepito razionalmente per
raggiungere degli obiettivi;
• istituzionale = l’organizzazione è vista come una realtà naturale e adattiva, prodotto delle
esigenze e dei bisogni degli individui e delle pressioni sociali. L’organizzazione diventa
un’istituzione quando si «impregna» di valori:
L’istituzionalizzazione è un processo. È qualcosa che avviene a un’organizzazione attraverso il
tempo, rispecchiante la particolare storia dell’organizzazione, le persone che ne fanno parte, i
gruppi che essa incorpora e gli interessi costituiti che questi ultimi hanno creato, nonché il modo in
cui ha saputo adattarsi al suo ambiente […]. […] istituzionalizzazione significa infondere valori al di
là delle esigenze tecniche del compito immediato (Selznick, 1957)
Secondo Bion (1961):
Gli individui sperimentano due tipi di attività, una cosciente/razionale, l’altra inconscia e
pulsionale;
La cultura di gruppo si riferisce a stati mentali condivisi a livello di gruppo, che funzionano
come sistemi di attribuzione di senso e significato rispetto dell’esperienza.
Cultura dell’assunto di base (evitamento del compito): Dipendenza, accoppiamento e
attacco/fuga.
Cultura del gruppo di lavoro: centratura sul compito.
Uno dei contributi più importanti sulla cultura organizzativa è fornito da Edgar Schein (1983, 1984,
1985) che definisce la cultura organizzativa come: “un insieme di significati che racchiudono
assunti, valori, credenze che un gruppo utilizza per affrontare situazioni problematiche di
adattamento all’ambiente esterno e di integrazione interna.”
I valori, gli assunti e le credenze trovano espressione nei comportamenti, nel linguaggio verbale e
negli artefatti materiali presenti in organizzazione.
Secondo Schein, si può parlare di cultura solo quando questi sistemi di significati sono ritenuti
«validi» e cioè come “il modo corretto e giusto” di pensare e agire di fronte alle situazioni. Se sono
ritenuti validi, questi significati saranno anche trasmessi ai nuovi membri entrati in organizzazione,
e rappresenteranno una sorta di ancoraggio, un punto di appoggio a partire dal quale è possibile
prefigurare l’azione (Piccardo, 1992).
L’approccio psicodinamico, con focus sulle emozioni e sentimenti nelle organizzazioni, arriva negli
anni ’30 e parte dalla critica al modello di matrice tayloristica-fordista (la metafora più evocata è
quella dell’organizzazione come «macchina», che privilegiava una prospettiva ingegneristica,
legata all’organizzazione scientifica del lavoro, cercando di minimizzare i rischi legati
all’incertezza), secondo cui un comportamento organizzativo efficiente è il risultato di una
progettazione strutturale basata su criteri razionali volti a minimizzare i costi necessari per
raggiungere gli obiettivi.
L’approccio tayloristico prevede che lo studioso dell’organizzazione (tipicamente un ingegnere)
essendo guidato dall’obiettivo di progettare «strutture razionali», trascuri sentimenti ed emozioni
perché ininfluenti o peggio, potenziali elementi di interferenza con l’efficienza organizzativa.
Primi studi che mettono in evidenza i limiti di questo approccio ingegneristico sono gli studi di
Elton Mayo (psicologo sociale, considerato il padre della psicologia del lavoro e delle
organizzazioni) alla Western Electric di Chicago che evidenziano come tutta una serie di aspetti,
estranei alla progettazione del lavoro, influenzino la performance degli operai.
Questi aspetti si ritrovano nelle relazioni tra operai, con i ricercatori che stanno conducendo lo
studio, nei sentimenti e nelle emozioni che gli operai provano (il cosiddetto effetto Hawthorne=
l’effetto dell’interesse nei confronti degli operai).
Questo è considerato il primo vero studio che segna l’inizio della psicologia delle organizzazioni e
del lavoro, e apre la strada agli studi su quanto sia importante la sfera soggettiva nel lavoro.
Infatti, tanto più Il compito primario di una organizzazione incardina aspetti di “vitale”
importanza per il genere umano [Obholzer & Zavier Roberts, 1996], tanto più le ansie associate
favoriscono il nascere di rilevanti discrasie tra i livelli descritti da Lawrence.
LA GIUSTIZIA IN ORGANIZZAZIONE
La giustizia in organizzazione è un tema trasversale e riguarda:
Ø La percezione riguardo alla correttezza del trattamento ricevuto da ciascuno in
organizzazione
Ø Percorso di carriera
Ø Salario
Ø Benefit
Ø Riconoscimento
Ø Risorse per lo svolgimento del proprio lavoro
• GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA
Si riferisce alla correttezza (fairness) degli esiti della decisione; una decisione è considerata giusta,
quando è conforme alla regola di allocazione scelta.
Se dovessimo pensare ad una domanda che incarna e ci fa capire la giustizia distributiva
sicuramente sarebbe: “è corretto ciò che ricevo in cambio del mio lavoro?”
Tendenzialmente i criteri che vengono usati in organizzazione sono:
o principio di equità: basato sul merito o sul bisogno
o principio di eguaglianza: prevede che siano distribuiti in modo uguale a tutti
Ovviamente i principi vengono percepiti in maniera diversa in base ai contesti culturali in cui sono
inseriti.
• GIUSTIZIA PROCEDURALE
Si riferisce alla correttezza del processo che conduce gli esiti delle decisioni.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “quanto è corretto il processo utilizzato per la decisione
presa in merito al trattamento ricevuto?”
Ad esempio, se i criteri o le procedure usate per valutare i dipendenti sono giusti.
Elementi che sfavoriscono una percezione positiva sul piano della giustizia procedurale:
o favoritismo
o mancato utilizzo di informazioni disponibili ritenute rilevanti
o mancanza di partecipazione dei diretti interessati al processo decisionale
• GIUSTIZIA INTERNAZIONALE
Si riferisce alla percezione di come ci si sente trattati dai propri superiori, si sovrappone
concettualmente in parte ai costrutti che descrivono lo stile di leadership.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “in che misura mi sento trattato in modo dignitoso
rispetto ai miei superiori?”
Questa giustizia modera gli effetti negativi dell’ingiustizia distributiva sullo stress e la soddisfazione
(es: mancati benefit)
• GIUSTIZIA INFORMATIVA
Si riferisce alla correttezza delle informazioni fornite riguardo al processo decisionale.
Se dovessimo pensare ad una domanda: “le informazioni riguardo al processo decisionale sono
state condivise in modo corretto (fairness)?”
Essa modera gli effetti negativi dell’ingiustizia distributiva sullo stress e la soddisfazione (es.
mancati benefit) ma meno intensamente della giustizia internazionale.
SCALA USATA COME STRUMENTO DI MISURAZIONE DELLE 4 FORME DI GIUSTIZIA
ALTRE CONCETTUALIZZAZIONI DI GIUSTIZIA
overall justice: parte dal presupposto che le persone piuttosto che focalizzarsi su singoli
aspetti, effettuino valutazioni di tipo più olistico. Questa prospettiva ha ottenuto qualche
sostegno sul piano empirico (Ambrose & Schminke, 2009).
bidimensionalità del costrutto, proponendo la distinzione tra giustizia e ingiustizia. Il
presupposto di partenza è che mentre la giustizia può considerarsi qualche cosa di atteso,
l’ingiustizia è solitamente considerata come qualcosa con elevato gradiente di salienza. A
discredito di questa concettualizzazione vi è il fatto che le due sottodimensioni hanno in
media una correlazione di 0.80.
Siegrest (1996) però specifica 3 condizioni in cui gli individui tendono a sopportare e accettare di
lavorare in condizioni inique:
Crisi economica
Aspettative di miglioramento delle condizioni in futuro
Overcomitment = tendenza che hanno alcune persone a mettersi in condizioni di eccessivo
lavoro, persone che hanno tratti di personalità di tipo A legati al perfezionismo, ansiogeno,
che tendono a permanere in queste condizioni di disequilibrio.
Essere esposti a condizioni di ingiustizia per lunghi periodi fa male alla salute e alla comunità.
Tema trasversale, è un qualcosa che porta ad attribuire dei giudizi rispetto al proprio operato.
L’effetto del valutare, da valúta, dal lat. valeo: valere, potere; avere potenza, forza; essere capace
di; avere efficacia, valore, vigore, influenza, pregio, merito; contribuire; tendere, mirare; essere
sano, stare bene, essere forte; sussistere, essere valido; avere significato, significare.
Al tempo stesso viene definito come:
- Valutare in relazione a un valore economico,
“dare un prezzo”
- Valorizzare, aggiungere valore, “dare un
significato”
La valutazione è anche analisi dell’implicito, dell’informale, della duplicità degli interessi e dei
significati in gioco: è la lettura dei sistemi di interrelazione di un contesto sociale e produce
comprensione. Mentre la valutazione apre a sviluppi futuri, il controllo – fine a se stesso – sancisce
la fine di un’azione decretandone il successo o l’insuccesso in termine di omogeneità o scostamenti
dal modello. Ciò che giustifica il controllo è la ricerca dell’errore, mentre la valutazione procede dal
dubbio.
• STRUTTURALE
Il clima come caratteristica dell’organizzazione, che esiste indipendentemente dai membri e delle
loro percezioni. L’organizzazione influenza le percezioni ma non il contrario.
Secondo questo approccio le condizioni strutturali sono la chiave per capire valori, atteggiamenti e
percezioni che i membri hanno verso l’organizzazione (dimensione, tipo di struttura, la complessità
sistemica, la struttura dell’autorità, gli obiettivi organizzativi ....).
Si riconosce il ruolo di «mediazione» (=da filtri tra l’organizzazione e le percezioni soggettive dei
lavoratori) delle variabili personali (personalità, capacità valori personali...) che funzionerebbero
da filtro nel passaggio dalla realtà oggettiva alla percezione soggettiva.
All’interno di questo approccio si evidenziano il lavoro di Campbell e colleghi (1970):
Il clima è letto come set di caratteristiche descrittive e distintive dell’organizzazione e si focalizza
su 4 dimensioni specifiche: autonomia individuale, struttura e posizioni, sistemi di ricompensa,
grado di considerazione e sostegno nei confronti dei dipendenti.
Critiche:
Ø mancanza di evidenze empiriche circa la corrispondenza tra caratteristiche strutturali e
percezione soggettiva individuale
Ø non spiega come mai in una organizzazione possono coesistere climi diversi
Ø non considera l’influenza dei processi interattivi nella costruzione delle percezioni
individuali (= è postulata un’influenza unidrezionale organizzazione vs individuo).
• PERCETTIVO
Il clima origina all’interno dell’individuo che interpreta le variabili situazionali in funzione di ciò
che è psicologicamente significativo per lui (il focus quindi è sugli individui, il clima parte da una
concezione individuale).
All’interno di questo approccio si evidenziano i lavori di: James e Jones (1974) distinguono tra:
Ø clima organizzativo =inteso come una serie di attributi e i loro effetti principali
Ø clima psicologico = inteso come attributi personali attraverso cui l’individuo trasforma
l’interazione tra fattori organizzativi e caratteristiche personali in una serie di aspettative,
atteggiamenti e comportamenti.
Questo approccio quindi, a differenza dello strutturale, vede un’influenza bidirezionale tra
individuo e organizzazione, l’individuo interpreta gli attributi dell’organizzazione influenzando il
clima organizzativo che a sua volta influenza il clima psicologico.
Joyce e Slocum (1982) = ripropongono il dualismo di James e Jones utilizzando il concetto di
“mappe cognitive” = mappe cognitive che a sua volta rappresentano lo strumento con il quale
l’organizzazione viene percepita e interpretata.
Critiche: non viene preso in considerazione il ruolo processi sociali e degli scambi interpersonali
nello sviluppo delle «mappe cognitive», poiché queste mappe sono individuali e non si capisce
come mai queste mappe siano però condivise.
• INTERAZIONALE
Il clima origina dalla condivisione delle percezioni degli attori organizzativi (scuole di pensiero:
fenomenologia e interazionismo simbolico).
Concetto di intersoggettività utilizzato per descrivere il fondamentale processo grazie al quale si
costruisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, valori e credenze di individui che
condividono un medesimo contesto.
Quando i membri di un contesto interagiscono si verifica uno scambio di esperienze e percezioni e,
in tal modo, le mappe cognitive si modificano e assumono contorni simili a livello interindividuale.
Il clima è frutto di una costruzione sociale (= si focalizza interamente sull’individuo e i suoi scambi
sociali dai quali si generano le mappe cognitive).
Critiche: non spiega come l’ambiente influenzi le interazioni fra i membri di un contesto
organizzativo.
• CULTURALE
Il clima origina dall’interazione tra gli individui (come per l’approccio interattivo) MA evidenzia
anche il ruolo della cultura (intesa come insieme di significati condivisi dagli attori organizzativi)
nella formazione dei processi in grado di produrre il clima.
Cosa accomuna clima e cultura?
- Entrambi si occupano del modo in cui i membri dell’organizzazione danno senso
all’ambiente
- Entrambi sono appresi attraverso un processo di socializzazione e di interazione tra i
membri dell’organizzazione
- Entrambi sono tentativi di identificare l’ambiente
Cosa distingue cultura e clima, sapendo che la cultura è qualcosa di astratto e il clima, invece, è la
sua manifestazione concreta?
CULTURA CLIMA
Natura stabile Natura mutevole
Influisce sul clima in modo stabile È frutto di variazione nell’ambiente interno
ed esterno all’organizzazione
Rimanda a qualcosa di astratto che si Si esprime nei gesti, nelle espressioni
percepisce “nell’aria” come assunti non detti, quotidiane, negli atteggiamenti
impliciti nell’organizzazione
SVILUPPI RECENTI
Da clima organizzativo a climi collettivi definibili come percezioni di procedure e processi
organizzative che sono diffuse attraverso le reti relazionali e influenzano il comportamento
organizzativo (D’Amato e Majer, 2005).
L’interesse si sposta sulla ricerca delle relazioni tra clima e altre variabili organizzative (climate for
something):
• Soddisfazione lavorativa
• Motivazione
• Creatività
• Stress &Burnout
• Benessere
• Mobbing
Il clima come concetto onnicomprensivo della descrizione dei processi organizzativi: giustizia,
partecipazione, relazioni sociali, comunicazione, clima di sicurezza ...
IL CICLO DI VITA DEL GRUPPO (CHE DIVENTA GRUPPO DI LAVORO) (TUCKMAN, 1965)
Modello che identifica 4 fasi ricorsive nella vita dei gruppi, la cui durata e avvicendamento non
sono prevedibili a priori.
1. La fase di forming: il momento in cui il gruppo si forma e i membri si incontrano per la
prima volta. In questa fase le interazioni tra le persone sono in genere di tipo superficiale,
finalizzate allo scambio di informazioni e alla conoscenza reciproca. Il gruppo comincia a
focalizzare l’obiettivo e i compiti e a discutere norme, tempi e metodi. Sentimenti
prevalenti dei singoli: incertezza circa la possibilità di dare fiducia al gruppo, ansia rispetto
al proprio ruolo e al proprio contributo e all’immagine di sé. I livelli di conflittualità sono in
genere molto bassi.
2. La fase di storming: emergono le differenze personali e i membri del gruppo si confrontano
(qualche colta scontrano) nel tentativo di definire il proprio ruolo anche in relazione alla
struttura di potere. Possono emergere conflitti e resistenze. In alcuni casi, i gruppi possono
sciogliersi in questa fase.
3. La fase di norming: un gruppo entra in questa fase quando ha superato i conflitti circa i
ruoli e il potere e i membri sono pronti a mediare al fine di definire ruoli (bilanciando i
bisogni individuali a quelli del gruppo) e le norme. Nei gruppi che entrano nella fase del
norming, si osserva una fiducia reciproca tra i membri progressivamente più elevata.
4. La fase di performing: i gruppi portano avanti i compiti e le richieste che determinano il
gruppo stresso. Questa fase tende a essere caratterizzata da cooperazione e
interdipendenza trai membri. Il livello di performance osservato è funzione della capacità
dei membri del GDL di «differenziarsi» e «integrarsi» efficacemente. Dal pdv affettivo-
relazionale, la fiducia negli altri membri del GDL è un elemento cardine in questa fase;
l’assenza di fiducia può compromettere la qualità della performance di gruppo.
5. La fase di adjourning coincide con lo scioglimento del gruppo.
Tuckman ha fatto anche altri studi, che prevedono l’inclusione di una fase di decadenza che può
presentarsi più frequentemente dopo la fase di performing (ma non necessariamente) e può
prevedere:
Ø De-norming: le norme implicite e esplicite che il gruppo si era dato vengono meno con il
procedere dello svolgimento del compito.
Ø De-strorming: il dissenso non si manifesta apertamente e rimane latente, generando
resistenze individuali e impedendo la costruzione di un senso di fiducia reciproca tra i
membri:
Ø De-forming: il gruppo di lavoro si disgrega, si creano sottogruppi che mirano ad assumere il
controllo e il progetto (o sue parti) viene abbandonato.
• LA POLARIZZAZIONE
Nelle discussioni interne al gruppo tende a verificarsi una polarizzazione o estremizzazione delle
decisioni prese (ciò può verificarsi sia nella direzione della rischiosità che della prudenza).
L’esito finale può essere un processo decisorio distorto o anche una divisione grave nel gruppo.
Le oscillazioni che si determinano nel gruppo a causa dei fenomeni di polarizzazione di fronte a
situazioni di incertezza e ambiguità, potrebbero tradursi in modalità inefficienti di funzionamento
del gruppo.
L’eccesiva coesione può favorire in alcuni casi la polarizzazione.
• IL GROUP THINK
Rappresenta una situazione in cui, soprattutto in presenza di pressioni e urgenze esterne, si riduce
lo sforzo di comprendere la situazione e verificare i dati della realtà e di discutere sulle possibili
alternative rispetto a un certo corso di azioni dato per scontato. Tende a esserci una eccessiva e
generica fiducia nelle capacità del gruppo e del leader. Le conseguenze possono essere: decisioni
sbagliate, scadenti soluzioni.
“L’attività del gruppo di lavoro è ostacolata, deviata e talvolta favorita, da certe altre attività
mentali che hanno in comune l’attributo di forti tendenze emotive. Queste attività, a prima vista
caotiche, acquistano una certa strutturazione se si ammette che esse derivano da alcuni assunti di
base comuni a tutto il gruppo”
(Bion, 1959)
Con Lewin avevamo visto che il gruppo è più della sommatoria delle sue parti, e con Bion
cerchiamo di capire cosa si intenda con questo; nello specifico capire come mai l’individuo nel
contesto gruppale tenda ad annullare la propria identità ed attraverso proiezioni e introiezioni
colludere con gli altri membri del gruppo soprattutto in certe circostanze.
Bion si è concentrato su ciò che non funzionava, nello specifico sulla tendenza di evitamento al
compito primario sulla base dei suoi studi pioneristici sui processi di gruppo sui gruppi di
militari operanti durante il II conflitto mondiale, distinse due tendenze principali nella vita del
gruppo: la tendenza verso il lavoro sul compito primario e una seconda tendenza, spesso
inconscia, a evitare il lavoro sul compito primario, che lui definiva la cultura dell’assunto di base.
LA SOCIALIZZAZIONE ORGANIZZATIVA
Cosa significa studiare il processo di socializzazione?
Il processo di socializzazione va oltre l’apprendimento degli aspetti tecnici di un lavoro (ruolo o
posizione formale all’interno di una organizzazione); riguarda invece l’acquisizione delle norme
scritte e non scritte su come interagire e comportarsi e di trovare il proprio posto nel tessuto
sociale dell’organizzazione.
Il passaggio dalla condizione da esterno a quello di interno implica il processo di «integrazione»
nella cultura dell’organizzazione (l’individuo contribuisce a dare forma al contesto).
Il processo di socializzazione può essere definito come il processo attraverso cui un individuo
acquisisce le conoscenze e le abilità sociali ad assumere un determinato ruolo in organizzazione
(Van Maanen, Schein, 1979).
L’esito più importante di tale processo consiste nell’acquisizione di strategie da parte del soggetto
per fronteggiare le diverse situazioni sociali, esercitando su queste un controllo attivo ed efficace.
La socializzazione descrive un processo secondo cui il soggetto si appropria della propria realtà
sociale e focalizza le condizioni a cui il soggetto riesce a definire e a mantenere un ruolo attivo nel
processo di biunivoco influenzamento che intrattiene con l’organizzazione (formale e informale).
Qual è l’elemento che rende così importante studiare la socializzazione e che può risultare una
criticità? I processi che possono generare alti livelli di incertezza.
Il processo di socializzazione all’organizzazione per l’individuo contiene un rischio nella misura in
cui contiene una quantità di elementi che espongono all’incertezza ( come mi troverò? Sarò in
grado di fare il nuovo lavoro? Come mi devo comportare?).
Il processo di socializzazione infatti può essere stressante.
Gli studi organizzativi classici si son soprattutto concentrati nel comprendere e osservare come
l’individuo gestisce l’incertezza per integrarsi efficacemente; le tendenze più recenti invece sono
maggiormente interessate a indentificare modelli che consentano di comprendere cosa le
organizzazioni possano fare per ridurre le ambiguità e favorire il processo di inserimento.
Ø EUSTRESS: stress positivo, c’è un adattamento positivo da parte dell’individuo nei confronti
del proprio ambiente e sono esperienze che portano all’apprendimento e maggior
autostima arriva quando il livello dello stress è alto abbastanza da motivarti all’azione
per portare a termine il tuo obiettivo.
Ø DISTRESS: lo stress diventa cronico così come la reazione alla risposta ansiogena, il fisico
diventa più debole arriva quando il tuo livello di stresso è o troppo alto o troppo basso e
la tua testa e il tuo corpo iniziano a crollare e rispondere male agli stressors.
• MANIFESTAZIONI FISIOLOGICHE
o TRANSITORIE MODIFICAZIONI FISIOLOGICHE: ESCREZIONE DI CATECOLAMINE,
AUMENTO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA
o DISTURBI DEL SONNO
o DISTURBI DEL RITMO CARDIACO
o DISPNEA, CEFALEA, AUMENTO DELLA GLICEMIA
o PARESTESIE, TIC NERVOSI, TREMORI
Secondo Jaques il lavoro si compone di una componente prescrittiva (di per sé non ansiogena, per
l’assolvimento della quale è sufficiente applicare conoscenze tecniche, disposizioni e procedure) e
una componente discrezionale, in cui risiede la fonte principale di ansia, essendo connessa alla
responsabilità derivante dall’esercizio autonomo della discrezionalità legata all’incertezza e alla
responsabilità del compito primario.
Il benessere e la funzionalità individuale richiedono un equilibrio tra il livello di ansia attivato dal
ruolo e la capacità da parte di chi ricopre il ruolo di tollerare l’ansia stessa Jaques parte dai temi
dell’inconscio dell’ansia per formulare la definizione di stress che sostanzialmente prende in causa
il tema dell’equilibrio tra capacità individuali di fronteggiare le richieste e le richieste stesse
previste dal ruolo.
Lo stress si manifesta quando le persone percepiscono uno squilibrio tra le richieste avanzate nei
loro confronti e le risorse a loro disposizione per far fronte a tali richieste (OSHA-EU).
Hanno individuato questi ricercatori un modello che si focalizza su due caratteristiche specifiche
del lavoro e sulla loro combinazione al fine di comprendere le condizioni che espongono ad un
maggiore stress negativo (distress) e per verificare se gli effetti del distress ha conseguenze.
Il modello DC concepisce lo stress occupazionale come uno squilibrio tra due condizioni
organizzative (demand-control):
Le richieste avanzate sul lavoro (ossia carico di lavoro, tempo, ecc.), considerate come
fonti di stress psicologico e di ansia legata al sentimento di insicurezza;
La libertà decisionale o controllo percepito, definito da una parte dall’autonomia
decisionale in merito alle questioni relative al proprio lavoro e dall’altra dal grado di
discrezionalità che ha il lavoratore nell’utilizzo delle sue competenze.
PERSONAL
RESOURCES
Principi:
Ø Le caratteristiche del contesto da tenere in considerazione variano a seconda dei contesti
occupazionali e sono raggruppabili in due principali macro-categorie: domande e risorse.
Ø Le domande sono primariamente responsabili di iniziare un processo di consumo di risorse
[energy-depletion process]. Funzionano come stressors.
Ø Le risorse sono identificate come «initiators» di un processo motivazionale.
Ø Buffering hypothesis: le risorse moderano gli effetti negativi degli stressor.
Ø Booster hypothesis: una condizione di elevate risorse può «slateralizzare» l’effetto positivo
delle domande sulla motivazione.
Le risorse personali mediano/moderano la relazione tra domande/risorse e outcomes.
Dal dicembre 2010 esiste l’obbligo di valutare in ogni organizzazione, pubblica o privata, il rischio
derivante dalla potenziale presenza di stress correlato all’attività lavorativa, ai sensi dell’art. 28 del
D.Lgs. 81/08 e dall’Accordo Quadro Europeo, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004, e di identificare
eventuali misure di tutela necessarie per la riduzione o l’eliminazione del rischio stress.
Il concetto di burnout non nasce in ambito accademico, bensì come “problema sociale”.
I primi studi condotti parallelamente da Freudenberg (1974) e Maslach (1976) osservano una
forma specifica di disagio lavorativo che coinvolge lavoratori operanti nel sociale (medici,
infermieri, psicologi, insegnanti, educatori ecc.), coloro, cioè, che a vario titolo lavorano a stretto
contatto con persone disagiate e/o richiedenti aiuto
In tale forma di disagio che verrà poi definita burnout sembra che:
il rapporto operatore/utente assuma una rilevanza centrale
l’operatore riporti una difficoltà a mantenere un adeguato equilibrio tra i propri e gli altrui
bisogni
Il meccanismo di burnout sembra essere un’attivazione da parte del lavoratore che tende a
sviluppare il processo di esaurimento che porta ad annullare i bisogni dell’operatore stesso e
quindi a mettere in primo piano i problemi dell’utenza.
Maslach, Leiter e Jackson mettono su uno studio gigantesco, con campioni molto grandi dove si
cerca di approfondire attraverso l’intervista quali sono i vissuti di queste persone.
Il burnout viene definito come una sindrome psicologica che può manifestarsi come conseguenza
a una esposizione cronica a stressors di natura interpersonale sul luogo di lavoro.
Tre principali dimensioni caratterizzzano la prensenza della sindrome:
Ø Esaurimento emotivo dimensione che più di tutte presenta delle analogie concettuali con
lo stress (Schaufeli & Dierendonck, 1993) e descrive il vissuto di esaurimento o
prosciugamento delle risorse emotive dell’operatore.
Ø Depersonalizzazione richiama la presenza di atteggiamenti di distacco mentale ed emotivo
da parte dell’operatore nei confronti dell’utenza.
Ø Ridotta efficacia personale descrive il senso di adeguatezza e di fiducia che l’individuo
nutre verso sé stesso e le proprie competenze professionali. Concetto che presenta una
parziale sovrapposizione con quello di auto-efficacia (Bandura, 1977).
Il distacco rappresenta una risposta sana in quanto protegge l’operatore dall’identificarsi troppo
con l’utente; diventa disfunzionale (“depersonalizzazione”) se portata all’eccesso e se comporta
l’adozione di una visione cinica e “de-umanizzante”.
SVILUPPI RECENTI:
Nel 2019 il burn-out è stato incluso nell’ 11ma revision dell ICD (International Classification of
Diseases, dove è definito “occupational phenomenon”. Non risulta quindi classificato come una
condizione medica. É inserito nella sezione ‘Factors influencing health status or contact with
health services.
“Burn-out is a syndrome conceptualized as resulting from chronic workplace stress that has not
been successfully managed. It is characterized by three dimensions:
feelings of energy depletion or exhaustion
increased mental distance from one’s job, or feelings of negativism or cynicism related to
one's job;
reducedprofessionalefficacy.
Burn-out refers specifically to phenomena in the occupational context and should not be applied
to describe experiences in other areas of life.” (ICD-11)
WORKAHOLISM
ORIGINE E PRIME DEFINIZIONI:
“Workaholic” è stato coniato da Oates (1971), sulla falsariga del termine “alcoholic”, per indicare
una dipendenza caratterizzata da un bisogno incontrollato di lavorare incessantemente [...] tale da
creare interferenze non trascurabili con la salute individuale, la qualità delle relazioni
interpersonali e, in generale, qualsiasi altro aspetto della sfera extra-lavorativa.
PROSPETTIVA CLINICA:
Viene considerato un disordine clinico caratterizzato da sintomi sia di tipo internalizzante (ansia,
compulsione, ossessione) che di tipo esternalizzante (i.e..; comportamenti di dipendenza).
Tuttavia, non è ancora riconosciuto nel DSM come disturbo perché:
non ci sono evidenze empiriche sufficienti rispetto al grado di nocività sulla salute
individuale
manca accordo circa la sintomatologia associata al disordine
CARATTERISTICHE DEL CONTESTO ORGANIZZATIVO (che creano il vortice del risucchio lavorativo):
Ø Domande lavorative eccessive Ambiguità di ruolo
Ø cultura organizzativa competitiva, o che esalta eccessivamente il successo individuale
oppure che propone una acritica identificazione con gli scopi aziendali.
Ø Processi di socializzazione, rinforzo da parte dei colleghi e dei superiori
Ø Sistemi valutativi e premiali basati esclusivamente sulla produttività
Ø Incertezza in termini retributivi & contrattuali